«Jet colpito per coprire il traffico di petrolio»
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«Jet colpito per coprire il traffico di petrolio»
CON C'E' VITA A SINISTRA + EURO 0,50 CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 2,00 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut. GIPA/C/RM/23/2013 ANNO XLV . N. 286 . MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 EURO 1,50 PUTIN ACCUSA LA TURCHIA BIANI «Jet colpito per coprire il traffico di petrolio» S e l’Unione europea descrive la Turchia come paese sicuro, le strade del paese raccontano un’altra storia: di conflitto sociale, civile, repressione dei movimenti e strategia della tensione. Prima di tutto lo scontro tra Turchia e Russia in merito all’abbattimento dello scorso martedì del bombardiere Sukhoi Su-24 ha prodotto una crisi senza precedenti tra Mosca e Ankara. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha rivelato di sospettare che il jet sia stato abbattuto «per assicurare forniture illegali di petrolio dallo Stato islamico alla Turchia». ACCONCIA |PAGINA 3 MOSCHEA DI BANGUI Il papa nell’enclave musulmana sotto assedio: basta odio EUROPA |PAGINA 2 La Ue cede a Erdogan Liberalizzazione dei visti e miliardi per tenersi i profughi «Insieme diciamo no alla vendetta in nome di Dio». Bergoglio chiude il suo viaggio africano nel Pk5. Ma il conflitto tra Seleka e Anti-Balaka in Centrafrica ha radici politiche ed economiche prima che religiose PLANTERA |PAGINA 4 LANCARI Al via tra parole colme di speranza la Cop21 a Parigi, mentre in Brasile si consuma l’ennesimo disastro ambientale paragonato a quello di Fukushima. I grandi della terra promettono molto ma gli interessi economici tra Nord e Sud del mondo sono opposti e peseranno sui negoziati. Incerto l’accordo finale PAGINE 8,9 CLIMA FOTO REUTERS C’era una volta l’Italia Giuseppe Cassini C’ era una volta un Paese che guardava avanti. Forse camminava un po’ a tentoni, ma almeno guardava avanti. Nel 1988 un manipolo di governi decise di istituire a Ginevra un Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (l’ormai noto Ipcc); era composto da un team interdisciplinare di scienziati incaricati di rispondere a una domanda all’epoca esoterica. CONTINUA |PAGINA 9 PARIGI COP21 La guerriglia che non c’era Marco Bascetta I l 29 novembre a Parigi non vi è stata alcuna «guerriglia urbana», ma uno scontro di assai modeste proporzioni tra un folto schieramento di polizia e un limitato numero di manifestanti. Trecento fermati, nessun ferito rendono alquanto evidente la natura e l’effettiva entità degli eventi. Il divieto di manifestare, contenuto nello stato di emergenza decretato dal presidente Hollande, è un invito irresistibile ad essere trasgredito. CONTINUA |PAGINA 15 Stati d’emergenza SPECIALE CLIMA In edicola Il mordi e fuggi in salsa fiorentina I professionisti del Natale È In occasione della Conferenza mondiale sul clima di Parigi il manifesto mette in edicola un inserto speciale di 16 pagine FERROVIE E PRIVATIZZAZIONI DA ROZZANO A SASSARI il cuore di Sassari, San Donato. Il cuore più antico e anche quello più contemporaneo. Un quartiere popolare e povero, dove da almeno vent’anni migranti che arrivano da ogni parte del mondo trovano accoglienza: una casa, quasi sempre un lavoro, una scuola. Una delle aree più multietniche d’Italia. Le maestre e i maestri delle elementari di San Donato hanno deciso tutti insieme, senza neppure un voto contrario nel consiglio dei docenti, di respingere la richiesta del vescovo Paolo Atzei di fare vista alla scuola per Natale. Lo hanno fatto perché tra i 250 alunni che siedono sui banchi di quelle aule solo poco più della metà sono cattolici: 128. Gli altri 122 sono arabi e afri- Costantino Cossu cani di varie nazionalità, rom, cinesi, cingalesi, pakistani, filippini. Per far dialogare tra loro culture e religioni differenti, fanno da anni un lavoro straordinario le maestre e i maestri di San Donato. Il vescovo dovrebbe capirlo da solo che la sua presenza nelle aule per Natale rischia di rompere il delicato equilibrio costruito in quella scuola. Un luogo dove ai bambini viene insegnato che le religioni sono tutte uguali, perché questo è il compito di una scuola pubblica, laica come laico è lo stato ordinato dalla Costituzione repubblicana. Una visione che bisognerebbe capire e condividere. Ma non tutti i cattolici, non tutta la chiesa ci riescono. Lo dimostra l’episodio di Sassari ma anche quello del dirigente scolastico di Rozzano. Ieri il preside ha spiegato, nella lettera di dimissioni, di non aver censurato presepi, ma di essersi opposto a quei genitori che intendevano entrare a scuola per intonare canti religiosi. Il vescovo Atzei e il segretario della Cei Nunzio Galantino vogliono davvero confondersi con le sceneggiate del leghista Salvini, arrivato alla scuola di Rozzano con un presepe insieme a La Russa che agitava il tricolore? «Dove lo Stato è confessionale e la Chiesa è politica la libertà è impossibile», scriveva un secolo e mezzo fa Giovanni Bovio, pensatore laico e repubblicano. Purtroppo il suo monito resta attualissimo. Aldo Carra I l governo ha varato un decreto per privatizzare il 40% di Ferrovie dello Stato ed ha colto l'occasione per cambiare i vertici dell’azienda. Se sulle nomine si rivedono logiche di occupazione del potere che siamo ormai abituati a subire (compreso il requisito di aver operato in quel di Firenze). Sulla privatizzazione siamo ancora ad un livello di approssimazione di fronte al quale la sinistra non può tacere. Purtroppo è stato proprio con la sinistra al governo che si è realizzato un volume di privatizzazioni senza eguali in altri paesi. E gli effetti di quelle operazioni sull'economia e sui conti pubblici sono stati pari a zero. CONTINUA |PAGINA 15 pagina 2 il manifesto MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 IL COLPO DEL SULTANO Bruxelles • A metà dicembre la Commissione europea presenterà il primo rapporto sull’attuazione degli impegni presi sulle frontiere L’Ue cede a Erdogan I profughi spaventano Bruxelles più di Daesh. Ad Ankara tre miliardi di euro, liberalizzazione dei visti e ripresa del processo di adesione per non farli partire Leo Lancari «L’ accordo non ci farà dimenticare le divergenze sui diritti umani e la libertà di stampa. Ci torneremo in futuro» spiega il presidente della commissione europea Jean Claude Juncker, rimandando così a un domani indefinito quello che l’Unione europea non è sta capace di fare ieri. Passano gli anni ma l’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti è sempre lo stesso: pagare i regimi di turno perché se li tengano impedendogli di arrivare fino a noi. L’Italia lo fece nel 2008 con la Libia di Gheddafi, Bruxelles si ripete oggi con la Turchia di Rayyip Erdogan. L’accordo siglato domenica scorsa a altro non è infatti che questo: il cedimento senza condizioni alle richieste di Ankara, mascherato a parole soltanto da qualche dichiarazione in cui si promettono controlli sul rispetto dei diritti umani da parte del sultano. Eppure alla vigilia del vertic di domenica sulla crisi dei migranti, all’Unione era arrivata la lettera aperta inviata dal carcere da Can Dundar e Erdem Gul, direttore e caporedattore del giornale di opposizione Cumhuriyet arrestati per aver documentato i traffici di armi della Turchia con l’Isis. Lettera in cui i due giornalisti chiedevano a Bruxelles di non dare credito a Erdogan e soprattutto di non girare la testa di fronte alla continua violazione dei diritti umani e della libertà di stampa nel paese. Come non detto, anzi come non ricevuto. L’ipocrisia e la realpolitik hanno avuto la meglio sui quei diritti sui quali l’Ue pure dice di essere fondata e per i quali mette sotto esame i paesi che chiedono di entrare a farne parte. Come, per l’appunto, la Turchia. Invece così non è stato, a ulteriore dimostrazione di come chi fugge dalla guerre e dalle violenze, ma anche dalla miseria, spaventa più dei tagliagole di Daesh. Pur di mettere fine agli arrivi dei profughi Bruxelles promette di pagare 3 miliardi di euro ad Ankara per la infatti, solo 500 milioni arriveranno dal budget 2016-2017 della Commissione, tutti gli altri saranno a carico dei paesi membri, Molti dei quali a pagare non ci pensano neppure. Cipro, Grecia, Croazia e Ungheria hanno già detto che non tireranno fuori un euro e anche altre capitali storcono la bocca al solo sentir pronunciare il verbo «pagare». Italia compresa che, stando alla tabelle preparate dalla Commissione dovrà versare 281 milioni di euro. Gli altri contributi, calcolati sulla base del reddito nazionale lordo, sono: 534 milioni dalla Germania, 409,5 dalla Gran Bretagna, 386,5 dalla Francia, 191 dalla Spagna e 117,3 dall’Olanda. Sulla carta i pagamenti dovranno essere effettuati il prossimo 21 dicembre, contestualmente alla presentazione da parte degli Stati dei piani con le eventuali rateizzazioni. Per oggi infine è previsto da parte della commissione Libertà civili il voto su due proposte di legge riguardanti l’immigrazione: una su un meccanismo permanente e vincolante di ripartizione delle quote dei rifugiati e richiedenti asilo e una per la redazione di una lista di paesi sicuri per il rimpatrio dei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale. FRONTIERA CON LA SIRIA, SOLDATO DI ANKARA A GUARDIA DEI PROFUGHI. A SINISTRA IL PREMIER DAVUTOGLU LA PRESSE gestione dei campi profughi. Doveva essere una cifra definitiva ma il premier turco Davutoglu, a Bruxelles al posto di Erdogan, ha strappato invece l’impegno a trasformarla in una somma «iniziale», lasciando presumere altri stanziamenti. Ma Ankara ha strappato un impegno anche per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti entro ottobre 2016 e per una ripresa del processo di adesione all’Unione europea con l’apertura, entro il 14 dicembre, del capitolo 17 relativo alle questioni economiche e monetarie. In cambio la Turchia, oltre a impedire ai 2 milioni e mezzo di profughi siriani già presenti all’interno dei suoi confini di partire alla volta dell’Europa, faciliterà i rimpatri dei migranti economici passati attraverso il suo confine. Se Bruxelles non ha fatto altre concessioni ad Erdogan si deve probabilmente solo all’opposizione di Cipro. E’ stato deciso che il 15 dicembre la Commissione Ue presenterà un primo rapporto sul mantenimento degli impegni assunti e sulla gestione delle frontiere. Va detto che se Ankara non è affidabile, anche l’Unione europea fa la sua parte. Specie per quanto riguarda i soldi. Dei 3 miliardi promessi ad Ankara, VITTORIO ARRIGONI Ucciso a Mosul Mahmud al Salfiti, un killer di Vik. Era diventato un miliziano dello Stato islamico Da Gaza fonti non ufficiali ma ben informate confermano: Mahmud al Salfiti, 30 anni, uno dei rapitori e killer di Vittorio Arrigoni nel 2011 a Gaza, è stato ucciso in Iraq, forse da un drone, mentre combatteva nei ranghi di Daesh, lo Stato islamico. Egidia Beretta e Alessandra Arrigoni, madre e sorella di Vik, si erano opposte alla sua condanna a morte (e degli altri imputati), emessa da un tribunale di Hamas, lui è andato a cercare la sua fine lontano da Gaza, a Mosul, concludendo un’esistenza fatta di violenze e azioni dalla parte della follia jihadista. Lo scorso giugno le autorità di Hamas avevano dato ad al Salfiti un permesso per tornare a casa nel mese di Ramadan. Lui ne approfittò per sparire, passando con ogni probabilità per i tunnel che collegano Gaza al Sinai o forse con un passaporto falso per il valico di Rafah. Poi non si era saputo più nulla del jihadista fino a qualche giorno fa, quando su diversi siti e su twitter è stata annunciata la sua morte. Ieri, al Tribunale di Gerusalemme, è stato al centro dell’attenzione un altro brutale assassinio, quello dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir compiuto da tre israeliani, due dei quali minori, nell’estate del 2001. Abu Khdeir fu arso vivo per rappresaglia dopo l’omicidio di tre ragazzi ebrei compiuto da militanti armati palestinesi. Sentenza amara per la famiglia. Sono stati giudicati subito colpevoli i due minori mentre il principale imputato, il trentunenne Yosef Ben-David, è stato (per ora) salvato dalla richiesta di una perizia psichiatrica presentata all’ultimo istante dal suo avvocato. (mi. gio.) Israele / UNA INIZIATIVA ARROGANTE, MA IL PROCESSO DI PACE NON C’È PIÙ Netanyahu «sanziona» l’Europa per i prodotti delle colonie Michele Giorgio C on una mossa ben studiata, Benyamin Netanyahu è arrivato ieri al vertice sul clima a Parigi poche ore dopo aver ordinato la sospensione dei contatti diplomatici con le istituzioni Ue e il riesame del loro coinvolgimento nel negoziato con i palestinesi. È la risposta alla decisione di Bruxelles di dare avvio alle etichettature diverse dei prodotti degli insediamenti colonici ebraici nei Territori occupati di Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Non sorprende che in terra francese, prima ancora di Obama, Merkel, Hollande e Cameron, il premier israeliano abbia deciso di incontrare, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione, Federica Mogherini. «I rapporti con Israele sono buoni, ampi e profondi», ha detto Mogherini cercando di allentare le tensioni. Poco dopo però l’Ue, attraverso un portavoce, ha fatto sapere che «continuerà a lavorare nel quadro del processo di pace in Medio Oriente, nel Quartetto, con i suoi partner arabi, con entrambe le parti (israeliani e palestinesi, ndr), perché la pace in Medio Oriente è un interesse della intera comunità internazionale e di tutti gli europei». Le minacce di Netanyahu non spaventano l’Ue, accusata da Tel Aviv addirittura di antisemitismo. Bruxelles ha ribadito ad ogni occasione la sua posizione, ancorata alle risoluzioni dell’Onu. I territori di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e le Alture del Golan sono stati occupati militarmente (nel 1967) e non sono parte del territorio israeliano. Pertanto i prodotti delle colonie ebraiche costruite illegalmente nelle terre occupate non possono essere esportati verso l’Europa con l’etichetta «made in Israel». È un regola commerciale, in questo caso anche con un evidente contenuto politico ma pur sempre una regola commerciale, alla quale Israele non può sottrarsi chiedendo all’Ue di riconoscere le colonie e di dimenti- care l’occupazione. Parte della stampa israeliana spiegava ieri che è cominciata la lunga battaglia di Netanyahu e del suo governo per ottenere la revoca della decisione della Commissione europea sulle etichettature. Una battaglia accompagnata dal passo fatto dal ministero dell’istruzione israeliano che ha sconsigliato le gite delle scolaresche in Europa. Ufficialmente per il timore di attentati ma conoscendo l’approccio ultranazionalista del ministro dell’Istruzione, Naftali Bennett, è lecito pensare che anche questa decisione rappresenti una ritorsione contro l’Ue. Secondo le disposizioni date da Netanyahu, che attualmente ha anche l’interim degli Esteri, gli europei si vedranno messi da parte nel campo dei diritti umani, delle organizzazioni internazionali e per i progetti di sviluppo nell’Area C della Cisgiordania, che 22 anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, resta sotto controllo amministrativo e militare israeliano. In realtà il passo fatto da Netanyahu si rivelerà in buona parte simbolico, uno scontro di parole con l’Ue senza effetti concreti. D’altronde non si capisce da quale processo di pace dovrebbe essere esclusa l’Europa, dato che il negoziato israelo-palestinese è fermo da anni e non basterà a ridargli vita la stretta di mano di ieri a Parigi, a beneficio dei fotografi, tra Netanyahu e il presidente dell’Anp Abu Mazen. Persino un giornalista molto vicino a Netanyahu, Dan Margalit, del quotidiano filogovernativo Israel Ha Yom, ha scritto che il governo «ha perso la bussola». Intanto l’esercito israeliano, i servizi di sicurezza e lo stesso ministro della Difesa Yaalon riconoscono che l’Intifada di Gerusalemme cominciata ad inizio ottobre non è stata domata e che sono probabili nuove fiammate della rivolta palestinese che il governo definisce una «ondata di terrorismo». Domenica sera un ragazzo palestinese di 17 anni, Ayman al Abbasi, è stato ucciso a Silwan (Gerusalemme est) in scontri con la polizia israeliana. A Hebron, dopo i sigilli a Al-Khalil Radio e Manbar al Hurriyya, i soldati hanno chiuso una terza emittente palestinese - Dream Radio con l’accusa di istigazione contro Israele. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 il manifesto IL COLPO DEL SULTANO Ankara • pagina 3 Resta alta la tensione tra i due paesi. A Parigi salta l’incontro tra Putin e Erdogan: «Non è in agenda» RUSSIA-TURCHIA · Atene: «I jet turchi hanno violato il nostro spazio aereo» L’accusa di Putin Giuseppe Acconcia S e l’Unione europea descrive la Turchia come paese sicuro, le strade del paese raccontano un’altra storia: di conflitto sociale, civile, repressione dei movimenti e strategia della tensione. Prima di tutto lo scontro tra Turchia e Russia in merito all’abbattimento dello scorso martedì del bombardiere Sukhoi Su-24 ha prodotto una crisi senza precedenti tra Mosca e Ankara. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha rivelato di sospettare che il jet sia stato abbattuto «per assicurare forniture illegali di petrolio da Is alla Turchia». Il confine tra Siria e Turchia continua ad essere poroso al passaggio di armi dei jihadisti e sigillato per profughi e aiuti umanitari diretti a Kobane. Gli Usa hanno confermato la versione turca secondo cui il jet russo sarebbe entrato in territorio turco per circa 17 secondi: evenienza che è stata duramente negata da Mosca. Putin non ha neppure incontrato il suo omologo turco ai margini del summit sul clima di Parigi. «Questo incontro non è in agenda», ha chiosato con la stampa Dmitri Peskov, portavoce di Putin. Da giorni ormai il presidente russo non risponde alle telefonate di Erdogan. I due sono a tal punto ai ferri corti che Ankara si rifiuta di presentare scuse ufficiali per giustificare quanto accaduto. «Non ci possiamo scusare per aver fatto il nostro dovere», ha tuonato il premier, Ahmet Davutoglu, che ha incontrato a Bruxelles il Segretario LO SCAMBIO DELL’EUROPA CON IL REGIME TURCO Sui rifugiati una domenica delle salme A Bruxelles i 28 governi dell’Ue mettono in scena una farsa sui diritti umani e sull’immigrazione. L’accordo trovato per fermare i profughi, in prevalenza siriani, si basa su uno scambio che contraddice le dichiarazioni dei governi europei. Da un lato l’unico argomento sul quale i 28 concordano è impedire alle persone di mettersi in salvo, di chiedere protezione, lasciandole nei campi profughi. L’obiettivo specifico sono i 2 milioni di profughi ospitati in Turchia. Consapevoli del fatto che la guerra in Siria, e quelle a diversa intensità in corso in tutta la regione medio orientale, difficilmente si spegneranno nel breve periodo (grazie anche agli interessi in gioco di molti dei 28 governi e dell’incapacità, o della mancanza di volontà, di trovare soluzioni diplomatiche), non avendo alcuna intenzione di assumersi la responsabilità di dare asilo a chi è vittima di quelle guerre, puntano tutto sulla chiusura delle frontiere. Sull’innalzamento di altre barriere. Si affidano per questo al governo turco, che ha dato prova più volte di essere in grado di tutelare i propri interessi, anche ricorrendo alla violazione sistematica dei diritti umani e alla violenza (la questione curda non è stata evocata a Bruxelles, se non nella generica formula del rispetto dei diritti umani). La Turchia in cam- bio di 3 miliardi di euro e di un canale d’accesso facilitato all’Ue, bloccherà i profughi. I rappresentanti dei 28 governi, e quelli della Commissione, hanno speso parole di attenzione per i diritti umani, come se quelli dei rifugiati ai quali verrà impedito di partire dalle coste turche (e questo blocco, già in corso con continui blitz della polizia turca, non è stato raccontato), ricorrendo alla violenza e alle armi, non rientrassero in questa categoria. Ma forse i nostri rappresentanti non ritengono che i diritti umani siano uguali per tutti e quando ne parlano si riferiscono sono a quelli degli europei e di parte della popolazione turca (i curdi non vengono nominati per non dispiacere ad Ankara). Questo è quanto emerge dalla farsa alla quale abbiamo assistito. Le conseguenze sono già davanti ai nostri occhi. Per i profughi sarà ancora più difficile mettersi in salvo e aumenteranno i morti e gli scomparsi, oltre che le cifre richieste per arrivare nell’Ue. Un favore ai trafficanti di essere umani che vedranno prosperare i loro affari. La Turchia si rafforza e si rafforza il governo che agisce contro le opposizioni interne e i curdi: un favore a chi i diritti umani li calpesta ogni giorno. In Europa aumenterà il razzismo, alimentato dalle azioni di blocco delle frontiere che sottendono un’idea di invasione da impedire, nonostante i numeri ancora esigui, nel panorama internazionale. Un assist quindi al razzismo e al fascismo dilagante e alle forze della destra xenofoba. Forse l’Ue pensa di curare le proprie ferite, quelle auto inferte da governi incapaci e schierati con gli interessi delle multinazionali della finanza e non con i propri popoli, attraverso la farsa di accordi siglati in nome dei diritti umani, ma che in realtà prevedono l’esatto contrario. Una comunità ricca e potente come quella che si è incontrata a Bruxelles con il governo di Ankara avrebbe dovuto avanzare proposte di altro tipo, chiedere al governo turco di rispettare i diritti dei curdi fermando la persecuzione in atto, il rispetto dei diritti umani e una collaborazione per consentire il passaggio verso l’Ue in sicurezza dei profughi. Invece si è preferito agire perché la giornata di domenica, come avrebbe detto De Andrè, fosse una «domenica delle salme». * vicepresidente nazionale Arci Corbyn: «Voto libero sulle bombe anti Is» Leonardo Clausi LONDRA D AEROPORTO DI ANKARA, RESTITUZIONE DELLA SALMA DEL PILOTA DEL JET RUSSO ABBATTUTO LAPRESSE generale della Nato, Jens Stoltenberg. Putin ha visto invece a Parigi il presidente Usa. Barack Obama ha espresso il suo rammarico per l’abbattimento del Sukhoi e ha auspicato progressi nei colloqui di Vienna per arrivare a «un cessate il fuoco» in Siria. Obama ha ribadito la richiesta che il presidente siriano, Bashar al-Assad, lasci il potere e che si rafforzi la strategia congiunta, mai decollata, tra Russia e coalizione internazionale contro lo Stato islamico. Le autorità turche hanno anche chiesto al Cremlino di rivedere la decisione di imporre sanzioni commerciali alla Turchia. Le prime sanzioni economiche contro Ankara prevedono il bando su frutta e verdura, lo stop ai voli charter e ai pacchetti turistici per cittadini turchi, oltre al ripristino dei visti e al divieto di assumere manodopera turca dal primo gennaio prossimo. Non è ancora chiaro cosa accadrà con i grandi progetti turco-russi, come la prima centrale nucleare turca e il gasdotto Turkish Stream. Anche il primo ministro greco, Alexis Tsipras, è entrato nella polemica tra Ankara e Mosca denunI GIORNALISTI DI CUMHURIYET ARRESTATI Filippo Miraglia * REGNO UNITO Dundar e Gul: «No della Ue a uno stato che nega diritti e libertà» «La volontà di risolvere la crisi dei migranti non pregiudichi il vostro impegno per i diritti umani, per la libertà di stampa e di espressione», scrivono in una lettera dal carcere, rivolta all’Unione europea chiamata a decidere sull’adesione della Turchia, Can Dundar ed Erdem Gul, direttore e caporedattore del quotidiano turco di opposizione Cumhuriyet, arrestati con accuse di «spionaggio» e «propaganda terroristica». «Da giornalisti noi crediamo che la Turchia faccia parte della famiglia europea e che dovrebbe essere un membro dell’Ue. La libertà di pensiero e di espressione sono valori imprescindibili della nostra civiltà. Noi siamo stati arrestati e detenuti in attesa di giudizio per aver esercitato queste libertà e per aver difeso il diritto dei cittadini a essere informati», prosegue la lettera. «Il premier turco, che voi (leader europei, ndr) incontrerete questo fine settimana, e il regime che rappresenta, sono noti per le loro politiche e pratiche che ignorano completamente la libertà di stampa e i diritti umani. I vostri governi stanno negoziando con Ankara sulla crisi dei migranti, una crisi che preoccupa tutti. Ci auguriamo veramente che questo vertice porti a una soluzione duratura di questo problema. Ma auspichiamo anche che la vostra volontà di mettere fine alla crisi non dimentichi la violazione dei diritti». I legali dei due giornalisti hanno presentato al tribunale di Istanbul un ricorso per chiederne la scarcerazione. Il processo a carico di Can Dundar e Erdem Gul si basa su un’inchiesta pubblicata alla vigilia delle elezioni del 7 giugno scorso, in cui denunciarono il passaggio di camion carichi di armi dalla Turchia alla Siria, finiti in mano a gruppi jihadisti. (giu. acc.) ciando le continue violazioni dello spazio aereo greco da parte dell’aviazione turca. Tsipras ha definito «oltraggiose e incredibili» le oltre 1600 violazioni turche dello spazio aereo greco. Come gesto distensivo, Ankara ha recuperato e consegnato alle autorità russe il corpo del pilota del Su-24, il tenente colonnello Oleg Peshkov, rimpatriato ieri in Russia. Ad attenderlo c’erano il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, e il capo di stato maggiore dell’aeronautica, Viktor Bondarev. Ma per Mosca non basta. I suoi bombardieri volano al confine turco-siriano con missili aria-aria per difendersi da eventuali attacchi. Momenti di tensione si sono registrati anche nello Stretto dei Dardanelli quando un’imbarcazione di supporto logistico della Marina militare russa ha incrociato un sottomarino turco. Il Kurdistan turco vive uno stato di tensione permanente. Un ragazzo è stato ucciso a Cizre, roccaforte di Hdp e città sotto assedio per oltre nove giorni alla vigilia del voto primo novembre scorso che ha confermato la presenza in parlamento della sinistra filo-kurda. Mentre a Derik, l’esercito ha bombardato la città in cui vige da giorni il coprifuoco. Una giornata storica per il paese è stata la scorsa domenica quando decine di migliaia di persone hanno partecipato a Diyarbakir ai fune- Il presidente russo: «Jet abbattuto per coprire il contrabbando di petrolio con l’Is» rali del capo dell’Ordine degli avvocati, Tahir Elci, ucciso a sangue freddo per strada ai margini di un flash mob che denunciava lo stato di assedio del Kurdistan turco. Elci aveva difeso la legittimità ad esistere del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e per questo è stato arrestato ed era in attesa di giudizio. In verità le forze di polizia continuano addirittura a negare che Elci fosse il vero obiettivo degli attentatori. I suoi funerali sono diventati un evento per tutti i turchi per manifestare contro la repressione in corso nel paese. La folla ha urlato «assassino» in riferimento alla campagna anti-Pkk, mascherata da anti-Isis, perpetrata dai leader turchi. «Il Pkk non è un’organizzazione terroristica», «Non ci arrenderemo. Il Pkk è il popolo e il popolo è qui», dicevano altri slogan. Una simile manifestazione si era tenuta sabato ad Istanbul ed è stata dispersa dalle forze di sicurezza. Proprio il sostegno che la sinistra filo-kurda del partito democratico dei Popoli (Hdp) ha nelle grandi città turche dimostra la dimensione urbana e nazionale che ha assunto ormai il movimento. Nella città si sono svolti anche i funerali dei due poliziotti uccisi nell’attacco. opo un fine settimana di tese discussioni con in gioco l’unità del suo governo ombra e del partito parlamentare nel suo complesso, Jeremy Corbyn ha sciolto il suo dilemma: concederà un voto libero ai deputati laburisti sulla cruciale decisione se allargare i bombardamenti aerei britannici anti-Isis alla Siria. La decisione è arrivata inaspettata e sulla scia di voci ricorrenti, nella mattinata di lunedì, che il leader contrario agli attacchi aerei voluti da Cameron - fosse più incline a imporre disciplina e a far votare contro ricorrendo alla cosiddetta three line whip, la convocazione più categorica pena la quale si rischia l’espulsione dal gruppo e addirittura, in certi casi, dal partito. Ma a metà pomeriggio, Corbyn è emerso dall’ennesima difficile riunione con il suo shadow cabinet mostrando di preferire l’unità interna del partito al suo mandato di farne rispettare la linea. In cambio, per nulla persuaso dalle motivazioni pro-intervento addotte da Cameron venerdì scorso in aula, il leader laburista ha chiesto al premier un dibattito allungato a due giorni per consentire la piena discussione di alcune delle motivazioni del governo, sulla cui fondatezza il Parliamentary labour party (Ppl) - per tacere della folta rappresentanza degli iscritti e degli elettori - nutre uno scetticismo che aumenta man mano che ci si allontana dallo shock del massacro di Parigi. Uno scetticismo non del tutto eliminato dalle tre ore spese da Cameron in aula venerdì per rispondere alle quattro obiezioni laburiste, che riguardano una concreta accelerazione della soluzione negoziale della guerra civile siriana, quale esercito di terra si sarebbe fatto carico della liberazione dei territori occupati dall’Isis (Cameron ha fatto ripetutamente riferimento a 70.000 fantomatici combattenti anti-Assad «moderati»), la coordinazione e strategia militare da adottare nella regione, la gestione della crisi umanitaria dei rifugiati e il taglio delle forniture energetiche e finanziarie al cosiddetto Califfato. La richiesta è contenuta in una lettera che Corbyn ha indirizzato a Cameron, alla quale quest’ultimo risponderà ancora non si sa bene in che termini. Soprattutto non si sa ora se tirerà dritto con la votazione, dopo aver ribadito più volte che senza una «chiara maggioranza» in tasca non avrebbe rischiato «una vittoria per l’Isis» che in realtà è soprattutto uno scacco politico personale simile a quello patito nel 2013 quando il Labour, allora guidato da Ed Miliband, votò compatto contro i bombardamenti anti-Assad. Cameron ha bisogno dei voti dei frontbenchers laburisti perché ha molte defezioni nelle sue fila e il Snp resta contrario. È una marcia indietro, questa di Corbyn, leggibile come un segno di debolezza di un leader ostaggio del suo governo-ombra, che aveva minacciato dimissioni e la cui maggioritaria bramosia di bombardare rende quantomeno improbabile il riferirglisi con l’appellativo di «moderato». Ma potrebbe anche rivelarsi un colpo tattico per guadagnare tempo: se il voto si tenesse la settimana prossima e senza che la mozione passi, Corbyn ne uscirebbe come il leader capace di tener fede alla propria vocazione di ascoltatore e mediatore delle differenze di un partito della cui divisione lui stesso è il simbolo, senza contravvenire alla linea anti-bombardamenti sua e della maggioranza degli iscritti e militanti. Ma ancora non si sa se la votazione stessa avrà luogo: con soli 60 deputati laburisti a favore su 231, Cameron non ha ancora la maggioranza che gli serve ad autorizzare gli attacchi. pagina 4 il manifesto MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 MALEDETTA GUERRA IL VIAGGIO · Deluse però le associazioni lgbt I sei giorni di Bergoglio all’insegna della pace BANGUI, TIRATORE APPOSTATO SUL MINARETO, FOTO GRANDE IL PAPA E L’IMAM NAIBI. A DESTRA BAMBINI IN ATTESA DI BERGOGLIO FOTO LAPRESSE BANGUI · Il papa chiude il suo tour africano nell’enclave musulmana assediata dalle milizie cristiane La riconciliazione in moschea Rita Plantera I l viaggio in Africa di Francesco si è concluso ieri con la visita alla moschea di Koudoukou nel quartiere Pk5 di Bangui, un posto tra i più pericolosi al mondo, un enclave dove trovano rifugio la maggior parte dei musulmani che a seguito delle violenze scoppiate nel 2013 – non ha lasciato il Paese. In altre parole «una prigione a cielo aperto», come l’ha definito l’imam Tidiani Moussa Naibi, da circa due mesi circondata dalle milizie Anti-Balaka (le milizie a maggioranza cristiana) che bloccano i rifornimenti in entrata e i musulmani in uscita. Dalla moschea di Koudoukou – divenuto per l’occasione luogo simbolo di riconciliazione di tutte le faide religiose o presunte tali «Insieme diciamo no all’odio in nome di Dio». Ma il conflitto Seleka-Anti Balaka ha radici politiche sparse per il mondo - il papa ha lanciato un appello per la pace sociale e religiosa particolarmente rivolto a chi sotto l’egida religiosa si rende responsabile di efferati crimini contro le popolazioni civili: «Cristiani e musulmani sono fratelli. Insieme diciamo no a odio, violenza, vendetta, in particolare quella in nome di una fede o di dio stesso». E ha aggiunto: «Coloro che affermano di credere in dio devono essere anche uomini e donne di pace», notando come cristiani, musulmani e seguaci di religioni tradizionali abbiano vissuto insieme in pace per molti anni. Per le strade del Pk5, ad accogliere il papa delle periferie da un lato c’erano i tiratori scelti dell’Onu posizionati sui minareti, i mezzi corazzati armati di mitragliatrici e i caschi blu in giubbotto antiproiettile, dall’altro migliaia di musulmani in festa, tra cui quelli – giovani coraggiosi – che si sono avventurati furi dall’enclave per seguire il corteo del papa fino allo stadio (gremito) per la messa e l’incontro conclusivo con le popolazioni della Repubblica Centrafricana. All’invito del papa hanno fatto eco le parole dell’imam Naibi: «Il rapporto con i nostri fratelli e sorelle cristiani è così profondo che nessuna manovra che cerchi di minarlo avrà successo: cristiani e musulmani di questo paese hanno il dovere di vivere insieme e di amarsi». Affermazioni a dir poco chiarificatrici sulle violenze cosiddette interreligiose scoppiate nel dicembre 2013 (dopo la destituzione dell’ex presidente Françoise Bozizè e la presa del potere da parte delle milizie Seleka (a maggioranza musulmana)), innescate e manipolate ad arte da signori della guerra che lottano per il controllo del territorio e lo sfruttamento di risorse quali oro e diamanti. Le violenze e gli abusi contro i civili ad opera dei Seleka (gli arabi del nord, così apostrofati dai cristiani del sud) hanno portato all’emergere delle cosiddette milizie «Anti-Balaka» responsabili delPRESIDENZIALI IN BURKINA FASO Roch Kaboré è in testa Vittoria al primo turno? I suoi avversari lo accusano di aver copiato il programma del deposto presidente Compaoré, mentre lui al contrario sostiene di voler «finire il lavoro iniziato da Thomas Sankara». Sia come sia, per Roch Marc Christian Kaboré, candidato presidenziale del Mouvement du peuple pour le progrès (Mpp), si profila una vittoria al primo turno, dopo il voto di domenica scorsa. Ieri sera, quando erano stati scrutinati 253 seggi su 368, era attestato sul 54,27%. Il suo rivale più accreditato, Zéphirin Diabré dell’Union du peuple pour le progrès (Upc), seguiva con il 29,16% delle preferenze. Molto più staccati gli altri candidati, Tahirou Barry (2,66%) e Bénéwendé Sankara (2,34%%). La comunicazione dei risultati definitivi è attesa per oggi. la caccia all’uomo contro i civili di religione musulmana, sterminati o costretti (in decine di migliaia) ad abbandonare il sud del Paese. Che si è ritrovato diviso in due nella caccia all’altro in nome di dio. In realtà lungi dal combattere alla stregua di ragione religiose, questi due gruppi armati vantano un dna politico tout court. Da un lato i Seleka - coinvolti nel traffico di oro, diamanti, zucchero e bracconaggio di elefanti - rappresentano una coalizione di fazioni ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari, tra cui quelle della Convention des Patriotes du Salut du Kodro (Cpsk), Convention des Patriotes pour la Justice et la Paix (Cpjp), Union des Forces Democratiques pour le Rassemblement (Ufdr), Front Democratique du Peuple Centrafricain (FdpcDPC) e Alliance pour la Renaissance et la Refondation (Arr). Dall’altro gli Anti-Balaka (anti-machete in lingua sango) – anch’essi coinvolti nei traffici di oro e diamanti – divisi in due ale: il Front de résistance (quella maggioritaria) e les Combattants pour la li- bération du peuple centrafricain (ala minoritaria pro-Bozizé) legata al Front pour le retour à l’ordre constitutionnel en Centrafrique (Froca), il movimento creato in Francia dall’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé. L’esercito regolare, che secondo alcune associazioni per i diritti umani sosterrebbe alcune fazioni degli Anti-Balaka, è stato messo da parte dai Seleka una volta giunti al governo. Recentemente il presidente ad interim Catherine Samba-Panza ha fatto appello all’Onu affinché venga riarmato, sostenendo che le forze di pace delle Nazioni Unite e le truppe francesi (dell’Operazione Sangaris) hanno fallito nella loro missione di proteggere i civili. Richiesta per cui Samba-Panza vanta il sostegno di molti che il mese scorso sono scesi in piazza a Bangui per manifestare in favore del riarmo dell’esercito. Insomma, si fa presto a dire guerra di religione, quando invece alla base di un brutale conflitto settario c’è un’economia fatta di traffici e connivenze politico-militari. Luca Kocci S i è concluso ieri sera, con l’atterraggio a Ciampino alle 18.30, il viaggio apostolico in Africa di papa Francesco, l’undicesima trasferta internazionale del suo pontificato, la prima in terra africana. Il pontefice ha attraversato Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana. In quest’ultima, domenica ha simbolicamente avviato il Giubileo straordinario dedicato alla misericordia (l’inaugurazione ufficiale sarà a San Pietro, l’8 dicembre), aprendo la “porta santa” della cattedrale di Bangui. «Oggi Bangui diviene la capitale spirituale del mondo», ha detto Bergoglio dopo aver varcato la porta. «L’Anno santo della misericordia viene in anticipo in questa terra, che soffre da diversi anni la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra». E il riferimento alla Siria, alla Palestina, ma anche al terrorismo internazionale appare evidente. Un atto inedito e simbolicamente significativo quello di dare il via - sebbene in maniera ufficiosa - all’Anno santo in Africa e non in Vaticano. All’interno KENYA · Arrestate persone "di casa" per la morte di Rita Fossaceca Volontaria italiana assassinata, ma gli Al Shabaab non c’entrano R. Pla. I l cuoco, il lavandaio, il giardiniere e il mandante. Sono quattro le persone arrestate per l’omicidio del medico italiano che si trovava in Kenya per conto di una ong italiana. A riferirlo è stato il portavoce della polizia locale Charles Owino. Rita Fossaceca (nella foto), 51 anni, è stata uccisa sabato sera per mano di gente "di casa" nel corso di una rapina a mano armata nella sua casa di Mijomboni vicino a Malindi. Originaria di Trivento (Campobasso) e trapiantata a Novara dove faceva il medico radiologo presso l’ospedale Maggiore, in Kenya lavorava per ForLife Onlus e gestiva un orfanotrofio a Mijomboni, a nord della città costiera di Mombasa, a una trentina di chilometri dalle note località turistiche di Malindi e Watamu. Un gruppo di banditi armati avrebbero fatto irruzione in casa. Rita sarebbe stata stata uccisa da un colpo di pistola mentre cercava di difendere la madre dal tiro di armi da fuoco e dai colpi di machete. Con lei anche il padre, rimasto ferito alla testa e a una spalla, mentre lo zio sacerdote e due infermiere dell’ospedale di Novara, Monica Zanellato e Paola Lenghini, malgrado le ferite riportate non sarebbero in gravi condizioni. «Dopo una serie di giri nelle fattorie, valutazioni delle spese e dei possibili guadagni, abbiamo acquistato la mucca. La mucca è incinta e tra tre mesi avremo anche un vitellino e, finalmente, il latte per il villaggio». È questa l’ultima testimonianza del medico lasciata sul sito internet della onlus per cui lavorava. In Africa, Rita Fossaceca dove si recava periodicamente da 11 anni e faceva «tanto bene in Kenya, Malindi, Watamu», come scrive Jacie Kim, una sua amica, sul profilo Facebook di Rita appena appresa la notizia della sua morte. «Sono costernato e inorridito dall’attacco criminale insensato contro una ong italiana a Watamu - ha detto il ministro del turismo keniano Najib Balala - Erano qui nel nostro Paese per prestare assistenza ai bambini disabili e alle loro famiglie e io sono devastato nel sentire che sono stati colpiti in questo modo». Il ministro ha descritto l’attacco armato di sabato a Mijomboni come un incidente isolato. L’industria del turismo ha subito negli ultimi anni gravi perdite per via della minaccia terroristica degli Al-Shabaab e dei gruppi separatisti attivi soprattutto sulla costa, dove più evidente è il divario tra la povertà di chi vive in baracche fatiscenti, tra fogne a cielo aperto e i resort turistici a 5 stelle per pochi eletti. Rita non è stata vittima né degli Al-Shabaab né di alcun gruppo separatista, ma della furia omicida e dalla rabbia di chi vive ai margini e non ha modo di coltivare le proprie aspirazioni e deve solo accontentarsi. Di una casa, di un lavoro, dell’aiuto da parte di chi dona con rispetto della dignità dell’altro. Rita donava mantenendo questo rispetto. È stata vittima di quella «povertà che alimenta il terrorismo» (di cui ha parlato Francesco nel suo primo discorso proprio in Kenya alcuni giorni fa) e la rabbia che uccide indiscriminatamente, senza guardare negli occhi di nessuno. tuttavia di un evento, il Giubileo, che più tradizionale non si può e che, nonostante l’operazione di decentralizzazione voluta da Francesco, non farà altro che rafforzare il papato e il centralismo romano della Chiesa cattolica, la quale, va ricordato, ha cominciato a celebrare giubilei in piena età medievale, con Bonifacio VIII nel 1300, per affermare la supremazia del potere religioso su quello politico, del pontefice sui sovrani laici. Se l’apertura della porta santa è stato l’evento principale del viaggio - decisamente più pastorale e sociale che politico, nonostante i numerosi incontri con le autorità civili dei tre Paesi -, il tema chiave dei sei giorni in Africa è stato la pace, introdotto da quel «maledetti coloro che fanno le guerre» pronunciato nell’omelia in Vaticano alla vigilia della partenza: dal papa è arrivata la condanna della guerra e del terrorismo, la denuncia del commercio e del traffico di armi, dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e degli squilibri sociali, l’appello alle religioni ad essere operatrici di pace e di unità e non strumenti di conflitto e divisioni. «La guerra è un affare, un affare grande. ’Il bilancio va male? Facciamo una guerra’. Dietro ci sono interessi, vendita di armi, potere», ha detto ancora ieri sera sul volo che lo riportava a Roma. «Tra cristiani e musulmani siamo fratelli, dobbiamo dunque considerarci come tali e comportarci come tali», aveva detto sempre ieri Bergoglio visitando la moschea centrale di Koudoukou a Bangui. «Insieme diciamo no all’odio, non alla vendetta, no alla violenza, in particolare a quella perpetrata in nome di una religione o di Dio. Dio è pace, Dio salam». Durante tutto il viaggio è tornato più volte sull’argomento. «La violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione», ha detto in Kenya. E «a tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo», nella messa a Bangui ha chiesto: «Deponete questi strumenti di morte, armatevi della giustizia, dell’amore e della misericordia». Alle parole e ai gesti netti sulla guerra - a partire dalla scelta di visitare la Repubblica Centrafricana, nonostante molti osservatori sconsigliassero questa tappa a causa dell’instabilità politica del Paese -, non sono state affiancate affermazioni altrettanto nette sui diritti civili delle persone omosessuali. Gli attivisti delle associazioni lgbt - e la petizione internazionale #PopeSpeakOut - avevano chiesto al papa di essere ricevuti in udienza (anche solo privatamente) e di condannare le discriminazioni degli omosessuali in Kenya e soprattutto in Uganda, dove l’omosessualità è un reato penale punito anche con l’ergastolo. Nessun intervento pubblico, invece e, a quanto risulta, nessuna udienza, nemmeno privata. Contraddizioni del pontificato di Bergoglio che ogni tanto riemergono, perlomeno su alcuni temi sensibili. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 il manifesto INTERNAZIONALE pagina 5 VENEZUELA · Arrestato Jesus Noguera Hernandez, 28 anni, detto «El Pipi», noto per la sua appartenenza alla banda di «El Picure» Regolamento dei conti nell’opposizione Ucciso Luis Manuel Diaz, un dirigente del partito Accion democratica. E in vista delle prossime elezioni del 6 dicembre, il caso è diventato «nazionale» L’OPPOSIZIONE VENEZUELANA IN PIAZZA, NELLA FOTO PICCOLA L’UOMO ASSAASSINATO, SOTTO IL PREMIER PORTOGHESE COSTA /LAPRESSE Geraldina Colotti INVIATA A CARACAS S i chiamava Luis Manuel Diaz e aveva 44 anni il dirigente venezuelano del partito Accion Democratica (Ad). È stato ammazzato dopo un comizio in Altagracia de Orituco, nel Guarico, una regione centrale del Venezuela, a 250 km a sud di Caracas. L’omicidio è stato commesso mercoledì notte e il presunto assassino è stato arrestato nelle ore successive, inchiodato da forti indizi e testimonianze. Si tratta di Jesus Noguera Hernandez, 28 anni, detto «El Pipi», noto per la sua appartenenza alla banda di «El Picure», un pericoloso criminale ricercato dalle autorità venezuelane. L’arrestato era in possesso del database con le informazioni riservate dell’opposizione venezuelana, riunita nel cartello della Mud, la Mesa de la Unidad Democratica, di cui fa parte Ad. Accion Democratica (di centrosinistra, nel secolo scorso) è stato uno dei due partiti che, dalla cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez nel ’58, ha gestito l’alternanza di governo con il Copei (equivalente della Democrazia cristiana in Italia): fino alla vittoria elettorale di Hugo Chavez che, nel 1998, ha scompaginato trasversalmente l’arco degli schieramenti politici tradizionali, determinando il campo di una nuova sinistra «umanista e gramsciana». Anche l’ucciso - diventato segretario di Ad due mesi fa - aveva precedenti penali. Dal 2010 era sotto inchiesta per omicidio, sospettato di essere il capo della banda Los Plateados, in lotta con gli avversari per il controllo della zona. A dispetto del suo soprannome, - El Crema – Diaz era considerato un duro, esperto nella contrattazione di posti di lavoro nella regione. Due anni fa era uscito dal carcere, ma – raccontano alcuni operai – aveva paura di essere ammazzato perché, attraverso il traffico dei posti di lavoro, mirava ai vertici del sindacato petrolifero di Altagracia de Orituco. Nella regione, la compravendita di posti di lavoro nei cantieri di opere pubbliche di grande portata - gestite dalla petrolifera di stato Pdvsa e da Corpoelec, l’impresa elettrica nazionale creata da Cha- vez nel 2007 – è un affare molto appetibile. La compravendita di posti di lavoro, governata da mafie sindacali modello Usa è una perversa eredità degli anni della IV Repubblica, che il nuovo modello di gestione popolare proposto dal chavismo non è riuscito a debellare dappertutto. Nella parte centrale del paese si stanno costruendo ferrovie, strade, reti di gas e installazioni elettriche e i gruppi sindacali possono gestire l’assunzione di almeno il 75% degli operai. Questo fa sì che alcuni personaggi - “delegati sindacali” - intaschino tangenti e al contempo siano sul libro paga delle imprese di subappalto, per garantire l’a-conflittualità o le catene clientelari. Il gruppo maneggiato da Diaz aveva almeno il controllo dell’impianto termoelettrico Ezequiel Zamora, ma era in lotta con altri cartelli gestiti da El Picure. Lo scorso maggio, alcuni sicari in moto ammazzarono due dei suoi più stretti collaboratori, Mauro Mejias e José Paredes. Il segretario di Ad era sempre accompagnato da uomini armati, ma questo non è bastato a salvargli la vita. Il contesto in cui è maturato l’omicidio è chiaro e così pure le motivazioni che lo hanno prodotto. Tuttavia, nell’acceso contesto politico che precede le parlamentari del 6 dicembre, l’episodio è balzato a livello internazionale, provocando prese di posizioni e attacchi al governo Maduro. Immediatamente, infatti, le destre hanno accusato dell’omicidio il Partito socialista unito del Venezuela (Psuv). Ha dato il la il segretario generale di Ad, Ramos Allup. La sua dichiarazione è stata ripresa dalla moglie del golpista Leopoldo Lo- pez, leader di Voluntad popular, in carcere per le violenze dell’anno scorso: Maduro è l’«unico responsabile», ha detto. Luis Almagro - il segretario generale dell’Osa che per i suoi atteggiamenti si è messo contro Pepe Mujica e tutta la sinistra uruguayana - ha chiesto la sospensione delle elezioni. Il Parlamento europeo ha annunciato l’invio di propri osservatori, oltre alle migliaia invitati dalle destre e già presenti qui. L’ambasciata Usa a Caracas ha emesso un comunicato definendo quello di Diaz “il più mortale dei vari recenti attacchi e atti di intimidazione diretti a candidati dell’opposizione”. Come ha invece dimostrato il lavoro della Piattaforma internazionale dei media popolari, che si è recentemente costituita a San Paolo del Brasile e che ha smontato con dati e video le presunte «aggressioni» a Tintori e soci, si tratta di «guerra mediatica». La serie di fatti inventati – scrive la Piattaforma – serve ad alimentare un meccanismo internazionale che porta il governo a «dissociarsi» da avvenimenti di cui non ha colpa, lasciando l’impressione di una compagine allo sbando o malata di complottismo. Le numerose esecuzioni mirate ai danni di dirigenti chavisti, nazionali e territoriali vengono invece presentati dalle destre come «regolamenti di conti». In una trasmissione pubblica, Maduro ha affermato che attori politici legati all’estrema destra “stanno offrendo tra i 30 e i 50 mila dollari alla malavita paramilitare perché compia atti di violenza indossando magliette chaviste. L’intreccio tra mafia e politica che governa le aree oltranziste di opposizione è emerso con forza negli ultimi mesi, a seguito di alcuni efferati omicidi interni come quello della militante Mud Liana Hergueta,squartata dai suoi in un quartiere di Caracas. Intanto, nel parlamento argentino, il Frente para la Victoria ha emesso un comunicato di solidarietà al Venezuela, che il neo-eletto Macri, grande amico di Tintori e soci vorrebbe far cacciare dal Mercosur. Portogallo/INTERVISTA A MARGARIDA ANTUNES PROFESSORESSA DI ECONOMIA «Il programma del governo propone aumenti del salario minimo e la lotta al precariato» Bruno Montesano D opo la nascita del governo di Costa, appoggiato da Bloco de esquerda e Partido Comunista Portoguese ma composto da membri o personalità vicine al solo Partido Socialista, abbiamo raggiunto Margarida Antunes, professoressa di Economia all’Università di Coimbra, per analizzare la vicenda portoghese, a partire dal programma del nuovo esecutivo. Il Bloco de esquerda e il Partido Comunista Portugues hanno dovuto rinunciare ad alcune delle loro rivendicazioni più forti, la sintesi raggiunta segna una discontinuità rispetto alle politiche dei governi precedenti? Sì, perché il programma è ispirato al riorientamento delle politiche economiche verso la domanda, mentre i governi precedenti hanno costantemente ridotto la domanda e fatto politiche d’offerta. Secondo il programma sottoscritto dalle sinistre, nel 2016 si alzeranno gli stipendi dei dipendenti pubblici e si aumenterà progressivamente il salario minimo. Si ridurranno i contributi sociali per i salari sotto i 600 euro e si cercheranno di stabilizzare i posti di lavoro nel settore pubblico e privato. Le pensioni, ferme dal 2010, verranno aggiornate all’inflazione e il valore di alcune prestazioni sociali tornerà ai livelli precedenti ai tagli del 2011. Verrà migliorato l’accesso ai servizi pubblici, come la sanità, con la riduzione delle tariffe sanitarie, e l’istruzione, con la generalizzazione dell’educazione prescolastica. Sul versante fiscale verrà ridotta l’imposta sul valore aggiunto per i ristoratori, e ci sarà una maggior progressività delle imposte sul reddito. Le privatizzazioni verranno fermate, l’acqua rimarrà pubblica, e si tornerà indietro su quelle in atto, come quelle della Tap, la compagnia area di bandiera. Il programma elettorale del Ps non era molto diverso da quello della Coligação ma anche queste lievi differenze sono state duramente criticate dai media e dai commentatori politici. Il programma del governo Costa, rispetto al programma del Ps, differisce perlopiù nell’ampliamento delle misure volte alla domanda. Infatti lo scongelamento delle pensioni, l’aumento dei salari minimi, la lotta al precariato, non erano misure molto esplicite nel programma del Ps, e la riduzione dei contributi per i lavoratori ne era esclusa. Per mostrare la propria attenzione verso gli impegni europei, il Ps ha rivisto le stime del deficit tenendo conto di queste nuove proposte. Secondo questo nuovo conteggio, nei prossimi anni il deficit migliorerà rispetto alle stime precedenti, dato che andrà a diminuire progressivamente, tenendosi sempre sotto il 3%. C’è stata una forte propaganda in favore della Coligação prima delle elezioni. E la partigianeria del presidente Silva ha fatto sì che persino il conservatore Daily Telegraph abbia gridato al colpo di stato. Come interpreta queste dinamiche? Persino nel discorso di investitura, Silva non ha nascosto che questo governo non fosse la sua soluzione, per poi minacciare il governo di revocarlo in caso di deviazioni dalle politiche macroeconomiche precedentemente seguite in Portogallo. Costa gli ha ricordato che il suo governo nasce dal rifiuto dell’idea che manchino alternative a queste politiche, perché la democrazia crea sempre alternative. Ma la democrazia è stata ferita perché Silva ha provato ad escludere due partiti politici dal governo nominando Coelho. Così facendo il Presidente ha legittimato le reazioni dei mercati e delle istituzioni europee. Al contempo, penso che l’utilizzo dell’espressione «colpo di stato« sia stata esagerata, perché la coalizione di centro-destra aveva la legittimità politica per governare. Ciononostante, alcuni leader della destra e commentatori politici hanno usato la stessa espressione per indicare un governo di centro-sinistra. Tutto ciò è coerente con il comportamento di molti giornalisti che hanno mostrato un anacronistico sentimento anticomunista, come se il Muro non fosse ancora caduto. Il punto è che questi giornalisti sono gli stessi che in passato criticavano questi due partiti per non avere responsabilità di governo. Ma oltre che dai media, l’aiuto alla Coligação è arrivato dalle istituzioni europee, spaventate da ogni tipo di discostamento dal dogma neoliberale, dalle istituzioni portoghesi, che hanno pubblicato dati sulla povertà solo dopo le elezioni, e dal mondo delle imprese, che ha riportato i suoi fallimenti solo ad urne chiuse. Il Partido Socialista si è mostrato incerto sull'identità da assumere ma, alla fine, Costa ha modificato il panorama politico portoghese facendo entrare nella maggioranza di governo delle forze che vi erano sempre rimaste escluse. Cosa è accaduto all’interno del PS? Bisogna dire che il Ps era diviso rispetto al modo in cui Costa ha assunto la leadership del partito, e alcuni leader precedenti hanno contestato l’alleanza a sinistra. Il comportamento del PS può essere visto da due diverse prospettive. Una prima prospettiva è quella dello spostamento del PS come manifestazione di una genuina volontà dei socialisti nel porre fine ad un governo di destra. E in questa chiave gli interlocutori erano necessariamente il Bloco e il Partido comunista. La seconda prospettiva vede tutto ciò come una decisione di Costa, che, a Lisbona, come sindaco, ha fatto lo stesso. Il leader socialista, essendo stato sconfitto elettoralmente, avrebbe così deciso di rompere la conventio ad excludendum nei confronti di Be e Pcp. In ogni caso, nel processo di formazione del governo, Costa ha voluto dare l’idea di essere moderato, probabilmente per mostrare alle istituzioni europee che questo esecutivo rispetterà i vincoli europei. Ciononostante, la Commissione Europea ha sostenuto di voler parlare al più presto con il ministro delle finanze per conoscere le sue intenzioni. Il problema del nuovo governo è che ha pochi margini per essere alternativo alla corrente eurozona. pagina 6 il manifesto POLITICA MATTEO ORFINI FOTO LAPRESSE Paolo Cento (Sel): «L’alleanza è morta, uccisa dai dem, ora ci dicano se rinasce su Fassina». Che attacca: «Matteo ormai pensa all’Ncd» Daniela Preziosi P oco importa che a Roma la sinistra abbia lanciato il suo candidato, che è il deputato di Sinistra italiana Stefano Fassina; poco importa che le dichiarazioni di disamore fra sinistra e Pd ormai siano all’ordine del giorno. I democratici romani sono convinti che comunque in primavera le primarie di centrosinistra si faranno. O almeno provano a mettere in circolazione questa convinzione, che oggi sembra irrealistica. «Chi ha detto che Sel non sarà della partita delle primarie?», spiega il commissario del Pd romano Matteo Orfini al manifesto. «In caso contrario farebbero una certa fatica a spiegarlo ai loro elettori. E anche ai loro eletti. Gli elettori del centrosinistra non vogliono che per incomprensibili ragioni nazionali si rompa un fronte, a tutto vantaggio delle destre». Nel cui mazzo, per inciso, il presidente Pd infila anche il movimento 5 stelle. La verità è che in queste settimane il pressing su Sel perché torni sotto lo stesso tetto degli ex alleati democratici è forte. Fortissimo. Non passa giorno che il presidente del Lazio Nicola Zingaretti non auspichi la ripresa del dialogo. Oltre alla coalizione in regione, nella Capitale il Pd continua a governare con la sinistra praticamente in tutti i municipi: tranne il sesto, dove le due forze si erano divise già al voto del 2013, e il decimo, quello di Ostia, sciolto e commissariato per infiltrazioni mafiose. Paolo Cento, coordinatore di Sel a Roma, è certo che il pressing è destinato a aumentare: «A gennaio il Pd scatenerà l’offensiva su di noi perché sa che l’alleanza con la sinistra è la sua unica chance di arrivare almeno al ballottaggio», ragiona. Ma «a Roma il centrosinistra è finito con MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 Roma, per le primarie Pd a caccia di sinistra Orfini: «La coalizione resta, se no Sel che dirà ai suoi?» un atto notarile che ha impedito un dibattito democratico sull’amministrazione Marino. Peraltro le primarie fatte così, telecomandate dal governo e addirittura riunite in un’unica data nazionale - il 20 marzo - quasi fosse un referendum su Renzi, non hanno niente a che vedere con noi. Sinistra italiana ha già messo in campo il suo candidato. È Stefano Fassina. Anziché mandare messaggi, il Pd risponda chiaramente: per loro Stefano è un nome su cui si può ricostruire un’esperienza unitaria?». Difficile. Così come quasi impossi- ATAC · La Procura apre un’inchiesta sugli appalti La procura di Roma avvia un’inchiesta sull’assegnazione degli appalti Atac e sulla mobilità nella capitale negli ultimi 5 anni. Un fascicolo per il momento senza ipotesi di reato né indagati, affidato ai magistrati del pool reati contro la pubblica amministrazione dal procuratore Giuseppe Pignatone, al vaglio del quale era finito un esposto presentato dall’ex assessore ai Trasporti del Campidoglio Stefano Esposito. Un dossier che ha molti punti in comune con la relazione fatta dall’Anac di Raffaele Cantone, dalla quale emerge che, dal 2011, circa il 90% degli appalti sono stati affidati con procedura negoziata, spesso senza pubblicazione del bando. Il tutto per quasi un miliardo di euro. Sotto la lente di piazzale Clodio anche i disservizi della linea ferroviaria che collega Roma con il litorale e i documenti che riguardano la metropolitana. bile è immaginare la ricomposizione della vecchia alleanza che ha governato la città dal Rutelli II a Marino passando per le due giunte Veltroni. Fassina è ormai in campo e si dichiara «alternativo al Pd». Orfini è tagliente: «Conosco Stefano, a volte gli sfuggono battute e dichiarazioni di cui non è convinto neppure lui». Fassina replica con lo stesso tono: «Orfini parla di primarie di coalizione? Ormai lui pensa alla coalizione con l’Ncd di Alfano». Resta che dopo la cacciata di Marino il Pd ormai ha sempre meno carte per attrarre la sinistra. Forse solo candidature di frontiera come quella del senatore Walter Tocci o quella dell’ex ministro Fabrizio Barca (entrambe però molto improbabili) potrebbero attrarre un pezzo dell’elettorato radical. Anche dall’ala più dialogante del coté vendoliano l’ipotesi della riapertura del dialogo è lontana. «Se davvero Orfini volesse riallacciare un rapporto», è il ragionamento, «dovrebbe dire: ok, abbiamo sbagliato, noi più degli altri perché siamo la forza più grande. Facciamo tutti punto a capo e vediamo se ci sono le condizioni per una ripartenza. Invece la mette sul piano della sfida alla nostra unità interna». Resta ancora in campo l’ipotesi del ritorno dell’ex sindaco. Ma oggi è meno probabile. Di fronte a chi ci ha parlato ha ammesso: «Ci sto pensando», ma senza la carica emotiva di fine ottobre. Giovedì prossimo Sel lo ha invitato a un confronto pubblico in un laboratorio dell’Alessandrino. Ma, nel caso, Marino si presenterebbe dentro o fuori le primarie? «Non ci sono le condizioni per fare una coalizione di centrosinistra che includa Sel perché il Pd vede Roma come una proprietà di Renzi. In città è aperta una questione democratica», avverte Gianluca Peciola, ex consigliere comunale vendoliano. «Dopo la defenestrazione violenta del sindaco, il Pd è un partito che non sa come uscirne. La città oggi non è governata e la tregua giubilare permette questo ’non governo’. Tronca cerca di fare del suo meglio ma non conosce Roma. Più che altro si tenta un laboratorio di governo della città da parte di Renzi che è presidente del consiglio, segretario del Pd e ora anche sindaco di Roma». LEGGE ELETTORALE L’Italicum abbattuto dai sondaggi I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente. Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31-33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra. In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Il capolavoro di Grillo Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale. Antonio Floridia D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini). Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale.. Lo spettro dell’Unione Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti vali- di di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza. E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario. IN PARLAMENTO Muro contro muro Giudici della Corte verso un altro flop ROMA C e la farà Augusto Barbera a diventare il tredicesimo giudice costituzionale? È l’unico dubbio che oggi pomeriggio deve sciogliere il ventottesimo tentativo del parlamento di ristabilire il plenum della Consulta; tentativo che nel complesso fallirà perché è assai improbabile che risultino eletti tutti e tre i giudici mancanti. Barbera mercoledì scorso si è fermato 35 voti sotto il quorum minimo richiesto (571) ed è l’unico che ha qualche timida chance di successo. Se funzionasse l’operazione recupero che nelle ultime ore ha impegnato i dirigenti Pd, ai quali l’ultima volta sono sfuggiti oltre centocinquanta voti di deputati e senatori di maggioranza. Ma non ci sono segni di ravvedimento rispetto al muro contro muro che l’anno scorso è già costato l’umiliazione a Luciano Violante, condotto dal Pd al massacro di nove votazioni inutili. Renzi non ha utilizzato i sei giorni di riflessione concessi dai presidenti di senato e camera per mettere in dubbio la sua strategia, in base alla quale non si può concedere nulla agli avversari delle riforme del governo. Neanche un posto alla Corte costituzionale dove molto presto potrebbero arrivare i ricorsi contro l’Italicum - dei cittadini o degli stessi parlamentari - e prima o poi anche le richieste di referendum; in prospettiva anche la stessa legge di revisione costituzionale. Dunque no alla ripresa dei contatti con il Movimento 5 Stelle, a maggior ragione dopo la delusione di scoprire impallinato dall’assemblea grillina, senza neanche passare per il web, anche Barbera. E questo malgrado il candidato 5 stelle, il costituzionalista Franco Modugno, professore emerito a Roma, continui a non dispiacere per niente ai democratici. A Renzi basterebbe accogliere la richiesta grillina e scartare da Barbera (che è inciampato in un’inchiesta in maniera troppo lieve persino per i 5 stelle, ma ha un recente profilo più da avvocato delle riforme renziane che da accademico) per portare a casa con sicurezza due nuovi giudici non ostili, già oggi. Ma non lo farà perché vuole altro, vuole tenere legato all’accordo Berlusconi, che faticosamente ha unito Forza Italia sul nome di Francesco Paolo Sito. Almeno formalmente, visto che le bande dell’ex caserma del cavaliere si sono date battaglia nel segreto dell’urna, e a Sisto sono mancati 25 voti in più di quelli mancati a Barbera. L’avvocato penalista barese, esperto di sicurezza sul lavoro, ha lungamente parteggiato per la scissione di Raffaele Fitto, con il risultato di poter oggi contare su profonde inimicizie sia tra i berlusconiani ortodossi che tra i frondisti. Non manca nel traballante terzetto il candidato giudice costituzionale nei guai con la giustizia, è l’attuale presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, indicato dai centristi, che ha scoperto solo una volta tornato alla ribalta dell’informazione di essere ancora indagato per una vecchia vicenda di corruzione a Catania, malgrado il pm abbia chiesto l’archiviazione. Oggi si prevede un’altra fumata nera. Com’è del resto è sempre accaduto, salvo quando il Pd ha trovato un’intesa con i 5 Stelle, oltre un anno fa. Mattarella minaccia un nuovo monito, Grasso gli scrutini a oltranza. Intanto la Corte sta lavorando con 12 giudici su 15 e un altro giudice eletto dal parlamento non può garantire il pieno servizio. Così l’organo costituzionale è sempre sulla soglia del minimo legale. Un giudice manca da oltre 17 mesi - si avvia a diventare un record - altri due da «soli» nove e tre mesi. a. fab. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 ITALIA L’ALLARME · Oltre 44 mila i siti inquinati, 17 mila le vittime. Il picco delle malattie entro il 2020 Belpaese pieno di amianto Antonio Sciotto I L’Assemblea a Roma, il governo lavora a un Testo unico. Anci: «Finora piani inattuati» ALL’INTERNO DELLA FIBRONIT, EX FABBRICA DI ELEMENTI PER L’EDILIZIA IN AMIANTO /FOTO SINTESI VISIVA ra 32 milioni di tonnellate da smaltire e con questi ritmi si raggiungerà la bonifica totale solo fra 85 anni. È un’infinità», ha detto Boeri. Per i lavoratori esposti per oltre 10 anni all’amianto e riguardo alle loro aspettative di vita, il presidente dell’ Inps ha aggiunto: «Una maggiore flessibilità in uscita dal lavoro garantirebbe un accesso alla pensione in tempi più rapidi anche per questi lavoratori». Nella sua relazione Camilla Fabbri (Pd), presidente della Commissione di inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato, ospite dell’Assemblea nella sede di Palazzo Giustiniani, ha spiegato che «l’amianto è una sfida ancora aperta, come confermano i dati scientifici che ci portano a prevedere per il 2020 il picco massimo di malat- FONDAZIONE DI VITTORIO (CGIL) Occupati anziani, giovani senza posto O pagina 7 INAIL · Tragico raffronto con l’anno scorso: +16% I morti sul lavoro tornano a crescere: già 101 in più D l problema della presenza di amianto in tante strutture ed edifici italiani è ancora lungi dall’essere risolto: ieri a Roma ha fatto il punto l’Assemblea nazionale sull’amianto, promossa dalla Commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, in un messaggio inviato alla conferenza ha parlato di «una ferita ancora aperta», il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha quantificato in «44 mila i siti presenti in tutto il Paese», mentre l’Inail ha spiegato che «sono oltre 17 mila i beneficiari del Fondo vittime» apposito. «L’aggiornamento al novembre 2015 fa rilevare oltre 44 mila siti sparsi sul suolo nazionale», ha spiegato il ministro dell’Ambiente. Si tratta peraltro - ha aggiunt - di «un dato parziale, visto che alcune regioni non stanno provvedendo ad aggiornare la mappatura, in alcuni casi risalente a quasi sei anni fa, rendendo ancor più complessa l’azione di monitoraggio e di intervento. Una criticità questa che è necessario superare al più presto». All’Assemblea è intervenuto anche il presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha giustamente notato come sarebbe importante ridurre l’età di uscita per il pensionamento per tutte quelle persone che nella loro carriera lavorativa sono state esposte all’amianto: «È un quarto di secolo che è stato messo al bando l’amianto, ma ci sono anco- il manifesto ccupati sempre più anziani, mentre aumentano i giovani senza lavoro. È il mercato del lavoro italiano fotografato da un’indagine della Fondazione Di Vittorio della Cgil presentato ieri a Roma. Tra il 2007 e il 2015 il numero degli occupati tra i 55 e 64 anni è cresciuto di un milione e 326 mila unità e il tasso di occupazione specifico ha segnato un aumento straordinario dal 33.4% al 48.1%. Tra i giovani occupati fino a 34 anni, invece, il tasso del disagio economico aumenta di mezzo punto, mentre la quota di occupati a termine e part-time involontario aumenta dal 35.8 al 36.3%. Il tasso di disoccupazione ha perso nell’ultimo periodo quattro decimi di punto ma per i giovani fino a 24 anni resta drammaticamente superiore al 40% e aumenta per chi ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Nel primo semestre del 2014 era al 18.9%, nello stesso periodo del 2015 al 19.3%. La ricerca ha individuato un’area della sofferenza di chi non ha un lavoro si è contratta, su base annuale, di circa il 3% circa (meno rispetto alla flessione del 2011) per il minor numero di disoccupati e di occupati in cassa integrazione, ma le cifre complessive sono paurose. Si stima, Oltre 9 milioni di infatti, che siano circa cinlavoratori in difficoltà que i milioni di senza lavoro, compresi gli occupati economica, la in cassa integrazione. fotografia di un paese L’area del disagio, del precariato e della sottoccupasempre più diseguale zione, invece, conta più di 4 milioni e 300 mila persone, il 12.8% della platea degli occupati in età 15-64 anni. Un mercato del lavoro sempre più diviso tra giovani e anziani, dunque. Questo è anche l’effetto della legge Fornero che ha allungato i termini del pensionamento, in un paese che invecchia sempre di più. Non bisogna tuttavia sottovalutare il peso del disagio economico in cui vivono le persone anziane che non lavorano. La quota di persone in età matura che cadono nell’area della sofferenza ha raggiunto il 7.1% nel primo semestre 2015, pari a 541 mila persone. Era al 2.4% del primo semestre 2007. Sul piano generale si registra una contrazione dei disoccupati, 73 mila in meno (-2,2%) rispetto al record del 2014: nel primo semestre 2015 il loro numero era stimato in 3 milioni e 200 mila e il tasso di disoccupazione era al 12,5%, in flessione di 4 decimi di punto su base annuale ma ancora più del doppio rispetto all’inizio della crisi. Nel Mezzogiorno il tasso è al 20.3%, (21,8% per le donne e 19,5% per gli uomini), in discesa di sei decimi di punto ma solo per effetto della riduzione osservata nella componente femminile. Le donne nel Mezzogiorno detengono ancora il record europeo dell'inattività (60,2% nel primo semestre 2015) e il più basso tasso di occupazione dell'Unione (31,1%). tie a esso correlate». «Il Testo unico - ha proseguito Fabbri - che la Commissione propone con l’obiettivo di presentarlo entro giugno, si rende indispensabile nel quadro intricato di norme - sono infatti 400 tra regionali e statali e, spesso in contraddizione - con finalità ricognitiva ma anche costitutiva. Il nostro obiettivo è quello anche di revisionarle, qualora fosse opportuno, e di inserire nuove proposte. Ci continueremo a impegnare per poter vedere approvato il ddl sulle spese legali alle vittime e ai familiari delle vittime, insieme al ddl per la riconversione delle aree industriali dismesse». Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando «è necessario mettere a punto un testo unico della normativa in grado di dare risposte di giustizia ai lavoratori che sono stati esposti all’amianto: stiamo lavorando alle indicazioni del Senato su una disciplina organica e sul patrocinio gratuito per le vittime». Il presidente dell’Inail, Massimo De Felice, ha notato che «il problema non è solo legato al lavoro, ma è più diffuso: continuano ad aumentare coloro che vengono definiti, burocraticamente, come i beneficiari del Fondo per le vittime dell’amianto: dai 13.965 del 2008 sì è passati ai 17.428 del 2014». Un aumento del 25%. L’Anci, associazione dei Comuni, promuove l’idea del Testo unico, ma ricorda che i precedenti piani di bonifica, programmati a partire già dai territori, sono rimasti sempre sulla carta: «È dal 1992 - ha spiegato l’associazione - che l’amianto è al bando nel nostro Paese, ma la gestione della fase di dismissione rimane ancora una questione aperta. Si tratta di un’emergenza da trattare come "urgenza", visto che la stima per difetto delle vittime per neoplasie dovute all’amianto è di almeno 4 mila decessi e il dato è atteso in crescita con picchi tra il 2020 e il 2025». «Come Anci abbiamo messo in piedi una Rete nazionale delle Città dell’Amianto (Città AmiantoZero) - hanno concluso i Comuni ma il Piano nazionale amianto, varato nel 2013 a seguito della Conferenza di Venezia del 2012, non è stato ancora di fatto avviato» . opo alcuni anni con il seper tornare a parlare di morti biangno meno, torna a salire il che è stata l'Assemblea nazionale numero delle morti sul lasull’amianto, che negli anni, ha voro: gli incidenti fatali tra gennasottolineato il presidente dell'Inail io e ottobre del 2015 hanno ripreMassimo De Felice, ha fatto oltre so ad aumentare, con 101 caduti «17 mila» vittime. in più rispetto al 2014. Un’inversioIl ministro del Lavoro, Giuliano ne di tendenza che era emersa fin Poletti, ha assicurato che le verifidai primi mesi di quest’anno ma che diventeranno più efficienti a che ieri l’Inail ha confermato, partire già dal prossimo anno, non esprimendo «preoccupazione» appena l’Ispettorato unico, previper un rialzo significativo, che susto dal Jobs Act, diventerà una realpera il 16%. tà. Le attività ora dislocate tra Eppure, se si guarda a tutti gli inInps, Inail e ministero del Lavoro fortuni, anche quelli non mortali, saranno infatti accorpate e faranla discesa continua, con un ribasno capo a un solo polo. Quel che so complessivo tra bisogna capire, ha il 4,5% e il 5% nei avvertito Poletti, è Si inverte un dato primi dieci mesi se mantenere codell’anno. Se ne munque lo stesso che da anni era in contano 25.623 in impianto, «le stescalo: i caduti fino a se competenze», meno, includendo anche i casi definioppure aprire una ottobre sono 729. ti dall’Inail «in itine«riflessione» sui poCon due mesi re» ovvero nei trateri dell’Agenzia gitti intrapresi per unica, affinché «la in meno, superati motivi strettamennuova struttura te legati all’impiepossa essere mei 662 del 2014 go. Una decisa flesglio utilizzata». sione si rileva anche focalizzando Oltre al capitolo dei controlli c’è l’attenzione solo sugli incidenti acun tema che per il presidente caduti mentre si lavora (17 mila in dell’Inps, Tito Boeri, resta cruciameno). le: «la flessibilità in uscita». ParlanTutto questo però non è bastato do dei lavoratori che si ammalano per impedire 101 morti in più, tra a causa del contatto con l’amiancantieri, fabbriche, campi e tutti to, Boeri è infatti tornato sul pungli altri scenari operativi. Si sono to, chiarendo anche come sia infatti conclusi con un decesso «molto difficile riuscire a misurare 729 infortuni (erano 628 nello stescon esattezza la speranza di vita so periodo del 2014). E il divario dei singoli e delle specifiche carrieaumenta se si aggiungono anche re». le perdite «in itinere» (155 in più) Già da oggi, quindi, è possibile con il totale che sfiora il milione soprevedere che il 2015 si chiuderà lo nei primi dieci mesi del 2015 con un rialzo significativo di morti (988). Il minimo storico dell’anno sul lavoro rispetto all’anno passaprima è ormai già abbondanteto, quando gli infortuni mortali mente superato ma l'Inail invita erano stati 662 (e a fine ottobre socomunque alla prudenza, ricorno già 729, come detto). dando che si tratta di dati basati Il Rapporto annuale dell’Inail sulle denunce, che ancora «sono per il 2014 confermava invece la in fase di assestamento». Inoltre i tendenza al calo, visto che gli incivertici dell’Istituto nazionale per denti si erano dimezzati negli ultil’assicurazione contro gli infortuni mi dieci anni: nel 2005 le morti sul lavoro fanno sapere che è in bianche erano state 1.278. corso un’analisi per capire il perGli infortuni totali sono stati 437 ché dell’aumento. mila (un calo del 6,3% sul 2013). RiIntanto dai dati mensili, pubblispetto al 2013, si è registrata una ricati sul sito web dell’Inail, è evidenduzione del 6,7% mentre sul 2010 te l’aumento dei casi mortali tra (997 morti sul lavoro accertate) la gli over60 (+38,3%). L’occasione riduzione è stata del 33,6%. INTERVISTA · Il giuslavorista Vincenzo Bavaro, università di Bari «Poletti lega il salario agli obiettivi, un modo per smontare il contratto» Roberto Ciccarelli L egare i salari agli obiettivi. Precisazione dopo precisazione, il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha chiarito l'obiettivo di una dichiarazione resa venerdì scorso a un convegno alla Luiss. «Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto dell’opera» ha detto. In seguito ha spiegato che si riferiva al «lavoro agile» nelle aziende e al lavoro dipendente. Norme che dovrebbero confluire nel disegno di legge sullo «smart working» collegato alla legge di stabilità. A Vincenzo Bavaro, docente di diritto del lavoro all'università di Bari, autore del libro Il tempo nel contratto di lavoro subordinato(Cacucci), chiediamo un parere sulle reali intenzioni del governo: «All'inizio ho preso le dichiarazioni di Poletti con una moderata sorpresa – afferma – In sé potevano essere condivisibili, a condizione di contestualizzarle. Se la prospettiva è sostituire la dimensione cronologica del tempo di lavoro, allora non è possibile farlo. Ancora oggi il tempo è pervicacemente agganciato all'orologio. Se, come ha ipotizzato, Poletti intende dire che la produzione del valore si determina in base alla produttività e non in base all'orologio, allora i sindacati hanno ragione a dolersene». Quale dovrebbe essere, a suo avvi- so, la giusta prospettiva? Pagare il tempo che produce valore. Remunerare il tempo per le trasferte, ad esempio, come previsto da molti contratti collettivi. Pagare il tempo di studio impiegato dai lavo- ratori della conoscenza, delle tecnologie, nell'informativa, nei servizi. Questo è tempo lavorato, ma non calcolato con l'orologio. Su questi problemi il nostro sistema è ancora molto fordista. Insieme al discorso sui salari più legati agli obiettivi, Poletti ha rilanciato l'idea della partecipazione dei lavoratori alle imprese. Che ne pensa? Il fatto che si parli, nello stesso discorso, di nuove forme di remunerazione di lavoro e forme di partecipazione vuol dire che si sta pensando di determinare il salario a forme di raggiungimento di obiettivi di produttività. Ma poi, mi chiedo, si sta parlando di partecipazione azionaria agli utili? Oppure di partecipazione al governo delle imprese? Sono di- IL MINISTRO · «Mai pensato di abolire l’orario di lavoro» «Non ho nessuna intenzione di demolire il contratto nazionale» ha detto ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti replicando alle osservazioni critiche del presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. Dopo avere assicurato, domenica sul «Sole 24 ore», che intende legare i «salari agli obiettivi», Poletti è tornato alla prima formulazione «arendtiana» della sua tesi: «Non ho mai pensato di abolire l'orario di lavoro» - ha aggiunto - ma non può essere l'unico elemento che relaziona la persona alle cose che fa». Bisogna considerare l’«opera», ma questo concetto viene declinato in termini di prestazioni eterodirette e produttività aziendale dei dipendenti e non nel senso più ampio di libertà e autonomia nel lavoro e nella società da parte di tutti i lavoratori. Filippo Taddei, responsabile economico Pd, ha confermato che il governo presenterà «all’inizio dell’anno due disegni di legge, quello sul lavoro autonomo (Jobs Act degli autonomi) e quello sul cosiddetto lavoro agile (smart working)». scorsi diversi. Quali sono le differenze? Nel primo caso la partecipazione è a valle, su risultati eterodeterminati sui quali il lavoro non può intervenire. Nel secondo caso si partecipa all'organizzazione del lavoro e alle scelte aziendali, un modello in linea con l'articolo 46 della costituzione. Sono modelli profondamente diversi dal punto di vista della filosofia politica: il primo riguarda la determinazione del salario, il secondo riguarda la democrazia. A quale modello pensa Poletti? Al primo. Fa il paio con la forte spinta a legare il salario alla produttività. Questo significa indebolire i contratti nazionali del lavoro dipendente? Se la produttività si determina in azienda lo deve essere anche il salario. In questo caso il contratto nazionale non scompare, ma riduce la sua funzione perequativa. Venerdì Poletti sembrava alludere alla distinzione tra opera e lavoro di Hannah Arendt con l’allusione a una maggiore libertà nel rapporto di lavoro... È un’interpretazione sofisticata, ma possibile. In Arendt l’opera afferma i principi di libertà e autonomia. Ma questo è possibile se si smonta il modello gerarchico tipico dell'impresa capitalistica. Se non lo si fa è evidente che si riduce tutto, ancora una volta, a un escamotage per smontare il rapporto tra salario e lavoro. Qual è il suo consiglio? Creare una legge sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva nazionale. Reinsediare i sindacati nei luoghi di lavoro e frenare l'eclissi del contratto collettivo nazionale di lavoro. La legge non può imporre la sindacalizzazione, ma può sostenere i processi o contrastarli. pagina 8 il manifesto MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 EFFETTO TERRA Cop21, tante belle parole Anna Maria Merlo PARIGI È stata la giornata delle belle parole e delle grandi promesse, per l’apertura della Cop21 al Bourget. Mai tanti leader politici del mondo - 147 capi di stato e di governo, 196 stati rappresentati - hanno parlato con tanta «responsabilità» del futuro, dei «nostri figli e nipoti» chiamati a testimone del rispetto degli impegni, per la «prima generazione - ha detto Obama - che sente gli effetti del riscaldamento climatico e che può fare qualcosa». Dobbiamo «decidere dell’avvenire della terra», ha sottolineato François Hollande. «Sfida», «svolta», «qui e ora»: queste parole si sono ripetute come un’eco, durante le lunghe ore degli interventi, divisi in due sale diverse. Un filo rosso ha unito molti interventi: l’ottimismo della volontà, la fiducia nelle possibilità tecniche ma anche nell’impegno politico, mentre non c’è stato nessuno a evocare posizioni «scettiche». «Non è troppo tardi« ha affermato Obama, citando espressamente Martin Luther King. Poi, poco per volta nel corso dei discorsi, sono emerse le differenze, quelle che rappresentano gli ostacoli per arrivare a un grande accordo, voluto dalle organizzazioni ambientaliste. Hollande insiste: «l’accordo deve essere universale, differenziato e vincolante». Anche per Juncker, presidente della Commissione, l’accordo deve essere «vincolante». Obama attenua, riconosce le «responsabilità» degli Usa nella genesi del disordine climatico, ma mette in avanti soprattutto la «trasparenza» degli impegni, per un clima di «fiducia reciproca», pensando ai problemi al Congresso per far passare un accordo vincolante. Putin, arrivato in ritardo, dopo il minuto di silenzio per i morti degli attentati di Parigi, si dichiara a favore di un «accordo globale e efficace, ma anche equo». Xi Jinping parla di «sviluppo durevole, aperto, inclusivo», di «accordo collettivo», di «responsabilità comune ma differenziata». Eguali parole dell’indiano Modi, che ha anch’egli difeso la linea di «responsabilità comuni ma differenziate». Ognuno ha poi difeso le proprie azioni, in una corsa all’autopromozione, non ultimo Mattei Renzi che ha promosso l’Italia «protagonista della lotta all’egoismo», della «green economy». Il problema centrale sono i finanziamenti per la svolta a favore di uno sviluppo durevole. I paesi del Nord sviluppato sono oggi i maggiori responsabili dell’effetto serra, quelli del Sud in via di sviluppo chiedono quindi di finanziare la transizione, con investimenti, aiuti e trasferimento di tecnologia. Il Sud non vuole rinunciare allo sviluppo. Il Nord non accetta di cambiare modello di sviluppo e spera soprattutto che le nuove tecnologie lo tolgano dall’imbarazzo di una scelta alla Corneille. Hollande ha parlato di «grande opportunità», pensando alla disoccupazione. L’obiettivo generale dovrebbe essere di rimanere al di sotto di un riscaldamento climatico di 2 gradi, ma il presidente del Niger, Issoufou Mahamadou, ha per esempio ricordato che +2 grandi al Nord, I leader mondiali promettono tanto ma emergono subito le difficoltà e gli interessi economici divergenti. Dodici giorni di negoziati con grande incertezza sul «peso» dell’accordo finale per l’Africa significherà +3,5 gradi in media (e +5 grandi per il suo paese). Il presidente filippino, Benigno Aquino ha ricordato i costi dell’«ingiustizia climatica»: già 50mila morti nei paesi del G20 dal 2010. Per Evo Morales (Bolivia) «per salvare il clima, bisogna sradicare il capitalismo». L’ospite Laurent Fabius ha precisato le tre tappe da superare entro l’11 dicembre, per fare della Cop21 di Parigi un «successo storico»: la mobilitazione dei capi di stato e di governo, che «c’è già»; le decisioni politiche degli stati ma anche delle entità non governative, dalla città alle forze economiche e sindacali, passando per i singoli cittadini. In ultimo, l’accordo che dovrebbe venire firmato l’11. Sul testo, di 55 pagine, per Fabius resta «una cinquantina di punti in discussione». Le ong parlano di 200 decisioni ancora controverse. Oltre ai finanziamenti Nord-Sud, c’è la questione della natura giuridica dell’accordo, che molto probabilmente sarà «ibrido», cioè con qualche parte vincolante e il resto lasciato nel vago, dipendente dalla buona volontà dei singoli stati. Inoltre, c’è da stabilire il meccani- smo e la scadenza della revisione dei termini dell’impegno, visto che stando ai «contributi nazionali« (183 pervenuti, tra i grandi paesi manca per esempio il Venezuela) il livello di +2 gradi non potrà essere tenuto. Molti incontri, bilaterali e multilaterali, sono in programma. Ieri, «Missione innovazione», per esempio, ha riunito una ventina di capi di stato e degli imprenditori, da Obama a Gates. Ieri sera, c’è stata una discussione sul prezzo delle emissioni di Co2 (il sistema di scambio sui «diritti a inquinare»). Nel pomeriggio è stata varata l’Alleanza solare internazionale, per la cooperazione Nord-Sud tra 70 paesi. Oggi, Hollande presiede un incontro tra gli africani e i loro potenziali finanziatori. I bilaterali, tra cui una cena Hollande-Obama, hanno avuto al centro la questione del terrorismo e della guerra. Gli attentati di Parigi hanno gettato un’ombra sulla prima giornata della Cop21, «come la nube porta il temporale», ha detto Hollande, il riscaldamento climatico può essere una delle cause delle violenze terroristiche. Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, ha fatto rifermento alle numerose manifestazioni per il clima che hanno avuto luogo nel mondo, raggruppando fino a un milione di persone, «spero che li avete ascoltati», ha detto ai leader del mondo. A Parigi, ieri sono stati prolungati 9 fermi, sui 341 di domenica, ai margini della manifestazione in place de la République. C’è stata qualche brutta violenza, con la distruzione dell’omaggio ai mor- BRASILE · La tragedia di Mariana non ferma le eco-ambizioni di Rousseff Il fango tossico della miniera fa strage Emergenza umanitaria e ambientale Ge. Co. SAN PAOLO U n disastro ambientale di proporzioni incalcolabili, paragonabile a quello di Fukushima. La tragedia si è messa in moto in Brasile il 5 novembre nella miniera di ferro di proprietà dell’impresa Samarco, a Mariana, nello stato di Minas Gerais (sud-est del paese). Due dighe di contenimento delle acque reflue hanno ceduto. Una marea di fango tossico ha sepolto la popolazione di Bento Rodrigues, (nella foto) a 20 minuti dal centro di Mariana, provocando 17 morti, 75 feriti, 12 dispersi e 500 sfollati. Più di 250 mila persone sono rimaste senza acqua potabile. Gli oltre 50 milioni di metri cubi di residui tossici hanno inquinato il Rio Doce e ora, dalla foresta pluviale hanno raggiunto l’Oceano Atlantico. La lava tossica si è sparsa nell’oceano. E il 24 novembre si è prodotto un nuovo allarme circa la possibile rottura, ancora più devastante, di altre due dighe a Mariana. La Samarco - che ha come partner Vale, la principale impresa mineraria del Brasile, privatizzata 18 anni fa, e l’australiana Bbp Billiton, una delle più grandi al mondo - , dopo aver negato la tossicità dei fanghi ha accettato di pagare 260 milioni di dollari. Un risarcimento che lo stato brasiliano considera «solo una prima rata», a fronte dei danni incalcolabili provocati. «Per ridurre i costi dell’estrazione mineraria si eliminano le protezioni ambientali e quelle del lavoro», dice al manifesto il sindacalista Marcio Zonta, militante del Movimiento Nacional por la Soberanía Popular Frente a la Minería (Mam). Il Mam è un’organizzazione che fa parte di Via Campesina Brasil e che si batte contro le grandi imprese minerarie in America latina. Il continente latinoamericano è una delle regioni con le maggiori riserve di minerali al mondo e per questo particolarmente appetibile di fronte alla crescita della domanda mondiale di ferro, oro o nichel, che si è determinata negli ultimi dieci anni. Le multinazionali passano sopra alla sovranità dei governi e dei popoli, inquinando territori e colonizzando le economie. Con il Tpp sarà ancora peggio. Zonta, che abbiamo incontrato a San Paolo durante l’Incontro continentale dei media popolari, spiega così il disastro di Mariana, e critica il nuovo Codice minerario che sta per essere discusso dal Congresso. «È un corpo di leggi sostanzialmente a misura delle grandi imprese – dice – il parere delle popolazioni e dei minatori, che spesso muoiono prima dei 45 anni, non è stato ascoltato». Quello delle miniere – afferma - «è un tema nazionale, che necessita di un approccio globale. Lo dicono tutti, ma le popolazioni continuano a portare il peso delle privatizzazioni degli anni ’90. Invece, sono le uniche a dover decidere dove si deve scavare e perché». Quello di Mariana – dice ancora il sindacalista – «è un disastro annunciato, un disastro strutturale che richiede una grande mobilitazione affinché i lavoratori possano riprendere il controllo». Il 25 novembre, quattro giovani del Movimento senza terra sono finiti in carcere per aver protestato davanti al Congresso Federale contro l’impresa Vale e il nuovo Codice minerario. Contro di loro, un’accusa grottesca, quella di «crimine ambientale». I ragazzi avevano inscenato una performance artistica usando acqua e argilla per rappresentare l’inondazione di fango e avevano sporcato una parete, poi ripulita. Secondo un’inchiesta di Brasil de Facto, la Samarco aveva disposto un piano di emergenza nel 2009 che, se fosse stato applicato, avrebbe potuto evitare la tragedia. «Il Rio Doce – spiega Marcio Zonta – attraversa molti comuni tra lo stato di Minas Gerais e Espirito Santo. Le sostanze tossiche hanno distrutto fauna e flora, l’economia dei pescatori e inquinato il mare di Espirito Santo. E ci vorranno molti anni prima che il piano di recupero annunciato da Dilma Rousseff possa sortire qualche effetto». Il governo ha messo in campo l’operazione Arca di Noè fidando sulla partecipazione di associazioni ambientaliste e personale specializzato. Ma difficilmente si potranno salvare gli animali terrestri, i pesci e le tartarughe marine, già a rischio di estinzione. E il terreno rimarrà infertile per molti anni. Il fango tossico ha inquinato oltre 70km di coste ricche di pesca e meta turistica preferita dai surfisti. Secondo l’Onu, le misure prese dal governo sono «chiara- MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 il manifesto EFFETTO TERRA pagina 9 FOTO GRANDE, LA CATENA UMANA A PARIGI NEL GIORNO DI APERTURA DEL SUMMIT: «PER UN CLIMA DI PACE». A SINISTRA, IL PRESIDENTE HOLLANDE RICEVE BARACK OBAMA. IN FONDO ALLA PAGINA DI DESTRA, LA MANIFESTAZIONE DI DOMENICA A ROMA LAPRESSE IL RAPPORTO · I dati relativi al 2012 forniti dall’Agenzia dell’ambiente Morti per l’inquinamento dell’aria, l’Italia al primo posto in Europa Luca Fazio S iccome sappiamo che dobbiamo morire ma non quando dobbiamo morire, questi dati continuano a non spaventarci: secondo un rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), nel 2012 l’Italia ha segnato il record europeo di morti premature causate dall’inquinamento dell’aria. Sono 84.400 persone morte in un anno su un totale di 491 mila in Europa. Nel mondo sarebbero 7 milioni le persone morte per l’aria inquinata (fonte Oms). Della strage si sapeva da tre anni (i dati non sono proprio freschi) eppure non si è registrata alcuna ondata di panico nell’opinione pubblica, né una sincera presa di coscienza da parte di organismi politici internazionali, stati più o meno sovrani e pubblici amministratori. Le emissioni mortali sono note. Le micro polveri sottili (Pm 2.5), il biossido di azoto (NO2) e l’ozono che si forma nell’atmosfera (O3) sono responsabili rispettivamente di 59.500, 21.600 e 3.300 morti all’anno in Italia. Le micro polveri sottili, prodotte dalle automobili e dagli impianti di riscaldati del 13 novembre, sotto la statua (poi ricostruito dal comune). Ma solo 9 fermi hanno avuto a che vedere con queste violenze, gli altri sono stati arrestati per aver partecipato a una manifestazione proibita. Come ha sottolineato la saggista-attivista Naomi Klein, rivolta a Hollande: «nemmeno Bush aveva bandito marce di protesta dopo l’11 settembre, questa politica non è degna di lei e attizza tensioni». Prima di finire con qualche scontro, di fronte a un muro di poliziotti, c’era stata domenica una «catena umana» voluta da alcune organizzazioni riunite nella Coalition Climat 21 e Avaaz aveva messo migliaia di scarpe per simboleggiare la mancata Marcia per il clima a causa dello stato d’emergenza. mente insufficienti». Il disastro di Mariana «non diminuirà il peso del Brasile sui negoziati del clima», ha detto il Sottosegretario brasiliano all’ambiente, José Antonio Marcondes, ai giornalisti presenti alla Cop21. «Si è trattato di un tragico incidente che non ha niente a che vedere col clima, ora stiamo lavorando per porvi rimedio». Alla conferenza di Parigi, il Brasile porta «un ambizioso contributo», illustrato dalla presidente Rousseff, accompagnata dal ministero degli Esteri Mauro Vieira e dalla ministra dell’Ambiente, Izabella Teixeira. La presidente ha già illustrato gli obiettivi del Brasile lo scorso 27 settembre, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite: ridurre le emissioni di Co2 del 37% per il 2025 rispetto ai livelli del 2005, uno sforzo che potrebbe arrivare al 43% per il 2030. Per questo, il paese ha promesso di riservare alle energie rinnovabili – compresa a quella idraulica – il 45% della copertura energetica totale: più della media globale, che è del 13%. Rousseff ha anche assicurato che, nel prossimo decennio fermerà del tutto il disboscamento illegale dell’Amazzonia e conterrà le emissioni provocate dalla deforestazione autorizzata. Entro il 2025, il Brasile conta inoltre di recuperare circa 12 milioni di ettari di terreno degradato. Ma, dopo il disastro di Minas Gerais, dovrà raddoppiare gli sforzi. IN PIAZZA A CASAL DIM PRINCIPE, NELLA TERRA DEI FUOCHI LAPRESSE mento, nell’Ue provocano 403.000 vittime all’anno: nel 2013, secondo l’Oms, l’87% della popolazione urbana europea ha respirato concentrazioni di Pm 2.5 superiori ai limiti consentiti. L’epicentro dell’ecatombe è come sempre il territorio della pianura padana per la sua conformazione orografica, con le aree intorno a Torino, Milano, Monza e Brescia che superano il generoso limite della Ue che fissa la soglia a una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria (Venezia lo sfiora appena). In realtà i gas mortiferi uccidono ben al di là della pianura padana se è vero che l’Oms raccomanda una soglia massima di emissioni di 10 microgrammi e che presto queste soglie di allarme dovrebbero essere riviste al ribasso: Roma, Firenze, Napoli, Bo- logna e Cagliari sono abbondantemente oltre. «Nonostante i continui miglioramenti registrati negli ultimi decenni - ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aea Bruyninckx l’inquinamento atmosferico interessa ancora la salute generale degli europei poiché riduce la loro qualità della vita e l’attesa di vita. Ha anche effetti economici considerevoli, aumentando le spese mediche e riducendo la produttività per i giorni di lavoro persi». Gli inquinanti atmosferici possono causare o aggravare diverse patologie cardiovascolari e polmonari (infarti e aritmie). Queste sono giornate parigine di grandi appelli alla responsabilità per salvare il pianeta e i suoi abitanti, ma è improbabile che il rapporto dell’Aea costringa la Ue ad imporre limiti più rigidi sulle emissioni dei veicoli inquinanti: ultimamente proprio l’Europa ha proposto di rivedere al rialzo lo sforamento fino al 210% nelle emissioni di ossidi di azoto nei test delle auto Euro 6 (solo l’Olanda ha rifiutato la proposta). Eppure ormai esiste una vasta letteratura scientifica sugli effetti nocivi e sui costi dell’inquinamento atmosferico che si spingono ben oltre il dato sulle morti premature per malattie polmonari e cardiache. Secondo uno studio dell’università del Montana reso pubblico la scorsa primavera da una rivista di psichiatria americana durante la conferenza di Haifa, polveri sottili e idrocarburi entrando nel circolo sangui- gno potrebbero “inquinare” alcune funzioni del cervello e contribuire a generare depressione e psicosi. Tra gli altri effetti accertati di alcuni composti chimici provocati dagli idrocarburi ci sarebbe anche la capacità di influire sul sistema endocrino dei feti e dei neonati aumentando il rischio di contrarre alcune malattie nel corso della vita adulta. Ma piangere i morti quando escono le statistiche non serve a nulla se l’Europa continua ad agevolare la lobby dell’industria automobilistica senza investire sulla mobilità leggera. Bruno Valentini, sindaco di Siena e delegato Anci all’Ambiente, ieri ha chiesto una conferenza nazionale sulla L’Anci chiede con urgenza una conferenza nazionale sulla salute nelle città salute nelle città. «E’ sempre più urgente dotarsi in Italia di una legge sulle città. Se avessimo responsabilità chiare e le risorse potremmo lavorare per avere città con aria pulita, soprattutto con piani di gestione del traffico e politiche della mobilità capaci di cambiare questi trend. Chiederemo a tutte le istituzioni interessate risposte concrete rispetto alle procedure di infrazione comunitaria cui è già esposto il nostro paese». STORIA · Già nel 1988 alcuni governi, compreso quello italiano, decisero di istituire un Gruppo sui cambiamenti climatici Quando la Confidustria guardava indietro DALLA PRIMA Giuseppe Cassini Questa: è mai possibile che le attività dell’uomo influenzino il clima a un punto tale da provocare un riscaldamento planetario? Tra quei pochi governi c’era quello italiano: un suo diplomatico partecipò alla «costituente» e s’impegnò a finanziare l’Ipcc a nome dell’Italia. Mai soldi furono meglio spesi. Due anni dopo, nel 1990, uscì il primo sudato Rapporto degli scienziati. Pur con tanti forse, gli scienziati suonavano un campanello d’allarme: «Le emissioni dovute ad attività umane stanno sostanzialmente accrescendo la concentrazione atmosferica di gas a effetto serra. Questi aumenti rafforzeranno l’effetto serra provocando un aumento della temperatura». Quindi gli scienziati esortavano ad assicurarsi contro questo rischio, come farebbe un buon padre di famiglia, e comunque – aggiungevano – ridurre le emissioni conviene sia all’economia che all’ambiente. C’era una volta un governo che guardava avanti: il 1° luglio 1990 il nostro Paese assunse la presidenza di turno della Ue. Due italiani - Ripa di Meana a Bruxelles quale Commissario all’Ambiente e Giorgio Ruffolo quale Ministro a Roma - guidarono l’Europa verso un obiettivo ambizioso: impegnare tutti i Paesi membri alla stabilizzazione delle emissioni di CO2 entro il 2000 ai livelli del 1990. Istituti di ricerca tra i migliori del continente furono chiamati a dare una mano per calcolare le rispettive quote nazionali di riduzione, ma il «motore di ricerca» rimase nelle mani dei due italiani. Ruffolo, che presiedeva il Consiglio Europeo dell’Ambiente, andò a stanare nelle rispettive capitali i colleghi più scettici, che erano allora lo spagnolo, il britannico e il greco. Il 29 ottobre 1990, al Consiglio Ambiente-Energia prolungatosi fino a notte fonda, la presidenza compì il miracolo: l’impegno comunitario era stato approvato. Tuttora la base temporale di calcolo per l’abbattimento delle emissioni resta quello promosso nel 1990. Quota 90. Pochi giorni dopo si aprì a Ginevra la prima conferenza mondiale sul clima. A presiederla c’era anche un terzo italiano, o meglio uno svizzero italiano: Flavio Cotti, allora presidente della Confederazione elvetica. Stavolta i Paesi refrattari erano ben più numerosi, e guidati da potenze del calibro degli Stati uniti, Russia, Cina e Arabia Saudita (per conto dei produttori di petrolio). Il trio Cotti/Ruffolo/Ripa di Meana lavorò di fino per far approvare dalle 137 delegazioni presenti una Dichiarazione ministeriale, che riconoscesse i cambi climatici come una «preoccupazione comune dell’umanità» e lanciasse il negoziato per una Convenzione mondiale a tutela del clima. Si ripeté il miracolo e i tre italiani si presero gran parte del merito. All’affollata conferenza-stampa finale erano sul podio solo loro tre, tanto che un giornalista americano chiese conto di quella «mafia» (ma era solo un’allegra battuta di spirito). C’era una volta un governo che guardava avanti: nel 1991 l’Ocse dedicò una Conferenza ministeriale al tema delle fiscalità ecologica. I 25 ministri riuniti a Parigi furono concordi nell’eleggere alla presidenza Giorgio Ruffolo. Fu l’occasione per l’Italia di lanciare lo spinoso dibattito sulla «carbon tax«, in vista del Vertice della Terra programmato per l’anno dopo a Rio de Janeiro. Che infatti ospitò il maggior assembramento di capi di Stato e di governo mai visto (da George Bush a Fidel Castro, dal re di Svezia agli emiri del Golfo, da Mitterrand a quaranta capi africani), per decidere come armonizzare gli imperativi di svi- luppo con la tutela dell’ambiente globale. Chi vi partecipò serba memoria dell’infocato dibattito che divideva i Paesi agiati dagli altri: come reperire nuove risorse finanziarie per garantire al Terzo Mondo una crescita sostenibile? L’Italia colse l’occasione per proporre una formula avveniristica: introdurre nei 25 Paesi più industrializzati (area Ocse) una tassa energia/Co2 il cui gettito sarebbe stato ripartito in tre lotti: uno per ridurre altre tasse in casa nostra, un altro per investire nelle energie rinnovabili, un ultimo lotto per finanziare il trasferimento di tecnologie ambientali ai Paesi in via di sviluppo. Con un terzo di quel modesto tributo riscosso nell’area Ocse si sarebbe risolto il busillis che assillava il Vertice. I grandi della Terra applaudirono la proposta del ministro Ruffolo; un prestigioso quotidiano inglese la definì una delle poche idee concrete emerse a Rio. Al Gore, prima di insediarsi alla vice-presidenza degli Usa, venne apposta in Europa per studiare le nostre proposte di «carbon tax» (che i petrolieri texani costrinsero ad archiviare al suo ritorno in patria). C’era una volta un governo che guardava avanti, ma c’era una Confindustria che guardava indietro. Il Vertice di Rio aveva risvegliato il mondo imprenditoriale più avanzato. Un magnate canadese, Maurice Strong, raccogliendo l’eredità del Club di Roma promosse il Business Council for Sustainable Development, un’associazione di grandi industrie disposte a seguire la via dell’eco-efficienza in un’economia di mercato. Un loro libro che fece epoca («Changing Course») sosteneva che «in un sistema di mercati aperti i prezzi devono riflettere anche i costi ambientali» ed asseriva che l’eco-fiscalità comporta «almeno due vantaggi»: primo, riduce i costi aziendali di adeguamento alla normativa ambientale; secondo, incoraggia l’innovazione tecnologica. In appendice si narravano 38 storie aziendali di successo in termini di eco-efficienza (una sola italiana). Mentre l’Ue discuteva invano sulla famosa tassa energia/Co2, Paesi come la Germania, l’Olanda e i Paesi scandinavi adottavano coraggiose riforme eco-fiscali e allo stesso tempo conquistavano (per coincidenza?) ingenti fette del nuovo mercato delle tecnologie pulite. Nel 1993 quel settore valeva circa 200 miliardi di dollari, la Germania da sola ne aveva con- quistato un quinto. Fu allora che col nuovo ministro dell’Ambiente, Valdo Spini, decidemmo di organizzare a Fiesole un confronto tra la Confindustria tedesca e quella italiana. Gli imprenditori tedeschi sbarcarono in forze, guidati dallo stesso Ministro Toepfer; i nostri confindustriali inviarono da Roma una sparuta rappresentanza di funzionari digiuni di business ambientale. Con questa indifferenza il settore privato italiana si preparava al Protocollo di Kyoto. Da quegli anni ormai lontani in poi, la solfa è stata la stessa: nei periodi di bassa congiuntura il salto di qualità non si può fare perché «si deprime l’economia già stagnante»; nei periodi di alta congiuntura la formica diventa cicala e si mette a cantare «scurdàmmoce o’ passato». Nel frattempo il governo tedesco predisponeva un ambizioso Programma Integrato Energia-Clima (il Programma di Meseberg, 2007) e la Francia lanciava il piano di riforme noto sotto il nome di «Grenelle de l’Environnement» (2008). Spagna e Danimarca erano diventate leader dell’energia eolica. I rapporti dell’Onu calcolano in milioni i posti di lavoro creati nel settore delle energie rinnovabili. L’Europa avanzata raccoglieva la sfida ambientale come un’opportunità, non come un peso. Invece l’Italia, che forse non ama esser troppo europea, rischiava di perder l’occasione d’oro di saltare a gamba tesa dalla seconda alla terza era industriale, grazie e non malgrado la crisi economica in corso. C’era una volta un Paese che guardava avanti. Forse camminava un po’ a tentoni, ma almeno guardava avanti. In seguito si sono succeduti governi che, forse per ascoltare la Confindustria, guardavano soltanto indietro e incitavano il Paese a camminare all’indietro. E ora, come intende muoversi il Paese dopo l’appuntamento parigino? pagina 10 il manifesto MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 CULTURE MONDI BIOTECH L’editing del genoma IN FOTO, LA BIOCHIMICA FRANCESE EMMANUELLE CHARPENTIER Luca Tancredi Barone «È un sistema efficiente, economico e versatile». Emmanuelle Charpentier, francese, non ha dubbi sulle qualità della sua creatura: Crispr/Cas9, il meccanismo «semplice ma bellissimo», come dice lei stessa, che assieme alla statunitense Jennifer Doudna ha scoperto, studiato e perfezionato e che (come ha spiegato ai lettori del manifesto il 6 novembre scorso Andrea Capocci), rivoluzionerà la biologia molecolare. L’abbiamo incontrata a Berlino, dove era una delle star dell’annuale incontro Falling Walls, giunto ormai alla sua settima edizione. Dal 2009, esattamente venti anni dopo la caduta del muro di Berlino, ogni 9 novembre questo meeting riunisce una ventina di esperti, sempre diversi, da tutto il mondo che secondo gli organizzatori potrebbero abbattere qualche muro della conoscenza. Charpentier che, assieme a Doudna, in pochissimi anni dalla sua scoperta (avvenuta nel 2012), ha ormai collezionato decine di premi prestigiosi (gli ultimi due in ordine di tempo sono premio L’Oréal-Unesco per le donne e la scienza e il Princesa de Asturias, il «Nobel» del mondo ispanico, entrambi assegnati il mese scorso), è destinata decisamente ad abbattere un muro scientificamente rivoluzionario. È quello della «chirurgia genica di precisione», come ha spiegato nei quindici minuti che aveva a disposizione a Berlino, città dove ormai vive, dopo che l’estate scorsa il Max-Planck-Institut (il principale ente di ricerca pubblica tedesco) l’ha nominata direttrice del nuovo Istituto di biologia delle infezioni. Anche se le implicazioni economiche dell’impiego di una tecnica tanto efficace potrebbero essere enormi, lei ci tiene a sottolineare che la scoperta «è avvenuta grazie alla ricerca di base» e che «è necessario convincere i governi che devono fare ogni sforzo per appoggiarla. Crispr/Cas9 è un buon esempio di come la ricerca di base, che noi chiamiamo anche ’blue-sky research’ (ricerca sul cielo azzurro, ndr), su un oscuro meccanismo immunitario di alcuni batteri possa portare a una tecnologia molto potente». Dopodiché, afferma Charpentier, «la ricerca spesso conduce lungo un altro cammino, se si è aperti mentalmente». Fino ad arrivare a perfezionare un meccanismo di editing di genomi molto preciso, capace di individuare una sequenza specifica all’interno del Dna e di sostituirla con un’altra successione di basi nucleiche a scelta. «Oltre alla capacità di editare genomi – dice la microbiologa – questa tecnologia si può utilizzare per modificare l’espressione genica e pertanto per studiare l’epigenetica». E aggiunge: «La comunità scientifica ha adottato la tecnica in maniera molto rapida perché è economica, facile da usare, A Washington si apre il Summit Internazionale sulle tecnologie di modificazione genetica umana. Un’intervista con Emmanuelle Charpentier, la scienziata francese che ha messo a punto il Crispr/Cas9 efficiente e versatile». La questione chiave ora, sostiene Charpentier, è quella di assicurare che Crispr/Cas9 «riesca ad arrivare alle cellule e ai tessuti corretti per poter curare le malattie più gravi; è la mia speranza per i prossimi dieci anni». La scienziata pensa quindi a un rilancio della «terapia genica», basata sulla possibilità di modificare il genoma di un paziente nel caso di malattie dovute a qualche tipo di difetto genetico: aveva ricevuto un freno per i molti problemi tecnici e il decesso di alcuni pazienti tra la fine degli anni 90 e il primo decennio del secolo. «L’unico modo di curare le malattie genetiche sarebbe quello di correggere la mutazione nel gene che causa l’anomalia. Se riuscissimo davvero a farlo direttamente nel corpo del paziente, e se potessimo verificare che tutto funzioni bene, che il cambiamento nel genoma è stato solo quello desiderato, sarebbe uno strumento fantastico». Il problema è che oggi l’efficienza della tecnica è ancora compresa solo fra l’1 e il 5% della popolazione cellulare, per stessa ammissione della ricercatrice. Proprio a fine settembre, il principale competitor scientifico delle due ricercatrici (ed economico, visto che a lui è stato assegnato il brevetto della tecnica, anche se la decisione è stata da loro impugnata: presto il verdetto), il biologo sintetico Feng Zhang, ha pubblicato una variante della tecnica che, secondo la sua opinione, permetterebbe di aumentarne l’efficienza. Charpentier, nonostante il brevetto, definisce la sua tecnica come «democratica». Secondo lei non è contradditorio. Innanzitutto perché, come in altri casi analoghi, «la tecnologia non appartiene agli scienziati ma ai batteri». E poi, dice, «la questione del brevetto ha solo a che fare con la commercializzazione di alcuni aspet- ti. Piaccia o non piaccia se c’è una scoperta, c’è sempre un brevetto, soprattutto negli Usa» (dove si è svolta la maggior parte della ricerca, ndr). Anche se poi ammette: «Forse la scienza ha un problema», in questo senso. Ma assicura, «il brevetto è compatibile con la democrazia? Sì, tutti la stanno usando liberamente nei laboratori. Nessuno deve chiedere il brevetto se sta svolgendo solo ricerca. Persino Big pharma può usarla gratis se il suo scopo è la ricerca». Sull’argomento è previsto un incontro a Washington (a partire da oggi e fino al 3 dicembre), organizzato dalle National Academies of Sciences statunitensi perché la tecnica, data il suo enorme potenziale, suscita molte perplessità. Primo, perché qualcuno maneggia l’ipotesi di manipolare embrioni umani o la linea germinale. Secondo, forse persino più grave, a parere di alcuni osservatori, perché se si introducessero orga- nismi con il genoma modificato nell’ambiente – per esempio, si sta già lavorando su una versione della zanzara portatrice della malaria che bloccherebbe l’espansione del plasmodio, il parassita che la trasmette – e in più, grazie alla tecnica del «gene drive», la modificazione potesse trasmettersi a tutta la popolazione molto più rapidamente di quanto non previsto dalle leggi di Mendel, il rischio di effetti indesiderati e imprevisti sull’ecosistema diventerebbe molto elevato. Per questo l’incontro vedrà la partecipazione dei principali esperti del settore, fra cui la stessa Charpentier. Ma è assai difficile che si arrivi a una moratoria sull’uso della tecnica (come avvenne in passato in casi analoghi) dato che gli interessi in campo sono troppo elevati. «Sono in corso discussioni per trovare un consenso internazionale su come utilizzare la tecnica», conferma la scienziata. «Prima di Crispr esistevano altre tecniche che facevano la stessa cosa, ma erano meno efficienti. Questa, invece, è molto potente. Può essere usata bene o male, esiste una responsabilità etica per i ricercatori». Il primo passo da fare secondo Emanuelle Charpentier è quello di «confrontare le diverse legislazioni nei vari paesi» così da poterle uniformare. «Forse – continua – c’è anche un certo malinteso da parte del pubblico su come davvero funzioni la tecnica, che è molto più pulita di quelle impiegate sinora». Per superarlo, «bisogna sedere intorno a un tavolo scienziati, clinici, intellettuali, eticisti e Prima esistevano altre tecniche per fare le stesse cose, ma meno efficienti. Questa è potente: chiama i ricercatori a una responsabilità morale il pubblico perché innanzitutto capiscano il suo meccanismo, che è una buona tecnologia e che aiuta a studiare meglio come si comportano i geni – e questo è molto importante per lo sviluppo della biomedicina». Ricorda poi che, come microbiologa, ha lavorato su patogeni umani. «Sono abituata come tutti i biologi a seguire regole etiche molto restrittive riguardo alle manipolazioni genetiche». E, pur ammettendo la possibilità di un cattivo uso, aggiunge: «Sono convinta che i biotecnologi ne vogliano usufruire per fini nobili. Dopodiché, la manipolazione delle linee germinali umani deve essere discussa. Io personalmente spero che l’idea di utilizzare Crispr/Cas9 per modificare caratteristiche umane non venga mai portata avanti. Certamente dovremmo tutti essere d’accordo su un suo utilizzo solo per fini preventivi o terapeutici, non per modificare caratteri ereditari. Il dibattito dovrebbe vertere intorno ad alcune malattie, per le quali si potrebbe prendere in considerazione la manipolazione delle linee germinali. Ma io sono molto scettica sull’idea di poter scegliere gli embrioni che uno desidera». IL SUMMIT · Sul tavolo americano, le norme bioetiche da condividere e il problema «brevetti» Il Dna a rischio di (troppa) programmazione A. Ca. S i apre oggi a Washington il Summit Internazionale sulle tecnologie di modificazione genetica umana. La conferenza, che si concluderà il 3 dicembre, è organizzata dalle Accademie delle Scienze di Stati Uniti, Cina e Regno Unito per fare il punto sui recenti sviluppi dell'ingegneria genetica, legati soprattutto alla nuova tecnica denominata Crispr. Grazie ad essa, modificare il genoma di una cellule, correggendo o «silenziando» geni difettosi è divenuto più semplice ed economico. Tuttavia, non si parlerà delle grandi potenzialità di Crispr solo in chiave positiva. La facilità d’uso di Crispr permette di realizzare sperimentazioni anche pericolose, soprattutto in assenza di leggi e norme bioetiche condivise a livello internazionale. I timori riguardano soprattutto le possibili applicazioni sugli embrioni umani. Grazie a Crispr, sembra più vicina la possibilità di «programmare» una cellula germinale a tavolino, correggendo difetti genetici e aggiungendo varianti genetiche vantaggiose. Alcuni scienziati hanno proposto una moratoria sulle sperimentazioni embrionali, per permettere all’opinione pubblica di informarsi e discutere le possibili conseguenze di questa tecnica. Ma le grandi società farmaceutiche hanno già iniziato a investire centinaia di milioni di dollari in questo campo, e sembra difficile fermarle. A Washington si confronteranno i principali protagonisti della ri- cerca su Crispr e metterli d’accordo non sarà semplice. Ci saranno le due ricercatrici che hanno inventato il metodo, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna. Ma anche il loro rivale Feng Zhang, lo scienziato che l’ha brevettata dando vita a una controversia legale molto accesa. Ciascuno di loro, peraltro, ha fondato una sua società privata per sviluppare applicazioni commerciali basate sulla tecnica Crispr. A presiedere la conferenza sarà David Baltimore, Nobel per la medicina. Baltimore fu protagonista negli anni 70 del dibattito sulle allora nascenti biotecnologie. Grazie al suo contributo, alla conferenza di Asilomar del 1975 furono stabilite le norme bioetiche e di sicurezza che hanno governato finora la ricerca sul Dna. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 CULTURE oltre ADDIO ALLA SCRITTRICE FATEMA MERNISSI La scrittrice e sociologa Fatema (nota anche come Fatima) Mernissi è morta all’età di 75 anni. A dare la notizia all’editore Giunti (che ne pubblicava per l’Italia i titoli) è stata Jamila Hassoune, sua compagna di battaglie: organizzò tutto Alessandro Arienzo I n un suo scritto su Illuminismo e critica (Donzelli) Michel Foucault descrive la seconda come «una certa maniera di pensare, di dire e anche di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa, con ciò che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri». La critica è l’«arte di non essere eccessivamente governati». Il volume curato da Alessandro Simoncini, Del pensiero critico. Filosofia e concetti per il tempo presente (Mimesis, euro 28) raccoglie i contributi di sedici intellettuali che pur interrogandosi su temi differenti partono tutti dall’urgenza di comprendere criticamente il presente. Del resto, se Marx ha descritto la «miseria della filosofia», Gilles Deleuze e Felix Guattari ci hanno mostrato come la filosofia (ed eminentemente quella critica) sia costruzione, invenzione e produzione di concetti «tra amici». A scorrere le pagine di questa raccolta si coglie come la filosofia critica contemporanea esprima una straordinaria ricchezza di analisi. Nella sua intro- Il nodo del legame sociale La prima parte del testo si muove, quindi, «nel campo del capitale», la seconda invece riflette sulla politica come «mutamento». Il contributo di apertura è di Michael Löwy dedicato ad un lungo frammento di Walter Benjamin sul capitalismo come «culto», come nuova religione che emerge dalle ceneri del cristianesimo. Quello del capitalismo come religione non rinvia solo alla questione delle origini del primo, ma anche al tema del capitalismo come forma specifica di legame sociale. L’importanza di Benjamin nel contesto della riflessione filosofico-politica odierna, come filosofia critica, è discussa anche da Massimiliano Tomba. Il testo di Pierre Macherey, come quello di Mario Pezzella nella seconda parte del volume, si soffermano invece sulla figura di Guy Debord e sulla sua analisi della merce/spettacolo. In particolare il bel lavoro di Pezzella riattualizza la categoria di spettacolare integrato per tentare di cogliere le specificità dell’autoritarismo contemporaneo e le sue fascinazioni. In una raccolta di contributi che deve fare i conti con Marx e le tradizioni marxiste i lavori di An- insieme all’autrice nata a Fès, nel 1940, la Caravane du livre. Instancabile, creativa in ogni manifestazione del suo agire intellettuale - che fosse un libro o una conferenza, un corso universitario, un laboratorio di scrittura o un atelier di lavoro per le donne marocchine delle aree rurali - Mernissi ha SAGGI/1 ·Un volume collettivo curato da Alessandro Simoncini per Mimesis Antidoti differenziati al culto del presente «BLAH BLAH BLAH» DI MEL BOCHNER LAPRESSE selm Jappe e di Matteo Pasquinelli affrontano la questione del valore nell’analisi del sistema di produzione capitalistico. Jappe discute criticamente le tesi di Sohn-Rethel sul denaro e sulla sua natura; il lavoro di Pasquinelli - invece - colloca nella rilettura dei temi marxiani del valore e del lavoro la necessità della conricerca come intreccio tra teoria e prassi di lotta. I contributi di Salvatore Cingari dedicato a Gramsci, di Michele Filippini e di Federico Tomasello al «metodo operaista», quello di Damiano Palano su Ser- gio Bologna, restituiscono quindi uno spaccato interessante della ricca varietà del pensiero critico marxista italiano che nelle sue molte varianti rivela la sua attualità. La gran parte dei contributi del volume sono comunque accomunati da un più o meno esplicito esercizio di «critica dell’economia politica», sia come disvelamento della realtà produttiva e della circolazione capitalistica, sia come critica delle economie simboliche, del desiderio e spettacolari che le accompagnano. Nei saggi sono inevitabilmente riproposte e interpretate le tesi di autori come Foucault, Deleuze e Guattari nonché di Debord e dei situazionisti. In particolare, i contributi di Couze Venn e di Jason Read si soffermano sul senso, e l’attualità, della categoria foucaultiana di neo-liberalismo. In particolare, Venn argomenta la necessità di integrare la lettura del passaggio dal liberalismo classico al neoliberalismo con l’analisi dei processi storici del colonialismo e dei processi di accumulazione di ricchezze che hanno operato come ban- co di fondazione e di sperimentazione delle biopolitiche liberali. Jason Read, invece, pone la propria attenzione sulla lettura foucaultiana dell’homo oeconomicus per mostrare la necessità di far riferimento al tema marxiano della sussunzione reale se si vuole cogliere come l’attuale sistema di produzione capitalistico sia innanzitutto un sistema di produzione di soggettività. Il contributo di Franco Berardi Bifo pone invece in questione in maniera estremamente diretta ed efficace l’attualità dell’impegno teorico di Deleuze e di Guattari richiamandoci alla necessità di pensare la sofferenza dei singoli (la bomba psichica) ma anche di «abbandonare l’esaltazione e la potenza liberatrice del desiderio e della sua espressione schizoide». Etienne Balibar si concentra invece sulle aporie del concetto marxiano di «politica», inteso come «fine della politica», che è inscritta in una lotta di classe che estingue se stessa proprio nel suo realizzarsi. Balibar discute innanzitutto dell’equivalenza tra «lotta di classe» e «guerra civile» posta nel Manifesto, e sulle tesi diverse che appaiono nel Capitale, per argomentare che la lotta di classe sorge sempre e immancabilmente, ma «in forme impreviste e inattese». Il confronto politico che soggiace questo itinerario teorico è quello con le tesi di Toni Negri e Michael Hardt sull’antitesi tra una «guerra civile mondiale» e le persistenti e moltitudinarie resistenze che attraversano la società capitalistica. Lungo questa scia di analisi Sibertin-Blanc, attraverso Deleuze, si interroga sulle forme odierne dei processi di proletarizzazione – come processi di costruzione di minoranze – e la possibile politica a venire. Un volume ricchissimo di spunti e contributi, quindi. Che ha il pregio di restituirci il senso, e la necessità, della filosofia politica come «critica» perché se la filosofia è produzione la critica è esercizio di libertà. SAGGI 2 · «Perché i potenti delinquono» di Vincenzo Ruggiero per Feltrinelli Il marchio di origine della ricchezza Vincenzo Scalia S otto la definizione di crimini dei potenti, rientra un ampio ventaglio di condotte, da quelle economiche, come la bancarotta, l’aggiotaggio, il riciclaggio, la violazione delle norme ambientali e di sicurezza, a quelle politiche, quali il genocidio, gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, le manovre occulte di potere. Questi comportamenti, lesivi della convivenza civile, non sempre suscitano il panico morale e la reazione dell’opinione pubblica, che preferisce concentrarsi sulla criminalità di strada o su tipologie criminali che colpiscono l’immaginario, come la pedofilia e i serial killer. Vincenzo Ruggiero nel suo ultimo lavoro, Perché i potenti delinquono (Feltrinelli, pp. 208, euro 18), suggerisce che la mancanza di interesse verso i crimini commessi dai potenti va messa in relazione con una mancanza di una spiegazione eziologica dei loro comportamenti criminali. La criminologia, di cui l’autore è uno dei massimi esponenti contemporanei, denota il limite congenito di concentrarsi sul nesso tra condotte criminali e deprivazione: la mancanza di una famiglia, di un reddito fisso, la carenza di istruzione e di legami significativi, si trasformano, sotto questo aspetto, nelle cause della criminalità. Ai potenti soltanto lo studioso edwin Sutherland dedica una certa attenzione, ma all’interno di una specifica «criminalità dei colletti bianchi». Per colmare questa lacuna, Ruggiero prova ad andare oltre la criminologia, inserendosi nel dibattito filosofico, politico e sociologico della modernità per fondare una eziologia del crimine fondata sull’abbondanza. Il percorso tracciato dall’autore, si snoda in tre direzioni. In primo luogo, bisogna analizzare la contraddizione tra forza e consenso. I potenti, siano essi uomini di affari o carisma- tici leader politici, emergono spesso e volentieri da violenti conflitti economici e politici, come quelli alla base del capitalismo moderno. Muovendo dalla loro posizione di forza, si pongono a fondamento di un ordine sociale plasmato ad immagine e somiglianza dei loro interessi, mirante a riprodurre gli stessi rapporti sociali che pongono i gruppi sociali subalterni in condizioni sfavorevoli e a legittimare le loro condotte prevaricatrici e oppressive perpetrate ai danni del corpo sociale. Tuttavia, avverte Ruggiero, la lettura marxiana risulta insufficiente a inquadrare le condotte criminali dei potenti, nella misura in cui, pur avvertendo il potenziale creativo dei robber barons capitalsitici, non ne coglie la capacità La genesi della criminalità economica e dell’esercizio deviante dello Stato per riprodurre e legittimare il potere nella società di legittimarsi attraverso la creazione di consenso. A questo scopo, tornano più utili Hannah Arendt e Michel Foucault. La prima quando evidenzia la capacità da parte dei potenti di creare un apparato legislativo a loro immagine e somiglianza e di allargare la loro auto-legittimazione al resto della società. Il secondo quando inquadra il potere come il prodotto di una relazionalità diffusa, che si riproduce dal basso verso l’alto e viceversa. Il primo esempio concreto che ci viene in mente riguarda le fortune di Silvio Berlusconi, che non sarebbe rimasto in auge tanto a lungo senza la produzione di una verità che permetteva ad ampi strati sociali di identificarsi nella sua figura. pagina 11 saputo incrociare gli sguardi e i linguaggi. Fra i suoi libri, «La terrazza proibita» (che raccontava la realtà dell’harem), «Islam e democrazia» dove spiegava le varie correnti di pensiero del mondo musulmano, «Karawan. Dal deserto al web» (2004), «Le 51 parole dell'amore» (2008). La guerra civile mondiale I mille fiori della critica al capitalismo in una rassegna dedicata alla filosofia contemporanea duzione Simoncini si sofferma soprattutto sulle differenze che segnano i tanti rivoli del pensiero critico novecentesco - prevalentemente ma non esclusivamente marxista - e di quel complesso plurale di riflessioni che, magari proprio a partire da Marx, hanno posto in questione la più tradizionale critica politica socialista e comunista. Il volume ha come punto di partenza comune a tutti i contributi quel dominio del capitale che «conserva ed espande la propria capacità egemonica confermando - e per molti versi approfondendo - le contraddizioni relative al dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, oltre che le persistenti gerarchie di classe, di genere, di «razza»». Tuttavia, se il capitale si è dato - e ancora si dà - come un «rapporto sociale tra persone mediato da cose» che ha per fine la propria auto-valorizzazione, le metamorfosi nei processi produttivi e della valorizzazione capitalistica impongono un nuovo sforzo intellettuale di comprensione dell’oggi senza il quale nessuna prospettiva politica può emergere. il manifesto In secondo luogo, bisogna focalizzare l’analisi sul contrasto tra la razionalità rispetto allo scopo e quella rispetto al valore, che, da Max Weber in poi, è stata individuata come l’elemento connotante l’azione sociale, e in particolare quella degli attori economici. Per quanto ogni comportamento umano è impregnato di elementi valoriali, che si riflettono nelle leggi, nelle dichiarazioni di intenti e nei protocolli etici, la molla del capitalismo è costituita, in ultima analisi, dalla ricerca del profitto, vale a dire di quegli spiriti animali che Adam Smith poneva al centro della crescita delle nazioni. L’egoismo individualista, secondo i liberali, finisce sempre, in un processo a lungo termine, per creare vantaggi a tutta la collettività. Si rivela insensate, di conseguenza, ogni tentativo di criminalizzare, stigmatizzare o limitare la ricerca del massimo dei benefice da parte del singolo, in quanto si finirebbe per mettere a rischio la crescita della comunità stessa. È proprio in nome di questi interessi che oggi si accetta il deterioramento dei diritti e delle condizioni dei lavoratori, contrabbandando per strumenti di crescita le sistematiche violazioni dei diritti. Infine, nota Ruggiero, la riproduzione dei comportamenti criminali dei potenti non si darebbe senza l’esistenza di un livello orizzontale di complicità, laddove si formano quelle reti che consentono non soltanto di elaborare i comportamenti devianti, ma anche di trasmetterli, giustificarli e diffonderli. Si torna nuovamente alla questione dei rapporti forza: se i potenti dispongono di una compattezza che allo stato consente loro di creare consenso sociale attorno alle loro condotte, lo stesso non si puo’ dire dei gruppi subalterni, che si trovano a combattere col mancato riconoscimento della loro soggettività. È in questa direzione che bisogna lavorare. VILLA MEDICI A ROMA La nuova direttrice Muriel Mayette Holtz sceglie le porte aperte Arianna Di Genova U na casa per gli artisti, dove a spartirsi gli spazi siano le nuove creazioni, di qualsiasi disciplina, purché in grado di spalancare mondi, assumersi la responsabilità del presente, respirando l’aria dell’attualità e insieme guardando agli esperimenti dei grandi maestri del passato. E per fare questo, per combattere contro i fantasmi di un’Europa (e non solo) attraversata da lunghe guerre e dalla paura per la propria sicurezza, si può andare controtendenza. Non chiudendo e blindando l’Accademia di Francia, ma lanciando un progetto che prevede le «porte aperte», ogni giovedì, in incontri cadenzati con personaggi della cultura, rigorosamente gratuiti per il pubblico. Ed è la parola «pubblico» la chiave di lettura migliore per capire l’orientamento della direttrice di Villa Medici a Roma: Muriel Mayette Holtz, prima volta per una donna alla guida dell’istituzione, viene dal teatro, dove è stata attrice, regista e amministratrice generale della Comedie Française. Per lei, l’arte esiste solo se trasmessa a qualcuno, altrimenti rischia di essere un solitario esercizio di stile. Il suo mandato romano, che arriva in un momento importante (sia per i fatti politici che coinvolgono la Francia, sia per il 350/mo anniversario da festeggiare), lo interpreta a modo suo: «Mi piace la scritta, l’ossimoro che si trova sotto l’obelisco, ’affrettarsi lentamente’, questo anno sarà così. E tutto si svolgerà all’insegna di una condivisione dei progetti con i borsisti». Mayette Holtz presenta le attività dell’Accademia in un frizzante italiano mescolato al francese e questo métissage linguistico sarà una linea-guida anche dei giovedì di discussione sulle arti (fra i primi ospiti, Valeria Bruni Tedeschi e Salvatore Settis). Il programma è intenso: dopo la mostra di Balthus ci sarà quella di Yan Pei Ming (dal 17 marzo), ex pensionnaire negli anni Novanta, mentre le opere dei borsisti saranno esposte in autunno, a Roma e a Parigi, senza escludere altre destinazioni più lontane. La direttrice di Villa Medici è determinata a togliere qualsiasi steccato. Niente più liste di discipline (ormai tutto è fluido nella creatività), né bandi con limiti di età perché l’intreccio di generazioni e il passaggio della sapienza è sempre un terreno fecondo: ad accompagnare i borsisti nel loro soggiorno ci sarà il paleontologo Yves Coppens. La maison degli artisti, inoltre, mira a trasformarsi in una sorta di fondazione autonoma così da poter accogliere finanziamenti e stringere partenariati (per ora può contare su circa sette milioni di budget). Muriel Mayette Holtz sembra avere bene in mente l’idea che la cultura sprigioni energie che devono circolare liberamente. Va quindi «illuminata» con giochi di luce realizzati da professionisti, celebrata con feste (per esempio quella per la ricorrenza dei 350 anni in febbraio, con tanto di ballo in maschera), soirée di cinema all’aperto e una Notte bianca in ottobre, con concerti e performance nella cornice dello splendido giardino. pagina 12 il manifesto MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 VISIONI Cinema • La visione panica della natura e dell’uomo in «Triokala», l’opera prima dell’esordiente Leandro Picarella presentata nel concorso internazionale di Filmmaker Se il tempo si dilata tra nebbia e terra tempo e che trascina il film, e i ragazzi curati da Zu Emanué, nella sequenza-simbolo di questa sinfonia di laica sacralità e che ha per protagonista il demone di cartapesta U Diavulazzu, bruciato, il giorno della festa dell’Immacolata, da un fuoco pagano, che ricorda, anche per ritmi tribali, il rogo dei bimbi de Il segreto di cyop&kaf. Nel silenzio del mattino seguente, gli echi della messa in scena vengono riassorbiti dal ciclo naturale in una ronde di elementi primari dove lucrezianamente «il nascere si ripete di cosa in cosa» come l’arsenale di segni offerti dal paesaggio che Picarella utilizza per riflettere anche sulla consistenza del linguaggio cinematografico e sulle potenzialità di una macchina da presa che esprime il desiderio continuo di una presa di contatto e di congiunzione con il creato, nelle sue coniugazioni tanto eteree quanto carnali. Sullo stato di porosità fra passato e presente, che contamina anche il tessuto narrativo, si adagia anche Anapeson di Francesco Dongiovanni, autore amato da Filmmaker presente lo scorso anno con Giano sempre nel concorso Prospettive. Il suo nuovo cortometraggio fornisce coordinate storiche e sentimentali per tracciare un percorso filmico di «mise-en-trance», d’ipnosi sensoriale e di scrittura come referente principale del linguaggio cinematografico, traducendo in immagini odierne i racconti settecenteschi dell’entroterra pugliese, raccolti dal conte-bota- S ull’antropomorfismo delle nuvole e della vegetazione che imprigiona gli antichi resti di Triokala, la città che dà il titolo al film d’esordio di Leandro Picarella presentato nel Concorso Internazionale a Filmmaker, lo sguardo del regista siciliano sembra subito cercare uno specchio possibile di raccordi fra passato e presente con la nostalgia di una visione panica della natura in cui l’uomo ha/aveva una simbiosi con gli altri esseri viventi a livello di istinti e sensazioni. Arroccata, per tradizioni e sacralità, sulle rovine della città greca, sorge, in provincia di Agrigento, Caltabellotta, una manciata di abitanti ai piedi di un Pizzo, dove il velo della nebbia sottrae al concreto, terra apparentemente cristiana sovrastata da un cielo pagano ammantato di foschia e nubi. A partire dalla citazione program- Il regista siciliano cerca uno specchio possibile di raccordi fra passato e presente matica da I grandi iniziati di Edouard Schourè, sulle leggi cicliche della natura, il regista siciliano guarda al cinema rapsodico di Franco Piavoli, che ha gentilmente prestato i suoi obiettivi, ma anche a Godard e alla sua indagine sul mistero dell’impalpabile, in film come Passion e Je vous salue Marie, mentre il paesaggio, fin dalle prime inquadrature, sembra assoggettarsi a una struttura rigorosa, a simmetrie perfette, al contrasto fra elementi orizzontali e verticali ma, amplificando i suoni del mondo, gli unici ancora in grado di tramandare il sapere ancestrale, Picarella conferisce all’ordinario un senso elevato, al quotidiano un aspetto misterioso e al noto la dignità dell’ignoto. Il regista siciliano apre il suo sguardo anche al pre- sente della piccola città, alle strade scolpite nella roccia e squarciate dalle marmitte dei motorini, ai suoi abitanti ebbri di sole alle prese con la raccolta delle olive. Piccoli brani di vita del locus amoenus introducono anche l’esistenza dell’arcano Zu Emanué, in apparenza semplice contadino circondato da animali fe- In «Anapeson» vengono tradotti in immagini antichi racconti pugliesi del settecento un contatto terreno, un equilibrio fra i contrasti di un racconto passato di follia e l’eterno presente di una donna. L’occhio di DER Sabina sembra aprirsi per la prima volta, scoprire un nuovo mondo, regalare, con affettuosa ispezione, un sogno incontaminato di normalità alla mente della protagonista per poi quasi rinunciare all’utopia e rinchiudersi in una cucina «abitata» come tante altre. Ma è sempre la parola dello spaesamento a uniformare gli ambienti, ad ammantare di cul-de-sac un mondo mentale chiuso nell’atemporalità e la camera non può che vagare nuovamente, cercare altri appigli di speranza in un gesto registico di rara adesione e di infinita dolcezza. DUE IMMAGINI DA «TRIOKALA» DI LEANDRO PICARELLA, SOTTO IL REGISTA ISRAELIANO TOMER HEYMANN Cecilia Ermini MILANO nico svizzero Carl Ulysses von Salis-Marschilins, in Viaggio nel Regno di Napoli, durante un soggiorno presso il Casino del Duca della nobile famiglia Caracciolo-De Sangro, a San Basilio in provincia di Taranto, masseria fortificata nel 1600, oggi depredata dal tempo. A partire dal titolo, che simboleggia una contaminazione delle dimensioni temporali, la camera di Dongiovanni disegna traiettorie e panoramiche nello spazio in rovina, tracciando geometrie per ristabilire i legami, non solo di tempo, con le mappe e i bestiari custoditi nella biblioteca di Martina Franca che sembra contenere, anche nei movimenti di un lento carrello, tutta la memoria di un mondo fatalmente fagocitato. In Anapeson, solo la natura sembra voler combattere, con il suo ciclo infinito, la memoria degli uomini e delle cose, vivacizzando di vento i terreni circostanti e sbirciando, fra i muri in rovina, con fiori, erbe e luce la cecità contemporanea. Anche in Giungla dell’artista visiva DER Sabina, ancora nel concorso Prospettive, possiamo percepire gli stessi spaesamenti fra parole e immagine ma qui la camera «primordiale» della regista cerca, con l’affanno di stosi ma nella realtà uno degli ultimi eredi della misteriosa, settecentesca istituzione dei cirauli, maghi e guaritori capaci di alleviare le sofferenze fisiche grazie alla pranoterapia e a uno speciale balsamo ottenuta dalla frittura di vipera. Presso la sua dimora, braccianti trovano il sollievo di una medicina atavica che dilata il FESTIVAL DEI POPOLI · Tomer Heymann racconta nel suo film la storia del coreografo israeliano Ohad Naharin «Mr. Gaga e l’ossessione della danza» Giovanna Branca FIRENZE N el 1998 si tenevano a Gerusalemme le celebrazioni per il cinquantennale della nascita dello Stato di Israele: tra gli spettacoli in programma c’era Anaphasa della Batsheva Dance Company diretta dal coreografo e ballerino Ohad Naharin, che ritirò la sua creazione all’ultimo minuto dopo la richiesta del presidente di allora, Ezer Weizman, di censurare un passaggio in cui i ballerini restavano in mutande, facendogli indossare qualcosa di più decoroso che non offendesse la comunità ortodossa. Un gesto clamoroso, che metteva a nudo proprio nell’anno del giubileo una pesante contraddizione del laico Stato di Israele, e a cui seguirono forti proteste in favore della libertà di espressione. A quei tempi, Naharin era già una star, tornato in patria 8 anni prima per dirigere la compagnia di ballo nazionale dopo aver raggiunto il successo a New York. La sua storia è raccontata in Mr. Gaga del regista Tomer Heymann, passato al BFI London Festival, all’IDFA e che ha recentemente aperto il Festival dei Popoli di Firenze. Mr Gaga alterna momenti dei suoi spettacoli alle testimonianze dei colleghi, ma soprattutto alle immagini d’archivio provenienti dalla collezione dell’artista, che nel corso del tempo ha registrato ore di filmati della sua vita privata e lavorativa. Una pratica che lo accomuna al regista del film, il cui lavoro precedente – The Queen Has No Crown – era interamente composto da filmini familiari in Super8 con cui metteva a nudo le sue esperienze più intime e dolorose, dal rapporto sofferto con l’amatissima madre a quello con l’altrettanto amata patria, in cui la sua omosessualità gli è costata delle dure discriminazioni. Come il sessantatreenne Naharin, Heymann (classe 1970) è nato «in un piccolo posto, lontano dal centro di Tel Aviv», e ancora come lui – «che da adolescente non pensava a diventare un ballerino» – ha scoperto tardi la sua vocazione per il cinema. Cresciuto in un Kibbutz, Naharin attraversa la guerra dello Yom Kippur da intrattenitore» delle truppe, ma poi la madre lo iscrive a una scuola di ballo, e dopo poco viene reclutato dalla compagnia di Martha Graham. E così appena ventenne si ritrova a New York, dove la sua vocazione per la libertà lo porta ad abbandonare la scuola di ballo più prestigiosa dell’epoca per intraprendere la sua strada. Fonda così una compagnia, approfondendo al contempo il suo stile personale di danza (il gaga appunto). Ma per potersi realmente esprimere, dice, doveva tornare a casa, e così accetta di dirigere la Batsheva. L’ultimo lavoro di Naharin documentato da Heymann è del 2015 e si chiama proprio The Last Show, l’ultimo spettacolo. «Perché – spiega il ballerino - potrebbe esserlo davvero: questo governo mette in pericolo non solo il mio lavoro ma l’esistenza di tutti noi in questo paese che amo così tanto». Un paese ora «infestato da razzisti, fanatici e abusi di potere». Come è nata l’idea di girare un film su «Mr. Gaga»? Credo che il motivo stesso per cui sono diventato regista fosse la mia ossessione di poter fare un giorno un film su Naharin. Venticinque anni fa mio padre mi ha invitato a vedere una performance della Batsheva Dance Company, dicendomi che era arrivato un nuovo direttore che pensava mi sarebbe piaciuto. All’epoca non ero ancora consapevole di essere omosessuale, e gli ho risposto che la danza era una cosa noiosa per persone gay o vecchie. Lui mi ha detto che ero uno stupido, e mi ha obbligato ad andare. Non dimenticherò mai l’impatto emotivo che lo spettacolo ha avuto su di me, è stato quasi fisico. Per una settimana intera sono andato a vederlo ogni sera, e da allora non mi perdo un suo solo lavoro. Quando è stato possibile trasformare l’ossessione in realtà? Qualche tempo dopo ho iniziato a frequentare la scuola di cinema di Tel Aviv, ma per anni Ohad ha rifiutato di farmi entrare con la videocamera nella palestra dove si fanno le prove. Era ideologicamente contro l’idea di documentare il suo lavoro, di immortalare un momento: dice sempre che la danza è fondata sul suo stesso svanire. Poi finalmente l’ho convinto a far entrare me e la mia crew nel suo studio. Spesso ci cacciava dopo pochissimo, ma ero così entusiasta che alla fine ci ha dato il permesso di fare il film. Siamo anche riusciti a farci consegnare tutto il materiale d’archivio: centinaia di ore di registrazioni su nastro, mai visionate da nessuno. Ero sorpreso che così tanti momenti bellissimi, complicati e fragili della sua vita sia personale che artistica fossero stati registrati. E questa è una similitudine tra di voi. Forse Ohad ha deciso di fidarsi di me dopo aver visto ciò che ho fatto con filmati molto privati della mia vita e della mia famiglia in The Queen Has No Crown. Sono fermamente convinto che se vuoi raccontare la storia di qualcuno devi scavare nel tempo. E per molti anni Ohad non ha fatto altro che dirmi «non ti parlerò del passato: possiamo parlare del presente, ma in una manciata di secondi diventerà anch’esso passato. E dovrai fartelo bastare». Ma ovviamente non era abbastanza per me. Vi accomuna anche un rapporto d’amore conflittuale con il vostro paese... Mi ritrovo nella sua idea per cui non c’è contraddizione tra il piangere la scomparsa di qualcuno che ti è caro e ballare. E lo stesso vale per Israele: lo si può criticare aspramente in termini politici e al tempo stesso amarlo profondamente. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 il manifesto VISIONI COLDPLAY Forse è l’ultimo disco della band, e per andare sul sicuro Chris Martin e soci mettono a punto per «A Head full of Dreams» - in uscita venerdì 4 dicembre - undici canzoni dall’inconfondibile tocco pop che li caratterizza dagli esordi e zero rock. Niente sorprese, meno tormenti rispetto al Giulia D’Agnolo Vallan NEW YORK C ondoglianze alle famiglie dei morti e banalità sulla violenza è stato tutto quello che i repubblicani aspiranti alla Casa bianca 2016 hanno offerto in risposta alla tragedia avvenuta venerdì a Colorado Springs. Una sparatoria dove hanno perso la vita 3 persone e intorno alla quale ruotano due «cause sacre» su cui i 14 candidati del Gop hanno posizioni unanimi – l’opposizione all’aborto (teatro dello scontro armato è stata una sede locale del consultorio femminile Planned Parenthood) e quella al controllo delle armi. Si sa, il terrorismo domestico è cosa meno facile da sfruttare mediaticamente di quello che viene dall’esterno, specialmente se è vero che – come ha suggerito un portavoce di PP- il presunto responsabile dell’attacco alla clinica è stato ispirato da video diffusi dal movimento antiabortista in cui impiegati di Planned Parenthood starebbero discutendo la vendita di tessuti fetali (la veridicità dei video è stata smentita da un’inchiesta, ma il loro mito permane). Gli stessi candidati repubblicani non hanno dimostrato analoga prudenza quando si e trattato di reagire ai fatti di Parigi. Oltre alle dichiarazioni pubbliche, gli attentati dell’Isis nella capitale francese hanno costituito l’occasione per la messa in circolo di un’infornata di spot intesi a provare le rispettive credenziali antiterrorismo e il polso duro in politica estera. Sintetico e sobrio (il senso di minaccia è affidato all’illuminazione chiaroscuro e al copy) il primo spot tv nazionale rilasciato dalla campagna di Marco Rubio – 30 secondi in primo piano in cui il 44enne senatore della Florida -giacca nera su fondo nero, cravatta rossa e spillina con la bandiera Usa- è un misto di gravitas e risolutezza: - «Questa è una lotta tra civilizzazioni….Quello che è successo a Parigi potrebbe succedere qui…Non può esserci accor- Spauracchio del terrorismo e polso duro in politica estera, così si combatte sui media do o trattativa. O vincono loro o vinciamo noi». Più pesanti quasi tutti gli altri, a partire da Chris Christie il cui Political Action Committee, America Leads, ha creato uno spot che combina girato dai campi di addestramento di terroristi islamici, un’intervista a Obama che (poco prima di Parigi) afferma che l’Isis è «in via di contenimento», Hillary mentre dice che «la battaglia contro l’Isis non può essere solo americana» e Christie – su immagini dagli attentati di Parigi - che tuona: «Questo presidente e Hillary Clinton hanno reso l’America più vulnerabile. Il paese è stanco di un debole nell’Ufficio ovale. Dobbiamo smettere di voler essere amati e tornare a farci rispettare». Secondo forse solo allo spot di Carly Fiorina (due minuti e passa di terroristi armati a bordo di camionette, in cui l’ex CEO della Hewlett Packard sentenzia: «è ridicolo dire che l’effetto serra è il maggior pericolo a cui ci troviamo di fronte») per l’uso spregiudicato delle immagini di repertorio, lo spot di Christie avrebbe già dato i suoi risultati in New Hampshire, dove America Leads lo ha diffuso, acquistando mezzo milione di dollari in spazi pubblicitari. Sabato, il «New Hampshire Union Leader», uno dei più influenti giornali dello stato che sarà teatro delle primarie, il 9 febbraio prossimo, ha annunciato l’endorsement di Chris Christie, «l’uomo giusto per questi tempi pericolosi». «Siamo in guerra con il terrorismo radicale islamico», avvisa allarmato anche Jeb Bush in un discor- precedente «Ghost Stories» (fra i maggiori hit del 2014) e un parterre di super ospiti. Registrato tra Malibu, Los Angeles e Londra, prodotto dal duo norvegese degli Stargate insieme al fido Rik Simpson, propone atmosfere stilose da perfetto airplay da fm, e il successo radiofonico del singolo «Adventure of A Lifetime» - con una chitarra malandrina che entra in testa USA · Sfida elettorale fra i candidati repubblicani su tv, radio e web Battaglia a colpi di spot per la Casa bianca pagina 13 e non ti lascia più, è lì a testimoniarlo. Tante guest star, la ex del leader Gwyneth Paltrow («Ghost stories» era la cronaca di un divorzio, qui i toni sono molto, molto concilianti...), Beyoncé, Noel Gallagher, Tove Lov, Mery Clayton. «Kaleidoscopie» è forse il pezzo migliore, dove - per la cronaca viene campionato anche un Obama ’canterino’ su «Amazing Grace». PREMI UBU · Trionfo per Luca Ronconi Consegnati al Piccolo Teatro Grassi di via Rovello i Premi Ubu per il teatro, decretati dai voti di una giuria di 54 referendari, tra critici e studiosi teatrali. «Migliore spettacolo dell’anno» è «Lehman Trilogy» – drammaturgia di Stefano Massini, regia di Luca Ronconi - l'ultima creazione del maestro scomparso lo scorso febbraio. Lo spettacolo è anche Premio Ubu, come «nuovo testo italiano o ricerca drammaturgica», per il lavoro di scrittura e ricostruzione di Stefano Massini. «Miglior regia» Massimiliano Civica per lo spettacolo «Alcesti», adattamento da «Euripide», messo in scena per Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due. Il premio al «Miglior progetto artistico o organizzativo», è stato vinto dal Progetto Ligabue Arte marginalità e follia a cura di Mario Perrotta. Pari merito per il premio al «Miglior allestimento scenico»: Romeo Castellucci per «Go Down, Moses» e Marco Rossi per «Lehman Trilogy». «Miglior attore» e «Miglior attrice», sono rispettivamente: Massimo Popolizio per la sua interpretazione in «Lehman Trilogy» e Monica Piseddu in tre spettacoli: «Alcesti» di Massimiliano Civica, «Natale in casa Cupiello» di Eduardo De Filippo e «Ti regalo la mia morte». PRIMA · Il doc di Pagano domani in sala Volti dell’Islam nei vicoli di Napoli Silvana Silvestri D SOPRA TED CRUZ, FOTO GRANDE UNA SCENA DELLO SPOT ELETTORALE so tenuto a The Citadel, l’accademia militare di Charleston, nello spot che il suo Super Pac, Right to Rise Usa, ha montato su immagini di terroristi armati fino al collo. Con un investimento di 19.5 milioni di dollari in pubblicità solo in Iowa (il caucus locale si terrà il primo febbraio), New Hampshire e South Carolina (primarie il 20 febbraio), Right To Rise USA e la campagna di Jeb Bush, tra i repubblicani, sono quelli che per ora hanno speso di più in pubblicità. Dalla parte opposta dello spettro della spesa (insieme agli altri candidati che non vengono da una carriera in politica, come Carly Fiorina e Ben Carson) è Donald Trump. Forte della pubblicità gratuita che gli arriva grazie alle dichiarazioni razziste e xenofobe che rilascia regolarmente, Trump (in testa a tutti i sondaggi in New Hampshire) non ha speso nulla in promozione pagata fino a un paio di settimane fa, quando – subito dopo Parigi- ha acquistato due spot radiofonici (costano meno…) in cui promette, oltre al solito muro sul confine meridionale degli States, «bombardamenti infernali» ai danni dell’ Isis. In realtà il più suggestivo tra gli spot repubblicani che usano lo spauracchio del terrorismo, è arrivato già il settembre scorso, ed è stato realizzato dalla campagna del senatore texano Ted Cruz. «C’è uno scorpione nel deserto», annuncia la voce di Cruz sull’immagine di uno scorpione che cammina su delle ossa semi seppellite nella sabbia. «Noi sappiamo che il suo veleno è una minaccia mortale. Altri non hanno il coraggio di chiamarla per nome. Ma lo scorpione vuole la nostra distruzione. Non è ora di riconoscerlo per quello che è?», continua la voce. Al che si vedono entrare in campo i classici stivali da cowboy che indossa sempre Cruz, e l’insetto arretra… I trenta secondi sono la diretta citazione di un famoso spot della campagna presidenziale di Ronald Reagan, nel 1984, il cui ’incipit, «C’è un orso nel bosco» era riferito all’Unione Sovietica. Secondo i dati delle Federal Election Commission, nei prossimi sessanta giorni, i residenti di Iowa e New Hampshire saranno bombardati da una quantità di spot (su tv, cellulari e internet, ..) che potrebbe superare i 300 al giorno. MUSICA · Ian Bostridge porta Schumann e Britten nel recital romano Lieder contro l’orrore della guerra Andrea Penna ROMA U na riflessione dolente e misteriosa sull’orrore della guerra alla luce di una personale visione della fede cristiana. Ecco il messaggio che si evince da The Heart of the Matter di Benjamin Britten, inconsueta combinazione di musica e narrazione su versi di Edith Sitwell, realizzata nel 1956 per la presenza della stessa poetessa al festival di Aldenburgh, una sorta di cantata al centro della quale si staglia la struggente lirica Still falls the rain, inserita da Britten nella raccolta Five Canticles . Nel presentare quest’opera di raro ascolto Ian Bostridge ha ricordato il terrore per i bombardamenti, cui allude Edith Sitwell, il pacifismo di Britten e la drammatica attualità di quelle parole. Una conclusione amara e toccante per un concerto che sabato scorso all’Aula Magna dell’Università ha entusiasmato il pubblico dell’Istituzione Universitaria dei concerti. Accanto a Bostridge, il pianista Julius Drake e Alessio Allegrini, in forma smagliante e dal gusto controllatissimo, la cui allarmante fanfara del corno punteggiava il brano britteniano, per un programma che includeva i Liederkreis di Schumann, esecuzione IAN BOSTRIDGE DURANTE UN’ESIBZIONE ALLA SCALA, 2012 febbrile e un po’ inchiostrata, una bella scelta di lieder di Schubert fra cui Auf dem Storm, con il corno, ma anche due pezzi per corno e pianoforte di Schumann e di Leone Sinigaglia, altro ascolto prezioso. Un programma raffinato che grazie alla notorietà di Bostridge e Allegrini ha attirato un pubblico folto, ricompensato con il bis di un lied di Franz Lachner, ancora col corno. Bostridge ha confessato di aver recuperato il brano di Britten per insistenza del suo manager italiano per la prima esecuzione romana, ribadendo l’impor- tanza di proporre i concerti di lieder: «In Italia faccio - spiega l’artista britannico - tanti concerti e sono sempre sorpreso per l’entusiasmo del pubblico. Ma naturalmente dietro c’è il lavoro di istituzioni coraggiose, specie piccole, le associazioni degli amici della musica». Ci si chiede cosa si possa fare per promuovere ancor meglio la liederistica: «Un impegno costante e fiducioso, come hanno fatto alla Wigmore Hall di Londra, che negli anni ha visto crescere i suoi concerti di canto fino agli oltre novanta l’anno. Ma dovrebbe essere un obiettivo dei promo- ietrofront. L’Uci che dopo gli attentati di Parigi aveva deciso di posticipare all’anno prossimo l’uscita di Napolislam, è tornata sui suoi passi annunciando il film nelle sale da domani. Sarebbe stato assai facile cadere nel macchiettisti e perfino nel sacrilego affrontando il tema dei convertiti all’Islam napoletani. Invece il doc compie un percorso in bilico per non farsi prendere dalle indagini sulle superstizioni, su San Gennaro o perfino sugli altarini a Maradona. L’ascolto è attento, rispettoso, pure se non può fare a meno di qualche presa di distanza, sospensione di giudizio. Si tracciano percorsi di spiritualità in una società per lo più pagana e non è cosa facile. Specchio dei tempi, ci riporta anche a epoche remote poiché da sempre il meridione è stato terra di approdi o di conquista: non furono primi i troiani di Enea, gli arabi con Federico II o gli yankee della seconda guerra mondiale. In questo caso si può tori ovunque, in Usa, in Giappone e naturalmente in Germania, l’origine di gran parte di questo meraviglioso patrimonio: pensi ai lieder per corno che abbiamo suonato con Allegrini, che è fantastico! Forse si devono mettere in conto le sedie vuote, all’inizio, ma poi il pubblico reagisce benissimo, se impara a conosce la musica splendida di Schubert, Schumann ma anche dei contemporanei». In Italia è uscito per i tipi del Saggiatore la sua analisi racconto sul ciclo Il viaggio d’Inverno di Schubert, e ci si chiede se questo è anche il suo intento di scrittore e musicologo: «Mi sento sempre un dilettante nel campo della critica e vorrei essere considerato un divulgatore. Certo, se la nostra è anche una professione intellettuale, la mia attività di scrittura resta connessa con la mia carriera di cantante. Spero di poter scrivere presto anche un libro su Monteverdi ». Un repertorio ricco ma che Bostridge non teme di ampliare: «Il nostro è anche un mestiere molto pratico: voli, viaggi, organizzazione di un numero preciso di spettacoli e concerti ogni anno. Alle volte gli incontri si fanno per caso, come le melodie di Karol Szymanowski, che mi sono state proposte di recente e trovo bellissime. I desideri non ancora realizzati, una parte nell’Oro del Reno di Wagner o Pélleas nell’opera di Debussy, sono pensieri che non mi affliggono troppo, perché per fortuna ho davvero davanti a me tanti concerti e un pubblico che mi ama, anche in Italia!». vedere come la filosofia napoletana accolga tutte le culture con paziente fiducia nella provvidenza divina, qualunque essa sia. Basta che ci sia un paradiso alla fine. Agostino diventa Yassin, Giovanni Abdel, Claudia Zeymab. C’è la fidanzata del ragazzo tunisino che sta compiendo un suo percorso spirituale, lo spazzino che andò alla Mecca in pellegrinaggio con la moglie musulmana quando la figlia si ammalò gravemente, il signore di una certa età che riempie il quaderno di caratteri arabi per poter recitare le preghiere in lingua originale, la ragazza velata che cerca un lavoro di commessa senza trovarlo perché «spaventa i clienti» con quel velo, il tassista che discetta di materialismo e astrazione («se facciamo quello che è giusto, quello è dio, se diciamo la verità quello è dio»), il coatto che interpreta il corano come un’arma più potente del kalashnikov. Poi arrivano anche i giorni del massacro di Charlie Hebdo a scuotere le coscienze. Quello che colpisce di più non è tanto il fervore dei neoconvertiti perché in una terra dove impera la disperazione e la disoccupazione almeno si può contare su un libro con precise istruzioni di vita, colpisce la rassegnazione dei congiunti, di una moglie un po’ avanti con gli anni in particolare che accetta tutto e sostiene che in quanto a lei, non ha avuto nessuna chiamata divina e che sta bene così. La madonna appesa sul letto e il corano sul tavolo. La musica dei rapper musulmani anch’essi di nuova generazione (bella musica e belle parole) riempie vicoli e piazze, impasta quelle esperienze di vita a dispetto di certi fondamentalismi che vietano suoni e canti: «nella musica sento la presenza di dio» dice uno dei musicisti. E in più si dà la ricetta del casatiello senza insaccati di maiale. Tutti insieme infine ad alzare gli occhi versi i fastosi fuochi d’artificio in onore della festa della Madonna bruna. – il manifesto IN UNA PAROLA – Il nemico (e noi) Alberto Leiss D avvero vinceranno loro? I nostri nemici ? Coloro che hanno dichiarato guerra al «nostro modo di vivere»? Vinceranno, come da più parti è stato detto dopo Parigi, se anche noi ci sentiremo in «guerra», coltivando odio, vendetta, desiderio di violenza. È un esito possibile. Si legge che in Francia il nazionalismo un po’ razzista della Le Pen vola nei sondaggi al 40%. E si vede come questo alimenti gli atteggiamenti bellicisti di Hollande, al canto della Marsigliese. Ma è abbastanza impressionante leggere in qualche articolo sull’incontro avuto da Renzi col presidente francese che però non sarebbe in alcun modo chiara la strategia che Hollande chiede di condividere agli alleati europei, a Putin, a Obama, per battere davvero il mostruoso Daesh e costruire la pace in Medioriente, in Africa e nel mondo. La prima battaglia credo vada combattuta dentro i nostri cervelli e i nostri cuori. Per capire al meglio chi è il nemico, e chi siamo noi, che cosa pensiamo e che cosa proviamo. Domenica sui giornali c’erano interventi interessanti. Parole e pensieri che inducono qualche speranza sulle capacità occidentali di non lasciarsi travolgere dalle aggressioni del terrorismo. Mi riferisco in particolare all’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della sera, allo scritto di Edgar Morin su Repubblica, alla analisi di Olivier Roy sull’ Internazionale. Parto da quest’ultima: i giovani (francesi e belgi) che hanno scatenato il terrore e la morte a Parigi hanno in realtà poco a che vedere con le mire geopolitiche del "Califfato". Sono il frutto di una rivolta generazionale che rinnega prima di tutto i propri padri immigrati e – più o meno - integrati in Francia. Giovani che invece non riescono a integrarsi nel «nostro modo di vivere» – che li respinge e li esclude - e che trovano nella violenza predicata dagli estremismi islamici la leva per votarsi a un nichilismo da «perdenti radicali», più simili a Breivik e a chi stermina studenti nelle scuole Usa che ai teologi della violenta rinascita islamica. Per affrontare questo tipo di nemici, forse più che bombardare Raqqa bisognerebbe ascoltare i discorsi di un Renzo Piano sull’emergenza di colmare i «deserti affettivi» delle banlieue (come nelle nostre periferie urbane). Ma non bisogna poi trascurare – ci invita Morin – le ragioni storiche di lunga durata che spiegano il relativo successo del "Califfo" nell’area terremotata dell’universo arabo. Non basta qui riconoscere le colpe e gli errori dell’Occidente lungo qualche secolo, ma si tratta capovolgere lo sguardo con cui si interviene in quella vasta area. Magari ripensando al sogno di un occidentale, Lawrence d’Arabia, al miraggio di una grande rinascita del mondo arabo, nella valorizzazione delle sue molte differenze. Qualcosa insomma di completamente opposto all’idea di allearsi con gli Assad e gli Al Sisi, ai tiranni vecchi e nuovi che sono tra le cause maggiori della radicalizzazione islamica, alimentata dalle persecuzioni politiche e dall’oppressione sociale. Infine, ma forse è il primo gesto necessario, va ascoltato l’Islam che si dissocia, che manifesta – per poche che siano le presenze in piazza – alzando i cartelli «Not in my name». Credo – con Mieli – che sia essenziale rispondere, interloquire, riconoscere. E del suo articolo mi ha colpito la notazione sul fatto che nelle recenti manifestazioni a Roma e a Milano (ho ascoltato su Radio Radicale quella di Roma) hanno parlato solo maschi. Questo è certamente un limite significativo. Che nell’origine profonda della parola guerra riguarda anche noi e non solo il nostro nemico. – Il missile Aim-120 Amraam lanciato dall’F-16 turco (ambedue made in Usa) non era diretto solo al caccia russo impegnato in Siria contro l’Isis, ma a un obiettivo ben più importante: il Turkish Stream, il progettato gasdotto che porterebbe il gas russo in Turchia e, da qui, in Grecia e altri paesi della Ue. Il Turkish Stream è la risposta di Mosca al siluramento, da parte di Washington, del South Stream, il gasdotto che, aggirando l’Ucraina, avrebbe portato il gas russo fino a Tarvisio (Udine) e da qui nella Ue, con grandi benefici per l’Italia anche in termini di occupazione. Il progetto, varato dalla russa Gazprom e dall’italiana Eni e poi allargato alla tedesca Wintershall e alla francese Edf, era già in fase avanzata di realizzazione (la Saipem dell’Eni aveva già un con- MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 COMMUNITY LAZIO Mercoledi 2 dicembre, ore 19.30 PASOLINI Assieme a Luisa Mazzullo ed in collaborazione con l'Ass. Culturale Zoot, una serata dedicata a Pier Paolo Pasolini. Oltre a letture di alcuni suoi testi, e all'esposizione di una galleria fotografica curata da Luisa Mazzullo, ci saranno filmati, documentari, interviste e la proiezione del film «La rabbia». Il cielo sopra l’Esquilino, via Galilei, 57, Roma Giovedì 3 dicembre, ore 18 PAESAGIO DI IDEE Reset e Reset-Dialogues on Civilizations sono liete di invitarvi alla presentazione dell’ultimo libro di Andrea Carandini sul filosofo Isaiah Berlin dal titolo «Paesaggio di idee. Tre anni con Isaiah Berlin» di Andrea Carandini (Rubbettino Editore, 2015). Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma LOMBARDIA Mercoledì 2 dicembre, ore 21 SCIENZA E RELIGIONE Incontro dibattito a tema «Scienza e religione di fronte ai mutamenti climatici. La conferenza Onu di Parigi e l’Enciclica Laudato sia». Cinema Teatro Gloria, via S. Pietro, Montichiari (Bs) le lettere pagina 14 SARDEGNA Martedì 1 dicembre BABEL Dalla resistenza di Kobane, alle vicende dei curdi e degli armeni che costituiscono ancora una ferita aperta per la Turchia. Storie che prendono vita con le voci delle minoranze linguistiche di tutto il mondo: saranno loro ad animare la quarta edizione del Babel Film Festival (30 novembre-5 dicembre). Un festival che alla luce degli attentati di Parigi e in Mali vuole ribadire la sua mission: valorizzare e promuovere le minoranze linguistiche e l’idea del dialogo interculturale, inteso come comprensione reciproca tra individui e gruppi che hanno origini e patrimoni linguistici, culturali, etnici e religiosi differenti. Maggiori informazioni li trovate sul sito internet: www.lacinetecasarda.it Cineteca sarda, v.le Trieste, 118, Cagliari TOSCANA Martedì 1 dicembre, ore 21 BARBARA CASINI Il Centro Studi Iniziative America Latina ed il Circolo Vie Nuove , organizzano la presentazione del libro: «Se tutto è musica» alla quale interverranno, insieme all'autrice Barbara Casini, anche Costanza Calamai e Bruno D’Avanzo. Da Gilberto Gil a Guinga; da Danilo Caymmi a Chico Buarque de Hollanda, diciotto conversazioni che aprono altrettante finestre sul mondo pieno di fascino dei grandi compositori brasiliani contemporanei. Circolo Vie Nuove, v.le D. Giannotti, 13, Firenze Mercoledì 2 dicembre, ore 19.30 SOTTO LA PELLE Incontro Roberta Mazzanti e il suo «Sotto la pelle dell’orsa» (Iacobelli editore- Collana I leggendari). Pagine densissime quelle delle due scritture che compongono il libro, la prima si concentra sulla bellezza (incantesimo o prigione?), la seconda un’interrogazione intorno alla relazione con la propria madre. Centro Donna Liliana Paoletti Buti, Largo Strozzi 3, Livorno Tutti gli appuntamenti: [email protected] INVIATE I VOSTRI COMMENTI SU: www.ilmanifesto.info [email protected] La bellezza di Lucio Magri Giustamente si è ricordato, rappresentato, discusso Pasolini, a 40 anni dalla sua morte, perché ancora ci «parla», ci «tocca», ci è «utile». Pochissimo si scriverà invece di Lucio Magri, a quattro anni (soltanto) dalla sua morte (per scelta). Forse neppure Il manifesto, che pure gli deve molto. E Magri possiamo certo leggerlo (e non è poco), ma, a differenza di Pasolini, non possiamo vederlo, né sentirlo nel flusso della sua esistenza. Quanti saranno stati i comizi, gli interventi, le interviste televisive fatte da Magri! Di tutto questo in rete si trova soltanto la presentazione de «Il sarto di Ulm» a Bologna, che certamente non rende l’idea del Magri degli anni ’70, ’80, ’90, gli anni in cui abbiamo potuto vederlo e ascoltarlo pubblicamente. Perché è sia nei suoi libri, articoli, saggi, sia nei suoi interventi orali che trovo due aspetti, che mi hanno sempre colpito e affascinato di Lucio Magri: la complessità e insieme un’idea estetica, portata al perfezionismo, come osservava Valentino Parlato, sia nello scrivere e nel parlare che nel presentarsi e nell’esistere. La complessità in Magri viveva nella ricerca ossessiva della causa ultima delle cose, che era spesso la molteplicità delle cause, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Un ragionamento che scavava per successivi approfondimenti, che ti prendeva per mano e ti faceva toccare con limpidezza lo «stato delle cose». Il senso dell’estetica, invece, era nella chiarezza e nella limpidezza, nel ritmo dei periodi fluenti e nella ricerca del vocabolario giusto che cogliendo la profondità coglieva anche ciò che ci tocca della profondità: il «cuore delle cose». Un suo comizio o la conclusione di un convegno erano quasi sempre "illuminanti", ma anche "commoventi", facevano fermentare energie dinamicizzandoti. "Illuminanti" perché vedevi grandi spazi, il tempo della storia, i conflitti delle classi, possibili idee forza da trasmettere. "Commoventi" perché toccavano le viscere dell’umano: la profondità del dolore, l’utopia possibile. L’estetica era anche nell’arte del discorso, nella voce sottile e musicale, che sapeva essere sferzante e appassionata, distaccata e divertita. L’estetica era inoltre anche nel volto da "attore americano", ma di quell’attore che trascende la bellezza dei lineamenti e diventa "artista", creatore di un’immagine forte di sé, una commistione, cioè, di energia intellettuale, di eleganza e di mistero. Per questo il migliore modo di "commemorare" Lucio Magri è "scoprirlo", o “ripensarlo” cioè leggerlo e utilizzarlo, per ciò che ci ha lasciato per il nostro futuro, perché sono d’accordo con Alberto Burgio che sul manifesto scrisse: «Questo gli ha permesso di portare a termine, nonostante un dolore inemendabile, uno dei libri più belli e importanti su di noi sui comunisti italiani e sul comunismo novecentesco - che siano mai stati scritti». E con Perry Anderson che osserva: «Lucio Magri era una figura unica nella sinistra europea». Gianni Quilici, Lucca Il futuro: la morte per inedia Siamo gli schiavi a piede libero di un Sistema che demonizza il posto fisso e che afferma essere un ritorno al passato. Un passato che garantiva ai lavoratori quella continuità necessaria «per portare avanti una famiglia» e la serenità di guardare al domani con fiducia e ottimismo. Anche ripulire l’aria delle nostre città e l’acqua contaminata delle falde, dei fiumi e dei mari, è un ritorno al passato. Non disperdere rifiuti tossici sul territorio e nelle profondità degli oceani - riappropriarsi dei valori morali, dei principi etici e del buon senso, sono un ritorno al passato. Una classe politica responsabile e consapevole, sobria e ragionevole, che si occupi dei problemi, delle necessità dei cittadini, e ne tuteli i diritti, è un ritorno al passato. E molto presto, quando la cassa integrazione, la mobilità, i sussidi assistenziali e gli ammortizzatori sociali avranno prosciugato le ultime speranze di sopravvivenza dei lavoratori, il Sistema Bestia dichiarerà candidamente che il lavoro è un ritorno al passato, e la morte per inedia, il futuro. Gianni Tirelli Generazione "uovo oggi" 500 euro per la cultura dei giovani neo maggiorenni non sono mica bruscolini. Renzi lo sa. E subito i malpensanti a dire che lo fa per accaparrarsi il loro consenso elettorale e pubblicano dichiarazioni di giovani che indomitamente fanno subito professione di voto antitetico all’imbonitore fiorentino. Se non rinunceranno all’obolo non si sa, ma un concerto della band in voga, evento culturale, fossero pure gli One Directions, costa almeno 100 euro e rinunciare potrebbe risultare complesso. Quello che non si è dunque compreso, e che Renzi sa molto bene, è che non gli importa che detti giovani lo votino o meno immediatamente, come sembrano preoccuparsi certe forze politiche stellate, ma che si insinui l’idea di un governo che pensa pure ai circenses oltre che al panem. Sapeste quanto è dura convincere un disoccupato giovane che il Jobs Act è una soluzione effimera e un passaggio dalla precarietà all’incertezza tout court. È meglio di niente dicono. E per chi non ha prospettiva è comprensibile. E i 500 euro omaggio culturale ai neo diciottenni vanno nello stesso senso e dovrà farci i conti chiunque si confronti col demagogo dalle buffe espressioni facciali se pure dovesse essere surclassarlo in qualche tornata elettorale per effetto dell’orgoglio dei giovani indomiti di cui sopra. I 500 euro creano L’ARTE DELLA GUERRA Missile contro il gasdotto Manlio Dinucci tratto da 2 miliardi di euro per la costruzione del gasdotto attraverso il Mar Nero) quando, dopo aver provocato la crisi ucraina, Washington lanciava quella che il New York Times definiva «una strategia aggressiva mirante a ridurre le forniture russe di gas all’Europa». Sotto pressione Usa, la Bulgaria bloccava nel dicembre 2014 i lavori del South Stream affossando il progetto. Contemporaneamente però, nonostante Mosca e Ankara fossero in campi opposti riguardo a Siria e Isis, la Gazprom firmava un accordo preli- minare con la compagnia turca Botas per la realizzazione di un duplice gasdotto Russia-Turchia attraverso il Mar Nero. Il 19 giugno Mosca e Atene firmavano un accordo preliminare sull’estensione del Turkish Stream (con una spesa di 2 miliardi di dollari a carico della Russia) fino alla Grecia, per farne la porta d’ingresso del nuovo gasdotto nell’Unione europea. Il 22 luglio Obama telefonava a Erdogan, chiedendo che la Turchia si ritirasse dal progetto. Il 16 novembre Mosca e Ankara annunciavano, invece, pros- simi colloqui governativi per varare il Turkish Stream, con una portata superiore a quella del maggiore gasdotto attraverso l’Ucraina. Otto giorni dopo, l’abbattimento del caccia russo provocava il blocco, se non la cancellazione, del progetto. Sicuramente a Washington hanno brindato al nuovo successo. La Turchia, che importa dalla Russia il 55% del gas e il 30% del petrolio, viene invece danneggiata dalle sanzioni russe e rischia di perdere il grosso business del Turkish Stream. Chi allora in Turchia aveva interesse ad abbattere volutamente il caccia russo, sapendo quali sarebbero state le conseguenze? La frase di Erdogan - «Vorremmo che non fosse successo, ma è successo, spero che una cosa del genere non accada più» - implica uno scenario più complesso di quello ufficiale. In Turchia ci sono importanti comandi, basi e radar Nato sotto comando Usa: l’ordine di abbattere il caccia russo è stato dato all’interno di tale quadro. Qual è a questo punto la situazione nella «guerra dei gasdotti»? Usa e Nato controllano il territorio ucraino cultura essi stessi come il Jobs Act. Una cultura miserabile che vive in funzione della regalia, dell’osso del potente gettato con benevola sufficienza sotto il tavolo ai cani, ma pietra di paragone con chi continua a proporre alternative virtualmente etiche ma difficilmente realizzabili nell’immediato. La veloce prevalenza dell’uovo oggi sulla gallina domani. E il mondo corre veloce, troppo veloce per ogni pazienza. E non è dote da giovani, purtroppo. Vanni Destro Bonus delle diseguaglianze Il Bonus da 500 euro per i diciottenni,da spendere in attività culturali, promesso da Renzi, concesso a pioggia, aumenta le disuguaglianze. A beneficiarne saranno i ragazzi delle classi medio-alte, economicamente e culturalmente avvantaggiati. Chi vive in ambienti e famiglie deprivati, a più livelli, non sa, non può utilizzare e personalizzare il Bonus. Un conto, infatti, vivere a Milano, a Roma.., un conto vivere nei piccoli centri o in aree, dove mancano iniziative ed eventi culturali. Non si apprezzano i quadri di un museo, la musica, il teatro, l ’importanza della lettura, il cinema senza una preparazione specifica, senza una guida familiare o scolastica. E’ necessario mettere i giovani nelle condizioni concrete per potere fruire dei tanti beni culturali. La trovata del premier non tiene minimamente conto delle condizioni in cui versa il settore della cultura nel nostro Paese, penalizzato pesantemente dalle politiche di austerità. Negli ultimi anni si sono visti solo tagli che hanno aggravato la crisi, specialmente del teatro e del cinema. Essa, come il Bonus degli 80 euro, si rivela populistica e propagandistica, funzionale a distrarre dai problemi gravi che attanagliano il Paese, a trovare il consenso purchessia alle prossime regionali, a illudere i giovani con promesse tanto estemporanee quanto inique. Questi aspettano non Bonus di carità, ma diritti: allo studio, al lavoro, all’autorealizzazione. Mattia Testa, Itri – da cui passano i gasdotti Russia-Ue, ma la Russia può fare oggi meno affidamento su di essi (la quantità di gas che trasportano è calata dal 90% al 40% dell’export russo di gas verso l’Europa) grazie a due corridoi alternativi. Il Nord Stream che, a nord dell’Ucraina, porta il gas russo in Germania: la Gazprom ora lo vuole raddoppiare ma il progetto è avversato nella Ue dalla Polonia e altri governi dell’Est (legati più a Washington che a Bruxelles). Il Blue Stream, gestito alla pari da Gazprom ed Eni, che a sud passa dalla Turchia ed è per questo a rischio. La Ue potrebbe importare molto gas a basso prezzo dall’Iran, con un gasdotto già progettato attraverso Iraq e Siria, ma il progetto è bloccato (non a caso) dalla guerra scatenata in questi paesi dalla strategia Usa/Nato. MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2015 il manifesto COMMUNITY pagina 15 Se privatizzare non fa rima con investire DALLA PRIMA Aldo Carra Questo fallimento pesa, ma non per questo dobbiamo attestarci su una posizione di semplice contrarietà alla privatizzazione. Anzi proprio per questo dovremmo entrare nel dibattito in corso indirizzando la discussione non su quanti soldi si possono fare, ma su come migliorare il trasporto ferroviario. Il problema. Le Fs sono una struttura molto complessa. Si tratta della più grande azienda di servizi del paese che comprende la rete ferroviaria, binari, stazioni, impianti, il trasporto passeggeri ad Alta Velocità ed a lunga distanza, il trasporto locale, il trasporto merci, ed un patrimonio immobiliare notevole in parte direttamente legato alle funzioni proprie ed in parte accessorio come aree ed immobili lungo la linea e nelle stazioni. Proprio per questa complessità e per il notevole valore degli asset, dire il 40% non significa niente se non si precisa quale è il 100 di cui il 40 è parte. Su questo punto nel management nominato pochi mesi fa ed adesso spinto a dimettersi, c'erano due linee: procedere alla privatizzazione di quote di tutto il valore aziendale oppure separare la gestione della rete dalle attività di trasporto privatizzando solo quote di queste attività. La differenza non è di poco conto perché l'asset rete vale tre volte l'asset trasporti. Prenderlo in considerazione significherebbe quindi poter incassare molto di più, ma poiché più alto è il patrimonio investito più bassa è la remunerazione del capitale, l'operazione potrebbe essere meno appetibile per il mercato. Una scelta, come si vede, non di poco conto. I vincoli. Proprio per questo sarebbe stato logico scegliere prima la strategia da seguire, magari investendone il parlamento, e procedere dopo alla nomina dei vertici con un mandato preciso. Ma questo governo come si sa ha fretta su tutto, non tiene in grande considerazione il parlamento e se c'è l'occasione di mettere nei posti chiave persone gradite non se la fa scappare. Quindi ha proceduto alla nomina dei vertici ed adesso la partita è tutta da vedere e da giocare. Essa si snoda, tanto per stare in tema, su due binari: - le normative comunitarie emanate da 25 anni che prevedono la separazione della rete ferroviaria dalle attività di trasporto e che finora sono state disattese da quasi tutti i paesi; - l’impegno a cedere una quota pari a 3 miliardi, previsto nel programma di privatizzazioni concordato dal governo con la Commissione Europea. E’ chiaro che a far precipitare la Inghilterra e Francia hanno dovuto fare retromarcia sulla separazione tra rete e trasporto. In Italia bisogna agire sul settore merci e sul trasporto locale decisione è questo secondo vincolo e che il "fare cassa" ispira i movimenti di oggi. Perciò il rischio di disfarsi di patrimonio pubblico senza alcuna contropartita è serio. Di fronte ad esso è necessario imporre un confronto su un disegno strategico di futuro del trasporto su rotaia con una particolare attenzione a due aspetti: uno ambientale che riguarda il trasporto merci, l’altro sociale che riguarda il trasporto locale. La normativa europea prevede la separazione della rete ferroviaria dalle attività di trasporto come premessa per mettere sul mercato tutte le attività di trasporto gestite da imprese pubbliche e private con pari diritti di accesso alla rete. In questo percorso di liberalizzazione e privatizzazione la prima della classe è stata, naturalmente, l'Inghilterra che era arrivata addirittura a spacchettare le tratte ferroviarie vendendole a società diverse: i gravi disagi ai passeggeri e le disfunzioni prodotte hanno costretto ad un passo in- dietro e decretato il fallimento di quella liberalizzazione spinta. La stessa Francia che aveva proceduto alla separazione della rete dal trasporto è tornata indietro ed oggi in Europa, prevale un modello integrato di rete e servizi di trasporto. Ma per il 2019 è previsto l’obbligo di procedere alla piena liberalizzazione. quindi, i nodi liberalizzazione - privatizzazione debbono essere affrontati. Sapendo, però, che non si parte da zero e nemmeno dall’assunto che privato è efficienza e pubblico no. In questi anni le ferrovie italiane hanno saputo risanare i conti e creare un servizio di Alta Velocità competitivo, efficace ed efficiente, che le colloca all'avanguardia in Europa. Ma gli altri segmenti del trasporto ferroviario presentano ancora enormi problematiche e ritardi da colmare al più presto. Le proposte. Nel settore merci la liberalizzazione è in atto da otto anni, i volumi trasportati dalle 13 nuove imprese private sono cresciuti, ma la concorrenza si è concentrata sulle tratte più appetibili ed il traffico non si è spostato dalla strada alla ferrovia: gli aiuti di stato all’autotrasporto, nemmeno finalizzati alla riconversione verso l’intermodalità, hanno fatto in modo che le nuove imprese private togliessero i traffici più redditizi alle Fs senza intaccare il predominio della strada. Fare spazio al privato, quindi, non serve se non si fa una politica coerente di investimenti per il trasporto ferroviario delle merci con un nuovo piano dei porti e dell’intermodalità. Discorso analogo vale per il trasporto locale. In questo settore è difficile coprire i costi con i ricavi e non è nemmeno pensabile, con la qualità scadente che oggi si offre, aumentare i ricavi agendo sui prezzi. Ci si trova, quindi, in un circolo vizioso che si può spezzare solo con consistenti investimenti per rinnovare ed aumentare la flotta ferroviaria e per garantire, così, un’offerta in qualità e quantità degna di un paese civile. Se così stanno le cose, allora, non si tratta di vendere o svendere per fare cassa. Si tratta, invece, di delineare un progetto industriale che abbia alcuni punti chiave: - l’ infrastruttura ferroviaria, la rete, potrebbe pure essere scorporata dal trasporto, ma non può assolutamente essere privatizzata nemmeno in parte; - si possono prevedere cessioni di quote di minoranza e graduali di aree già risanate e valorizzate ( Frecce, attività secondarie come servizi ed aree..); - l’apertura al capitale privato va fatta con un vincolo preciso: che si destinino rigorosamente le entrate che ne derivano ad investimenti nelle merci e nel trasporto locale. Né fare shopping, né fare soldi. Solo con questa visione e questi vincoli può avere un senso la cessione di pezzi di patrimonio pubblico. Altrimenti si farebbe solo un’operazione che fa male al pubblico che si impoverisce ed allo stesso privato che si abitua ad investire nei settori a reddito garantito, il che non è il massimo per la cultura del rischio d’impresa. Insomma la fase che si apre alle ferrovie potrebbe essere l’occasione per chiudere con un passato – aperture al mercato senza risultati – e per aprirsi ad un futuro nuovo: si cede il minimo di patrimonio che consenta di ricavare il massimo di reddito e, soprattutto, quello che si ricava lo si destina prima ed esplicitamente a migliorare il servizio prodotto. Né "fare shopping", quindi, né "fare soldi", ma operazioni finanziarie e produttive intelligenti, per poter offrire un servizio migliore. Se non si mira a questo, meglio lasciare le cose come stanno. Se si pensa di trovare qui risorse da destinare solo a ridurre il debito lungo la via crucis dell’austerity, si passi, sempre per restare in tema, ad un’altra stazione. RIVOLTA METROPOLITANA Normalità da abolire per aiutare Daesh DALLA PRIMA Marco Bascetta Per via pacifica, e comunque illegale, o scontrandosi con le forze di polizia. Entrambe le cose sono puntualmente accadute. C’è il precedente di Ankara, è vero, ma gli uomini dell’Is hanno dimostrato di poter scegliere tra innumerevoli concentrazioni di persone (mercati, chiese, locali pubblici, aerei, metropolitane, stadi) tra le quali seminare morte. Luoghi di quella normale vita quotidiana alla quale, tutti lo giurano, nessuno potrà costringerci a rinunciare. Ne consegue che la protesta di piazza contro le politiche nazionali o "globali" che siano, contrariamente allo shopping e alla frequentazione dei bistrot, non è considerata appartenere alla normalità della vita democratica, allo stile di vita squisitamente occidentale. Non è dunque una questione di sicurezza. O almeno non lo è in prima istanza. Si tratta piuttosto di quella pretesa di obbedienza e disciplina nazionale, di fiducia incondizionata nelle scelte di chi comanda che i governanti pretendono in caso di guerra o di altre emergenze imparentate più o meno legittimamente con questa parola. E non è questa l’ultima ragione per la quale si sono combattute e si combattono le guerre. Magari quando la popolarità di un presidente vacilla pericolosamente sul fronte politico interno. Come nel caso del pallido Hollande, ma anche di Angela Merkel che, incalzata da destra e da componenti del suo stesso partito per la politica sull’immigrazione cui ha ultimamente legato la sua immagine, si aggrega infine all’impresa siriana. L’obiettivo non rinviabile di distruggere Daesh è dunque inquinato e indebolito da un fitto intrico di interessi ed egoismi nazionali, tanto in patria quanto in Medio oriente. Quanto alla normalità della vita metropolitana in Occidente, anche su questo fronte non sembrano esserci solide garanzie. Bruxelles viene trasformata per diversi gior- il manifesto DIR. RESPONSABILE Norma Rangeri CONDIRETTORE Tommaso Di Francesco DESK Matteo Bartocci, Marco Boccitto, Micaela Bongi, Massimo Giannetti, Giulia Sbarigia CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.info iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di Roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di Roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 Pubblicazione a stampa: ISSN 0025-2158 Pubblicazione online: ISSN 2465-0870 ABBONAMENTI POSTALI PER L’ITALIA annuo 320e semestrale 180e versamento con bonifico bancario ni in una città fantasma per fermare 21 persone, 19 delle quali saranno immediatamente rilasciate. Non si scoprono arsenali, né terroristi pronti a colpire, ma l’immagine della capitale d’Europa ridotta a spettrale teatro di guerra resterà a lungo nella memoria. Nessuno sarà chiamato a rendere conto di questa sproporzionata messa in scena o del buco nell’acqua. Ad Hannover, in Germania, viene evacuato uno stadio, messa in stato di assedio una stazione, la popolazione invitata a chiudersi in casa, ma non v’è traccia dell’ambulanza imbottita di tritolo di cui si era andato favoleggiando. Il governatore del Land assicura che non c’è alcun pericolo. Il ministro dell’interno mette in guardia da «altri attentati». Altri? Se non è il trionfo dell’Is è certamente quello della stupidità o, peggio, l’esordio di un nuovo stile di governo emergenziale. Per salvare la Libertà, ripetono innumerevoli commentatori, bisognerà pur rinunciare a qualche libertà, prima tra tutte quella di contestare il governo che ci protegge, che ci imbriglia «per il nostro bene». E, per meglio farlo, come è il caso di quello francese, mette anche mano alla Costituzione, introducendovi strumenti di sospensione dei diritti democratici, che potrebbero presto finire in mani assai poco delicate quali quelle del Front National. Confidiamo nell’impegno preso dal governo italiano di non seguire questa strada. Se per qualche banale incidente, magari lo zelo repubblicano di un flic, dovesse riesplodere la rivolta nelle banlieues, potremmo tornare ad assistere alle orribili scene dell’ottobre 1961 quando decine e decine di algerini (forse addirittura 300) furono assassinati e gettati nella Senna. Anche allora c’era una guerra. E attentati contro le forze di polizia. E stato di emergenza. Ma Daesh non si interessa alle rivolte metropolitane. E’ nel bacino della frustrazione e dell’impotenza che recluta i suoi «martiri». Nel bacino delle manifestazioni proibite e delle cospirazioni silenziose. presso Banca Etica intestato a “il nuovo manifesto società coop editrice” via A. Bargoni 8, 00153 Roma IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 COPIE ARRETRATE 06/39745482 [email protected] STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl E-MAIL [email protected] SEDE LEGALE, DIR. GEN. via A. Bargoni 8, 00153 Roma tel. 06 68896911, fax 06 58179764 TARIFFE DELLE INSERZIONI pubblicità commerciale: 368 e a modulo (mm44x20) pubblicità finanziaria/legale: 450e a modulo finestra di prima pagina: formato mm 65 x 88, colore 4.550 e, b/n 3.780 e posizione di rigore più 15% pagina intera: mm 320 x 455 doppia pagina: mm 660 x 455 DIFFUSIONE, CONTABILITÀ. 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La sua lettera al basket pubblicata da The Players Tribune: «Mi hai fatto vivere il mio sogno di diventare un Laker e ti amerò per sempre per questo. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Il cuore può sopportare la battaglia, la testa può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è il momento di dire addio. Questa stagione è tutto quello che mi resta». Una disputa con se stesso IlDItiro finale BLACK MAMBA Lo spettacolo è finito, dal prossimo 13 aprile, ultima allo Staples Center, la casa degli angelini, contro gli Utah Jazz, niente più movimento sincopato e tiro in sospensione con la lingua da fuori, solo uno dei dettagli che lo rendono così simile a Michael Jordan, il mito divenuto esempio, sino a ossessione. Bryant aveva messo Jordan nel mirino, voleva il sesto titolo Nba per eguagliarlo, in quell'eterna disputa con se stesso, con canestro e avversari comprimari. Insomma, il Black Mamba, il suo soprannome, si ritira, finisce nella teca. Si mette da parte KOBE BRYANT prima di essere arrostito dalle (A DESTRA) critiche di tifosi, giornalisti, SCARICA amanti dell'universo Nba, che LA PALLA non ha mai fatto sconti a nessuALLE SPALLE no. In realtà spifferi di spogliatoDEL CENTRO io sulle sue cattive prestazioni DEI TORONTO spiravano dall'inizio della preseRAPTORS, ason e durante le prime negatiBISMACK ve settimane di stagione regolaBIYOMBO re dei Lakers, che hanno colle/FOTO zionato sconfitte, figuracce, senLAPRESSE za alcuna possibilità di arrivare ai playoff. E con Kobe al minimo storico di punti realizzati dal campo (15 punti in media), e con percentuali al tiro intorno al 30%. Polaroid ingiallita di se stesso. Non era più lui, quel ragazzo competitivo cresciuto in Italia vedendo suo padre JellyBean da bordocampo. Ed è sfumata anche la soggezione che Bryant imponeva agli avversari, consumati dalla sua voglia di vincere, di primeggiare. Di essere il migliore, con un'etica selvaggia del lavoro che l'ha sempre portato a stagione finita, mentre gli altri cestisti erano al mare o sulle spiagge californiane a sorseggiare tequila sunrise, ad alzarsi alle cinque del mattino, con interminabili sessioni di tiri, di movimenti faccia a canestro o in allontanamento. Come se il suo repertorio di gioco, il suo personale arsenale andasse puntellato di stagione in stagione. Così fanno solo i campioni. Da qualche settimana erano cominciati gli omaggi nei palazzetti dello sport della Nba, che in passato l'avevano pure fischiato. Tutti in tribuna a vederlo tirare per l'ultima volta, pareva quasi scritto che Bryant fosse al passo d'addio, lo diceva il campo, i numeri, gli avversari, il suo linguaggio del corpo, quella serie infinita di tiri senza centrare il bersaglio. La lotta ancora ostinata con se stesso, stavolta senza munizioni per spuntarla. E in rete si sprecavano i filmati che ironizzavano sui suoi sgangherati tentativi di tiri dal campo, sugli errori che mai avrebbe commesso, neppure in sonno. Lo stesso Bryant qualche settimana fa aveva cominciato a seminare tracce del suo futuro lontano dalla palla a spicchi, spiegando che in campo sapeva di fare schifo, di sentirsi uno dei peggiori della Lega. Il fisico non rispondeva più. La vendetta sul parquet All'avvio della stagione, Espn – lo stesso network che ha diffuso la notizia del suo ritiro – lo piazzava al 200 esimo posto tra gli atleti in circolazione. Il fuoriclasse dei Lakers si era risentito, meditando vendetta sul parquet. Padre Tempo però pare essere più forte di lui. Avrebbe potuto seguire la traccia di altre star assolute del basket, con un ruolo di retroguardia, mentore di qualche talento dei Lakers da lanciare per la successione dinastica dopo gli anni a dominare il gioco. Come Tim Duncan ai San Antonio Spurs con LaMarcus Aldridge, oppure Kevin Garnett, tornato a Minnesota per istruire i più giovani alla legge della foresta Nba. Meno minuti, meno tiri, leadership in panchina e nello spogliatoio. Con un posto assicurato nella Hall of Fame. Ma lui è Kobe Bryant. Non divide lo spazio vitale con nessuno. È lo stesso che sfidava in attacco e difesa Michael Jordan nell'ultima esibizione all'All Star Game di MJ. Le altre star passavano la palla all'ex Chica- go Bulls, lui lo sfidava. Un animale da basket, il sale della competizione, Una faccia, forse la migliore, dello sport. Negli anni gli ha resistito solo Shaquille O'Neal, in comune l'ego smisurato, mentre altri atleti sono stati fagocitati dalla sua durezza mentale. Alcuni sono scoppiati in lacrime davanti alle telecamere dopo i suoi rimproveri immortalati dalle tv. Per i trentenni Kobe è il Michael Jordan dell'ultima generazione. Terzo miglior marcatore di sempre, cinque anelli Nba, il most valuable player nel 2008, il miglior giocatore delle Finali nel 2009 e 2010, anche se quest'ultimo premio è stato scippato allo spagnolo Pau Gasol. E gli 81 punti messi a segno nel gennaio 2006 contro i Toronto Raptors, l'oro olimpico a Londra 2012, leader più emotivo che tecnico con Team Usa, che era già la squadra di Lebron James, l'altro fenomeno della Lega, stimato ma mai amato, ricambiato. Un vincente capriccioso Ma Bryant è soprattutto il fenomeno a cui consegnare la palla per vincere a pochi secondi dal termine, il faro, la guida, la stella. Un vincente capriccioso. Phil Jackson, che con Bryant e Shaquille O'Neal ha vinto tre titoli all'inzio de Duemila, ha scritto peste e corna di Kobe in Eleven Rings, la biografia del leggendario coach che tra Chicago Bulls e i Lakers, che in carriera è andato in doppia cifra di titoli. Ma non ha mai potuto fare a meno di lui, anzi lo punzecchiava per mettere sale sulla carne viva di Bryant, incendiando la sua voglia di vincere. Shaquille O'Neal invece con il numero 24 in gialloviola ha scritto pagine di letteratura sportiva Nba negli ultimi 15 anni, tra antipatia reciproca mai nascosta, litigi veri o presunti negli spogliatoi. Con la chimica che emergeva misteriosamente sul parquet: uno contro uno di Bryant, schiacciata di Shaq, partite e titoli ai Lakers. Al Black Mamba restano quattro mesi di basket agonistico, prima di consegnarsi alla Storia. E tra standing ovation e l'onore delle armi dei più grandi, ci sarà spazio per un ultimo tiro-vittoria all'ultimo secondo, per una schiacciata in testa ai giganti di 2,10 metri. Perché signori, lui è Kobe Bryant.