«Jet colpito per coprire il traffico di petrolio»

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«Jet colpito per coprire il traffico di petrolio»
CON C'E' VITA A SINISTRA + EURO 0,50
CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento
postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004
n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013
ANNO XLV . N. 286 . MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
EURO 1,50
PUTIN ACCUSA LA TURCHIA
BIANI
«Jet colpito per coprire
il traffico di petrolio»
S
e l’Unione europea descrive la Turchia
come paese sicuro, le strade del paese
raccontano un’altra storia: di conflitto
sociale, civile, repressione dei movimenti e
strategia della tensione. Prima di tutto lo scontro tra Turchia e Russia in merito all’abbattimento dello scorso martedì del bombardiere
Sukhoi Su-24 ha prodotto una crisi senza precedenti tra Mosca e Ankara. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha rivelato di sospettare
che il jet sia stato abbattuto «per assicurare
forniture illegali di petrolio dallo Stato islamico alla Turchia».
ACCONCIA |PAGINA 3
MOSCHEA DI BANGUI
Il papa nell’enclave
musulmana sotto
assedio: basta odio
EUROPA |PAGINA 2
La Ue cede a Erdogan
Liberalizzazione
dei visti e miliardi
per tenersi i profughi
«Insieme diciamo no alla vendetta in
nome di Dio». Bergoglio chiude il suo
viaggio africano nel Pk5. Ma il conflitto
tra Seleka e Anti-Balaka in Centrafrica
ha radici politiche ed economiche prima
che religiose
PLANTERA |PAGINA 4
LANCARI
Al via tra parole colme di speranza la Cop21 a Parigi, mentre in Brasile si consuma l’ennesimo disastro
ambientale paragonato a quello di Fukushima. I grandi della terra promettono molto ma gli interessi
economici tra Nord e Sud del mondo sono opposti e peseranno sui negoziati. Incerto l’accordo finale PAGINE 8,9
CLIMA
FOTO REUTERS
C’era una volta
l’Italia
Giuseppe Cassini
C’
era una volta un Paese
che guardava avanti. Forse camminava un po’ a
tentoni, ma almeno guardava
avanti. Nel 1988 un manipolo di
governi decise di istituire a Ginevra un Gruppo Intergovernativo
sui Cambiamenti Climatici (l’ormai noto Ipcc); era composto da
un team interdisciplinare di scienziati incaricati di rispondere a una
domanda all’epoca esoterica.
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PARIGI COP21
La guerriglia
che non c’era
Marco Bascetta
I
l 29 novembre a Parigi non vi è
stata alcuna «guerriglia urbana», ma uno scontro di assai
modeste proporzioni tra un folto
schieramento di polizia e un limitato numero di manifestanti. Trecento fermati, nessun ferito rendono alquanto evidente la natura e
l’effettiva entità degli eventi. Il divieto di manifestare, contenuto
nello stato di emergenza decretato dal presidente Hollande, è un
invito irresistibile ad essere trasgredito.
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Stati d’emergenza
SPECIALE CLIMA
In edicola
Il mordi e fuggi
in salsa fiorentina
I professionisti del Natale
È
In occasione della Conferenza
mondiale sul clima di Parigi
il manifesto mette in edicola
un inserto speciale di 16 pagine
FERROVIE E PRIVATIZZAZIONI
DA ROZZANO A SASSARI
il cuore di Sassari, San Donato. Il
cuore più antico e anche quello
più contemporaneo. Un quartiere
popolare e povero, dove da almeno
vent’anni migranti che arrivano da ogni
parte del mondo trovano accoglienza: una
casa, quasi sempre un lavoro, una scuola.
Una delle aree più multietniche d’Italia.
Le maestre e i maestri delle elementari
di San Donato hanno deciso tutti insieme,
senza neppure un voto contrario nel consiglio dei docenti, di respingere la richiesta
del vescovo Paolo Atzei di fare vista alla
scuola per Natale. Lo hanno fatto perché
tra i 250 alunni che siedono sui banchi di
quelle aule solo poco più della metà sono
cattolici: 128. Gli altri 122 sono arabi e afri-
Costantino Cossu
cani di varie nazionalità, rom, cinesi, cingalesi, pakistani, filippini. Per far dialogare tra loro culture e religioni differenti, fanno da anni un lavoro straordinario le maestre e i maestri di San Donato. Il vescovo
dovrebbe capirlo da solo che la sua presenza nelle aule per Natale rischia di rompere
il delicato equilibrio costruito in quella
scuola. Un luogo dove ai bambini viene insegnato che le religioni sono tutte uguali,
perché questo è il compito di una scuola
pubblica, laica come laico è lo stato ordinato dalla Costituzione repubblicana.
Una visione che bisognerebbe capire e condividere. Ma non tutti i cattolici, non tutta
la chiesa ci riescono. Lo dimostra l’episodio di Sassari ma anche quello del dirigente scolastico di Rozzano. Ieri il preside ha
spiegato, nella lettera di dimissioni, di non
aver censurato presepi, ma di essersi opposto a quei genitori che intendevano entrare a scuola per intonare canti religiosi.
Il vescovo Atzei e il segretario della Cei
Nunzio Galantino vogliono davvero confondersi con le sceneggiate del leghista Salvini, arrivato alla scuola di Rozzano con
un presepe insieme a La Russa che agitava
il tricolore? «Dove lo Stato è confessionale
e la Chiesa è politica la libertà è impossibile», scriveva un secolo e mezzo fa Giovanni
Bovio, pensatore laico e repubblicano. Purtroppo il suo monito resta attualissimo.
Aldo Carra
I
l governo ha varato un decreto per privatizzare il 40% di Ferrovie dello Stato ed ha
colto l'occasione per cambiare i vertici
dell’azienda. Se sulle nomine si rivedono logiche di occupazione del potere che siamo ormai abituati a subire (compreso il requisito di
aver operato in quel di Firenze). Sulla privatizzazione siamo ancora ad un livello di approssimazione di fronte al quale la sinistra non
può tacere. Purtroppo è stato proprio con la
sinistra al governo che si è realizzato un volume di privatizzazioni senza eguali in altri paesi. E gli effetti di quelle operazioni sull'economia e sui conti pubblici sono stati pari a zero.
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pagina 2
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
IL COLPO DEL SULTANO
Bruxelles •
A metà dicembre la Commissione europea presenterà il primo
rapporto sull’attuazione degli impegni presi sulle frontiere
L’Ue cede
a Erdogan
I profughi spaventano Bruxelles
più di Daesh. Ad Ankara tre
miliardi di euro, liberalizzazione
dei visti e ripresa del processo
di adesione per non farli partire
Leo Lancari
«L’
accordo non ci farà dimenticare le divergenze sui diritti umani e la libertà di
stampa. Ci torneremo in futuro» spiega il presidente della commissione europea Jean Claude Juncker, rimandando così a un domani indefinito quello
che l’Unione europea non è sta capace di fare ieri. Passano gli anni ma l’atteggiamento europeo nei confronti
dei migranti è sempre lo stesso: pagare i regimi di turno perché se li tengano impedendogli di arrivare fino a noi.
L’Italia lo fece nel 2008 con la Libia di
Gheddafi, Bruxelles si ripete oggi con
la Turchia di Rayyip Erdogan. L’accordo siglato domenica scorsa a altro non
è infatti che questo: il cedimento senza condizioni alle richieste di Ankara,
mascherato a parole soltanto da qualche dichiarazione in cui si promettono
controlli sul rispetto dei diritti umani
da parte del sultano.
Eppure alla vigilia del vertic di domenica sulla crisi dei migranti, all’Unione
era arrivata la lettera aperta inviata dal
carcere da Can Dundar e Erdem Gul,
direttore e caporedattore del giornale
di opposizione Cumhuriyet arrestati
per aver documentato i traffici di armi
della Turchia con l’Isis. Lettera in cui i
due giornalisti chiedevano a Bruxelles
di non dare credito a Erdogan e soprattutto di non girare la testa di fronte alla continua violazione dei diritti umani e della libertà di stampa nel paese.
Come non detto, anzi come non ricevuto. L’ipocrisia e la realpolitik hanno avuto la meglio sui quei diritti sui
quali l’Ue pure dice di essere fondata e
per i quali mette sotto esame i paesi
che chiedono di entrare a farne parte.
Come, per l’appunto, la Turchia.
Invece così non è stato, a ulteriore
dimostrazione di come chi fugge dalla
guerre e dalle violenze, ma anche dalla
miseria, spaventa più dei tagliagole di
Daesh. Pur di mettere fine agli arrivi
dei profughi Bruxelles promette di pagare 3 miliardi di euro ad Ankara per la
infatti, solo 500 milioni arriveranno
dal budget 2016-2017 della Commissione, tutti gli altri saranno a carico dei
paesi membri, Molti dei quali a pagare
non ci pensano neppure. Cipro, Grecia, Croazia e Ungheria hanno già detto che non tireranno fuori un euro e
anche altre capitali storcono la bocca
al solo sentir pronunciare il verbo «pagare». Italia compresa che, stando alla
tabelle preparate dalla Commissione
dovrà versare 281 milioni di euro. Gli
altri contributi, calcolati sulla base del
reddito nazionale lordo, sono: 534 milioni dalla Germania, 409,5 dalla Gran
Bretagna, 386,5 dalla Francia, 191 dalla Spagna e 117,3 dall’Olanda. Sulla
carta i pagamenti dovranno essere effettuati il prossimo 21 dicembre, contestualmente alla presentazione da parte degli Stati dei piani con le eventuali
rateizzazioni.
Per oggi infine è previsto da parte
della commissione Libertà civili il voto
su due proposte di legge riguardanti
l’immigrazione: una su un meccanismo permanente e vincolante di ripartizione delle quote dei rifugiati e richiedenti asilo e una per la redazione di
una lista di paesi sicuri per il rimpatrio
dei migranti che non hanno diritto alla
protezione internazionale.
FRONTIERA CON LA SIRIA, SOLDATO DI ANKARA A GUARDIA DEI PROFUGHI. A SINISTRA IL PREMIER DAVUTOGLU LA PRESSE
gestione dei campi profughi. Doveva
essere una cifra definitiva ma il premier turco Davutoglu, a Bruxelles al
posto di Erdogan, ha strappato invece
l’impegno a trasformarla in una somma «iniziale», lasciando presumere altri stanziamenti. Ma Ankara ha strappato un impegno anche per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti entro ottobre 2016 e per una ripresa del
processo di adesione all’Unione europea con l’apertura, entro il 14 dicembre, del capitolo 17 relativo alle questioni economiche e monetarie. In
cambio la Turchia, oltre a impedire ai
2 milioni e mezzo di profughi siriani
già presenti all’interno dei suoi confini
di partire alla volta dell’Europa, faciliterà i rimpatri dei migranti economici
passati attraverso il suo confine. Se
Bruxelles non ha fatto altre concessioni ad Erdogan si deve probabilmente
solo all’opposizione di Cipro. E’ stato
deciso che il 15 dicembre la Commissione Ue presenterà un primo rapporto sul mantenimento degli impegni assunti e sulla gestione delle frontiere.
Va detto che se Ankara non è affidabile, anche l’Unione europea fa la sua
parte. Specie per quanto riguarda i soldi. Dei 3 miliardi promessi ad Ankara,
VITTORIO ARRIGONI
Ucciso a Mosul Mahmud al Salfiti, un killer di Vik.
Era diventato un miliziano dello Stato islamico
Da Gaza fonti non ufficiali ma ben informate confermano: Mahmud al Salfiti, 30 anni, uno dei
rapitori e killer di Vittorio Arrigoni nel 2011 a Gaza, è stato ucciso in Iraq, forse da un drone,
mentre combatteva nei ranghi di Daesh, lo Stato islamico. Egidia Beretta e Alessandra Arrigoni, madre e sorella di Vik, si erano opposte alla sua condanna a morte (e degli altri imputati),
emessa da un tribunale di Hamas, lui è andato a cercare la sua fine lontano da Gaza, a Mosul, concludendo un’esistenza fatta di violenze e azioni dalla parte della follia jihadista. Lo
scorso giugno le autorità di Hamas avevano dato ad al Salfiti un permesso per tornare a casa
nel mese di Ramadan. Lui ne approfittò per sparire, passando con ogni probabilità per i tunnel che collegano Gaza al Sinai o forse con un passaporto falso per il valico di Rafah. Poi non
si era saputo più nulla del jihadista fino a qualche giorno fa, quando su diversi siti e su twitter
è stata annunciata la sua morte. Ieri, al Tribunale di Gerusalemme, è stato al centro dell’attenzione un altro brutale assassinio, quello dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir
compiuto da tre israeliani, due dei quali minori, nell’estate del 2001. Abu Khdeir fu arso vivo
per rappresaglia dopo l’omicidio di tre ragazzi ebrei compiuto da militanti armati palestinesi.
Sentenza amara per la famiglia. Sono stati giudicati subito colpevoli i due minori mentre il
principale imputato, il trentunenne Yosef Ben-David, è stato (per ora) salvato dalla richiesta di
una perizia psichiatrica presentata all’ultimo istante dal suo avvocato. (mi. gio.)
Israele / UNA INIZIATIVA ARROGANTE, MA IL PROCESSO DI PACE NON C’È PIÙ
Netanyahu «sanziona» l’Europa
per i prodotti delle colonie
Michele Giorgio
C
on una mossa ben studiata, Benyamin Netanyahu è arrivato ieri
al vertice sul clima a Parigi
poche ore dopo aver ordinato la sospensione dei contatti diplomatici con le istituzioni Ue e il riesame del loro
coinvolgimento nel negoziato con i palestinesi. È la risposta alla decisione di Bruxelles di dare avvio alle etichettature diverse dei prodotti degli insediamenti colonici ebraici nei Territori occupati di Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle Alture
del Golan.
Non sorprende che in terra francese, prima ancora
di Obama, Merkel, Hollande e Cameron, il premier
israeliano abbia deciso di incontrare, l’Alto rappresentante della politica estera
dell’Unione, Federica Mogherini. «I rapporti con Israele sono buoni, ampi e profondi», ha detto Mogherini
cercando di allentare le tensioni. Poco dopo però l’Ue,
attraverso un portavoce, ha
fatto sapere che «continuerà a lavorare nel quadro del
processo di pace in Medio
Oriente, nel Quartetto, con
i suoi partner arabi, con entrambe le parti (israeliani e
palestinesi, ndr), perché la
pace in Medio Oriente è un
interesse della intera comunità internazionale e di tutti
gli europei».
Le minacce di Netanyahu
non spaventano l’Ue, accusata da Tel Aviv addirittura
di antisemitismo. Bruxelles
ha ribadito ad ogni occasione la sua posizione, ancorata alle risoluzioni dell’Onu. I
territori di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e le Alture del Golan sono stati occupati militarmente (nel
1967) e non sono parte del
territorio israeliano. Pertanto i prodotti delle colonie
ebraiche costruite illegalmente nelle terre occupate
non possono essere esportati verso l’Europa con l’etichetta «made in Israel». È
un regola commerciale, in
questo caso anche con un
evidente contenuto politico
ma pur sempre una regola
commerciale, alla quale
Israele non può sottrarsi
chiedendo all’Ue di riconoscere le colonie e di dimenti-
care l’occupazione.
Parte della stampa israeliana spiegava ieri che è cominciata la lunga battaglia
di Netanyahu e del suo governo per ottenere la revoca
della decisione della Commissione europea sulle etichettature. Una battaglia accompagnata dal passo fatto
dal ministero dell’istruzione israeliano che ha sconsigliato le gite delle scolaresche in Europa. Ufficialmente per il timore di attentati
ma conoscendo l’approccio
ultranazionalista del ministro dell’Istruzione, Naftali
Bennett, è lecito pensare
che anche questa decisione
rappresenti una ritorsione
contro l’Ue.
Secondo le disposizioni
date da Netanyahu, che attualmente ha anche l’interim degli Esteri, gli europei
si vedranno messi da parte
nel campo dei diritti umani,
delle organizzazioni internazionali e per i progetti di sviluppo nell’Area C della Cisgiordania, che 22 anni dopo la firma degli Accordi di
Oslo, resta sotto controllo
amministrativo e militare
israeliano. In realtà il passo
fatto da Netanyahu si rivelerà in buona parte simbolico,
uno scontro di parole con
l’Ue senza effetti concreti.
D’altronde non si capisce da
quale processo di pace dovrebbe essere esclusa l’Europa, dato che il negoziato israelo-palestinese è fermo da
anni e non basterà a ridargli
vita la stretta di mano di ieri
a Parigi, a beneficio dei fotografi, tra Netanyahu e il presidente dell’Anp Abu Mazen. Persino un giornalista
molto vicino a Netanyahu,
Dan Margalit, del quotidiano filogovernativo Israel Ha
Yom, ha scritto che il governo «ha perso la bussola».
Intanto l’esercito israeliano, i servizi di sicurezza e lo
stesso ministro della Difesa
Yaalon riconoscono che l’Intifada di Gerusalemme cominciata ad inizio ottobre
non è stata domata e che sono probabili nuove fiammate della rivolta palestinese
che il governo definisce una
«ondata di terrorismo». Domenica sera un ragazzo palestinese di 17 anni, Ayman al
Abbasi, è stato ucciso a Silwan (Gerusalemme est) in
scontri con la polizia israeliana. A Hebron, dopo i sigilli a
Al-Khalil Radio e Manbar al
Hurriyya, i soldati hanno
chiuso una terza emittente
palestinese - Dream Radio con l’accusa di istigazione
contro Israele.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
il manifesto
IL COLPO DEL SULTANO
Ankara •
pagina 3
Resta alta la tensione tra i due paesi. A Parigi salta
l’incontro tra Putin e Erdogan: «Non è in agenda»
RUSSIA-TURCHIA · Atene: «I jet turchi hanno violato il nostro spazio aereo»
L’accusa di Putin
Giuseppe Acconcia
S
e l’Unione europea descrive
la Turchia come paese sicuro, le strade del paese raccontano un’altra storia: di conflitto sociale, civile, repressione dei movimenti e strategia della tensione.
Prima di tutto lo scontro tra Turchia e Russia in merito all’abbattimento dello scorso martedì del
bombardiere Sukhoi Su-24 ha prodotto una crisi senza precedenti
tra Mosca e Ankara. Il presidente
russo, Vladimir Putin, ha rivelato
di sospettare che il jet sia stato abbattuto «per assicurare forniture illegali di petrolio da Is alla Turchia». Il confine tra Siria e Turchia
continua ad essere poroso al passaggio di armi dei jihadisti e sigillato per profughi e aiuti umanitari diretti a Kobane. Gli Usa hanno confermato la versione turca secondo
cui il jet russo sarebbe entrato in
territorio turco per circa 17 secondi: evenienza che è stata duramente negata da Mosca.
Putin non ha neppure incontrato il suo omologo turco ai margini
del summit sul clima di Parigi.
«Questo incontro non è in agenda», ha chiosato con la stampa
Dmitri Peskov, portavoce di Putin.
Da giorni ormai il presidente russo
non risponde alle telefonate di Erdogan. I due sono a tal punto ai ferri corti che Ankara si rifiuta di presentare scuse ufficiali per giustificare quanto accaduto. «Non ci possiamo scusare per aver fatto il nostro dovere», ha tuonato il premier, Ahmet Davutoglu, che ha incontrato a Bruxelles il Segretario
LO SCAMBIO DELL’EUROPA CON IL REGIME TURCO
Sui rifugiati una domenica
delle salme
A
Bruxelles i 28 governi
dell’Ue mettono in scena
una farsa sui diritti umani
e sull’immigrazione.
L’accordo trovato per fermare
i profughi, in prevalenza siriani,
si basa su uno scambio che contraddice le dichiarazioni dei governi europei.
Da un lato l’unico argomento
sul quale i 28 concordano è impedire alle persone di mettersi in
salvo, di chiedere protezione, lasciandole nei campi profughi.
L’obiettivo specifico sono i 2 milioni di profughi
ospitati in Turchia. Consapevoli del fatto che la
guerra in Siria, e quelle a
diversa intensità in corso in tutta la regione medio orientale, difficilmente si spegneranno nel
breve periodo (grazie anche agli interessi in gioco di molti dei 28 governi e dell’incapacità, o della mancanza di volontà,
di trovare soluzioni diplomatiche), non avendo alcuna intenzione di assumersi la responsabilità di dare asilo a
chi è vittima di quelle guerre,
puntano tutto sulla chiusura delle frontiere. Sull’innalzamento di
altre barriere.
Si affidano per questo al governo turco, che ha dato prova più
volte di essere in grado di tutelare i propri interessi, anche ricorrendo alla violazione sistematica
dei diritti umani e alla violenza
(la questione curda non è stata
evocata a Bruxelles, se non nella
generica formula del rispetto dei
diritti umani). La Turchia in cam-
bio di 3 miliardi di euro e di un
canale d’accesso facilitato all’Ue,
bloccherà i profughi.
I rappresentanti dei 28 governi, e quelli della Commissione,
hanno speso parole di attenzione per i diritti umani, come se
quelli dei rifugiati ai quali verrà
impedito di partire dalle coste
turche (e questo blocco, già in
corso con continui blitz della polizia turca, non è stato raccontato), ricorrendo alla violenza e alle
armi, non rientrassero in questa
categoria. Ma forse i nostri rappresentanti non ritengono che i
diritti umani siano uguali per tutti e quando ne parlano si riferiscono sono a quelli degli europei
e di parte della popolazione turca (i curdi non vengono nominati per non dispiacere ad Ankara).
Questo è quanto emerge dalla
farsa alla quale abbiamo assistito. Le conseguenze sono già davanti ai nostri occhi.
Per i profughi sarà ancora più
difficile mettersi in salvo e aumenteranno i morti e gli scomparsi, oltre che le cifre richieste
per arrivare nell’Ue. Un favore ai
trafficanti di essere umani che vedranno prosperare i loro affari.
La Turchia si rafforza e si rafforza il governo che agisce contro le
opposizioni interne e i curdi: un
favore a chi i diritti umani li calpesta ogni giorno.
In Europa aumenterà il razzismo, alimentato dalle azioni di
blocco delle frontiere che sottendono un’idea di invasione da impedire, nonostante i numeri ancora esigui, nel panorama internazionale. Un assist
quindi al razzismo e al fascismo dilagante e alle
forze della destra xenofoba. Forse l’Ue pensa di
curare le proprie ferite,
quelle auto inferte da governi incapaci e schierati
con gli interessi delle
multinazionali della finanza e non con i propri
popoli, attraverso la farsa di accordi siglati in nome dei diritti umani, ma
che in realtà prevedono
l’esatto contrario.
Una comunità ricca e potente
come quella che si è incontrata a
Bruxelles con il governo di Ankara avrebbe dovuto avanzare proposte di altro tipo, chiedere al governo turco di rispettare i diritti
dei curdi fermando la persecuzione in atto, il rispetto dei diritti
umani e una collaborazione per
consentire il passaggio verso l’Ue
in sicurezza dei profughi.
Invece si è preferito agire perché la giornata di domenica, come avrebbe detto De Andrè, fosse una «domenica delle salme».
* vicepresidente nazionale Arci
Corbyn: «Voto libero
sulle bombe anti Is»
Leonardo Clausi
LONDRA
D
AEROPORTO DI ANKARA, RESTITUZIONE DELLA SALMA DEL PILOTA DEL JET RUSSO ABBATTUTO LAPRESSE
generale della Nato, Jens Stoltenberg.
Putin ha visto invece a Parigi il
presidente Usa. Barack Obama ha
espresso il suo rammarico per l’abbattimento del Sukhoi e ha auspicato progressi nei colloqui di Vienna per arrivare a «un cessate il fuoco» in Siria. Obama ha ribadito la
richiesta che il presidente siriano,
Bashar al-Assad, lasci il potere e
che si rafforzi la strategia congiunta, mai decollata, tra Russia e coalizione internazionale contro lo Stato islamico.
Le autorità turche hanno anche
chiesto al Cremlino di rivedere la
decisione di imporre sanzioni commerciali alla Turchia. Le prime sanzioni economiche contro Ankara
prevedono il bando su frutta e verdura, lo stop ai voli charter e ai pacchetti turistici per cittadini turchi,
oltre al ripristino dei visti e al divieto di assumere manodopera turca
dal primo gennaio prossimo. Non
è ancora chiaro cosa accadrà con i
grandi progetti turco-russi, come
la prima centrale nucleare turca e
il gasdotto Turkish Stream.
Anche il primo ministro greco,
Alexis Tsipras, è entrato nella polemica tra Ankara e Mosca denunI GIORNALISTI DI CUMHURIYET ARRESTATI
Filippo Miraglia *
REGNO UNITO
Dundar e Gul: «No della Ue a uno
stato che nega diritti e libertà»
«La volontà di risolvere la crisi dei migranti non pregiudichi il vostro impegno
per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione», scrivono in una
lettera dal carcere, rivolta all’Unione europea chiamata a decidere sull’adesione
della Turchia, Can Dundar ed Erdem Gul,
direttore e caporedattore del quotidiano
turco di opposizione Cumhuriyet, arrestati con accuse di «spionaggio» e «propaganda terroristica». «Da giornalisti noi
crediamo che la Turchia faccia parte della famiglia europea e che dovrebbe essere un membro dell’Ue. La libertà di pensiero e di espressione sono valori imprescindibili della nostra civiltà. Noi siamo
stati arrestati e detenuti in attesa di giudizio per aver esercitato queste libertà e
per aver difeso il diritto dei cittadini a
essere informati», prosegue la lettera. «Il
premier turco, che voi (leader europei,
ndr) incontrerete questo fine settimana,
e il regime che rappresenta, sono noti
per le loro politiche e pratiche che ignorano completamente la libertà di stampa e i diritti umani. I vostri governi stanno negoziando con Ankara sulla crisi dei
migranti, una crisi che preoccupa tutti.
Ci auguriamo veramente che questo vertice porti a una soluzione duratura di
questo problema. Ma auspichiamo anche che la vostra volontà di mettere fine
alla crisi non dimentichi la violazione dei
diritti». I legali dei due giornalisti hanno
presentato al tribunale di Istanbul un
ricorso per chiederne la scarcerazione. Il
processo a carico di Can Dundar e Erdem Gul si basa su un’inchiesta pubblicata alla vigilia delle elezioni del 7 giugno scorso, in cui denunciarono il passaggio di camion carichi di armi dalla
Turchia alla Siria, finiti in mano a gruppi
jihadisti. (giu. acc.)
ciando le continue violazioni dello
spazio aereo greco da parte
dell’aviazione turca. Tsipras ha definito «oltraggiose e incredibili» le
oltre 1600 violazioni turche dello
spazio aereo greco.
Come gesto distensivo, Ankara
ha recuperato e consegnato alle autorità russe il corpo del pilota del
Su-24, il tenente colonnello Oleg
Peshkov, rimpatriato ieri in Russia.
Ad attenderlo c’erano il ministro
della Difesa russo, Sergei Shoigu, e
il capo di stato maggiore dell’aeronautica, Viktor Bondarev. Ma per
Mosca non basta. I suoi bombardieri volano al confine turco-siriano con missili aria-aria per difendersi da eventuali attacchi. Momenti di tensione si sono registrati
anche nello Stretto dei Dardanelli
quando un’imbarcazione di supporto logistico della Marina militare russa ha incrociato un sottomarino turco.
Il Kurdistan turco vive uno stato
di tensione permanente. Un ragazzo è stato ucciso a Cizre, roccaforte
di Hdp e città sotto assedio per oltre nove giorni alla vigilia del voto
primo novembre scorso che ha
confermato la presenza in parlamento della sinistra filo-kurda.
Mentre a Derik, l’esercito ha bombardato la città in cui vige da giorni il coprifuoco.
Una giornata storica per il paese
è stata la scorsa domenica quando
decine di migliaia di persone hanno partecipato a Diyarbakir ai fune-
Il presidente russo:
«Jet abbattuto
per coprire
il contrabbando
di petrolio con l’Is»
rali del capo dell’Ordine degli avvocati, Tahir Elci, ucciso a sangue
freddo per strada ai margini di un
flash mob che denunciava lo stato
di assedio del Kurdistan turco. Elci
aveva difeso la legittimità ad esistere del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e per questo è stato arrestato ed era in attesa di giudizio.
In verità le forze di polizia continuano addirittura a negare che Elci fosse il vero obiettivo degli attentatori. I suoi funerali sono diventati un evento per tutti i turchi per
manifestare contro la repressione
in corso nel paese. La folla ha urlato «assassino» in riferimento alla
campagna anti-Pkk, mascherata
da anti-Isis, perpetrata dai leader
turchi. «Il Pkk non è un’organizzazione terroristica», «Non ci arrenderemo. Il Pkk è il popolo e il popolo è qui», dicevano altri slogan.
Una simile manifestazione si era tenuta sabato ad Istanbul ed è stata
dispersa dalle forze di sicurezza.
Proprio il sostegno che la sinistra filo-kurda del partito democratico
dei Popoli (Hdp) ha nelle grandi città turche dimostra la dimensione
urbana e nazionale che ha assunto
ormai il movimento. Nella città si
sono svolti anche i funerali dei due
poliziotti uccisi nell’attacco.
opo un fine settimana di tese
discussioni con in gioco l’unità del suo governo ombra e
del partito parlamentare nel suo complesso, Jeremy Corbyn ha sciolto il
suo dilemma: concederà un voto libero ai deputati laburisti sulla cruciale
decisione se allargare i bombardamenti aerei britannici anti-Isis alla Siria. La decisione è arrivata inaspettata e sulla scia di voci ricorrenti, nella
mattinata di lunedì, che il leader contrario agli attacchi aerei voluti da
Cameron - fosse più incline a imporre disciplina e a far votare contro ricorrendo alla cosiddetta three line
whip, la convocazione più categorica
pena la quale si rischia l’espulsione
dal gruppo e addirittura, in certi casi,
dal partito. Ma a metà pomeriggio,
Corbyn è emerso dall’ennesima difficile riunione con il suo shadow cabinet mostrando di preferire l’unità interna del partito al suo mandato di
farne rispettare la linea.
In cambio, per nulla persuaso dalle motivazioni pro-intervento addotte da Cameron venerdì scorso in aula, il leader laburista ha chiesto al premier un dibattito allungato a due giorni per consentire la piena discussione di alcune delle motivazioni del governo, sulla cui fondatezza il Parliamentary labour party (Ppl) - per tacere della folta rappresentanza degli
iscritti e degli elettori - nutre uno scetticismo che aumenta man mano che
ci si allontana dallo shock del massacro di Parigi. Uno scetticismo non
del tutto eliminato dalle tre ore spese
da Cameron in aula venerdì per rispondere alle quattro obiezioni laburiste, che riguardano una concreta accelerazione della soluzione negoziale
della guerra civile siriana, quale esercito di terra si sarebbe fatto carico della liberazione dei territori occupati
dall’Isis (Cameron ha fatto ripetutamente riferimento a 70.000 fantomatici combattenti anti-Assad «moderati»), la coordinazione e strategia militare da adottare nella regione, la gestione della crisi umanitaria dei rifugiati e il taglio delle forniture energetiche e finanziarie al cosiddetto Califfato. La richiesta è contenuta in una lettera che Corbyn ha indirizzato a Cameron, alla quale quest’ultimo risponderà ancora non si sa bene in
che termini. Soprattutto non si sa ora
se tirerà dritto con la votazione, dopo
aver ribadito più volte che senza una
«chiara maggioranza» in tasca non
avrebbe rischiato «una vittoria per
l’Isis» che in realtà è soprattutto uno
scacco politico personale simile a
quello patito nel 2013 quando il Labour, allora guidato da Ed Miliband,
votò compatto contro i bombardamenti anti-Assad. Cameron ha bisogno dei voti dei frontbenchers laburisti perché ha molte defezioni nelle
sue fila e il Snp resta contrario.
È una marcia indietro, questa di
Corbyn, leggibile come un segno di
debolezza di un leader ostaggio del
suo governo-ombra, che aveva minacciato dimissioni e la cui maggioritaria bramosia di bombardare rende
quantomeno improbabile il riferirglisi con l’appellativo di «moderato».
Ma potrebbe anche rivelarsi un colpo tattico per guadagnare tempo: se
il voto si tenesse la settimana prossima e senza che la mozione passi, Corbyn ne uscirebbe come il leader capace di tener fede alla propria vocazione di ascoltatore e mediatore delle
differenze di un partito della cui divisione lui stesso è il simbolo, senza
contravvenire alla linea anti-bombardamenti sua e della maggioranza degli iscritti e militanti.
Ma ancora non si sa se la votazione stessa avrà luogo: con soli 60 deputati laburisti a favore su 231, Cameron non ha ancora la maggioranza
che gli serve ad autorizzare gli attacchi.
pagina 4
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
MALEDETTA GUERRA
IL VIAGGIO · Deluse però le associazioni lgbt
I sei giorni di Bergoglio
all’insegna della pace
BANGUI, TIRATORE APPOSTATO
SUL MINARETO, FOTO GRANDE
IL PAPA E L’IMAM NAIBI.
A DESTRA BAMBINI IN ATTESA
DI BERGOGLIO FOTO LAPRESSE
BANGUI · Il papa chiude il suo tour africano nell’enclave musulmana assediata dalle milizie cristiane
La riconciliazione in moschea
Rita Plantera
I
l viaggio in Africa di Francesco
si è concluso ieri con la visita alla moschea di Koudoukou nel
quartiere Pk5 di Bangui, un posto
tra i più pericolosi al mondo, un
enclave dove trovano rifugio la
maggior parte dei musulmani che a seguito delle violenze scoppiate nel 2013 – non ha lasciato il
Paese. In altre parole «una prigione a cielo aperto», come l’ha definito l’imam Tidiani Moussa Naibi,
da circa due mesi circondata dalle
milizie Anti-Balaka (le milizie a
maggioranza cristiana) che bloccano i rifornimenti in entrata e i musulmani in uscita.
Dalla moschea di Koudoukou –
divenuto per l’occasione luogo
simbolo di riconciliazione di tutte
le faide religiose o presunte tali
«Insieme diciamo no
all’odio in nome di
Dio». Ma il conflitto
Seleka-Anti Balaka
ha radici politiche
sparse per il mondo - il papa ha
lanciato un appello per la pace sociale e religiosa particolarmente rivolto a chi sotto l’egida religiosa si
rende responsabile di efferati crimini contro le popolazioni civili:
«Cristiani e musulmani sono fratelli. Insieme diciamo no a odio, violenza, vendetta, in particolare quella in nome di una fede o di dio stesso». E ha aggiunto: «Coloro che affermano di credere in dio devono
essere anche uomini e donne di pace», notando come cristiani, musulmani e seguaci di religioni tradizionali abbiano vissuto insieme in
pace per molti anni.
Per le strade del Pk5, ad accogliere il papa delle periferie da un lato
c’erano i tiratori scelti dell’Onu posizionati sui minareti, i mezzi corazzati armati di mitragliatrici e i
caschi blu in giubbotto antiproiettile, dall’altro migliaia di musulmani
in festa, tra cui quelli – giovani coraggiosi – che si sono avventurati
furi dall’enclave per seguire il corteo del papa fino allo stadio (gremito) per la messa e l’incontro conclusivo con le popolazioni della Repubblica Centrafricana.
All’invito del papa hanno fatto
eco le parole dell’imam Naibi: «Il
rapporto con i nostri fratelli e sorelle cristiani è così profondo che nessuna manovra che cerchi di minarlo avrà successo: cristiani e musulmani di questo paese hanno il dovere di vivere insieme e di amarsi».
Affermazioni a dir poco chiarificatrici sulle violenze cosiddette interreligiose scoppiate nel dicembre 2013 (dopo la destituzione
dell’ex presidente Françoise Bozizè e la presa del potere da parte
delle milizie Seleka (a maggioranza musulmana)), innescate e manipolate ad arte da signori della guerra che lottano per il controllo del
territorio e lo sfruttamento di risorse quali oro e diamanti.
Le violenze e gli abusi contro i civili ad opera dei Seleka (gli arabi
del nord, così apostrofati dai cristiani del sud) hanno portato
all’emergere delle cosiddette milizie «Anti-Balaka» responsabili delPRESIDENZIALI IN BURKINA FASO
Roch Kaboré è in testa
Vittoria al primo turno?
I suoi avversari lo accusano di aver
copiato il programma del deposto presidente Compaoré, mentre lui al contrario sostiene di voler «finire il lavoro
iniziato da Thomas Sankara». Sia come sia, per Roch Marc Christian Kaboré, candidato presidenziale del Mouvement du peuple pour le progrès
(Mpp), si profila una vittoria al primo
turno, dopo il voto di domenica scorsa. Ieri sera, quando erano stati scrutinati 253 seggi su 368, era attestato
sul 54,27%. Il suo rivale più accreditato, Zéphirin Diabré dell’Union du peuple pour le progrès (Upc), seguiva con
il 29,16% delle preferenze. Molto più
staccati gli altri candidati, Tahirou Barry (2,66%) e Bénéwendé Sankara
(2,34%%). La comunicazione dei risultati definitivi è attesa per oggi.
la caccia all’uomo contro i civili di
religione musulmana, sterminati o
costretti (in decine di migliaia) ad
abbandonare il sud del Paese. Che
si è ritrovato diviso in due nella caccia all’altro in nome di dio.
In realtà lungi dal combattere alla stregua di ragione religiose, questi due gruppi armati vantano un
dna politico tout court.
Da un lato i Seleka - coinvolti nel
traffico di oro, diamanti, zucchero
e bracconaggio di elefanti - rappresentano una coalizione di fazioni
ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari, tra cui quelle della Convention des Patriotes
du Salut du Kodro (Cpsk), Convention des Patriotes pour la Justice et
la Paix (Cpjp), Union des Forces
Democratiques pour le Rassemblement (Ufdr), Front Democratique
du
Peuple
Centrafricain
(FdpcDPC) e Alliance pour la Renaissance et la Refondation (Arr).
Dall’altro gli Anti-Balaka (anti-machete in lingua sango) – anch’essi coinvolti nei traffici di oro e
diamanti – divisi in due ale: il
Front de résistance (quella maggioritaria) e les Combattants pour la li-
bération du peuple centrafricain
(ala minoritaria pro-Bozizé) legata
al Front pour le retour à l’ordre
constitutionnel en Centrafrique
(Froca), il movimento creato in
Francia dall’ex presidente della Repubblica Centrafricana François
Bozizé.
L’esercito regolare, che secondo
alcune associazioni per i diritti
umani sosterrebbe alcune fazioni
degli Anti-Balaka, è stato messo da
parte dai Seleka una volta giunti al
governo. Recentemente il presidente ad interim Catherine Samba-Panza ha fatto appello all’Onu
affinché venga riarmato, sostenendo che le forze di pace delle Nazioni Unite e le truppe francesi
(dell’Operazione Sangaris) hanno
fallito nella loro missione di proteggere i civili. Richiesta per cui Samba-Panza vanta il sostegno di molti che il mese scorso sono scesi in
piazza a Bangui per manifestare in
favore del riarmo dell’esercito.
Insomma, si fa presto a dire guerra di religione, quando invece alla
base di un brutale conflitto settario c’è un’economia fatta di traffici
e connivenze politico-militari.
Luca Kocci
S
i è concluso ieri sera, con
l’atterraggio a Ciampino
alle 18.30, il viaggio apostolico in Africa di papa Francesco, l’undicesima trasferta internazionale del suo pontificato,
la prima in terra africana.
Il pontefice ha attraversato
Kenya, Uganda e Repubblica
Centrafricana. In quest’ultima,
domenica ha simbolicamente
avviato il Giubileo straordinario
dedicato alla misericordia
(l’inaugurazione ufficiale sarà a
San Pietro, l’8 dicembre), aprendo la “porta santa” della cattedrale di Bangui. «Oggi Bangui
diviene la capitale spirituale del
mondo», ha detto Bergoglio dopo aver varcato la porta. «L’Anno santo della misericordia viene in anticipo in questa terra,
che soffre da diversi anni la
guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in
questa terra sofferente ci sono
anche tutti i Paesi che stanno
passando attraverso la croce
della guerra». E il riferimento alla Siria, alla Palestina, ma anche al terrorismo internazionale appare evidente.
Un atto inedito e simbolicamente significativo quello di dare il via - sebbene in maniera ufficiosa - all’Anno santo in Africa
e non in Vaticano. All’interno
KENYA · Arrestate persone "di casa" per la morte di Rita Fossaceca
Volontaria italiana assassinata,
ma gli Al Shabaab non c’entrano
R. Pla.
I
l cuoco, il lavandaio, il giardiniere e il mandante. Sono quattro le persone arrestate per l’omicidio del medico italiano che si trovava in
Kenya per conto di una ong italiana. A riferirlo è stato il portavoce della polizia locale Charles Owino.
Rita Fossaceca (nella foto),
51 anni, è stata uccisa sabato
sera per mano di gente "di casa" nel corso di una rapina a
mano armata nella sua casa di
Mijomboni vicino a Malindi.
Originaria di Trivento (Campobasso) e trapiantata a Novara
dove faceva il medico radiologo presso l’ospedale Maggiore, in Kenya lavorava per ForLife Onlus e gestiva un orfanotrofio a Mijomboni, a nord della
città costiera di Mombasa, a
una trentina di chilometri dalle note località turistiche di
Malindi e Watamu.
Un gruppo di banditi armati
avrebbero fatto irruzione in casa. Rita sarebbe stata stata uccisa da un colpo di pistola
mentre cercava di difendere la
madre dal tiro di armi da fuoco e dai colpi di machete. Con
lei anche il padre, rimasto ferito alla testa e a una spalla,
mentre lo zio sacerdote e due
infermiere dell’ospedale di Novara, Monica Zanellato e Paola
Lenghini, malgrado le ferite riportate non sarebbero in gravi
condizioni.
«Dopo una serie di giri nelle
fattorie, valutazioni delle spese e dei possibili guadagni, abbiamo acquistato la mucca. La
mucca è incinta e tra tre mesi
avremo anche un vitellino e, finalmente, il latte per il villaggio». È questa l’ultima testimonianza del medico lasciata sul
sito internet della onlus per
cui lavorava.
In Africa, Rita Fossaceca dove si recava periodicamente
da 11 anni e faceva «tanto bene in Kenya, Malindi, Watamu», come scrive Jacie Kim,
una sua amica, sul profilo Facebook di Rita appena appresa la notizia della sua morte.
«Sono costernato e inorridito dall’attacco criminale insensato contro una ong italiana a
Watamu - ha detto il ministro
del turismo keniano Najib Balala - Erano qui nel nostro Paese per prestare assistenza ai
bambini disabili e alle loro famiglie e io sono devastato nel
sentire che sono stati colpiti in
questo modo». Il ministro ha
descritto l’attacco armato di sabato a Mijomboni come un incidente isolato.
L’industria del turismo ha
subito negli ultimi anni gravi
perdite per via della minaccia
terroristica degli Al-Shabaab e
dei gruppi separatisti attivi soprattutto sulla costa, dove più
evidente è il divario tra la povertà di chi vive in baracche fatiscenti, tra fogne a cielo aperto e i resort turistici a 5 stelle
per pochi eletti.
Rita non è stata vittima né
degli Al-Shabaab né di alcun
gruppo separatista, ma della
furia omicida e dalla rabbia di
chi vive ai margini e non ha
modo di coltivare le proprie
aspirazioni e deve solo accontentarsi. Di una casa, di un lavoro, dell’aiuto da parte di chi
dona con rispetto della dignità
dell’altro.
Rita donava mantenendo
questo rispetto. È stata vittima
di quella «povertà che alimenta il terrorismo» (di cui ha parlato Francesco nel suo primo
discorso proprio in Kenya alcuni giorni fa) e la rabbia che uccide indiscriminatamente, senza guardare negli occhi di nessuno.
tuttavia di un evento, il Giubileo, che più tradizionale non si
può e che, nonostante l’operazione di decentralizzazione voluta da Francesco, non farà altro che rafforzare il papato e il
centralismo romano della Chiesa cattolica, la quale, va ricordato, ha cominciato a celebrare
giubilei in piena età medievale,
con Bonifacio VIII nel 1300, per
affermare la supremazia del potere religioso su quello politico,
del pontefice sui sovrani laici.
Se l’apertura della porta santa è stato l’evento principale del
viaggio - decisamente più pastorale e sociale che politico, nonostante i numerosi incontri con
le autorità civili dei tre Paesi -, il
tema chiave dei sei giorni in
Africa è stato la pace, introdotto
da quel «maledetti coloro che
fanno le guerre» pronunciato
nell’omelia in Vaticano alla vigilia della partenza: dal papa è arrivata la condanna della guerra
e del terrorismo, la denuncia
del commercio e del traffico di
armi, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e degli
squilibri sociali, l’appello alle religioni ad essere operatrici di pace e di unità e non strumenti di
conflitto e divisioni. «La guerra
è un affare, un affare grande. ’Il
bilancio va male? Facciamo
una guerra’. Dietro ci sono interessi, vendita di armi, potere»,
ha detto ancora ieri sera sul volo che lo riportava a Roma.
«Tra cristiani e musulmani
siamo fratelli, dobbiamo dunque considerarci come tali e
comportarci come tali», aveva
detto sempre ieri Bergoglio visitando la moschea centrale di
Koudoukou a Bangui. «Insieme
diciamo no all’odio, non alla
vendetta, no alla violenza, in
particolare a quella perpetrata
in nome di una religione o di
Dio. Dio è pace, Dio salam». Durante tutto il viaggio è tornato
più volte sull’argomento. «La
violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione,
che nascono dalla povertà e dalla frustrazione», ha detto in Kenya. E «a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo
mondo», nella messa a Bangui
ha chiesto: «Deponete questi
strumenti di morte, armatevi
della giustizia, dell’amore e della misericordia».
Alle parole e ai gesti netti sulla guerra - a partire dalla scelta
di visitare la Repubblica Centrafricana, nonostante molti osservatori sconsigliassero questa
tappa a causa dell’instabilità politica del Paese -, non sono state
affiancate affermazioni altrettanto nette sui diritti civili delle
persone omosessuali. Gli attivisti delle associazioni lgbt - e la
petizione internazionale #PopeSpeakOut - avevano chiesto al
papa di essere ricevuti in udienza (anche solo privatamente) e
di condannare le discriminazioni degli omosessuali in Kenya e
soprattutto in Uganda, dove
l’omosessualità è un reato penale punito anche con l’ergastolo.
Nessun intervento pubblico, invece e, a quanto risulta, nessuna udienza, nemmeno privata.
Contraddizioni del pontificato
di Bergoglio che ogni tanto riemergono, perlomeno su alcuni
temi sensibili.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
il manifesto
INTERNAZIONALE
pagina 5
VENEZUELA · Arrestato Jesus Noguera Hernandez, 28 anni, detto «El Pipi», noto per la sua appartenenza alla banda di «El Picure»
Regolamento dei conti nell’opposizione
Ucciso Luis Manuel
Diaz, un dirigente
del partito Accion
democratica.
E in vista delle
prossime elezioni
del 6 dicembre,
il caso è diventato
«nazionale»
L’OPPOSIZIONE VENEZUELANA IN PIAZZA, NELLA
FOTO PICCOLA L’UOMO ASSAASSINATO, SOTTO
IL PREMIER PORTOGHESE COSTA /LAPRESSE
Geraldina Colotti
INVIATA A CARACAS
S
i chiamava Luis Manuel Diaz
e aveva 44 anni il dirigente venezuelano del partito Accion
Democratica (Ad). È stato ammazzato dopo un comizio in Altagracia
de Orituco, nel Guarico, una regione centrale del Venezuela, a 250
km a sud di Caracas.
L’omicidio è stato commesso
mercoledì notte e il presunto assassino è stato arrestato nelle ore successive, inchiodato da forti indizi e
testimonianze. Si tratta di Jesus Noguera Hernandez, 28 anni, detto
«El Pipi», noto per la sua appartenenza alla banda di «El Picure», un
pericoloso criminale ricercato dalle autorità venezuelane.
L’arrestato era in possesso del
database con le informazioni riservate dell’opposizione venezuelana, riunita nel cartello della Mud,
la Mesa de la Unidad Democratica, di cui fa parte Ad.
Accion Democratica (di centrosinistra, nel secolo scorso) è stato
uno dei due partiti che, dalla cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez nel ’58, ha gestito l’alternanza di governo con il Copei (equivalente della Democrazia cristiana in
Italia): fino alla vittoria elettorale di
Hugo Chavez che, nel 1998, ha
scompaginato trasversalmente l’arco degli schieramenti politici tradizionali, determinando il campo di
una nuova sinistra «umanista e
gramsciana».
Anche l’ucciso - diventato segretario di Ad due mesi fa - aveva precedenti penali. Dal 2010 era sotto
inchiesta per omicidio, sospettato
di essere il capo della banda Los
Plateados, in lotta con gli avversari
per il controllo della zona. A dispetto del suo soprannome, - El Crema
– Diaz era considerato un duro,
esperto nella contrattazione di posti di lavoro nella regione. Due anni fa era uscito dal carcere, ma –
raccontano alcuni operai – aveva
paura di essere ammazzato perché, attraverso il traffico dei posti
di lavoro, mirava ai vertici del sindacato petrolifero di Altagracia de
Orituco.
Nella regione, la compravendita
di posti di lavoro nei cantieri di
opere pubbliche di grande portata
- gestite dalla petrolifera di stato
Pdvsa e da Corpoelec, l’impresa
elettrica nazionale creata da Cha-
vez nel 2007 – è un affare molto appetibile. La compravendita di posti
di lavoro, governata da mafie sindacali modello Usa è una perversa
eredità degli anni della IV Repubblica, che il nuovo modello di gestione popolare proposto dal chavismo non è riuscito a debellare dappertutto.
Nella parte centrale del paese si
stanno costruendo ferrovie, strade,
reti di gas e installazioni elettriche
e i gruppi sindacali possono gestire l’assunzione di almeno il 75%
degli operai. Questo fa sì che alcuni personaggi - “delegati sindacali”
- intaschino tangenti e al contempo siano sul libro paga delle imprese di subappalto, per garantire
l’a-conflittualità o le catene clientelari.
Il gruppo maneggiato da Diaz
aveva almeno il controllo dell’impianto termoelettrico Ezequiel Zamora, ma era in lotta con altri cartelli gestiti da El Picure. Lo scorso
maggio, alcuni sicari in moto ammazzarono due dei suoi più stretti
collaboratori, Mauro Mejias e José
Paredes. Il segretario di Ad era sempre accompagnato da uomini armati, ma questo non è bastato a
salvargli la vita.
Il contesto in cui è maturato
l’omicidio è chiaro e così pure le
motivazioni che lo hanno prodotto. Tuttavia, nell’acceso contesto
politico che precede le parlamentari del 6 dicembre, l’episodio è balzato a livello internazionale, provocando prese di posizioni e attacchi
al governo Maduro.
Immediatamente, infatti, le destre hanno accusato dell’omicidio
il Partito socialista unito del Venezuela (Psuv).
Ha dato il la il segretario generale di Ad, Ramos Allup. La sua dichiarazione è stata ripresa dalla
moglie del golpista Leopoldo Lo-
pez, leader di Voluntad popular, in
carcere per le violenze dell’anno
scorso: Maduro è l’«unico responsabile», ha detto.
Luis Almagro - il segretario generale dell’Osa che per i suoi atteggiamenti si è messo contro Pepe Mujica e tutta la sinistra uruguayana -
ha chiesto la sospensione delle elezioni. Il Parlamento europeo ha annunciato l’invio di propri osservatori, oltre alle migliaia invitati dalle
destre e già presenti qui.
L’ambasciata Usa a Caracas ha
emesso un comunicato definendo
quello di Diaz “il più mortale dei
vari recenti attacchi e atti di intimidazione diretti a candidati dell’opposizione”.
Come ha invece dimostrato il lavoro della Piattaforma internazionale dei media popolari, che si è recentemente costituita a San Paolo
del Brasile e che ha smontato con
dati e video le presunte «aggressioni» a Tintori e soci, si tratta di
«guerra mediatica».
La serie di fatti inventati – scrive
la Piattaforma – serve ad alimentare un meccanismo internazionale
che porta il governo a «dissociarsi»
da avvenimenti di cui non ha colpa, lasciando l’impressione di una
compagine allo sbando o malata
di complottismo. Le numerose esecuzioni mirate ai danni di dirigenti
chavisti, nazionali e territoriali vengono invece presentati dalle destre
come «regolamenti di conti».
In una trasmissione pubblica,
Maduro ha affermato che attori politici legati all’estrema destra
“stanno offrendo tra i 30 e i 50 mila
dollari alla malavita paramilitare
perché compia atti di violenza indossando magliette chaviste. L’intreccio tra mafia e politica che governa le aree oltranziste di opposizione è emerso con forza negli ultimi mesi, a seguito di alcuni efferati
omicidi interni come quello della
militante Mud Liana Hergueta,squartata dai suoi in un quartiere di Caracas.
Intanto, nel parlamento argentino, il Frente para la Victoria ha
emesso un comunicato di solidarietà al Venezuela, che il neo-eletto
Macri, grande amico di Tintori e soci vorrebbe far cacciare dal Mercosur.
Portogallo/INTERVISTA A MARGARIDA ANTUNES PROFESSORESSA DI ECONOMIA
«Il programma del governo propone aumenti
del salario minimo e la lotta al precariato»
Bruno Montesano
D
opo la nascita del governo di Costa, appoggiato da Bloco de
esquerda e Partido Comunista
Portoguese ma composto da membri o
personalità vicine al solo Partido Socialista, abbiamo raggiunto Margarida Antunes, professoressa di Economia all’Università di Coimbra, per analizzare la vicenda portoghese, a partire dal programma del nuovo esecutivo.
Il Bloco de esquerda e il Partido Comunista Portugues hanno dovuto rinunciare ad alcune delle loro rivendicazioni
più forti, la sintesi raggiunta segna una
discontinuità rispetto alle politiche dei
governi precedenti?
Sì, perché il programma è ispirato al
riorientamento delle politiche economiche verso la domanda, mentre i governi
precedenti hanno costantemente ridotto
la domanda e fatto politiche d’offerta. Secondo il programma sottoscritto dalle sinistre, nel 2016 si alzeranno gli stipendi
dei dipendenti pubblici e si aumenterà
progressivamente il salario minimo. Si ridurranno i contributi sociali per i salari
sotto i 600 euro e si cercheranno di stabilizzare i posti di lavoro nel settore pubblico e privato. Le pensioni, ferme
dal 2010, verranno aggiornate all’inflazione e il valore di alcune prestazioni sociali tornerà ai livelli precedenti ai tagli del 2011. Verrà migliorato
l’accesso ai servizi pubblici, come la sanità, con la riduzione delle tariffe
sanitarie, e l’istruzione, con la generalizzazione dell’educazione prescolastica. Sul versante fiscale verrà ridotta l’imposta sul valore aggiunto per i
ristoratori, e ci sarà una maggior progressività delle imposte sul reddito.
Le privatizzazioni verranno fermate, l’acqua rimarrà pubblica, e si tornerà indietro su quelle in atto, come quelle della Tap, la compagnia area di
bandiera. Il programma elettorale del Ps non era molto diverso da quello
della Coligação ma anche queste lievi differenze sono state duramente
criticate dai media e dai commentatori politici. Il programma del governo Costa, rispetto al programma del Ps, differisce perlopiù nell’ampliamento delle misure volte alla domanda. Infatti lo scongelamento delle
pensioni, l’aumento dei salari minimi, la lotta al precariato, non erano
misure molto esplicite nel programma del Ps, e la riduzione dei contributi per i lavoratori ne era esclusa. Per mostrare la propria attenzione verso
gli impegni europei, il Ps ha rivisto le stime del deficit tenendo conto di
queste nuove proposte. Secondo questo nuovo conteggio, nei prossimi
anni il deficit migliorerà rispetto alle stime precedenti, dato che andrà a
diminuire progressivamente, tenendosi sempre sotto il 3%.
C’è stata una forte propaganda in favore della Coligação prima delle
elezioni. E la partigianeria del presidente Silva ha fatto sì che persino il
conservatore Daily Telegraph abbia gridato al colpo di stato. Come interpreta queste dinamiche?
Persino nel discorso di investitura, Silva non ha nascosto che questo
governo non fosse la sua soluzione, per
poi minacciare il governo di revocarlo in
caso di deviazioni dalle politiche macroeconomiche precedentemente seguite in
Portogallo. Costa gli ha ricordato che il
suo governo nasce dal rifiuto dell’idea
che manchino alternative a queste politiche, perché la democrazia crea sempre alternative. Ma la democrazia è stata ferita
perché Silva ha provato ad escludere due
partiti politici dal governo nominando
Coelho. Così facendo il Presidente ha legittimato le reazioni dei mercati e delle
istituzioni europee. Al contempo, penso
che l’utilizzo dell’espressione «colpo di
stato« sia stata esagerata, perché la coalizione di centro-destra aveva la legittimità
politica per governare. Ciononostante, alcuni leader della destra e commentatori
politici hanno usato la stessa espressione
per indicare un governo di centro-sinistra. Tutto ciò è coerente con il comportamento di molti giornalisti che hanno mostrato un anacronistico sentimento anticomunista, come se il Muro non fosse ancora caduto. Il punto è che questi giornalisti sono gli stessi che in passato criticavano questi due partiti per non avere responsabilità di governo. Ma oltre che dai
media, l’aiuto alla Coligação è arrivato dalle istituzioni europee, spaventate da ogni tipo di discostamento dal dogma neoliberale, dalle istituzioni portoghesi, che hanno pubblicato dati sulla povertà solo dopo le elezioni, e dal mondo delle imprese, che ha riportato i suoi fallimenti solo
ad urne chiuse.
Il Partido Socialista si è mostrato incerto sull'identità da assumere
ma, alla fine, Costa ha modificato il panorama politico portoghese facendo entrare nella maggioranza di governo delle forze che vi erano
sempre rimaste escluse. Cosa è accaduto all’interno del PS?
Bisogna dire che il Ps era diviso rispetto al modo in cui Costa ha assunto la leadership del partito, e alcuni leader precedenti hanno contestato
l’alleanza a sinistra. Il comportamento del PS può essere visto da due diverse prospettive. Una prima prospettiva è quella dello spostamento del
PS come manifestazione di una genuina volontà dei socialisti nel porre
fine ad un governo di destra. E in questa chiave gli interlocutori erano necessariamente il Bloco e il Partido comunista. La seconda prospettiva vede tutto ciò come una decisione di Costa, che, a Lisbona, come sindaco,
ha fatto lo stesso. Il leader socialista, essendo stato sconfitto elettoralmente, avrebbe così deciso di rompere la conventio ad excludendum nei
confronti di Be e Pcp. In ogni caso, nel processo di formazione del governo, Costa ha voluto dare l’idea di essere moderato, probabilmente per
mostrare alle istituzioni europee che questo esecutivo rispetterà i vincoli
europei. Ciononostante, la Commissione Europea ha sostenuto di voler
parlare al più presto con il ministro delle finanze per conoscere le sue intenzioni. Il problema del nuovo governo è che ha pochi margini per essere alternativo alla corrente eurozona.
pagina 6
il manifesto
POLITICA
MATTEO ORFINI FOTO LAPRESSE
Paolo Cento (Sel):
«L’alleanza è morta,
uccisa dai dem, ora
ci dicano se rinasce
su Fassina». Che
attacca: «Matteo
ormai pensa all’Ncd»
Daniela Preziosi
P
oco importa che a Roma la sinistra abbia lanciato il suo
candidato, che è il deputato
di Sinistra italiana Stefano Fassina;
poco importa che le dichiarazioni di
disamore fra sinistra e Pd ormai siano all’ordine del giorno. I democratici romani sono convinti che comunque in primavera le primarie di centrosinistra si faranno. O almeno provano a mettere in circolazione questa convinzione, che oggi sembra irrealistica. «Chi ha detto che Sel non
sarà della partita delle primarie?»,
spiega il commissario del Pd romano Matteo Orfini al manifesto. «In caso contrario farebbero una certa fatica a spiegarlo ai loro elettori. E anche ai loro eletti. Gli elettori del centrosinistra non vogliono che per incomprensibili ragioni nazionali si
rompa un fronte, a tutto vantaggio
delle destre». Nel cui mazzo, per inciso, il presidente Pd infila anche il
movimento 5 stelle.
La verità è che in queste settimane il pressing su Sel perché torni sotto lo stesso tetto degli ex alleati democratici è forte. Fortissimo. Non
passa giorno che il presidente del Lazio Nicola Zingaretti non auspichi la
ripresa del dialogo. Oltre alla coalizione in regione, nella Capitale il Pd
continua a governare con la sinistra
praticamente in tutti i municipi:
tranne il sesto, dove le due forze si
erano divise già al voto del 2013, e il
decimo, quello di Ostia, sciolto e
commissariato per infiltrazioni mafiose. Paolo Cento, coordinatore di
Sel a Roma, è certo che il pressing è
destinato a aumentare: «A gennaio il
Pd scatenerà l’offensiva su di noi perché sa che l’alleanza con la sinistra è
la sua unica chance di arrivare almeno al ballottaggio», ragiona. Ma «a
Roma il centrosinistra è finito con
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
Roma, per le primarie
Pd a caccia di sinistra
Orfini: «La coalizione resta, se no Sel che dirà ai suoi?»
un atto notarile che ha impedito un
dibattito democratico sull’amministrazione Marino. Peraltro le primarie fatte così, telecomandate dal governo e addirittura riunite in un’unica data nazionale - il 20 marzo - quasi fosse un referendum su Renzi,
non hanno niente a che vedere con
noi. Sinistra italiana ha già messo in
campo il suo candidato. È Stefano
Fassina. Anziché mandare messaggi, il Pd risponda chiaramente: per
loro Stefano è un nome su cui si può
ricostruire un’esperienza unitaria?».
Difficile. Così come quasi impossi-
ATAC · La Procura apre un’inchiesta sugli appalti
La procura di Roma avvia un’inchiesta sull’assegnazione degli appalti Atac e
sulla mobilità nella capitale negli ultimi 5 anni. Un fascicolo per il momento
senza ipotesi di reato né indagati, affidato ai magistrati del pool reati contro
la pubblica amministrazione dal procuratore Giuseppe Pignatone, al vaglio del
quale era finito un esposto presentato dall’ex assessore ai Trasporti del Campidoglio Stefano Esposito. Un dossier che ha molti punti in comune con la relazione fatta dall’Anac di Raffaele Cantone, dalla quale emerge che, dal 2011,
circa il 90% degli appalti sono stati affidati con procedura negoziata, spesso
senza pubblicazione del bando. Il tutto per quasi un miliardo di euro. Sotto la
lente di piazzale Clodio anche i disservizi della linea ferroviaria che collega
Roma con il litorale e i documenti che riguardano la metropolitana.
bile è immaginare la ricomposizione della vecchia alleanza che ha governato la città dal Rutelli II a Marino passando per le due giunte Veltroni. Fassina è ormai in campo e si
dichiara «alternativo al Pd». Orfini è
tagliente: «Conosco Stefano, a volte
gli sfuggono battute e dichiarazioni
di cui non è convinto neppure lui».
Fassina replica con lo stesso tono:
«Orfini parla di primarie di coalizione? Ormai lui pensa alla coalizione
con l’Ncd di Alfano».
Resta che dopo la cacciata di Marino il Pd ormai ha sempre meno carte per attrarre la sinistra. Forse solo
candidature di frontiera come quella del senatore Walter Tocci o quella
dell’ex ministro Fabrizio Barca (entrambe però molto improbabili) potrebbero attrarre un pezzo dell’elettorato radical. Anche dall’ala più dialogante del coté vendoliano l’ipotesi
della riapertura del dialogo è lontana. «Se davvero Orfini volesse riallacciare un rapporto», è il ragionamento, «dovrebbe dire: ok, abbiamo sbagliato, noi più degli altri perché siamo la forza più grande. Facciamo
tutti punto a capo e vediamo se ci sono le condizioni per una ripartenza.
Invece la mette sul piano della sfida
alla nostra unità interna».
Resta ancora in campo l’ipotesi
del ritorno dell’ex sindaco. Ma oggi
è meno probabile. Di fronte a chi ci
ha parlato ha ammesso: «Ci sto pensando», ma senza la carica emotiva
di fine ottobre. Giovedì prossimo Sel
lo ha invitato a un confronto pubblico in un laboratorio dell’Alessandrino. Ma, nel caso, Marino si presenterebbe dentro o fuori le primarie?
«Non ci sono le condizioni per fare
una coalizione di centrosinistra che
includa Sel perché il Pd vede Roma
come una proprietà di Renzi. In città è aperta una questione democratica», avverte Gianluca Peciola, ex consigliere comunale vendoliano. «Dopo la defenestrazione violenta del
sindaco, il Pd è un partito che non
sa come uscirne. La città oggi non è
governata e la tregua giubilare permette questo ’non governo’. Tronca
cerca di fare del suo meglio ma non
conosce Roma. Più che altro si tenta
un laboratorio di governo della città
da parte di Renzi che è presidente
del consiglio, segretario del Pd e ora
anche sindaco di Roma».
LEGGE ELETTORALE
L’Italicum abbattuto dai sondaggi
I
sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale
versione dell’Italicum, Pd e M5S
si trovano sostanzialmente alla
pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento
dell’impianto di questo sistema
elettorale. Al centro, l’alternativa
tra il premio alla lista, previsto
nell’attuale versione della legge, e
il ritorno ad un premio assegnato
alla coalizione vincente.
Sull’onda dell’euforia per il 40%
delle Europee, il premio alla lista è
divenuto la pietra angolare di una
visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva
molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e
la fragilità del disegno strategico
che veniva incardinato nel nuovo
sistema elettorale. Da molti mesi,
oramai, con qualche oscillazione,
i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31-33% (una percentuale
alta, ma fragile, in assenza di un
qualche bacino potenziale di voti
a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben
oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una
geografia statica, peraltro, quella
fotografata oggi dai sondaggi, che
non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla
presenza sul mercato elettorale di
una nuova formazione di sinistra
potenzialmente a doppia cifra.
In questo quadro, lo spettro di
un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che
reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro
che esortano Renzi a «tenere la
barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio
alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche,
l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il
M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per
un fronte Salvini-Berlusconi.
Il capolavoro di Grillo
Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto
che l’attuale elettorato
della destra è tutt’altro
che moderato: le quote
di elettorato centrista,
che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e
così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora
anche altri dati: quelli
che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto
alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando
il capolavoro politico di Grillo:
riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo
mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema
(con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del
M5S). Nell’uno o nell’altro caso
di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato
potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle
condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.
Antonio Floridia
D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin
qui, ripensare la strategia della
terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo
schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere
altri interlocutori in quest’area.
Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al
premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto»
puntando su un ricatto (non si
sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e
Grillo (o Salvini).
Non sappiamo se si possono
creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è
che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro
che ritengono ancora possibile
una battaglia interna al Pd, per
ridefinirne la collocazione. Una
sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al
premio alla lista significherebbe
infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno
spazio, se non ospitale, quanto
meno abitabile, per una qualche
posizione di sinistra, potrebbe individuare qui
un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come
quella del voto di preferenza, ma riproponendo
con forza la questione
del premio alla coalizione e mettendo al centro
la grave questione democratica che viene posta
dal nesso tra la riforma
costituzionale che è stata approvata e il sistema
elettorale..
Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti:
anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale
fondato sulla logica del premio,
possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore.
E soprattutto, si può rispondere
con nettezza anche all’unico argomento che può avere una
qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che
«non si può tornare ai tempi
dell’Unione», cioè alle coalizioni
ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un
semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti vali-
di di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono
sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa
clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun
incentivo ad aggregare una sfilza
di micro-liste, ma solo quello di
creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche
consistenza.
E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si
potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro
che si oppongono all’Italicum:
in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi
un’arma spuntata. Si dovrebbe
votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo
maledetto imbroglio, non possa
nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il
famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire
una vera discussione politica, e
un confronto serio anche tra gli
esperti, che finalmente metta a
nudo uno dei tanti falsi idoli che
hanno avvelenato l’indefinita
transizione italiana, ovvero che
la «governabilità» possa essere
assicurata solo da un sistema
elettorale maggioritario. Ritengo
che non sia così e che anzi, nelle
condizioni in cui ci troviamo,
una sorta di nuovo anno zero
per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e
necessario.
IN PARLAMENTO
Muro contro muro
Giudici della Corte
verso un altro flop
ROMA
C
e la farà Augusto Barbera a diventare il tredicesimo giudice
costituzionale? È l’unico dubbio che oggi pomeriggio deve sciogliere il ventottesimo tentativo del
parlamento di ristabilire il plenum
della Consulta; tentativo che nel
complesso fallirà perché è assai improbabile che risultino eletti tutti e
tre i giudici mancanti. Barbera mercoledì scorso si è fermato 35 voti sotto il quorum minimo richiesto (571)
ed è l’unico che ha qualche timida
chance di successo. Se funzionasse
l’operazione recupero che nelle ultime ore ha impegnato i dirigenti Pd,
ai quali l’ultima volta sono sfuggiti oltre centocinquanta voti di deputati e
senatori di maggioranza.
Ma non ci sono segni di ravvedimento rispetto al muro contro muro
che l’anno scorso è già costato l’umiliazione a Luciano Violante, condotto dal Pd al massacro di nove votazioni inutili. Renzi non ha utilizzato i sei
giorni di riflessione concessi dai presidenti di senato e camera per mettere in dubbio la sua strategia, in base
alla quale non si può concedere nulla agli avversari delle riforme del governo. Neanche un posto alla Corte
costituzionale dove molto presto potrebbero arrivare i ricorsi contro l’Italicum - dei cittadini o degli stessi parlamentari - e prima o poi anche le richieste di referendum; in prospettiva
anche la stessa legge di revisione costituzionale.
Dunque no alla ripresa dei contatti con il Movimento 5 Stelle, a maggior ragione dopo la delusione di scoprire impallinato dall’assemblea grillina, senza neanche passare per il
web, anche Barbera. E questo malgrado il candidato 5 stelle, il costituzionalista Franco Modugno, professore emerito a Roma, continui a non
dispiacere per niente ai democratici.
A Renzi basterebbe accogliere la richiesta grillina e scartare da Barbera
(che è inciampato in un’inchiesta in
maniera troppo lieve persino per i 5
stelle, ma ha un recente profilo più
da avvocato delle riforme renziane
che da accademico) per portare a casa con sicurezza due nuovi giudici
non ostili, già oggi.
Ma non lo farà perché vuole altro,
vuole tenere legato all’accordo Berlusconi, che faticosamente ha unito
Forza Italia sul nome di Francesco
Paolo Sito. Almeno formalmente, visto che le bande dell’ex caserma del
cavaliere si sono date battaglia nel segreto dell’urna, e a Sisto sono mancati 25 voti in più di quelli mancati a
Barbera. L’avvocato penalista barese, esperto di sicurezza sul lavoro, ha
lungamente parteggiato per la scissione di Raffaele Fitto, con il risultato
di poter oggi contare su profonde inimicizie sia tra i berlusconiani ortodossi che tra i frondisti. Non manca
nel traballante terzetto il candidato
giudice costituzionale nei guai con la
giustizia, è l’attuale presidente
dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella,
indicato dai centristi, che ha scoperto solo una volta tornato alla ribalta
dell’informazione di essere ancora
indagato per una vecchia vicenda di
corruzione a Catania, malgrado il
pm abbia chiesto l’archiviazione.
Oggi si prevede un’altra fumata nera. Com’è del resto è sempre accaduto, salvo quando il Pd ha trovato
un’intesa con i 5 Stelle, oltre un anno
fa. Mattarella minaccia un nuovo
monito, Grasso gli scrutini a oltranza. Intanto la Corte sta lavorando
con 12 giudici su 15 e un altro giudice eletto dal parlamento non può garantire il pieno servizio. Così l’organo costituzionale è sempre sulla soglia del minimo legale. Un giudice
manca da oltre 17 mesi - si avvia a diventare un record - altri due da «soli»
nove e tre mesi. a. fab.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
ITALIA
L’ALLARME · Oltre 44 mila i siti inquinati, 17 mila le vittime. Il picco delle malattie entro il 2020
Belpaese pieno di amianto
Antonio Sciotto
I
L’Assemblea
a Roma, il governo
lavora a un Testo
unico. Anci: «Finora
piani inattuati»
ALL’INTERNO DELLA FIBRONIT, EX FABBRICA DI ELEMENTI PER L’EDILIZIA IN AMIANTO /FOTO SINTESI VISIVA
ra 32 milioni di tonnellate da smaltire e con questi ritmi si raggiungerà la bonifica totale solo fra 85 anni. È un’infinità», ha detto Boeri.
Per i lavoratori esposti per oltre 10
anni all’amianto e riguardo alle loro aspettative di vita, il presidente
dell’ Inps ha aggiunto: «Una maggiore flessibilità in uscita dal lavoro garantirebbe un accesso alla
pensione in tempi più rapidi anche per questi lavoratori».
Nella sua relazione Camilla Fabbri (Pd), presidente della Commissione di inchiesta sugli infortuni
sul lavoro del Senato, ospite
dell’Assemblea nella sede di Palazzo Giustiniani, ha spiegato che
«l’amianto è una sfida ancora aperta, come confermano i dati scientifici che ci portano a prevedere per
il 2020 il picco massimo di malat-
FONDAZIONE DI VITTORIO (CGIL)
Occupati anziani,
giovani senza posto
O
pagina 7
INAIL · Tragico raffronto con l’anno scorso: +16%
I morti sul lavoro tornano
a crescere: già 101 in più
D
l problema della presenza di
amianto in tante strutture ed
edifici italiani è ancora lungi
dall’essere risolto: ieri a Roma ha
fatto il punto l’Assemblea nazionale sull’amianto, promossa dalla
Commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, in un messaggio inviato alla conferenza ha parlato di «una ferita ancora aperta»,
il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha quantificato in «44
mila i siti presenti in tutto il Paese», mentre l’Inail ha spiegato che
«sono oltre 17 mila i beneficiari
del Fondo vittime» apposito.
«L’aggiornamento al novembre
2015 fa rilevare oltre 44 mila siti
sparsi sul suolo nazionale», ha
spiegato il ministro dell’Ambiente.
Si tratta peraltro - ha aggiunt - di
«un dato parziale, visto che alcune
regioni non stanno provvedendo
ad aggiornare la mappatura, in alcuni casi risalente a quasi sei anni
fa, rendendo ancor più complessa
l’azione di monitoraggio e di intervento. Una criticità questa che è
necessario superare al più presto».
All’Assemblea è intervenuto anche il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha giustamente notato come sarebbe importante ridurre
l’età di uscita per il pensionamento per tutte quelle persone che nella loro carriera lavorativa sono state esposte all’amianto: «È un quarto di secolo che è stato messo al
bando l’amianto, ma ci sono anco-
il manifesto
ccupati sempre più anziani, mentre aumentano i giovani senza lavoro. È il mercato del lavoro italiano fotografato da un’indagine della Fondazione Di Vittorio della
Cgil presentato ieri a Roma. Tra il 2007 e il 2015 il numero degli
occupati tra i 55 e 64 anni è cresciuto di un milione e 326 mila
unità e il tasso di occupazione specifico ha segnato un aumento straordinario dal 33.4% al 48.1%. Tra i giovani occupati fino a
34 anni, invece, il tasso del disagio economico aumenta di mezzo punto, mentre la quota di occupati a termine e part-time involontario aumenta dal 35.8 al 36.3%. Il tasso di disoccupazione ha perso nell’ultimo periodo quattro decimi di punto ma
per i giovani fino a 24 anni resta drammaticamente superiore
al 40% e aumenta per chi ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Nel primo semestre del 2014 era al 18.9%, nello stesso periodo del 2015 al 19.3%. La ricerca ha individuato un’area della sofferenza di chi non ha un lavoro si è contratta, su base annuale,
di circa il 3% circa (meno rispetto alla flessione del 2011) per il
minor numero di disoccupati e di occupati in cassa integrazione, ma le cifre complessive sono paurose. Si stima,
Oltre 9 milioni di
infatti, che siano circa cinlavoratori in difficoltà
que i milioni di senza lavoro, compresi gli occupati
economica, la
in cassa integrazione.
fotografia di un paese
L’area del disagio, del precariato e della sottoccupasempre più diseguale
zione, invece, conta più di
4 milioni e 300 mila persone, il 12.8% della platea degli occupati in età 15-64 anni.
Un mercato del lavoro sempre più diviso tra giovani e anziani, dunque. Questo è anche l’effetto della legge Fornero che ha
allungato i termini del pensionamento, in un paese che invecchia sempre di più. Non bisogna tuttavia sottovalutare il peso
del disagio economico in cui vivono le persone anziane che
non lavorano. La quota di persone in età matura che cadono
nell’area della sofferenza ha raggiunto il 7.1% nel primo semestre 2015, pari a 541 mila persone. Era al 2.4% del primo semestre 2007. Sul piano generale si registra una contrazione dei disoccupati, 73 mila in meno (-2,2%) rispetto al record del 2014:
nel primo semestre 2015 il loro numero era stimato in 3 milioni
e 200 mila e il tasso di disoccupazione era al 12,5%, in flessione
di 4 decimi di punto su base annuale ma ancora più del doppio
rispetto all’inizio della crisi. Nel Mezzogiorno il tasso è al
20.3%, (21,8% per le donne e 19,5% per gli uomini), in discesa
di sei decimi di punto ma solo per effetto della riduzione osservata nella componente femminile. Le donne nel Mezzogiorno
detengono ancora il record europeo dell'inattività (60,2% nel
primo semestre 2015) e il più basso tasso di occupazione
dell'Unione (31,1%).
tie a esso correlate».
«Il Testo unico - ha proseguito
Fabbri - che la Commissione propone con l’obiettivo di presentarlo entro giugno, si rende indispensabile nel quadro intricato di norme - sono infatti 400 tra regionali
e statali e, spesso in contraddizione - con finalità ricognitiva ma anche costitutiva. Il nostro obiettivo
è quello anche di revisionarle, qualora fosse opportuno, e di inserire
nuove proposte. Ci continueremo
a impegnare per poter vedere approvato il ddl sulle spese legali alle
vittime e ai familiari delle vittime,
insieme al ddl per la riconversione
delle aree industriali dismesse».
Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando «è necessario mettere a punto un testo unico della normativa in grado di dare risposte di
giustizia ai lavoratori che sono stati esposti all’amianto: stiamo lavorando alle indicazioni del Senato
su una disciplina organica e sul patrocinio gratuito per le vittime».
Il presidente dell’Inail, Massimo De Felice, ha notato che «il
problema non è solo legato al lavoro, ma è più diffuso: continuano
ad aumentare coloro che vengono
definiti, burocraticamente, come i
beneficiari del Fondo per le vittime dell’amianto: dai 13.965 del
2008 sì è passati ai 17.428 del
2014». Un aumento del 25%.
L’Anci, associazione dei Comuni, promuove l’idea del Testo unico, ma ricorda che i precedenti
piani di bonifica, programmati a
partire già dai territori, sono rimasti sempre sulla carta: «È dal 1992
- ha spiegato l’associazione - che
l’amianto è al bando nel nostro Paese, ma la gestione della fase di dismissione rimane ancora una questione aperta. Si tratta di un’emergenza da trattare come "urgenza",
visto che la stima per difetto delle
vittime per neoplasie dovute
all’amianto è di almeno 4 mila decessi e il dato è atteso in crescita
con picchi tra il 2020 e il 2025».
«Come Anci abbiamo messo in
piedi una Rete nazionale delle Città dell’Amianto (Città AmiantoZero) - hanno concluso i Comuni ma il Piano nazionale amianto, varato nel 2013 a seguito della Conferenza di Venezia del 2012, non è
stato ancora di fatto avviato» .
opo alcuni anni con il seper tornare a parlare di morti biangno meno, torna a salire il
che è stata l'Assemblea nazionale
numero delle morti sul lasull’amianto, che negli anni, ha
voro: gli incidenti fatali tra gennasottolineato il presidente dell'Inail
io e ottobre del 2015 hanno ripreMassimo De Felice, ha fatto oltre
so ad aumentare, con 101 caduti
«17 mila» vittime.
in più rispetto al 2014. Un’inversioIl ministro del Lavoro, Giuliano
ne di tendenza che era emersa fin
Poletti, ha assicurato che le verifidai primi mesi di quest’anno ma
che diventeranno più efficienti a
che ieri l’Inail ha confermato,
partire già dal prossimo anno, non
esprimendo
«preoccupazione»
appena l’Ispettorato unico, previper un rialzo significativo, che susto dal Jobs Act, diventerà una realpera il 16%.
tà. Le attività ora dislocate tra
Eppure, se si guarda a tutti gli inInps, Inail e ministero del Lavoro
fortuni, anche quelli non mortali,
saranno infatti accorpate e faranla discesa continua, con un ribasno capo a un solo polo. Quel che
so complessivo tra
bisogna capire, ha
il 4,5% e il 5% nei
avvertito Poletti, è
Si
inverte
un
dato
primi dieci mesi
se mantenere codell’anno. Se ne
munque lo stesso
che da anni era in
contano 25.623 in
impianto, «le stescalo: i caduti fino a se competenze»,
meno, includendo
anche i casi definioppure aprire una
ottobre sono 729.
ti dall’Inail «in itine«riflessione» sui poCon due mesi
re» ovvero nei trateri dell’Agenzia
gitti intrapresi per
unica, affinché «la
in meno, superati
motivi strettamennuova
struttura
te legati all’impiepossa essere mei 662 del 2014
go. Una decisa flesglio utilizzata».
sione si rileva anche focalizzando
Oltre al capitolo dei controlli c’è
l’attenzione solo sugli incidenti acun tema che per il presidente
caduti mentre si lavora (17 mila in
dell’Inps, Tito Boeri, resta cruciameno).
le: «la flessibilità in uscita». ParlanTutto questo però non è bastato
do dei lavoratori che si ammalano
per impedire 101 morti in più, tra
a causa del contatto con l’amiancantieri, fabbriche, campi e tutti
to, Boeri è infatti tornato sul pungli altri scenari operativi. Si sono
to, chiarendo anche come sia
infatti conclusi con un decesso
«molto difficile riuscire a misurare
729 infortuni (erano 628 nello stescon esattezza la speranza di vita
so periodo del 2014). E il divario
dei singoli e delle specifiche carrieaumenta se si aggiungono anche
re».
le perdite «in itinere» (155 in più)
Già da oggi, quindi, è possibile
con il totale che sfiora il milione soprevedere che il 2015 si chiuderà
lo nei primi dieci mesi del 2015
con un rialzo significativo di morti
(988). Il minimo storico dell’anno
sul lavoro rispetto all’anno passaprima è ormai già abbondanteto, quando gli infortuni mortali
mente superato ma l'Inail invita
erano stati 662 (e a fine ottobre socomunque alla prudenza, ricorno già 729, come detto).
dando che si tratta di dati basati
Il Rapporto annuale dell’Inail
sulle denunce, che ancora «sono
per il 2014 confermava invece la
in fase di assestamento». Inoltre i
tendenza al calo, visto che gli incivertici dell’Istituto nazionale per
denti si erano dimezzati negli ultil’assicurazione contro gli infortuni
mi dieci anni: nel 2005 le morti
sul lavoro fanno sapere che è in
bianche erano state 1.278.
corso un’analisi per capire il perGli infortuni totali sono stati 437
ché dell’aumento.
mila (un calo del 6,3% sul 2013). RiIntanto dai dati mensili, pubblispetto al 2013, si è registrata una ricati sul sito web dell’Inail, è evidenduzione del 6,7% mentre sul 2010
te l’aumento dei casi mortali tra
(997 morti sul lavoro accertate) la
gli over60 (+38,3%). L’occasione
riduzione è stata del 33,6%.
INTERVISTA · Il giuslavorista Vincenzo Bavaro, università di Bari
«Poletti lega il salario agli obiettivi,
un modo per smontare il contratto»
Roberto Ciccarelli
L
egare i salari agli obiettivi. Precisazione dopo precisazione, il
ministro del lavoro Giuliano
Poletti ha chiarito l'obiettivo di una
dichiarazione resa venerdì scorso a
un convegno alla Luiss. «Dovremo
immaginare un contratto di lavoro
che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura
dell’apporto dell’opera» ha detto. In
seguito ha spiegato che si riferiva al
«lavoro agile» nelle aziende e al lavoro dipendente. Norme che dovrebbero confluire nel disegno di legge
sullo «smart working» collegato alla
legge di stabilità. A Vincenzo Bavaro, docente di diritto del lavoro
all'università di Bari, autore del libro
Il tempo nel contratto di lavoro subordinato(Cacucci), chiediamo un
parere sulle reali intenzioni del governo: «All'inizio ho preso le dichiarazioni di Poletti con una moderata
sorpresa – afferma – In sé potevano
essere condivisibili, a condizione di
contestualizzarle. Se la prospettiva è
sostituire la dimensione cronologica
del tempo di lavoro, allora non è possibile farlo. Ancora oggi il tempo è
pervicacemente agganciato all'orologio. Se, come ha ipotizzato, Poletti
intende dire che la produzione del
valore si determina in base alla produttività e non in base all'orologio,
allora i sindacati hanno ragione a dolersene».
Quale dovrebbe essere, a suo avvi-
so, la giusta prospettiva?
Pagare il tempo che produce valore.
Remunerare il tempo per le trasferte, ad esempio, come previsto da
molti contratti collettivi. Pagare il
tempo di studio impiegato dai lavo-
ratori della conoscenza, delle tecnologie, nell'informativa, nei servizi.
Questo è tempo lavorato, ma non
calcolato con l'orologio. Su questi
problemi il nostro sistema è ancora
molto fordista.
Insieme al discorso sui salari più
legati agli obiettivi, Poletti ha rilanciato l'idea della partecipazione dei lavoratori alle imprese. Che
ne pensa?
Il fatto che si parli, nello stesso discorso, di nuove forme di remunerazione di lavoro e forme di partecipazione vuol dire che si sta pensando
di determinare il salario a forme di
raggiungimento di obiettivi di produttività. Ma poi, mi chiedo, si sta
parlando di partecipazione azionaria agli utili? Oppure di partecipazione al governo delle imprese? Sono di-
IL MINISTRO · «Mai pensato di abolire l’orario di lavoro»
«Non ho nessuna intenzione di demolire il contratto nazionale» ha detto ieri il ministro
del Lavoro Giuliano Poletti replicando alle osservazioni critiche del presidente della
commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. Dopo avere assicurato, domenica sul «Sole 24 ore», che intende legare i «salari agli obiettivi», Poletti è tornato alla
prima formulazione «arendtiana» della sua tesi: «Non ho mai pensato di abolire l'orario di lavoro» - ha aggiunto - ma non può essere l'unico elemento che relaziona la persona alle cose che fa». Bisogna considerare l’«opera», ma questo concetto viene declinato in termini di prestazioni eterodirette e produttività aziendale dei dipendenti e non
nel senso più ampio di libertà e autonomia nel lavoro e nella società da parte di tutti i
lavoratori. Filippo Taddei, responsabile economico Pd, ha confermato che il governo
presenterà «all’inizio dell’anno due disegni di legge, quello sul lavoro autonomo (Jobs
Act degli autonomi) e quello sul cosiddetto lavoro agile (smart working)».
scorsi diversi.
Quali sono le differenze?
Nel primo caso la partecipazione è a
valle, su risultati eterodeterminati
sui quali il lavoro non può intervenire. Nel secondo caso si partecipa
all'organizzazione del lavoro e alle
scelte aziendali, un modello in linea
con l'articolo 46 della costituzione.
Sono modelli profondamente diversi dal punto di vista della filosofia politica: il primo riguarda la determinazione del salario, il secondo riguarda
la democrazia.
A quale modello pensa Poletti?
Al primo. Fa il paio con la forte spinta a legare il salario alla produttività.
Questo significa indebolire i contratti nazionali del lavoro dipendente?
Se la produttività si determina in
azienda lo deve essere anche il salario. In questo caso il contratto nazionale non scompare, ma riduce la
sua funzione perequativa.
Venerdì Poletti sembrava alludere
alla distinzione tra opera e lavoro
di Hannah Arendt con l’allusione a
una maggiore libertà nel rapporto
di lavoro...
È un’interpretazione sofisticata, ma
possibile. In Arendt l’opera afferma i
principi di libertà e autonomia. Ma
questo è possibile se si smonta il modello gerarchico tipico dell'impresa
capitalistica. Se non lo si fa è evidente che si riduce tutto, ancora una volta, a un escamotage per smontare il
rapporto tra salario e lavoro.
Qual è il suo consiglio?
Creare una legge sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione
collettiva nazionale. Reinsediare i
sindacati nei luoghi di lavoro e frenare l'eclissi del contratto collettivo nazionale di lavoro. La legge non può
imporre la sindacalizzazione, ma
può sostenere i processi o contrastarli.
pagina 8
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
EFFETTO TERRA
Cop21, tante
belle parole
Anna Maria Merlo
PARIGI
È
stata la giornata delle belle
parole e delle grandi promesse, per l’apertura della
Cop21 al Bourget. Mai tanti leader
politici del mondo - 147 capi di stato e di governo, 196 stati rappresentati - hanno parlato con tanta «responsabilità» del futuro, dei «nostri figli e nipoti» chiamati a testimone del rispetto degli impegni,
per la «prima generazione - ha detto Obama - che sente gli effetti del
riscaldamento climatico e che può
fare qualcosa». Dobbiamo «decidere dell’avvenire della terra», ha sottolineato François Hollande.
«Sfida», «svolta», «qui e ora»: queste parole si sono ripetute come
un’eco, durante le lunghe ore degli
interventi, divisi in due sale diverse. Un filo rosso ha unito molti interventi: l’ottimismo della volontà,
la fiducia nelle possibilità tecniche
ma anche nell’impegno politico,
mentre non c’è stato nessuno a
evocare posizioni «scettiche».
«Non è troppo tardi« ha affermato
Obama, citando espressamente
Martin Luther King. Poi, poco per
volta nel corso dei discorsi, sono
emerse le differenze, quelle che
rappresentano gli ostacoli per arrivare a un grande accordo, voluto
dalle organizzazioni ambientaliste.
Hollande insiste: «l’accordo deve
essere universale, differenziato e
vincolante». Anche per Juncker,
presidente della Commissione,
l’accordo deve essere «vincolante».
Obama attenua, riconosce le «responsabilità» degli Usa nella genesi del disordine climatico, ma mette in avanti soprattutto la «trasparenza» degli impegni, per un clima
di «fiducia reciproca», pensando ai
problemi al Congresso per far passare un accordo vincolante. Putin,
arrivato in ritardo, dopo il minuto
di silenzio per i morti degli attentati di Parigi, si dichiara a favore di
un «accordo globale e efficace, ma
anche equo».
Xi Jinping parla di «sviluppo durevole, aperto, inclusivo», di «accordo collettivo», di «responsabilità comune ma differenziata». Eguali parole dell’indiano Modi, che ha anch’egli difeso la linea di «responsabilità comuni ma differenziate».
Ognuno ha poi difeso le proprie
azioni, in una corsa all’autopromozione, non ultimo Mattei Renzi
che ha promosso l’Italia «protagonista della lotta all’egoismo», della
«green economy».
Il problema centrale sono i finanziamenti per la svolta a favore di
uno sviluppo durevole. I paesi del
Nord sviluppato sono oggi i maggiori responsabili dell’effetto serra,
quelli del Sud in via di sviluppo
chiedono quindi di finanziare la
transizione, con investimenti, aiuti
e trasferimento di tecnologia. Il
Sud non vuole rinunciare allo sviluppo. Il Nord non accetta di cambiare modello di sviluppo e spera
soprattutto che le nuove tecnologie lo tolgano dall’imbarazzo di
una scelta alla Corneille. Hollande
ha parlato di «grande opportunità», pensando alla disoccupazione.
L’obiettivo generale dovrebbe essere di rimanere al di sotto di un riscaldamento climatico di 2 gradi,
ma il presidente del Niger, Issoufou Mahamadou, ha per esempio
ricordato che +2 grandi al Nord,
I leader mondiali promettono tanto ma emergono
subito le difficoltà e gli interessi economici
divergenti. Dodici giorni di negoziati con grande
incertezza sul «peso» dell’accordo finale
per l’Africa significherà +3,5 gradi
in media (e +5 grandi per il suo paese). Il presidente filippino, Benigno Aquino ha ricordato i costi
dell’«ingiustizia climatica»: già
50mila morti nei paesi del G20 dal
2010. Per Evo Morales (Bolivia)
«per salvare il clima, bisogna sradicare il capitalismo».
L’ospite Laurent Fabius ha precisato le tre tappe da superare entro
l’11 dicembre, per fare della Cop21
di Parigi un «successo storico»: la
mobilitazione dei capi di stato e di
governo, che «c’è già»; le decisioni
politiche degli stati ma anche delle
entità non governative, dalla città
alle forze economiche e sindacali,
passando per i singoli cittadini.
In ultimo, l’accordo che dovrebbe venire firmato l’11. Sul testo, di
55 pagine, per Fabius resta «una
cinquantina di punti in discussione». Le ong parlano di 200 decisioni ancora controverse. Oltre ai finanziamenti Nord-Sud, c’è la questione della natura giuridica
dell’accordo, che molto probabilmente sarà «ibrido», cioè con qualche parte vincolante e il resto lasciato nel vago, dipendente dalla
buona volontà dei singoli stati.
Inoltre, c’è da stabilire il meccani-
smo e la scadenza della revisione
dei termini dell’impegno, visto che
stando ai «contributi nazionali«
(183 pervenuti, tra i grandi paesi
manca per esempio il Venezuela) il
livello di +2 gradi non potrà essere
tenuto. Molti incontri, bilaterali e
multilaterali, sono in programma.
Ieri, «Missione innovazione»,
per esempio, ha riunito una ventina di capi di stato e degli imprenditori, da Obama a Gates. Ieri sera,
c’è stata una discussione sul prezzo delle emissioni di Co2 (il sistema di scambio sui «diritti a inquinare»). Nel pomeriggio è stata varata l’Alleanza solare internazionale,
per la cooperazione Nord-Sud tra
70 paesi. Oggi, Hollande presiede
un incontro tra gli africani e i loro
potenziali finanziatori. I bilaterali,
tra cui una cena Hollande-Obama,
hanno avuto al centro la questione
del terrorismo e della guerra. Gli attentati di Parigi hanno gettato
un’ombra sulla prima giornata della Cop21, «come la nube porta il
temporale», ha detto Hollande, il riscaldamento climatico può essere
una delle cause delle violenze terroristiche.
Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, ha fatto rifermento alle
numerose manifestazioni per il clima che hanno avuto luogo nel
mondo, raggruppando fino a un
milione di persone, «spero che li
avete ascoltati», ha detto ai leader
del mondo. A Parigi, ieri sono stati
prolungati 9 fermi, sui 341 di domenica, ai margini della manifestazione in place de la République. C’è
stata qualche brutta violenza, con
la distruzione dell’omaggio ai mor-
BRASILE · La tragedia di Mariana non ferma le eco-ambizioni di Rousseff
Il fango tossico della miniera fa strage
Emergenza umanitaria e ambientale
Ge. Co.
SAN PAOLO
U
n disastro ambientale di
proporzioni incalcolabili,
paragonabile a quello di
Fukushima. La tragedia si è messa in moto in Brasile il 5 novembre nella miniera di ferro di proprietà dell’impresa Samarco, a
Mariana, nello stato di Minas Gerais (sud-est del paese). Due dighe di contenimento delle acque
reflue hanno ceduto. Una marea
di fango tossico ha sepolto la popolazione di Bento Rodrigues,
(nella foto) a 20 minuti dal centro
di Mariana, provocando 17 morti,
75 feriti, 12 dispersi e 500 sfollati.
Più di 250 mila persone sono rimaste senza acqua potabile. Gli
oltre 50 milioni di metri cubi di residui tossici hanno inquinato il
Rio Doce e ora, dalla foresta pluviale hanno raggiunto l’Oceano
Atlantico. La lava tossica si è sparsa nell’oceano. E il 24 novembre
si è prodotto un nuovo allarme
circa la possibile rottura, ancora
più devastante, di altre due dighe
a Mariana. La Samarco - che ha
come partner Vale, la principale
impresa mineraria del Brasile, privatizzata 18 anni fa, e l’australiana Bbp Billiton, una delle più
grandi al mondo - , dopo aver negato la tossicità dei fanghi ha accettato di pagare 260 milioni di
dollari. Un risarcimento che lo
stato brasiliano considera «solo
una prima rata», a fronte dei danni incalcolabili provocati.
«Per ridurre i costi dell’estrazione mineraria si eliminano le protezioni ambientali e quelle del lavoro», dice al manifesto il sindacalista Marcio Zonta, militante del
Movimiento Nacional por la Soberanía Popular Frente a la Minería
(Mam). Il Mam è un’organizzazione che fa parte di Via Campesina
Brasil e che si batte contro le grandi imprese minerarie in America
latina. Il continente latinoamericano è una delle regioni con le
maggiori riserve di minerali al
mondo e per questo particolarmente appetibile di fronte alla crescita della domanda mondiale di
ferro, oro o nichel, che si è determinata negli ultimi dieci anni. Le
multinazionali passano sopra alla
sovranità dei governi e dei popoli,
inquinando territori e colonizzando le economie. Con il Tpp sarà
ancora peggio.
Zonta, che abbiamo incontrato
a San Paolo durante l’Incontro
continentale dei media popolari,
spiega così il disastro di Mariana,
e critica il nuovo Codice minerario che sta per essere discusso dal
Congresso. «È un corpo di leggi
sostanzialmente a misura delle
grandi imprese – dice – il parere
delle popolazioni e dei minatori,
che spesso muoiono prima dei 45
anni, non è stato ascoltato». Quello delle miniere – afferma - «è un
tema nazionale, che necessita di
un approccio globale. Lo dicono
tutti, ma le popolazioni continuano a portare il peso delle privatizzazioni degli anni ’90. Invece, sono le uniche a dover decidere dove si deve scavare e perché». Quello di Mariana – dice ancora il sindacalista – «è un disastro annunciato, un disastro strutturale che
richiede una grande mobilitazione affinché i lavoratori possano riprendere il controllo».
Il 25 novembre, quattro giovani
del Movimento senza terra sono
finiti in carcere per aver protestato davanti al Congresso Federale
contro l’impresa Vale e il nuovo
Codice minerario. Contro di loro,
un’accusa grottesca, quella di «crimine ambientale». I ragazzi avevano inscenato una performance artistica usando acqua e argilla per
rappresentare l’inondazione di
fango e avevano sporcato una parete, poi ripulita.
Secondo un’inchiesta di Brasil
de Facto, la Samarco aveva disposto un piano di emergenza nel
2009 che, se fosse stato applicato,
avrebbe potuto evitare la tragedia. «Il Rio Doce – spiega Marcio
Zonta – attraversa molti comuni
tra lo stato di Minas Gerais e Espirito Santo. Le sostanze tossiche
hanno distrutto fauna e flora,
l’economia dei pescatori e inquinato il mare di Espirito Santo. E ci
vorranno molti anni prima che il
piano di recupero annunciato da
Dilma Rousseff possa sortire qualche effetto».
Il governo ha messo in campo
l’operazione Arca di Noè fidando
sulla partecipazione di associazioni ambientaliste e personale specializzato. Ma difficilmente si potranno salvare gli animali terrestri, i pesci e le tartarughe marine,
già a rischio di estinzione. E il terreno rimarrà infertile per molti
anni. Il fango tossico ha inquinato oltre 70km di coste ricche di pesca e meta turistica preferita dai
surfisti. Secondo l’Onu, le misure
prese dal governo sono «chiara-
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
il manifesto
EFFETTO TERRA
pagina 9
FOTO GRANDE, LA CATENA UMANA A PARIGI NEL GIORNO DI APERTURA DEL SUMMIT: «PER
UN CLIMA DI PACE». A SINISTRA, IL PRESIDENTE HOLLANDE RICEVE BARACK OBAMA.
IN FONDO ALLA PAGINA DI DESTRA, LA MANIFESTAZIONE DI DOMENICA A ROMA LAPRESSE
IL RAPPORTO · I dati relativi al 2012 forniti dall’Agenzia dell’ambiente
Morti per l’inquinamento dell’aria,
l’Italia al primo posto in Europa
Luca Fazio
S
iccome sappiamo che dobbiamo morire ma non quando dobbiamo morire, questi dati continuano a non spaventarci: secondo un rapporto
dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), nel 2012 l’Italia ha
segnato il record europeo di morti premature causate dall’inquinamento dell’aria. Sono 84.400 persone morte in un anno su un totale di 491 mila in Europa. Nel mondo sarebbero 7 milioni le persone morte per l’aria inquinata (fonte Oms). Della strage si sapeva da
tre anni (i dati non sono proprio
freschi) eppure non si è registrata
alcuna ondata di panico nell’opinione pubblica, né una sincera
presa di coscienza da parte di organismi politici internazionali,
stati più o meno sovrani e pubblici amministratori.
Le emissioni mortali sono note. Le micro polveri sottili (Pm
2.5), il biossido di azoto (NO2) e
l’ozono che si forma nell’atmosfera (O3) sono responsabili rispettivamente di 59.500, 21.600 e 3.300
morti all’anno in Italia. Le micro
polveri sottili, prodotte dalle automobili e dagli impianti di riscaldati del 13 novembre, sotto la statua
(poi ricostruito dal comune). Ma
solo 9 fermi hanno avuto a che vedere con queste violenze, gli altri
sono stati arrestati per aver partecipato a una manifestazione proibita.
Come ha sottolineato la saggista-attivista Naomi Klein, rivolta a
Hollande: «nemmeno Bush aveva
bandito marce di protesta dopo
l’11 settembre, questa politica non
è degna di lei e attizza tensioni».
Prima di finire con qualche scontro, di fronte a un muro di poliziotti, c’era stata domenica una «catena umana» voluta da alcune organizzazioni riunite nella Coalition
Climat 21 e Avaaz aveva messo migliaia di scarpe per simboleggiare
la mancata Marcia per il clima a
causa dello stato d’emergenza.
mente insufficienti».
Il disastro di Mariana «non diminuirà il peso del Brasile sui negoziati del clima», ha detto il Sottosegretario brasiliano all’ambiente, José Antonio Marcondes, ai
giornalisti presenti alla Cop21. «Si
è trattato di un tragico incidente
che non ha niente a che vedere
col clima, ora stiamo lavorando
per porvi rimedio». Alla conferenza di Parigi, il Brasile porta «un
ambizioso contributo», illustrato
dalla presidente Rousseff, accompagnata dal ministero degli Esteri
Mauro Vieira e dalla ministra
dell’Ambiente, Izabella Teixeira.
La presidente ha già illustrato gli
obiettivi del Brasile lo scorso 27
settembre, davanti all’Assemblea
generale delle Nazioni unite: ridurre le emissioni di Co2 del 37%
per il 2025 rispetto ai livelli del
2005, uno sforzo che potrebbe arrivare al 43% per il 2030. Per questo, il paese ha promesso di riservare alle energie rinnovabili –
compresa a quella idraulica – il
45% della copertura energetica totale: più della media globale, che
è del 13%. Rousseff ha anche assicurato che, nel prossimo decennio fermerà del tutto il disboscamento illegale dell’Amazzonia e
conterrà le emissioni provocate
dalla deforestazione autorizzata.
Entro il 2025, il Brasile conta inoltre di recuperare circa 12 milioni
di ettari di terreno degradato. Ma,
dopo il disastro di Minas Gerais,
dovrà raddoppiare gli sforzi.
IN PIAZZA A CASAL DIM PRINCIPE, NELLA TERRA DEI FUOCHI LAPRESSE
mento,
nell’Ue
provocano
403.000 vittime all’anno: nel
2013, secondo l’Oms, l’87% della
popolazione urbana europea ha
respirato concentrazioni di Pm
2.5 superiori ai limiti consentiti.
L’epicentro dell’ecatombe è come sempre il territorio della pianura padana per la sua conformazione orografica, con le aree intorno a Torino, Milano, Monza e
Brescia che superano il generoso
limite della Ue che fissa la soglia
a una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria (Venezia lo sfiora
appena). In realtà i gas mortiferi
uccidono ben al di là della pianura padana se è vero che l’Oms raccomanda una soglia massima di
emissioni di 10 microgrammi e
che presto queste soglie di allarme dovrebbero essere riviste al ribasso: Roma, Firenze, Napoli, Bo-
logna e Cagliari sono abbondantemente oltre.
«Nonostante i continui miglioramenti registrati negli ultimi decenni - ha dichiarato il direttore
esecutivo dell’Aea Bruyninckx l’inquinamento atmosferico interessa ancora la salute generale degli europei poiché riduce la loro
qualità della vita e l’attesa di vita.
Ha anche effetti economici considerevoli, aumentando le spese
mediche e riducendo la produttività per i giorni di lavoro persi».
Gli inquinanti atmosferici possono causare o aggravare diverse
patologie cardiovascolari e polmonari (infarti e aritmie).
Queste sono giornate parigine
di grandi appelli alla responsabilità per salvare il pianeta e i suoi
abitanti, ma è improbabile che il
rapporto dell’Aea costringa la Ue
ad imporre limiti più rigidi sulle
emissioni dei veicoli inquinanti:
ultimamente proprio l’Europa ha
proposto di rivedere al rialzo lo
sforamento fino al 210% nelle
emissioni di ossidi di azoto nei
test delle auto Euro 6 (solo l’Olanda ha rifiutato la proposta).
Eppure ormai esiste una vasta
letteratura scientifica sugli effetti
nocivi e sui costi dell’inquinamento atmosferico che si spingono ben oltre il dato sulle morti
premature per malattie polmonari e cardiache. Secondo uno studio dell’università del Montana
reso pubblico la scorsa primavera da una rivista di psichiatria
americana durante la conferenza
di Haifa, polveri sottili e idrocarburi entrando nel circolo sangui-
gno potrebbero “inquinare” alcune funzioni del cervello e contribuire a generare depressione e
psicosi. Tra gli altri effetti accertati di alcuni composti chimici provocati dagli idrocarburi ci sarebbe anche la capacità di influire
sul sistema endocrino dei feti e
dei neonati aumentando il rischio di contrarre alcune malattie nel corso della vita adulta.
Ma piangere i morti quando
escono le statistiche non serve a
nulla se l’Europa continua ad agevolare la lobby dell’industria automobilistica senza investire sulla mobilità leggera. Bruno Valentini, sindaco di Siena e delegato Anci all’Ambiente, ieri ha chiesto
una conferenza nazionale sulla
L’Anci chiede
con urgenza
una conferenza
nazionale sulla
salute nelle città
salute nelle città. «E’ sempre più
urgente dotarsi in Italia di una
legge sulle città. Se avessimo responsabilità chiare e le risorse potremmo lavorare per avere città
con aria pulita, soprattutto con
piani di gestione del traffico e politiche della mobilità capaci di
cambiare questi trend. Chiederemo a tutte le istituzioni interessate risposte concrete rispetto alle
procedure di infrazione comunitaria cui è già esposto il nostro paese».
STORIA · Già nel 1988 alcuni governi, compreso quello italiano, decisero di istituire un Gruppo sui cambiamenti climatici
Quando la Confidustria guardava indietro
DALLA PRIMA
Giuseppe Cassini
Questa: è mai possibile
che le attività dell’uomo
influenzino il clima a un
punto tale da provocare un riscaldamento planetario? Tra quei pochi governi c’era quello italiano:
un suo diplomatico partecipò alla «costituente» e s’impegnò a finanziare l’Ipcc a nome dell’Italia.
Mai soldi furono meglio spesi.
Due anni dopo, nel 1990, uscì il
primo sudato Rapporto degli
scienziati. Pur con tanti forse, gli
scienziati suonavano un campanello d’allarme: «Le emissioni dovute ad attività umane stanno sostanzialmente accrescendo la
concentrazione atmosferica di
gas a effetto serra. Questi aumenti rafforzeranno l’effetto serra provocando un aumento della temperatura». Quindi gli scienziati
esortavano ad assicurarsi contro
questo rischio, come farebbe un
buon padre di famiglia, e comunque – aggiungevano – ridurre le
emissioni conviene sia all’economia che all’ambiente.
C’era una volta un governo che
guardava avanti: il 1° luglio 1990
il nostro Paese assunse la presidenza di turno della Ue. Due italiani - Ripa di Meana a Bruxelles
quale Commissario all’Ambiente
e Giorgio Ruffolo quale Ministro
a Roma - guidarono l’Europa verso un obiettivo ambizioso: impegnare tutti i Paesi membri alla stabilizzazione delle emissioni di
CO2 entro il 2000 ai livelli del
1990. Istituti di ricerca tra i migliori del continente furono chiamati
a dare una mano per calcolare le
rispettive quote nazionali di riduzione, ma il «motore di ricerca» rimase nelle mani dei due italiani.
Ruffolo, che presiedeva il Consiglio Europeo dell’Ambiente, andò a stanare nelle rispettive capitali i colleghi più scettici, che erano allora lo spagnolo, il britannico e il greco. Il 29 ottobre 1990, al
Consiglio Ambiente-Energia prolungatosi fino a notte fonda, la
presidenza compì il miracolo:
l’impegno comunitario era stato
approvato. Tuttora la base temporale di calcolo per l’abbattimento delle emissioni resta quello promosso nel 1990. Quota 90.
Pochi giorni dopo si aprì a Ginevra la prima conferenza mondiale
sul clima. A presiederla c’era anche un terzo italiano, o meglio
uno svizzero italiano: Flavio Cotti,
allora presidente della Confederazione elvetica.
Stavolta i Paesi refrattari erano
ben più numerosi, e guidati da potenze del calibro degli Stati uniti,
Russia, Cina e Arabia Saudita (per
conto dei produttori di petrolio).
Il trio Cotti/Ruffolo/Ripa di Meana lavorò di fino per far approvare
dalle 137 delegazioni presenti una
Dichiarazione ministeriale, che riconoscesse i cambi climatici come una «preoccupazione comune dell’umanità» e lanciasse il negoziato per una Convenzione
mondiale a tutela del clima. Si ripeté il miracolo e i tre italiani si
presero gran parte del merito.
All’affollata conferenza-stampa finale erano sul podio solo loro tre,
tanto che un giornalista americano chiese conto di quella «mafia»
(ma era solo un’allegra battuta di
spirito).
C’era una volta un governo che
guardava avanti: nel 1991 l’Ocse
dedicò una Conferenza ministeriale al tema delle fiscalità ecologica. I 25 ministri riuniti a Parigi
furono concordi nell’eleggere alla presidenza Giorgio Ruffolo. Fu
l’occasione per l’Italia di lanciare
lo spinoso dibattito sulla «carbon
tax«, in vista del Vertice della Terra programmato per l’anno dopo
a Rio de Janeiro. Che infatti ospitò il maggior assembramento di
capi di Stato e di governo mai visto (da George Bush a Fidel Castro, dal re di Svezia agli emiri del
Golfo, da Mitterrand a quaranta
capi africani), per decidere come
armonizzare gli imperativi di svi-
luppo con la tutela dell’ambiente
globale. Chi vi partecipò serba
memoria dell’infocato dibattito
che divideva i Paesi agiati dagli altri: come reperire nuove risorse finanziarie per garantire al Terzo
Mondo una crescita sostenibile?
L’Italia colse l’occasione per
proporre una formula avveniristica: introdurre nei 25 Paesi più industrializzati (area Ocse) una tassa energia/Co2 il cui gettito sarebbe stato ripartito in tre lotti: uno
per ridurre altre tasse in casa nostra, un altro per investire nelle
energie rinnovabili, un ultimo lotto per finanziare il trasferimento
di tecnologie ambientali ai Paesi
in via di sviluppo.
Con un terzo di quel modesto
tributo riscosso nell’area Ocse si
sarebbe risolto il busillis che assillava il Vertice. I grandi della Terra
applaudirono la proposta del ministro Ruffolo; un prestigioso
quotidiano inglese la definì una
delle poche idee concrete emerse
a Rio. Al Gore, prima di insediarsi
alla vice-presidenza degli Usa,
venne apposta in Europa per studiare le nostre proposte di «carbon tax» (che i petrolieri texani
costrinsero ad archiviare al suo ritorno in patria).
C’era una volta un governo che
guardava avanti, ma c’era una
Confindustria che guardava indietro. Il Vertice di Rio aveva risvegliato il mondo imprenditoriale più
avanzato. Un magnate canadese,
Maurice Strong, raccogliendo
l’eredità del Club di Roma promosse il Business Council for Sustainable Development, un’associazione di grandi industrie disposte a seguire la via dell’eco-efficienza in un’economia di mercato. Un loro libro che fece epoca
(«Changing Course») sosteneva
che «in un sistema di mercati aperti i prezzi devono riflettere anche i
costi ambientali» ed asseriva che
l’eco-fiscalità comporta «almeno
due vantaggi»: primo, riduce i costi aziendali di adeguamento alla
normativa ambientale; secondo,
incoraggia l’innovazione tecnologica. In appendice si narravano 38
storie aziendali di successo in termini di eco-efficienza (una sola
italiana).
Mentre l’Ue discuteva invano
sulla famosa tassa energia/Co2,
Paesi come la Germania, l’Olanda
e i Paesi scandinavi adottavano coraggiose riforme eco-fiscali e allo
stesso tempo conquistavano (per
coincidenza?) ingenti fette del
nuovo mercato delle tecnologie
pulite. Nel 1993 quel settore valeva circa 200 miliardi di dollari, la
Germania da sola ne aveva con-
quistato un quinto. Fu allora che
col nuovo ministro dell’Ambiente, Valdo Spini, decidemmo di organizzare a Fiesole un confronto
tra la Confindustria tedesca e quella italiana. Gli imprenditori tedeschi sbarcarono in forze, guidati
dallo stesso Ministro Toepfer; i nostri confindustriali inviarono da
Roma una sparuta rappresentanza di funzionari digiuni di business ambientale. Con questa indifferenza il settore privato italiana si
preparava al Protocollo di Kyoto.
Da quegli anni ormai lontani
in poi, la solfa è stata la stessa:
nei periodi di bassa congiuntura
il salto di qualità non si può fare
perché «si deprime l’economia
già stagnante»; nei periodi di alta
congiuntura la formica diventa cicala e si mette a cantare «scurdàmmoce o’ passato».
Nel frattempo il governo tedesco predisponeva un ambizioso
Programma Integrato Energia-Clima (il Programma di Meseberg, 2007) e la Francia lanciava
il piano di riforme noto sotto il
nome di «Grenelle de l’Environnement» (2008). Spagna e Danimarca erano diventate leader
dell’energia eolica. I rapporti
dell’Onu calcolano in milioni i posti di lavoro creati nel settore delle energie rinnovabili. L’Europa
avanzata raccoglieva la sfida ambientale come un’opportunità,
non come un peso. Invece l’Italia, che forse non ama esser troppo europea, rischiava di perder
l’occasione d’oro di saltare a gamba tesa dalla seconda alla terza
era industriale, grazie e non malgrado la crisi economica in corso.
C’era una volta un Paese che
guardava avanti. Forse camminava un po’ a tentoni, ma almeno
guardava avanti. In seguito si sono succeduti governi che, forse
per ascoltare la Confindustria,
guardavano soltanto indietro e incitavano il Paese a camminare
all’indietro. E ora, come intende
muoversi il Paese dopo l’appuntamento parigino?
pagina 10
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
CULTURE
MONDI BIOTECH
L’editing del genoma
IN FOTO, LA BIOCHIMICA
FRANCESE EMMANUELLE
CHARPENTIER
Luca Tancredi Barone
«È
un sistema efficiente,
economico e versatile».
Emmanuelle Charpentier, francese, non ha dubbi sulle
qualità della sua creatura: Crispr/Cas9, il meccanismo «semplice ma bellissimo», come dice lei
stessa, che assieme alla statunitense Jennifer Doudna ha scoperto, studiato e perfezionato e che
(come ha spiegato ai lettori del
manifesto il 6 novembre scorso
Andrea Capocci), rivoluzionerà la
biologia molecolare. L’abbiamo
incontrata a Berlino, dove era
una delle star dell’annuale incontro Falling Walls, giunto ormai alla sua settima edizione. Dal 2009,
esattamente venti anni dopo la
caduta del muro di Berlino, ogni
9 novembre questo meeting riunisce una ventina di esperti, sempre diversi, da tutto il mondo che
secondo gli organizzatori potrebbero abbattere qualche muro della conoscenza.
Charpentier che, assieme a
Doudna, in pochissimi anni dalla sua scoperta (avvenuta nel
2012), ha ormai collezionato decine di premi prestigiosi (gli ultimi due in ordine di tempo sono
premio L’Oréal-Unesco per le
donne e la scienza e il Princesa
de Asturias, il «Nobel» del mondo ispanico, entrambi assegnati
il mese scorso), è destinata decisamente ad abbattere un muro
scientificamente rivoluzionario.
È quello della «chirurgia genica
di precisione», come ha spiegato
nei quindici minuti che aveva a
disposizione a Berlino, città dove ormai vive, dopo che l’estate
scorsa il Max-Planck-Institut (il
principale ente di ricerca pubblica tedesco) l’ha nominata direttrice del nuovo Istituto di biologia delle infezioni.
Anche se le implicazioni economiche dell’impiego di una tecnica tanto efficace potrebbero essere enormi, lei ci tiene a sottolineare che la scoperta «è avvenuta grazie alla ricerca di base» e che «è
necessario convincere i governi
che devono fare ogni sforzo per
appoggiarla. Crispr/Cas9 è un
buon esempio di come la ricerca
di base, che noi chiamiamo anche ’blue-sky research’ (ricerca
sul cielo azzurro, ndr), su un oscuro meccanismo immunitario di
alcuni batteri possa portare a una
tecnologia molto potente». Dopodiché, afferma Charpentier, «la ricerca spesso conduce lungo un altro cammino, se si è aperti mentalmente». Fino ad arrivare a perfezionare un meccanismo di editing di genomi molto preciso, capace di individuare una sequenza specifica all’interno del Dna e
di sostituirla con un’altra successione di basi nucleiche a scelta.
«Oltre alla capacità di editare genomi – dice la microbiologa –
questa tecnologia si può utilizzare per modificare l’espressione genica e pertanto per studiare l’epigenetica». E aggiunge: «La comunità scientifica ha adottato la tecnica in maniera molto rapida perché è economica, facile da usare,
A Washington si apre il Summit
Internazionale sulle tecnologie
di modificazione genetica umana.
Un’intervista con Emmanuelle
Charpentier, la scienziata francese
che ha messo a punto il Crispr/Cas9
efficiente e versatile».
La questione chiave ora, sostiene Charpentier, è quella di assicurare che Crispr/Cas9 «riesca ad arrivare alle cellule e ai tessuti corretti per poter curare le malattie
più gravi; è la mia speranza per i
prossimi dieci anni». La scienziata pensa quindi a un rilancio della «terapia genica», basata sulla
possibilità di modificare il genoma di un paziente nel caso di malattie dovute a qualche tipo di difetto genetico: aveva ricevuto un
freno per i molti problemi tecnici
e il decesso di alcuni pazienti tra
la fine degli anni 90 e il primo decennio del secolo. «L’unico modo
di curare le malattie genetiche sarebbe quello di correggere la mutazione nel gene che causa l’anomalia. Se riuscissimo davvero a
farlo direttamente nel corpo del
paziente, e se potessimo verificare che tutto funzioni bene, che il
cambiamento nel genoma è stato
solo quello desiderato, sarebbe
uno strumento fantastico».
Il problema è che oggi l’efficienza della tecnica è ancora compresa solo fra l’1 e il 5% della popolazione cellulare, per stessa ammissione della ricercatrice. Proprio a
fine settembre, il principale competitor scientifico delle due ricercatrici (ed economico, visto che a
lui è stato assegnato il brevetto
della tecnica, anche se la decisione è stata da loro impugnata: presto il verdetto), il biologo sintetico Feng Zhang, ha pubblicato
una variante della tecnica che, secondo la sua opinione, permetterebbe di aumentarne l’efficienza.
Charpentier, nonostante il brevetto, definisce la sua tecnica come «democratica». Secondo lei
non è contradditorio. Innanzitutto perché, come in altri casi analoghi, «la tecnologia non appartiene agli scienziati ma ai batteri». E
poi, dice, «la questione del brevetto ha solo a che fare con la commercializzazione di alcuni aspet-
ti. Piaccia o non piaccia se c’è
una scoperta, c’è sempre un brevetto, soprattutto negli Usa» (dove si è svolta la maggior parte della ricerca, ndr). Anche se poi ammette: «Forse la scienza ha un
problema», in questo senso. Ma
assicura, «il brevetto è compatibile con la democrazia? Sì, tutti la
stanno usando liberamente nei laboratori. Nessuno deve chiedere
il brevetto se sta svolgendo solo ricerca. Persino Big pharma può
usarla gratis se il suo scopo è la ricerca».
Sull’argomento è previsto un
incontro a Washington (a partire
da oggi e fino al 3 dicembre), organizzato dalle National Academies
of Sciences statunitensi perché la
tecnica, data il suo enorme potenziale, suscita molte perplessità.
Primo, perché qualcuno maneggia l’ipotesi di manipolare embrioni umani o la linea germinale. Secondo, forse persino più grave, a parere di alcuni osservatori,
perché se si introducessero orga-
nismi con il genoma modificato
nell’ambiente – per esempio, si
sta già lavorando su una versione
della zanzara portatrice della malaria che bloccherebbe l’espansione del plasmodio, il parassita che
la trasmette – e in più, grazie alla
tecnica del «gene drive», la modificazione potesse trasmettersi a
tutta la popolazione molto più rapidamente di quanto non previsto dalle leggi di Mendel, il rischio di effetti indesiderati e imprevisti sull’ecosistema diventerebbe molto elevato. Per questo
l’incontro vedrà la partecipazione dei principali esperti del settore, fra cui la stessa Charpentier.
Ma è assai difficile che si arrivi a
una moratoria sull’uso della tecnica (come avvenne in passato in
casi analoghi) dato che gli interessi in campo sono troppo elevati.
«Sono in corso discussioni per
trovare un consenso internazionale su come utilizzare la tecnica», conferma la scienziata. «Prima di Crispr esistevano altre tecniche che facevano la stessa cosa,
ma erano meno efficienti. Questa, invece, è molto potente. Può
essere usata bene o male, esiste
una responsabilità etica per i ricercatori».
Il primo passo da fare secondo
Emanuelle Charpentier è quello
di «confrontare le diverse legislazioni nei vari paesi» così da poterle uniformare. «Forse – continua
– c’è anche un certo malinteso da
parte del pubblico su come davvero funzioni la tecnica, che è molto più pulita di quelle impiegate
sinora». Per superarlo, «bisogna
sedere intorno a un tavolo scienziati, clinici, intellettuali, eticisti e
Prima esistevano altre
tecniche per fare le stesse
cose, ma meno efficienti. Questa
è potente: chiama i ricercatori
a una responsabilità morale
il pubblico perché innanzitutto
capiscano il suo meccanismo,
che è una buona tecnologia e che
aiuta a studiare meglio come si
comportano i geni – e questo è
molto importante per lo sviluppo
della biomedicina». Ricorda poi
che, come microbiologa, ha lavorato su patogeni umani. «Sono
abituata come tutti i biologi a seguire regole etiche molto restrittive riguardo alle manipolazioni genetiche». E, pur ammettendo la
possibilità di un cattivo uso, aggiunge: «Sono convinta che i biotecnologi ne vogliano usufruire
per fini nobili.
Dopodiché, la manipolazione
delle linee germinali umani deve
essere discussa. Io personalmente spero che l’idea di utilizzare
Crispr/Cas9 per modificare caratteristiche umane non venga mai
portata avanti. Certamente dovremmo tutti essere d’accordo su
un suo utilizzo solo per fini preventivi o terapeutici, non per modificare caratteri ereditari. Il dibattito dovrebbe vertere intorno ad
alcune malattie, per le quali si potrebbe prendere in considerazione la manipolazione delle linee
germinali. Ma io sono molto scettica sull’idea di poter scegliere gli
embrioni che uno desidera».
IL SUMMIT · Sul tavolo americano, le norme bioetiche da condividere e il problema «brevetti»
Il Dna a rischio di (troppa) programmazione
A. Ca.
S
i apre oggi a Washington il Summit Internazionale sulle tecnologie di modificazione genetica umana. La conferenza, che si
concluderà il 3 dicembre, è organizzata dalle
Accademie delle Scienze di Stati Uniti, Cina e
Regno Unito per fare il punto sui recenti sviluppi dell'ingegneria genetica, legati soprattutto alla nuova tecnica denominata Crispr. Grazie ad
essa, modificare il genoma di una cellule, correggendo o «silenziando» geni difettosi è divenuto più semplice ed economico. Tuttavia,
non si parlerà delle grandi potenzialità di Crispr solo in chiave positiva. La facilità d’uso di
Crispr permette di realizzare sperimentazioni
anche pericolose, soprattutto in assenza di leggi e norme bioetiche condivise a livello internazionale. I timori riguardano soprattutto le possibili applicazioni sugli embrioni umani. Grazie
a Crispr, sembra più vicina la possibilità di «programmare» una cellula germinale a tavolino,
correggendo difetti genetici e aggiungendo varianti genetiche vantaggiose. Alcuni scienziati
hanno proposto una moratoria sulle sperimentazioni embrionali, per permettere all’opinione
pubblica di informarsi e discutere le possibili
conseguenze di questa tecnica. Ma le grandi società farmaceutiche hanno già iniziato a investire centinaia di milioni di dollari in questo campo, e sembra difficile fermarle. A Washington si
confronteranno i principali protagonisti della ri-
cerca su Crispr e metterli d’accordo non sarà
semplice. Ci saranno le due ricercatrici che hanno inventato il metodo, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna. Ma anche il loro rivale
Feng Zhang, lo scienziato che l’ha brevettata
dando vita a una controversia legale molto accesa. Ciascuno di loro, peraltro, ha fondato una
sua società privata per sviluppare applicazioni
commerciali basate sulla tecnica Crispr. A presiedere la conferenza sarà David Baltimore, Nobel per la medicina. Baltimore fu protagonista
negli anni 70 del dibattito sulle allora nascenti
biotecnologie. Grazie al suo contributo, alla
conferenza di Asilomar del 1975 furono stabilite le norme bioetiche e di sicurezza che hanno
governato finora la ricerca sul Dna.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
CULTURE
oltre
ADDIO ALLA SCRITTRICE FATEMA MERNISSI
La scrittrice e sociologa Fatema (nota anche come Fatima)
Mernissi è morta all’età di 75 anni. A dare la notizia
all’editore Giunti (che ne pubblicava per l’Italia i titoli) è stata
Jamila Hassoune, sua compagna di battaglie: organizzò
tutto
Alessandro Arienzo
I
n un suo scritto su Illuminismo e critica (Donzelli) Michel Foucault descrive la seconda come «una certa maniera
di pensare, di dire e anche di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa, con ciò
che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri». La
critica è l’«arte di non essere eccessivamente governati».
Il volume curato da Alessandro
Simoncini, Del pensiero critico. Filosofia e concetti per il tempo presente (Mimesis, euro 28) raccoglie
i contributi di sedici intellettuali
che pur interrogandosi su temi
differenti partono tutti dall’urgenza di comprendere criticamente
il presente. Del resto, se Marx ha
descritto la «miseria della filosofia», Gilles Deleuze e Felix Guattari ci hanno mostrato come la filosofia (ed eminentemente quella
critica) sia costruzione, invenzione e produzione di concetti «tra
amici». A scorrere le pagine di
questa raccolta si coglie come la
filosofia critica contemporanea
esprima una straordinaria ricchezza di analisi. Nella sua intro-
Il nodo del legame sociale
La prima parte del testo si muove, quindi, «nel campo del capitale», la seconda invece riflette sulla
politica come «mutamento». Il
contributo di apertura è di Michael Löwy dedicato ad un lungo
frammento di Walter Benjamin
sul capitalismo come «culto», come nuova religione che emerge
dalle ceneri del cristianesimo.
Quello del capitalismo come religione non rinvia solo alla questione delle origini del primo, ma anche al tema del capitalismo come
forma specifica di legame sociale.
L’importanza di Benjamin nel
contesto della riflessione filosofico-politica odierna, come filosofia critica, è discussa anche da
Massimiliano Tomba. Il testo di
Pierre Macherey, come quello di
Mario Pezzella nella seconda parte del volume, si soffermano invece sulla figura di Guy Debord e
sulla sua analisi della merce/spettacolo. In particolare il bel lavoro
di Pezzella riattualizza la categoria di spettacolare integrato per
tentare di cogliere le specificità
dell’autoritarismo contemporaneo e le sue fascinazioni.
In una raccolta di contributi
che deve fare i conti con Marx e le
tradizioni marxiste i lavori di An-
insieme all’autrice nata a Fès, nel 1940, la Caravane du
livre. Instancabile, creativa in ogni manifestazione del suo
agire intellettuale - che fosse un libro o una conferenza, un
corso universitario, un laboratorio di scrittura o un atelier di
lavoro per le donne marocchine delle aree rurali - Mernissi ha
SAGGI/1 ·Un volume collettivo curato da Alessandro Simoncini per Mimesis
Antidoti differenziati
al culto del presente
«BLAH BLAH BLAH» DI MEL BOCHNER LAPRESSE
selm Jappe e di Matteo Pasquinelli affrontano la questione del valore nell’analisi del sistema di produzione capitalistico. Jappe discute criticamente le tesi di
Sohn-Rethel sul denaro e sulla
sua natura; il lavoro di Pasquinelli
- invece - colloca nella rilettura
dei temi marxiani del valore e del
lavoro la necessità della conricerca come intreccio tra teoria e prassi di lotta. I contributi di Salvatore
Cingari dedicato a Gramsci, di Michele Filippini e di Federico Tomasello al «metodo operaista»,
quello di Damiano Palano su Ser-
gio Bologna, restituiscono quindi
uno spaccato interessante della
ricca varietà del pensiero critico
marxista italiano che nelle sue
molte varianti rivela la sua attualità.
La gran parte dei contributi del
volume sono comunque accomunati da un più o meno esplicito
esercizio di «critica dell’economia politica», sia come disvelamento della realtà produttiva e
della circolazione capitalistica,
sia come critica delle economie
simboliche, del desiderio e spettacolari che le accompagnano. Nei
saggi sono inevitabilmente riproposte e interpretate le tesi di autori come Foucault, Deleuze e Guattari nonché di Debord e dei situazionisti. In particolare, i contributi di Couze Venn e di Jason Read
si soffermano sul senso, e l’attualità, della categoria foucaultiana di
neo-liberalismo. In particolare,
Venn argomenta la necessità di integrare la lettura del passaggio
dal liberalismo classico al neoliberalismo con l’analisi dei processi
storici del colonialismo e dei processi di accumulazione di ricchezze che hanno operato come ban-
co di fondazione e di sperimentazione delle biopolitiche liberali.
Jason Read, invece, pone la propria attenzione sulla lettura foucaultiana dell’homo oeconomicus
per mostrare la necessità di far riferimento al tema marxiano della
sussunzione reale se si vuole cogliere come l’attuale sistema di
produzione capitalistico sia innanzitutto un sistema di produzione di soggettività. Il contributo
di Franco Berardi Bifo pone invece in questione in maniera estremamente diretta ed efficace l’attualità dell’impegno teorico di Deleuze e di Guattari richiamandoci
alla necessità di pensare la sofferenza dei singoli (la bomba psichica) ma anche di «abbandonare
l’esaltazione e la potenza liberatrice del desiderio e della sua espressione schizoide». Etienne Balibar
si concentra invece sulle aporie
del concetto marxiano di «politica», inteso come «fine della politica», che è inscritta in una lotta di
classe che estingue se stessa proprio nel suo realizzarsi.
Balibar discute innanzitutto
dell’equivalenza tra «lotta di classe» e «guerra civile» posta nel Manifesto, e sulle tesi diverse che appaiono nel Capitale, per argomentare che la lotta di classe sorge
sempre e immancabilmente, ma
«in forme impreviste e inattese».
Il confronto politico che soggiace
questo itinerario teorico è quello
con le tesi di Toni Negri e Michael Hardt sull’antitesi tra una «guerra civile mondiale» e le persistenti
e moltitudinarie resistenze che attraversano la società capitalistica.
Lungo questa scia di analisi Sibertin-Blanc, attraverso Deleuze, si
interroga sulle forme odierne dei
processi di proletarizzazione – come processi di costruzione di minoranze – e la possibile politica a
venire. Un volume ricchissimo di
spunti e contributi, quindi. Che
ha il pregio di restituirci il senso,
e la necessità, della filosofia politica come «critica» perché se la filosofia è produzione la critica è esercizio di libertà.
SAGGI 2 · «Perché i potenti delinquono» di Vincenzo Ruggiero per Feltrinelli
Il marchio di origine della ricchezza
Vincenzo Scalia
S
otto la definizione di crimini dei potenti,
rientra un ampio ventaglio di condotte,
da quelle economiche, come la bancarotta, l’aggiotaggio, il riciclaggio, la violazione
delle norme ambientali e di sicurezza, a quelle politiche, quali il genocidio, gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, le manovre occulte di potere. Questi comportamenti, lesivi della convivenza civile, non sempre suscitano il
panico morale e la reazione dell’opinione
pubblica, che preferisce concentrarsi sulla criminalità di strada o su tipologie criminali che
colpiscono l’immaginario, come la pedofilia
e i serial killer.
Vincenzo Ruggiero nel suo ultimo lavoro,
Perché i potenti delinquono (Feltrinelli, pp.
208, euro 18), suggerisce che la mancanza di
interesse verso i crimini commessi dai potenti va messa in relazione con una mancanza di
una spiegazione eziologica dei loro comportamenti criminali. La criminologia, di cui l’autore è uno dei massimi esponenti contemporanei, denota il limite congenito di concentrarsi
sul nesso tra condotte criminali e deprivazione: la mancanza di una famiglia, di un reddito fisso, la carenza di istruzione e di legami significativi, si trasformano, sotto questo aspetto, nelle cause della criminalità. Ai potenti soltanto lo studioso edwin Sutherland dedica
una certa attenzione, ma all’interno di una
specifica «criminalità dei colletti bianchi».
Per colmare questa lacuna, Ruggiero prova
ad andare oltre la criminologia, inserendosi
nel dibattito filosofico, politico e sociologico
della modernità per fondare una eziologia
del crimine fondata sull’abbondanza.
Il percorso tracciato dall’autore, si snoda in
tre direzioni. In primo luogo, bisogna analizzare la contraddizione tra forza e consenso. I
potenti, siano essi uomini di affari o carisma-
tici leader politici, emergono spesso e volentieri da violenti conflitti economici e politici,
come quelli alla base del capitalismo moderno. Muovendo dalla loro posizione di forza, si
pongono a fondamento di un ordine sociale
plasmato ad immagine e somiglianza dei loro
interessi, mirante a riprodurre gli stessi rapporti sociali che pongono i gruppi sociali subalterni in condizioni sfavorevoli e a legittimare le loro condotte prevaricatrici e oppressive perpetrate ai danni del corpo sociale. Tuttavia, avverte Ruggiero, la lettura marxiana risulta insufficiente a inquadrare le condotte
criminali dei potenti, nella misura in cui, pur
avvertendo il potenziale creativo dei robber
barons capitalsitici, non ne coglie la capacità
La genesi della criminalità
economica e dell’esercizio
deviante dello Stato
per riprodurre e legittimare
il potere nella società
di legittimarsi attraverso la creazione di consenso. A questo scopo, tornano più utili Hannah Arendt e Michel Foucault. La prima quando evidenzia la capacità da parte dei potenti
di creare un apparato legislativo a loro immagine e somiglianza e di allargare la loro auto-legittimazione al resto della società. Il secondo quando inquadra il potere come il prodotto di una relazionalità diffusa, che si riproduce dal basso verso l’alto e viceversa.
Il primo esempio concreto che ci viene in
mente riguarda le fortune di Silvio Berlusconi, che non sarebbe rimasto in auge tanto a
lungo senza la produzione di una verità che
permetteva ad ampi strati sociali di identificarsi nella sua figura.
pagina 11
saputo incrociare gli sguardi e i linguaggi. Fra i suoi libri, «La
terrazza proibita» (che raccontava la realtà dell’harem),
«Islam e democrazia» dove spiegava le varie correnti di
pensiero del mondo musulmano, «Karawan. Dal deserto al
web» (2004), «Le 51 parole dell'amore» (2008).
La guerra civile mondiale
I mille fiori della critica
al capitalismo
in una rassegna
dedicata alla filosofia
contemporanea
duzione Simoncini si sofferma soprattutto sulle differenze che segnano i tanti rivoli del pensiero
critico novecentesco - prevalentemente ma non esclusivamente
marxista - e di quel complesso
plurale di riflessioni che, magari
proprio a partire da Marx, hanno
posto in questione la più tradizionale critica politica socialista e comunista.
Il volume ha come punto di partenza comune a tutti i contributi
quel dominio del capitale che
«conserva ed espande la propria
capacità egemonica confermando - e per molti versi approfondendo - le contraddizioni relative
al dominio dell’uomo sull’uomo
e dell’uomo sulla natura, oltre
che le persistenti gerarchie di classe, di genere, di «razza»». Tuttavia, se il capitale si è dato - e ancora si dà - come un «rapporto sociale tra persone mediato da cose»
che ha per fine la propria auto-valorizzazione, le metamorfosi nei
processi produttivi e della valorizzazione capitalistica impongono
un nuovo sforzo intellettuale di
comprensione dell’oggi senza il
quale nessuna prospettiva politica può emergere.
il manifesto
In secondo luogo, bisogna focalizzare l’analisi sul contrasto tra la razionalità rispetto allo
scopo e quella rispetto al valore, che, da Max
Weber in poi, è stata individuata come l’elemento connotante l’azione sociale, e in particolare quella degli attori economici. Per quanto ogni comportamento umano è impregnato di elementi valoriali, che si riflettono nelle
leggi, nelle dichiarazioni di intenti e nei protocolli etici, la molla del capitalismo è costituita, in ultima analisi, dalla ricerca del profitto,
vale a dire di quegli spiriti animali che Adam
Smith poneva al centro della crescita delle nazioni.
L’egoismo individualista, secondo i liberali, finisce sempre, in un processo a lungo termine, per creare vantaggi a tutta la collettività. Si rivela insensate, di conseguenza, ogni
tentativo di criminalizzare, stigmatizzare o limitare la ricerca del massimo dei benefice da
parte del singolo, in quanto si finirebbe per
mettere a rischio la crescita della comunità
stessa. È proprio in nome di questi interessi
che oggi si accetta il deterioramento dei diritti e delle condizioni dei lavoratori, contrabbandando per strumenti di crescita le sistematiche violazioni dei diritti.
Infine, nota Ruggiero, la riproduzione dei
comportamenti criminali dei potenti non si
darebbe senza l’esistenza di un livello orizzontale di complicità, laddove si formano
quelle reti che consentono non soltanto di
elaborare i comportamenti devianti, ma anche di trasmetterli, giustificarli e diffonderli.
Si torna nuovamente alla questione dei rapporti forza: se i potenti dispongono di una
compattezza che allo stato consente loro di
creare consenso sociale attorno alle loro condotte, lo stesso non si puo’ dire dei gruppi subalterni, che si trovano a combattere col mancato riconoscimento della loro soggettività. È
in questa direzione che bisogna lavorare.
VILLA MEDICI A ROMA
La nuova direttrice
Muriel Mayette Holtz
sceglie le porte aperte
Arianna Di Genova
U
na casa per gli artisti, dove
a spartirsi gli spazi siano le
nuove creazioni, di qualsiasi disciplina, purché in grado di
spalancare mondi, assumersi la responsabilità del presente, respirando l’aria dell’attualità e insieme
guardando agli esperimenti dei
grandi maestri del passato. E per fare questo, per combattere contro i
fantasmi di un’Europa (e non solo)
attraversata da lunghe guerre e dalla paura per la propria sicurezza, si
può andare controtendenza. Non
chiudendo e blindando l’Accademia di Francia, ma lanciando un
progetto che prevede le «porte
aperte», ogni giovedì, in incontri
cadenzati con personaggi della cultura, rigorosamente gratuiti per il
pubblico. Ed è la parola «pubblico» la chiave di lettura migliore per
capire l’orientamento della direttrice di Villa Medici a Roma: Muriel
Mayette Holtz, prima volta per
una donna alla guida dell’istituzione, viene dal teatro, dove è stata attrice, regista e amministratrice generale della Comedie Française.
Per lei, l’arte esiste solo se trasmessa a qualcuno, altrimenti rischia di
essere un solitario esercizio di stile.
Il suo mandato romano, che arriva in un momento importante (sia
per i fatti politici che coinvolgono
la Francia, sia per il 350/mo anniversario da festeggiare), lo interpreta a modo suo: «Mi piace la scritta,
l’ossimoro che si trova sotto l’obelisco, ’affrettarsi lentamente’, questo anno sarà così. E tutto si svolgerà all’insegna di una condivisione
dei progetti con i borsisti». Mayette Holtz presenta le attività dell’Accademia in un frizzante italiano
mescolato al francese e questo
métissage linguistico sarà una linea-guida anche dei giovedì di discussione sulle arti (fra i primi ospiti, Valeria Bruni Tedeschi e Salvatore Settis). Il programma è intenso:
dopo la mostra di Balthus ci sarà
quella di Yan Pei Ming (dal 17 marzo), ex pensionnaire negli anni Novanta, mentre le opere dei borsisti
saranno esposte in autunno, a Roma e a Parigi, senza escludere altre
destinazioni più lontane. La direttrice di Villa Medici è determinata
a togliere qualsiasi steccato. Niente più liste di discipline (ormai tutto è fluido nella creatività), né bandi con limiti di età perché l’intreccio di generazioni e il passaggio
della sapienza è sempre un terreno fecondo: ad accompagnare i
borsisti nel loro soggiorno ci sarà il
paleontologo Yves Coppens.
La maison degli artisti, inoltre,
mira a trasformarsi in una sorta di
fondazione autonoma così da poter accogliere finanziamenti e stringere partenariati (per ora può contare su circa sette milioni di budget). Muriel Mayette Holtz sembra
avere bene in mente l’idea che la
cultura sprigioni energie che devono circolare liberamente. Va quindi «illuminata» con giochi di luce
realizzati da professionisti, celebrata con feste (per esempio quella
per la ricorrenza dei 350 anni in
febbraio, con tanto di ballo in maschera), soirée di cinema all’aperto
e una Notte bianca in ottobre, con
concerti e performance nella cornice dello splendido giardino.
pagina 12
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
VISIONI
Cinema • La visione panica della natura e dell’uomo in «Triokala», l’opera prima
dell’esordiente Leandro Picarella presentata nel concorso internazionale di Filmmaker
Se il tempo si dilata
tra nebbia e terra
tempo e che trascina il film, e i ragazzi curati da Zu Emanué, nella sequenza-simbolo di questa sinfonia
di laica sacralità e che ha per protagonista il demone di cartapesta U
Diavulazzu, bruciato, il giorno della
festa dell’Immacolata, da un fuoco
pagano, che ricorda, anche per ritmi tribali, il rogo dei bimbi de Il segreto di cyop&kaf.
Nel silenzio del mattino seguente,
gli echi della messa in scena vengono riassorbiti dal ciclo naturale in
una ronde di elementi primari dove
lucrezianamente «il nascere si ripete di cosa in cosa» come l’arsenale
di segni offerti dal paesaggio che Picarella utilizza per riflettere anche
sulla consistenza del linguaggio cinematografico e sulle potenzialità
di una macchina da presa che esprime il desiderio continuo di una presa di contatto e di congiunzione con
il creato, nelle sue coniugazioni tanto eteree quanto carnali.
Sullo stato di porosità fra passato
e presente, che contamina anche il
tessuto narrativo, si adagia anche
Anapeson di Francesco Dongiovanni, autore amato da Filmmaker presente lo scorso anno con Giano sempre nel concorso Prospettive. Il suo
nuovo cortometraggio fornisce coordinate storiche e sentimentali per
tracciare un percorso filmico di «mise-en-trance», d’ipnosi sensoriale e
di scrittura come referente principale del linguaggio cinematografico,
traducendo in immagini odierne i
racconti settecenteschi dell’entroterra pugliese, raccolti dal conte-bota-
S
ull’antropomorfismo delle nuvole e della vegetazione che
imprigiona gli antichi resti di
Triokala, la città che dà il titolo al
film d’esordio di Leandro Picarella
presentato nel Concorso Internazionale a Filmmaker, lo sguardo
del regista siciliano sembra subito
cercare uno specchio possibile di
raccordi fra passato e presente con
la nostalgia di una visione panica
della natura in cui l’uomo ha/aveva
una simbiosi con gli altri esseri viventi a livello di istinti e sensazioni.
Arroccata, per tradizioni e sacralità,
sulle rovine della città greca, sorge,
in provincia di Agrigento, Caltabellotta, una manciata di abitanti ai
piedi di un Pizzo, dove il velo della
nebbia sottrae al concreto, terra apparentemente cristiana sovrastata
da un cielo pagano ammantato di
foschia e nubi.
A partire dalla citazione program-
Il regista siciliano
cerca uno specchio
possibile di
raccordi fra
passato e presente
matica da I grandi iniziati di
Edouard Schourè, sulle leggi cicliche della natura, il regista siciliano
guarda al cinema rapsodico di Franco Piavoli, che ha gentilmente prestato i suoi obiettivi, ma anche a Godard e alla sua indagine sul mistero
dell’impalpabile, in film come Passion e Je vous salue Marie, mentre il
paesaggio, fin dalle prime inquadrature, sembra assoggettarsi a una
struttura rigorosa, a simmetrie perfette, al contrasto fra elementi orizzontali e verticali ma, amplificando
i suoni del mondo, gli unici ancora
in grado di tramandare il sapere ancestrale, Picarella conferisce all’ordinario un senso elevato, al quotidiano un aspetto misterioso e al noto la
dignità dell’ignoto. Il regista siciliano apre il suo sguardo anche al pre-
sente della piccola città, alle strade
scolpite nella roccia e squarciate dalle marmitte dei motorini, ai suoi abitanti ebbri di sole alle prese con la
raccolta delle olive. Piccoli brani di
vita del locus amoenus introducono
anche l’esistenza dell’arcano Zu
Emanué, in apparenza semplice
contadino circondato da animali fe-
In «Anapeson»
vengono tradotti
in immagini antichi
racconti pugliesi
del settecento
un contatto terreno, un equilibrio
fra i contrasti di un racconto passato di follia e l’eterno presente di una
donna.
L’occhio di DER Sabina sembra
aprirsi per la prima volta, scoprire
un nuovo mondo, regalare, con affettuosa ispezione, un sogno incontaminato di normalità alla mente
della protagonista per poi quasi rinunciare all’utopia e rinchiudersi in
una cucina «abitata» come tante altre. Ma è sempre la parola dello spaesamento a uniformare gli ambienti, ad ammantare di cul-de-sac un
mondo mentale chiuso nell’atemporalità e la camera non può che vagare nuovamente, cercare altri appigli
di speranza in un gesto registico di
rara adesione e di infinita dolcezza.
DUE IMMAGINI DA «TRIOKALA» DI LEANDRO PICARELLA, SOTTO IL REGISTA ISRAELIANO TOMER HEYMANN
Cecilia Ermini
MILANO
nico svizzero Carl Ulysses von Salis-Marschilins, in Viaggio nel Regno
di Napoli, durante un soggiorno
presso il Casino del Duca della nobile famiglia Caracciolo-De Sangro, a
San Basilio in provincia di Taranto,
masseria fortificata nel 1600, oggi depredata dal tempo.
A partire dal titolo, che simboleggia una contaminazione delle dimensioni temporali, la camera di
Dongiovanni disegna traiettorie e
panoramiche nello spazio in rovina,
tracciando geometrie per ristabilire
i legami, non solo di tempo, con le
mappe e i bestiari custoditi nella biblioteca di Martina Franca che sembra contenere, anche nei movimenti di un lento carrello, tutta la memoria di un mondo fatalmente fagocitato. In Anapeson, solo la natura sembra voler combattere, con il suo ciclo infinito, la memoria degli uomini e delle cose, vivacizzando di vento i terreni circostanti e sbirciando,
fra i muri in rovina, con fiori, erbe e
luce la cecità contemporanea. Anche in Giungla dell’artista visiva DER
Sabina, ancora nel concorso Prospettive, possiamo percepire gli stessi spaesamenti fra parole e immagine ma qui la camera «primordiale»
della regista cerca, con l’affanno di
stosi ma nella realtà uno degli ultimi
eredi della misteriosa, settecentesca
istituzione dei cirauli, maghi e guaritori capaci di alleviare le sofferenze
fisiche grazie alla pranoterapia e a
uno speciale balsamo ottenuta dalla
frittura di vipera. Presso la sua dimora, braccianti trovano il sollievo di
una medicina atavica che dilata il
FESTIVAL DEI POPOLI · Tomer Heymann racconta nel suo film la storia del coreografo israeliano Ohad Naharin
«Mr. Gaga e l’ossessione della danza»
Giovanna Branca
FIRENZE
N
el 1998 si tenevano a Gerusalemme
le celebrazioni per il cinquantennale della nascita dello Stato di Israele: tra gli spettacoli in programma c’era
Anaphasa della Batsheva Dance Company
diretta dal coreografo e ballerino Ohad
Naharin, che ritirò la sua creazione all’ultimo minuto dopo la richiesta del presidente di allora, Ezer Weizman, di censurare un
passaggio in cui i ballerini restavano in mutande, facendogli indossare qualcosa di
più decoroso che non offendesse la comunità ortodossa. Un gesto clamoroso, che
metteva a nudo proprio nell’anno del giubileo una pesante contraddizione del laico
Stato di Israele, e a cui seguirono forti proteste in favore della libertà di espressione.
A quei tempi, Naharin era già una star, tornato in patria 8 anni prima per dirigere la
compagnia di ballo nazionale dopo aver
raggiunto il successo a New York. La sua
storia è raccontata in Mr. Gaga del regista
Tomer Heymann, passato al BFI London
Festival, all’IDFA e che ha recentemente
aperto il Festival dei Popoli di Firenze.
Mr Gaga alterna momenti dei suoi spettacoli alle testimonianze dei colleghi, ma
soprattutto alle immagini d’archivio provenienti dalla collezione dell’artista, che nel
corso del tempo ha registrato ore di filmati
della sua vita privata e lavorativa. Una pratica che lo accomuna al regista del film, il
cui lavoro precedente – The Queen Has No
Crown – era interamente composto da filmini familiari in Super8 con cui metteva a
nudo le sue esperienze più intime e dolorose, dal rapporto sofferto con l’amatissima
madre a quello con l’altrettanto amata patria, in cui la sua omosessualità gli è costata delle dure discriminazioni. Come il sessantatreenne Naharin, Heymann (classe
1970) è nato «in un piccolo posto, lontano
dal centro di Tel Aviv», e ancora come lui –
«che da adolescente non pensava a diventare un ballerino» – ha scoperto tardi la
sua vocazione per il cinema.
Cresciuto in un Kibbutz, Naharin attraversa la guerra dello Yom Kippur da intrattenitore» delle truppe, ma poi la madre lo
iscrive a una scuola di ballo, e dopo poco
viene reclutato dalla compagnia di Martha
Graham. E così appena ventenne si ritrova
a New York, dove la sua vocazione per la libertà lo porta ad abbandonare la scuola di
ballo più prestigiosa dell’epoca per intraprendere la sua strada. Fonda così una
compagnia, approfondendo al contempo
il suo stile personale di danza (il gaga appunto). Ma per potersi realmente esprimere, dice, doveva tornare a casa, e così accetta di dirigere la Batsheva.
L’ultimo lavoro di Naharin documentato da Heymann è del 2015 e si chiama proprio The Last Show, l’ultimo spettacolo.
«Perché – spiega il ballerino - potrebbe esserlo davvero: questo governo mette in pericolo non solo il mio lavoro ma l’esistenza
di tutti noi in questo paese che amo così
tanto». Un paese ora «infestato da razzisti,
fanatici e abusi di potere».
Come è nata l’idea di girare un film su
«Mr. Gaga»?
Credo che il motivo stesso per cui sono
diventato regista fosse la mia ossessione di
poter fare un giorno un film su Naharin.
Venticinque anni fa mio padre mi ha invitato a vedere una performance della Batsheva Dance Company, dicendomi che
era arrivato un nuovo direttore che pensava mi sarebbe piaciuto. All’epoca non ero
ancora consapevole di essere omosessuale, e gli ho risposto che la danza era una cosa noiosa per persone gay o vecchie. Lui
mi ha detto che ero uno stupido, e mi ha
obbligato ad andare. Non dimenticherò
mai l’impatto emotivo che lo spettacolo ha
avuto su di me, è stato quasi fisico. Per una
settimana intera sono andato a vederlo
ogni sera, e da allora non mi perdo un suo
solo lavoro.
Quando è stato possibile trasformare
l’ossessione in realtà?
Qualche tempo dopo ho iniziato a frequentare la scuola di cinema di Tel Aviv,
ma per anni Ohad ha rifiutato di farmi entrare con la videocamera nella palestra dove si fanno le prove. Era ideologicamente
contro l’idea di documentare il suo lavoro,
di immortalare un momento: dice sempre
che la danza è fondata sul suo stesso svanire. Poi finalmente l’ho convinto a far entrare me e la mia crew nel suo studio. Spesso
ci cacciava dopo pochissimo, ma ero così
entusiasta che alla fine ci ha dato il permesso di fare il film. Siamo anche riusciti a farci consegnare tutto il materiale d’archivio:
centinaia di ore di registrazioni su nastro,
mai visionate da nessuno. Ero sorpreso
che così tanti momenti bellissimi, complicati e fragili della sua vita sia personale che
artistica fossero stati registrati.
E questa è una similitudine tra di voi.
Forse Ohad ha deciso di fidarsi di me dopo aver visto ciò che ho fatto con filmati
molto privati della mia vita e della mia famiglia in The Queen Has No Crown. Sono
fermamente convinto che se vuoi raccontare la storia di qualcuno devi scavare nel
tempo. E per molti anni Ohad non ha fatto
altro che dirmi «non ti parlerò del passato:
possiamo parlare del presente, ma in una
manciata di secondi diventerà anch’esso
passato. E dovrai fartelo bastare». Ma ovviamente non era abbastanza per me.
Vi accomuna anche un rapporto d’amore
conflittuale con il vostro paese...
Mi ritrovo nella sua idea per cui non c’è
contraddizione tra il piangere la scomparsa di qualcuno che ti è caro e ballare. E lo
stesso vale per Israele: lo si può criticare
aspramente in termini politici e al tempo
stesso amarlo profondamente.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
il manifesto
VISIONI
COLDPLAY
Forse è l’ultimo disco della band, e per andare sul sicuro Chris Martin e
soci mettono a punto per «A Head full of Dreams» - in uscita venerdì 4
dicembre - undici canzoni dall’inconfondibile tocco pop che li caratterizza
dagli esordi e zero rock. Niente sorprese, meno tormenti rispetto al
Giulia D’Agnolo Vallan
NEW YORK
C
ondoglianze alle famiglie
dei morti e banalità sulla violenza è stato tutto quello
che i repubblicani aspiranti alla Casa bianca 2016 hanno offerto in risposta alla tragedia avvenuta venerdì a Colorado Springs. Una sparatoria dove hanno perso la vita 3
persone e intorno alla quale ruotano due «cause sacre» su cui i 14
candidati del Gop hanno posizioni
unanimi – l’opposizione all’aborto
(teatro dello scontro armato è stata una sede locale del consultorio
femminile Planned Parenthood) e
quella al controllo delle armi. Si sa,
il terrorismo domestico è cosa meno facile da sfruttare mediaticamente di quello che viene
dall’esterno, specialmente se è vero che – come ha suggerito un portavoce di PP- il presunto responsabile dell’attacco alla clinica è stato
ispirato da video diffusi dal movimento antiabortista in cui impiegati di Planned Parenthood starebbero discutendo la vendita di tessuti
fetali (la veridicità dei video è stata
smentita da un’inchiesta, ma il loro mito permane).
Gli stessi candidati repubblicani
non hanno dimostrato analoga
prudenza quando si e trattato di reagire ai fatti di Parigi. Oltre alle dichiarazioni pubbliche, gli attentati
dell’Isis nella capitale francese hanno costituito l’occasione per la
messa in circolo di un’infornata di
spot intesi a provare le rispettive
credenziali antiterrorismo e il polso duro in politica estera. Sintetico
e sobrio (il senso di minaccia è affidato all’illuminazione chiaroscuro
e al copy) il primo spot tv nazionale rilasciato dalla campagna di Marco Rubio – 30 secondi in primo piano in cui il 44enne senatore della
Florida -giacca nera su fondo nero,
cravatta rossa e spillina con la bandiera Usa- è un misto di gravitas e
risolutezza: - «Questa è una lotta
tra civilizzazioni….Quello che è
successo a Parigi potrebbe succedere qui…Non può esserci accor-
Spauracchio del
terrorismo e polso
duro in politica
estera, così si
combatte sui media
do o trattativa. O vincono loro o
vinciamo noi».
Più pesanti quasi tutti gli altri, a
partire da Chris Christie il cui Political Action Committee, America
Leads, ha creato uno spot che
combina girato dai campi di addestramento di terroristi islamici,
un’intervista a Obama che (poco
prima di Parigi) afferma che l’Isis
è «in via di contenimento», Hillary
mentre dice che «la battaglia contro l’Isis non può essere solo americana» e Christie – su immagini
dagli attentati di Parigi - che tuona: «Questo presidente e Hillary
Clinton hanno reso l’America più
vulnerabile. Il paese è stanco di
un debole nell’Ufficio ovale. Dobbiamo smettere di voler essere
amati e tornare a farci rispettare».
Secondo forse solo allo spot di
Carly Fiorina (due minuti e passa
di terroristi armati a bordo di camionette, in cui l’ex CEO della
Hewlett Packard sentenzia: «è ridicolo dire che l’effetto serra è il
maggior pericolo a cui ci troviamo
di fronte») per l’uso spregiudicato
delle immagini di repertorio, lo
spot di Christie avrebbe già dato i
suoi risultati in New Hampshire,
dove America Leads lo ha diffuso,
acquistando mezzo milione di dollari in spazi pubblicitari. Sabato, il
«New Hampshire Union Leader»,
uno dei più influenti giornali dello
stato che sarà teatro delle primarie, il 9 febbraio prossimo, ha annunciato l’endorsement di Chris
Christie, «l’uomo giusto per questi tempi pericolosi».
«Siamo in guerra con il terrorismo radicale islamico», avvisa allarmato anche Jeb Bush in un discor-
precedente «Ghost Stories» (fra i maggiori hit del 2014) e un parterre di
super ospiti. Registrato tra Malibu, Los Angeles e Londra, prodotto dal duo
norvegese degli Stargate insieme al fido Rik Simpson, propone atmosfere
stilose da perfetto airplay da fm, e il successo radiofonico del singolo
«Adventure of A Lifetime» - con una chitarra malandrina che entra in testa
USA · Sfida elettorale fra i candidati repubblicani su tv, radio e web
Battaglia a colpi di spot
per la Casa bianca
pagina 13
e non ti lascia più, è lì a testimoniarlo. Tante guest star, la ex del leader
Gwyneth Paltrow («Ghost stories» era la cronaca di un divorzio, qui i toni
sono molto, molto concilianti...), Beyoncé, Noel Gallagher, Tove Lov, Mery
Clayton. «Kaleidoscopie» è forse il pezzo migliore, dove - per la cronaca viene campionato anche un Obama ’canterino’ su «Amazing Grace».
PREMI UBU · Trionfo per Luca Ronconi
Consegnati al Piccolo Teatro Grassi di via Rovello i Premi Ubu per il teatro, decretati dai voti di una giuria di 54 referendari, tra critici e studiosi teatrali. «Migliore spettacolo dell’anno» è «Lehman Trilogy» – drammaturgia di Stefano Massini, regia di Luca Ronconi - l'ultima creazione del maestro scomparso lo scorso febbraio. Lo spettacolo è anche Premio Ubu, come «nuovo testo italiano o
ricerca drammaturgica», per il lavoro di scrittura e ricostruzione di Stefano Massini. «Miglior regia» Massimiliano Civica per lo spettacolo «Alcesti», adattamento da «Euripide», messo in scena per Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due.
Il premio al «Miglior progetto artistico o organizzativo», è stato vinto dal Progetto Ligabue Arte marginalità e follia a cura di Mario Perrotta. Pari merito per il
premio al «Miglior allestimento scenico»: Romeo Castellucci per «Go Down,
Moses» e Marco Rossi per «Lehman Trilogy». «Miglior attore» e «Miglior attrice»,
sono rispettivamente: Massimo Popolizio per la sua interpretazione in «Lehman
Trilogy» e Monica Piseddu in tre spettacoli: «Alcesti» di Massimiliano Civica,
«Natale in casa Cupiello» di Eduardo De Filippo e «Ti regalo la mia morte».
PRIMA · Il doc di Pagano domani in sala
Volti dell’Islam
nei vicoli di Napoli
Silvana Silvestri
D
SOPRA TED CRUZ, FOTO GRANDE UNA SCENA DELLO SPOT ELETTORALE
so tenuto a The Citadel, l’accademia militare di Charleston, nello
spot che il suo Super Pac, Right to
Rise Usa, ha montato su immagini
di terroristi armati fino al collo.
Con un investimento di 19.5 milioni di dollari in pubblicità solo in
Iowa (il caucus locale si terrà il primo febbraio), New Hampshire e
South Carolina (primarie il 20 febbraio), Right To Rise USA e la campagna di Jeb Bush, tra i repubblicani, sono quelli che per ora hanno
speso di più in pubblicità.
Dalla parte opposta dello spettro della spesa (insieme agli altri
candidati che non vengono da una
carriera in politica, come Carly Fiorina e Ben Carson) è Donald
Trump. Forte della pubblicità gratuita che gli arriva grazie alle dichiarazioni razziste e xenofobe
che rilascia regolarmente, Trump
(in testa a tutti i sondaggi in New
Hampshire) non ha speso nulla in
promozione pagata fino a un paio
di settimane fa, quando – subito
dopo Parigi- ha acquistato due
spot
radiofonici
(costano
meno…) in cui promette, oltre al
solito muro sul confine meridionale degli States, «bombardamenti
infernali» ai danni dell’ Isis.
In realtà il più suggestivo tra gli
spot repubblicani che usano lo
spauracchio del terrorismo, è arrivato già il settembre scorso, ed è
stato realizzato dalla campagna
del senatore texano Ted Cruz.
«C’è uno scorpione nel deserto»,
annuncia la voce di Cruz sull’immagine di uno scorpione che cammina su delle ossa semi seppellite
nella sabbia. «Noi sappiamo che il
suo veleno è una minaccia mortale. Altri non hanno il coraggio di
chiamarla per nome. Ma lo scorpione vuole la nostra distruzione.
Non è ora di riconoscerlo per quello che è?», continua la voce. Al che
si vedono entrare in campo i classici stivali da cowboy che indossa
sempre Cruz, e l’insetto arretra…
I trenta secondi sono la diretta
citazione di un famoso spot della
campagna presidenziale di Ronald Reagan, nel 1984, il cui ’incipit, «C’è un orso nel bosco» era riferito all’Unione Sovietica. Secondo i dati delle Federal Election
Commission, nei prossimi sessanta giorni, i residenti di Iowa e New
Hampshire saranno bombardati
da una quantità di spot (su tv, cellulari e internet, ..) che potrebbe
superare i 300 al giorno.
MUSICA · Ian Bostridge porta Schumann e Britten nel recital romano
Lieder contro l’orrore della guerra
Andrea Penna
ROMA
U
na riflessione dolente e
misteriosa sull’orrore della guerra alla luce di una
personale visione della fede cristiana. Ecco il messaggio che si
evince da The Heart of the Matter
di Benjamin Britten, inconsueta
combinazione di musica e narrazione su versi di Edith Sitwell, realizzata nel 1956 per la presenza
della stessa poetessa al festival di
Aldenburgh, una sorta di cantata
al centro della quale si staglia la
struggente lirica Still falls the
rain, inserita da Britten nella raccolta Five Canticles . Nel presentare quest’opera di raro ascolto Ian
Bostridge ha ricordato il terrore
per i bombardamenti, cui allude
Edith Sitwell, il pacifismo di Britten e la drammatica attualità di
quelle parole.
Una conclusione amara e toccante per un concerto che sabato
scorso all’Aula Magna dell’Università ha entusiasmato il pubblico
dell’Istituzione Universitaria dei
concerti. Accanto a Bostridge, il
pianista Julius Drake e Alessio Allegrini, in forma smagliante e dal
gusto controllatissimo, la cui allarmante fanfara del corno punteggiava il brano britteniano, per un
programma che includeva i Liederkreis di Schumann, esecuzione
IAN BOSTRIDGE DURANTE UN’ESIBZIONE ALLA SCALA, 2012
febbrile e un po’ inchiostrata,
una bella scelta di lieder di Schubert fra cui Auf dem Storm, con il
corno, ma anche due pezzi per
corno e pianoforte di Schumann
e di Leone Sinigaglia, altro ascolto prezioso.
Un programma raffinato che
grazie alla notorietà di Bostridge
e Allegrini ha attirato un pubblico
folto, ricompensato con il bis di
un lied di Franz Lachner, ancora
col corno. Bostridge ha confessato di aver recuperato il brano di
Britten per insistenza del suo manager italiano per la prima esecuzione romana, ribadendo l’impor-
tanza di proporre i concerti di lieder: «In Italia faccio - spiega l’artista britannico - tanti concerti e sono sempre sorpreso per l’entusiasmo del pubblico. Ma naturalmente dietro c’è il lavoro di istituzioni coraggiose, specie piccole,
le associazioni degli amici della
musica». Ci si chiede cosa si possa fare per promuovere ancor meglio la liederistica: «Un impegno
costante e fiducioso, come hanno
fatto alla Wigmore Hall di Londra, che negli anni ha visto crescere i suoi concerti di canto fino agli
oltre novanta l’anno. Ma dovrebbe essere un obiettivo dei promo-
ietrofront. L’Uci che dopo gli attentati di Parigi
aveva deciso di posticipare all’anno prossimo l’uscita
di Napolislam, è tornata sui suoi
passi annunciando il film nelle
sale da domani. Sarebbe stato assai facile cadere nel macchiettisti e perfino nel sacrilego affrontando il tema dei convertiti
all’Islam napoletani. Invece il
doc compie un percorso in bilico per non farsi prendere dalle
indagini sulle superstizioni, su
San Gennaro o perfino sugli altarini a Maradona. L’ascolto è attento, rispettoso, pure se non
può fare a meno di qualche presa di distanza, sospensione di
giudizio. Si tracciano percorsi di
spiritualità in una società per lo
più pagana e non è cosa facile.
Specchio dei tempi, ci riporta anche a epoche remote poiché da
sempre il meridione è stato terra di approdi o di conquista:
non furono primi i troiani di
Enea, gli arabi con Federico II o
gli yankee della seconda guerra
mondiale. In questo caso si può
tori ovunque, in Usa, in Giappone e naturalmente in Germania,
l’origine di gran parte di questo
meraviglioso patrimonio: pensi ai
lieder per corno che abbiamo suonato con Allegrini, che è fantastico! Forse si devono mettere in
conto le sedie vuote, all’inizio,
ma poi il pubblico reagisce benissimo, se impara a conosce la musica splendida di Schubert, Schumann ma anche dei contemporanei». In Italia è uscito per i tipi del
Saggiatore la sua analisi racconto
sul ciclo Il viaggio d’Inverno di
Schubert, e ci si chiede se questo
è anche il suo intento di scrittore
e musicologo: «Mi sento sempre
un dilettante nel campo della critica e vorrei essere considerato un
divulgatore. Certo, se la nostra è
anche una professione intellettuale, la mia attività di scrittura resta
connessa con la mia carriera di
cantante. Spero di poter scrivere
presto anche un libro su Monteverdi ».
Un repertorio ricco ma che Bostridge non teme di ampliare: «Il
nostro è anche un mestiere molto
pratico: voli, viaggi, organizzazione di un numero preciso di spettacoli e concerti ogni anno. Alle volte gli incontri si fanno per caso,
come le melodie di Karol Szymanowski, che mi sono state proposte di recente e trovo bellissime. I
desideri non ancora realizzati,
una parte nell’Oro del Reno di
Wagner o Pélleas nell’opera di Debussy, sono pensieri che non mi
affliggono troppo, perché per fortuna ho davvero davanti a me tanti concerti e un pubblico che mi
ama, anche in Italia!».
vedere come la filosofia napoletana accolga tutte le culture con
paziente fiducia nella provvidenza divina, qualunque essa sia.
Basta che ci sia un paradiso alla
fine.
Agostino diventa Yassin, Giovanni Abdel, Claudia Zeymab.
C’è la fidanzata del ragazzo tunisino che sta compiendo un suo
percorso spirituale, lo spazzino
che andò alla Mecca in pellegrinaggio con la moglie musulmana quando la figlia si ammalò
gravemente, il signore di una
certa età che riempie il quaderno di caratteri arabi per poter recitare le preghiere in lingua originale, la ragazza velata che cerca
un lavoro di commessa senza
trovarlo perché «spaventa i clienti» con quel velo, il tassista che
discetta di materialismo e astrazione («se facciamo quello che è
giusto, quello è dio, se diciamo
la verità quello è dio»), il coatto
che interpreta il corano come
un’arma più potente del kalashnikov. Poi arrivano anche i giorni del massacro di Charlie Hebdo a scuotere le coscienze.
Quello che colpisce di più
non è tanto il fervore dei neoconvertiti perché in una terra dove
impera la disperazione e la disoccupazione almeno si può
contare su un libro con precise
istruzioni di vita, colpisce la rassegnazione dei congiunti, di una
moglie un po’ avanti con gli anni in particolare che accetta tutto e sostiene che in quanto a lei,
non ha avuto nessuna chiamata
divina e che sta bene così. La madonna appesa sul letto e il corano sul tavolo. La musica dei rapper musulmani anch’essi di nuova generazione (bella musica e
belle parole) riempie vicoli e
piazze, impasta quelle esperienze di vita a dispetto di certi fondamentalismi che vietano suoni
e canti: «nella musica sento la
presenza di dio» dice uno dei
musicisti. E in più si dà la ricetta
del casatiello senza insaccati di
maiale. Tutti insieme infine ad
alzare gli occhi versi i fastosi fuochi d’artificio in onore della festa della Madonna bruna.
–
il manifesto
IN UNA PAROLA
–

Il nemico (e noi)
Alberto Leiss
D
avvero vinceranno loro? I nostri nemici ? Coloro che hanno dichiarato
guerra al «nostro modo di vivere»?
Vinceranno, come da più parti è stato detto dopo Parigi, se anche noi ci sentiremo
in «guerra», coltivando odio, vendetta, desiderio di violenza.
È un esito possibile. Si legge che in Francia il nazionalismo un po’ razzista della Le
Pen vola nei sondaggi al 40%. E si vede come questo alimenti gli atteggiamenti bellicisti di Hollande, al canto della Marsigliese. Ma è abbastanza impressionante leggere in qualche articolo sull’incontro avuto
da Renzi col presidente francese che però
non sarebbe in alcun modo chiara la strategia che Hollande chiede di condividere
agli alleati europei, a Putin, a Obama, per
battere davvero il mostruoso Daesh e costruire la pace in Medioriente, in Africa e
nel mondo. La prima battaglia credo vada
combattuta dentro i nostri cervelli e i nostri cuori. Per capire al meglio chi è il nemico, e chi siamo noi, che cosa pensiamo e
che cosa proviamo.
Domenica sui giornali c’erano interventi
interessanti. Parole e pensieri che inducono qualche speranza sulle capacità occidentali di non lasciarsi travolgere dalle aggressioni del terrorismo. Mi riferisco in particolare all’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della sera, allo scritto di Edgar Morin
su Repubblica, alla analisi di Olivier Roy
sull’ Internazionale. Parto da quest’ultima:
i giovani (francesi e belgi) che hanno scatenato il terrore e la morte a Parigi hanno in
realtà poco a che vedere con le mire geopolitiche del "Califfato". Sono il frutto di una
rivolta generazionale che rinnega prima di
tutto i propri padri immigrati e – più o meno - integrati in Francia. Giovani che invece non riescono a integrarsi nel «nostro
modo di vivere» – che li respinge e li esclude - e che trovano nella violenza predicata
dagli estremismi islamici la leva per votarsi
a un nichilismo da «perdenti radicali», più
simili a Breivik e a chi stermina studenti
nelle scuole Usa che ai teologi della violenta rinascita islamica.
Per affrontare questo tipo di nemici, forse più che bombardare Raqqa bisognerebbe ascoltare i discorsi di un Renzo Piano
sull’emergenza di colmare i «deserti affettivi» delle banlieue (come nelle nostre periferie urbane). Ma non bisogna poi trascurare – ci invita Morin – le ragioni storiche di
lunga durata che spiegano il relativo successo del "Califfo" nell’area terremotata
dell’universo arabo. Non basta qui riconoscere le colpe e gli errori dell’Occidente
lungo qualche secolo, ma si tratta capovolgere lo sguardo con cui si interviene in
quella vasta area. Magari ripensando al sogno di un occidentale, Lawrence d’Arabia,
al miraggio di una grande rinascita del
mondo arabo, nella valorizzazione delle
sue molte differenze. Qualcosa insomma
di completamente opposto all’idea di allearsi con gli Assad e gli Al Sisi, ai tiranni vecchi e nuovi che sono tra le cause maggiori
della radicalizzazione islamica, alimentata
dalle persecuzioni politiche e dall’oppressione sociale.
Infine, ma forse è il primo gesto necessario, va ascoltato l’Islam che si dissocia, che
manifesta – per poche che siano le presenze in piazza – alzando i cartelli «Not in my
name». Credo – con Mieli – che sia essenziale rispondere, interloquire, riconoscere.
E del suo articolo mi ha colpito la notazione sul fatto che nelle recenti manifestazioni a Roma e a Milano (ho ascoltato su Radio Radicale quella di Roma) hanno parlato solo maschi. Questo è certamente un limite significativo. Che nell’origine profonda della parola guerra riguarda anche noi
e non solo il nostro nemico.
–
Il missile Aim-120 Amraam lanciato
dall’F-16 turco (ambedue made in
Usa) non era diretto solo al caccia
russo impegnato in Siria contro l’Isis,
ma a un obiettivo ben più importante: il Turkish Stream, il progettato
gasdotto che porterebbe il gas russo
in Turchia e, da qui, in Grecia e altri
paesi della Ue.
Il Turkish Stream è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di
Washington, del South Stream, il gasdotto che, aggirando l’Ucraina,
avrebbe portato il gas russo fino a
Tarvisio (Udine) e da qui nella Ue,
con grandi benefici per l’Italia anche
in termini di occupazione. Il progetto,
varato dalla russa Gazprom e dall’italiana Eni e poi allargato alla tedesca
Wintershall e alla francese Edf, era
già in fase avanzata di realizzazione
(la Saipem dell’Eni aveva già un con-
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
COMMUNITY
LAZIO
Mercoledi 2 dicembre, ore 19.30
PASOLINI Assieme a Luisa Mazzullo ed
in collaborazione con l'Ass. Culturale Zoot,
una serata dedicata a Pier Paolo Pasolini.
Oltre a letture di alcuni suoi testi, e
all'esposizione di una galleria fotografica
curata da Luisa Mazzullo, ci saranno filmati, documentari, interviste e la proiezione
del film «La rabbia».
 Il cielo sopra l’Esquilino, via Galilei, 57, Roma
Giovedì 3 dicembre, ore 18
PAESAGIO DI IDEE Reset e Reset-Dialogues on Civilizations sono liete di invitarvi alla presentazione dell’ultimo libro di
Andrea Carandini sul filosofo Isaiah Berlin
dal titolo «Paesaggio di idee. Tre anni con
Isaiah Berlin» di Andrea Carandini (Rubbettino Editore, 2015).
 Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma
LOMBARDIA
Mercoledì 2 dicembre, ore 21
SCIENZA E RELIGIONE Incontro dibattito a tema «Scienza e religione di fronte
ai mutamenti climatici. La conferenza Onu
di Parigi e l’Enciclica Laudato sia».
 Cinema Teatro Gloria, via S. Pietro, Montichiari (Bs)
le lettere
pagina 14
SARDEGNA
Martedì 1 dicembre
BABEL Dalla resistenza di Kobane, alle
vicende dei curdi e degli armeni che costituiscono ancora una ferita aperta per la
Turchia. Storie che prendono vita con le
voci delle minoranze linguistiche di tutto
il mondo: saranno loro ad animare la
quarta edizione del Babel Film Festival
(30 novembre-5 dicembre). Un festival
che alla luce degli attentati di Parigi e in
Mali vuole ribadire la sua mission: valorizzare e promuovere le minoranze linguistiche e l’idea del dialogo interculturale,
inteso come comprensione reciproca tra
individui e gruppi che hanno origini e
patrimoni linguistici, culturali, etnici e
religiosi differenti. Maggiori informazioni li
trovate sul sito internet: www.lacinetecasarda.it
 Cineteca sarda, v.le Trieste, 118,
Cagliari
TOSCANA
Martedì 1 dicembre, ore 21
BARBARA CASINI Il Centro Studi Iniziative America Latina ed il Circolo Vie Nuove
, organizzano la presentazione del libro:
«Se tutto è musica» alla quale interverranno, insieme all'autrice Barbara Casini,
anche Costanza Calamai e Bruno D’Avanzo. Da Gilberto Gil a Guinga; da Danilo
Caymmi a Chico Buarque de Hollanda,
diciotto conversazioni che aprono altrettante finestre sul mondo pieno di fascino
dei grandi compositori brasiliani contemporanei.
 Circolo Vie Nuove, v.le D. Giannotti, 13, Firenze
Mercoledì 2 dicembre, ore 19.30
SOTTO LA PELLE Incontro Roberta Mazzanti e il suo «Sotto la pelle dell’orsa»
(Iacobelli editore- Collana I leggendari).
Pagine densissime quelle delle due scritture che compongono il libro, la prima si
concentra sulla bellezza (incantesimo o
prigione?), la seconda un’interrogazione
intorno alla relazione con la propria madre.
 Centro Donna Liliana Paoletti
Buti, Largo Strozzi 3, Livorno
Tutti gli appuntamenti:
[email protected]
INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU:
www.ilmanifesto.info
[email protected]
La bellezza di Lucio Magri
Giustamente si è ricordato, rappresentato, discusso Pasolini, a
40 anni dalla sua morte, perché
ancora ci «parla», ci «tocca», ci è
«utile». Pochissimo si scriverà invece di Lucio Magri, a quattro
anni (soltanto) dalla sua morte
(per scelta). Forse neppure Il manifesto, che pure gli deve molto.
E Magri possiamo certo leggerlo
(e non è poco), ma, a differenza
di Pasolini, non possiamo vederlo, né sentirlo nel flusso della sua
esistenza. Quanti saranno stati i
comizi, gli interventi, le interviste
televisive fatte da Magri! Di tutto
questo in rete si trova soltanto la
presentazione de «Il sarto di Ulm»
a Bologna, che certamente non
rende l’idea del Magri degli anni
’70, ’80, ’90, gli anni in cui abbiamo potuto vederlo e ascoltarlo
pubblicamente. Perché è sia nei
suoi libri, articoli, saggi, sia nei
suoi interventi orali che trovo due
aspetti, che mi hanno sempre
colpito e affascinato di Lucio Magri: la complessità e insieme
un’idea estetica, portata al perfezionismo, come osservava Valentino Parlato, sia nello scrivere e
nel parlare che nel presentarsi e
nell’esistere. La complessità in
Magri viveva nella ricerca ossessiva della causa ultima delle cose,
che era spesso la molteplicità
delle cause, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Un
ragionamento che scavava per
successivi approfondimenti, che
ti prendeva per mano e ti faceva
toccare con limpidezza lo «stato
delle cose». Il senso dell’estetica,
invece, era nella chiarezza e nella
limpidezza, nel ritmo dei periodi
fluenti e nella ricerca del vocabolario giusto che cogliendo la profondità coglieva anche ciò che ci

tocca della profondità: il «cuore
delle cose». Un suo comizio o la
conclusione di un convegno erano quasi sempre "illuminanti", ma anche "commoventi", facevano fermentare energie dinamicizzandoti. "Illuminanti" perché vedevi grandi spazi, il tempo della storia, i conflitti delle classi, possibili
idee forza da trasmettere. "Commoventi" perché toccavano le viscere dell’umano: la profondità
del dolore, l’utopia possibile.
L’estetica era anche nell’arte del
discorso, nella voce sottile e musicale, che sapeva essere sferzante e appassionata, distaccata e
divertita. L’estetica era inoltre anche nel volto da "attore americano", ma di quell’attore che trascende la bellezza dei lineamenti
e diventa "artista", creatore di
un’immagine forte di sé, una commistione, cioè, di energia intellettuale, di eleganza e di mistero.
Per questo il migliore modo di
"commemorare" Lucio Magri è
"scoprirlo", o “ripensarlo” cioè
leggerlo e utilizzarlo, per ciò che
ci ha lasciato per il nostro futuro,
perché sono d’accordo con Alberto Burgio che sul manifesto scrisse: «Questo gli ha permesso di
portare a termine, nonostante un
dolore inemendabile, uno dei libri
più belli e importanti su di noi sui comunisti italiani e sul comunismo novecentesco - che siano
mai stati scritti». E con Perry Anderson che osserva: «Lucio Magri
era una figura unica nella sinistra
europea».
Gianni Quilici, Lucca
Il futuro: la morte per inedia
Siamo gli schiavi a piede libero
di un Sistema che demonizza il
posto fisso e che afferma essere
un ritorno al passato. Un passato
che garantiva ai lavoratori quella
continuità necessaria «per portare
avanti una famiglia» e la serenità
di guardare al domani con fiducia
e ottimismo. Anche ripulire l’aria
delle nostre città e l’acqua contaminata delle falde, dei fiumi e dei
mari, è un ritorno al passato. Non
disperdere rifiuti tossici sul territorio e nelle profondità degli oceani
- riappropriarsi dei valori morali,
dei principi etici e del buon senso, sono un ritorno al passato.
Una classe politica responsabile
e consapevole, sobria e ragionevole, che si occupi dei problemi,
delle necessità dei cittadini, e ne
tuteli i diritti, è un ritorno al passato. E molto presto, quando la
cassa integrazione, la mobilità, i
sussidi assistenziali e gli ammortizzatori sociali avranno prosciugato le ultime speranze di sopravvivenza dei lavoratori, il Sistema
Bestia dichiarerà candidamente
che il lavoro è un ritorno al passato, e la morte per inedia, il futuro.
Gianni Tirelli
Generazione "uovo oggi"
500 euro per la cultura dei giovani neo maggiorenni non sono mica bruscolini. Renzi lo sa. E subito i malpensanti a dire che lo fa
per accaparrarsi il loro consenso
elettorale e pubblicano dichiarazioni di giovani che indomitamente fanno subito professione di
voto antitetico all’imbonitore fiorentino. Se non rinunceranno
all’obolo non si sa, ma un concerto della band in voga, evento culturale, fossero pure gli One Directions, costa almeno 100 euro e
rinunciare potrebbe risultare complesso. Quello che non si è dunque compreso, e che Renzi sa
molto bene, è che non gli importa che detti giovani lo votino o
meno immediatamente, come
sembrano preoccuparsi certe forze politiche stellate, ma che si
insinui l’idea di un governo che
pensa pure ai circenses oltre che
al panem. Sapeste quanto è dura
convincere un disoccupato giovane che il Jobs Act è una soluzione effimera e un passaggio dalla
precarietà all’incertezza tout
court. È meglio di niente dicono.
E per chi non ha prospettiva è
comprensibile. E i 500 euro
omaggio culturale ai neo diciottenni vanno nello stesso senso e
dovrà farci i conti chiunque si
confronti col demagogo dalle buffe espressioni facciali se pure dovesse essere surclassarlo in qualche tornata elettorale per effetto
dell’orgoglio dei giovani indomiti
di cui sopra. I 500 euro creano
L’ARTE DELLA GUERRA
Missile contro il gasdotto
Manlio Dinucci
tratto da 2 miliardi di euro per la costruzione del gasdotto attraverso il
Mar Nero) quando, dopo aver provocato la crisi ucraina, Washington lanciava quella che il New York Times
definiva «una strategia aggressiva
mirante a ridurre le forniture russe di
gas all’Europa».
Sotto pressione Usa, la Bulgaria bloccava nel dicembre 2014 i lavori del
South Stream affossando il progetto.
Contemporaneamente però, nonostante Mosca e Ankara fossero in
campi opposti riguardo a Siria e Isis,
la Gazprom firmava un accordo preli-
minare con la compagnia turca Botas
per la realizzazione di un duplice gasdotto Russia-Turchia attraverso il
Mar Nero.
Il 19 giugno Mosca e Atene firmavano un accordo preliminare sull’estensione del Turkish Stream (con una
spesa di 2 miliardi di dollari a carico
della Russia) fino alla Grecia, per farne la porta d’ingresso del nuovo gasdotto nell’Unione europea. Il 22 luglio Obama telefonava a Erdogan,
chiedendo che la Turchia si ritirasse
dal progetto. Il 16 novembre Mosca
e Ankara annunciavano, invece, pros-
simi colloqui governativi per varare il
Turkish Stream, con una portata superiore a quella del maggiore gasdotto
attraverso l’Ucraina. Otto giorni dopo,
l’abbattimento del caccia russo provocava il blocco, se non la cancellazione, del progetto. Sicuramente a
Washington hanno brindato al nuovo
successo. La Turchia, che importa
dalla Russia il 55% del gas e il 30%
del petrolio, viene invece danneggiata dalle sanzioni russe e rischia di
perdere il grosso business del Turkish
Stream.
Chi allora in Turchia aveva interesse
ad abbattere volutamente il caccia
russo, sapendo quali sarebbero state
le conseguenze? La frase di Erdogan
- «Vorremmo che non fosse successo,
ma è successo, spero che una cosa
del genere non accada più» - implica
uno scenario più complesso di quello
ufficiale. In Turchia ci sono importanti comandi, basi e radar Nato sotto
comando Usa: l’ordine di abbattere il
caccia russo è stato dato all’interno
di tale quadro.
Qual è a questo punto la situazione
nella «guerra dei gasdotti»? Usa e
Nato controllano il territorio ucraino
cultura essi stessi come il Jobs
Act. Una cultura miserabile che
vive in funzione della regalia,
dell’osso del potente gettato con
benevola sufficienza sotto il tavolo ai cani, ma pietra di paragone
con chi continua a proporre alternative virtualmente etiche ma difficilmente realizzabili nell’immediato. La veloce prevalenza
dell’uovo oggi sulla gallina domani. E il mondo corre veloce, troppo veloce per ogni pazienza. E
non è dote da giovani, purtroppo.
Vanni Destro
Bonus delle diseguaglianze
Il Bonus da 500 euro per i diciottenni,da spendere in attività culturali, promesso da Renzi, concesso
a pioggia, aumenta le disuguaglianze. A beneficiarne saranno i
ragazzi delle classi medio-alte, economicamente e culturalmente avvantaggiati. Chi vive in ambienti e
famiglie deprivati, a più livelli, non
sa, non può utilizzare e personalizzare il Bonus. Un conto, infatti,
vivere a Milano, a Roma.., un conto vivere nei piccoli centri o in
aree, dove mancano iniziative ed
eventi culturali. Non si apprezzano
i quadri di un museo, la musica, il
teatro, l ’importanza della lettura,
il cinema senza una preparazione
specifica, senza una guida familiare o scolastica. E’ necessario mettere i giovani nelle condizioni concrete per potere fruire dei tanti beni culturali. La trovata del premier
non tiene minimamente conto delle condizioni in cui versa il settore della cultura nel nostro Paese,
penalizzato pesantemente dalle
politiche di austerità. Negli ultimi
anni si sono visti solo tagli che
hanno aggravato la crisi, specialmente del teatro e del cinema.
Essa, come il Bonus degli 80 euro, si rivela populistica e propagandistica, funzionale a distrarre dai
problemi gravi che attanagliano il
Paese, a trovare il consenso purchessia alle prossime regionali, a
illudere i giovani con promesse
tanto estemporanee quanto inique. Questi aspettano non Bonus
di carità, ma diritti: allo studio, al
lavoro, all’autorealizzazione.
Mattia Testa, Itri
–
da cui passano i gasdotti Russia-Ue,
ma la Russia può fare oggi meno affidamento su di essi (la quantità di
gas che trasportano è calata dal
90% al 40% dell’export russo di gas
verso l’Europa) grazie a due corridoi
alternativi. Il Nord Stream che, a
nord dell’Ucraina, porta il gas russo
in Germania: la Gazprom ora lo vuole
raddoppiare ma il progetto è avversato nella Ue dalla Polonia e altri governi dell’Est (legati più a Washington
che a Bruxelles). Il Blue Stream, gestito alla pari da Gazprom ed Eni,
che a sud passa dalla Turchia ed è
per questo a rischio. La Ue potrebbe
importare molto gas a basso prezzo
dall’Iran, con un gasdotto già progettato attraverso Iraq e Siria, ma il progetto è bloccato (non a caso) dalla
guerra scatenata in questi paesi dalla strategia Usa/Nato.
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
il manifesto
COMMUNITY
pagina 15
Se privatizzare non fa
rima con investire
DALLA PRIMA
Aldo Carra
Questo fallimento pesa,
ma non per questo dobbiamo attestarci su una posizione di semplice contrarietà alla
privatizzazione. Anzi proprio per
questo dovremmo entrare nel dibattito in corso indirizzando la discussione non su quanti soldi si
possono fare, ma su come migliorare il trasporto ferroviario.
Il problema. Le Fs sono una
struttura molto complessa. Si tratta della più grande azienda di servizi del paese che comprende la rete
ferroviaria, binari, stazioni, impianti, il trasporto passeggeri ad Alta Velocità ed a lunga distanza, il trasporto locale, il trasporto merci, ed
un patrimonio immobiliare notevole in parte direttamente legato alle
funzioni proprie ed in parte accessorio come aree ed immobili lungo
la linea e nelle stazioni.
Proprio per questa complessità
e per il notevole valore degli asset,
dire il 40% non significa niente se
non si precisa quale è il 100 di cui
il 40 è parte.
Su questo punto nel management nominato pochi mesi fa ed
adesso spinto a dimettersi, c'erano due linee: procedere alla privatizzazione di quote di tutto il valore aziendale oppure separare la
gestione della rete dalle attività di
trasporto privatizzando solo quote di queste attività. La differenza
non è di poco conto perché l'asset rete vale tre volte l'asset trasporti. Prenderlo in considerazione significherebbe quindi poter
incassare molto di più, ma poiché
più alto è il patrimonio investito
più bassa è la remunerazione del
capitale, l'operazione potrebbe
essere meno appetibile per il mercato. Una scelta, come si vede,
non di poco conto.
I vincoli. Proprio per questo sarebbe stato logico scegliere prima
la strategia da seguire, magari investendone il parlamento, e procedere dopo alla nomina dei vertici con
un mandato preciso. Ma questo governo come si sa ha fretta su tutto,
non tiene in grande considerazione il parlamento e se c'è l'occasione di mettere nei posti chiave persone gradite non se la fa scappare.
Quindi ha proceduto alla nomina
dei vertici ed adesso la partita è tutta da vedere e da giocare.
Essa si snoda, tanto per stare in tema, su due binari:
- le normative comunitarie emanate da 25 anni che prevedono la
separazione della rete ferroviaria
dalle attività di trasporto e che finora sono state disattese da quasi tutti i paesi;
- l’impegno a cedere una quota
pari a 3 miliardi, previsto nel programma di privatizzazioni concordato dal governo con la Commissione Europea.
E’ chiaro che a far precipitare la
Inghilterra e Francia hanno dovuto fare retromarcia
sulla separazione tra rete e trasporto. In Italia bisogna
agire sul settore merci e sul trasporto locale
decisione è questo secondo vincolo
e che il "fare cassa" ispira i movimenti di oggi. Perciò il rischio di disfarsi di patrimonio pubblico senza
alcuna contropartita è serio.
Di fronte ad esso è necessario
imporre un confronto su un disegno strategico di futuro del trasporto su rotaia con una particolare attenzione a due aspetti: uno
ambientale che riguarda il trasporto merci, l’altro sociale che riguarda il trasporto locale.
La normativa europea prevede la
separazione della rete ferroviaria
dalle attività di trasporto come premessa per mettere sul mercato tutte le attività di trasporto gestite da
imprese pubbliche e private con pari diritti di accesso alla rete. In questo percorso di liberalizzazione e
privatizzazione la prima della classe
è stata, naturalmente, l'Inghilterra
che era arrivata addirittura a spacchettare le tratte ferroviarie vendendole a società diverse: i gravi disagi
ai passeggeri e le disfunzioni prodotte hanno costretto ad un passo in-
dietro e decretato il fallimento di
quella liberalizzazione spinta. La
stessa Francia che aveva proceduto
alla separazione della rete dal trasporto è tornata indietro ed oggi in
Europa, prevale un modello integrato di rete e servizi di trasporto.
Ma per il 2019 è previsto l’obbligo
di procedere alla piena liberalizzazione. quindi, i nodi liberalizzazione - privatizzazione debbono essere affrontati. Sapendo, però, che
non si parte da zero e nemmeno
dall’assunto che privato è efficienza
e pubblico no. In questi anni le ferrovie italiane hanno saputo risanare i conti e creare un servizio di Alta
Velocità competitivo, efficace ed efficiente, che le colloca all'avanguardia in Europa. Ma gli altri segmenti
del trasporto ferroviario presentano
ancora enormi problematiche e ritardi da colmare al più presto.
Le proposte. Nel settore merci la
liberalizzazione è in atto da otto anni, i volumi trasportati dalle 13 nuove imprese private sono cresciuti,
ma la concorrenza si è concentrata
sulle tratte più appetibili ed il traffico non si è spostato dalla strada alla
ferrovia: gli aiuti di stato all’autotrasporto, nemmeno finalizzati alla riconversione verso l’intermodalità,
hanno fatto in modo che le nuove
imprese private togliessero i traffici
più redditizi alle Fs senza intaccare
il predominio della strada.
Fare spazio al privato, quindi,
non serve se non si fa una politica
coerente di investimenti per il trasporto ferroviario delle merci con
un nuovo piano dei porti e dell’intermodalità.
Discorso analogo vale per il trasporto locale. In questo settore è difficile coprire i costi con i ricavi e
non è nemmeno pensabile, con la
qualità scadente che oggi si offre,
aumentare i ricavi agendo sui prezzi. Ci si trova, quindi, in un circolo
vizioso che si può spezzare solo
con consistenti investimenti per
rinnovare ed aumentare la flotta
ferroviaria e per garantire, così,
un’offerta in qualità e quantità degna di un paese civile.
Se così stanno le cose, allora, non
si tratta di vendere o svendere per
fare cassa. Si tratta, invece, di delineare un progetto industriale che abbia alcuni punti chiave:
- l’ infrastruttura ferroviaria, la rete, potrebbe pure essere scorporata
dal trasporto, ma non può assolutamente essere privatizzata nemmeno in parte;
- si possono prevedere cessioni di
quote di minoranza e graduali di
aree già risanate e valorizzate ( Frecce, attività secondarie come servizi
ed aree..);
- l’apertura al capitale privato va
fatta con un vincolo preciso: che si
destinino rigorosamente le entrate
che ne derivano ad investimenti nelle merci e nel trasporto locale.
Né fare shopping, né fare soldi.
Solo con questa visione e questi
vincoli può avere un senso la cessione di pezzi di patrimonio pubblico. Altrimenti si farebbe solo
un’operazione che fa male al pubblico che si impoverisce ed allo
stesso privato che si abitua ad investire nei settori a reddito garantito,
il che non è il massimo per la cultura del rischio d’impresa. Insomma
la fase che si apre alle ferrovie potrebbe essere l’occasione per chiudere con un passato – aperture al
mercato senza risultati – e per aprirsi ad un futuro nuovo: si cede il minimo di patrimonio che consenta
di ricavare il massimo di reddito e,
soprattutto, quello che si ricava lo
si destina prima ed esplicitamente
a migliorare il servizio prodotto.
Né "fare shopping", quindi, né
"fare soldi", ma operazioni finanziarie e produttive intelligenti, per poter offrire un servizio migliore. Se
non si mira a questo, meglio lasciare le cose come stanno. Se si pensa
di trovare qui risorse da destinare
solo a ridurre il debito lungo la via
crucis dell’austerity, si passi, sempre per restare in tema, ad un’altra
stazione.
RIVOLTA METROPOLITANA
Normalità da abolire
per aiutare Daesh
DALLA PRIMA
Marco Bascetta
Per via pacifica, e comunque illegale, o
scontrandosi con le
forze di polizia. Entrambe le
cose sono puntualmente accadute. C’è il precedente di
Ankara, è vero, ma gli uomini dell’Is hanno dimostrato
di poter scegliere tra innumerevoli concentrazioni di persone (mercati, chiese, locali
pubblici, aerei, metropolitane, stadi) tra le quali seminare morte. Luoghi di quella
normale vita quotidiana alla
quale, tutti lo giurano, nessuno potrà costringerci a rinunciare. Ne consegue che la
protesta di piazza contro le
politiche nazionali o "globali" che siano, contrariamente
allo shopping e alla frequentazione dei bistrot, non è considerata appartenere alla normalità della vita democratica, allo stile di vita squisitamente occidentale. Non è
dunque una questione di sicurezza. O almeno non lo è
in prima istanza.
Si tratta piuttosto di quella
pretesa di obbedienza e disciplina nazionale, di fiducia incondizionata nelle scelte di
chi comanda che i governanti pretendono in caso di guerra o di altre emergenze imparentate più o meno legittimamente con questa parola. E
non è questa l’ultima ragione per la quale si sono combattute e si combattono le
guerre. Magari quando la popolarità di un presidente vacilla pericolosamente sul
fronte politico interno. Come nel caso del pallido Hollande, ma anche di Angela
Merkel che, incalzata da destra e da componenti del suo
stesso partito per la politica
sull’immigrazione cui ha ultimamente legato la sua immagine, si aggrega infine all’impresa siriana. L’obiettivo
non rinviabile di distruggere
Daesh è dunque inquinato e
indebolito da un fitto intrico
di interessi ed egoismi nazionali, tanto in patria quanto
in Medio oriente.
Quanto alla normalità della vita metropolitana in Occidente, anche su questo fronte non sembrano esserci solide garanzie. Bruxelles viene
trasformata per diversi gior-
il manifesto
DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri
CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco
DESK
Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi,
Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE
Benedetto Vecchi (presidente),
Matteo Bartocci, Norma Rangeri,
Silvana Silvestri
il nuovo manifesto società coop editrice
REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A.
Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191
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iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di
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Pubblicazione online: ISSN 2465-0870
ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320e
semestrale 180e versamento con bonifico bancario
ni in una città fantasma per
fermare 21 persone, 19 delle
quali saranno immediatamente rilasciate. Non si scoprono arsenali, né terroristi
pronti a colpire, ma l’immagine della capitale d’Europa ridotta a spettrale teatro di
guerra resterà a lungo nella
memoria. Nessuno sarà chiamato a rendere conto di questa sproporzionata messa in
scena o del buco nell’acqua.
Ad Hannover, in Germania,
viene evacuato uno stadio,
messa in stato di assedio una
stazione, la popolazione invitata a chiudersi in casa, ma
non v’è traccia dell’ambulanza imbottita di tritolo di cui
si era andato favoleggiando.
Il governatore del Land assicura che non c’è alcun pericolo. Il ministro dell’interno
mette in guardia da «altri attentati». Altri? Se non è il
trionfo dell’Is è certamente
quello della stupidità o, peggio, l’esordio di un nuovo stile di governo emergenziale.
Per salvare la Libertà, ripetono innumerevoli commentatori, bisognerà pur rinunciare a qualche libertà, prima tra tutte quella di contestare il governo che ci protegge, che ci imbriglia «per il nostro bene». E, per meglio farlo, come è il caso di quello
francese, mette anche mano
alla Costituzione, introducendovi strumenti di sospensione dei diritti democratici,
che potrebbero presto finire
in mani assai poco delicate
quali quelle del Front National. Confidiamo nell’impegno preso dal governo italiano di non seguire questa strada.
Se per qualche banale incidente, magari lo zelo repubblicano di un flic, dovesse riesplodere la rivolta nelle
banlieues, potremmo tornare ad assistere alle orribili scene dell’ottobre 1961 quando
decine e decine di algerini
(forse addirittura 300) furono assassinati e gettati nella
Senna. Anche allora c’era
una guerra. E attentati contro le forze di polizia. E stato
di emergenza. Ma Daesh
non si interessa alle rivolte
metropolitane. E’ nel bacino
della frustrazione e dell’impotenza che recluta i suoi
«martiri». Nel bacino delle
manifestazioni proibite e delle cospirazioni silenziose.
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del 09-02-2015
chiuso in redazione ore 22.00
tiratura prevista 38.580
pagina 16
il manifesto
MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015
L’ULTIMA
storie
Dopo 30 mila punti
segnati nell’Nba,
Kobe Bryant, la stella
dei Lakers, annuncia
il suo ritiro dai campi
di basket. «Il mio
corpo sa che è
arrivato il momento
di dire addio»
Nicola Sellitti
K
obe Bryant è un uomo in
controllo del suo corpo.
Con le redini sulla sfera
emotiva dei suoi avversari da
quasi venti anni a questa parte.
Ieri il fenomeno dei Los Angeles Lakers ha informato il carrozzone Nba e lo sport mondiale che è arrivato il momento di
dare respiro a ginocchia, gomiti, dita, a quella macchina perfetta che l'ha portato a segnare
oltre 30 mila punti nella Lega,
terzo assoluto dopo Kareem Abdul Jabbar e Karl Malone. Altri
quattro mesi di Nba e poi stop.
La sua lettera al basket pubblicata da The Players Tribune:
«Mi hai fatto vivere il mio sogno
di diventare un Laker e ti amerò per sempre per questo. Ma
non posso amarti più con la
stessa ossessione. Il cuore può
sopportare la battaglia, la testa
può gestire la fatica, ma il mio
corpo sa che è il momento di dire addio. Questa stagione è tutto quello che mi resta».
Una disputa con se stesso
IlDItiro
finale
BLACK MAMBA
Lo spettacolo è finito, dal
prossimo 13 aprile, ultima allo
Staples Center, la casa degli angelini, contro gli Utah Jazz,
niente più movimento sincopato e tiro in sospensione con la
lingua da fuori, solo uno dei dettagli che lo rendono così simile
a Michael Jordan, il mito divenuto esempio, sino a ossessione. Bryant aveva messo Jordan
nel mirino, voleva il sesto titolo
Nba per eguagliarlo, in
quell'eterna disputa con se stesso, con canestro e avversari
comprimari.
Insomma, il Black Mamba, il
suo soprannome, si ritira, finisce nella teca. Si mette da parte
KOBE BRYANT
prima di essere arrostito dalle
(A DESTRA)
critiche di tifosi, giornalisti,
SCARICA
amanti dell'universo Nba, che
LA PALLA
non ha mai fatto sconti a nessuALLE SPALLE
no. In realtà spifferi di spogliatoDEL CENTRO
io sulle sue cattive prestazioni
DEI TORONTO
spiravano dall'inizio della preseRAPTORS,
ason e durante le prime negatiBISMACK
ve settimane di stagione regolaBIYOMBO
re dei Lakers, che hanno colle/FOTO
zionato sconfitte, figuracce, senLAPRESSE
za alcuna possibilità di arrivare
ai playoff. E con Kobe al minimo storico di punti realizzati
dal campo (15 punti in media),
e con percentuali al tiro intorno
al 30%.
Polaroid ingiallita di se stesso. Non era più lui, quel ragazzo competitivo cresciuto in Italia vedendo suo padre JellyBean da bordocampo. Ed è sfumata anche la soggezione che Bryant imponeva agli avversari,
consumati dalla sua voglia di
vincere, di primeggiare. Di essere il migliore, con un'etica selvaggia del lavoro che l'ha sempre portato a stagione finita,
mentre gli altri cestisti erano al
mare o sulle spiagge californiane a sorseggiare tequila sunrise, ad alzarsi alle cinque del
mattino, con interminabili sessioni di tiri, di movimenti faccia
a canestro o in allontanamento. Come se il suo repertorio di
gioco, il suo personale arsenale
andasse puntellato di stagione
in stagione. Così fanno solo i
campioni.
Da qualche settimana erano
cominciati gli omaggi nei palazzetti dello sport della Nba, che
in passato l'avevano pure fischiato. Tutti in tribuna a vederlo tirare per l'ultima volta, pareva quasi scritto che Bryant fosse al passo d'addio, lo diceva il
campo, i numeri, gli avversari,
il suo linguaggio del corpo, quella serie infinita di tiri senza centrare il bersaglio. La lotta ancora ostinata con se stesso, stavolta senza munizioni per spuntarla. E in rete si sprecavano i filmati che ironizzavano sui suoi
sgangherati tentativi di tiri dal
campo, sugli errori che mai
avrebbe commesso, neppure in
sonno. Lo stesso Bryant qualche settimana fa aveva cominciato a seminare tracce del suo
futuro lontano dalla palla a spicchi, spiegando che in campo sapeva di fare schifo, di sentirsi
uno dei peggiori della Lega. Il fisico non rispondeva più.
La vendetta sul parquet
All'avvio della stagione, Espn
– lo stesso network che ha diffuso la notizia del suo ritiro – lo
piazzava al 200 esimo posto tra
gli atleti in circolazione. Il fuoriclasse dei Lakers si era risentito,
meditando vendetta sul parquet. Padre Tempo però pare
essere più forte di lui. Avrebbe
potuto seguire la traccia di altre
star assolute del basket, con un
ruolo di retroguardia, mentore
di qualche talento dei Lakers da
lanciare per la successione dinastica dopo gli anni a dominare
il gioco. Come Tim Duncan ai
San Antonio Spurs con LaMarcus Aldridge, oppure Kevin Garnett, tornato a Minnesota per
istruire i più giovani alla legge
della foresta Nba. Meno minuti, meno tiri, leadership in panchina e nello spogliatoio. Con
un posto assicurato nella Hall
of Fame.
Ma lui è Kobe Bryant. Non divide lo spazio vitale con nessuno. È lo stesso che sfidava in attacco e difesa Michael Jordan
nell'ultima esibizione all'All
Star Game di MJ. Le altre star
passavano la palla all'ex Chica-
go Bulls, lui lo sfidava.
Un animale da basket, il sale
della competizione, Una faccia,
forse la migliore, dello sport. Negli anni gli ha resistito solo
Shaquille O'Neal, in comune
l'ego smisurato, mentre altri atleti sono stati fagocitati dalla
sua durezza mentale. Alcuni sono scoppiati in lacrime davanti
alle telecamere dopo i suoi rimproveri immortalati dalle tv.
Per i trentenni Kobe è il Michael Jordan dell'ultima generazione. Terzo miglior marcatore
di sempre, cinque anelli Nba, il
most valuable player nel 2008, il
miglior giocatore delle Finali
nel 2009 e 2010, anche se
quest'ultimo premio è stato
scippato allo spagnolo Pau Gasol. E gli 81 punti messi a segno
nel gennaio 2006 contro i Toronto Raptors, l'oro olimpico a
Londra 2012, leader più emotivo che tecnico con Team Usa,
che era già la squadra di Lebron James, l'altro fenomeno
della Lega, stimato ma mai amato, ricambiato.
Un vincente capriccioso
Ma Bryant è soprattutto il fenomeno a cui consegnare la palla per vincere a pochi secondi
dal termine, il faro, la guida, la
stella. Un vincente capriccioso.
Phil Jackson, che con Bryant e
Shaquille O'Neal ha vinto tre titoli all'inzio de Duemila, ha
scritto peste e corna di Kobe in
Eleven Rings, la biografia del
leggendario coach che tra Chicago Bulls e i Lakers, che in carriera è andato in doppia cifra di
titoli. Ma non ha mai potuto fare a meno di lui, anzi lo punzecchiava per mettere sale sulla
carne viva di Bryant, incendiando la sua voglia di vincere.
Shaquille O'Neal invece con
il numero 24 in gialloviola ha
scritto pagine di letteratura
sportiva Nba negli ultimi 15 anni, tra antipatia reciproca mai
nascosta, litigi veri o presunti
negli spogliatoi. Con la chimica
che emergeva misteriosamente
sul parquet: uno contro uno di
Bryant, schiacciata di Shaq, partite e titoli ai Lakers.
Al Black Mamba restano quattro mesi di basket agonistico,
prima di consegnarsi alla Storia. E tra standing ovation e
l'onore delle armi dei più grandi, ci sarà spazio per un ultimo
tiro-vittoria all'ultimo secondo,
per una schiacciata in testa ai giganti di 2,10 metri. Perché signori, lui è Kobe Bryant.