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Gustave Flaubert
SALAMMBÔ
Tradotto da Adelio Alquà
I
IL FESTINO
Si era a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare.
I soldati da lui capitanati in Sicilia si concedevano un grande banchetto per celebrare
l’anniversario della battaglia di Erice, e siccome erano numerosi e il padrone era assente,
mangiavano e bevevano in gran libertà.
I capitani, che portavano coturni di bronzo, si erano posti nel viale centrale, sotto un velario di
porpora con le frange d’oro che si stendeva dal muro delle scuderie fino alla prima terrazza del
palazzo; mentre la maggior parte dei soldati era sparsa sotto gli alberi, oltre i quali si distingueva un
gran numero di fabbricati dal tetto piatto, frantoi, cantine, magazzini, forni per il pane e arsenali,
con un cortile per gli elefanti, le fosse per le bestie feroci, una prigione per gli schiavi.
Alcuni alberi di fico circondavano le cucine; un bosco di sicomori si prolungava fino ad un
ammasso di orti, oltre i quali i melograni spiccavano tra le macchie bianche dei campi di cotone;
viti, cariche di grappoli, salivano tra le ramificazioni dei pini; sotto dei platani sbocciava un roseto;
tra l’erba dei prati, qua e là, dondolavano dei gigli; una sabbia nera, mista a polvere di corallo,
copriva i sentieri, e i cipressi, che da un capo all’altro fiancheggiavano il viale centrale, formavano
come un doppio colonnato di obelischi verdi.
Il palazzo, costruito in marmo numidico picchiettato di giallo, sovrapponeva dalle fondamenta, su
larghi strati di pietre, i suoi quattro piani di terrazze. Con la sua grande scalinata diritta in legno
d’ebano che sfoggiava agli angoli di ogni gradino la prua di una galea vinta, con le sue porte rosse
inquartate da una croce nera, le sue grate di rame che lo proteggevano in basso dagli scorpioni, e i
suoi graticci di bacchette dorate che ne chiudevano in alto le aperture, sembrava ai soldati, nella sua
feroce opulenza, così solenne e impenetrabile quanto il volto di Amilcare.
Il Consiglio aveva concesso loro la sua casa perché vi tenessero quel banchetto; i convalescenti
che dormivano nel tempio di Eshmun, avviatisi all’alba, vi si erano trascinati sulle loro grucce. Ad
ogni minuto giungevano altri uomini. Ne sbucavano da tutti i sentieri, come dei torrenti che
precipitano in un lago. Tra gli alberi si vedevano correre gli schiavi delle cucine, seminudi e
stravolti. Le gazzelle fuggivano belando sui tappeti d’erba dei prati. Il sole tramontava, e il profumo
dei limoni rendeva ancora più greve l’effluvio di quella folla grondante sudore.
Vi erano uomini di tutte le razze, Liguri, Lusitani, Baleari, Negri e disertori di Roma. Si udivano,
a fianco del rozzo dialetto dorico, rimbombare le sillabe celtiche assordanti come carri di battaglia,
e le desinenze ioniche cozzare con le consonanti del deserto, aspre come gridi di sciacallo. Il Greco
si riconosceva per la figura snella, l’Egiziano per le spalle rialzate, il Cantabro per i polpacci robusti.
Vi erano dei Carii che dondolavano orgogliosamente le piume dei loro elmi, arcieri della
Cappadocia che si erano dipinti con il succo di certe erbe grandi fiori sul corpo, ed alcuni della
Lidia che, vestiti da femmina, portavano orecchini e mangiavano in pantofole. Altri, che per
apparire si erano imbrattati di cinabro, sembravano statue di corallo.
Se ne stavano allungati sui cuscini, mangiavano accoccolati intorno a dei grandi vassoi, oppure,
distesi sul ventre, si impadronivano di pezzi di carne, poi li divoravano appoggiati sui gomiti, come
dei leoni che tranquillamente sbranano la loro preda. Gli ultimi arrivati, in piedi contro gli alberi,
guardavano le basse tavole seminascoste sotto drappi di scarlatto, e attendevano il loro turno.
Non bastando le cucine di Amilcare, il Consiglio aveva inviato degli schiavi, delle stoviglie, dei
divani; e nel mezzo del giardino, come su un campo di battaglia quando si bruciano i morti, si
vedevano grandi fuochi luminosi sui quali arrostivano dei buoi. Pani cosparsi di anice si alternavano
a grossi formaggi più pesanti dei dischi, e i crateri colmi di vino e le brocche colme d’acqua
stavano accanto ai canestri in filigrana d’oro che contenevano fiori. Negli occhi dei presenti si
leggeva la gioia di potersi infine saziare abbondantemente; qua e là, si cominciava a cantare.
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Per iniziare si servirono degli uccelli in salsa verde, in tondi di argilla rossa abbellita di disegni
neri, poi tutte le specie di molluschi raccolte sulle coste puniche, minestre di frumento, di fave,
d’orzo, e lumache al cumino su piatti di ambra gialla.
Poi le tavole furono coperte di carni: antilopi con le loro corna, pavoni con le loro piume, montoni
interi cotti nel vino dolce, coscette di cammella e di bufala, istrici al garum, cicale fritte e ghiri
caramellati. Dentro marmitte in legno di Tamrapanni navigavano, in mezzo allo zafferano, dei
grossi pezzi di grasso. Tutto quanto traboccava di salamoia, di tartufi e di assafetida. Piramidi di
frutta barcollavano su favi di miele, e non mancavano quei piccoli cani dal ventre gonfio e dal pelo
rosa che si ingrassavano con la feccia delle olive, a causa dei quali i Cartaginesi erano disprezzati
presso gli altri popoli. La meraviglia per i cibi sconosciuti aumentava l’ingordigia degli stomaci. I
Galli dai lunghi capelli avvolti sulla sommità del capo arraffavano i cocomeri e i limoni che
masticavano con la buccia. I Negri che non avevano mai visto le aragoste si ferivano il viso con i
loro pungiglioni rossi. Al contrario, i Greci rasati, più bianchi del marmo, gettavano dietro le
proprie spalle i resti dei loro piatti, mentre dei pastori del Bruzio, vestiti con pelli di lupo,
mangiavano avidamente e in silenzio, col viso nascosto nel piatto.
Cadeva la notte. Venne tolto il velario steso lungo il viale dei cipressi e furono portate delle torce.
I tremuli bagliori del petrolio che bruciava nei vasi di porfido spaventarono, sui rami dei cedri, le
scimmie sacre alla luna. Cacciarono dei gridi, e la cosa divertì i soldati.
Lingue di fuoco palpitavano sulle corazze di rame. Dai piatti incrostati di pietre preziose scaturiva
un molteplice scintillio. I crateri, ornati di specchi convessi, riflettevano immagini alterate degli
oggetti; i soldati all’intorno vi si specchiavano sbalorditi e facevano smorfie per rendersi ridicoli. Si
lanciavano gli uni gli altri, al di sopra delle tavole, gli sgabelli d’avorio e le spatole d’oro.
Tracannavano avidamente i vini della Grecia che stanno negli otri, i vini della Campania chiusi
nelle anfore, i vini dei Cantabri che si conservano nelle botti, e i vini di giuggiolo, di cinnamomo e
di loto. Ve n’erano delle pozze per terra nelle quali si scivolava. Il fumo delle carni saliva nel
fogliame col vapore dei respiri. Lo schiocco delle mascelle si mescolava al chiasso dei discorsi,
delle canzoni, delle tazze, al fracasso dei vasi campani che cadevano in mille pezzi, o al suono
cristallino di un grande piatto d’argento.
Più cresceva la loro ebbrezza più si ricordavano dell’ingiustizia di Cartagine. In effetti, la
Repubblica, spossata dalla guerra, aveva permesso alle truppe che tornavano di ammassarsi dentro
la città. Giscone, loro generale, tuttavia aveva avuto la prudenza di imbarcarle a piccoli scaglioni
per facilitare il saldo della paga, e il Consiglio si era illuso che essi alla fine si sarebbero
accontentati anche solo di una parte. Ma oggi si rimproverava loro di non poterli pagare. Questo
debito si confondeva nella testa del popolo con i tremiladuecento talenti euboici pretesi da Lutazio;
per questo motivo essi erano visti come dei nemici, quanto Roma. I Mercenari lo intuivano, e la loro
indignazione si manifestava con minacce e intemperanze. In fine avevano chiesto di potersi riunire
per celebrare una delle loro vittorie, e il partito della pace aveva ceduto, anche per vendetta contro
Amilcare che era stato uno dei più convinti fautori della guerra. La pace era stata conclusa
nonostante tutti i suoi sforzi, di modo che egli, deluso di Cartagine, aveva affidato a Giscone il
governo dei Mercenari. Designare il suo palazzo per accoglierli, significava volgere contro di lui
una parte dell’odio che si portava loro. D’altronde il costo del banchetto sarebbe stato esorbitante;
in tal modo ricadeva per la maggior parte su di lui.
Fieri di aver piegato la Repubblica, i Mercenari credevano di tornarsene finalmente a casa con la
paga del loro sangue nel cappuccio del mantello. Ma le loro fatiche, riviste attraverso i vapori
dell’ebbrezza, sembravano prodigiose e malamente ricompensate. Si mostravano a vicenda le ferite,
raccontavano i loro combattimenti, i loro viaggi, e le cacce dei loro paesi. Imitavano il grido delle
bestie feroci, i loro balzi. Venne poi il momento delle immonde scommesse; cacciavano la testa
nelle anfore, e restavano a bere, senza interrompersi, come dromedari assetati. Un Lusitano
gigantesco, sollevando un uomo per ciascun braccio, faceva il giro delle tavole sputando fuoco dalle
narici. Alcuni Lacedemoni, che non avevano neppure tolto le corazze, saltavano goffamente. Taluni
ancheggiavano come femmine facendo gesti osceni; altri si mettevano nudi per combattere, in
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mezzo alle tazze, alla maniera dei gladiatori; una compagnia di Greci danzava attorno ad un vaso
sul quale erano dipinte delle ninfe, mentre un Negro batteva con un osso di bue su uno scudo di
bronzo.
Improvvisamente, udirono un canto lamentoso, un canto forte e dolce, che si abbassava e si
rialzava nell’aria come il battito d’ali di un uccello ferito.
Era la voce degli schiavi nell’ergastolo. Con un balzo alcuni soldati si alzarono e scomparvero per
andarli a liberare.
Ritornarono, spingendo in mezzo ai gridi e alla polvere una ventina di uomini che si
distinguevano per il colorito pallido dei loro volti. Un piccolo berretto di forma conica, in feltro
nero, copriva le loro teste rasate; portavano tutti dei sandali di legno e facevano un rumore di
ferraglia come dei carri in marcia.
Giunsero nel viale dei cipressi, dove si mischiarono alla folla che li interrogava. Uno di loro era
rimasto in disparte, in piedi. Attraverso gli squarci della tunica si scorgevano le sue spalle segnate
da lunghi sfregi. A capo chino, si guardava attorno con aria diffidente, socchiudendo le palpebre al
bagliore delle torce; e quando vide che nessuno fra quella gente armata ce l’aveva con lui, un
sospiro di sollievo sfuggì dal suo petto: balbettava e rideva versando lacrime lucenti che gli
bagnavano il viso; poi afferrò per gli anelli una brocca colma, la levò deciso in aria, a braccia tese
nonostante le catene, e guardando il cielo, sempre tenendo la coppa sollevata, disse:
- Salute a te per primo, Baal-Eshmun liberatore, che la gente della mia terra chiama Esculapio! E a
voi, Geni delle fonti, della luce e dei boschi! E a voi, Dei nascosti tra i monti e nelle profondità
della terra! E a voi, uomini forti dalle armature lucenti, che mi avete liberato!
Poi lasciò cadere la coppa e raccontò la sua storia. Si chiamava Spendio. I Cartaginesi lo avevano
catturato nella battaglia delle Eginuse. Parlando greco, ligure e punico, ringraziò ancora una volta i
Mercenari, e baciava loro le mani; infine si felicitò per il banchetto, stupendosi assai di non
scorgervi le coppe della Legione sacra. Queste coppe, che avevano una pianta di vite fatta di
smeraldi su ognuna delle loro sei facce d’oro, appartenevano ad una milizia esclusivamente
composta da giovani patrizi, i più alti di statura. Farne parte era un privilegio, quasi un onore
sacerdotale; perciò, nessun tesoro della Repubblica era maggiormente desiderato dai Mercenari.
Essi detestavano la Legione per questo motivo, e se ne erano visti rischiare la loro vita per
l’inconcepibile piacere di bere in quelle coppe. Dunque, comandarono di andare a cercarle. Esse
erano in deposito presso i Sissizi, compagnie di commercianti che consumavano i pasti in comune.
Gli schiavi tornarono. A quell’ora tutti i membri delle comunità dormivano.
- Svegliateli! - risposero i Mercenari. Dopo un secondo tragitto, si spiegò loro che le coppe erano
custodite in un tempio.
- Fatevelo aprire! – replicarono essi.
E dopo che gli schiavi, pieni di paura, ebbero confessato che le coppe stavano sotto la protezione
del generale Giscone, i Mercenari esclamarono:
- Che ce le porti!
Giscone, ben presto, apparve in fondo ai giardini con una scorta della Legione sacra. Il suo ampio
mantello nero, fissato sul capo ad una mitria d’oro costellata di pietre preziose, che ricadeva
tutt’intorno fino agli zoccoli del suo cavallo, si confondeva da lontano con il colore della notte. Non
si scorgeva che la sua barba bianca, lo splendore del suo copricapo e la sua collana, a tre giri di
larghe piastre azzurre, che gli batteva sul petto.
I soldati, quando entrò, lo salutarono con una grande acclamazione, gridando in coro:
- Le coppe! Le coppe!
Egli cominciò col dichiarare che, se si considerava il loro coraggio, essi ne erano ben degni. La
folla urlò di gioia, applaudendo.
Egli lo sapeva bene, lui che li aveva comandati laggiù e che era ritornato con l’ultima coorte
sull’ultima galea!
- E’ vero! E’ vero! - Dicevano in molti.
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Ospitandoli, continuò Giscone, la Repubblica aveva rispettato la loro distinzione per nazioni, i
loro costumi, i loro culti; essi vivevano liberamente in Cartagine! Ma quanto ai vasi della Legione
sacra, quella era una proprietà privata. All’improvviso, vicino a Spendio, un Gallo si slanciò sopra
le tavole avventandosi dritto su Giscone, minacciandolo a gesti con due spade sguainate.
Il generale, senza interrompersi, lo colpì sulla testa con il suo pesante bastone d’avorio: il Barbaro
cadde. I Galli urlavano, e il loro furore, comunicandosi agli altri, era sul punto di investire i
legionari. Giscone alzò le spalle vedendoli impallidire. Pensava che il suo coraggio sarebbe stato
inutile contro quelle stupide bestie esasperate. Meglio rivalersi più avanti con qualche astuzia;
dunque fece segno ai suoi soldati ed indietreggiò lentamente. Quando fu sotto la porta, voltandosi
verso i Mercenari, gridò loro che se ne sarebbero pentiti.
Il festino ricominciò. Ma Giscone poteva tornare, e, circondando il sobborgo che stava a ridosso
degli ultimi bastioni, schiacciarli contro le mura. Allora si sentirono soli benché numerosi; e la
grande città, che dormiva sotto di loro nell’ombra, improvvisamente li impaurì, col suo groviglio di
scalinate, le sue alte case scure e le sue divinità sconosciute ancora più feroci che il suo popolo. In
lontananza, alcune lanterne scivolavano sulle acque del porto, e vi erano delle luci nel tempio di
Khamon. Si ricordarono di Amilcare. Dov’era? Perché, a pace conclusa, li aveva abbandonati? I
suoi contrasti col Consiglio non erano, senza dubbio, che un pretesto per perderli. Il loro rancore
inappagato ricadeva su di lui; così lo maledicevano, esasperandosi a vicenda con la loro collera. In
quel mentre, si formò un assembramento sotto i platani per vedere un Negro che stramazzava al
suolo, rotolando con tutto il suo corpo, gli occhi sbarrati, il collo torto, la schiuma alla bocca.
Qualcuno gridò che era stato avvelenato. Allora si credettero tutti avvelenati. Si avventarono sugli
schiavi; si alzò un clamore spaventoso, ed una vertigine di distruzione turbinò sui guerrieri ubriachi.
Colpivano intorno a loro a caso, rompevano ogni cosa, uccidevano. Alcuni lanciarono delle torce tra
il fogliame; altri appoggiandosi coi gomiti sulla balaustrata dei leoni, li massacrarono a colpi di
frecce; i più arditi corsero dagli elefanti, volevano tagliar loro la proboscide e mangiare l’avorio
delle zanne.
Nel frattempo alcuni frombolieri delle Baleari che, per saccheggiare a loro comodo, avevano
girato l’angolo del palazzo, furono fermati da un’alta barriera fatta di giunchi delle Indie.
Tagliarono coi loro pugnali le corregge della serratura e si ritrovarono sotto la facciata che guardava
Cartagine, in un altro giardino fitto di piante ben curate. File di fiori bianchi, succedendosi una
all’altra, disegnavano sulla terra azzurra delle lunghe parabole, come scie di stelle. I cespugli,
immersi nelle tenebre, esalavano dei profumi caldi, mielosi. Vi erano tronchi d’alberi imbrattati di
cinabro, che assomigliavano a colonne insanguinate. Nel mezzo, dodici piedistalli di rame
sostenevano ciascuno una grossa palla di vetro, e dei lucori rossastri danzavano entro questi globi
cavi, come delle enormi pupille che palpitassero ancora. I soldati si facevano luce con le torce,
incespicando sul terreno sconnesso, lavorato in profondità.
Scorsero un piccolo lago, diviso in bacini da muraglie di pietre turchine. L’acqua era così limpida
che le fiamme delle torce tremolavano fin sul fondo, su di un letto di ciottoli bianchi e di polvere
d’oro. Questa si agitò, delle lamelle luminose guizzarono, ed alcuni grossi pesci, che avevano delle
pietre preziose intorno alla bocca, apparvero in superficie.
I soldati, ridendo un sacco, li presero per le branchie e li portarono sulle tavole.
Erano i pesci della famiglia Barca. Discendevano tutti da quelle lasche primordiali che avevano
fecondato l’uovo mistico ove si celava la Dea. L’idea di commettere un sacrilegio rinvigorì la
golosità dei Mercenari, che rapidamente accesero del fuoco sotto i vasi di rame e si divertirono a
guardare i pesci dibattersi nell’acqua bollente.
L’agitazione dei soldati cresceva. Non avevano più paura. Riprendevano a bere. Le essenze
profumate che colavano dai loro volti inzuppavano di macchie sudice le tuniche a brandelli. Alcuni,
appoggiandosi coi pugni sulle tavole, che sentivano oscillare come vascelli, ruotavano all’intorno i
loro spaventosi occhi ebbri, per divorare con quelli ciò che non potevano arraffare. Altri,
camminando tra i piatti sulle tovaglie di porpora, rompevano a calci gli sgabelli d’avorio e le fiale in
vetro di Tiro. Le canzoni si confondevano con i rantoli degli schiavi agonizzanti tra le coppe in
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frantumi. Chiedevano altro vino, carni, oro. Gridavano per avere delle donne. Deliravano in cento
lingue. Qualcuno si credeva nelle stufe a causa del vapore umido che fluttuava all’ intorno, oppure,
vedendosi immersi nella vegetazione, si immaginavano a caccia e inseguivano i loro compagni
come fossero bestie feroci. Intanto le fiamme, ad uno ad uno, avevano preso tutti gli alberi, e, in alto,
le masse delle loro chiome, dalle quali si alzavano lunghe spirali bianche, sembravano vulcani che
avessero cominciato a fumare. Il clamore raddoppiava; i leoni feriti ruggivano nell’ombra.
Di colpo, la terrazza più alta del palazzo si illuminò, la porta centrale si aprì, e una donna, la figlia
stessa di Amilcare, vestita di scuro, apparve sulla soglia. Discese la prima scalinata che costeggiava
obliquamente il primo piano, poi la seconda, la terza, e si fermò sull’ultima terrazza, dove
cominciava la scalinata delle galee. Immobile, a capo chino, guardava i soldati.
Dietro lei, da ciascun lato, vi erano due lunghe file di uomini pallidi, coperti di vesti bianche
bordate di rosso che cadevano dritte fino ai loro piedi. Non avevano barba, ne capelli, ne
sopracciglia. Nelle loro mani scintillanti di anelli tenevano delle enormi lire e tutti cantavano, con
voci acute, un inno alla divinità di Cartagine. Erano i sacerdoti eunuchi del tempio di Tanit, che
Salammbô ospitava di sovente nella sua casa.
Finalmente discese la scalinata delle galee. I preti la seguirono. Avanzò lungo il viale dei cipressi,
camminando lentamente tra le tavole dei capitani, che arretravano un poco guardandola passare.
La sua capigliatura, cosparsa di una polvere violetta, e acconciata in forma di torre secondo la
moda delle vergini cananee, la faceva sembrare più alta. Due trecce di perle fissate alle sue tempie
le scendevano fino agli angoli della bocca, rosa come una melagrana socchiusa. Sul suo petto
splendeva un monile di pietre preziose, screziate come le scaglie di una murena. Le sue braccia
nude, ornate di diamanti, uscivano da una tunica senza maniche, a fiori rossi su fondo nero. Aveva
le caviglie allacciate da una catenella d’oro che regolava i suoi passi, ed un lungo mantello di
porpora scura, tagliato in una stoffa mai vista, con lo strascico, ad ogni suo passo, formava come un
ampia onda che la seguiva.
I sacerdoti, di quando in quando, pizzicavano sulle lire degli accordi sommessi, e negli intervalli
della musica, si udiva il leggero tintinnio della catenella d’oro congiunto al battito regolare dei suoi
sandali di papiro.
Nessuno ancora la conosceva. Si sapeva soltanto che viveva ritirata nelle sue pratiche di
devozione. Dei soldati l’avevano scorta una notte, sulla terrazza più alta del palazzo, inginocchiata
verso le stelle, in un turbinio di incensi profumati. Era la luna che l’aveva resa così pallida, e
un’aura divina la circondava come un vapore sottile. I suoi occhi sembravano perdersi molto
lontano al di là degli spazi terrestri. Camminava inclinando la testa, e nella sua mano destra teneva
una piccola lira d’ebano.
La sentivano mormorare:
- Morti! Tutti morti! Voi non verrete mai più obbedendo al mio richiamo, quando, seduta sulla
sponda del lago, io vi lanciavo nella bocca dei semi di cocomero! Il mistero di Tanit roteava in
fondo ai vostri occhi, più limpidi che i globuli dei fiumi.
E li chiamava coi loro nomi, che erano i nomi dei mesi:
- Siv! Sivan! Tammuz, Elul, Tishiri, Shebat! Ah! Abbi pietà di me, o Dea!
I soldati che le stavano intorno tacevano, senza comprendere le sue parole. Si stupivano dei suoi
ornamenti,ed ella li guardava con occhi sgomenti. Poi, infossando la testa tra le spalle e allargando
le braccia, ripeté più volte:
- Che cosa avete mai fatto! Che cosa avete mai fatto! Nonostante avevate a disposizione per il
vostro piacere, pane, carne, olio, tutto il malobatro dei magazzini! Avevo fatto venire dei manzi da
Ecatompilo, avevo inviato dei cacciatori nel deserto!
La sua voce cresceva, le sue gote s’imporporavano. Ella aggiunse:
- Dove credete di essere? In una città conquistata, o nel palazzo di un uomo potente? E quale uomo?
Il suffeta Amilcare mio padre, servitore dei Baal! Le vostre armi, rosse del sangue dei suoi schiavi,
è lui che le ha rifiutate a Lutazio! Ne conoscete voi uno, in patria vostra, che sappia meglio di lui
condurre una battaglia? Guardate dunque! I corridoi del nostro palazzo sono ingombri di trofei!
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Continuate! Bruciatelo! Porterò via con me il Genio della mia casa, il mio serpente nero che dorme
là in alto sulle foglie di loto! Io fischierò, lui mi seguirà; e, se salirò su di una galea, egli correrà
nella scia della mia nave sulla spuma dei flutti.
Le sue sottili narici palpitavano. Stringeva con forza i gioielli sul suo petto. I suoi occhi si
illanguidirono; ella riprese:
- Ah! povera Cartagine! Città degna di compassione! Non ci sono più, a difenderti, gli uomini forti
di un tempo, che attraversavano i mari per edificare templi sulle spiagge. Intorno a te tutti i paesi
lavoravano, e le distese marine, arate dai tuoi remi, cullavano le tue messi.
Allora cominciò a cantare le avventure di Melqart, dio di Sidone e padre della sua famiglia.
Ella narrava la salita dei monti di Ersifonia, il viaggio a Tartesso, e la guerra contro Masisabal per
vendicare la regina dei serpenti:
- Egli inseguiva nella foresta il mostro femminile la cui coda serpeggiava sulle foglie morte come
un ruscello d’argento; e arrivò in una radura dove delle donne, col corpo di drago, stavano intorno
ad un grande fuoco ritte sulla punta delle loro code. La luna, color sangue, risplendeva circonfusa
da un pallido alone, e le loro lingue scarlatte, spaccate come le fiocine dei pescatori, si allungavano
incurvandosi fino a lambire le fiamme.
Poi Salammbô, senza fermarsi, raccontò come Melqart, dopo aver vinto Masisabal, affisse alla
prua della nave la sua testa tagliata:
- Ad ogni colpo dell’onda, la testa si immergeva nella spuma, ma il sole la imbalsamava; così si
fece più dura che l’oro; ciononostante gli occhi non smettevano di piangere, e le lacrime,
continuamente, cadevano nell’acqua.
Ella cantava tutto ciò in un vecchio idioma Cananeo che i Barbari non capivano. Essi si
chiedevano che cosa stesse loro dicendo, per accompagnare il suo discorso con quei terribili gesti; e
montati intorno a lei sulle tavole, sui divani, tra i rami dei sicomori, allungando la testa a bocca
aperta, si sforzavano di capire quelle vaghe storie che danzavano davanti alla loro immaginazione,
attraverso l’oscurità delle teogonie, come dei fantasmi tra le nuvole.
Soltanto i sacerdoti glabri comprendevano Salammbô. Le loro mani grinzose fremevano appese
alle corde delle lire, e di tanto in tanto ne traevano un lugubre accordo: ché, più fragili di vecchie
signore, essi palpitavano al contempo di commozione mistica e per la paura che gli uomini
suscitavano in loro. I Barbari non se ne curavano, incantati ad ascoltare la vergine cantare.
Nessuno però la osservava come un giovane capo Numida seduto alle tavole dei capitani,
circondato da soldati del suo paese. La sua cintura era tanto armata di dardi che faceva una gobba
sotto l’ampio mantello, stretto alle tempie da un laccio di cuoio. La stoffa, semiaperta sulle sue
spalle, gli adombrava il viso, e non si scorgevano che le fiamme dei suoi due occhi intenti. Si
trovava al festino per caso, avendolo suo padre mandato a vivere presso i Barca, secondo il costume
dei re che inviavano i loro figli nelle grandi famiglie per preparare delle alleanze. Dopo sei mesi che
Narava vi alloggiava, non aveva ancora scorto Salammbô; e, seduto sui talloni, la barba china verso
le aste dei suoi giavellotti, egli la considerava allargando le narici come un leopardo accovacciato
tra i bambù.
Dal lato opposto delle tavole c’era un Libico di corporatura colossale, coi capelli neri e crespi
tagliati corti. Non vestiva che la sua giacchetta militare, le cui lamine di bronzo laceravano il tessuto
dei divani. Un ciondolo d’argento in forma di luna s’imbrogliava nei peli del suo petto. Degli
schizzi di sangue gli sporcavano la faccia, e appoggiato sul gomito sinistro sorrideva con la grande
bocca spalancata.
Salammbô non recitava più i cicli degli eroi. Ora parlava ai Barbari in tutte le loro lingue, finezza
di donna, per raddolcire il loro sdegno. Ai Greci parlava in greco, poi si volgeva verso i Liguri,
verso i Campani, verso i Negri; e ognuno di quelli, ascoltandola, ritrovava nella sua voce la
dolcezza della propria patria. Trascinata dalle memorie di Cartagine, ora cantava le antiche battaglie
contro Roma; essi la applaudivano. Si infiammava al bagliore delle spade sguainate; gridava, le
braccia spalancate. La sua lira cadde, ella tacque. Con le mani sul cuore, le palpebre abbassate, restò
un poco ad assaporare il turbamento di tutti quegli uomini.
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Mato, il Libico, si chinava verso di lei. Involontariamente ella gli si accostò, e, spinta dalla
riconoscenza del proprio orgoglio, gli versò in una coppa d’oro un lungo zampillo di vino, per
riconciliarsi con l’armata.
- Bevi! gli disse.
Egli prese la coppa e la avvicinava alle labbra quando un Gallo, lo stesso che Giscone aveva ferito,
lo colpì sulla spalla, proferendo con fare gioviale delle facezie nella lingua del suo paese. Spendio
che era presente, si offrì di tradurle.
- Parla! Disse Mato.
- Gli dei ti proteggono, stai per diventare ricco. A quando le nozze?
- Quali nozze? Chiese il Libico.
- Le tue! Perché da noi – disse il Gallo – quando una donna fa bere un soldato, significa che gli
offre il suo letto.
Non aveva ancora finito di parlare che Narava, con uno scatto, estrasse un giavellotto dalla
propria cintura, e, bilanciandosi col piede destro sul bordo della tavola, lo lanciò contro Mato.
Il giavellotto sibilò fra le coppe, e passando attraverso il braccio del Libico, si infisse nella tavola
con tale violenza che l’asta vibrava nell’aria.
Mato la cavò svelto; ma si trovava disarmato, senza nulla addosso; allora, sollevando con le due
braccia la tavola stracarica, la lanciò, proprio nel mezzo della folla che si precipitava tra loro, contro
Narava. I soldati e i Numidi erano tanto vicini da non poter sguainare le loro spade. Mato si faceva
largo nella ressa a gran colpi di testa. Quando la rialzò per cercarlo con gli occhi, Narava era sparito.
Anche Salammbô si era allontanata.
Allora, volgendo lo sguardo al palazzo, scorse, in alto, la porta rossa con la croce nera che si
richiudeva. Si precipitò.
Lo si vide correre tra le prue delle galee, poi riapparire lungo le tre scalinate superiori, fino alla
porta rossa che investì con tutto il suo corpo. Trafelato, si appoggiò contro il muro per non cadere.
Un uomo l’aveva seguito,e, attraverso le tenebre, perché le luci del festino erano nascoste
dall’angolo del palazzo, riconobbe Spendio.
- Vattene! - gli intimò.
Lo schiavo, senza rispondere, si mise a lacerare la sua tunica con i denti; poi, inginocchiandosi
presso Mato, gli prese delicatamente il braccio, e lo tastava alla cieca per scoprire la ferita.
Sotto un raggio di luna che scivolava tra le nuvole, Spendio scorse nel mezzo del braccio una
piaga aperta. La fasciò con il pezzo di stoffa; ma l’altro, infastidito, gli diceva:
- Lasciami! Lasciami!
- Oh, No! – soggiunse lo schiavo – Tu mi hai liberato dall’ergastolo. Io sono tuo! Tu sei il mio
padrone! Disponi di me!
Mato, rasentando i muri, fece il giro della terrazza. Ad ogni passo tendeva l’orecchio, e attraverso
gli intervalli delle canne dorate tuffava il suo sguardo nelle stanze silenziose. Infine si fermò con
un’espressione disperata.
- Ascolta! – gli disse lo schiavo – Oh, non disprezzarmi per la mia debolezza! Io ho vissuto nel
palazzo. Io posso, come una vipera, introdurmi di soppiatto attraverso le pareti. Vieni! Nella
Camera degli Antenati c’è una verga d’oro sotto ciascuna lastra di pietra; una via sotterranea
conduce alle tombe.
- Eh! Che importa! - disse Mato.
Spendio tacque.
Erano sulla terrazza. Un’enorme massa scura si stagliava davanti a loro, e sembrava contenere dei
vaghi cumuli, simili alle onde gigantesche di un nero oceano pietrificato.
Ma dal lato di oriente comparve una barra luminosa. A sinistra, proprio in basso, i canali di
Megara cominciavano a screziare con le loro sinuosità bianche la verzura dei giardini. I tetti conici
dei templi ottagonali, le scalinate, le terrazze, i bastioni, poco a poco, spiccavano sul pallore
dell’alba; e tutt’intorno alla penisola cartaginese ondeggiava una cintura di spuma bianca, mentre il
mare color smeraldo sembrava come irrigidito nella frescura del mattino. Poi a misura che il cielo
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rosa andava aprendosi, le alte case sospese sulla china del terreno crescevano, si ammucchiavano,
simili a un gregge di capre nere che discende la montagna. Le strade si allungavano deserte; i
palmizi che qua e là spuntavano dai muri non si muovevano; le cisterne colme d’acqua avevano
l’aspetto di scudi d’argento sperduti nei viali, il faro del promontorio Ermeo cominciava ad
impallidire. In alto sull’Acropoli, nel bosco di cipressi, i cavalli di Eshmun, annusando l’alba,
posavano i loro zoccoli sul parapetto di marmo e nitrivano rivolti al sole.
Apparve; Spendio, alzando le braccia, cacciò un grido.
Tutto si muoveva in un rossore sparso, poiché il Dio, come lacerandosi, versava a piene mani su
Cartagine la pioggia d’oro delle sue vene. I rostri delle galee scintillavano, il tetto di Khamon
appariva tutto in fiamme, e si scorgevano dei bagliori all’interno dei templi attraverso le porte da
poco spalancate. I grandi carri che giungevano dalla campagna facevano girare le loro ruote sul
lastricato di pietra delle strade. Alcuni dromedari carichi di bagagli discendevano per le rampe. I
cambiamonete ai crocicchi alzavano le tettoie delle loro botteghe. Delle cicogne volarono via, delle
vele bianche palpitavano. Si sentiva nel bosco di Tanit il tamburello delle cortigiane sacre, e sulla
punta dei Mappali, i forni per cuocere le bare d’argilla cominciavano a fumare.
Spendio si sporgeva in fuori dalla terrazza, i suoi denti battevano, ripeteva:
- Ah! Si…Si…Padrone! Io capisco perché poco fa disdegnavi il saccheggio della casa.
Mato fu come risvegliato dal sibilo della sua voce, sembrava non capire; Spendio riprese:
- Ah! Quali ricchezze! E gli uomini che le posseggono non hanno neppure i ferri per difenderle!
Allora, indicandogli col braccio destro disteso alcuni della plebaglia che strisciavano fuori dal
molo, sulla sabbia, in cerca di pagliuzze d’oro:
- Guarda! – gli disse – La Repubblica è come quei miserabili: china sulla riva del mare, essa
affonda in tutte le spiagge le sue dita avide, e il frastuono delle onde riempie talmente il suo
orecchio che non sentirebbe giungere alle sue spalle il tallone di un conquistatore!
Trascinò Mato all’altra estremità della terrazza, e mostrandogli il giardino dove, sospese tra gli
alberi, le spade dei soldati luccicavano al sole:
- Ma qui ci sono degli uomini valorosi, esasperati dal loro rancore! E nulla li lega a Cartagine, ne le
loro famiglie, ne i loro giuramenti, ne i loro dei!
Mato restò appoggiato contro il muro; Spendio, andandogli vicino, proseguì a bassa voce:
- Mi capisci, soldato? Ce ne andremo in giro coperti di porpora come satrapi. Faremo il bagno nei
profumi; avrò degli schiavi al mio servizio! Non sei stanco di dormire sulla nuda terra, di bere
l’aceto dell’esercito, e di sentir sempre la tromba? Ti riposerai più tardi, non è vero? Quando ti si
caverà la corazza per gettare il tuo cadavere agli avvoltoi! O forse, cieco, zoppo, fiacco, te ne andrai
di porta in porta, appoggiandoti ad un bastone, a raccontare della tua giovinezza ai bambini e alle
venditrici di salamoia. Ricordati tutte le ingiustizie dei tuoi comandanti, gli accampamenti nella
neve, le corse sotto il sole, le tirannie della disciplina e la perpetua minaccia della croce! Dopo tante
miserie ti hanno appeso al collo una decorazione al valore, come si mette sul pettorale degli asini un
collare di sonagli per stordirli durante la marcia, e fare che non sentano la fatica. Un uomo come te,
che vale più di Pirro! Se tu lo volessi, tuttavia! Ah! Come potrai spassartela nelle ampie sale dove
corre una leggera brezza, al suono delle lire, disteso tra i fiori, circondato da donne e da buffoni!
Non mi dire che l’impresa è impossibile! Forse che i Mercenari non hanno già comandato Reggio e
altre piazzeforti in Italia! Chi te lo impedisce! Amilcare è lontano; il popolo odia i Ricchi, Giscone
non ha potere sui vili che lo circondano. Ma tu sei valoroso, tu! Essi ti seguiranno. Assumi il
comando! Cartagine è nostra; prendiamocela!
- No! - disse Mato – la maledizione di Moloch pesa su di me. L’ho letto nei suoi occhi, e, non è
molto, ho veduto in un tempio un montone nero che camminava all’indietro - Guardandosi attorno,
aggiunse:
- Dov’è lei?
Spendio comprese che era in preda ad una profonda agitazione; non osò continuare.
Gli alberi alle loro spalle fumavano ancora; alcuni rami anneriti e delle carcasse di scimmie
abbrustolite cadevano di tanto in tanto tra i vassoi del banchetto. I soldati ubriachi russavano a
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bocca aperta, fianco a fianco dei cadaveri; e quelli che non dormivano chinavano le loro teste,
abbagliati dalla luce. Il terreno calpestato dai soldati era cosparso di pozzanghere rosse. Gli elefanti
dondolavano le loro proboscidi sanguinanti tra i pali dei recinti. Nei granai spalancati si scorgeva il
frumento sparso fuori dai sacchi, e sull’entrata un gran numero di carri ammassati dai Barbari. I
pavoni appollaiati sui cedri spiegavano la loro coda e cacciavano gridi.
Intanto l’immobilità di Mato stupiva Spendio, era ancora più pallido che poco prima, e con lo
sguardo fisso, spiava qualcosa all’orizzonte, appoggiato coi gomiti al bordo della terrazza. Spendio,
curvandosi, finì per scoprire cosa fissava. Un puntino d’oro, in lontananza, vorticava nella polvere
sulla strada di Utica; era il mozzo di un carro trainato da due muli; uno schiavo correva alla testa del
timone e li teneva per la briglia. Nel carro vi erano due donne sedute. Le criniere delle bestie si
gonfiavano tra le loro orecchie alla moda persiana, trattenute da una reticella di perle turchine.
Spendio le riconobbe e soffocò un grido.
Un grande velo, in coda, fluttuava al vento.
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II
A SICCA
Due giorni dopo i Mercenari uscirono da Cartagine.
Era stata data a ciascuno una moneta d’oro, a condizione che andassero ad accamparsi a Sicca, e li
si era blanditi dicendo loro:
- Voi siete i salvatori di Cartagine! Ma restandovi l’affamereste; ed essa non potrebbe pagarvi.
Allontanatevi! La Repubblica, più avanti, vi sarà grata di questa condiscendenza. Noi stiamo per
imporre nuovi tributi; vi verrà saldata la paga, e si equipaggeranno delle galee per ricondurvi alle
vostre case.
I Mercenari non sapevano cosa rispondere a tali discorsi. Erano uomini avvezzi alla guerra, che si
annoiavano a restare in città; non ci volle molto a convincerli, e il popolo salì sulle mura per vederli
partire.
Passarono per la via di Khamon e la porta di Cirta, alla rinfusa, gli arcieri con gli opliti, i capitani
con i soldati, i Lusitani con i Greci. Marciavano a passo gagliardo, facendo risuonare sulle lastre di
pietra i pesanti coturni. Le loro armature erano ammaccate dalle catapulte e i loro volti consumati
dal fuoco delle battaglie. Dei gridi rochi uscivano dalle barbe folte; le cotte di maglia, lacerate,
battevano sui pomi delle spade, e si scorgevano, attraverso gli squarci, i loro corpi nudi, terribili
come macchine da guerra. Le sarisse, le asce, gli spiedi, le cuffie di feltro e i caschi di bronzo, tutto
ondeggiava insieme, allo stesso ritmo. Riempivano la strada tanto da far scricchiolare le mura, e la
lunga fila di soldati armati si riversava tra le case alte fino a sei piani, imbrattate di bitume. Dietro le
grate di ferro o di canne, le donne, con la testa coperta da un velo, guardavano, silenziose, passare i
Barbari. Le terrazze, le fortificazioni, le mura scomparivano sotto la moltitudine di Cartaginesi
vestiti di abiti neri. Le tuniche dei marinai risaltavano come macchie di sangue in quella lugubre
massa, e dei bambini pressoché nudi, con la pelle che luccicava sotto i braccialetti di rame, si
scalmanavano tra gli steli delle colonne o tra le fronde dei palmizi. Alcuni degli Anziani si erano
posti sulla piattaforma delle torri, e non si sapeva perché una figura dalla lunga barba ricorresse così,
di torre in torre, in atteggiamento pensoso. Appariva da lontano sullo sfondo del cielo, vaga come
un fantasma, ed immobile come le pietre.
Erano comunque tutti turbati dalla medesima inquietudine; si aveva paura che ai Barbari,
vedendosi tanto forti, venisse il capriccio di voler restare. Ma quelli partivano tanto tranquillamente
che i Cartaginesi ripresero coraggio e si mischiarono ai soldati. Li colmavano di promesse, di
abbracci. Alcuni addirittura li invitavano a non lasciare la città, per furbizia politica e audace
ipocrisia. Gettavano loro profumi, fiori, monete d’argento. Offrivano loro amuleti contro le malattie;
dopo averci sputato sopra tre volte affinché attirassero la morte, o nascosto all’interno dei peli di
sciacallo che avviliscono il cuore. Invocavano per loro ad alta voce il favore di Melqart e sottovoce
la sua maledizione.
Poi venne la ressa dei bagagli, delle bestie da soma e degli sbrancati. Alcuni malati gemevano in
groppa ai dromedari; altri si appoggiavano, zoppicando, all’asta di una picca. Gli ubriachi si
portavano appresso degli otri, gli ingordi dei quarti di carne, dei canestri di frutta, del burro avvolto
in foglie di fico, del ghiaccio in sacchi di tela. Se ne vedevano con in mano degli ombrellini, con dei
pappagalli sulla spalla. Si facevano seguire da mastini, da gazzelle o da pantere. Alcune donne di
razza libica, in groppa a degli asini, insultavano le Negre che avevano abbandonato per i soldati i
lupanari di Malqua; molte allattavano degli infanti appesi al loro petto dentro una fascia di cuoio. I
muli, spronati con la punta delle spade, piegavano il dorso sotto il peso delle tende; e c’era infine un
gran numero di servi e di portatori d’acqua, scarni, gialli di febbre e lordi di parassiti, feccia della
plebe cartaginese, che seguiva ovunque i Barbari.
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Quando furono usciti, vennero chiuse le porte alle loro spalle, il popolo restò sulle mura; ben
presto l’armata si sparse su tutta l’ampiezza dell’istmo.
Si scomponeva in masse ineguali. Poi le lance apparvero come lunghi steli d’erba, infine tutto
sfumò in uno strascico di polvere. Quelli di loro che si voltavano verso Cartagine, non scorgevano
altro che le sue lunghe mura, che spiccavano sul confine del cielo le loro merlature vuote.
Allora i Barbari udirono un forte grido. Credettero che alcuni dei loro, restati in città (poiché non
sapevano quanti erano), si divertissero a saccheggiare un tempio. L’idea li fece ridere parecchio, e
continuarono il loro cammino.
Erano felici di ritrovarsi, come altre volte, a marciare tutti insieme in aperta campagna; e dei
Greci cantavano la vecchia canzone dei Mamertini:
- Con la mia lancia e con la mia spada, coltivo la terra e raccolgo le messi; sono io il padrone
della casa! L’uomo disarmato cade ai miei piedi e mi chiama Signore e Gran Re!
Gridavano, saltavano, i più allegri raccontavano delle storie; i tempi della miseria erano finiti.
Giunti a Tunisi, alcuni notarono che mancava una brigata di frombolieri baleari. Non potevano
essere lontani, senza dubbio; non vi si pensò più.
Parecchi andarono a sistemarsi nelle case, altri montarono le tende a ridosso delle mura, e la
popolazione della città venne a chiacchierare con i soldati.
Durante tutta la notte, si scorsero dei fuochi che bruciavano all’orizzonte, dalla parte di Cartagine;
quei bagliori, simili a gigantesche torce, s’allungavano sulla superficie immobile del lago. Nessuno,
tra i soldati, poteva dire quale festa si celebrasse.
L’indomani, i Barbari traversarono una campagna tutta coperta di coltivazioni. Le masserie dei
patrizi si susseguivano ai lati della strada; dei fossati scorrevano nelle piantagioni di palme; gli olivi
formavano delle lunghe file verdi; vapori rosati fluttuavano negli avvallamenti tra le colline;
montagne turchine s’innalzavano in lontananza. Soffiava un vento caldo. I camaleonti strisciavano
sulle larghe foglie dei cactus.
I Barbari rallentarono il cammino.
Se ne andavano per distaccamenti isolati, o si trascinavano gli uni dietro gli altri a grande
distanza. Mangiavano uva a lato delle vigne. Dormivano sull’erba, e guardavano stupefatti le grandi
corna dei buoi ritorte artificialmente, le pecore ricoperte di pelli per proteggerne la lana, i solchi che
si incrociavano in modo da formare delle losanghe, e i vomeri degli aratri somiglianti ad ancore di
navi tra i melograni innaffiati di silfio. Questa opulenza della terra e quegli artifizi dell’intelligenza
li seducevano.
La sera si distesero sulle tende senza montarle; e, addormentandosi con il viso rivolto alle stelle,
rimpiangevano il banchetto di Amilcare.
Nel mezzo del giorno seguente fecero tappa sulla riva di un fiume, in una boscaglia di oleandri.
Svelti, si liberarono delle lance, degli scudi, delle cinture. Si lavavano gridando, attingevano acqua
con gli elmi, e parecchi bevevano ventre a terra, mischiati alle bestie da soma, dalle quali cadevano
i bagagli.
Spendio, seduto su un dromedario rubato nei giardini di Amilcare, scorse da lontano Mato che, il
braccio sospeso contro il petto, a capo scoperto e con l’aria abbattuta, lasciava bere il suo mulo,
guardando scorrere l’acqua. Subito, corse attraverso la folla chiamandolo:
- Padrone! Padrone!
A malapena Mato lo ringraziò delle sue benedizioni. Spendio non se ne curò e si mise al suo
seguito; di tanto in tanto, girava gli occhi inquieti dalla parte di Cartagine.
Era figlio di un retore greco e di una prostituta campana. In principio si era arricchito vendendo
donne; poi, rovinato da un naufragio, aveva fatto la guerra contro i Romani con i pastori del Sannio.
Era stato catturato ed era fuggito; l’avevano ripreso, ed aveva lavorato nelle cave di pietra,
boccheggiato nelle stufe, urlato sotto tortura, servito diversi padroni, conosciuto tutti i furori. Infine
un giorno, per disperazione si era lanciato in mare dall’alto di una triremi sulla quale remava. Dei
marinai di Amilcare l’avevano raccolto morente e condotto a Cartagine nell’ergastolo di Megara.
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Ma siccome, secondo i patti sarebbe stato reso a Roma, aveva profittato del disordine per fuggire
con i soldati.
Per tutta la strada restò con Mato; gli portava da mangiare, lo aiutava a smontare, gli stendeva un
tappeto, la sera, sotto la testa. Mato finì per commuoversi di queste cortesie, e pian piano cominciò
a parlargli.
Era nato nel golfo delle Sirti. Suo padre l’aveva condotto in pellegrinaggio presso il tempio di
Ammone. Poi aveva cacciato gli elefanti nelle foreste dei Garamanti. In seguito, si era arruolato al
servizio di Cartagine. Era stato nominato tetrarca alla presa di Drepano. La Repubblica gli doveva
quattro cavalli, ventitre medimni di frumento e la paga di un inverno. Temeva gli Dei e desiderava
morire nella sua patria.
Spendio gli disse dei suoi viaggi, dei popoli e dei templi che aveva visitato, e conosceva molte
cose: sapeva fabbricare sandali, spiedi, reti, addomesticare le bestie feroci e cucinare i pesci.
A volte interrompendosi, traeva dal profondo della sua gola un grido rauco; il mulo di Mato
allungava la sua andatura,gli altri si affrettavano a seguirlo; poi Spendio ricominciava a parlare,
sempre in preda alla sua angoscia. Si quietò la sera del quarto giorno.
Marciavano uno accanto all’altro, a destra dell’armata, sul fianco di una collina; in basso, la
pianura si stendeva avvolta nei vapori della notte. Gli schieramenti dei soldati che sfilavano sopra di
loro, formavano delle ondulazioni nell’oscurità. Di quando in quando passavano su una prominenza
illuminata dalla luna; allora, una stella tremolava in punta alle picche, gli elmi splendevano per un
istante, poi tutto scompariva, e ne sopraggiungevano altri, continuamente. In lontananza, delle
greggi risvegliate belavano, e una dolcezza infinita sembrava scendere sulla terra.
Spendio, la testa rovesciata e gli occhi socchiusi, respirava a pieni polmoni la frescura della
brezza; allargava le braccia muovendo le dita per meglio sentire quella carezza che gli scorreva sul
corpo. Nella mente gli nascevano fantasie di vendetta. Premette la mano sulla sua bocca per fermare
i singhiozzi, e fuori di sé per l’ebbrezza mollava la cavezza del suo dromedario che avanzava a
grandi passi regolari. Mato era ricaduto nella sua tristezza; i suoi piedi sfioravano il terreno, e le
erbe battendo contro i suoi coturni producevano un sibilo continuo.
Intanto, la strada si allungava senza mai finire. Al termine di una pianura, si giungeva sempre su
di un altopiano orbicolare; poi si ridiscendeva in una vallata, e le montagne che sembravano
chiudere l’orizzonte, a misura che le si avvicinava, si spostavano come scivolassero via. Di quando
in quando, in una boscaglia di tamerici compariva un fiume, che si perdeva fra le pieghe delle
colline. Talora spuntava una roccia enorme, simile alla prua di un vascello o al piedestallo di un
qualche colosso scomparso.
Si incontravano, ad intervalli regolari, dei tempietti quadrangolari che servivano come punti di
sosta ai pellegrini recantisi a Sicca. Erano murati come tombe. I Libici, per farsi aprire, battevano
dei gran colpi contro la porta. Dall’interno non rispondeva nessuno.
Poi le coltivazioni si fecero più rare. Tutto d’ un tratto si ritrovavano a marciare su lembi di
sabbia irti di cespugli spinosi. Un gregge di montoni pascolava tra le pietre; lo sorvegliava una
donna avvolta in un manto turchino. Appena scorse tra le rocce le picche dei soldati, fuggì
lanciando delle grida.
Marciavano in una specie di corridoio tra due catene di alture rossastre, quando un odore
nauseabondo li colpì alle narici, e parve loro di vedere sulla cima di un carrubo qualcosa di
straordinario. Una testa di leone spuntava al di sopra delle foglie.
Accorsero. Era davvero un leone, appeso ad una croce per le quattro zampe come un criminale. Il
muso enorme gli ricadeva sul petto, e le due zampe anteriori, che scomparivano a metà sotto
l’abbondante criniera, erano stranamente divaricate come le due ali di un uccello. Le sue costole,
una ad una, sporgevano al di sotto della pelle troppo tesa; e del sangue nero, gocciolato tra i peli,
aveva formato delle stalattiti in fondo alla sua coda, che cadeva dritta lungo il legno della croce. I
soldati intorno lo sbeffeggiarono; lo chiamavano console e cittadino di Roma e gli lanciarono delle
pietruzze negli occhi, per farne volar via i moscerini.
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Cento passi più lontano ne videro altri, poi, ad un tratto, apparve una lunga fila di croci con dei
leoni appesi. Alcuni erano morti da così tanto tempo, che di loro, sul legno, non restava che la
carcassa; altri, il cui tormento non era ancora finito, torcevano le fauci in orribili smorfie. Ce
n’erano di così enormi, da piegare l’albero della croce sotto il loro peso; e dondolavano al vento,
mentre sulle loro teste un nugolo di corvi volteggiava nell’aria, senza mai fermarsi. Così si
vendicavano i contadini cartaginesi dopo aver catturato qualche bestia feroce; speravano con un tale
esempio di spaventare le altre. I Barbari, smettendo di ridere, caddero in un lungo stupore. “ Che
razza di gente è mai questa “ pensavano “ che si diverte a crocifiggere i leoni! “
Erano d’altronde, gli uomini del Nord soprattutto, vagamente inquieti, turbati, di già malati, con
le mani ferite dai pungiglioni dell’aloe; enormi zanzare ronzavano intorno alle loro orecchie, e la
dissenteria dilagava nell’armata. Infastiditi di non vedere ancora Sicca, temevano di perdersi e di
finire nel deserto, il paese delle sabbie e di tutti gli orrori. Molti non volevano più proseguire. Altri
ripresero la strada di Cartagine.
Infine il settimo giorno, dopo aver seguito a lungo la base di una montagna, piegarono
bruscamente a destra; allora apparve una linea di muraglie che si confondeva con le rocce bianche
sulle quali poggiava. All’improvviso comparve la città; dei veli turchini, gialli e bianchi si
agitavano in cima alle mura, nel rossore della sera. Erano le sacerdotesse di Tanit, accorse per
ricevere gli uomini. Si erano disposte lungo i bastioni, battendo sui tamburelli, pizzicando le lire,
scuotendo le nacchere, e i raggi del sole, che tramontava alle loro spalle, dietro i monti della
Numidia, colavano tra le corde delle arpe sulle loro braccia nude. Gli strumenti, ad intervalli,
tacevano di botto, ed un grido stridulo esplodeva, precipitoso, eccessivo, continuo, una specie di
abbaìo, che producevano colpendo con la lingua i due angoli della bocca. Alcune altre stavano
appoggiate sui gomiti, il mento tra le mani, immobili come sfingi, saettando i loro grandi occhi neri
sull’armata che veniva avanti.
Sebbene Sicca fosse una città sacra, non poteva ospitare una tale moltitudine; il tempio con le sue
dipendenze, da solo, ne occupava la metà. Cosicché i Barbari si stabilirono a loro agio nella piana
circostante, in brigate regolari quelli che erano soggetti a disciplina, e gli altri per stirpi o seguendo
il loro capriccio.
I Greci allinearono in file parallele le loro tende di pelli; gli Iberici disposero in cerchio i loro
padiglioni di tela; i Galli si fabbricarono delle baracche di assi; i Libici delle capanne di pietre a
secco, e i Negri scavarono nella sabbia con le loro unghie delle fosse per dormire. Molti, non
sapendo dove mettersi, vagavano tra i bagagli, e la notte dormivano per terra avvolti nei loro
mantelli stracciati.
La pianura si stendeva intorno a loro, tutta circondata di montagne. Qua e là una palma si
inclinava su una collina di sabbia, degli abeti e delle querce punteggiavano i fianchi dei precipizi.
Talvolta la pioggia di un temporale, come una lunga sciarpa, cadeva dal cielo, mentre la campagna
restava ovunque coperta d’azzurro e di quiete; poi un vento tiepido alzava turbini di polvere, e un
ruscello precipitava in un succedersi di cascatelle dalle alture di Sicca, dove sorgeva, col suo tetto
d’oro appoggiato su colonne di bronzo, il tempio della Venere Cartaginese, dominatrice della
contrada. La dea sembrava riempirla della sua anima. Attraverso quei rivolgimenti della terra,
quell’avvicendarsi di climi, e quei giochi di luce, Ella manifestava l’esuberanza delle sue forze
insieme alla bellezza del suo eterno sorriso. Le montagne avevano la sommità a forma di mezzaluna;
altre somigliavano al petto di una donna dai seni turgidi, e i Barbari sentivano pesare sopra le loro
fatiche una sfinitezza colma di voluttà.
Spendio, con i soldi del suo dromedario, si era comperato uno schiavo. Per tutto il giorno
dormiva steso davanti alla tenda di Mato. Sovente si risvegliava credendo di sentire in sogno il
sibilo della sferza; allora, sorridendo, si passava le mani sulle cicatrici delle sue gambe, là dove i
ferri avevano a lungo infierito; poi si riaddormentava.
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Mato accettava la sua compagnia, e quando usciva, Spendio, armato di una lunga spada, lo
scortava come un littore; oppure Mato con noncuranza si appoggiava col braccio sulla spalla di
Spendio, perché questi era piccolo.
Una sera che insieme percorrevano le strade dell’accampamento, scorsero degli uomini avvolti in
mantelli bianchi; tra loro si trovava Narava, il principe Numida.
Mato trasalì.
- La tua spada! – esclamò – Voglio ucciderlo!
- Non ancora! Disse Spendio fermandolo. Di già Narava veniva verso di loro.
Baciò i suoi due pollici in segno di pace, accusando la sbornia del furore che si era impossessato
di lui al banchetto; poi parlò a lungo contro Cartagine, ma non rivelò ciò che lo aveva condotto
presso i Barbari.
Era venuto per tradire loro o la Repubblica? Si chiedeva Spendio; e siccome contava di trarre
vantaggio da ogni disordine, era anticipatamente grato a Narava per le perfidie future delle quali lo
riteneva capace.
Il capo numida restò tra i Mercenari. Sembrava voler legare con Mato. Gli inviava delle capre
grasse, della polvere d’oro e delle piume di struzzo. Il Libico, stupito di quei regali, esitava a
ricambiarli e a respingerli. Ma Spendio lo ammansiva, e Mato si lasciava guidare dallo schiavo,
ogni volta irresoluto ed immerso in un invincibile torpore, come chi ha bevuto un veleno dal quale
si aspetta la morte.
Un mattino che partivano tutti e tre per la caccia al leone, Narava nascose un pugnale sotto il suo
mantello. Spendio non lo perse mai di vista; così ritornarono senza che il pugnale venisse estratto.
Un’altra volta Narava li trascinò molto lontano, fino ai confini del suo regno. Giunsero in una
gola angusta; Narava sorridendo confessò di aver perduto la strada; Spendio la ritrovò.
Ma sempre più di sovente Mato, melanconico come un augure, si allontanava al mattino di buon
ora vagabondando per la campagna. Si stendeva sulla sabbia, e vi restava immobile fino a sera.
Consultò uno dopo l’altro tutti gli indovini dell’armata, quelli che osservano lo strisciare dei
serpenti, quelli che leggono nelle stelle, quelli che soffiano sulle ceneri dei morti. Inghiottì del
galbano, del seseli e del veleno di vipera che raffredda il cuore; alcune donne negre, cantando al
chiaro di luna inni rituali barbarici, gli punsero la pelle della fronte con degli spilloni d’oro; si
riempì di collane e di amuleti: invocò a turno Baal-Hammon, Moloch, i sette Cabiri, Tanit, e la
Venere dei Greci. Incise un nome su una targhetta di rame e la nascose nella sabbia sulla soglia
della propria tenda. Spendio lo sentiva lamentarsi e parlare da solo.
Una notte entrò da lui.
Mato, nudo come un cadavere, era sdraiato bocconi su una pelle di leone con la faccia tra le mani;
una lucerna sospesa illuminava le sue armi, appese sopra la sua testa contro il palo della tenda.
- Soffri? – gli chiese lo schiavo – Di cosa hai bisogno? Rispondimi! – e lo scosse per le spalle
chiamandolo più volte:
- Padrone! Padrone!...
Infine Mato alzò verso di lui due grandi occhi spiritati.
- Ascolta! – proferì a bassa voce, tenendosi un dito sulle labbra – E’ una maledizione degli Dei! La
figlia di Amilcare mi perseguita! Io la temo, Spendio! – E gli si strinse contro come un bimbo
spaventato dai fantasmi.
- Dimmi qualcosa! Sono malato! Voglio guarire! Ho provato di tutto! Ma tu, tu forse conosci degli
Dei più potenti o qualche invocazione irresistibile?
- A quale scopo? Chiese Spendio.
Battendosi il capo coi pugni, Mato rispose:
- Per liberarmene!
Continuò come parlasse a se stesso, interrompendosi con lunghe pause:
- Sono forse vittima di qualche sacrificio che ella ha promesso agli Dei?...Mi tiene stretto con una
catena invisibile. Se cammino, mi segue; quando mi fermo, si arresta con me! I suoi occhi mi
bruciano, sento ovunque la sua voce. Mi circonda, mi penetra. Come se fosse la mia stessa anima!
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E tuttavia, siamo separati dalle onde invisibili di un mare sconfinato! È lontana e inaccessibile! Lo
splendore della sua bellezza la circonda di una corona luminosa; e, a volte, credo di non averla mai
vista…che non esiste…e tutto questo è solo un sogno!
Mato piangeva nell’oscurità; i Barbari dormivano. Spendio, guardandolo, si ricordava di quei
giovanetti che, tenendo tra le mani dei vasi d’oro, lo supplicavano un tempo, quando girava le città
col suo gregge di cortigiane; sentì compassione di lui, e gli disse:
- Fatti forza, padrone mio! Risveglia la tua volontà e non implorare gli Dei, che sono insensibili ai
lamenti degli uomini! Eccoti piangere come un vile! Non ti umilia che una donna ti faccia tanto
soffrire?
- Sono forse un fanciullo? – rispose Mato – Tu credi che io mi intenerisca ancora davanti alla loro
bellezza o per le loro moine? Ne avevamo a Drepano che spazzavano le nostre scuderie! Le ho
possedute nel mezzo degli assalti, tra le macerie delle case, mentre le catapulte vibravano ancora!...
Ma questa, Spendio, questa!...
Lo schiavo l’interruppe:
- Se non fosse la figlia di Amilcare…
- No! – esclamò Mato – Lei non assomiglia alle altre mortali! Non hai visto i suoi occhi immensi
splendere all’ombra delle sue ciglia, come due soli sotto degli archi di trionfo? Cerca di ricordare:
quando è apparsa tutte le fiaccole sono impallidite. Tra i diamanti della sua collana, risplendevano
lembi del suo petto nudo; si sentiva alle sue spalle come un profumo di essenze sacre, e qualcosa di
più soave del vino e di più terribile della morte sprigionava dalla sua persona. Camminava in mezzo
a noi, poi si è fermata.
Si interruppe a bocca aperta, la testa china, gli occhi fissi.
- La voglio! Non posso farne a meno! Diversamente, ne morirò! La sola idea di stringerla fra le
mie braccia mi riempie di una gioia folle, e tuttavia la detesto, Spendio! Vorrei annientarla! Che
fare? Vorrei potermi vendere per divenire suo schiavo. Tu lo sei stato! Tu potevi scorgerla: parlami
di lei! E’ vero che ogni notte sale sulla terrazza del suo palazzo? Ah! Le pietre di certo fremono al
contatto dei suoi sandali e le stelle si chinano per vederla!
Si abbandonò alla sua follia, muggendo come un toro ferito.
Poi Mato cantò:
- Egli inseguiva nella foresta il mostro femminile la cui coda serpeggiava sulle foglie morte come
un ruscello d’argento. - Con accenti languidi imitava la voce di Salammbô, mentre con le mani
distese mimava il tocco leggero delle dita di lei sulle corde della lira.
Ad ogni conforto che Spendio gli prodigava, rispondeva con i medesimi discorsi; le loro notti
trascorrevano fra lamenti ed esortazioni.
Mato volle stordirsi con il vino. Dopo ogni ubriacatura era più triste che mai. Provò a distrarsi col
gioco degli aliossi, e perdette una ad una le piastre d’oro della sua collana. Si lasciò condurre presso
le serve della Dea; ma ridiscese la collina in lacrime, come quelli che se ne tornano da un funerale.
Spendio, al contrario, si faceva ogni giorno più ardito e più gaio. Lo si vedeva, nelle bettole
improvvisate con le frasche, discorrere nel mezzo dei soldati. Riparava le vecchie corazze. Faceva
giochi di mano con i pugnali, andava nei campi a raccogliere erbe per i malati. Si mostrava
scherzoso, accorto, pieno di trovate e di parole; i Barbari si abituavano ai suoi servizi; si faceva ben
volere.
Nel frattempo attendevano un ambasciatore di Cartagine, che avrebbe portato loro, su dei muli,
delle ceste colme d’oro; e ripetendo all’infinito gli stessi calcoli, disegnavano con le dita delle cifre
sulla sabbia. Ciascuno di conseguenza e anticipatamente, organizzava il proprio futuro; avrebbero
posseduto concubine, schiavi, terre; altri decidevano di nascondere il loro tesoro o di rischiarlo su di
una nave. Ma questa attesa oziosa li innervosiva; sorgevano continue liti fra i cavalieri e i fanti, i
Barbari e i Greci, e si era costantemente storditi dal vociferare acido delle donne.
Tutti i giorni, sopraggiungevano frotte di uomini pressoché nudi, con il capo coperto di fronde
per ripararsi dal sole; erano i debitori dei Cartaginesi ricchi, costretti a lavorare le loro terre, che
erano fuggiti. Arrivavano Libici, contadini rovinati dalle imposte, banditi, malfattori. Infine giunse
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l’orda dei mercanti, tutti i commercianti di vino e di olio, infuriati di non essere pagati, se la
prendevano con la Repubblica, Spendio li aizzava. Ben presto i viveri scarseggiarono. Si parlava di
presentarsi in massa a Cartagine e di chiamare in aiuto i Romani.
Una sera all’ora di cena, si udì un gran stridore che si avvicinava, e in lontananza, apparve
qualcosa di rosso fra le ondulazioni del terreno.
Era una grande lettiga di porpora, ornata agli angoli con mazzi di piume di struzzo. Catene di
cristallo intrecciate con ghirlande di perle battevano contro il cortinaggio chiuso. La seguivano
alcuni cammelli facendo suonare la grossa campana appesa al loro pettorale, e all’intorno si
scorgevano dei cavalieri con un’armatura fatta di scaglie d’oro che li copriva dai talloni alle spalle.
Si fermarono a trecento passi dal campo, per estrarre dalle custodie che portavano in groppa i loro
scudi rotondi, le larghe spade e gli elmi di foggia beota. Alcuni restarono con i cammelli; gli altri
ripresero la marcia. Infine apparvero le insegne della Repubblica, vale a dire dei bastoni di legno
con in cima una testa di cavallo o una pigna. I Barbari si alzarono in massa, applaudendo; le donne
si precipitavano verso le guardie della Legione e baciavano i loro piedi.
La lettiga avanzava sulle spalle di dodici Negri, che marciavano concordi a piccoli passi rapidi.
Andavano di qua e di là, a caso, intralciati dalle corde delle tende, dal bestiame che gironzolava e
dai treppiedi sui quali cuocevano le carni. A momenti una mano grassa, carica di anelli,
socchiudeva la lettiga; una voce rauca gridava delle ingiurie; allora i portatori si arrestavano per
prendere un’altra direzione in giro per il campo.
Finalmente le cortine di porpora si sollevarono; e comparì su un largo guanciale una testa umana,
immobile e tumefatta; i sopraccigli formavano come due archi d’ebano congiunti alle estremità; dei
lustrini d’oro brillavano tra i capelli crespi, e il volto era così pallido che pareva cosparso di
raschiatura di marmo. Il resto del corpo era nascosto sotto i tosoni che riempivano la lettiga.
I soldati riconobbero in quell’uomo disteso il suffeta Annone, colui che aveva contribuito col suo
ritardo alla sconfitta delle isole Egadi; e quanto alla sua vittoria di Ecatompilo contro i Libici, se si
era dimostrato clemente, era solo per avidità, pensavano i Barbari, perché aveva venduto a suo
profitto tutti i prigionieri, dopo averne denunziato la morte alla Repubblica.
Poi che ebbe cercato, per un poco, un posto adatto ad arringare i soldati, fece un cenno: la lettiga
si fermò, e Annone, sostenuto da due schiavi, posò i piedi per terra, barcollando.
Calzava degli stivaletti di feltro nero, costellati di lune d’argento. Delle bendelle si avvolgevano
alle sue gambe, come intorno ad una mummia, e la carne sgusciava dal viluppo di quelle fasce. Il
suo ventre straripava sul gonnellino scarlatto che gli copriva le cosce; le pieghe del collo gli
ricadevano fin sul petto come giogaie di bue, la tunica dipinta a fiori gli scoppiava sotto le ascelle;
portava una fascia, una cintura e un ampio mantello nero a doppie maniche allacciate.
L’abbondanza del suo vestiario, la grande collana di pietre turchine, le fibbie d’oro e i pesanti
orecchini non rendevano che più orribile la sua mostruosità. Si sarebbe detto una specie di grosso
idolo sbozzato in un blocco di pietra; poiché una lebbra pallida, estesa su tutto il suo corpo, gli
donava l’apparenza di una cosa inerte. Solo il suo naso, adunco come un becco di avvoltoio, si
dilatava violentemente ad ogni respiro, e i suoi piccoli occhi, dalle ciglia appiccicose, brillavano di
una luce dura e metallica. Teneva in mano una spatola di aloe, con la quale si grattava la pelle.
Infine due araldi soffiarono nei loro corni d’argento; il tumulto si placò, e Annone si mise a
parlare.
Cominciò col far l’elogio degli Dei e della Repubblica; i Barbari dovevano andar fieri di averla
servita. Ma bisognava mostrarsi più ragionevoli, i tempi erano duri:
- … e se un padrone non ha che tre olive, non è forse giusto che ne riservi due per sé?
Così il vecchio suffeta mescolava nel suo discorso proverbi e apologhi, facendo di continuo cenni
con la testa per sollecitare qualche approvazione.
Parlava punico e coloro che lo circondavano (i più solleciti accorsi senza le loro armi) erano
Campani, Galli, Greci e nessuno di loro lo comprendeva. Annone se ne accorse, smise di parlare, e
bilanciandosi pesantemente sulle due gambe, considerava il da farsi.
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Gli venne l’idea di convocare i capitani; allora gli araldi gridarono l’ordine in greco, lingua che,
dopo Santippo, serviva ad impartire gli ordini nell’esercito cartaginese.
A colpi di frusta le guardie si aprirono la strada nella turba dei soldati; e ben presto i capitani delle
falangi di tipo spartano e i capi delle coorti barbare arrivarono, con le insegne del loro grado e
l’armatura della loro nazione. Era scesa la notte, e un gran rumore riempiva la pianura; qua e là si
accendevano dei fuochi, e si andava dall’uno all’altro chiedendosi: “Che succede?” e “ Perché il
Suffeta non distribuisce le paghe? “
Egli stava esponendo ai capitani il dissesto finanziario che gravava sulla Repubblica. Le sue casse
erano vuote. Il tributo ai Romani la dissanguava. “ Non sappiamo che fare!...La situazione è
disperata! “
Di tanto in tanto, si strofinava il corpo con la sua spatola d’aloe, oppure si interrompeva per bere
da una coppa d’argento, che uno schiavo gli porgeva, un decotto fatto con cenere di donnola e
asparagi bolliti in aceto; poi si asciugava le labbra con una salvietta di scarlatto e riprendeva:
- Quel che valeva un siclo d’argento oggi vale tre sicli d’oro, e i campi abbandonati durante la
guerra non rendono nulla! Le nostre peschiere di porpora possono dirsi perdute, persino le perle
costano un occhio della testa! E’ già molto se abbiamo balsami sufficienti per i servizi agli Dei!
Quanto alle cose della tavola, non ne parlo neppure, è un disastro! Manchiamo di spezie, a causa
della flotta decimata, e fatichiamo a rifornirci di silfio, per colpa delle rivolte sul confine di Cirene.
La Sicilia, che ci riforniva di schiavi, al momento ci è preclusa! Ancor ieri, per un bagnino e quattro
servi di cucina, ho dovuto sborsare più che un tempo per un paio di elefanti!
Srotolò un lungo pezzo di papiro; e lesse, senza tralasciare una sola cifra, tutte le spese che il
Governo aveva sostenute: tanto per le riparazioni dei templi, per la lastricatura delle strade, per la
costruzione delle navi, per le peschiere di corallo, per l’ampliamento dei Sissizi, e per le attrezzature
delle miniere nella terra dei Cantabri.
Ma i capitani non comprendevano il punico più dei soldati, sebbene i Mercenari fossero usi
salutarsi in quella lingua. D’abitudine si metteva tra le armate dei Barbari qualche ufficiale
cartaginese per servire da interprete; finita la guerra si erano allontanati per paura delle rappresaglie;
e Annone non aveva pensato di portarne con sé; d’altra parte la sua voce troppo fioca si perdeva col
vento.
I Greci, stretti nei loro cinturoni di ferro, tendevano le orecchie sforzandosi di indovinare le sue
parole, mentre dei montanari, coperti di pelli come orsi, lo squadravano con diffidenza o
sbadigliavano, appoggiati sulle loro mazze irte di punte di bronzo. I Galli distratti scuotevano
sghignazzando le loro alte capigliature, e gli uomini del deserto ascoltavano immobili,
completamente avvolti nelle loro vesti di lana grigia; altri si assiepavano alle loro spalle; le guardie,
strette nella calca, barcollavano sui loro cavalli, i Negri tenevano in mano rami di abete accesi e
l’enorme Cartaginese continuava la sua arringa, in piedi su di un rilievo erboso.
Nel frattempo i Barbari si impazientivano, si levarono delle proteste, ognuno inveiva contro di lui.
Annone gesticolava con la sua spatola; quelli che volevano far tacere gli altri, gridando più forte,
aggiungevano strepito a strepito.
Improvvisamente, un uomo di poca apparenza balzò ai piedi di Annone, e ghermita la tromba di
un araldo, vi soffiò dentro, e Spendio, perché di lui si trattava, annunciò che stava per dire qualcosa
di importante. A queste parole, subito ripetute in cinque lingue diverse, greco, latino, gallo, libico e
baleare, i capitani, per metà sorpresi e per metà divertiti, risposero:
- Parla, dunque! Parla!
Spendio esitò, tremava; poi, rivolgendosi ai Libici, che erano i più numerosi, disse loro:
- Voi tutti avete inteso le orribili minacce di quest’uomo!
Annone non protestò, dunque non comprendeva affatto il libico; e, per continuare l’esperimento,
Spendio ripeté la stessa frase negli altri idiomi dei Barbari.
Questi si guardarono stupiti; poi tutti, come per un tacito accordo, immaginandosi forse di averle
realmente intese, abbassarono la testa in segno di assenso.
Allora Spendio attaccò con voce veemente:
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- Ha cominciato col dire che tutti gli Dei degli altri popoli non sono che sogni se paragonati agli
Dei di Cartagine! Vi ha chiamati vili, ladri, bugiardi, cani e figli di cagne! La Repubblica, senza di
voi, così ha detto, non sarebbe costretta a pagare il tributo ai Romani; e con le vostre intemperanze
l’avete vuotata di profumi, spezie, schiavi e silfio, in sovrappiù ve la intendete coi nomadi alla
frontiera di Cirene! Ma i colpevoli saranno puniti! Ha poi letto la lista dei loro supplizi; li si farà
lavorare alla lastricatura delle strade, ad armare le galere, al miglioramento dei Sissizi, e i restanti
verrano spediti a scavare la terra nelle miniere, nel paese dei Cantabri.
Spendio ridisse le stesse cose ai Galli, ai Greci, ai Campani, ai Baleari. Riconoscendo molti dei
nomi propri che avevano colpito le loro orecchie, i Mercenari si convinsero che egli ripeteva
esattamente le parole del Suffeta. Alcuni gli gridarono:
- Tu menti! – Ma la loro voce si perdette nel tumulto delle altre; Spendio aggiunse:
- Non avete visto che ha lasciato fuori dal campo una riserva di suoi cavalieri? Ad un segnale essi
accorreranno per scannarvi tutti.
I Barbari si volsero da quella parte, e nel momento in cui la folla si apriva, apparve in mezzo ad
essa, avanzando con la lentezza di un fantasma, un essere umano tutto curvo, magro,
completamente nudo e nascosto fino ai fianchi in un viluppo di capelli irti di foglie secche, di
polvere e di spine. Aveva intorno alle reni e alle ginocchia degli stracci di paglia attorcigliata a dei
brandelli di tela; la pelle, color della terra, gli pendeva molle dalle membra scarne, come un cencio
dai rami secchi; le sue mani tremavano di un fremito continuo, e camminava appoggiandosi ad un
legno di olivo.
Giunse vicino ai Negri che avevano delle fiaccole. Una specie di ghigno idiota scopriva le sue
gengive pallide; i suoi grandi occhi terrorizzati scrutavano la folla dei Barbari che gli stava intorno.
Poi, cacciando un grido di spavento, si gettò alle loro spalle e si faceva scudo coi loro corpi;
balbettava:
- Eccoli! Sono loro! - indicando le guardie del Suffeta, immobili nelle loro armature lucenti. I loro
cavalli scalpitavano, accecati dal bagliore delle torce che crepitavano nelle tenebre; lo spettro
umano si agitava e urlava:
- Li hanno uccisi loro!
A queste parole che egli gridava in baleare, accorsero alcuni Baleari e lo riconobbero; senza badar
loro egli ripeteva:
- Si, uccisi, tutti, tutti! Schiacciati come chicchi d’uva! I bei giovanetti! I frombolieri! I miei
compagni, i vostri!
Gli diedero del vino da bere, ed egli pianse; poi gli si sciolse la lingua.
Spendio faticava a nascondere la sua contentezza, tutto intento a esporre ai Greci e ai Libici le
cose orribili che raccontava Zarza; non poteva crederle, tanto venivano a proposito. I Baleari
impallidivano, apprendendo come erano morti i loro compagni.
Erano trecento frombolieri sbarcati alla vigilia, che il giorno della partenza, avevano dormito
troppo a lungo. Quando si presentarono sulla piazza di Khamon, i Barbari erano di già partiti e loro
si ritrovavano disarmati, poiché le loro ghiande di’argilla erano state caricate sui cammelli con il
resto dei bagagli. Li si lasciò ingolfare nella via di Satheb, fino alla porta di quercia ricoperta di
piastre di bronzo; a quel punto il popolo, muovendosi compatto, si era scagliato su di loro.
In effetti, i soldati ricordarono di aver udito delle urla violente; Spendio, che stava in testa alle
colonne, non aveva potuto sentirle.
Dopo il massacro i cadaveri furono posti tra le braccia degli Dei Pateci che stavano ai lati del
tempio di Khamon. Vennero accusati di tutti i crimini dei Mercenari: la loro ingordigia, i loro furti,
le loro empietà, i loro oltraggi e l’uccisione dei pesci nel giardino di Salammbô. Si procurarono ai
loro corpi delle mutilazioni infamanti; i sacerdoti bruciarono i loro capelli per tormentarne le anime;
fatti a pezzi, li si appese nelle botteghe dei macellai; ci fu perfino chi vi affondò i denti, e la sera,
per finire, si accesero dei roghi ai crocicchi delle strade.
Erano quelle le fiamme che si erano viste da lontano luccicare sul lago. Ma alcune case avevano
preso fuoco, e si era gettato alla svelta oltre i muri quello che restava dei cadaveri e degli
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agonizzanti. Zarza fino all’indomani si era tenuto nascosto nei canneti lungo il lago; poi aveva
vagato per la campagna, in cerca dell’armata, seguendo le tracce del suo passaggio nella polvere. Di
giorno si nascondeva nelle caverne; la sera si rimetteva in marcia, con le sue piaghe sanguinanti,
affamato, sofferente, nutrendosi di radici e carogne; finalmente un giorno, scorte delle lance
all’orizzonte le aveva seguite, col senno sconvolto a forza di spaventi e di miserie.
L’indignazione, che i soldati avevano contenuta mentre parlava, scoppiò come una tempesta;
volevano massacrare le guardie con il Suffeta. Alcuni si interposero, dicendo che bisognava sentirli,
per sapere almeno se sarebbero stati pagati. Allora tutti quanti gridarono:
- La nostra paga! - Annone rispose che l’aveva portata.
Si corse ai cammelli, e i bagagli del Suffeta giunsero nel mezzo del campo, sospinti dai Barbari.
Senza attendere gli schiavi, in fretta e furia, si snodarono i canestri; contenevano delle vesti in lana
tinta di violetto, spugne, raschietti, spazzole, profumi, e delle scaglie di antimonio per dipingersi gli
occhi; il tutto apparteneva alle guardie della Legione, uomini ricchi, usi a simili raffinatezze. Si
trovò poi, su un cammello, un grande mastello di bronzo: era del Suffeta per concedersi dei bagni
lungo la strada; poiché aveva preso ogni sorta di precauzioni, fin quella di portare con sé , nelle
gabbie, delle donnole di Ecatompilo che venivano cotte vive per preparare il suo decotto. In
sovrappiù, siccome il suo male gli causava un grande appetito, aveva con sé una gran quantità di
vivande, di vini, della salamoia, carni e pesci al miele, delle piccole marmitte di Commagene,
grasso d’oca fuso conservato nel ghiaccio e nella paglia tritata. Le provviste erano considerevoli;
più ceste si aprivano più ne comparivano e scoppi di risa si alzavano dai soldati come onde che si
accavallano.
Quanto alla paga dei Mercenari, occupava su per giù due ceste di sparto; in una vi erano persino
quei dischetti di cuoio che la Repubblica impiegava al posto del denaro contante; e di fronte allo
stupore dei Barbari, Annone dichiarò che siccome i loro conti erano troppo complessi, gli Anziani
non avevano avuto il tempo di esaminarli. Si inviava loro questo, avessero la pazienza di attendere.
A quelle parole ogni cosa venne messa sottosopra, scompigliata: i muli, i servi, la lettiga, le
provviste, i bagagli. I soldati tolsero dai sacchi le monete per lapidare Annone. Questi, a fatica, poté
montare su un asino; fuggiva aggrappandosi ai peli, urlante, piangente, pesto e sconvolto;
invocando sull’armata la maledizione di tutti gli Dei. La sua grossa collana di pietre rimbalzava fin
sopra le sue orecchie. Tratteneva coi denti il suo mantello troppo lungo che strascicava per terra, e
da lontano i Barbari gli gridavano:
- Vattene! Vigliacco! Porco! Cloaca di Moloch! Trasuda il tuo oro e la tua peste! Più in fretta! Più
in fretta! - La scorta, disordinatamente, galoppava ai suoi fianchi.
Ma il furore dei Barbari non si placò. Si ricordarono che molti di loro, partiti per Cartagine, non
erano più tornati; senza dubbio erano stati uccisi. Tanta ingiustizia li esasperò, e cominciarono a
svellere i picchetti delle tende, ad arrotolare le stuoie, ad imbrigliare i cavalli; ciascuno raccolse il
proprio elmo e la propria spada, e in breve ogni cosa fu pronta. Quelli che erano privi di armi, si
affrettarono nel bosco a tagliarsi dei bastoni.
Si levava il giorno; gli abitanti di Sicca risvegliati si agitavano nelle strade.
- Vanno a Cartagine! - dicevano, e questa voce ben presto si sparse per il paese.
Da ogni sentiero, da ogni anfratto, sbucavano degli uomini. Si potevano vedere i pastori scendere
dalle alture correndo.
Alla fine, quando i Barbari furono partiti, Spendio fece il giro della piana, a cavallo di uno
stallone punico e accompagnato dal suo schiavo che conduceva un terzo cavallo.
Era rimasta una sola tenda. Spendio vi entrò.
- Su, padrone! Alzati! Noi partiamo!
- E dove andate? - Domandò Mato.
- A Cartagine! – Gridò Spendio.
Mato balzò sul cavallo che lo schiavo teneva all’ingresso.
20
III
SALAMMBÔ
La luna affiorava dalle onde, e, sulla città ancora immersa nelle tenebre, brillavano dei punti
luminosi, dei chiarori: il timone di un carro in una corte, uno straccio di tela sospeso, l’angolo di un
muro, una collana d’oro sul petto di un Dio. Le bocce di vetro sui tetti dei templi sfavillavano, qua e
là, come dei grossi diamanti. Ma delle vaghe rovine, alcuni mucchi di terra nera, dei giardini
addensavano l’oscurità in masse più cupe, e nella parte bassa di Malqua, le reti dei pescatori erano
distese da una casa all’altra, come dei giganteschi pipistrelli dalle ali spiegate. Non si udiva più il
cigolio delle ruote idrauliche che portavano l’acqua agli ultimi piani dei palazzi; e sulle terrazze i
cammelli riposavano tranquillamente, sdraiati sul ventre, alla maniera degli struzzi. I custodi
dormivano per strada davanti alla soglia delle case; l’ombra dei colossi si allungava sulle piazze
deserte; in lontananza, a momenti, il fumo di un sacrificio che bruciava ancora esalava attraverso i
coppi di bronzo, e una brezza greve portava coi profumi delle spezie il sentore del mare e gli effluvi
delle mura cotte dal sole. Intorno a Cartagine le acque risplendevano immobili, poiché la luna
spandeva contemporaneamente la sua luce sul golfo circondato di montagne e sul lago di Tunisi,
dove i fenicotteri disegnavano, tra i banchi di sabbia, delle lunghe linee rosa, mentre al di là, sotto le
catacombe, l’ampia laguna salata riverberava la luce come una scheggia d’argento. La volta
turchina del cielo sprofondava all’orizzonte, da un lato nel polverio delle pianure, dall’altro nelle
brume del mare, e sulla sommità dell’Acropoli i cipressi piramidali che circondavano il tempio di
Eshmun dondolavano, producendo un mormorio, come le onde regolari che battevano lentamente
contro il molo, appié dei bastioni.
Salammbô salì sulla terrazza del suo palazzo, aiutata da una schiava che portava in un piatto di
ferro dei carboni accesi. C’era nel mezzo della terrazza un piccolo letto d’ avorio, coperto di pelli di
lince con dei cuscini in piuma di pappagallo, animale fatidico consacrato agli Dei, e nei quattro
angoli si elevavano quattro lunghe profumiere colme di nardo, di incenso, di cinnamomo e di mirra.
La schiava accese i profumi. Salammbô guardò la stella polare; salutò lentamente i quattro punti del
cielo e si inginocchiò al suolo fra la polvere azzurra cosparsa di stelle d’oro, ad imitazione del
firmamento. Poi, con i gomiti contro i fianchi, gli avambracci distesi e le mani aperte, porgendo il
volto ai raggi della luna, disse:
- O Rabbetna!... Baalet!... Tanit! – e la sua voce si trascinava lamentosa, come chi implora
qualcuno – Anaitis! Astarte! Derceto! Astoreth! Mylitta! Athara! Elissa! Tiratha!...Per i
simboli occulti, per i sistri risonanti, per i solchi della terra, per l’eterno silenzio e per
l’eterna fecondità; dominatrice del mare tenebroso e delle plaghe azzurrine, o Regina delle
cose umide, salve!
Ella oscillò con tutto il suo corpo due o tre volte, poi lasciò cadere la fronte nella polvere,
allungando le braccia.
La sua schiava la rialzò lentamente, perché era necessario, terminati i riti, che qualcuno venisse a
strappare il supplice alla sua prosternazione; era un modo per dirgli che gli Dei avevano gradito, e la
nutrice di Salammbô non mancava mai questo gesto di pietà.
Dei mercanti della Getulia-Darica l’avevano condotta a Cartagine quand’era piccina, e dopo
essere stata affrancata non aveva voluto lasciare i suoi padroni, come provava il suo orecchio destro,
trafitto da un largo foro. Una sottana a strisce multicolori, stretta sui fianchi, scendeva fino alle sue
caviglie, dove dei cerchietti di stagno urtavano tra loro. Il suo viso, un po’ piatto, era giallo come la
sua tunica. Degli spilloni d’argento formavano un sole dietro la sua testa. Portava sulla narice un
bottone di corallo, e stava accanto al letto, con le palpebre abbassate, più dritta di un’erma.
Salammbô avanzò fino al bordo della terrazza. I suoi occhi, per un istante, percorsero l’orizzonte,
poi si chinarono sulla città addormentata, e il sospiro che emise, sollevandole i seni, fece ondeggiare
da una estremità all’altra la lunga veste bianca che le cadeva lungo il corpo libera da fermagli e
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cinture. I suoi sandali a punta ricurva sparivano sotto un mucchio di smeraldi, e i suoi capelli
riempivano senza cura una reticella in filo di porpora.
Rialzò il capo per contemplare la luna, e mischiando alle sue parole frammenti di un inno,
mormorò:
- Come ti volgi leggera, sorretta dall’etere impalpabile! Esso si leviga al tuo contatto, ed è il moto
della tua agitazione che distribuisce i venti e le rugiade feconde. In rapporto al tuo crescere e al tuo
calare, si allargano o si restringono gli occhi dei gatti e le macule delle pantere. Le spose urlano il
tuo nome nei travagli del parto! Tu gonfi le conchiglie! Fai ribollire i vini! Fai imputridire i
cadaveri! Tu formi le perle sul fondo del mare! E tutti i germi, o Dea, fermentano nelle oscure
profondità del tuo umidore. Quando ti mostri, sul mondo scende la pace; sbocciano i fiori, le onde si
placano, gli uomini stanchi distendono il loro petto verso di te, e la terra con i suoi oceani e le sue
montagne, come in uno specchio, si riflette nel tuo volto. Tu sei bianca, dolce, luminosa,
immacolata, ausiliatrice, purificatrice, serena.
La falce di luna si trovava in quel momento sopra il monte delle Acque Calde, nel solco fra le
due cime, sul lato opposto del golfo. Aveva sotto di sé una piccola stella ed era circonfusa da
un pallido alone. Salammbô riprese:
- Però tu sai essere terribile, padrona!... E’ da te che originano i mostri, le apparizioni spaventose, i
sogni mendaci; i tuoi occhi consumano le pietre degli edifici, e le scimmie si ammalano ogni volta
che tu ti rinnovi. Dove vai dunque? Perché di continuo muti le tue forme? A volte sottile e ricurva,
scivoli nel cielo come una galea senza alberi, a volte circondata di stelle assomigli ad un pastore che
custodisce il suo gregge. Oppure, lucente e rotonda, tu sfiori le creste dei monti come la ruota di un
carro. O Tanit! Mi ami, non è vero? Ti ho tanto guardata! Ma no! Tu corri nella tua lontananza
azzurra, ed io resto quaggiù sulla terra immobile.
- Taanach, prendi il tuo nebal e pizzica piano la corda d’argento, poiché il mio cuore è triste!
La schiava sollevò una sorta di arpa in legno d’ebano più alta di lei, e triangolare come un delta;
ne fissò la punta in un globo di cristallo, e con le due mani si mise a suonare.
I suoni si succedevano sordi e precipitosi come un ronzio d’api, e facendosi viepiù sonori, si
perdevano nella notte con il lamento delle onde e lo stormire dei grandi alberi sulla sommità
dell’Acropoli.
- Smettila! – esclamò Salammbô.
- Che ti succede, padrona? La brezza che spira, una nube che passa, ogni cosa questa notte ti turba
e ti commuove.
- Non lo so – disse ella.
- Tu ti affatichi troppo nelle tue devozioni.
- Oh! Taanach, vorrei dissolvermi come un fiore immerso nel vino!
- Forse che il fumo dei tuoi profumi ti da alla testa?
- Non può essere – disse Salammbô – lo spirito degli Dei abita nei buoni effluvi.
Allora la schiava le parlò di suo padre. Lo si credeva partito verso i paesi dell’ambra, oltre le
colonne di Melqart.
- Ma egli non ritorna - le diceva - bisognerà pertanto, poiché era la sua volontà, che ti scegli uno
sposo fra i figli degli Anziani, allora la tua tristezza sparirà fra le braccia di un uomo.
- Perché? – domandò la fanciulla, che per quanto aveva potuto scorgere delle loro volgarità feroci e
dei loro corpi grossolani, ne provava orrore.
- Alcune volte, Taanach, sprigionano dal fondo del mio essere come delle vampate calde, più grevi
che i vapori di un vulcano. Delle voci mi chiamano, una sfera di fuoco rotola e si impianta nel mio
petto, soffocandomi. Ho l’impressione di morire; subito dopo, qualcosa di soave, colando dalla mia
fronte fino ai miei piedi, mi attraversa la carne…è una carezza che mi avvolge, ed io mi sento
schiacciata come se un dio si fosse steso sopra di me. Oh! Vorrei perdermi nelle brume delle notti,
nel flusso delle fonti, nella linfa degli alberi, uscire dal mio corpo, non essere che un soffio, che un
raggio, e scivolare fino a te, o Madre!
22
Alzò le sue braccia più in alto che poteva, inarcando la vita, pallida e leggera, nella sua veste,
come la luna. Poi ricadde sul letto d’avorio, anelante; ma Taanach le circondò il collo con un
gioiello d’ambra che aveva dei denti di delfino per scacciare le paure, e Salammbô, con un filo di
voce, disse:
- Va a chiamarmi Shahabarim.
Suo padre non aveva voluto che entrasse nel collegio delle sacerdotesse, e neppure che le si
facesse conoscere nulla della Tanit popolare. L’aveva riservata per qualche alleanza politica che
poteva tornargli utile, cosicché Salammbô viveva isolata nel cuore del suo palazzo, essendo sua
madre già da lungo tempo morta.
Era cresciuta nelle astinenze, nei digiuni e nelle purificazioni, sempre circondata da cose squisite
e gravi, il corpo pregno di profumi, l’anima colma di preghiere. Non aveva mai gustato del vino, ne
mangiato carni, ne toccato un animale immondo, ne posato i suoi talloni nella casa della morte.
Ignorava i simulacri osceni; poiché, manifestandosi ogni dio sotto forme differenti, culti di
sovente contraddittori testimoniavano a volte lo stesso principio, e Salammbô adorava la Dea nella
sua figurazione siderale. Un’influenza era discesa dalla luna sulla vergine; quando l’astro andava
calando, ella si indeboliva. Languiva tutto il giorno, per rianimarsi la sera. Durante un’eclissi, era
mancato poco morisse.
Ma la Rabbet gelosa si vendicava di questa verginità sottratta ai suoi sacrifici, e tormentava
Salammbô con ossessioni tanto più potenti quanto più vaghe, che si nutrivano di quella fede che di
continuo le rinvigoriva.
Senza posa la figlia di Amilcare era assorta in Tanit. Aveva studiato le sue avventure, i suoi viaggi
e tutti i suoi nomi, che ella ripeteva senza saper distinguere tra i loro diversi significati. Al fine di
approfondire le verità del suo dogma, voleva scoprire, nel tabernacolo più segreto del tempio, il
vecchio idolo avvolto nel magnifico velo dal quale dipendevano i destini di Cartagine; poiché
l’idea di un dio non si separava mai nettamente dalla sua rappresentazione, e appropriarsi o vederne
il simulacro, equivaleva ad impossessarsi di una parte della sua potenza, e in qualche modo,
dominarlo.
Salammbô si distolse. Aveva riconosciuto il tintinnio delle campanelle d’oro che Shahabarim
portava in basso al suo vestiario.
Egli salì le scale: poi, sul limitare della terrazza, si arrestò incrociando le braccia sul petto.
I suoi occhi infossati brillavano come lampade in un sepolcro; il suo corpo lungo e scarno
fluttuava dentro la tunica di lino, appesantita dai sognagli che si alternavano, attorno alle sue
caviglie, a dei pomi di smeraldo. Aveva le membra gracili, il cranio sghembo, il mento aguzzo; la
sua pelle, al contatto, pareva di ghiaccio, e la sua faccia gialla era solcata da rughe profonde, come
modellate da un desiderio inesausto, da un eterno cordoglio.
Era il Gran Sacerdote di Tanit, colui che aveva allevato Salammbô.
- Parla! – le disse – Cosa vuoi?
- Speravo…Tu mi avevi quasi promesso…- Salammbô balbettava turbata; poi precipitosamente:
- Perché mi disprezzi? Che cosa ho dunque trascurato nelle mie devozioni? Tu sei il mio maestro, e
mi hai detto che nessuno più di me conosceva ciò che riguarda la Dea; ma vi son cose che non vuoi
rivelare. E’ vero, padre?
Shahabarim si rammentò degli ordini di Amilcare; rispose:
- No, non ho più nulla da insegnarti!
- Un Genio – riprese ella – mi spinge a questo amore. Ho salito i gradini di Eshmun, dio dei pianeti
e delle intelligenze; ho dormito sotto l’ulivo d’oro di Melqart, patrono delle colonie di Tiro; ho
bussato alle porte di Baal Khamon che illumina e feconda; ho sacrificato ai Cabiri sotterranei, alle
Divinità dei boschi, dei venti, dei fiumi e delle montagne! Ma sono tutti troppo remoti, troppo
sublimi, troppo insensibili, mi capisci? Mentre lei, la sento connessa alla mia vita; mi riempie
l’anima, ed io sono scossa dentro di me da slanci, come se ella volesse sprigionarsi. Mi sembra di
udirne la voce, scorgerne la figura, esserne abbagliata, poi ricado nelle tenebre.
Shahabarim taceva. Ella lo sollecitava con uno sguardo supplichevole.
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Infine, le fece segno di allontanare la schiava, che non era di razza cananea. Taanach se ne andò, e
Shahabarim, alzando il braccio, cominciò:
- Prima degli Dei erano le tenebre sole, e un soffio fluttuava, greve e confuso come la coscienza di
un uomo che sogna. Questo si contrasse creando il Desiderio e la Nube, e dal Desiderio e dalla
Nube sortì la Materia originaria. Si trattava di un liquido fangoso, nero, gelido, insondabile.
Racchiudeva dei segni impercettibili, parti incoerenti di forme a venire, che sono dipinte sulle pareti
dei santuari.
- Poi la Materia si condensò. Divenne un uovo. Questo si spezzò. Una metà formò la terra, l’altra il
firmamento. Apparvero il sole, la luna, i venti, le nuvole; e, al fragore della folgore gli animali
intelligenti si destarono. Allora Eshmun si espanse nella sfera stellata; Khamon sfavillò nel sole;
Melqart, con le sue braccia, lo spinse oltre Gades; i Cabiri discesero sotto i vulcani, e Rabbetna,
simile a una nutrice, si chinò sul mondo, versando la sua luce come un latte, e la sua notte come un
mantello.
- E dopo? – disse ella.
Shahabarim le aveva raccontato il segreto delle origini per distrarla con prospettive sublimi; ma le
sue ultime parole riaccesero il desiderio della vergine, ed egli, cedendo a metà, riprese:
- Ella ispira e governa gli amori degli uomini.
- Gli amori degli uomini! – ripeté Salammbô sognante.
- È l’anima di Cartagine – continuò il sacerdote – e benché sia sparsa ovunque, è qui che dimora,
sotto il velo sacro.
- O padre! – esclamò Salammbô – La vedrò, non è vero? Mi condurrai da lei! Da lungo tempo
esitavo; la curiosità di vedere com’è fatta mi divora. Pietà! Aiutami! Andiamo!
Egli la respinse con un gesto violento e carico di alterigia.
- Mai! Non sai forse che se ne muore? I Baal ermafroditi non si svelano che a noi soli, maschili per
inclinazione, femminili per difetto. Il tuo desiderio è sacrilego; accontentati di quel che sai!
Ella cadde in ginocchio, posando due dita sulle orecchie, in segno di pentimento; e singhiozzava,
annientata dalle parole del Sacerdote, colma ad un tempo di collera nei suoi riguardi, di paura e di
umiliazione. Shahabarim, in piedi, era più impassibile che le pietre della terrazza. La guardava
dall’alto in basso fremente ai suoi piedi, e provava una sorta di gioia vedendola soffrire a causa
della sua divinità, che lui stesso non poteva comprendere nella sua pienezza. Di già gli uccelli
cantavano, soffiava un vento freddo, e delle piccole nuvole correvano nel cielo che schiariva.
Ad un tratto Shahabarim scorse dietro Tunisi, una leggera foschia che tremolava contro il sole;
dopo poco, divenne una cortina di polvere grigia stesa perpendicolarmente, e, nel turbine di quella
gran massa apparvero delle teste di dromedari, delle lance, degli scudi. Era l’armata dei Barbari che
si avvicinava a Cartagine.
24
IV
SOTTO LE MURA DI CARTAGINE
In groppa a degli asini o correndo a piedi giunsero in città dei villani, pallidi, trafelati, folli di
paura. Fuggivano davanti all’armata. Questa, in tre giorni, aveva ripercorso la strada di Sicca, per
venire a Cartagine a distruggere ogni cosa.
Si sbarrarono le porte. Poco dopo apparvero i Barbari; ma si arrestarono in mezzo all’istmo, sulle
rive del lago.
Da principio non fecero mostra di ostilità. Parecchi si avvicinarono con delle fronde di palma
nelle mani. Furono allontanati a colpi di frecce, tanto la paura era grande.
Talvolta la mattina e al tramonto, degli oziosi bighellonavano lungo le mura. Si notava soprattutto
un uomo sparuto, accuratamente avvolto in un mantello, e col volto nascosto sotto una visiera ben
calata. Si soffermava parecchio tempo ad osservare l’acquedotto, ed in modo tanto sfacciato, da
lasciar supporre che volesse sviare i Cartaginesi dalle sue vere intenzioni. Lo accompagnava un
altro individuo, una specie di gigante che andava a viso scoperto.
Ma Cartagine era ben protetta lungo tutta l’ampiezza dell’istmo: come prima cosa da un fossato,
poi da un bastione di zolle erbose, e infine da una muraglia a due piani, in pietre da taglio, alta
trenta cubiti. Questa accoglieva scuderie per trecento elefanti con i magazzini per le loro gualdrappe,
le loro pastoie, e il loro nutrimento, poi altre scuderie per custodire quattromila cavalli con le loro
provviste d’orzo e i finimenti, e caserme per ventimila soldati con le armature e il materiale da
guerra. Sopra il secondo piano si alzavano delle torri, tutte guarnite di merli, e che sporgevano in
fuori degli scudi di bronzo sospesi a dei ganci.
Questa prima linea di mura difendeva immediatamente Malqua, il quartiere della gente di mare e
dei tintori. Vi si scorgevano dei pali sui quali asciugavano veli di porpora, e sulle ultime terrazze dei
fornelli di argilla per cuocere la salamoia.
Alle spalle, la città disponeva su piani semicircolari le sue alte case di forma cubica. Erano
costruite con pietre, assi, ghiaia, canne, conchiglie e terra battuta. I boschi dei templi formavano
come delle pozze di verzura in questa montagna di blocchi diversamente colorati. Le piazze
pubbliche la livellavano ad intervalli irregolari; innumerevoli viuzze incrociandosi la tagliavano
dall’alto in basso. Vi si distinguevano le cinte dei tre vecchi quartieri, ora confusi; si alzavano qua e
là come dei grandi scogli, o allungavano gigantesche ali di mura, in parte invase dai fiori, annerite,
copiosamente insudiciate dal lancio delle immondizie, e alcune strade passavano attraverso le loro
crepe spalancate, come dei fiumi sotto i ponti.
La collina dell’Acropoli, al centro di Byrsa, scompariva sotto un disordine di monumenti. C’erano
templi a colonne torte con capitelli di bronzo e catene di metallo, coni in pietra a secco dipinti a
bande azzurre, cupole di rame, architravi di marmo, contrafforti babilonesi, obelischi ritti sulle loro
punte come fiaccole rovesciate. I peristili si accostavano ai frontoni; le volute si distendevano fra i
colonnati; mura di granito sostenevano tavolati di coppi; tutte queste architetture si accavallavano
dissimulandosi a vicenda, in foggia meravigliosa e incomprensibile. Vi si avvertiva il succedersi
delle età e come delle tracce di patrie dimenticate.
Alle spalle dell’Acropoli, fra terreni rossastri, la strada dei Mappali, fiancheggiata di tombe, si
allungava in linea retta dalla spiaggia alle catacombe; seguivano delle grandi case circondate da
giardini, e questo terzo quartiere, Megara, la città nuova, arrivava fino al bordo della falesia, sulla
quale sorgeva un grande faro che fiammeggiava tutte le notti.
Era così che Cartagine si dispiegava davanti ai soldati accampati nella pianura.
Da lontano ne riconoscevano i mercati, i crocicchi; disputavano sulla collocazione dei templi.
Quello di Khamon, di fronte a Sissizi, aveva le tegole d’oro; Melqart, alla sinistra di Eshmun, aveva
sul tetto dei rami di corallo; Tanit, al di là, rotondeggiava tra le palme con la sua cupola di rame; il
nero Moloch stava ai piedi delle cisterne, dal lato del faro. Si vedevano al vertice dei frontoni, sul
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colmo dei muri, negli angoli delle piazze, ovunque, delle divinità dalla testa mostruosa, gigantesche
o tarchiate, con dei ventri enormi, o smisuratamente sottili, con la bocca spalancata, le braccia
allargate, nelle mani dei forconi, delle catene o dei giavellotti; e in fondo alle strade, che la
prospettiva rendeva ancora più ripide, faceva mostra di sé il blu del mare.
Dal mattino alla sera le riempiva una moltitudine rumorosa; dei giovinetti strillavano sulla porta
dei bagni agitando campanelle; dalle botteghe di bevande calde esalavano vapori, l’aria risuonava
dello strepito delle incudini, i galli bianchi consacrati al sole cantavano sulle terrazze, nei templi i
buoi da sgozzare muggivano, gli schiavi correvano qua e là con dei canestri sul capo; e, nella
penombra dei portici, spuntava qualche sacerdote coperto di panni scuri, a piedi nudi e col berretto a
punta.
Lo spettacolo che Cartagine dava di sé irritava i Barbari. La ammiravano e la esecravano,
avrebbero voluto, in una sola volta annientarla e viverla. E si chiedevano cosa c’era nel Porto
Militare, difeso da una tripla cinta di mura. Per finire, dietro la città, in fondo a Megara, più in alto
dell’Acropoli, si levava il palazzo di Amilcare.
Lo sguardo di Mato ad ogni istante vi si dirigeva. Egli saliva tra gli ulivi, e si chinava, con le
mani distese a schermirsi gli occhi. I giardini erano deserti, e la porta rossa con la croce nera restava
costantemente chiusa.
Più di venti volte fece il giro dei bastioni, cercando un varco per entrare. Una notte si gettò nel
golfo, e per tre ore nuotò senza posa. Arrivò ai piedi dei Mappali, volle arrampicarsi sulla falesia. Si
insanguinò le ginocchia, si spezzò le unghie, alla fine ricadde tra i flutti e se ne tornò.
La sua impotenza lo esasperava. Era geloso di quella Cartagine che rinchiudeva Salammbô, come
di qualcuno che l’avesse posseduta. La sua svogliatezza lo abbandonò, e subentrò una frenesia
d’azione folle e continua. Le gote infuocate, gli occhi infiammati, la voce rauca, misurava il campo
a passi rapidi; oppure, seduto sulla spiaggia, lustrava con la sabbia la sua grande spada. Lanciava
frecce contro gli avvoltoi che passavano. Il suo cuore prorompeva in parole rabbiose.
- Lascia andare la tua collera come un carro in corsa – gli diceva Spendio – urla, bestemmia,
saccheggia e uccidi. Il dolore si placa col sangue, e poiché non puoi soddisfare il tuo amore,
sazia il tuo odio; egli ti sorreggerà.
Mato riprese il comando dei suoi soldati. Li faceva esercitare duramente. Era rispettato per il suo
coraggio, ma soprattutto per la sua forza. Per altro incuteva una specie di sacro timore; si credeva
che la notte parlasse coi fantasmi. Gli altri capitani presero coraggio dal suo esempio. L’armata
ben presto si riassoggettò alla disciplina. I Cartaginesi dalle loro case sentivano il suono delle
buccine che regolava le esercitazioni. Infine i Barbari si avvicinarono.
Sarebbe stato necessario per schiacciarli nell’istmo che due armate contemporaneamente
avessero potuto coglierli alle spalle, l’una prendendo terra in fondo al golfo di Utica, e la seconda
ai piedi della montagna delle Acque Calde. Ma cosa fare con la sola Legione Sacra, che contava
non più di seimila uomini?
Se i Barbari si fossero volti ad oriente, potevano unirsi ai Nomadi, bloccare la strada di Cirene e
il commercio del deserto. Se ripiegavano a occidente, la Numidia si sarebbe sollevata. Infine la
scarsità di viveri li avrebbe condotti, prima o poi, a devastare, come delle cavallette, le campagne
circostanti; i Ricchi tremavano per le loro belle ville, le loro vigne, le loro colture.
Annone propose misure atroci e impraticabili, come quella di promettere una forte somma per
ogni testa di barbaro, o, quella di incendiarne l’accampamento, con l’ausilio di navi e macchine. Il
suo collega Giscone voleva, al contrario, che fossero pagati. Ma, a causa della sua popolarità, gli
Anziani lo detestavano; perché temevano l’avvento di un capo e, per timore della monarchia, si
sforzavano di contrastare quel che ne restava, o ciò che la poteva ristabilire.
All’esterno delle fortificazioni abitava una popolazione di un’altra razza e di origini sconosciute;
tutti cacciatori di porcospini, mangiatori di molluschi e di serpenti. Andavano nelle caverne a
catturare le iene vive, che poi si divertivano a far correre la sera sulle sabbie di Megara, tra i cippi
funerari. Le loro capanne, di fango e di alghe, si aggrappavano alla falesia come nidi di rondini.
Vivevano là, senza governo e senza dei, alla rinfusa, privi di ogni cosa, al contempo fragili e
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feroci, e da sempre odiati dal popolo, a causa dei loro cibi immondi. Un mattino le sentinelle si
avvidero che se ne erano tutti andati.
Infine alcuni membri del Gran Consiglio si decisero. Giunsero al campo, senza collane ne
cinture, con ai piedi sandali aperti, come dei vicini. Camminavano tranquillamente, lanciando
saluti ai capitani, oppure si fermavano a chiacchierare coi soldati, dicendo che oramai tutto era
sistemato, e si era sul punto di soddisfare le loro richieste.
Molti tra loro vedevano per la prima volta un campo di Mercenari. In luogo della confusione
che avevano immaginata, ovunque regnava un ordine e un silenzio che metteva soggezione. Un
bastione di zolle erbose cingeva l’armata entro un’alta muraglia, inviolabile ai colpi delle
catapulte. Le strade, di terra battuta, erano spruzzate d’acqua fresca; attraverso i fori delle tende,
intravvedevano degli occhi selvaggi luccicare nell’ombra. I fasci delle picche e le panoplìe
sospese li abbagliavano come degli specchi. Parlavano a voce bassa. Avevano paura che le loro
lunghe tuniche rovesciassero qualcosa.
I soldati chiesero delle vettovaglie, impegnandosi a scontarle sul denaro che gli si doveva.
Furono inviati loro buoi, montoni, galline faraone, frutta secca e semi di lupino, insieme a
sgombri affumicati, quella specialità di sgombri che Cartagine esportava in tutti i porti. Ma essi
arricciavano il naso sprezzanti di fronte a quelle bestie di prima qualità; e, denigrando ciò che più
agognavano, offrivano per un ariete il valore di un piccione, per tre capre il prezzo di una
melagrana. Il popolo dei mangiatori di cose immonde, offrendosi come arbitro, affermava che li si
stava frodando. A quel punto estraevano le spade, minacciavano di uccidere.
Alcuni commissari del Gran Consiglio calcolarono il numero di anni che si doveva a ciascun
soldato. Ma era impossibile, ora, sapere quanti Mercenari erano stati ingaggiati, e gli Anziani
furono sconcertati per la somma esorbitante che avrebbero dovuto sborsare. Bisognava vendere le
riserve di silfio, tassare le città mercantili; i Mercenari, nell’attesa, avrebbero perso la pazienza, di
già Tunisi si era schierata con loro: e i Ricchi storditi dal furore di Annone e dagli ammonimenti
del suo collega, raccomandarono ai cittadini che potevano vantare conoscenze tra i Barbari di
andare a trovarli al più presto, per riconquistarne l’amicizia con dei buoni discorsi. Un tal gesto di
familiarità avrebbe forse potuto calmarli.
Alcuni mercanti, degli scrivani, degli operai dell’arsenale, intere famiglie si recarono presso i
Barbari.
I soldati lasciavano entrare nel campo chiunque si presentasse, ma attraverso un passaggio
talmente stretto che quattro uomini affiancati si urtavano coi gomiti. Spendio, in piedi davanti alla
barriera li faceva perquisire minuziosamente; Mato, di fronte a lui, osservava con attenzione
quella folla, nella speranza di riconoscervi qualcuno che poteva aver visto presso Salammbô.
Il campo assomigliava ad una città, tanto era pieno di gente e di movimento. Le due folle
distinte si mescolavano senza confondersi, l’una vestita di tela o di lana, con delle cuffie di feltro
che sembravano pigne, l’altra coperta di ferro e con in testa degli elmi. Tra i servi e i venditori
ambulanti circolavano donne di tutti i paesi, brune come datteri maturi, verdastre come olive,
gialle come arance, vendute dai marinai, scelte nei tuguri, rapite alle carovane, prese nei
saccheggi delle città, spossate d’amore fintanto che erano giovani, riempite di botte allorquando
erano vecchie, e che morivano al bordo delle strade nel mezzo delle disfatte, tra i bagagli, con le
bestie da soma abbandonate. Le spose dei Nomadi, dondolandosi sui talloni, facevano oscillare le
loro tuniche in pelo di dromedario, di foggia quadrata e di colore rossiccio; alcune musiche della
Cirenaica, avvolte in drappi violetti e con le sopracciglia dipinte, cantavano accovacciate sulle
stuoie; delle vecchie negre dalle mammelle pendule raccoglievano sterco di animale, che veniva
seccato al sole, per essere bruciato; le Siracusane avevano le capigliature guarnite di piastre d’oro,
le Lusitane delle collane di conchiglie, quelle che venivano dalla Gallia portavano pelli di lupo
sulle loro spalle bianche; e dei bambini robusti, coperti di parassiti, nudi, incirconcisi, colpivano a
testate i passanti nel ventre, o li prendevano alle spalle, come dei tigrotti, azzannandoli alle mani.
I Cartaginesi vagavano per il campo, stupiti per la quantità di cose delle quali rigurgitava. I più
poveri apparivano afflitti, gli altri dissimulavano la loro inquietudine.
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I soldati battevano loro sulla spalla, incitandoli a stare allegri. Quelli che riconoscevano un
notabile, lo invitavano a giocare con loro. Se si trattava di lanciare il disco, facevano in modo di
schiacciargli i piedi, al pugilato, gli fracassavano la mascella al primo assalto. I frombolieri
spaventavano i Cartaginesi con le fionde, gli psilli con i serpenti, i cavalieri con i cavalli. E quegli
uomini dalle occupazioni pacifiche, ad ogni oltraggio, abbassavano la testa e si sforzavano di
sorridere. Alcuni, per mostrarsi valorosi, davano ad intendere di volersi fare soldati. Allora gli si
dava della legna da rompere e dei muli da strigliare. Li si infilava in un’armatura e li si faceva
rotolare come botti per le vie del campo. Poi, quando si disponevano a partire, i Mercenari si
strappavano i capelli facendo smorfie grottesche.
Ma molti, a causa di un pregiudizio o per stupidità, credevano ingenuamente tutti i Cartaginesi
molto ricchi, e li seguivano supplicandoli di donar loro qualcosa. Domandavano tutto ciò che
stimavano desiderabile: un anello, una cintura, dei sandali, la frangia di una tunica, e quando un
Cartaginese, ormai spoglio, esclamava:
- Ma non ho più nulla. Cosa vuoi ancora?- Essi rispondevano:
- La tua donna! - Oppure - La tua vita!
I conti delle paghe furono consegnati ai capitani, letti ai soldati, definitivamente approvati. A
quel punto reclamarono delle tende; li si fornì di tende. Poi i polemarchi dei Greci chiesero
qualcuna di quelle belle armature che si fabbricavano a Cartagine; il Gran Consiglio votò delle
somme per questo acquisto. Ma era giusto, pretendevano i cavalieri, che la Repubblica li risarcisse
dei loro cavalli. L’uno affermava di averne persi tre nel tale assedio, un altro cinque durante la tal
marcia, un altro ancora quattordici nei precipizi. Gli si offrirono degli stalloni di Ecatompilo;
preferirono i quattrini.
Oltre a ciò chiesero che si pagasse in denaro, monete d’argento e non dischetti di cuoio, la
quantità di grano che si doveva loro, e al prezzo più alto al quale era stato venduto durante la
guerra, sebbene con ciò essi esigessero per una misura di farina quattrocento volte di più di quel
che avevano sborsato per un sacco di frumento. Questa iniquità esasperò; nondimeno bisognò
cedere.
Allora i delegati dei soldati e quelli del Gran Consiglio si riconciliarono, giurando sul Genio di
Cartagine e sulle divinità dei Barbari. Con la verbosità e le manifestazioni tipiche degli orientali si
scambiarono scuse e complimenti. Infine i soldati reclamarono, come prova di amicizia, la
punizione dei traditori che li avevano maldisposti contro la Repubblica.
Si fece mostra di non capire. I Mercenari si spiegarono più chiaramente, dicendo che volevano
la testa di Annone.
Più volte al giorno uscivano dal campo. Vagavano sotto le mura. Gridavano che si gettasse loro
la testa del Suffeta, stendevano le loro tuniche per riceverla.
Il Gran Consiglio avrebbe ceduto, forse, se non si fosse aggiunta un’ultima richiesta più
oltraggiosa che le altre: chiesero in moglie, per i loro capi, delle vergini scelte nelle grandi
famiglie. Era una trovata di Spendio, che molti giudicavano del tutto naturale e assai possibile.
Ma questa pretesa di volersi mischiare al sangue punico indignò il popolo; gli si notificò
brutalmente che non avevano più nulla da reclamare. Allora gridarono che li si era truffati; se
entro tre giorni non avessero ricevuto i soldi, sarebbero corsi essi stessi a prenderli in Cartagine.
La malafede dei Mercenari non era poi così totale come pensavano i loro nemici. Amilcare
aveva fatto loro delle promesse esorbitanti, molto vaghe in verità, ma solenni e ripetute. Così che
essi avevano potuto credere, sbarcando a Cartagine, che si sarebbe lasciata la città nelle loro mani,
che si sarebbero spartiti enormi ricchezze; e quando videro che a malapena avrebbero ricevuto
quanto loro spettava, fu una delusione per il loro orgoglio come per la loro cupidigia.
Dionigi, Pirro, Agatocle, e i generali di Alessandro non fornivano forse un esempio di
meravigliose sorti? L’ideale di Ercole, che i Cananei confondevano con il sole, risplendeva
all’orizzonte delle armate. Era noto che semplici soldati erano giunti a portare corone reali, e il
fragore degli imperi che crollavano faceva sognare il Gallo nelle sue foreste di querce, l’ Etiope
fra le sue sabbie. Ma c’era un popolo sempre pronto ad utilizzare ogni sorta di ardimentosi; e così
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il ladro scacciato dalla sua tribù, il parricida in fuga lungo le strade, il sacrilego perseguitato in
nome degli dei, tutti gli affamati, tutti i disperati cercavano di raggiungere il porto dove un agente
di Cartagine reclutava i soldati. Essa era solita mantenere le sue promesse. Questa volta
nondimeno, l’impeto della sua avarizia l’aveva trascinata ad una pericolosa infamia. I Numidi, i
Libici, l’intera Africa si preparava ad avventarsi su Cartagine. L’unica salvezza era il mare. Ma
c’erano i Romani; e come un uomo circondato dai suoi assassini, essa vedeva la morte danzarle
intorno.
Si pensò bene di ricorrere a Giscone; i Barbari accettarono la sua mediazione. Un mattino videro
le catene del porto abbassarsi, e tre barche piatte, passando per il canale della Tenia, entrare nel
lago.
Sulla prima, a prua, si scorgeva Giscone. Dietro di lui, più alta di un catafalco, si alzava
un’enorme cassa munita di anelli simili a delle corone sospese. Poi spuntava la schiera degli
interpreti, pettinati come sfingi e con un pappagallo tatuato sul petto. Infine seguivano, tanto
numerosi da stare addossati gli uni agli altri, amici e schiavi, tutti disarmati. Le tre lunghe barche,
cariche da affondare, avanzavano sotto gli occhi dell’armata acclamante.
Appena Giscone sbarcò, i soldati gli corsero incontro. Con dei sacchi fece alzare una specie di
tribuna, e dichiarò che non se ne sarebbe andato prima di averli tutti interamente pagati.
Scoppiarono degli applausi; egli restò parecchio tempo senza poter parlare.
Riprese biasimando i torti della Repubblica e quelli dei Barbari; la colpa fu addossata a pochi
facinorosi, che con le loro violenze avevano turbato Cartagine. La migliore prova delle sue buone
intenzioni, era che si inviava a loro, lui, l’eterno avversario del suffeta Annone. Essi non
dovevano credere il popolo di Cartagine tanto sciocco da volersi inimicare dei prodi, ne tanto
ingrato da non riconoscere i loro servigi; e Giscone si diede a pagare i soldati cominciando dai
Libici. Siccome avevano dichiarato le liste fasulle, non se ne servì affatto.
Sfilavano davanti a lui, per nazioni, distendendo le loro dita per dire il numero degli anni;
successivamente venivano marcati sul braccio sinistro con della pittura verde; gli scrivani
attingevano nella cassa spalancata, e altri, con uno stiletto, incidevano delle tacche su una lamina
di piombo.
Si fece avanti un uomo, dall’andatura grave, come quella dei buoi.
- Sali da me – disse il Suffeta, sospettando un imbroglio – quanti anni hai servito?
- Dodici anni – rispose il Libico.
Giscone gli passò le dita sotto la mascella, perché il soggolo del casco vi produceva alla lunga
due callosità; le si chiamava carrube, e “avere le carrube” era un modo per dire veterano.
- Ladro – esclamò il Suffeta – quel che ti manca in viso devi averlo sulle spalle! – e strappandogli
la tunica, scoprì la sua schiena coperta di piaghe sanguinolenti; era un bifolco di Ippo Zarito. Si
udirono dei fischi; venne immediatamente decapitato.
Non appena si fece buio, Spendio andò ad aizzare i Libici. Disse loro:
- Quando i Liguri, i Greci, i Baleari, e gli Italici saranno pagati, se ne torneranno ai loro paesi. Ma
voi altri, voi resterete in Africa, dispersi nelle vostre tribù e privi di difesa! E’ allora che la
Repubblica si vendicherà! Diffidate del viaggio! Credete forse a tutto quello che vi si dice? I due
Suffeti sono d’accordo! Quelli si fan gioco di voi! Ricordatevi dell’Isola delle Ossa e di Santippo
che hanno rispedito a Sparta su di una galera marcia!
- Cosa dobbiamo fare? - Domandarono.
- Riflettete! - Disse Spendio.
I due giorni seguenti si passarono a pagare le genti di Magdala, di Leptis, di Ecatompilo;
Spendio, dal canto suo, si diede da fare coi Galli.
- Si pagano i Libici, di seguito si pagheranno i Greci, poi i Baleari, gli Asiatici, e tutti gli altri!
Ma voi che non siete numerosi, non vi si pagherà affatto! Voi non ritornerete mai più alle vostre
terre! Non vi saranno navi per voi! Vi uccideranno, per risparmiarsi la spesa.
I Galli si recarono dal Suffeta. Autarito, quello da lui ferito durante il festino da Amilcare, lo
interpellò. Cacciato dagli schiavi, se la svignò, ma giurando che si sarebbe vendicato.
29
Le proteste e le querele si moltiplicarono. I più ostinati penetravano nella tenda del Suffeta; per
commuoverlo gli prendevano le mani, gli facevano tastare le loro gengive sdentate, le loro braccia
smagrite, e le cicatrici delle loro ferite. Quelli che non erano stati ancora saldati perdevano la
pazienza, quelli che avevano ricevuto la loro paga ne chiedevano un’altra per i loro cavalli; e i
vagabondi, i banditi, rivestite le armi dei soldati, dichiaravano che li si era dimenticati.
Ad ogni momento, giungeva come un turbinio d’uomini; le tende cigolavano, cadevano al suolo;
la moltitudine stretta entro i bastioni del campo ondeggiava, strepitando, dalle porte al centro.
Quando il baccano si faceva troppo forte, Giscone appoggiava un gomito su di uno scettro
d’avorio, e guardando il mare, restava immobile, le dita affondate nella barba.
Spesso Mato si allontanava per andare a parlottare con Spendio; poi ritornava di fronte al
Suffeta, e Giscone sentiva incessantemente le sue pupille come due falariche infuocate scagliate
contro di lui. Più volte, al di sopra della calca, si scambiarono degli improperi, ma senza mai
udirsi. Nel frattempo la distribuzione continuava, e il Suffeta ad ogni intoppo trovava un
espediente.
I Greci vollero sollevare cavilli sul valore delle differenti monete. Fornì loro tante e tali
spiegazioni che ritirarono le loro lagnanze. I Negri chiesero di quelle conchiglie bianche usate per
il commercio nell’interno dell’Africa. Si offrì di mandare a prenderle a Cartagine; allora, come gli
altri, accettarono del denaro.
Ma ai Baleari era stato promesso qualcosa di meglio, ovvero delle donne. Il Suffeta rispose che
li attendeva tutta una carovana di vergini: la strada era lunga, ci sarebbero volute ancora sei lune.
Quando fossero state ben in carne e unte di belgioino, le si sarebbe inviate su delle navi, nei porti
delle Baleari.
All’improvviso Zarza, che aveva riacquistato le forze e un bell’aspetto, saltò, al modo dei
saltimbanchi, sulle spalle dei suoi amici e gridò:
- Ne hai riservate anche per i morti? – così dicendo faceva segno alla porta di Khamon a
Cartagine.
Rinforzata dall’alto in basso con piastre di bronzo, risplendeva colpita dagli ultimi raggi del sole;
i Barbari credettero di scorgervi una strisciata di sangue. Appena Giscone tentava di parlare, le
loro grida ricominciavano. Infine, a passi gravi scese dalla tribuna e si rinchiuse nella sua tenda.
Quando, al levar del sole, ne uscì, i suoi interpreti, che dormivano all’esterno, non diedero segno
di vita; stavano distesi sul dorso, gli occhi sbarrati, la lingua tra i denti e il volto livido. Delle
bianche mucosità colavano dalle loro narici, e i loro corpi erano rigidi come se il freddo della
notte li avesse gelati. Tutti avevano intorno al collo un piccolo laccio di giunco.
Da quel momento la rivolta non si arrestò più. Il massacro dei Baleari ricordato da Zarza
confermava le accuse di Spendio. Credevano che la Repubblica cercasse comunque di ingannarli.
Bisognava finirla! Si sarebbe fatto a meno degli interpreti! Zarza, con la fionda intorno al capo,
intonava canti guerreschi; Autarito brandiva la sua grande spada; Spendio ad uno bisbigliava una
parola, ad un altro passava un pugnale. I più audaci studiavano in che modo rifondersi da sé
medesimi, i meno animosi chiedevano che la distribuzione continuasse. A nessuno passava per la
testa, ora, di andare disarmato, e la collera di tutti si concentrava su Giscone in un ribollire d’odio.
Alcuni gli si erano posti attorno sulla tribuna. Finché vociferavano ingiurie li si lasciava dire;
ma se solo accennavano una parola in suo favore venivano immediatamente lapidati, o da dietro,
con un colpo di sciabola, si mozzava loro la testa. Il mucchio di sacchi era più rosso di un’ara.
Divenivano più feroci dopo aver mangiato, perché avevano bevuto del vino! Era un piacere
punito con la pena di morte negli eserciti punici, ed ora, bevendo, levavano le loro coppe in
direzione di Cartagine per irriderne la disciplina. Poi tornavano verso gli schiavi che custodivano
il denaro e ricominciavano a massacrare. La parola “colpisci”, diversa in ciascuna lingua, era
compresa da tutti.
Giscone sapeva bene che la patria lo mandava allo sbaraglio; ma non voleva assolutamente,
nonostante la sua ingratitudine, disonorarla. Quando gli ricordarono che aveva promesso loro
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delle navi, giurò su Moloch di fornirgliele lui stesso, a proprie spese, e, strappandosi la collana di
pietre turchine, la gettò tra la folla a garanzia del giuramento.
A quel punto gli Africani reclamarono il grano, a saldo degli impegni presi dal Gran Consiglio.
Giscone presentò i conti dei Sissizi , tracciati con della pittura violetta su pelli di pecora; spiegava
tutte le entrate di Cartagine, mese per mese, giorno per giorno.
D’improvviso si arrestò, gli occhi spalancati, come se tra le cifre avesse letto la sua sentenza di
morte.
In effetti gli Anziani le avevano fraudolentemente ridotte, e il grano, venduto durante il periodo
più disastroso della guerra, veniva riportato ad un prezzo così basso, che a meno di un abbaglio
non vi si poteva credere.
- Parla! – gridarono – Più forte! Ah! Cerca di imbrogliarci, il vigliacco! Non ci fidiamo.
Giscone indugiò per un poco. Infine riprese la sua fatica.
I soldati, senza sospettare che li si gabbava, presero per buoni i conti dei Sissizi. Allora
l’abbondanza della quale aveva goduto Cartagine suscitò in loro una grande invidia. Fracassarono
la cassa di sicomoro; era vuota per i tre quarti. Avevano visto uscire tanto di quel denaro che la
ritenevano inesauribile; Giscone ne aveva di certo nascosto nella sua tenda. Diedero la scalata ai
sacchi. Li conduceva Mato, e siccome gridavano:
- I soldi! I soldi! - Giscone alla fine rispose:
- Fateveli dare dal vostro generale!
Li guardava in faccia, senza parlare, con i suoi grandi occhi gialli e il suo lungo viso più bianco
della sua barba. Una freccia, trattenuta dalle piume, era infissa nel largo anello d’oro che gli
pendeva dall’orecchio, e un filo di sangue colava dalla tiara sulla spalla.
Ad un segnale di Mato, tutti avanzarono. Egli allargò le braccia; Spendio, con un nodo scorsoio,
gli imprigionò i polsi; un altro lo atterrò, ed egli disparve nel disordine della folla che si riversava
sui sacchi.
Saccheggiarono la sua tenda. Non vi trovarono che le cose necessarie alla vita; poi, cercando
meglio, tre immagini di Tanit, ed avvolta in una pelle di scimmia, una di quelle pietre nere che si
dicevano cadute dalla luna. Molti Cartaginesi avevano voluto accompagnarlo; erano tutti notabili
appartenenti al partito della guerra.
Furono trascinati fuori dalle tende e scaraventati nella fossa dei rifiuti. Con delle catene di ferro
furono appesi per il ventre a dei solidi pali, e si dava loro da mangiare sulla punta di un giavellotto.
Autarito, mentre li sorvegliava, li colmava di invettive, ma siccome non comprendevano affatto
la sua lingua, non reagivano; i Galli, di tanto in tanto, li colpivano con dei ciottoli per farli gridare.
Dal giorno seguente una specie di spossatezza si impadronì dell’armata. Da ché la loro collera si
era consumata, erano caduti in balìa delle inquietudini. Mato soffriva d’una vaga tristezza. Gli
sembrava di avere indirettamente oltraggiato Salammbô. Quei Ricchi erano come una parte di lei.
La notte si sedeva sul bordo della fossa, e nei loro gemiti ritrovava qualcosa di quella voce di cui
il suo cuore era colmo.
Intanto, ce l’avevano tutti coi Libici, perché erano gli unici ad essere stati pagati. Ma, nello
stesso momento in cui le antipatie etniche si ravvivavano a causa di rancori particolari, si
avvertiva quanto ciò fosse pericoloso. Le rappresaglie, dopo un simile delitto, sarebbero state
tremende. Era dunque necessario prevenire la vendetta di Cartagine. I conciliaboli, le discussioni
non avevano fine. Tutti parlavano, non si dava retta a nessuno, e Spendio, di solito tanto loquace,
ad ogni proposta scuoteva la testa.
Una sera con fare sbadato chiese a Mato se c’erano sorgenti all’interno della città.
- Nessuna – rispose quello.
L’indomani Spendio lo trascinò sulla ripida sponda del lago.
- Padrone – disse il vecchio schiavo – se hai sufficiente coraggio ti condurrò dentro Cartagine.
- In che modo? - ribatté l’altro avidamente.
- Giura di eseguire ogni mio ordine, e di seguirmi come un ombra!
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Allora Mato levando le braccia in direzione del pianeta di Chabar, esclamò:
- Per Tanit, lo giuro!
Spendio riprese:
- Domani dopo che il sole sarà calato, mi aspetterai ai piedi dell’acquedotto, tra la nona e la
decima arcata. Porta con te un piccone di ferro, un elmo senza pennacchio e dei sandali di cuoio.
L’acquedotto del quale parlava attraversava obliquamente l’istmo intero; opera considerevole
ampliata in un secondo momento dai Romani. Malgrado il suo disprezzo per gli altri popoli,
Cartagine ne aveva copiato, da inesperta, questa recente invenzione, come Roma stessa aveva
fatto con le sue galee; dunque, cinque ordini di archi sovrapposti, dall’aspetto massiccio, con dei
contrafforti alla base e delle teste di leone sulla sommità, facevano capo nella parte occidentale
dell’Acropoli, dove si infossavano sotto la città per riversare quasi un fiume nelle cisterne di
Megara.
All’ora convenuta Spendio vi si trovò con Mato. Attaccato una sorta di arpione al capo di una
corda, lo fece girare ripetutamente come una fionda, l’arnese di ferro si agganciò; ed essi si
misero, uno dietro l’altro, ad arrampicare su per il muro.
Ma una volta raggiunto il primo piano, ad ogni nuovo tentativo di lanciare il rampone, questo
ricadeva; per trovare una buona fessura dovevano camminare sul bordo della cornice; e, ad ogni
ordine di archi, questa si faceva più stretta. Alla lunga la corda si sfibrò. Più volte fu lì lì per
rompersi.
Infine raggiunsero la piattaforma superiore. Spendio, ad ogni passo, si chinava a saggiare le
pietre con le mani.
- E’ quella! – disse – Diamoci da fare! – E lavorando col piccone che aveva portato Mato,
giunsero a smuovere una delle lastre.
Scorsero, in lontananza, un drappello di cavalieri che galoppavano su dei cavalli senza briglie. I
loro bracciali d’oro ballonzolavano fra i mobili drappeggi dei mantelli. Davanti si notava un uomo
coronato di piume di struzzo, che galoppava con una lancia in ciascuna mano.
- Narava! – esclamò Mato.
- Che importa! – rispose Spendio; e saltò nel buco che si era aperto sollevando la lastra.
Mato, ubbidendo ad un suo ordine, cercò di spostare uno dei blocchi. Ma, per mancanza di
spazio, non riusciva a far forza coi gomiti.
- Ritorneremo. – disse Spendio – Vai avanti. – Allora si avventurarono nel condotto delle acque.
Ne avevano fino alla vita. Ben presto vacillarono e dovettero nuotare. I loro corpi urtavano le
pareti del canale troppo stretto. L’acqua scorreva fin quasi a lambire le lastre superiori: si
laceravano il volto. Poi la corrente prese a trascinarli. L’aria più pesante che in un sepolcro li
opprimeva al petto, e la testa sotto le braccia, i ginocchi stretti l’uno contro l’altro, il più possibile
allungati, passavano come delle frecce nell’oscurità, soffocando, boccheggiando, quasi morti.
All’improvviso, davanti a loro tutto fu nero e la velocità delle acque raddoppiava. Caddero.
Quando furono tornati in superficie restarono qualche minuto stesi sul dorso, ad aspirare l’aria,
deliziosamente. Delle arcate, una di seguito all’altra, si aprivano fra spesse muraglie che
separavano delle vasche. Erano tutte colme, e l’acqua si stendeva come un velo per tutta
l’ampiezza delle cisterne. Le cupole del soffitto lasciavano scendere attraverso degli spiragli una
luce pallida che formava sulle onde dei dischi luminosi, e le tenebre all’intorno, addensandosi
sulle pareti, le allontanavano indefinitamente. Il minimo rumore produceva una grande eco.
Spendio e Mato si rimisero a nuotare, e passando per le aperture degli archi, attraversarono una
fila di locali. Due altri ordini di vasche più piccole si stendevano parallelamente da ciascun lato.
Si smarrirono, giravano in tondo, ritornavano. Infine, qualcosa resistette sotto i loro talloni. Era il
lastricato della galleria che costeggiava le cisterne.
Allora, procedendo cautamente, tastarono la muraglia per trovare un’uscita. Ma i loro piedi
scivolavano; cadevano nella profondità delle vasche. Dovevano risalire, poi ripiombavano giù, e li
assaliva una spaventosa stanchezza, come se le loro membra nuotando si fossero dissolte
nell’acqua. I loro occhi si appannarono: pareva loro di morire.
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Spendio colpì con una mano le sbarre di una griglia. La scossero, cedette, e si ritrovarono sui
gradini di una scala. Una porta di bronzo la sbarrava in alto. Con la punta di un pugnale
scostarono la sbarra che si apriva in fuori; di colpo li investì una ventata d’aria pura.
La notte era colma di silenzio, e il cielo aveva un’altezza smisurata. Ciuffi d’alberi debordavano
dalle lunghe linee dei muri. La città intera dormiva. I fuochi degli avamposti brillavano come
delle stelle perdute.
Spendio, che aveva trascorso tre anni nell’ergastolo, non conosceva bene i quartieri. Mato
immaginò che, per andare al palazzo di Amilcare, dovevano prendere a sinistra, passando per i
Mappali.
- No – disse Spendio – conducimi al tempio di Tanit.
Mato volle replicare.
- Ricordati! – fece il vecchio schiavo; e, levando il suo braccio, gli indicò il pianeta di Chabar
che splendeva.
A quel gesto Mato silenziosamente si volse verso l’Acropoli.
Strisciavano lungo le siepi di fichi d’india che orlavano i sentieri. L’acqua colava dai loro corpi
nella polvere. I loro sandali umidi non facevano alcun rumore; Spendio, con due occhi più
fiammeggianti che torce, ad ogni passo scrutava tra i cespugli; e camminava dietro Mato, con le
mani posate sui pugnali che portava alle braccia, tenuti sotto le ascelle con un cerchio di cuoio.
33
V
TANIT
Quando furono usciti dai giardini, si trovarono bloccati dalla grossa muraglia che cingeva Megara.
Ma vi scoprirono una breccia, e passarono.
Il terreno digradava, formando una specie di vallone molto aperto. Il luogo era privo di
vegetazione.
- Ascolta – disse Spendio – e tanto per cominciare non temere!...Manterrò la mia promessa…
S’interruppe; pareva riflettere, come se cercasse le parole giuste:
- Ti ricordi quella volta, che al levar del sole, sulla terrazza di Salammbô, ti ho mostrato Cartagine?
Allora eravamo forti, ma tu non hai voluto ascoltarmi! - Poi, con voce grave:
- Padrone, nel santuario di Tanit c’è un velo misterioso, caduto dal cielo, e che ricopre la Dea.
- Lo so – disse Mato
Spendio riprese:
- Anch’esso è divino, perché fa parte di lei. Gli Dei risiedono dove si trovano i loro simulacri. E’
perché lo possiede che Cartagine è potente.
A quel punto, chinandosi al suo orecchio:
- Io ti ho condotto con me per rapirlo!
Mato indietreggiò inorridito.
- Vattene! Cerca qualcun altro! Io non voglio aiutarti a compiere questo esecrabile delitto.
- Ma Tanit è tua nemica, – replicò Spendio – ti perseguita, sei il bersaglio della sua collera. Potrai
vendicartene. Ti obbedirà. Diventerai simile a un Dio: immortale e invincibile.
Mato chinò il capo. L’altro continuò:
- Altrimenti, soccomberemo. L’armata si annienterebbe da sé. Non possiamo sperare ne nella fuga,
ne in un soccorso, e neppure nel perdono! Quale castigo degli Dei puoi temere, dal momento che
avrai la loro forza nelle tue mani? Preferisci morire la sera di una sconfitta, miseramente, dietro un
cespuglio, o esposto agli oltraggi della plebaglia, tra le fiamme dei roghi? Padrone, un giorno tu
entrerai a Cartagine, nei collegi dei pontefici, che baceranno i tuoi sandali: e se il velo di Tanit ti
peserà ancora, lo riporterai nel suo tempio. Seguimi! Vieni a prenderlo.
Un terribile desiderio divorava Mato. Avrebbe voluto, astenendosi dal sacrilegio, possedere il velo.
Si diceva che forse non aveva bisogno di prenderlo per accaparrarsene la virtù. Non andava affatto
fino in fondo ai suoi pensieri, ma si fermava al punto dove questi lo spaventavano.
- Andiamo! – disse; e si allontanarono a grandi passi, fianco a fianco, senza parlare.
Il terreno si fece ripido, e ben presto le case si avvicinarono. Vagavano per le viuzze, avvolti dalle
tenebre. Pezzi di sparto, con i quali si chiudevano le porte, battevano contro i muri. In una piazza,
alcuni cammelli ruminavano davanti a mucchi d’erba falciata. Poi passarono sotto una galleria
ricoperta di fronde. Un gruppo di cani abbaiò. All’improvviso si trovarono in uno spazio aperto, e
riconobbero il lato occidentale dell’Acropoli. Ai piedi di Byrsa si scorgeva una lunga massa scura:
era il tempio di Tanit, un insieme di monumenti e di giardini, di cortili e di anticortili, cinti da un
piccolo muro di pietre a secco. Spendio e Mato lo superarono.
Questa prima cinta conteneva un bosco di platani, per tener lontano la peste e l’aria infetta. Qua e
là vi erano disposte delle tende dove durante il giorno si vendevano creme depilatorie, profumi,
vestiti, focacce a forma di luna, e immagini della Dea con riproduzioni del tempio, ricavate in un
pezzo d’alabastro.
Non avevano nulla da temere, perché le notti nelle quali l’astro non appariva in cielo tutti i riti
venivano sospesi: tuttavia Mato esitava; si fermò davanti ai tre gradini d’ebano che conducevano
alla seconda cinta.
- Prosegui! – disse Spendio.
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Melograni, mandorli, cipressi e mirti, immobili come fronde di bronzo, si alternavano
regolarmente; la strada, selciata di ghiaia azzurra, scricchiolava sotto i passi, e delle rose fiorite
pendevano da un pergolato lungo quanto il viale. Arrivarono davanti ad un pertugio ovale, protetto
da una griglia. A quel punto, Mato, spaventato da quel silenzio, disse a Spendio:
- E’ qui che si mescolano le acque dolci con le acque amare.
- Ho già visto tutto ciò – soggiunse il vecchio schiavo - in Siria, nella città di Maphung. – e, per
una scala di sei gradini d’argento, salirono nella terza cinta.
Un cedro enorme ne occupava il centro. I suoi rami più bassi scomparivano sotto le bende di
stoffa e le collane che vi avevano appeso i fedeli. Fecero ancora alcuni passi, e la facciata del
tempio si mostrò.
Due lunghi portici, i cui architravi poggiavano su tozzi pilastri, fiancheggiavano una torre
quadrangolare che aveva la piattaforma guarnita da una mezzaluna. Negli angoli dei portici, e ai
quattro canti della torre vi erano vasi colmi di profumi accesi. Melagrane e coloquintidi
appesantivano i capitelli. Intrecci, losanghe, linee di perle si alternavano sui muri, e una siepe in
filigrana d’argento formava un largo semicerchio davanti alla scala di rame che scendeva dal
vestibolo.
Vi era sull’entrata, tra una stele d’oro e una di smeraldo, un cono di pietra; Mato, passandovi
accanto, si baciò la mano destra.
La prima stanza era molto alta; innumerevoli aperture ne traforavano la volta; alzando la testa si
potevano vedere le stelle. Intorno alle pareti, dentro cesti di canna, si ammonticchiavano delle barbe
e delle capigliature, primizie di adolescenti; e, nel mezzo della camera circolare, il corpo di una
donna usciva da una guaina ricoperta di mammelle. Grassa, barbuta, e con le palpebre abbassate,
aveva l’aria di sorridere, incrociando le mani sulla curva del suo grosso ventre, lucido per i baci
della folla.
Poi si ritrovarono all’aria aperta, in un corridoio trasversale, dove un piccolo altare si addossava
ad una porta d’avorio. Più in là non si andava; solo i sacerdoti potevano aprirla; perché un tempio
non era un luogo di riunione per la moltitudine, ma la dimora privata di una divinità.
- L’impresa è impossibile. – diceva Mato - Non avevi pensato a ciò! Andiamocene via! – Spendio ,
per contro, esaminava i muri.
Egli voleva il velo, non che avesse fiducia nei suoi poteri, poiché Spendio credeva soltanto
all’Oracolo, ma era convinto che i Cartaginesi, vedendosene privati, sarebbero caduti in una grande
prostrazione. Per trovare un varco, fecero il giro da dietro.
Si scorgevano, sotto dei boschetti di terebinto, tempietti di varia forma. Qua e là si drizzava un
fallo di pietra, e dei grossi cervi vagavano tranquilli, urtando coi loro zoccoli biforcuti delle pigne
cadute.
Ritornarono sui loro passi tra due lunghe gallerie che correvano parallele. A lato si aprivano delle
piccole celle. Tamburelli e cembali erano appesi a colonne di cedro. Alcune donne dormivano fuori
dalle celle, stese su delle stuoie. I loro corpi, spalmati di unguenti, esalavano un odore di spezie e di
profumi svaporati; erano tanto coperte di tatuaggi, di collane, d’anelli, di cinabro e di antimonio,
che le si sarebbe scambiate, senza il movimento del loro petto, per degli idoli così distesi a terra.
Delle piante di loto circondavano una fontana, dove nuotavano pesci simili a quelli di Salammbò;
poi in fondo, contro il muro del tempio, faceva mostra di sé una vite i cui tralci erano di vetro e i
grappoli di smeraldo: i raggi delle pietre preziose formavano giochi di luce, tra le colonne dipinte,
sui volti addormentati.
Mato soffocava nell’atmosfera calda che riverberava su di lui dai tramezzi di cedro. Tutti quei
simboli della fertilità, quei profumi, quegli sfavillii, quegli aliti lo estenuavano. In preda ad una
commozione mistica, egli pensava a Salammbô. Ella si confondeva con la Dea stessa, e il suo
amore cresceva più vigoroso, come le grandi ninfee che si aprivano sopra la profondità delle acque.
Spendio calcolava quanto denaro un tempo avrebbe guadagnato vendendo quelle femmine; e, con
un rapido colpo d’occhio, passando valutava le collane d’oro.
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Il tempio era, da qualunque lato, impenetrabile. Ritornarono dietro la prima stanza. Mentre
Spendio cercava, frugava, Mato, steso a terra davanti alla porta, implorava Tanit. La supplicava di
impedire quel sacrilegio. Si studiava di intenerirla con parole carezzevoli, come si fa con una
persona irritata.
Spendio notò sopra la porta una stretta apertura.
- Togliti! – disse a Mato, e lo fece addossare, in piedi, contro il muro. Allora, mettendo un piede
nelle sue mani, poi un altro sulla sua testa, arrivò all’altezza della fenditura, vi si introdusse e
disparve. Poco dopo Mato sentì cadergli sulla spalla una corda annodata, la stessa che Spendio
aveva arrotolata attorno al suo corpo prima di immergersi nelle cisterne; e aiutandosi con le due
mani, ben presto si trovò vicino a lui in una grande sala immersa nell’oscurità.
Simili profanazioni erano una cosa straordinaria. L’insufficienza dei mezzi per prevenirle
testimoniava da sola che le si giudicava impossibili. Il terrore, più delle mura, difendeva i santuari.
Mato, ad ogni passo, si aspettava di morire.
Intanto un chiarore tremolava in fondo alle tenebre; vi si avvicinarono. Era un lume che bruciava
in una conchiglia sul piedestallo di una statua, che aveva sulla testa la cuffia dei Cabiri. Dischi di
diamante tempestavano la sua lunga tunica azzurra, e delle catene, che si infilavano sotto le lastre la
fissavano al pavimento per i talloni. Mato soffocò un grido. Balbettava:
- Ah! Eccola! Eccola!...- Spendio prese la lampada per far luce.
- Che empio sei! – mormorò Mato. Tuttavia lo seguiva.
Il locale dove entrarono non conteneva altro che un dipinto nero raffigurante un’altra donna. Le
sue gambe salivano fino al sommo di una parete. Il suo corpo occupava l’intero soffitto. Dal suo
ombelico pendeva attaccato ad un filo un enorme uovo, ed ella ricadeva sull’altra parete, la testa in
basso, fino al livello del pavimento dove giungevano le sue dita aguzze.
Per non passarle accanto scostarono un drappo; ma il soffio di una corrente spense il lume.
Allora vagarono sperduti nell’intrico della costruzione. Improvvisamente sentirono sotto i loro
piedi una mollezza strana. Scaturivano scintille, brillavano; camminavano nel fuoco. Spendio tastò
il suolo e s’avvide che era accuratamente tappezzato con pelli di lince; poi ebbero l’impressione che
una grossa corda bagnata, fredda e vischiosa, scivolasse tra le loro gambe. Delle fessure, che
tagliavano la parete, lasciavano passare sottili raggi di luce. Procedevano al lume di quegli incerti
bagliori. Infine distinsero un grande serpente nero. Si slanciò veloce e disparve.
- Fuggiamo! – esclamò Mato – E’ lei! La sento; viene.
- Eh no! – rispose Spendio – Il tempio è vuoto.
In quel momento una luce abbagliante li obbligò a chiudere gli occhi. Poi scorsero tutt’intorno
un’infinità di bestie, scarne, anelanti, con gli artigli protesi, e confuse le une sopra le altre in un
disordine inesplicabile che metteva paura. Vi erano serpenti con i piedi, tori con le ali, pesci con la
testa umana che divoravano frutti, fiori che sbocciavano nelle fauci dei coccodrilli, ed elefanti con
la proboscide rialzata che volavano in pieno cielo, superbi come aquile. Un tremendo sforzo
tendeva i loro corpi manchevoli o eccessivi. Avevano l’aria, allungando la lingua, di voler sputare
l’anima; e tutte le forme erano riunite là, come se il ricettacolo degli embrioni, rompendosi per
un’improvvisa esplosione, si fosse vuotato sulle pareti della sala.
Dodici globi di cristallo azzurro la bordavano circolarmente, sostenuti da mostri che somigliavano
a tigri. Avevano occhi sporgenti come quelli delle lumache, e, piegando le reni tarchiate, si
volgevano verso il fondo, dove risplendeva, su un carro d’avorio, la somma Rabbet, l’Onnifeconda,
l’ultima creata.
Delle squame, delle piume, dei fiori e degli uccelli le salivano fino al ventre. Come orecchini
aveva cembali d’argento che le battevano sulle gote. I suoi grandi occhi fissi vi scrutavano, e una
pietra lucente, infissa nella sua fronte entro un simbolo osceno, illuminava tutta la sala, riflettendosi
al di sopra della porta su degli specchi di rame rosso.
Mato fece un passo; una lastra cedette sotto i suoi piedi, ed ecco che le sfere si misero a girare, i
mostri a ruggire, sortì una musica, melodiosa e sonora come l’armonia dei pianeti; l’anima
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tumultuosa di Tanit fluiva all’intorno. Ella era in procinto di sorgere, occupando tutta la sala, con le
braccia spalancate. Di colpo i mostri zittirono, i globi di cristallo non giravano più.
Per alcuni istanti una lugubre modulazione si trascinò nell’aria, infine si smorzò.
- E il velo? – disse Spendio.
Non lo si scorgeva da nessuna parte. Dove si trovava dunque? Come scoprirlo? E se i sacerdoti
l’avessero nascosto? Mato sentiva uno strazio al cuore e come una delusione nella sua fede.
- Per di qua! – bisbigliò Spendio. Lo guidava un’intuizione. Trascinò Mato dietro il carro di Tanit,
dove una fessura, larga un braccio, tagliava la parete dall’alto in basso.
Allora penetrarono in una piccola stanza circolare, così alta che sembrava l’interno di una colonna.
Nel mezzo c’era una grossa pietra nera, semisferica, come un tamburello; sopra ardevano delle
fiamme; dietro si alzava un cono d’ebano con una testa e due braccia.
Più oltre pareva di scorgere come una nebbia nella quale brillassero delle stelle; delle figure
apparivano nell’intimo delle sue pieghe: Eshmun con i Cabiri, alcuni dei mostri già visti, gli animali
sacri ai Babilonesi, poi dell’altro ancora che non conoscevano. Tutto ciò passava come una fascia
sotto il volto dell’idolo, e rimontando dispiegato sul muro, stava appeso per gli angoli, bluastro
come la notte, giallo come l’aurora, rosso come il sole, armonioso, diafano, scintillante, leggero.
Era il velo della Dea, il santo Zaimf che non si poteva vedere.
Impallidirono entrambi.
- Prendilo! – disse infine Mato.
Spendio non esitò; e, appoggiandosi sull’idolo, staccò il velo, che si afflosciò a terra. Mato vi
posò sopra una mano; poi introdusse la testa nell’apertura, e se lo avvolse intorno al corpo, infine
allargò le braccia per rimirarlo meglio.
- Andiamocene! – disse Spendio.
Mato restava fermo con gli occhi fissi a terra, ansimando. Di colpo, esclamò:
- Ma se io andassi da lei? Io non temo più la sua bellezza! Cosa potrebbe contro di me? Eccomi più
di un uomo, ora. Potrei attraversare il fuoco, camminare sull’acqua! Un impeto mi trascina!
Salammbô! Salammbô! Sono il tuo padrone!
La sua voce tuonava. Sembrava, a Spendio, come trasfigurato e più alto di statura.
Si avvicinò un rumore di passi, si aprì una porta e apparve un uomo, un sacerdote, con un alto
copricapo e gli occhi sgranati. Prima che avesse fatto un gesto, Spendio s’era precipitato, e
serrandolo tra le braccia, gli aveva affondato nei fianchi i suoi due pugnali. La testa risuonò sulle
lastre di pietra.
Poi, immobili come il morto, restarono per qualche tempo in ascolto. Non si sentiva che il
mormorio del vento attraverso la porta socchiusa.
Conduceva ad uno stretto passaggio. Spendio vi si introdusse, Mato lo seguì, e si ritrovarono nella
terza cinta, entro i portici laterali, dove abitavano i sacerdoti.
Dietro le celle doveva esserci una scorciatoia per uscire, si affrettarono.
Spendio, accovacciandosi sul bordo della fontana, lavò le sue mani sporche di sangue. Le donne
dormivano. La vite di smeraldo brillava. Si rimisero in marcia.
Ma qualcuno, sotto gli alberi, correva dietro loro; e Mato, che portava il velo, sentì più volte che
veniva tirato, dal basso, con dolcezza. Era un grande cinocefalo, uno di quelli che vivevano liberi
nel recinto della Dea. Come se avesse avuto coscienza del furto, si aggrappava al manto. Ma non
osavano colpirlo, nel timore di raddoppiare i suoi gridi; improvvisamente la sua furia sbollì, e
trotterellava vicino a loro, fianco a fianco, dondolando il corpo, con le sue lunghe braccia che
penzolavano. Poi, alla barriera, d’un balzo, saltò su di una palma.
Quando furono usciti dall’ultimo recinto, si diressero verso il palazzo di Amilcare; poiché
Spendio aveva capito che era inutile voler distogliere Mato.
Presero per la via dei Conciatori, la piazza di Muthumbal, il mercato delle erbe e l’incrocio di
Cynasyn. All’angolo di un muro, un uomo si scostò, spaventato da quella cosa scintillante che
passava nella notte.
- Nascondi lo Zaimf ! - disse Spendio.
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Incrociarono altra gente; ma passarono inosservati.
Finalmente riconobbero le case di Megara.
Alle sue spalle, il faro, edificato sulla cima della falesia, illuminava il cielo d’un gran chiarore
rosso, e l’ombra del palazzo, con le sue terrazze sovrapposte, si proiettava sui giardini come una
mostruosa piramide. Entrarono attraverso la siepe di giuggioli, abbattendone i rami a colpi di
pugnale.
Ogni cosa serbava le tracce del festino dei Mercenari. I parchi erano devastati, i canaletti
inariditi, le porte dell’ergastolo spalancate. Nei pressi delle cucine e dei magazzini non c’era
anima viva. Si stupivano di quel silenzio, interrotto a tratti dal soffio rauco degli elefanti che si
agitavano nelle pastoie, e dal crepitare del faro dove fiammeggiava un rogo di aloe.
Mato, tuttavia, ripeteva:
- Dov’è? Voglio vederla! Conducimi da lei!
- E’ una follia – diceva Spendio – chiamerà, i suoi schiavi accorreranno, e malgrado la tua forza,
morirai!
Raggiunsero così la scalinata delle galee. Mato alzò la testa, e credette di vedere, in alto, un
vago chiarore raggiante e delicato. Spendio volle trattenerlo. Egli si lanciò su per i gradini.
Ritrovandosi nel luogo ove l’aveva di già veduta, nella sua memoria si cancellò l’intervallo
dei giorni trascorsi. Poco prima ella cantava tra le tavole; poi era sparita, e dal quel momento
egli saliva senza posa quelle scale. Il cielo, sopra la sua testa, era coperto di stelle; il mare
riempiva l’orizzonte; ad ogni passo un’immensità più vasta lo circondava, ed egli continuava a
salire con la strana facilità che si prova in sogno.
Il fruscio del velo che sfiorava le pietre gli ricordò il suo nuovo potere; ma, nell’eccesso della
sua speranza, non sapeva più al momento che cosa doveva fare; questa incertezza lo rendeva
timido.
Ogni poco, appoggiava il viso contro le aperture quadrangolari degli appartamenti sbarrati, in
parecchi credette di vedere della gente che dormiva.
L’ultimo piano, il più stretto, formava come un dado in cima alle terrazze. Mato ne fece il giro,
lentamente.
Una luce biancastra riempiva i fogli di talco che chiudevano le piccole aperture della parete;
queste, simmetricamente disposte, somigliavano ad una teoria di minute perle. Riconobbe la
porta rossa con la croce nera. I battiti del suo cuore raddoppiarono. Avrebbe voluto fuggire.
Spinse la porta, che si aprì.
Una lampada in forma di galea bruciava sospesa nella profondità della camera; e tre raggi, che
si sprigionavano dalla sua carena d’argento, tremolavano sugli alti fregi dipinti di rosso a bande
nere. Il soffitto era una connessione di travicelle, che nel mezzo della loro doratura avevano
delle ametiste e dei topazi infissi nei nodi del legno. Sui due lati maggiori dell’appartamento, si
allungava un letto molto basso fatto di corregge bianche; e sopra, nello spessore della parete, si
aprivano dei cesti, somiglianti a conchiglie, lasciando traboccare del vestiario che pendeva fino
a terra.
Un gradino di onice circondava una vasca ovale; delle graziose pantofole in pelle di serpente
erano posate sul bordo insieme ad una caraffa di alabastro. Al di là si scorgeva la traccia di un
piede bagnato. Dei profumi squisiti svaporavano.
Mato sfiorò le lastre di pietra incrostate d’oro, di madreperla e di vetro; e nonostante la
lucentezza del pavimento, gli sembrava che i suoi piedi sprofondassero come se camminasse
nella sabbia.
Aveva scorto dietro la lampada d’argento un gran riquadro azzurro sostenuto a mezz’aria da
quattro corde che risalivano, ed egli si protendeva, con le reni inarcate, la bocca aperta.
Delle piume di fenicottero adattate su rami di corallo nero stavano alla rinfusa tra i cuscini di
porpora e le spazzole di scaglie, i cofanetti di cedro, le spatole d’avorio. A delle corna di
antilope erano infilati dei cerchietti e dei bracciali; e alcuni vasi di argilla raffreddavano all’aria
in una fenditura del muro, su un graticcio di canne. Più volte urtò con il piede, perché il
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pavimento aveva diversi livelli di altezza che creavano nella camera come un susseguirsi di
appartamenti. In fondo, una ringhiera d’argento circondava un tappeto ornato di fiori dipinti.
Infine giunse contro il letto sospeso, vicino ad uno sgabello che serviva per salirvi.
Ma la luce si arrestava sul bordo, e l’ombra, come un grande velo, non scopriva che l’angolo
dello strapunto rosso con la punta di un piccolo piede nudo poggiante sulla caviglia. Allora
Mato, con cautela, avvicinò la lampada.
Lei dormiva, la gota in una mano e l’altro braccio disteso. I riccioli della sua capigliatura le si
spandevano intorno tanto numerosi che pareva addormentata su un giaciglio di nere piume, e la
sua larga tunica bianca si increspava in morbidi drappeggi, fino ai suoi piedi, seguendo le
pieghe del suo corpo. Si scorgevano un poco i suoi occhi, tra le palpebre socchiuse. Le cortine,
tese perpendicolarmente, la avvolgevano in una atmosfera azzurrina, e il movimento della sua
respirazione, comunicandosi alle corde, pareva dondolarla nell’aria. Una zanzara ronzava senza
posa.
Mato, immobile, tendeva il braccio con la galea d’argento, ma la zanzariera improvvisamente
prese fuoco, svanì, e Salammbô si risvegliò.
La fiamma si estinse da sé. Ella non parlava. La lampada faceva oscillare sui fregi delle grandi
iridescenze luminose.
- Cos’è dunque questo? - disse ella. Lui rispose:
- È il velo della Dea!
- Il velo della Dea! Esclamò Salammbô fremente, e si sporgeva in fuori appoggiata sui pugni.
Egli riprese:
- Sono andato a cercarlo per te nell’intimo del santuario! Guarda! – Lo Zaimf risplendeva di
una luce intensa.
- Te ne rammenti? – diceva Mato – La notte, apparivi nei miei sogni; ma io non indovinavo
l’ordine muto dei tuoi occhi! – Ella allungava un piede sullo sgabello d’ebano – Se l’avessi
compreso sarei accorso; avrei abbandonato l’armata; non me ne sarei andato da Cartagine. Per
obbedirti, io scenderei attraverso la caverna di Adrumeto nel regno delle Ombre…Perdonami!
C’erano come delle montagne che pesavano sui miei giorni; e tuttavia qualcosa mi trascinava!
Io mi sforzavo di giungere fino a te! Senza gli Dei, mai forse avrei osato!...Andiamocene! Devi
seguirmi! Oppure, se non vuoi, resterò io. Cosa m’importa…Annega la mia anima nel soffio del
tuo respiro! Che le mie labbra si pieghino a baciarti le mani!
- Lasciami vedere! – diceva ella – Più vicino! Più vicino!
Albeggiava, e i fogli di talco nei muri si tingevano di violetto. Salammbô in deliquio si
appoggiava ai cuscini del letto.
- Ti amo! – esclamò Mato.
Lei balbettò:
- Dammelo! - Frattanto si andavano incontro.
Ella continuava ad avanzare, con i suoi grandi occhi fissi sul velo, strascicando la lunga veste
bianca che la copriva. Mato la contemplava, abbagliato dallo splendore del suo volto, e
tendendo verso di lei lo Zaimf, stava per avvolgerla in una stretta. Lei allargava le braccia.
All’improvviso si fermò, e restarono così, a braccia spalancate, guardandosi.
Senza intuire ciò che lui voleva, fu presa dal terrore. Le sue sottili sopracciglia si sollevarono,
le sue labbra si dischiudevano; tremava. Infine, batté sopra una delle patere di rame appese agli
angoli dello strapunto rosso, gridando:
- Aiuto! Aiuto! Indietro, sacrilego! Infame! Maledetto! A me, Taanach, Krùm, Ewa, Micipsa,
Schaul!
In quel momento il viso atterrito di Spendio, apparendo nella parete tra i vasi di argilla, lanciò
queste parole:
- Scappa dunque! Vengono!
Si levò un gran trambusto creando confusione sulle scale, e una marea di gente, donne, valletti,
schiavi, si slanciarono nella camera armati di spiedi, mazze, coltellacci, pugnali. Restarono
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come paralizzati per l’indignazione scorgendovi un uomo; le serve cacciavano guaiti lamentosi
come ai funerali, e gli eunuchi impallidivano sotto la loro pelle nera.
Mato stava dietro la ringhiera. Avvolto nello Zaimf, sembrava un dio siderale tutto circondato
di stelle. Gli schiavi erano in procinto di gettarsi su di lui. Ella li fermò:
- Non lo toccate! E’ il velo della Dea!
Era indietreggiata in un angolo; ma fece un passo verso di lui e, allungando un braccio nudo:
- Sii maledetto perché hai derubato Tanit! Odio, vendetta, massacro e dolore! Che Gurzil, dio
della guerra, ti dilani! Che Matisman, dio dei morti, ti soffochi! E che L’Altro, colui che non si
deve nominare, ti bruci!
Mato cacciò un grido come per la ferita di una spada. Ella ripeté più volte:
- Vattene! Vattene!
La folla di servitori si scostò, e Mato, a testa bassa, passò tra di loro lentamente; ma giunto
alla porta si arrestò, perché la frangia dello Zaimf s’era impigliata in una delle stelle d’oro che
decoravano il lastricato. Gli diede uno strattone con un colpo di spalla, e discese le scalinate.
Spendio, balzando di terrazza in terrazza e scavalcando le siepi, i fossi, era fuggito dai giardini.
Arrivò ai piedi del faro. Il muro in quel punto non era sorvegliato, tanto la falesia era
inaccessibile. Avanzò fino al bordo, si distese sulla schiena, e, i piedi in avanti, si lasciò
scivolare lungo tutta la scarpata fino in basso; poi faticosamente guadagnò a nuoto il capo delle
Tombe, fece un gran giro attraverso la laguna salata, e la sera rientrò al campo dei Barbari.
Il sole si era levato; e, come un leone che si ritira, Mato discendeva le strade, lanciando
all’intorno terribili occhiate.
Un vago brusio giungeva alle sue orecchie. Era partito dal palazzo e si ripeteva in lontananza,
dal lato dell’Acropoli. Si vociferava che era stato rubato il tesoro della Repubblica nel tempio di
Moloch; v’era chi parlava di un sacerdote assassinato. Altrove ci si immaginava che i Barbari
fossero entrati in città.
Mato, che non sapeva come uscire dalle mura, camminava diritto innanzi a sé. Venne scorto,
allora si alzò un baccano. Tutti avevano capito; il fatto li lasciò sbigottiti, seguì una collera
incontenibile.
Dal fondo dei Mappali, dalle alture dell’Acropoli, dalle catacombe, dalle rive del lago, accorse
una folla. I patrizi uscivano dai loro palazzi, i venditori dalle loro botteghe; le donne lasciavano
soli i figli; tutti si armavano di spade, di asce, di bastoni; ma l’inconveniente che aveva
ostacolato Salammbô li trattenne. Come riprendere il velo? La sua sola vista era un delitto: era
della medesima natura degli Dei e il suo contatto faceva morire.
Nei peristili dei templi i sacerdoti si torcevano le mani disperati. Le guardie della Legione
galoppavano a casaccio: si saliva sui tetti delle case, sulle terrazze, sulle spalle dei colossi e
sugli alberi delle navi. Ciononostante Mato continuava a procedere, e ad ogni suo passo
aumentava la rabbia, ma anche la paura. Al suo avvicinarsi le strade si svuotavano, e quel
torrente di uomini in fuga schizzava ai due lati fin sulla sommità delle mura. Ovunque guardasse,
non vedeva che occhi spalancati come pronti per divorarlo, fauci digrignanti, pugni tesi, e le
maledizioni di Salammbô riecheggiavano moltiplicandosi.
All’improvviso sibilò una freccia, poi un’altra, e delle pietre ronzavano: ma i colpi, mal diretti,
perché si temeva di colpire lo Zaimf , passavano sopra la sua testa. D’altra parte facendosi scudo
del velo, lo tendeva a destra, a sinistra, davanti e dietro sé; ed i Cartaginesi non sapevano come
fare. Camminava sempre più in fretta, inoltrandosi nelle strade che gli si aprivano davanti. Le
trovava sbarrate con delle corde, dei carri, delle trappole; ad ogni ostacolo tornava sui suoi passi.
Infine entrò nella piazza di Khamon, dov’erano morti i Baleari; Mato si fermò, impallidendo
come chi va alla morte. Questa volta era davvero perduto; la folla batteva le mani.
Corse fino alla grande porta chiusa. Era molto alta, di solida quercia, con dei chiodi di ferro e
rivestita di bronzo. Mato le si gettò contro. Il popolo non si teneva più per la contentezza
vedendo l’impotenza del suo furore; allora egli prese un suo sandalo, vi sputò sopra e con quello
schiaffeggiò gli irremovibili pannelli. La città intera urlò. Si dimenticavano il velo, ora, e
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stavano per schiacciarlo. Mato roteò sulla folla due grandi occhi smarriti. Le sue tempie
battevano tanto da assordarlo; si sentiva stordito dall’ebbrezza del popolo. Improvvisamente
scorse la lunga catena che si tirava per manovrare la bascula della porta. Con un balzo vi si
aggrappò tendendo le sue braccia, inarcandosi sui piedi; e, alla fine, gli enormi battenti si
socchiusero.
Quando fu all’esterno, si tolse dal collo il grande Zaimf e lo sollevò sopra il capo più in alto
che poteva. La stoffa, sostenuta dalla brezza che veniva dal mare, risplendeva al sole coi suoi
colori, le sue gemme, e le immagini delle sue divinità. Mato, tenendolo così, attraversò tutta la
piana fino alle tende dei soldati, mentre il popolo, sulle mura, guardava la fortuna fuggirsene via
da Cartagine.
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VI
ANNONE
- Avrei dovuto rapirla! – diceva la sera a Spendio – Bisognava agguantarla e portarla via dalla
sua casa! Nessuno si sarebbe avventurato contro di me!
Spendio non lo stava a sentire. Steso sulla schiena, si riposava piacevolmente vicino a una
grande giara piena di acqua melata, nella quale ogni tanto tuffava la testa per bere più
comodamente.
Mato riprese:
- Che fare?...Come rientrare in Cartagine?
- Non lo so - gli disse Spendio.
- Eh! La colpa è tua! Prima mi trascini, poi mi abbandoni, non sei altro che un vigliacco!
Perché dovrei obbedirti? Ti credi il mio padrone? Ah! Ruffiano! Schiavo, figlio di una
schiava! – Digrignava i denti levando contro Spendio la sua enorme mano.
Il Greco non rispose. Una lampada d’argilla bruciava piano contro il palo della tenda, dove
nella panoplìa sospesa si rifletteva lo Zaimf.
Tutto ad un tratto, Mato calzò i coturni, si allacciò la giacchetta in lamine di bronzo, prese
l’elmo.
- Dove vai? – chiese Spendio.
- Torno là! Lasciami! La riporterò! E se qualcuno di loro si fa avanti, lo schiaccio come una
vipera! La farò morire, Spendio! – ripeté – Si! La ucciderò! Vedrai, la ucciderò!
Ma Spendio, che teneva le orecchie aperte, di colpo prese lo Zaimf e lo gettò in un angolo,
ammucchiandolo sopra delle pelli. Si udì un mormorio di voci, brillarono delle torce, e Narava
entrò, seguito da una ventina d’uomini circa.
Avevano addosso mantelli di lana bianca, lunghi pugnali, cinture di cuoio, orecchini di legno,
calzature in pelle di iena; e, fermi sulla soglia, si appoggiavano alle loro lance come pastori che
si riposano. Narava spiccava su tutti; delle strisce di cuoio guarnite di perle gli serravano le
braccia esili; l’ampia veste era fissata attorno al suo capo da un cerchio d’oro ornato da una
piuma di struzzo che gli ricadeva sulle spalle; un eterno sorriso gli scopriva i denti; i suoi occhi
sembravano aguzzi come frecce, e tutta la sua persona dava un’impressione di agilità e
prontezza.
Dichiarò che veniva ad unirsi ai Mercenari, perché la Repubblica da gran tempo minacciava il
suo regno. Dunque era suo interesse aiutare i Barbari, e poteva ancora essere loro utile.
- Vi fornirò degli elefanti (le mie foreste ne sono piene), vino, olio, orzo, datteri, pece, zolfo per
gli assedi, ventimila fanti e diecimila cavalli. Se mi rivolgo a te, Mato, è perché il possesso dello
Zaimf ti ha reso il primo dell’armata. – Aggiunse:
- D’altra parte, siamo vecchi amici.
Mato, nel frattempo, osservava Spendio che ascoltava seduto su delle pelli di montone,
facendo col capo segni di assenso. Narava parlava, prendeva a testimoni gli Dei, malediceva
Cartagine. Mentre inveiva spezzò un giavellotto. Tutti i suoi uomini insieme lanciarono un urlo,
e Mato, trascinato da quel furore, affermò che accettava l’alleanza.
Allora si portò davanti a loro un toro bianco e una pecora nera, simboli l’uno del giorno,
l’altra della notte. Li si sgozzò sull’orlo di una buca. Quando fu colma di sangue, i due vi
immersero le braccia. Poi Narava stese la sua mano sul petto di Mato, e Mato la sua su quello di
Narava. Riprodussero questo segno sul telo delle loro tende. Trascorsero la notte seguente
banchettando, e gli avanzi delle carni insieme alla pelle, alle ossa, alle corna e alle unghie
vennero bruciati.
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Una grandissima acclamazione aveva salutato Mato quando era tornato portando il velo della
Dea; anche coloro che non erano di religione cananea sentirono, nel loro vago entusiasmo, che
sopraggiungeva un Genio. Quanto a cercare di impadronirsi dello Zaimf, non ci pensò proprio
nessuno; la misteriosa maniera con la quale Mato l’aveva acquisito, era sufficiente, nello spirito
dei Barbari, a legittimarne il possesso. Così pensavano i soldati di razza africana. Gli altri, il cui
odio era meno antico, non sapevano cosa decidere. Se avessero avuto delle navi, se ne sarebbero
andati immediatamente.
Spendio, Narava e Mato mandarono degli uomini a tutte le tribù del territorio punico.
Cartagine estenuava quelle popolazioni. Esigeva esorbitanti tributi; e la spada, la scure o la
croce punivano gli indugi e perfino le lagnanze. Bisognava coltivare ciò che conveniva alla
Repubblica, fornire quello che essa chiedeva; nessuno aveva il diritto di possedere armi; quando
un villaggio si rivoltava, i suoi abitanti venivano venduti; i governatori erano stimati come
torchi dalla quantità di ricchezze che sapevano spremere. Poi, oltre le regioni direttamente
sottomesse a Cartagine, v’erano le alleate che pagavano solo un modesto tributo; alle spalle di
queste vagabondavano i Nomadi, alle cui razzie potevano sempre essere abbandonate. Grazie a
questo sistema i raccolti erano sempre abbondanti, gli allevamenti saggiamente diretti, le
piantagioni superbe. Il vecchio Catone, un esperto in fatto di lavori agricoli e di schiavi,
novantadue anni più tardi ne restò meravigliato, e il grido di morte che ripeteva in Roma non era
altro che l’esclamazione di una cupida gelosia.
Durante l’ultima guerra, le esazioni erano raddoppiate, così che le città della Libia, quasi tutte,
si erano consegnate a Regolo. Per punirle, si erano pretesi da esse mille talenti, ventimila buoi,
trecento sacchi di polvere d’oro, considerevoli versamenti anticipati di grano, e i capi delle tribù
erano stati crocefissi o dati in pasto ai leoni.
Tunisi sopra tutte odiava Cartagine! Più antica della metropoli, non le perdonava la sua attuale
grandezza; stava di fronte alle sue mura, in riva all’acqua, accucciata nel fango come un animale
velenoso, senza perderla d’occhio. Le deportazioni, i massacri e le epidemie non l’avevano
fiaccata. Aveva sostenuto Arcagato figlio di Agatocle. I Mangiatori di cose immonde,
prontamente, vi trovarono delle armi.
I corrieri non erano ancora partiti, che nelle provincie scoppiarono grandi manifestazioni di
gioia. Senza nulla attendere si strangolarono nei bagni gli amministratori dei latifondi e i
funzionari della Repubblica; si recuperarono nelle caverne le vecchie armi che vi erano state
nascoste; con il ferro degli aratri si forgiarono spade; sulle porte di casa i bambini affilavano
giavellotti, e le donne si spogliarono delle loro collane, degli anelli, degli orecchini, di tutto ciò
che potesse servire alla rovina di Cartagine. Ognuno, in breve, vi voleva contribuire. I fasci di
lance si accumulavano nei villaggi come covoni di granturco. Si spedì bestiame e denaro. Mato
ben presto saldò ai Mercenari gli arretrati delle loro paghe, e per questa trovata di Spendio
venne nominato generale in capo, shalishim dei Barbari.
Intanto, affluivano rinforzi di uomini. Per prime arrivarono le genti di razza autoctona, poi gli
schiavi delle campagne. Furono intercettate carovane di Negri, le si armò, e i mercanti diretti a
Cartagine, nella speranza di un più sicuro profitto, si mischiarono ai Barbari. Giungevano
incessantemente brigate numerose. Dalle alture dell’Acropoli si vedeva l’armata farsi sempre
più grande.
Sulla piattaforma dell’acquedotto, erano state poste di sentinella le guardie della Legione, e
accanto a loro, di tanto in tanto, sorgevano tini di rame nei quali ribolliva l’asfalto. In basso,
nella piana, la moltitudine si agitava in una grande confusione. Erano indecisi, provando
quell’imbarazzo che l’incontro con delle mura ispira sempre ai Barbari.
Utica e Ippo Zarito rifiutarono la loro alleanza. Colonie fenicie come Cartagine, si
governavano da sé, e, nei trattati che concludeva la Repubblica, ogni volta facevano inserire
delle clausole in loro favore. Però rispettavano quella sorella più potente, che le proteggeva, e
non credevano affatto che un ammasso di Barbari fosse capace di sconfiggerla; pensavano, al
contrario, che sarebbero stati sterminati. Desideravano restare neutrali e vivere in pace.
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Ma la loro posizione le rendeva indispensabili. Utica, sul fondo di un golfo, era comoda per
far giungere a Cartagine soccorsi dall’esterno. Se poi Utica fosse caduta, Ippo Zarito, a sei ore
di marcia sulla costa, l’avrebbe rimpiazzata, e la metropoli, in tal maniera certa dei rifornimenti,
sarebbe stata inespugnabile.
Spendio voleva che si intraprendesse l’assedio immediatamente, Narava si oppose; dapprima
era necessario portarsi sui confini. Questa era l’opinione dei veterani, quella di Mato stesso, così
fu deciso che Spendio sarebbe andato ad attaccare Utica, Mato Ippo Zarito; il terzo corpo
d’armata, appoggiandosi su Tunisi, avrebbe occupato la piana di Cartagine; se ne incaricò
Autarito. Quanto a Narava, doveva ritornare nel suo regno per fare incetta di elefanti, e battere
le strade con i suoi cavalieri.
Le donne strillarono forte contro queste decisioni; volevano i gioielli delle matrone cartaginesi.
Anche i Libici reclamarono. Li si aveva chiamati per andare contro Cartagine, ed ecco che ci si
dirigeva altrove! I soldati partirono pressoché soli. Mato comandava i suoi compagni, gli Iberici,
i Lusitani, gli uomini dell’Occidente e delle isole, mentre tutti coloro che parlavano greco si
erano uniti a Spendio, a causa del suo spirito.
La sorpresa fu grande quando si vide l’armata muoversi di colpo; poi si allungò ai piedi delle
alture dell’Ariana, sulla strada di Utica, lungo la costa del mare. Un troncone si arrestò innanzi a
Tunisi, il resto scomparve, e riapparve sull’altra sponda del golfo, ai confini di un bosco, nel
quale si inoltrò.
Erano ottantamila uomini, all’incirca. Le due città tirie non avrebbero resistito; ed essi si
sarebbero riversati addosso a Cartagine. Di già una considerevole armata la metteva in pericolo,
occupandone l’istmo alla base, e in breve sarebbe caduta per fame, perché non era in grado di
vivere senza l’ausilio delle provincie, in quanto i suoi cittadini non versavano, come a Roma,
dei contributi. Il talento politico mancava a Cartagine. Il suo eterno affanno per il pane le
impediva di avere quella prudenza che è propria delle aspirazioni più elevate. Galea ancorata nel
deserto libico, si manteneva sulla forza lavoro. Le popolazioni barbare, come onde, muggivano
attorno ad essa, e la più piccola tempesta scuoteva quella formidabile macchina.
Il tesoro era immiserito per la guerra contro Roma e per tutto quanto si era dilapidato, perduto,
mercanteggiando con i Barbari. Ciononostante occorrevano soldati e nessun governo era
disposto a far credito alla Repubblica. Tolomeo le aveva da poco rifiutato duemila talenti.
D’altra parte il rapimento del velo la scoraggiava. Spendio l’aveva ben previsto.
Ma quel popolo, sentendosi odiato, si avvinghiava alle proprie ricchezze e ai propri dei; e il
suo patriottismo era sostenuto dalla forma stessa del suo governo.
In primo luogo, il potere scaturiva da tutti senza che alcuno fosse abbastanza forte per
accaparrarselo. I debiti dei singoli erano considerati debiti pubblici, gli uomini di razza cananea
avevano il monopolio del commercio; moltiplicando gli utili della pirateria con quelli dell’usura,
sfruttando senza riguardo le terre, gli schiavi e i poveri, a volte giungevano alla ricchezza. Essa
sola apriva le porte di tutte le magistrature; e, benché il potere e la ricchezza si perpetuassero
nelle stesse famiglie, l’oligarchia era tollerata solo perché si coltivava la speranza di farne parte
un giorno.
Le società di commercianti, che elaboravano le leggi, sceglievano gli ispettori delle finanze, i
quali, al termine del loro incarico nominavano i cento membri del Consiglio degli Anziani,
soggetti essi stessi alla Grande Assemblea, riunione generale di tutti i Ricchi. Quanto ai due
Suffeti, quei relitti di re, che valevano meno dei consoli, erano scelti lo stesso giorno in due
diverse famiglie. Li si metteva in discordia con ogni sorta di rivalità, affinché si fiaccassero
reciprocamente. Non potevano deliberare la guerra; e, quando erano vinti, il Gran Consiglio li
faceva crocifiggere.
Dunque il potere a Cartagine emanava dai Sissizi, vale a dire da una grande corte nel cuore di
Malqua, il luogo, si diceva, dove era approdata la prima barca di marinai fenici, essendosi il
mare, da allora, ritirato di molto. Era un complesso di piccole camere in un edificio antico, con
le pareti in tronchi di palma e gli angoli in pietra, separate le une dalle altre per garantire alle
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differenti compagnie la riservatezza. I Ricchi si ammassavano là tutto il giorno per discutere i
loro interessi e quelli del governo, dall’incetta del pepe alla distruzione di Roma. Tre volte per
luna facevano portare i loro sofà sulle alte terrazze che circondavano il muro della corte; e dal
basso li si vedeva seduti a tavola nell’aria, senza coturni e senza mantelli, con le loro dita
cariche di diamanti che passeggiavano sulle vivande e i loro enormi orecchini che pendevano
tra le fiasche; grossi e grassi, seminudi, felici, che ridevano e mangiavano nell’azzurro del cielo,
simili a enormi pescicani che si sollazzano in mezzo al mare.
Ma al presente non potevano dissimulare la loro inquietudine, erano troppo pallidi; la folla che
li attendeva alle porte li scortava fino ai loro palazzi per cavarne qualche nuova. Come in tempo
di peste, tutte le porte erano sprangate; le strade si riempivano e si vuotavano repentinamente; si
saliva all’Acropoli; si correva al porto; ogni notte il Gran Consiglio prendeva decisioni. Infine il
popolo fu convocato sulla piazza di Khamon, e si decise di rimettersi nelle mani di Annone, il
vincitore di Ecatompilo.
Era un uomo devoto, scaltro, spietato con le stirpi africane, un vero Cartaginese. Le sue
rendite erano pari a quelle dei Barca. Nessuno aveva quanto lui esperienza degli affari
amministrativi.
Decretò l’arruolamento di tutti i cittadini validi, piazzò delle catapulte sulle torri, pretese un
esorbitante approvvigionamento di armi, ordinò pure la costruzione di quattordici galee delle
quali non si aveva punto bisogno; e volle che ogni cosa venisse registrata, accuratamente scritta.
Si faceva portare all’arsenale, al faro, nel tesoro dei templi; in ogni momento si poteva scorgere
la sua lettiga che, dondolando di gradino in gradino, saliva le scalinate dell’Acropoli. Nel suo
palazzo, la notte, siccome non poteva dormire, per prepararsi alla battaglia, urlava, con voce
terribile, ordini di guerra.
Tutti, per la troppa paura, diventavano coraggiosi. I Ricchi, già all’alba, si schieravano lungo
i Mappali; e, rimboccate le vesti, si esercitavano a maneggiare la picca. Ma, in mancanza di
istruttori, litigavano fra loro. Trafelati si sedevano sulle tombe, dopo un po’ ricominciavano.
Molti si imposero un regime. Alcuni, immaginandosi che fosse necessario mangiare
abbondantemente per acquisire vigore, si rimpinzavano, e altri, impacciati dalla loro mole,
s’estenuavano a forza di digiuni per dimagrire.
Utica aveva da tempo ripetutamente reclamato il soccorso di Cartagine. Ma Annone non
voleva affatto partire finché ai congegni bellici mancasse l’ultima madrevite. Perse ancora tre
lune ad equipaggiare i centododici elefanti ricoverati nei bastioni; erano i vincitori di Regolo; il
popolo li adorava; non erano mai troppi i riguardi per quei vecchi amici. Annone fece rifondere
le piastre di rame che guarnivano i loro pettorali, fece dorare le loro zanne, ampliare le loro
torrette, e tagliare nella porpora una bellissima gualdrappa bordata di pesanti frange. Infine,
siccome i loro conducenti venivano detti Indiani, poiché senza dubbio i primi erano giunti
dall’India, ordinò che fossero tutti abbigliati alla moda indiana; vale a dire che portavano una
ciambella bianca intorno alle tempie e un calzoncino di bisso che formava, con le sue pieghe
trasversali, come le due valve di una conchiglia intorno ai fianchi.
Intanto l’armata di Autarito rimaneva davanti a Tunisi. Si nascondeva dietro un bastione
costruito con la mota del lago e difeso con dei cespugli spinosi posti sulla sua sommità. Alcuni
Negri vi avevano piantato qua e là, su grandi bastoni, degli spauracchi; maschere umane fatte
con piume d’uccello, teste di sciacalli o di serpenti che spalancavano le fauci verso il nemico
per spaventarlo; e credendosi per ciò invincibili, i Barbari danzavano, lottavano, giocavano,
convinti che Cartagine non tarderebbe a soccombere. Uno diverso da Annone avrebbe
schiacciato con facilità quella moltitudine, ingombra di pecore di buoi e di donne. Oltretutto,
non capivano niente di manovre militari, e Autarito scoraggiato li lasciava fare.
Si scostavano, quando passava roteando i suoi grandi occhi azzurri. Poi, giunto sulla riva del
lago, sollevava il saio in pelle di foca, scioglieva la corda che gli legava i lunghi capelli rossi e li
immergeva nell’acqua. Rimpiangeva di non essere passato ai Romani con i duemila Galli del
tempio di Erice.
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Spesso a metà giornata, il sole perdeva di colpo la sua forza. Allora, il golfo e il mare aperto
sembravano stagnare immobili come il piombo fuso. Un sipario di polvere bruna, distesa
perpendicolarmente, correva turbinando; le palme si piegavano, il cielo scompariva, si udivano
rimbalzare dei sassi sulla groppa delle bestie; e il Gallo, le labbra incollate al pertugio della sua
tenda, rantolava di spossamento e di malinconia. Pensava all’odore dei pascoli nei mattini
d’autunno, ai fiocchi di neve, ai muggiti degli uri spersi nella nebbia, e chiudendo gli occhi, gli
pareva di scorgere i fuochi delle lunghe capanne, coperte di paglia, tremolare sulle paludi, nel
fondo dei boschi.
V’erano altri che rimpiangevano la patria, benché non fosse così lontana. In effetti i
prigionieri Cartaginesi potevano distinguere al di là del golfo, sui pendii di Byrsa , i velari delle
loro case distesi nelle corti. Ma erano guardati a vista dalle sentinelle; tutti legati ad una sola
catena; ognuno gravato da una gogna di ferro, e la folla non si stancava mai di venire ad
osservarli. Le donne indicavano ai propri figli le belle vesti, ridotte a brandelli, che pendevano
dalle loro membra smagrite.
Ogni volta che Autarito guardava Giscone, era preso dal furore ricordando il suo sgarbo; lo
avrebbe ucciso senza il giuramento fatto a Narava. In quei momenti rientrava nella propria tenda,
tracannava un miscuglio di orzo e di cumino fino a cadere ubriaco – dopo un po’ si risvegliava
sotto un sole implacabile, divorato da una sete terribile.
Nel frattempo Mato assediava Ippo Zarito.
Ma la città era protetta da un lago che comunicava con il mare. Aveva tre cinte, e sulle alture
che la dominavano correva una muraglia fortificata di torri. Mai aveva comandato simili
imprese. Inoltre era ossessionato dal pensiero di Salammbô, e fantasticava, nel godimento della
sua bellezza, come il piacere di una vendetta che lo riempiva di orgoglio. Aveva un bisogno
pungente, furibondo, permanente di rivederla. Pensò addirittura di offrirsi come negoziatore,
sperando che una volta dentro Cartagine, potesse giungere fino a lei. Spesso faceva suonare
l’assalto, e, senza alcuna esitazione, si avventava contro l’argine che si tentava di erigere nel
mare. Rimuoveva le pietre con le sue mani, le rovesciava, le colpiva, affondava ovunque la sua
spada. I Barbari accorrevano disordinatamente; le scale di legno crollavano con gran fragore, e
grappoli d’uomini rovinavano nell’acqua che ribolliva di onde rossastre contro la muraglia.
Infine, il tumulto si placava, e i soldati indietreggiavano per riprendere tutto da capo.
Mato andava a sedersi fuori dalla tenda; si asciugava col braccio il viso schizzato di sangue, e,
volto verso Cartagine, scrutava l’orizzonte.
Di fronte a lui, tra gli ulivi, le palme, i mirti e i platani, si stendevano due grandi acquitrini che
si collegavano ad un altro lago del quale non si scorgevano i contorni. Dietro ad un’altura ne
sorgevano altre, e nel mezzo dello sconfinato lago, si innalzava un’isola tutta nera e di forma
piramidale. Sulla sinistra, a l’estremità del golfo, degli ammassi di sabbia sembravano delle
grandi onde bionde sospese, mentre il mare, piatto come fosse un lastrico di lapislazzuli, saliva
insensibilmente a lambire il bordo del cielo. Il verde della campagna scompariva, in alcuni punti,
sotto lunghe lamine gialle; alcuni carrubi brillavano come bottoni di corallo; pampini
ricadevano dalle cime dei sicomori; si udiva il mormorio dell’acqua; delle allodole crestate
saltellavano qua e là, e gli ultimi raggi del sole indoravano il guscio delle testuggini, uscite dai
giunchi a godersi la brezza.
Mato cacciava dei gran sospiri. Si stendeva bocconi; conficcava le unghie nella terra e
piangeva; si sentiva miserabile, meschino, abbandonato. Mai l’avrebbe posseduta, e mai si
sarebbe impadronito d’una città.
La notte, solo, nella sua tenda, contemplava lo Zaimf. A che gli serviva possedere quella cosa
divina? Ed era assalito da innumerevoli dubbi. Dopo poco, al contrario, gli sembrava che il velo
della Dea provenisse da Salammbô, e che una parte della sua anima vi fluttuasse, più leggera
che un soffio. Allora, lo palpeggiava, lo annusava, vi tuffava il volto, lo baciava singhiozzando;
se lo avvolgeva intorno alle spalle per illudersi e credere di starle accanto.
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A volte improvvisamente fuggiva via; al lume delle stelle, scavalcava i soldati che dormivano
avvolti nei loro mantelli; poi, alle porte del campo, si gettava su un cavallo, e, due ore dopo, si
trovava ad Utica nella tenda di Spendio.
Da principio parlava dell’assedio; ma non era venuto che per dar sollievo al dolore che
Salammbô gli causava; Spendio lo esortava ad essere saggio.
- Scaccia dalla tua anima queste miserie che la degradano! Un tempo obbedivi, ora comandi
un’armata, e se pure Cartagine non fosse conquistata, ci offriranno delle province,
diventeremo re!
Ma, perché il possesso dello Zaimf non donava loro la vittoria? Spendio rispondeva che era
necessario pazientare.
Mato si persuase che i poteri del velo spettassero esclusivamente agli uomini di razza cananea,
e, nella sua sottigliezza di Barbaro, si diceva: “ Dunque lo Zaimf non mi gioverà a nulla; ma,
poiché l’hanno perduto, non gioverà neppure a loro”
Subito dopo, fu colto da un dubbio; temeva, adorando Aptuknos, il dio dei Libici, d’offendere
Moloch; e chiese timidamente a Spendio a quale dei due era meglio offrire un sacrificio umano.
- Ad ogni modo sacrifica! – gli rispose quello, ridendo.
Mato, che non si faceva una ragione di tanto cinismo, suppose che il Greco confidasse in un
Genio del quale taceva.
In quell’armata di Barbari, si ritrovavano tutti i culti, come tutte le razze; e si consideravano le
divinità altrui quanto le proprie, poiché le si temeva tutte. Molti mescolavano alla propria
religione natale pratiche straniere. Si aveva un bel fare a non credere nelle stelle, ma se la tale
costellazione poteva essere funesta o protettrice, le si offrivano sacrifici; un amuleto rivelatosi
per caso nel mezzo di un pericolo, diveniva una divinità; oppure bastava una parola, nient’altro
che una parola, ripetuta senza neppure lo sforzo di capire quel che significava. Ma, a forza di
saccheggiare templi, di vedere uomini d’ogni razza e di ogni tipo e una quantità di efferatezze,
molti finivano per non credere che al destino e alla morte; ed ogni sera si addormentavano
placidi come bestie feroci. Spendio avrebbe sputato sulle immagini di Giove Olimpico;
ciononostante si guardava dal parlare a voce alta nelle tenebre, e non mancava mai, ogni giorno
al risveglio, di poggiare a terra per primo il piede destro.
Stava innalzando, di fronte a Utica, un lungo terrapieno quadrangolare. Ma, a misura che
questo saliva, anche i bastioni della città crescevano; ciò che veniva abbattuto dagli uni, veniva
ben presto riedificato dagli altri. Spendio risparmiava i suoi uomini, meditava piani; si sforzava
di ricordare gli stratagemmi che aveva sentito raccontare durante i suoi viaggi. Ci si chiedeva
perché Narava ritardasse il ritorno; si nutrivano mille timori.
Annone frattanto aveva terminato i suoi preparativi. In una notte senza luna fece traversare, su
delle zattere, ai suoi elefanti e ai suoi soldati il golfo di Cartagine. Di seguito aggirarono la
montagna delle Acque Calde per evitare Autarito; e proseguirono tanto lentamente che in luogo
di sorprendere i Barbari un mattino, come aveva calcolato il Suffeta, li raggiunsero in pieno sole,
la terza giornata di marcia.
Utica aveva, ad oriente, una pianura che si stendeva sino alla grande laguna di Cartagine;
dietro ad essa, sboccava ad angolo retto una vallata compresa tra due file di alture che si
interrompevano bruscamente; i Barbari si erano accampati più lontano sulla sinistra, in modo di
bloccare il porto; e dormivano nelle loro tende (poiché quel giorno le due parti, troppo stanche
per combattere, riposavano) allorché, alla svolta delle colline, apparve l’armata cartaginese.
Lungo le ali dell’armata erano stati disposti, muniti di fionde, gli uomini meno capaci. Le
guardie della Legione, coperte con armature in lamine d’oro, formavano la prima linea, in sella
ai loro grossi cavalli senza criniera, senza pelo,senza orecchie e che avevano nel mezzo della
fronte un corno d’argento perché sembrassero dei rinoceronti. Frammisti ai loro squadroni, dei
giovani, con il capo coperto da un piccolo casco, bilanciavano in entrambe le mani un
giavellotto di frassino; dietro seguivano le lunghe picche della fanteria pesante. Tutti quei
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mercanti avevano accumulato sui loro corpi il maggior numero di armi possibili: se ne vedevano
di quelli carichi nel contempo d’una lancia, d’un’ascia, d’una mazza e di due spade; altri, come
porcospini, erano irti di frecce, e tenevano le braccia discoste dalle loro armature fatte di lamine
di corno o di piastre di ferro. Alla fine apparvero le impalcature delle grandi macchine: baliste,
onagri, catapulte e scorpioni, che ondeggiavano sopra dei grossi carri trainati da muli e da
quadrighe di buoi; e man mano che l’armata si dispiegava, i capitani, trafelati, correvano avanti
e indietro per dare ordini, tenere uniti gli schieramenti e mantenere le distanze. Quelli fra gli
Anziani che avevano un comando erano venuti con delle casacche di porpora le cui sontuose
frange si imbrogliavano nei legacci dei loro coturni. Avevano i volti imbrattati di cinabro che
brillavano sotto enormi elmi sormontati da effigi divine e, siccome portavano scudi col bordo di
avorio tempestato di pietre preziose, si sarebbero detti dei soli che passassero su muri di bronzo.
I Cartaginesi manovravano così lentamente che i soldati, per deriderli, li invitarono a sedersi.
Gridavano che di lì a poco avrebbero vuotato quelle loro grosse pance, spazzolato la doratura
della loro pelle e fatto loro bere del ferro.
In cima al palo piantato davanti alla tenda di Spendio, apparve un lembo di tela verde: era il
segnale. L’armata cartaginese rispose con gran strepito di trombe, cimbali, flauti in osso d’asino
e timpani. I Barbari erano di già saltati oltre le palizzate. I due schieramenti erano a portata di
giavellotto, faccia a faccia.
Un fromboliere delle Baleari avanzò di un passo, armò la sua fionda con un proiettile d’argilla,
roteò il braccio: uno scudo d’avorio si frantumò, e le due armate si mischiarono.
I Greci pungendo sulle nari i cavalli nemici, li fecero rovesciare sui loro padroni. Gli schiavi
addetti al lancio delle pietre le avevano scelte troppo grosse, e quelle ricadevano presso di loro. I
fanti punici, mentre colpivano di taglio con le loro lunghe spade, si scoprivano sul fianco destro.
I Barbari spezzarono le loro file; ne facevano strage; inciampavano sui moribondi e sui cadaveri,
accecati dal sangue che zampillava sui loro volti. Quel confuso ammasso di picche, di elmi, di
corazze, di spade e di membra girava su sé stesso, dilatandosi e restringendosi con delle
contrazioni elastiche. Le coorti cartaginesi si ruppero sempre più, le loro macchine restavano
insabbiate; infine la lettiga del Suffeta, la sua grande lettiga coi pendagli di cristallo, ch’era
comparsa al principiare dello scontro dondolando sopra i soldati come una barca sui flutti,
improvvisamente colò a picco. Era forse morto? I Barbari si ritrovarono soli.
La polvere che li circondava ricadde a terra e loro cominciarono a cantare, quando Annone
stesso apparve sopra un elefante. Stava a capo scoperto, sotto un parasole di bisso sostenuto da
un negro alle sue spalle. Una collana di piastre azzurre batteva sui fiorami della sua tunica nera;
attorno alle sue enormi braccia si stringevano dei cerchi di diamanti, e, la bocca spalancata,
brandiva una picca gigantesca, più scintillante di uno specchio e che si apriva all’estremità come
un fiore di loto. In un attimo la terra tremò; i Barbari videro avanzare su una sola linea tutti gli
elefanti di Cartagine con le loro zanne dorate, le orecchie dipinte di blu, coperti di bronzo,
scuotendo sopra le loro gualdrappe di scarlatto le torrette di cuoio, in ciascuna delle quali tre
arcieri tendevano un grande arco.
A malapena i soldati avevano le loro armi; si erano schierati a casaccio. Il terrore li gelò;
restarono inebetiti.
Di già dall’alto delle torrette si lanciavano contro di loro giavellotti, frecce, falariche, pezzi di
piombo; qualcuno nel tentativo di assalirle si aggrappava alle frange delle gualdrappe. A colpi
di coltellaccio gli si mozzava le mani, e questi cadeva all’indietro sulla punta delle spade
sguainate. Le picche troppo fragili si spezzavano, gli elefanti passavano tra le falangi come
cinghiali tra i ciuffi d’erba; sradicavano i pali del campo con le proboscidi, lo attraversavano da
un capo all’altro rovesciando le tende sotto i pettorali; i Barbari erano tutti fuggiti. Si
nascondevano sulle colline che cingevano la vallata per la quale erano giunti i Cartaginesi.
Annone vittorioso si presentò alle porte di Utica. Fece suonare le trombe. I tre Giudici della
città si mostrarono in cima ad una torre, tra le merlature.
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Gli abitanti di Utica non volevano ricevere in città degli ospiti così ben armati. Annone diede
in escandescenze. Alla fine acconsentirono a farlo entrare con una piccola scorta.
Le vie erano troppo strette per gli elefanti. Bisognò lasciarli fuori.
Non appena il Suffeta fu dentro la città, i notabili vennero a porgere i saluti. Egli si fece
condurre alle stufe, e chiamò i suoi cucinieri.
Tre ore dopo, era ancora immerso nell’olio di cinnamomo con il quale aveva riempito la vasca;
e, mentre prendeva il bagno, mangiava, su una pelle di bue distesa, lingue di fenicotteri con
semi di papavero al miele. Vicino a lui, il suo medico, immobile in una lunga veste gialla, di
tanto in tanto rianimava la stufa, e due fanciulli, chini sugli scalini della tinozza, gli
massaggiavano le gambe. Ma la cura del suo corpo non lo distraeva dalla sollecitudine per la
cosa pubblica, e così egli dettava una lettera indirizzata al Gran Consiglio, e, siccome s’erano
fatti dei prigionieri, si domandava quale terribile castigo inventare.
- Fermati! – disse a uno schiavo che scriveva, in piedi, nel cavo della propria mano Conducetemene qualcuno! Voglio vederli.
E dal fondo della sala pregna di un vapore biancastro, dove le torce gettavano macchie
sanguigne, furono spinti avanti tre Barbari: un Sannita, uno Spartano e uno della Cappadocia.
- Continua! – disse Annone – Rallegratevi, gloria dei Baal! Il vostro Suffeta ha sterminato i
cani voraci! Sia benedetta la Repubblica! Ordinate le preghiere! – A quel punto scorse i
prigionieri, e scoppiando a ridere:
- Ah!Ah! Miei prodi di Sicca! Non gridate più tanto forte oggi! Eccomi qua! Mi riconoscete?
Dove sono dunque le vostre spade? Che uomini terribili, davvero! - E fingeva di volersi
nascondere, come se li temesse – Domandavate cavalli, donne, terre, titoli civili, ma certo, e
cariche sacerdotali! Perché no? Va bene, ve ne fornirò io di terra, dalla quale non scapperete più!
Vi si mariterà a delle potenze affatto nuove! La vostra paga? Vi verrà fusa direttamente nella
bocca in lingotti di piombo! Ed io personalmente vi collocherò nei posti migliori, molto in alto,
tra le nuvole, affinché siate vicini alle aquile!
I tre Barbari, coi capelli lunghi e le vesti stracciate, lo guardavano senza nulla comprendere di
quel che diceva. Feriti alle gambe, li si era acchiappati prendendoli al laccio, e le grosse catene
che serravano i loro polsi strascicavano per la cima sul lastricato di pietre. Annone si infuriò per
la loro impassibilità.
- In ginocchio! In ginocchio! Sciacalli! Polvere! Feccia! Merde!E non rispondono! Basta!
Tacete! Che li si scortichi vivi! No! Tra poco!
Soffiava come un ippopotamo, roteando gli occhi. L’olio profumato traboccava sotto la massa
del suo corpo, e, appiccicandosi sulle squame della sua pelle, al lume delle torce la faceva
sembrare rosa.
Riprese:
- Noi abbiamo molto sofferto a causa del sole, per ben quattro giorni. Attraversando il Macar,
sono stati persi dei muli. Nonostante la loro posizione, il coraggio straordinario…Ah!
Demonade! Come soffro! Che si riscaldino i mattoni, e che siano roventi!
Si udì un rumore di rastrelli e di forni. L’incenso fumò più forte nelle grandi profumiere, e i
massaggiatori tutti nudi, che sudavano come spugne, premettero sulle sue articolazioni una pasta
composta di frumento, zolfo, vin nero, latte di cagna, mirra, galbano e storace. Una sete
incessante lo divorava; l’uomo vestito di giallo non acconsentì a quella voglia, e, tendendogli
una coppa d’oro dove fumava un brodo di vipere:
- Bevi! – disse – Affinché la forza dei serpenti, nati dal sole, penetri nel midollo delle tue ossa,
e fatti coraggio, o riflesso degli Dei! D’altra parte sai che un sacerdote di Eshmun spia nei
dintorni del Cane le stelle crudeli che causano il tuo male. Esse impallidiscono come le macchie
della tua pelle, dunque non ne devi morire.
- Oh! Si, davvero! Non devo morirne! – e dalle sue labbra violacee sprigionava un alito più
nauseabondo che le esalazioni di un cadavere. Al posto dei suoi occhi, che non avevano più
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sopracciglia, sembravano bruciare due tizzoni; un ammasso di pelle rugosa gli pendeva sulla
fronte; le sue orecchie, allontanandosi dalla sua testa, cominciavano a crescere e le profonde
rughe, che formavano dei semicerchi attorno alle sue narici, gli donavano un aspetto
straordinario e spaventoso, l’aria di una bestia feroce. La sua voce alterata assomigliava ad un
ruggito; disse:
- Che tu abbia ragione, Demonade? In effetti, ecco qua delle ulcere che si sono richiuse. Mi
sento in forze. Vedi! Guarda come mangio!
E meno per ingordigia che per ostentazione, e per provare a sé stesso che stava bene,
spiluccava gli impasti di formaggi e origano, i filetti di pesce, le zucche, le ostriche, e poi le
uova, i rafani, i tartufi, gli uccelletti allo spiedo. Sempre tenendo lo sguardo puntato sui
prigionieri, pregustava il piacere del loro supplizio. Intanto ripensava a Sicca, e la rabbia per
tutti i suoi mali si esternava attraverso le ingiurie contro quei tre.
- Ah! Traditori! Ah!Miserabili! Infami! Maledetti! E voi avete osato oltraggiarmi! Me! Il
Suffeta! I loro servizi, il prezzo del loro sangue, così dicono! Ah! Si! Il loro sangue! Il loro
sangue! – Poi, parlando tra sé: “ Moriranno tutti! Nessuno verrà venduto! Sarebbe più
vantaggioso condurli a Cartagine! Mi si vedrebbe…Ma non ne ho forse trascinate a sufficienza
di catene? “ Scrivi:
- Inviatemi…Quanti sono? Lo si chieda a Muthumbal! Va! Nessuna pietà! E mi si portino entro
delle ceste tutte le loro mani mozzate!
Ma dei gridi singolari, al contempo rochi e acuti, raggiungevano la sala, superando la voce di
Annone e il fragore dei piatti che si posavano attorno a lui. Raddoppiarono, ed improvvisamente
esplose il barrito furioso degli elefanti, come se la battaglia stesse per ricominciare. Un gran
tumulto circondava la città.
I Cartaginesi non avevano per nulla cercato di inseguire i Barbari. Si erano accampati ai piedi
delle mura, coi loro bagagli, i servi , tutto il seguito di satrapi, e si davan sollievo al riparo delle
loro belle tende bordate di perle, mentre il campo dei Mercenari, nella pianura, non era più che
un ammasso di rovine. Spendio nel frattempo aveva ripreso coraggio. Spedì Zarza da Mato,
setacciò i boschi, riunì i suoi uomini; le perdite non erano considerevoli. E i Barbari, infuriati
per essere stati vinti senza neppure combattere, ricomponevano le fila, quando si scoprì una tino
colmo di petrolio, senza dubbio abbandonato dai Cartaginesi. A quel punto Spendio fece portar
via dei maiali dalle masserie, li imbrattò di bitume, appiccò loro il fuoco e li spinse verso Utica.
Gli elefanti, spaventati dalle fiamme, fuggirono. Il terreno saliva, si scagliarono contro loro
dei giavellotti, ritornarono indietro; a colpi di zanna sventravano i Cartaginesi, o li soffocavano,
li spiaccicavano sotto i loro piedi. Dietro ad essi, i Barbari discendevano la collina; il campo
punico, privo di trinceramenti, fu sconvolto alla prima carica, e i Cartaginesi si trovarono
schiacciati contro le porte, che non erano state aperte per timore dei Mercenari.
Spuntava il giorno; si videro, dalla parte dell’occidente, giungere i fanti di Mato.
Contemporaneamente apparvero dei cavalieri; era Narava con i suoi Numidi. Al galoppo sopra
cespugli e burroni incalzavano i fuggitivi come levrieri che cacciano la lepre. Questo
capovolgimento della sorte interruppe il Suffeta. Gridò perché si venisse ad aiutarlo ad uscire
dalla stufa.
I tre prigionieri erano sempre davanti a lui. Allora un negro, lo stesso che durante la battaglia
reggeva il suo parasole, si chinò al suo orecchio.
- E allora? – rispose adagio il Suffeta – Ah! Uccidili! – aggiunse in tono brusco.
L’Etiope cavò dalla sua cintura un lungo pugnale, e le tre teste caddero. Una di esse,
rimbalzando tra le bucce del festino, andò a cadere nella vasca, rimanendovi a galla per qualche
tempo, la bocca spalancata e gli occhi fissi. I bagliori del mattino entravano attraverso le
fenditure del muro; i tre corpi, riversi sul petto, ruscellavano a grandi fiotti come tre fontane, e
un manto di sangue si riversava sui mosaici, coperti di polvere azzurra. Il Suffeta inzuppò la sua
mano in quel fango tiepido, e se lo strofinò sulle gambe: anche quello era un rimedio.
50
Venuta la sera, scappò dalla città con la sua scorta, si inoltrò tra le colline per ricongiungersi
con la sua armata.
Giunse a ritrovarne i resti.
Quattro giorni dopo, era a Gorza, in alto ad una gola, quando in basso apparvero le truppe di
Spendio. Venti buone lance, attaccando la fronte della loro colonna, le avrebbero facilmente
fermate. I Cartaginesi le guardarono passare pieni di stupore. Annone riconobbe alla
retroguardia il re dei Numidi; Narava si chinò per salutarlo, facendo un segno che egli non
comprese.
Se ne tornarono a Cartagine accompagnati da ogni sorta di timori. Marciavano solo di notte; di
giorno si nascondevano nel folto degli uliveti. Ad ogni tappa morivano degli uomini; più volte
si credettero perduti. Infine raggiunsero capo Ermeo, dove alcune navi vennero a prelevarli.
Annone, era così provato, così disperato, lo affliggeva soprattutto la perdita degli elefanti, che
chiese, per farla finita, del veleno a Demonade. D’altronde, si vedeva di già allungato sulla
croce.
Cartagine non ebbe la forza di indignarsi contro di lui. Erano andati perduti quattrocentomila
novecentosettantadue sicli d’argento, quindicimila seicentoventitre sicli d’oro, sedici elefanti,
quattordici membri del Gran Consiglio, trecento Ricchi, ottomila cittadini, frumento sufficiente
per tre lune, una quantità considerevole di equipaggiamenti e tutte le macchine belliche! Il
tradimento di Narava era ormai accertato, riprendevano gli assedi alle due città. L’armata di
Autarito si stendeva da Tunisi a Rhades. Dall’alto dell’Acropoli si potevano scorgere nella
campagna delle lunghe fumate che salivano fino al cielo; erano le ville dei Ricchi che
bruciavano.
Solo un uomo avrebbe potuto salvare la Repubblica. Ci si pentì di non averlo apprezzato
giustamente, e lo stesso partito della pace votò gli olocausti per il ritorno di Amilcare.
La vista dello Zaimf aveva sconvolto Salammbô. La notte credeva di sentire i passi della Dea,
e si svegliava, urlando, terrorizzata. Ogni giorno inviava qualcuno a portare cibo nei templi.
Taanach si prodigava ad eseguire i suoi ordini, e Shahabarim non la lasciava più sola.
51
VII
AMILCARE BARCA
Il nunzio delle lune che vegliava tutte le notti sull’alto del tempio di Eshmun, per segnalare col
suono della sua trombetta i movimenti dell’astro, un mattino scorse, ad occidente, qualcosa
somigliante ad un uccello che rasentava con le sue grandi ali la superficie del mare.
Si trattava di una nave a tre ordini di remi; a prua aveva un cavallo scolpito. Sorgeva il sole; il
nunzio delle lune mise una mano davanti agli occhi, poi imbracciando la sua chiarina, lanciò su
Cartagine un acuto grido metallico.
Uscì gente da ogni casa; non si voleva credere alla voce che circolava, se ne discuteva, il molo
traboccava di popolo. Infine si riconobbe la trireme di Amilcare.
Avanzava in modo orgoglioso e feroce, l’antenna ben dritta, la vela gonfia lungo tutto l’albero,
fendendo la spuma attorno a sé; i suoi remi giganteschi colpivano l’acqua in cadenza; di tanto in
tanto, appariva l’estremità della sua chiglia, fatta come un vomere d’aratro, e sotto lo sperone che
terminava la sua prua, il cavallo con la testa d’avorio, drizzando le zampe, sembrava correre sulle
distese del mare.
Intorno al promontorio, poiché il vento era cessato, la vela si sgonfiò, e si scorse, in piedi vicino al
pilota, un uomo a capo scoperto; era lui, il suffeta Amilcare! Portava attorno ai fianchi delle lamine
di ferro che rilucevano; sulle spalle aveva un mantello rosso che gli lasciava scoperte le braccia; due
perle lunghissime pendevano dalle sue orecchie, ed una folta barba nera si allungava sul suo petto.
Intanto la galea sballottata fra gli scogli costeggiava il molo, e la folla sui blocchi di pietra la
seguiva gridando:
- Salute! Tu sia benedetto! Occhio di Khamon! Ah! Salvaci! La colpa è dei Ricchi! Vogliono farti
morire! Stai in guardia, Barca!
Egli non rispondeva, come se il clamore degli oceani e delle battaglie l’avesse reso per sempre
sordo. Ma quando fu sotto la scalinata che scendeva dall’Acropoli, Amilcare sollevò il capo, e,
tenendo le braccia incrociate, guardò il tempio di Eshmun. Il suo sguardo salì più in alto ancora,
nella vastità del cielo puro; con voce aspra, gridò un ordine ai suoi marinai; la trireme scattò; scalfì
l’idolo posto sull’angolo del molo per fermare le tempeste; e nel porto mercantile pieno di
immondizie, pezzi di legno, scorze di frutti, respingeva, si faceva largo a forza tra i navigli
ormeggiati a dei pali e terminanti con mascelle di coccodrillo. Il popolo accorreva, alcuni si
gettarono in acqua. Ma già la trireme era giunta in fondo, davanti alla porta irta di chiodi. Questa si
levò, e la nave disparve sotto la profonda volta.
Il Porto Militare era completamente separato dalla città. Quando arrivavano degli ambasciatori,
dovevano passare tra due muraglie, in un corridoio che sbucava a sinistra, davanti al tempio di
Khamon. Questa grande darsena, tonda come una coppa, era contornata da banchine dove erano
costruiti dei ricoveri per custodire le navi. Davanti a ciascuno di essi sorgevano due colonne che
avevano sui capitelli dei corni di Ammone; l’insieme formava una continuità di portici tutt’intorno
al bacino. Nel mezzo, su un isola, sorgeva una casa per il Suffeta del mare.
L’acqua era tanto limpida che si scorgeva il fondo pavimentato di ciottoli bianchi. Il rumore delle
strade non vi giungeva, e Amilcare, passando, riconosceva le triremi che aveva di volta in volta
comandate.
Non ne restavano in salvo, forse, che venti, per terra, piegate su di un fianco o dritte sulla chiglia,
con la poppa molto alta e la prua panciuta, coperte di dorature e di simboli mistici. Le chimere
avevano perduto le loro ali, gli Dei Pateci le loro braccia, i tori le loro corna d’argento; mezzo
scrostate, inerti, danneggiate, ma colme di storia ed esalanti ancora il sentore dei viaggi, come
soldati mutilati che rivedano il loro capo, sembravano dirgli: “ Siamo noi! Siamo noi! E tu anche,
sei un vinto! ”
52
Nessuno, fuorché il Suffeta del mare, poteva entrare nella casa dell’ammiraglio. Finché non si
aveva la prova della sua morte, lo si considerava ancora in vita. Con ciò gli Anziani si
risparmiavano un padrone in più, e non avevano certo mancato, nel caso di Amilcare, di obbedire a
tale costume.
Il Suffeta avanzò nelle stanze deserte. Ad ogni passo ritrovava armature, mobili, oggetti
conosciuti che tuttavia lo stupivano, e c’era persino ancora sotto il vestibolo, in una profumiera, la
cenere delle essenze bruciate alla partenza, per implorare Melqart. Non era così che egli aveva
immaginato il suo ritorno! Tutto ciò che aveva fatto, tutto ciò che aveva visto scorreva nella sua
memoria: gli assalti, gli incendi, le legioni, le tempeste, Drepano, Siracusa, Lilibeo, il monte Etna,
l’altopiano d’Erice, cinque anni di battaglie; fino al giorno funesto nel quale, deposte le armi, s’era
persa la Sicilia. Poi rivedeva boschi di limoni, pastori con le capre sopra alture grigiastre; e il suo
cuore si lasciava andare ad immaginare un’altra Cartagine laggiù. I progetti, i ricordi, danzavano
nella sua testa, ancora stordita dal beccheggio della nave; un’angoscia lo opprimeva, e
improvvisamente spossato, sentì il bisogno di riconciliarsi con gli Dei.
Allora salì all’ultimo piano della sua casa; dopo aver preso da una conchiglia d’oro appesa al suo
braccio una spatola guarnita di chiodi, aprì una piccola camera ovale.
Delle sottili rondelle nere, incastrate nel muro e trasparenti come vetro, la illuminavano
delicatamente. Tra le file di quei dischi uguali, erano stati scavati dei pertugi, simili a quelli delle
urne nei colombari. Ciascuno di essi conteneva una pietra rotonda, oscura, che sembrava essere
molto pesante. Solo le persone di spirito superiore onoravano questi abbadir caduti dalla luna. Per
la loro caduta significavano gli astri, il cielo, il fuoco; per il loro colore, la notte tenebrosa; infine,
per la loro densità, la coesione delle cose terrestri. Un’atmosfera soffocante regnava in quel luogo
mistico. Della sabbia di mare, spinta certamente dal vento attraverso la porta, imbiancava un poco le
pietre rotonde posate nelle nicchie. Amilcare, con la punta del dito, le contò una dopo l’altra, poi si
nascose il volto sotto un velo color zafferano, e cadendo in ginocchio, si stese per terra, con le due
braccia allungate.
La luce del giorno batteva sui fogli di talco nero. Delle arborescenze, delle protuberanze, dei
turbini, vaghe forme animali si disegnavano nel loro spessore diafano; e la luce giungeva, terribile e
calma tuttavia, come deve essere alle spalle del sole, nei tetri spazi delle creazioni future. Egli si
sforzava di bandire dai suoi pensieri tutte le forme, i simboli e i nomi degli Dei, alfine di cogliere
meglio lo spirito immutabile che le apparenze nascondono. Qualcosa dell’energia dei pianeti lo
penetrava, mentre sentiva per la morte e per ogni sorta di rischi un sapiente e profondo disprezzo.
Quando si alzò, era colmo di una serena intrepidezza, invulnerabile alla misericordia, al timore, e
siccome il suo petto soffocava, andò in alto alla torre che dominava Cartagine.
La città digradava incavandosi in un’ampia curva, con le sue cupole, i suoi templi, i suoi tetti
d’oro, le sue case, i suoi ciuffi di palme, qua e là, le sue bocce di vetro ove zampillava del fuoco; e i
bastioni facevano come un gigantesco orlo a quel corno dell’abbondanza che si apriva verso di lui.
In basso scorgeva le porte, le piazze, l’interno dei cortili, il disegno delle strade, gli uomini
piccolissimi a livello del lastricato. Ah! Se Annone non fosse giunto troppo tardi il mattino delle
isole Egadi! I suoi occhi si tuffarono nell’ultimo orizzonte, ed egli tese verso Roma le sue braccia
vibranti.
La moltitudine occupava le scalinate dell’Acropoli. Sulla piazza di Khamon ci si sgomitava per
vedere il Suffeta uscire, le terrazze poco a poco si riempivano di gente; qualcuno lo riconobbe, lo si
salutava, lui si ritirò, alfine di meglio stuzzicare l’impazienza del popolo.
Amilcare trovò in basso, nel salone, gli uomini più autorevoli del suo partito: Istatten, Subeldia,
Hictamon, Yeubas, ed altri ancora. Gli narrarono tutto quello che era accaduto dopo la conclusione
della pace: l’avarizia degli Anziani, la partenza dei soldati, il loro ritorno, le loro pretese, la cattura
di Giscone, il furto dello Zaimf, il soccorso a Utica, e il suo abbandono; ma nessuno osò parlargli
degli avvenimenti che lo riguardavano personalmente. Infine si separarono, per rivedersi la notte
all’assemblea degli Anziani, nel tempio di Moloch.
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Stavano uscendo quando si sollevò un tumulto all’esterno della porta. Malgrado i
servitori,qualcuno voleva entrare; e poiché lo scompiglio raddoppiava, Amilcare ordinò di fare
entrare lo sconosciuto.
Si vide apparire una vecchia negra, acciaccata, grinzosa, tremante, l’aria stupida, ed avvolta fino
ai talloni in ampi veli azzurri. Giunse di fronte al Suffeta, per un momento si guardarono l’un l’altro;
improvvisamente Amilcare trasalì; ad un gesto della sua mano, gli schiavi se ne andarono. Allora
facendole segno di camminare con cautela, la trascinò per le braccia in una camera appartata.
La negra si gettò per terra ai suoi piedi per baciarglieli; egli la sollevò brutalmente.
- Dove l’hai lasciato, Iddibal?
- Laggiù, padrone – e sbarazzandosi dei suoi veli, con la manica si pulì il viso.
Il colore nero, il tremolio senile, la figura curva, tutto disparve. Si trattava di un robusto vecchio,
la cui pelle sembrava conciata dalla sabbia, dal vento e dal mare. Un ciuffo di capelli bianchi
spuntava sul suo cranio, come il pennacchietto di un uccello; e, con un’occhiata ironica, indicava a
terra il travestimento caduto.
- Hai fatto bene, Iddibal! Ben fatto! – Poi, come penetrandolo col suo sguardo acuto:
- Nessuno ancora si fa domande?...
Il vecchio gli giurò per i Cabiri che il segreto era salvo. Non lasciavano mai il loro rifugio a tre
giorni da Adrumeto, una spiaggia popolata di tartarughe con dei palmizi sulla duna.
- E secondo i tuoi ordini, Padrone, gli insegno a lanciare il giavellotto e a condurre un tiro di cavalli!
- E’ forte non è vero?
- Si, Padrone, ed anche intrepido! Non teme ne serpenti, ne folgore, ne fantasmi. Corre a piedi nudi,
come un pastore, sul bordo dei precipizi.
- Parla! Parla!
- Escogita delle trappole per le bestie feroci. L’altra luna, non lo crederesti, ha sorpreso un’aquila;
la trascinava, e il sangue dell’uccello e il sangue del bambino si spargevano per aria in grosse gocce,
simili a rose strappate via. La bestia, furiosa, lo avviluppava col battito delle sue ali; lui la teneva
stretta contro il suo petto, e via via ch’essa agonizzava le sue risate raddoppiavano, scoppiettanti e
superbe come cozzi di spade.
Amilcare chinò il capo, abbagliato da quei presagi di grandezza.
- Ma, da un po’ di tempo, un’inquietudine lo agita. Guarda in lontananza le vele che passano sul
mare; è triste, rifiuta il cibo, vuol sapere degli Dei e vuol conoscere Cartagine.
- No, no! Non ancora! – esclamò il Suffeta.
Il vecchio schiavo sembrò sapere il pericolo che spaventava Amilcare, e riprese:
- Come frenarlo? Ho dovuto fargli delle promesse, e non sono venuto a Cartagine che per
comprargli un pugnale dal manico d’argento tempestato di perle – Poi raccontò che avendo scorto il
Suffeta sulla terrazza, s’era fatto passare davanti alle guardie del porto per una serva di Salammbô,
alfine di giungere fino a lui.
Amilcare restò per lungo tempo come indeciso sul da farsi; infine disse:
- Domani ti presenterai a Megara, al calar del sole, dietro le fabbriche di porpora, imitando per tre
volte il grido dello sciacallo. Se non mi vedi, il primo giorno di ciascuna luna ritornerai a Cartagine.
Non dimenticare niente! Prenditi cura di lui! Adesso, puoi parlargli di Amilcare.
Lo schiavo riprese il suo travestimento, e uscirono insieme dalla casa e dal porto.
Amilcare proseguì a piedi, solo e senza scorta, perché le riunioni degli Anziani erano, nelle
circostanze straordinarie, sempre segrete, e vi si andava di nascosto.
In principio costeggiò il lato orientale dell’Acropoli, passò successivamente per il mercato
delle Erbe, le gallerie di Kinsido, il sobborgo dei profumieri. Le rare luci si spegnevano, le
strade più larghe si facevano silenziose, poi delle ombre scivolarono nelle tenebre. Alcune lo
seguivano, altre sopraggiungevano, e tutte si dirigevano come lui dalla parte dei Mappali.
Il tempio di Moloch sorgeva ai piedi di una gola dirupata, in un luogo sinistro. Dal basso si
scorgevano solo delle alte mura che salivano indefinitamente, come le pareti di una mostruosa
tomba. La notte era buia, una nebbia grigiastra sembrava pesare sul mare, che batteva contro la
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falesia con un fracasso di rantoli e singhiozzi; e delle ombre a poco a poco svanivano come se
fossero passate attraverso i muri.
Ma non appena si era varcata la porta, ci si trovava in una vasta corte quadrangolare
circondata di portici. Nel mezzo, si alzava un complesso architettonico ad otto facce eguali. Lo
sormontavano delle cupole, ammucchiandosi attorno ad un secondo piano che reggeva una
specie di terrazza circolare, dove si slanciava un cono a curva rientrante, che in cima finiva con
una boccia.
Delle fiammelle ardevano dentro cilindri in filigrana, attaccati a delle pertiche sostenute da
alcuni uomini. Queste piccole luci vacillavano sbattute dal vento e tingevano di rosso i pettini
d’oro che fissavano alla nuca i loro capelli intrecciati. Costoro accorrevano, si chiamavano, per
ricevere gli Anziani.
Sul pavimento di pietra, ad intervalli, stavano accovacciati, come sfingi, dei leoni enormi,
simboli viventi del sole divoratore. Sonnecchiavano ad occhi socchiusi. Ma risvegliati dai passi
e dalle voci, si alzavano lentamente, venivano incontro agli Anziani che riconoscevano dal
vestiario, si strofinavano contro le loro cosce inarcando la schiena e sbadigliando sonoramente;
il vapore del loro respiro saliva nel chiarore delle torce. L’agitazione raddoppiò, delle porte si
richiusero, tutti i sacerdoti fuggirono; e gli Anziani disparvero sotto le colonne che formavano
attorno al tempio un profondo vestibolo.
Erano state disposte in modo da riprodurre con le loro file circolari, comprese le une nelle
altre, il ciclo del pianeta Saturno contenente gli anni, gli anni i mesi, i mesi i giorni, ed alla fine
erano contigue al muro del santuario.
Era là che gli Anziani deponevano i loro bastoni in corno di narvalo; poiché una legge,
rispettata da sempre, puniva con la morte colui che entrava all’adunanza con una qualsiasi arma.
Molti avevano in fondo ai loro vestiti uno squarcio trattenuto da un nastro di porpora, per
evidenziare che piangendo la morte di un loro congiunto non avevano risparmiato i loro abiti, e
questa testimonianza di dolore impediva allo strappo di ingrandire. Altri custodivano la loro
barba racchiusa in una piccola borsa di pelle violetta, appesa per due cordoncini alle orecchie.
Tutti si accostarono abbracciandosi petto contro petto. Circondavano Amilcare, lo felicitavano;
si sarebbero detti dei fratelli che ritrovano un loro fratello.
Quegli uomini erano per lo più tarchiati, con dei nasi ricurvi come quelli dei colossi assiri.
Però alcuni, per gli zigomi sporgenti, l’alta statura e i piedi minuti, tradivano un’origine africana,
degli antenati nomadi. Quelli che vivevano continuamente chiusi nel fondo delle loro botteghe
avevano il viso pallido; altri portavano come stampata in faccia la severità del deserto, e degli
strani gioielli brillavano su tutte le dita delle loro mani, abbronzate da soli sconosciuti. Si
riconosceva il navigatore per la camminata dondolante, mentre gli agricoltori mandavano odore
di frantoio, di fieno e di sudore di mulo. Quei vecchi pirati facevano coltivare le campagne, quei
rastrellatori di ricchezze equipaggiavano navi, quei proprietari terrieri nutrivano schiavi abili in
ogni lavoro.
Tutti erano sapienti nelle dottrine religiose, esperti in stratagemmi, ricchi e spietati. Avevano
l’aspetto stanco per i continui affanni. I loro occhi infuocati guardavano con diffidenza, e
l’abitudine ai viaggi e alla menzogna, ai traffici e al comando, dava a tutta la loro persona
un’aria di astuzia e di violenza, una sorta di brutalità discreta e convulsiva. D’altra parte,
l’influenza del Dio li rendeva ancora più cupi.
Dapprima attraversarono una sala a volta, che aveva la forma di un uovo. Sette porte,
corrispondenti ai sette pianeti, ritagliavano sulle sue pareti sette riquadri di diverso colore. Dopo
un corridoio, entrarono in un’altra sala simile.
Un candelabro tutto ricoperto di fiori cesellati ardeva sul fondo, e ciascuno dei suoi otto bracci
d’oro aveva in un calice di diamanti uno stoppino di bisso. Era posto sull’ultimo dei lunghi
gradini che salivano verso un grande altare, terminato agli angoli da corni di bronzo. Due
scalinate laterali conducevano alla sua sommità appiattita; non se ne vedevano le pietre; il tutto
formava come una montagna di cenere, e qualcosa di indistinto vi fumava sopra, lentamente.
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Poi al di là, più alto del candelabro, e ben più alto dell’altare, sorgeva il Moloch, tutto di ferro,
col suo busto umano dove si schiudevano delle aperture. Le sue ali spalancate si stendevano
sulle pareti, le sue mani allungate scendevano fino a terra; tre pietre nere, orlate da un cerchio
giallo, rappresentavano tre pupille sulla sua fronte, e, come stesse muggendo, la sua testa di toro
si torceva verso l’alto in uno sforzo terribile.
Tutt’intorno la stanza erano disposti degli sgabelli d’ebano. Alle spalle di ciascuno, uno stelo
di bronzo posato su tre artigli sosteneva una fiaccola. Tutte quelle luci si riflettevano nelle
losanghe di madreperla che pavimentavano la sala. Questa era così alta che il colore rosso dei
muri, salendo verso la volta, diveniva nero, e i tre occhi dell’idolo brillavano molto in alto,
simili a stelle sperdute nella notte.
Gli Anziani presero posto sugli sgabelli d’ebano, dopo aver raccolto sul capo lo strascico della
loro veste. Se ne stavano immobili con le mani incrociate nelle larghe maniche, e il pavimento
di madreperla sembrava un fiume luminoso che, ruscellando dall’altare verso la porta, scorresse
sotto i loro piedi nudi.
I quattro pontefici, stavano nel mezzo, schiena contro schiena, su quattro sedie d’avorio che
formavano una croce, il gran sacerdote d’Eshmun in una veste di giacinto, il gran sacerdote di
Tanit in una veste di lino bianco, il gran sacerdote di Khamon in una veste di lana rossiccia, e il
gran sacerdote di Moloch in una veste di porpora.
Amilcare si avvicinò al candelabro; vi girò attorno, esaminando gli stoppini accesi, poi gettò
su quelli una polvere profumata; delle fiamme violette apparvero all’estremità dei bracci.
Allora si udì una voce acuta, un’altra le rispose; e i cento Anziani, i quattro pontefici, ed
Amilcare in piedi dinnanzi a loro, tutti assieme intonarono un inno, e ripetendo di continuo le
stesse sillabe ed alzando i toni, le loro voci salivano, esplosero, si fecero terribili, poi, d’un sol
colpo, si estinsero.
Si attese qualche momento. Infine Amilcare estrasse dal suo petto una piccola statuetta a tre
teste, azzurra come uno zaffiro, e la pose davanti a sé. Era l’immagine della verità, il genio
stesso della sua parola. Dopo poco la rimise via, e tutti, come colti da una subitanea collera,
gridarono:
- Sono tuoi buoni amici i Barbari! Traditore! Infame! Torni per vederci perire, non è vero?
Lasciatelo parlare! No, No!
Si sfogavano in tal modo del ritegno al quale li aveva obbligati poc’anzi il cerimoniale politico;
e benché si fossero augurati il ritorno di Amilcare, ora si indignavano perché non aveva fatto
nulla per prevenire le loro sciagure o piuttosto perché non le aveva subite personalmente.
Quando il tumulto si fu placato, il pontefice di Moloch si alzò.
- Vogliamo sapere perché non hai fatto ritorno a Cartagine?
- Non sono affari vostri! – rispose sdegnosamente il Suffeta.
Le loro grida raddoppiarono.
- Di cosa mi accusate? Forse, di avere condotto male la guerra? Avete visto le ordinanze delle
mia battaglie, voi altri che lasciate comodamente a dei Barbari…
- Basta! Basta!
Riprese, a voce bassa, per farsi ascoltare con più attenzione:
- Oh! E’ vero! Io mi sbaglio, luci dei Baal; ve n’è tra di voi di coraggiosi! Giscone, alzati! – E
percorrendo il cammino dell’altare, le palpebre socchiuse, come a cercar meglio qualcuno,
ripeté - Alzati, Giscone! Tu puoi accusarmi, ti appoggeranno! Ma dov’è?- Poi, come
ricredendosi - Ah! A casa sua, forse? Circondato dai suoi figli, servito dai suoi schiavi, felice, e
contando sui muri i collari d’onore che la patria gli ha donato?
Quelli si dimenavano, stringendo le spalle, come flagellati da cinghie di cuoio.
- Non sapete neppure se è ancora vivo oppure morto! - E senza preoccuparsi dei loro strepiti,
diceva che abbandonando il Suffeta, era la Repubblica stessa che avevano abbandonata. Del pari
la pace romana, ch’era parsa loro tanto vantaggiosa, si palesava più funesta che venti battaglie.
Alcuni applaudirono, i meno abbienti del Consiglio, in ogni occasione pronti a parteggiare per il
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popolo o per la tirannide. I loro avversari, capi dei Sissizi e amministratori, s’imponevano
perché più numerosi; quelli che più contavano s’erano stretti attorno ad Annone, che sedeva
all’altro capo della sala, davanti alla grande porta, chiusa da un cortinaggio di giacinto.
Aveva tinto con un belletto le ulcere del suo viso. Ma la polvere d’oro sui capelli gli era
caduta sulle spalle, dove formava due pillacchere lucenti, e quelli apparivano biancastri, fini e
crespi come lana. Delle bende, imbevute di un profumo oleoso che sgocciolava sulle lastre di
pietra, gli fasciavano le mani, e la sua malattia era certamente molto peggiorata, giacché gli
occhi ormai gli scomparivano sotto le pieghe delle palpebre. Per vedere, era costretto a
rovesciare il capo. Quelli della sua parte lo spronavano a prendere la parola. Infine, con una
voce roca e ripugnante:
- Meno arroganza, Barca! Siamo stati tutti sconfitti! Ognuno sopporti la sua disgrazia!
Rassegnati!
- Parlaci piuttosto – disse sorridento Amilcare – di come hai condotto le tue galee nel mezzo
della flotta romana?
- Ci sono finito per colpa del vento! – rispose Annone.
- Tu fai come il rinoceronte che scalpita nel proprio sterco: ostenti la tua sciocchezza! Taci
dunque! – E cominciarono ad accusarsi a proposito delle isole Egadi.
Annone lo incolpava di non essergli andato incontro.
- Ma ciò avrebbe significato abbandonare Erice! Bisognava prendere il largo; chi te lo impediva?
Ah, dimenticavo! Gli elefanti temono il mare!
Gli uomini di Amilcare trovarono la facezia così buona che scoppiarono in fragorose risate. La
volta ne riecheggiava, come se si fossero percossi dei timpani.
Annone denunciò l’indegnità di un tale oltraggio, poiché il male che lo colpiva era seguito ad
un colpo di freddo che si era buscato all’assedio di Ecatompilo, e le lacrime gli rigavano il volto,
come la pioggia d’inverno un muro in rovina.
Amilcare riprese:
- Se mi aveste amato tanto quanto lui, ora Cartagine esulterebbe! Quante volte ho invocato il
vostro aiuto! Ed ogni volta mi avete rifiutato il denaro!
- Occorreva a noi! – dissero i capi dei Sissizi.
- E quando la mia situazione era disperata, abbiamo bevuto l’urina dei muli e mangiato le
corregge dei nostri sandali, quando avrei voluto che i fili d’erba fossero dei soldati, e fare dei
battaglioni con la putredine dei nostri morti, richiamaste presso di voi le navi che mi restavano!
- Non potevamo rischiare tutto – rispose Baat-Baal, padrone di miniere d’oro nella Getulia
Darica.
- Cosa facevate voi frattanto, qui a Cartagine, nelle vostre case, protetti dalle vostre mura? Ci
sono dei Galli sull’Eridano che bisognava spingere avanti, dei Cananei a Cirene che sarebbero
accorsi, e mentre i Romani inviavano a Tolomeo gli ambasciatori…
- Ci decanta i Romani ora! – Qualcuno gli gridò:
- Quanto t’hanno pagato per difenderli?
- Domandalo alle pianure del Bruzio, alle rovine di Locri, di Metaponto e di Eraclea! Ho
bruciato tutte le loro foreste, ho saccheggiato tutti i loro templi, sino alla morte dei nipoti dei
loro nipoti…
- Eh! Tu parli come un retore! – fece Kapuras, un mercante assai illustre – Cosa vuoi dunque?
- Dico che bisogna essere più intraprendenti o più terribili! Se tutta l’Africa si ribella al vostro
giogo, è perché voi non avete la forza, come dei padroni rammolliti, di porlo sulle loro spalle!
Agatocle, Regolo, Cepione, chiunque abbia un po’ di coraggio non ha che da sbarcare per
conquistarla. Quando i Libici che stanno ad oriente si intenderanno coi Numidi che stanno ad
occidente, e i Nomadi verranno dal sud e i Romani dal nord…- S’alzò un grido d’orrore. – Oh!
Vi batterete il petto, vi rotolerete nella polvere e vi straccerete le vesti! Ma sarà troppo tardi!
Bisognerà far girare la macina nella Suburra e vendemmiare sulle colline del Lazio.
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Si battevano le cosce per esprimere la propria indignazione, e le maniche delle loro vesti si
sollevavano simili a grandi ali d’uccelli spaventati. Amilcare, guidato da un’ispirazione,
continuava, ritto sul più alto gradino dell’altare, fremente, terribile; alzava le braccia e i raggi
del candelabro che bruciava dietro lui passavano tra le sue dita simili a giavellotti d’oro.
- Perderete le vostre navi, i vostri compagni, i vostri carri, i vostri letti sospesi, e gli schiavi che
vi massaggiano i piedi! Gli sciacalli dormiranno nei vostri palazzi, gli aratri rivolteranno le
vostre tombe. Non resteranno che i gridi delle aquile e un mucchio di rovine. Perirai, Cartagine!
I quattro pontefici stesero le loro mani per allontanare l’anatema. Tutti s’erano alzati. Ma il
Suffeta del mare, magistrato sacerdotale sotto la protezione del Sole, era inviolabile finché
l’assemblea dei Ricchi non l’avesse giudicato. Inoltre l’altare incuteva terrore. Indietreggiarono.
Amilcare taceva. Gli occhi fissi e il volto bianco come le perle della sua tiara, ansimava, quasi
spaventato dalle proprie parole, con la mente perduta in visioni funeste. Dall’alto dove si
trovava, l’insieme delle fiaccole sugli steli di bronzo gli sembrava una corona di fiamme posta
sul lastricato di pietre; un fumo nero, sprigionandosi, saliva nelle tenebre della volta; e il
silenzio per qualche minuto fu così profondo che si udiva, lontano, il rumore del mare.
Poi gli Anziani cominciarono ad interrogarsi. I loro interessi, la loro esistenza erano messi a
repentaglio dai Barbari. Ma non si poteva vincerli senza l’aiuto del Suffeta, e questa
considerazione, malgrado il loro orgoglio, fece dimenticare tutte le altre. Si presero da parte i
suoi amici. Ci furono delle riconciliazioni interessate, dei sottintesi, delle promesse. Amilcare
non voleva più immischiarsi negli affari del governo. Tutti lo scongiurarono. Lo supplicavano; e
siccome la parola tradimento ritornava nei loro discorsi, andò in collera. L’unico traditore era il
Gran Consiglio, perché, estinguendosi con la guerra l’arruolamento dei soldati, a guerra finita
essi tornavano liberi. Egli esaltò pure il loro valore e tutti i vantaggi che si sarebbero potuti
ottenere legandoli alla Repubblica per mezzo di donazioni e di privilegi.
Allora Magdassan, un anziano governatore delle province, disse stralunando i suoi occhi gialli:
- Davvero, Barca, a forza di viaggiare, ragioni come un Greco o un Latino, io non so! Parli di
ricompense per quegli uomini? Muoiano diecimila Barbari piuttosto che uno solo di noi!
Gli Anziani approvavano con la testa mormorando:
- Si, che necessità c’è di disturbarsi? Se ne trovano sempre!
- Ed è facile sbarazzarsene, non è vero? Li si abbandona, come avete fatto in Sardegna. Si
avverte il nemico della strada che devono prendere, come per quei Galli in Sicilia, o meglio
ancora li si sbarca in mezzo al mare. Tornando, ho visto gli scogli bianchi delle loro ossa!
- Che disgrazia! – Fece impudentemente Kapuras
- Ed essi allora, non son forse passati cento volte al nemico? – Esclamavano gli altri.
Amilcare gridò:
- Perché, dunque, malgrado le vostre leggi, li avete richiamati a Cartagine? E quando sono nella
vostra città, poveri e numerosi in mezzo a tutte le vostre ricchezze, non vi viene neppure l’idea
di indebolirli con la più piccola divisione! In seguito li mandate via con le loro donne e i loro
bambini, tutti, senza tenere un solo ostaggio! Contavate che si sarebbero ammazzati per
risparmiarvi il dolore di mantenere le vostre promesse? Li odiate, perché sono forti! E odiate me
ancora di più, perché sono il loro capo! Oh! L’ho sentito, poco fa, quando mi baciavate le mani,
che vi trattenevate a stento per non morderle!
Se i leoni che dormivano nella corte fossero entrati ruggendo, il clamore non sarebbe stato più
spaventoso. Ma il pontefice di Eshmun si alzò, e, le ginocchia ravvicinate, i gomiti attaccati al
corpo, impalato con le mani semiaperte, disse:
- Barca, Cartagine ha bisogno che tu prenda il comando generale delle forze puniche contro i
Mercenari!
- Io mi rifiuto – rispose Amilcare.
- Ti daremo pieni poteri! – gridarono i capi dei Sissizi.
- No!
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- Nessun controllo, nessuna spartizione, tutto il denaro che vorrai, tutti i prigionieri, tutto il bottino,
cinquanta zereth di terra per ogni nemico ucciso.
- No, e poi no! Perché con voi non è possibile vincere!
- Li teme!
- Perché siete vigliacchi, avari, ingrati, pusillanimi e folli!
- Li vuol risparmiare!
- Per mettersi alla loro testa – disse qualcuno.
- E venirci contro – disse un altro; e dal fondo della sala Annone urlò:
- Vuole farsi re!
Allora scattarono, rovesciando sedie e fiaccole; in folla si slanciarono verso l’altare; brandivano
dei pugnali. Ma, frugando nelle sue maniche, Amilcare ne cavò due grandi coltellacci; e mezzo
curvo, il piede sinistro in avanti, gli occhi fiammeggianti, stringendo i denti, li sfidava, immobile
sotto il candelabro d’oro.
Così, per precauzione, avevano portato delle armi; era un crimine; si guardarono gli uni gli altri,
spaventati. Siccome tutti erano colpevoli, ben presto ciascuno si rassicurò; e poco a poco, volgendo
le spalle al Suffeta, ridiscesero, rodendosi d’umiliazione. Per la seconda volta, indietreggiavano
davanti a lui. Per qualche momento, restarono in piedi. Alcuni che si erano ferite le dita le
portavano alla bocca o le avvolgevano delicatamente nell’estremità dei loro mantelli, e stavano
andandosene quando Amilcare intese queste parole:
- Eh! E’ una delicatezza per non addolorare sua figlia!
S’alzò una voce più alta:
- Senza dubbio, poiché sceglie i suoi amanti fra i Mercenari!
In un primo momento vacillò, poi i suoi occhi cercarono rapidamente Shahabarim. Ma, solo, il
sacerdote di Tanit era restato al suo posto; e Amilcare da lontano non scorse che la sua alta cuffia.
Tutti gli sghignazzavano sulla faccia. A misura che la sua angoscia aumentava, raddoppiava la loro
gioia, e, tra gli schiamazzi, quelli che stavano dietro gridavano:
- E’ stato visto uscire dalla sua camera!
- Un mattino del mese di Tammuz!
- E’ il ladro dello Zaimf!
- Un gran bell’uomo!
- Più alto di te!
Egli si strappò la tiara, insegna della sua dignità; la sua tiara dagli otto ordini mistici che aveva nel
mezzo una conchiglia di smeraldo; e tenendola con le due mani, con tutte le sue forze, la scagliò per
terra. I cerchi d’oro infrangendosi rimbalzarono, e le perle tintinnarono sulle lastre di pietra. Allora
videro sul pallore della sua fronte una lunga cicatrice; si agitava come un serpente tra le sue
sopracciglia; tutto il suo corpo tremava. Salì per una delle scale laterali che conducevano sull’altare,
e vi camminava sopra. Era un modo di votarsi al Dio, di offrirsi in olocausto. Il movimento del suo
mantello faceva vacillare i bagliori del candelabro che bruciava sotto i suoi sandali, e il pulviscolo,
sollevato dai suoi passi, lo cingeva come una nuvola fino al ventre. Si fermò tra le gambe del
colosso di bronzo. Prese nelle sue mani due manciate di quella polvere la cui sola vista faceva
rabbrividire d’orrore tutti i Cartaginesi, e disse:
- Per i cento lumi delle vostre Intelligenze! Per gli otto fuochi dei Cabiri! Per le stelle, le meteore e
i vulcani! Per tutto ciò che brucia! Per il soffio del Deserto e la salsedine dell’Oceano! Per la
caverna di Adrumeto e l’impero delle Anime! Per lo sterminio! Per la cenere dei vostri figli, e la
cenere dei fratelli dei vostri antenati, con la quale ora confondo la mia! Voi, i Cento del Consiglio di
Cartagine, voi avete mentito accusando mia figlia! Ed io, Amilcare Barca, Suffeta del mare, Primo
fra i Ricchi, Dominatore del popolo, davanti a Moloch dalla testa di toro, io giuro…- Ci si aspettava
qualcosa di spaventoso, ma egli riprese con una voce più alta e più calma - Che a lei nemmeno ne
parlerò!
Entrarono i servitori del tempio, con in testa dei pettini d’oro; gli uni portavano delle spugne
di porpora e gli altri dei rami di palma. Rialzarono il drappo di giacinto che chiudeva la porta, e
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attraverso quel pertugio, si scorse in fondo alle altre sale il grande cielo rosa che sembrava
continuarne la volta, appoggiandosi all’orizzonte sul mare d’un azzurro intenso. Il sole,
sorgendo dalle onde, saliva. All’improvviso colpì il petto del colosso di bronzo, diviso in sette
scomparti chiusi da grate. Le sue fauci dai denti rossi si spalancavano in un orribile sbadiglio; le
sue enormi narici si dilatavano, il fulgore del giorno lo animava, donandogli un’aria terribile e
impaziente, come se volesse balzare fuori per unirsi all’astro, il Dio, e percorrere con lui le
immensità.
Frattanto le fiaccole sparse per terra bruciavano ancora, allungando qua e là sul pavimento di
madreperla come delle chiazze di sangue. Gli Anziani barcollavano, spossati; aspiravano a pieni
polmoni la freschezza dell’aria; il sudore colava sui loro volti lividi; per il troppo gridare, non ci
sentivano più. Ma la loro collera contro il Suffeta non s’era affatto calmata; a mo’ di saluto gli
lanciavano delle minacce, e Amilcare li rimbeccava:
- Alla prossima notte, Barca, nel tempio di Eshmun!
- Ci sarò!
- Ti faremo condannare dai Ricchi!
- Ed io dal popolo!
- Stai attento di non finire sulla croce!
- E voi, fatti a pezzi per le strade!
Appena furono sulla soglia del cortile, ripresero un aspetto quieto.
Alla porta li attendevano i loro corsieri e i loro cocchieri. I più se ne andarono in groppa a
delle mule bianche. Il Suffeta saltò sul suo carro, prese le redini; le due bestie, abbassando
l’incollatura e colpendo in cadenza i ciottoli che rimbalzavano, salirono al gran galoppo tutta la
via dei Mappali, e l’avvoltoio d’argento, sulla punta del timone,sembrava volare tanto il carro
correva veloce.
La strada attraversava un campo seminato di lunghe lapidi aguzze, somiglianti a delle piramidi,
che avevano scolpita nel mezzo una mano aperta come se il morto che riposava là sotto l’avesse
tesa verso il cielo per reclamare qualche cosa. Seguiva una distesa di capanne fatte di terra, di
rami, di graticci di giunco, tutte di forma conica. Muretti in pietra, rigagnoli d’acqua viva, corde
di sparto, siepi di nopale separavano disordinatamente quelle abitazioni, che viepiù si
ammucchiavano, salendo verso i giardini del Suffeta. Ma Amilcare allungava i suoi occhi verso
una grande torre i cui tre piani formavano tre cilindri smisurati, il primo di pietra, il secondo di
mattoni, e il terzo, tutto in legno di cedro, sosteneva una cupola di rame su ventiquattro colonne
di ginepro, dalle quali ricadevano, a mo’ di ghirlande, delle catenelle di bronzo intrecciate.
Quell’alto edificio dominava i fabbricati che si stendevano a destra, i magazzini, la sede
commerciale, mentre il palazzo delle donne si innalzava in fondo ai cipressi, allineati come due
muraglie di bronzo.
Allorché il carro risonante fu entrato attraverso la stretta porta, si fermò sotto un’ampia tettoia,
dove alcuni cavalli, trattenuti dalle pastoie, mangiavano dei mucchi d’erba falciata.
Tutti i servitori accorsero. Formavano una moltitudine, essendo stati ricondotti a Cartagine,
per paura dei soldati, quelli che lavoravano nelle campagne. I bifolchi, vestiti di pelli di
animali, , trascinavano le catene strette alle loro caviglie; gli operai delle manifatture di porpora
avevano le braccia rosse come carnefici; i marinai portavano un copricapo verde; i pescatori,
collane di corallo; i cacciatori, una reticella sulla spalla; e quelli di Megara delle tuniche bianche
oppure nere, calzoni di cuoio, cappucci di paglia, di feltro o di tela, secondo il loro servizio o la
loro differente arte.
Alle spalle, premeva una plebaglia cenciosa. Vivevano, costoro, senza alcun impiego, lontano
dai quartieri, la notte dormivano nei giardini, divoravano i resti delle cucine; muffa umana che
vegetava all’ombra del palazzo. Amilcare li tollerava, per prudenza ancor più che per disprezzo.
Tutti, come testimonianza di allegrezza, s’eran messi un fiore all’orecchio, e molti di loro non
l’avevano mai visto.
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Ma degli uomini, acconciati come sfingi e armati di grandi bastoni, si slanciarono tra la folla,
colpendo a destra e a manca. Lo facevano per respingere gli schiavi curiosi di vedere il padrone,
perché non fosse assalito dalla moltitudine e incomodato dal cattivo odore.
Allora si gettarono tutti ventre a terra gridando:
- Occhio di Baal, che la tua casa fiorisca! – E tra tutti quegli uomini prostrati lungo il viale dei
cipressi, l’intendente degli intendenti, Abdalonim, il capo coperto da una mitria bianca, avanzò
verso Amilcare, con un incensiere nella mano.
Salammbô scendeva in quel momento la scalinata delle galee. Tutte le sue donne le venivano
dietro; e, per ogni suo gradino, anch’esse ne scendevano uno. Le teste delle Negre segnavano di
grossi punti neri la fila di diademi in lamine d’oro che stringevano la fronte delle Romane. Altre
portavano fra i capelli frecce d’argento, farfalle di smeraldi, o spilloni spiegati come raggi di sole.
Sulla confusione di quelle vesti bianche, gialle e turchine, splendevano gli anelli, le fibbie, le
collane, le frange, i braccialetti; s’alzava un fruscio di stoffe leggere; si udiva lo scricchiolio dei
sandali assieme al rumore sordo dei piedi nudi che si posavano sul legno; e, qua e là, un grande
eunuco, che le superava di una spalla, sorrideva con la faccia in aria. Quando le acclamazioni degli
uomini si furono spente, nascondendosi il viso con le maniche, le donne cacciarono un grido
bizzarro, simile all’ululato di una lupa, così furibondo e stridulo che sembrava far vibrare come una
lira, dall’alto in basso, la grande scalinata d’ebano tutta coperta di donne.
Il vento sollevava i loro veli, e gli esili steli dei papiri oscillavano dolcemente. Si era nel mese di
Shebat, in pieno inverno. I melograni in fiore si gonfiavano contro l’azzurro del cielo, e attraverso i
rami appariva il mare con un’isola in lontananza, mezzo sperduta tra le brume.
Amilcare si fermò, scorgendo Salammbô. Gli era sopraggiunta dopo la morte di molti figli maschi.
Per altro, la nascita di una figlia era considerata una calamità nelle religioni del Sole. Gli Dei, più
avanti, gli avevano inviato un figlio; ma egli serbava dentro sé qualcosa delle sua speranza tradita e
come la scossa della maledizione che aveva pronunciato contro di lei. Salammbô, nel frattempo,
avanzava.
Perle di vario colore si allungavano in grappoli dalle sue orecchie sulle spalle, giù fino ai gomiti.
La sua capigliatura s’increspava in tal maniera da somigliare ad una nuvola. Portava, attorno al
collo, delle lamelle d’oro quadrangolari con l’effige di una donna tra due leoni impennati; e il suo
abbigliamento riproduceva esattamente il paludamento della Dea. La veste di giacinto, dalle larghe
maniche, le serrava la vita svasandosi verso il basso. Il rosso vermiglio delle labbra faceva sembrare
i suoi denti ancora più bianchi, e l’antimonio delle palpebre i suoi occhi più lunghi. I sandali,
ritagliati in un piumaggio d’uccello, avevano dei tacchi altissimi e lei era straordinariamente pallida,
senza dubbio a causa del freddo.
Infine giunse presso Amilcare, e, senza guardarlo, senza sollevare il capo, gli disse:
- Salute, Occhio di Baalim, gloria eterna! Trionfo! Agio! Soddisfazione! Ricchezza! E’ da molto
tempo che il mio cuore era triste, e la casa languiva. Ma il padrone che ritorna è come Tammuz
risuscitato; e sotto il tuo sguardo, padre, una gioia, una nuova vita sboccia ovunque.
E prendendo dalle mani di Taanach un piccolo vaso oblungo dove fumava una mistura di farina,
burro, cardamomo e vino:
- Bevi senza timore – disse – la bevanda del ritorno preparata dalla tua serva.
Egli replicò:
- Tu sia benedetta! – e macchinalmente afferrò il vaso ch’ella gli porgeva.
Intanto, la osservava con un’attenzione così severa che Salammbô turbata balbettò:
- T’hanno detto, padre!...
- Si! Lo so! – fece Amilcare a voce bassa.
Si trattava di una confessione? O lei parlava dei Barbari? E aggiunse qualche vaga parola su delle
perplessità diffuse ch’egli sperava di chiarire da solo.
- O padre! – esclamò Salammbô – Non potrai cancellare l’irreparabile!
Allora egli indietreggiò, e Salammbô si stupiva del suo sbalordimento; perché ella non
pensava affatto a Cartagine, ma al sacrilegio del quale si stimava complice. Quell’uomo che
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faceva tremare le legioni e che lei conosceva appena, l’intimoriva come un dio; lui aveva
dunque presagito, sapeva tutto, qualcosa di terribile stava per accadere. Ella esclamò:
- Grazia!
Amilcare abbassò il capo, lentamente.
Sebbene ella volesse accusarsi, non osava parlare; e tuttavia moriva dalla voglia di
compiangersi e di essere consolata. Amilcare combatteva il desiderio di infrangere il suo
giuramento. Lo manteneva per orgoglio, o per timore di por fine alla sua incertezza; e la
guardava in faccia, con tutte le sue forze, per scoprire ciò che ella nascondeva in fondo al suo
cuore.
Poco a poco, ansimando, Salammbô infossava la testa fra le spalle, estenuata da quello
sguardo troppo pesante. Ora egli era certo ch’ella fosse caduta tra le braccia di un Barbaro;
fremeva, levò al cielo i suoi due pugni. Ella lanciò un grido e cadde fra le sue donne, che le si
strinsero attorno.
Amilcare girò sui tacchi. Tutti gli intendenti lo seguirono.
Venne aperta la porta dei depositi, ed egli entrò in una vasta sala circolare dove mettevano
capo, come i raggi di una ruota al mozzo, dei lunghi corridoi che conducevano verso altre sale.
Nel centro si alzava un disco di pietra provvisto di colonnette per sostenere dei cuscini sparsi su
di un tappeto.
Dapprima il Suffeta vagò per la sala a grandi passi rapidi; respirava rumorosamente, batteva i
piedi a terra, agitava le mani davanti al viso come un uomo molestato dalle mosche. Ma scrollò
il capo, e accorgendosi della gran quantità delle sue ricchezze, si calmò. I suoi pensieri, attratti
dalle prospettive dei corridoi, si affrettavano verso le altre sale colme dei più rari tesori. Lastre
di bronzo, lingotti d’argento e barre di ferro si alternavano ai pani di stagno portati dalle isole
Cassiteridi attraverso il mare Tenebroso; le gomme del paese dei Negri traboccavano dai loro
sacchi in corteccia di palma; e la polvere d’oro, ammassata negli otri, sfuggiva insensibilmente
dalle cuciture troppo vecchie. Dei filamenti sottili, ottenuti dalle piante marine, pendevano tra i
lini d’Egitto, di Grecia, di Taprobane e di Giudea; delle madrepore, simili a larghi cespugli, si
drizzavano alla base dei muri; e un odore indefinibile fluttuava, esalazione dei profumi, delle
pelli conciate, delle spezie e delle piume di struzzo legate in grossi mazzi sotto la volta. Davanti
a ciascun corridoio, dei denti di elefante disposti in piedi, riunendosi per le punte, formavano un
arco sopra la porta.
Infine, montò sul disco di pietra. Tutti gli intendenti stavano a braccia conserte, la testa bassa,
mentre Abdalonim rizzava fieramente la sua mitria aguzza.
Amilcare interrogò il Capo della flotta. Era un vecchio pilota dalle palpebre scerpellate a
causa del vento, e con dei bioccoli bianchi che gli scendevano fino ai fianchi, come se la spuma
delle tempeste gli fosse restata sulla barba.
Rispose che aveva inviato navi via Gades e Timiamata, per cercare di raggiungere Eziongaber,
doppiando il Corno del Sud e il promontorio degli Aromi.
Altre avevano continuato verso l’Ovest, per quattro lune, senza incontrare alcuna terra; ma le
loro prue si impigliavano nelle erbe, l’orizzonte rimbombava di continuo del rumore delle
cateratte, nebbie color del sangue offuscavano il sole, una brezza carica di profumi intorbidiva
l’equipaggio; e tuttora non potevano riferire nulla, tanto la loro memoria era obnubilata. Nel
contempo si erano risaliti i fiumi degli Sciti, penetrati nella Colchide, presso gli Ingrii, presso
gli Estii, rapito nell’arcipelago millecinquecento vergini e affondate tutte le navi straniere che
navigavano oltre il capo Estrimone, affinchè il segreto delle rotte non fosse conosciuto. Il re
Tolomeo tratteneva l’incenso di Shesbar; Siracusa, Elatia, la Corsica non avevano fornito nulla,
e il vecchio pilota abbassò la voce per annunciare che una trireme era stata presa a Rusicada dai
Numidi:
- …perché stanno con loro, Padrone.
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Amilcare aggrottò le sopracciglia; poi fece segno di parlare al Capo dei viaggi, coperto da una
veste bruna priva di cintura, e con la testa avvolta in una sciarpa di stoffa bianca che, passando al
bordo della sua bocca, gli ricadeva all’indietro sulla spalla.
Le carovane erano partite regolarmente all’equinozio d’inverno. Ma, dei millecinquecento uomini
che si erano diretti ai confini dell’Etiopia con degli eccellenti cammelli, degli otri nuovi e delle
provviste di tele colorate, uno solo aveva fatto ritorno a Cartagine; gli altri erano morti di fatica o
impazziti per gli orrori del deserto. Costui raccontava di aver visto ben oltre l’Harush Nero, dopo gli
Ataranti e il paese delle grandi scimmie, immensi reami dove anche gli utensili più modesti sono
tutti in oro; un fiume color del latte, ampio come un mare; foreste d’alberi azzurri, colline di aromi,
mostri dal viso umano che vegetano sulle rocce e le cui pupille, per guardarvi, sbocciano come fiori;
poi, dietro lagune popolate di draghi, montagne di cristallo che sostengono il sole.
Altri erano tornati dall’India con pavoni, pepe, e nuovi tessuti. Quanto a quelli andati ad
acquistare calcedonio per la strada delle Sirti e il Tempio di Ammone, senza dubbio erano periti tra
le sabbie. Le Carovane della Getulia e della Fazzania avevano fornito i loro abituali proventi; ma al
presente non osava, lui, il Capo dei viaggi, equipaggiarne nessuna.
Amilcare comprese; i Mercenari occupavano le campagne. Con un gemito smorzato, si appoggiò
sull’altro gomito; e il Capo delle masserie aveva così paura di parlare, che tremava orribilmente
malgrado le sue spalle larghe e le sue grosse pupille rosse. La sua faccia, camusa come quella di un
mastino, era sormontata da una reticella in spago di corteccia; portava un cinturone in pelle di
leopardo folto di peli, sul quale rilucevano due formidabili coltellacci.
Appena Amilcare si volse, cominciò, gridando, ad invocare tutti i Baal. Non era colpa sua! Non
poteva farci niente! Aveva rispettato le temperature, i terreni, le stelle, fatte le semine al solstizio
d’inverno, le potature in luna calante, controllato gli schiavi, risparmiato sul loro tenore di vita.
Ma Amilcare si irritava per tutte quelle parole. Schioccò la lingua e l’uomo dai coltellacci
parlando in fretta:
- Ah, Padrone! Hanno rubato ogni cosa! Saccheggiato! Distrutto tutto! Tremila tronchi d’albero
tagliati a Mashala, e a Ubada i granai sfondati, le cisterne tracimate! A Tedes, hanno portato via
millecinquecento gomor di farina; a Marazzana, ucciso i pastori, mangiato gli armenti, bruciato la
tua casa, la tua bella casa in legno di cedro, dove venivi l’estate! Gli schiavi di Tuburbo, che
mietevano l’orzo, son fuggiti verso le montagne; e gli asini, i bardotti, le mule, i buoi di Taormina, e
i cavalli zebrati, neppure uno solo! Tutti portati via! E’ una maledizione! Ne morirò! Riprendeva
piangendo:
- Ah, se tu sapessi come erano colmi i cellieri e rilucenti gli aratri! Ah, i begli arieti! Ah, i
magnifici tori!
Amilcare soffocando per la collera, esplose:
- Taci! Sono dunque un poveraccio? Niente frottole! Parlate! Voglio sapere tutto quello che ho
perduto, fino all’ultimo siclo, fino all’ultimo cab! Abdalonim, portami i conti delle navi, quelli delle
carovane, quelli delle masserie, quelli della casa! E se avete la coscienza sporca, siate maledetti! –
Andatevene ora!
Tutti gli intendenti camminando a ritroso, con i pugni che toccavano terra, uscirono.
Abdalonim andò a prendere in uno scaffale, dentro il muro, alcune corde munite di nodi, delle
strisce di tela o di papiro, scapole di montone zeppe di caratteri minuti. Depose ogni cosa ai piedi di
Amilcare, gli mise tra le mani un telaio di legno con all’interno tre cordicelle sulle quali stavano
infilate delle palline d’oro, d’argento e di corno, e cominciò:
- Centonovantadue case nei Mappali affittate a Cartaginesi nuovi in ragione di una beka per luna.
- No, è troppo! Risparmia i poveri! E scriverai i nomi di quelli che ti sembreranno più audaci,
cercando di scoprire se sono affezionati alla Repubblica. Dopo?
Abdalonim esitava, sorpreso da quella generosità.
Amilcare gli strappò dalle mani le strisce di tela.
- Cos’è mai ciò? Tre palazzi nei dintorni di Khamon a dodici kesitah per mese? Mettili a venti. Non
voglio che i Ricchi mi divorino.
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L’intendente degli intendenti, dopo un lungo inchino, riprese:
- Prestati a Tigillas, fino alla fine della stagione, due kikar all’ultimo tre, interesse marittimo. A Bar
Malkarth, millecinquecento sicli su pegno di trenta schiavi. Ma dodici sono morti nelle saline.
- Vuol dire che non erano robusti – disse ridendo il Suffeta – Non importa! Se gli serve denaro,
soddisfalo! Bisogna sempre prestare, e ad interessi diversi, secondo la ricchezza delle persone.
Allora il servitore si affrettò a leggere tutto quello che avevano reso le miniere di ferro di Annaba,
le peschiere di corallo, le fabbriche di porpora, l’appalto dell’imposta sui Greci domiciliati,
l’esportazione dell’argento in Arabia dove valeva dieci volte l’oro, le navi predate, dedotta la
decima per il tempio della Dea:
- Ogni volta ho dichiarato un quarto di meno, Padrone! - Amilcare contava con le biglie; esse
risuonavano sotto le sue dita.
- Basta! Cosa hai pagato?
- A Stratoniclo di Corinto e a tre mercanti di Alessandria, sulle lettere che vedi, infatti sono
rientrate, diecimila dracme ateniesi e dodici talenti d’oro siriani. Il vitto degli equipaggi è salito a
venti mine al mese per una trireme…
- Lo so! Quante di perdute?
- Ecco qui il conto su queste lamelle di piombo – disse l’intendente – Quanto alle navi noleggiate
in società, siccome spesso è stato necessario gettare i carichi in mare, si sono ripartite le perdite in
parti disuguali fra gli associati. Per del cordame preso a prestito agli arsenali e che è stato
impossibile rendere, i Sissizi han preteso ottocento kesitah, prima della spedizione di Utica.
- Ancora loro! – fece Amilcare chinando il capo; e se ne stette per un poco come oppresso dal peso
di tutto l’odio che gravava su di lui.
- Ma non vedo le spese di Megara?
Abdalonim, impallidendo, andò a prendere, in un altro casellario, alcune tavolette di sicomoro
infilate a mazzette su cordini di cuoio.
Amilcare lo ascoltava, curioso delle minuzie domestiche, abbandonandosi alla monotonia di
quella voce che enumerava delle cifre. Abdalonim trascinava il discorso. Di colpo lasciò cadere a
terra i fogli di legno e lui stesso si gettò bocconi, le braccia distese, nella posizione di chi implora
grazia. Amilcare, senza turbarsi, raccattò le tavolette e, quando scorse nelle spese di una sola
giornata, un esorbitante quantità di carni, pesci, uccelli, vini e spezie, del vasellame rotto, degli
schiavi morti, dei tappeti andati perduti, spalancò le labbra e sbarrò gli occhi.
Abdalonim, sempre prosternato, lo mise al corrente del festino dei Barbari. Non aveva potuto
sottrarsi agli ordini degli Anziani; Salammbô, d’altra parte, aveva voluto non si badasse a spese per
ricevere nel miglior modo i soldati.
Al nome di sua figlia, Amilcare scattò in piedi. Poi, stringendo le labbra, si accovacciò sui cuscini.
Ne lacerava le frange con le unghie, il respiro corto, gli occhi fissi.
- Alzati! – disse; e discese.
Abdalonim lo seguiva; le sue ginocchia tremavano. Ma afferrando una sbarra di ferro, si mise con
al furia di un pazzo a svellere il lastricato. Spuntò un disco di legno, e ben presto lungo tutto il
corridoio ne apparvero altri di questi larghi coperchi che chiudevano i pozzi ove si conservava il
grano.
- Lo vedi Occhio di Baal – disse tremando il servitore – non hanno ancora preso tutto! E queste
buche sono profonde, ciascuna, cinquanta cubiti e piene fino all’orlo! Durante la tua assenza, ne ho
fatte scavare negli arsenali, nei giardini, ovunque! La tua casa trabocca di frumento, come il tuo
cuore di saggezza.
Un sorriso passò sul volto di Amilcare:
- Ben fatto, Abdalonim! - Poi curvandosi al suo orecchio: - Ne farai venire dall’Etruria, dal Bruzio,
da dove ti parrà, e non importa a quale prezzo! Ammassalo e conservalo! Occorre che io possieda,
io solo, tutto il frumento di Cartagine.
Poi, quando furono in fondo al corridoio, Abdalonim, con una delle chiavi che gli penzolavano
dalla cintura, aprì una grande camera quadrangolare, divisa nel mezzo da colonne di cedro. Monete
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d’oro, d’argento, di rame, disposte su tavole o ammassate entro nicchie, si ammonticchiavano lungo
le quattro pareti fino alle travi del soffitto. Negli angoli, enormi panieri in pelle di ippopotamo
reggevano una schiera di sacchi più piccoli; cumuli di monete di rame formavano dei monticelli sul
lastricato di pietra; e qua e là, qualche pila troppo alta, essendo crollata, pareva una colonna in
rovina. Le grandi monete di Cartagine, raffiguranti Tanit con un cavallo sotto una palma, si
mischiavano a quelle delle colonie, contrassegnate da un toro, una stella, un globo o una mezzaluna.
Poi si vedevano, ordinate in diverse quantità, monete di tutti i valori, di tutte le dimensioni, di tutte
le età; dalle antiche d’Assiria, sottili come unghie, fino alle antiche del Lazio, più spesse di una
mano, insieme ai bottoni d’Egina, alle tavolette della Battriana, alle barrette dell’antica Sparta;
molte erano rose dalla ruggine, sudice, rese verdi dall’acqua o annerite dal fuoco, essendo state
raccolte nelle reti o dopo gli assedi tra le macerie delle città. Il Suffeta calcolò velocemente se le
somme presenti corrispondevano ai profitti e alle perdite che gli erano stati letti; e se ne andava
quando scorse tre orci di rame completamente vuoti. Abdalonim distolse lo sguardo in segno
d’orrore, e Amilcare rassegnato non disse nulla.
Attraversarono altri corridoi, altre sale e infine giunsero davanti ad una porta dove, per custodirla
meglio, un uomo era attaccato per il ventre ad una lunga catena fissata nel muro, usanza romana da
poco introdotta a Cartagine. La sua barba e le sue unghie erano cresciute smisuratamente, ed egli
oscillava a destra e a sinistra nell’inesausta agitazione delle bestie in cattività. Non appena
riconobbe Amilcare, si slanciò verso di lui gridando:
- Grazia, Occhio di Baal! Pietà! Uccidimi! Sono dieci anni che non vedo il sole! In nome di tuo
padre, grazia!
Amilcare, senza rispondergli, batté le mani, apparvero tre uomini; e tutti e quattro assieme,
tirando con le braccia, levarono dai suoi anelli l’enorme sbarra che bloccava la porta. Amilcare
prese una fiaccola, e disparve nelle tenebre.
Quel luogo, si credeva fosse il sepolcro di famiglia; ma non si sarebbe trovato che un ampio
pozzo. Era stato scavato al solo scopo di sviare i ladri, e non nascondeva nulla. Amilcare vi passò
accanto; poi, chinandosi, fece girare sui suoi rulli una macina assai pesante, e attraverso
quell’apertura entrò in una stanza costruita in forma di cono.
Delle scaglie di rame ricoprivano i muri; nel mezzo, su un piedestallo di granito s’alzava la statua
di un Cabiro di nome Alete, inventore delle miniere presso i Celtiberi. Contro la sua base, per terra,
erano disposti in croce dei larghi scudi d’oro e dei mostruosi vasi d’argento, a collo chiuso, d’una
forma stravagante e di nessuna utilità; poiché si usava fondere in tal modo delle grandi quantità di
metallo così che gli sprechi e gli spostamenti stessi fossero pressoché impossibili.
Con la sua fiaccola, accese una lampada da minatore fissata al berretto dell’idolo; dei fuochi verdi,
gialli, azzurri, violetti, color del vino, color del sangue, di colpo illuminarono la sala. Era piena di
pietre preziose contenute in coppe d’oro appese come lampadari alle sottili piastre di rame, o nei
loro blocchi nativi ordinati alla base delle pareti. Erano delle callaidi cavate dalle montagne a colpi
di fionda, carbonchi formati dall’urina delle linci, glossopietre cadute dalla luna, tiani, diamanti,
sandastri, berilli, le tre varietà del rubino, le quattro specie di zaffiri, e le dodici di smeraldi.
Sfolgoravano, simili a schizzi di latte, a ghiaccioli azzurri, a polvere d’argento, e scagliavano i loro
lampi a mo’ di specchi, di raggi, di stelle. Le ceraunie generate dal fulmine scintillavano vicino alle
calcedonie che curano gli avvelenamenti. C’erano topazi del monte Zabarca per prevenire gli
spaventi, opali della Battriana che impediscono gli aborti, ed i corni di Ammone che si mettono
sotto il letto per favorire i sogni.
I fuochi delle pietre e le fiamme della lampada si specchiavano nei grandi scudi d’oro. Amilcare
in piedi sorrideva, le braccia conserte; e si dilettava meno dello spettacolo che della consapevolezza
delle sue ricchezze. Erano inaccessibili, inesauribili, infinite. I suoi antenati, che riposavano sotto i
suoi piedi, trasmettevano al suo cuore qualcosa della loro eternità. Si sentiva prossimo ai geni
sotterranei. Era come la gioia di un Cabiro; e i grandi raggi luminosi che colpivano il suo viso gli
sembravano l’estremità di un’invisibile rete che, attraverso gli abissi, lo legava al centro del mondo.
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Un’idea lo fece trasalire, e postosi dietro l’idolo, andò diritto verso il muro. Poi osservò tra i
tatuaggi del suo braccio una linea orizzontale con due altre perpendicolari, che significavano, in
cifre cananee, il numero tredici. Allora contò fino alla tredicesima piastra di rame, rialzò di nuovo la
sua ampia manica; e con la mano destra distesa, leggeva in un altro punto del suo braccio delle altre
linee più complicate, muovendo delicatamente le sue dita, come un suonatore di lira. Infine, con il
suo pollice, batté sette colpi; e tutta assieme, una parte della muraglia girò.
Dissimulava una sorta di sotterraneo, dove erano rinchiuse delle cose misteriose, innominabili, e
di un valore incalcolabile. Amilcare discese tre gradini; prese da un tino d’argento una pelle di lama
che galleggiava sopra un liquido nero, poi risalì.
Allora Abdalonim riprese a camminare davanti a lui. Colpiva il pavimento con la sua lunga canna
dall’impugnatura guarnita di campanelli, e, dinnanzi a ciascuna stanza, gridava il nome di Amilcare,
accompagnato da lodi e benedizioni.
Nella galleria circolare ove facevano capo tutti i corridoi, erano stati accatastati lungo i muri dei
travicelli d’algummin, dei sacchi di lausonia, dei pani di terra di Lemno, e dei gusci di tartaruga
colmi di perle. Il Suffeta, passando, li sfiorava con la sua veste, senza nemmeno considerare i
giganteschi pezzi d’ambra, materia quasi divina prodotta dai raggi del sole.
Si sprigionò una nuvola di vapori profumati.
- Spingi la porta!
Entrarono.
Alcuni uomini nudi lavoravano degli impasti, tritavano erbe, attizzavano carboni, versavano
dell’olio negli orci, aprivano e chiudevano delle cellette ovoidali scavate nel perimetro della
muraglia, in così gran numero che la stanza somigliava all’interno di un alveare. Traboccavano di
mirabolano, bdellio, zafferano e violette. Ovunque erano sparpagliate resine, polveri, radici, fiale di
vetro, rami di filipendula, petali di rosa; e si soffocava negli aromi, malgrado i turbini di storace che
nebulizzava nel centro, su un treppiedi di rame.
Il Capo dei profumi soavi, pallido e lungo come una candela, avanzò verso Amilcare per
spremergli nelle mani un involto di metopio, mentre due altri gli strofinavano i talloni con foglie di
baccari. Egli li respinse; erano Cirenei dagli immondi costumi, ma tenuti in considerazione a causa
dei loro segreti.
Alfine di mettere in mostra la sua solerzia, il Capo dei profumi offrì al Suffeta, dentro un
cucchiaio di ambra, un po’ di malobatro da gustare; poi con una lesina forò tre bezoari indiani. Il
Padrone, pratico di espedienti, prese un corno colmo di balsamo, e dopo averlo messo sui carboni,
lo inclinò sulla sua veste; vi apparve una macchia bruna, si trattava d’un imbroglio. Allora guardò
dritto negli occhi il Capo dei profumi, e senza dir nulla gli scagliò in faccia il corno di gazzella.
Per quanto indignato della frode commessa a suo svantaggio, scorgendo dei pacchetti di nardo che
venivano imballati per i paesi d’oltremare, ordinò di mischiarvi dell’antimonio, per renderli più
pesanti.
Poi chiese dove si trovassero le tre scatole di psagdas destinate al suo uso personale.
Il Capo dei profumi confessò di non saperne nulla; erano venuti alcuni soldati con dei coltelli,
urlando; aveva aperto loro gli scomparti.
- Li temi dunque più di me! – gridò il Suffeta; e attraverso il fumo, le sue pupille, simili a torce,
lampeggiavano sul grand’uomo pallido che cominciava a capire.
- Abdalonim, prima che il sole tramonti lo farai battere a dovere: fallo a pezzi!
Quel danno, minore degli altri, l’aveva però esasperato; malgrado gli sforzi per scacciarli dai suoi
pensieri, ritrovava continuamente i Barbari. I loro eccessi si confondevano con l’onta di sua figlia, e
ce l’aveva con tutta la casa di esserne al corrente e di non dirgli nulla. Ma qualcosa lo spingeva a
sprofondare nel suo cruccio; e colto da una furia inquisitoria, ispezionò sotto le tettoie, dietro la casa
dei commerci, le provviste di bitume, di legno, di ancore e di cordami, di miele e di cera, i
magazzini delle stoffe, le riserve di alimenti, il cantiere dei marmi, il deposito del silfio.
Andò dall’altro lato del giardino a controllare, nei loro tuguri , gli artigiani domestici i cui prodotti
venivano venduti. Alcuni sarti ricamavano mantelli, altri intrecciavano reti, altri ancora scardavano
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cuscini, tagliavano sandali; degli operai egiziani con una conchiglia lisciavano dei papiri, la spola
del tessitore schioccava, le incudini degli armaioli risuonavano.
Amilcare disse loro:
- Forgiate delle spade! Forgiatene a non finire! Me ne occorreranno – E cavò dal costato la pelle
d’antilope macerata nei veleni perché gliene facessero una corazza più solida di quelle in bronzo, e
che fosse inattaccabile dal ferro e dal fuoco.
Giacché si era avvicinato agli operai, Abdalonim, al fine di sviare la sua collera, si studiava di
irritarlo contro di loro denigrandone le opere con delle lamentele:
- Che lavori! E’ una vergogna! Davvero il Padrone è troppo buono - Amilcare senza dargli retta, si
allontanava.
Rallentò, poiché dei grandi alberi completamente carbonizzati, come se ne trovano nei boschi
dove han fatto campo i pastori, sbarravano il cammino; e le palizzate erano rotte, l’acqua
fuoriusciva dai fossati, schegge di vetro, carcasse di scimmie spuntavano nel mezzo di pozzanghere
melmose. Qualche brindello di stoffa qua e là pendeva da un cespuglio; sotto gli alberi di limone i
fiori marciti formavano una putredine gialla. In effetti i servi avevano abbandonato ogni cosa,
credendo che il padrone non sarebbe tornato.
Ad ogni passo scopriva qualche nuovo disastro, un’ulteriore indizio di quella cosa che non voleva
sapere. Ecco ora che i suoi stivaletti di porpora si insudiciavano calpestando delle immondizie; e
non aveva fra le mani tutti quegli uomini, davanti a lui su di una catapulta, per farli volare in pezzi!
Si sentiva umiliato di averli difesi; era una frode, un tradimento; e siccome non poteva vendicarsi ne
dei soldati, ne degli Anziani, ne di Salammbô, insomma di nessuno, e la sua collera qualcuno
esigeva, condannò alle miniere, d’un sol colpo, tutti gli schiavi dei giardini.
Abdalonim rabbrividiva ogni volta che lo vedeva avvicinarsi ai recinti. Ma Amilcare prese il
sentiero del mulino, dal quale sentiva uscire una lugubre melopea.
Le pesanti macine giravano avvolte nella polvere, sarebbe a dire due coni di porfido sovrapposti,
dei quali quello superiore, provvisto di un imbuto, ruotava sull’altro per mezzo di robuste sbarre.
Con il petto e le braccia alcuni uomini spingevano mentre altri, aggiogati, tiravano. Lo sfregamento
della cinghia aveva formato attorno alle loro ascelle delle croste purulenti come se ne vedono sul
garrese degli asini, e lo straccio nero e floscio che copriva a malapena i loro fianchi, pendendo per
un capo, li colpiva sui garretti come una lunga coda. I loro occhi erano rossi, i ferri ai loro piedi
tintinnavano, tutti i loro petti ansavano all’unisono. Avevano sulla bocca, fissata con due catenelle
di bronzo, una musoliera, perché non potessero mangiare la farina, e dei guanti di ferro senza dita
serravano le loro mani perché non potessero prenderne.
Al sopraggiungere del padrone, le stanghe di legno scricchiolarono più forte. Il grano, tritandosi,
strideva. Molti caddero sulle ginocchia; gli altri, incuranti, li calpestavano.
Chiese di Giddenem, il governatore degli schiavi; e quel personaggio si presentò, mostrando la
propria dignità nella ricchezza del suo abbigliamento; ché la sua tunica, aperta sui lati, era di fine
porpora, pesanti anelli stiravano le sue orecchie, e, per serrare le strisce di stoffa che fasciavano le
sue gambe, un laccetto d’oro, come un serpente attorno ad un albero, gli saliva dalle caviglie alle
anche. Teneva tra le dita, cariche di anelli, una collana di grani di giaietto per riconoscere gli uomini
soggetti al mal sacro.
Amilcare gli fece segno di togliere le musoliere. Allora, con gridi di bestie affamate, tutti si
avventarono sulla farina, che divoravano affondando la faccia nei mucchi.
- Tu li estenui! – disse il Suffeta.
Giddenem rispose che era necessario per domarli.
- E’ valso a poco mandarti a Siracusa alla scuola degli schiavi. Fai venire gli altri!
E i cuochi, i dispensieri, i palafrenieri, i messaggeri, i portatori di lettiga, gli uomini addetti alle
stufe e le donne con i loro figli, tutti quanti si schierarono nel giardino su una sola linea, dalla casa
di commercio fino al recinto degli animali selvaggi. Trattenevano il fiato. Un gran silenzio
incombeva su Megara. Il sole si allungava sulla laguna, ai piedi delle catacombe. I pavoni piavano.
Amilcare, passo passo, procedeva.
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- Che me ne faccio di questi vecchi? – disse – Vendili! Ci sono troppi Galli, sono degli ubriaconi!
E troppi Cretesi, sono bugiardi! Acquistami dei Cappadoci, degli Asiatici, dei Negri.
Si stupì del piccolo numero di bambini:
- Ogni anno, Giddenem, la casa deve avere delle nascite! Tutte le notti lascerai le capanne
aperte in maniera che possano unirsi liberamente.
Di seguito volle vedere i ladri, i pigri, i ribelli. Distribuiva castighi e rimproveri a Giddenem; e
Giddenem, come un toro chinava la sua fronte bassa, dove si incrociavano due larghi sopraccigli.
- Guarda, Occhio di Baal – disse, indicando un robusto Libico – ecco uno che è stato sorpreso
con la corda al collo.
- Ah! Tu vuoi morire? – fece sdegnosamente il Suffeta.
E lo schiavo, con accento intrepido:
- Si!
Allora, senza preoccuparsi dell’esempio ne del danno pecuniario, Amilcare disse ai servi:
- Portatelo via!
Forse meditava un sacrificio. Era una disgrazia che si infliggeva per prevenirne delle più
terribili.
Giddenem aveva nascosto i mutilati dietro gli altri. Amilcare li scorse:
- A te, chi ti ha tagliato il braccio?
- I soldati, occhio di Baal.
Poi, ad un Sannita che zoppicava come un airone ferito:
- E tu, chi t’ha fatto questo?
Era stato il governatore, spezzandogli la gamba con una sbarra di ferro.
Quell’imbecille atrocità indignò il Suffeta; e, strappando dalle mani di Giddenem la sua
collana di giaietto:
- Maledizione al cane che ferisce il gregge. Storpiare degli schiavi, bontà di Tanit! Ah! Tu
rovini il tuo padrone! Meriti di essere soffocato nello sterco. E quelli che mancano? Che fine
han fatto? Li hai assassinati in combutta coi soldati?
Il suo aspetto era così terribile che le donne fuggirono. Gli schiavi indietreggiando formavano
un grande cerchio intorno a loro; Giddenem, delirante, gli baciava i sandali; Amilcare, in piedi,
teneva le braccia levate su di lui.
Ma, la mente lucida come nel fuoco delle battaglie, si ricordava di mille cose odiose,
ignominie delle quali s’era scordato; e, al lume della sua collera, come tra le folgori di una
tempesta, egli rivedeva tutte assieme le sue sciagure. I governatori delle campagne erano fuggiti
per paura dei soldati, forse per connivenza, tutti lo ingannavano, da troppo tempo si conteneva.
- Che vengano condotti! – gridò – E marchiateli sulla fronte con i ferri roventi, come dei
vigliacchi!
Allora si portarono e si sparsero nel mezzo del giardino pastoie, gogne, coltelli, delle catene
per i condannati alle miniere, dei ceppi che immobilizzavano le gambe, numelle che
bloccavano le spalle, e gli scorpioni, staffili a tre cinghie che terminavano con artigli di rame.
Furono tutti messi con la faccia rivolta al sole, dalla parte di Moloch divoratore, stesi sul
ventre o sulla schiena, e i condannati alla flagellazione, in piedi contro gli alberi, con due
uomini accanto a loro, uno che contava i colpi e un altro che batteva.
Batteva a due braccia; le cinghie sibilando facevano volare la corteccia delle piante. Il sangue
si spargeva a pioggia nel fogliame, e delle sagome rosse si torcevano urlando alla base degli
alberi. Quelli a cui venivano messi i ferri si graffiavano il viso con le unghie. Si sentivano le viti
di legno scricchiolare; rimbombavano colpi sordi; a volte un grido acuto, di colpo, attraversava
l’aria. Dalla parte delle cucine, tra vesti stracciate e capigliature gettate a terra, alcuni uomini,
armati di ventole, attizzavano dei carboni, e ne veniva un odore di carne bruciata. I flagellati
venendo meno, trattenuti tuttavia dai legacci alle loro braccia, reclinavano il capo sulle spalle
chiudendo gli occhi. Gli altri, che guardavano, si misero a gridare per lo spavento, e i leoni,
rammentandosi forse il festino, si allungavano sbadigliando contro il bordo delle fosse.
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Si vide allora Salammbô sulla piattaforma della sua terrazza. La percorreva rapidamente
avanti e indietro, tutta trepidante. Amilcare la scorse. Gli sembrò ch’ella levasse le braccia verso
di lui per chiedere grazia; con un gesto d’orrore si eclissò nel recinto degli elefanti.
Quegli animali erano l’orgoglio delle grandi casate puniche. Avevano trasportato gli antenati,
trionfato nelle guerre, e li si venerava quali favoriti del sole.
Quelli di Megara erano i più forti di Cartagine. Amilcare, prima di partire, aveva preteso da
Abdalonim il giuramento che li avrebbe custoditi. Ma erano morti a causa delle mutilazioni
subite; e ne restavano tre soltanto, distesi nel mezzo della corte, nella polvere, davanti ai resti
delle loro mangiatoie.
Lo riconobbero e gli andarono incontro.
Uno aveva le orecchie orribilmente lacerate, l’altro una larga piaga al ginocchio, e il terzo la
proboscide mozzata.
Tuttavia lo guardavano con aria triste, come delle persone ragionevoli; e quello che non aveva
più la proboscide, abbassando la sua enorme testa e piegando i garretti, si sforzava di carezzarlo
dolcemente con la ripugnante estremità del suo moncone.
A quelle tenerezze dell’animale, due lacrime gli scaturirono dagli occhi. Balzò su Abdalonim.
- Ah! Miserabile! La croce! La croce!
Abdalonim, svenendo, cadde per terra arrovesciato.
Dietro le fabbriche di porpora, dalle quali pigre fumate azzurre salivano al cielo, risuonò un
latrato di sciacallo; Amilcare s’arrestò.
Il pensiero di suo figlio, come il tocco di un dio, l’aveva di colpo calmato. Era un
prolungamento della sua forza, una indefinita continuazione della sua persona ch’egli
intravvedeva, e gli schiavi non capivano da dove gli fosse giunta quella quiete.
Dirigendosi verso le fabbriche di porpora, passò davanti all’ergastolo, un lungo fabbricato di
pietra nera costruito in una fossa quadrata, con una stradina tutt’intorno e quattro scale agli
angoli.
Per compiere il suo segnale, Iddibal senza dubbio aspettava la notte. Non c’è fretta, pensava
Amilcare; e discese nella prigione. Alcuni gli gridarono:
- Torna indietro – I più arditi lo seguirono.
La porta spalancata sbatteva al vento. Dalle strette feritoie entrava il crepuscolo, e nell’interno
si distinguevano delle catene spezzate che pendevano dai muri.
Ecco tutto ciò che restava dei prigionieri di guerra.
Allora Amilcare impallidì straordinariamente, e quelli che si erano sporti sulla fossa lo videro
appoggiarsi con una mano contro il muro per non cadere.
Ma lo sciacallo, tre volte di seguito, gridò. Amilcare sollevò il capo; non disse una parola, non
fece un gesto. Poi, quando il sole fu completamente tramontato, scomparve dietro una siepe di
nopale, e la sera, all’assemblea dei Ricchi nel tempio di Eshmun, entrando disse:
- Luci di Baalim, accetto il comando delle forze puniche contro l’armata dei Barbari!
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VIII
La battaglia del Macar
L’indomani, cavò ai Sissizi duecentoventitremila kikar d’oro, decretò un’imposta di quattordici
shekel sui Ricchi. Le donne stesse contribuirono; si pagava per i figli, e, fatto straordinario nelle
consuetudini cartaginesi, forzò i collegi dei sacerdoti a fornire denaro.
Reclamò tutti i cavalli, tutti i muli, tutte le armi. Alcuni vollero dissimulare le proprie ricchezze,
si vendettero i loro beni; e, per mettere in imbarazzo l’avarizia degli altri, egli stesso donò sessanta
armature e millecinquecento gommor di farina, lui solo altrettanto che la Compagnia dell’avorio.
Mandò ad arruolare soldati in Liguria, tremila montanari abituati a combattere gli orsi; anticipò
loro sei lune di paga, a quindici mine al giorno. Tuttavia occorreva un’intera armata. Non accettò,
come Annone, tutti i cittadini. Per cominciare rifiutò gli uomini che svolgevano lavori sedentari, poi
i pancioni e quelli che avevano l’aspetto di pusillanimi; ed accettò degli uomini privi d’onore, i
crapuloni di Malqua, i figli dei Barbari, gli affrancati. Per ricompensa, promise ai Cartaginesi nuovi
il pieno diritto di cittadinanza.
Il suo primo pensiero fu di riformare la Legione. Quei bei giovanotti che si consideravano come
la nobiltà militare della Repubblica, si governavano da soli. Revocò i loro ufficiali; li trattava
rudemente, li faceva correre, saltare, salire tutto d’un fiato il pendio di Byrsa, lanciare giavellotti,
lottare corpo a corpo, la notte dormire sulle piazze. Le loro famiglie venivano a vederli e li
compiangevano.
Ordinò delle spade più corte, degli stivaletti più resistenti. Fissò il numero dei servi e ridusse i
bagagli; e siccome nel tempio di Moloch v’erano in deposito trecento giavellotti romani, malgrado
le proteste del pontefice, li prese.
Con quelli che erano ritornati da Utica ed altri in possesso di privati, organizzò una falange di
settantadue elefanti e li rese formidabili. Armò i loro conducenti di una mazza e di uno scalpello,
affinché li potessero abbatter se si imbizzarrivano nella mischia.
Non permise assolutamente che i suoi generali fossero nominati dal Gran Consiglio. Gli Anziani
si sforzavano di opporgli la legge, lui trovava una scappatoia; non si osava più protestare, tutto
soggiaceva alla violenza del suo genio.
Lui solo s’era fatto carico della guerra, del governo e delle finanze; e, alfine di prevenire
qualunque accusa, chiese come revisore dei conti il suffeta Annone.
Decideva di rafforzare i bastioni, e, per procurarsi le pietre, faceva demolire le vecchie mura
interne, al momento inutili. Ma le differenze di classe, che avevano sostituito la gerarchia delle
razze, seguitavano a mantenere divisi i figli dei vinti da quelli dei conquistatori; così i patrizi videro
di malocchio la distruzione di quelle rovine, mentre la plebe, senza quasi sapere il perché, se ne
rallegrava.
Le truppe in armi, dal mattino alla sera, sfilavano nelle strade; ad ogni momento si sentivano
squillare le tombe; sui carri che transitavano v’erano scudi, tende, picche; i cortili erano pieni di
donne che sbrindellavano della tela; l’ardore passava dall’uno all’altro; l’anima di Amilcare
riempiva la Repubblica.
Aveva diviso i suoi soldati in numeri pari, avendo pensato di piazzare lungo le file, alternati, un
uomo forte e uno debole, affinché il meno vigoroso o il più codardo fosse guidato e insieme spinto
dagli altri due. Ma con i suoi tremila Liguri e i migliori di Cartagine, non poté formare che una
falange semplice di quattromilanovantasei opliti, protetti da caschi di bronzo, che maneggiavano
delle sarisse di frassino lunghe quattordici cubiti.
Duemila giovani portavano fionde, un pugnale e calzavano sandali. Li rinforzò di altri ottocento
armati d’uno scudo rotondo e d’una spada romana.
La cavalleria pesante si componeva delle millenovecento guardie che restavano alla Legione,
coperte con lamine di bronzo dorato, come i Clinabari assiri. Aveva inoltre quattrocento arcieri a
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cavallo, di quelli che chiamavano Tarentini, con dei berretti in pelle di donnola, un’ascia a doppio
taglio e una tunica di cuoio. Infine mille duecento Negri del quartiere delle carovane, mischiati ai
Clinabari, dovevano correre vicino agli stalloni, tenendosi con una mano alla criniera. Tutto era
pronto, e ciononostante Amilcare non partiva.
Sovente la notte usciva da Cartagine, solo, e scompariva oltre la laguna, verso la foce del Macar.
Voleva unirsi ai Mercenari? I Liguri accampati sui Mappali circondavano la sua casa.
Le apprensioni dei Ricchi parvero giustificate quando si videro, un giorno, trecento Barbari
avvicinarsi alle mura. Il Suffeta aprì loro le porte; erano dei transfughi; accorrevano presso il loro
capo, trascinati dalla paura o dalla fedeltà.
Il ritorno di Amilcare non aveva affatto sorpreso i Mercenari; quell’uomo, nel loro pensiero, non
poteva morire. Tornava per compiere le sue promesse: speranza che non aveva nulla di assurdo,
tanto era profondo l’abisso tra l’Armata e la Patria. D’altra parte, non si ritenevano affatto colpevoli;
il festino era stato dimenticato.
Alcune spie che intercettarono li fecero ricredere. Fu un trionfo per gli accaniti; i tiepidi stessi
divennero furiosi. Inoltre i due assedi li annoiavano a morte; tutto stallava; meglio valeva una
battaglia! Infatti molti uomini si sbandavano, correvano le campagne. Alla notizia degli armamenti
ritornarono; Mato balzò dalla gioia:
- Finalmente! Finalmente! – gridò.
Allora il risentimento che serbava a Salammbô si volse contro Amilcare. Il suo odio, ora,
scorgeva una preda certa; e siccome la vendetta diveniva più facile a concepirsi, credeva quasi
d’averla in pugno e di già vi si dilettava. Nello stesso tempo era preso da una tenerezza più
profonda, divorato da un desiderio più pungente. Volta a volta si vedeva nel mezzo dei soldati, che
brandiva su una picca la testa del Suffeta, poi nella camera sul letto di porpora, che stringeva la
vergine tra le sue braccia, ne copriva il corpo di baci, passando le proprie mani nel folto dei suoi
capelli neri; e quella fantasia che sapeva irrealizzabile lo faceva soffrire. Giurò a se stesso, poiché i
suoi compagni lo avevano nominato shalishim, di dirigere la guerra; la certezza che non ne sarebbe
ritornato lo spingeva a renderla spietata.
Giunse da Spendio, e gli disse:
- Raccogli i tuoi uomini! Io condurrò i miei. Avverti Autarito! Siamo perduti se Amilcare ci
attacca! M’hai capito? Sbrigati!
Spendio restò stupefatto di fronte a quel piglio autoritario. Mato, abitualmente, si lasciava
condurre, e i suoi entusiasmi svanivano alla svelta. Ma ora sembrava nello stesso tempo più calmo
e più terribile; una fiera volontà sfolgorava nei suoi occhi, simili alla fiamma di un sacrificio.
Il Greco non prestava ascolto alle sue ragioni. Abitava una di quelle tende cartaginesi orlate di
perle, sorseggiava bevande fresche in coppe d’argento, giocava a cattabo, lasciava crescere i suoi
capelli e conduceva l’assedio con lentezza. Del resto, aveva concluso degli accordi nella città e non
voleva punto partire, convinto che entro pochi giorni si sarebbe arresa.
Narava, che vagabondava tra le tre armate, si trovava allora presso di lui. Appoggiò la sua
opinione, e rimproverò il Libico di volere, per un eccesso di coraggio, abbandonare la loro impresa.
- Se hai paura, vattene! – gridò Mato – Ci avevi promesso della pece, dello zolfo, elefanti, fanti,
cavalli! Dove sono?
Narava gli ricordò che aveva sterminato le ultime coorti di Annone; quanto agli elefanti li si
inseguiva nei boschi, si armavano i fanti, i cavalli erano per strada; e il Numida, accarezzando la
piuma di struzzo che gli ricadeva sulla spalla, ruotava i suoi occhi come una femmina e sorrideva in
una maniera irritante. Mato, che gli stava di fronte, non sapeva come rispondergli.
Ma entrò uno sconosciuto, bagnato di sudore, stravolto, i piedi sanguinanti, la cintura slacciata; la
respirazione gli scuoteva il magro torace fino a farlo scoppiare, e parlando un dialetto del tutto
incomprensibile, faceva tanto d’occhi come se narrasse di qualche battaglia. Il re si slanciò
all’esterno e chiamò i suoi cavalieri.
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Si disposero nella piana, formando un cerchio davanti a lui. Narava, a cavallo, chinava il capo e si
mordeva le labbra. Infine divise i suoi uomini in due metà, disse alla prima di attenderlo; poi
lanciando gli altri con un gesto imperioso, disparve all’orizzonte, dalla parte delle montagne.
- Padrone! – mormorò Spendio – non mi piacciono affatto questi casi straordinari, il Suffeta che
ritorna, Narava che se ne va…
- Eh! Che importa? – fece sprezzantemente Mato.
Era una ragione in più per prevenire Amilcare ricongiungendosi con Autarito. Ma se si
abbandonava l’assedio delle città, i loro abitanti sarebbero usciti, li avrebbero attaccati alle spalle, e,
di fronte, ci si sarebbe trovati i Cartaginesi. Dopo molte discussioni, furono fissate e subito attuate
le seguenti decisioni.
Spendio, con quindicimila uomini, si portò fino al ponte costruito sul Macar, a tre miglia da Utica;
se ne fortificarono gli angoli con quattro torri gigantesche munite di catapulte. Con tronchi d’albero,
massi di roccia, intrecci di spine e muri di pietre, si chiusero tutti i sentieri, tutte le gole delle
montagne; sulla loro sommità si ammucchiarono erbe che si sarebbero bruciate per servire da
segnali, e, nei punti strategici, furono collocati pastori abili nel vedere da lontano.
Senza dubbio Amilcare non sarebbe passato come Annone per i monti delle Acque Calde. Doveva
pur pensare che Autarito, padrone dell’interno, gli avrebbe sbarrato la strada. Inoltre uno scacco
all’inizio delle ostilità lo perderebbe, e una vittoria lo costringerebbe ben presto ad un nuovo
scontro, giacché, più oltre, si trovavano altri Mercenari.
Poteva tuttavia sbarcare a Capo dell’Uva, e di là marciare su una delle città. Ma si sarebbe trovato,
a quel punto, stretto fra le due armate, imprudenza della quale non lo si riteneva capace con un
esercito poco numeroso. Non gli restava che costeggiare la base dell’ Ariana, poi girare a sinistra
per evitare la foce del Macar e puntare dritto sul ponte. È là che Mato l’avrebbe atteso.
La notte, al lume delle torce, teneva d’occhio gli esploratori. Correva a Ippo Zarito, ai lavori sulle
montagne, ritornava, non stava mai fermo. Spendio gli invidiava tutta quell’energia; ma per il
controllo degli informatori, la scelta delle sentinelle, l’arte delle macchine belliche e di tutti i mezzi
difensivi, Mato ascoltava docilmente il suo compagno; e non parlavano più di Salammbô: l’uno non
pensandovi affatto, e l’altro per una specie di pudore.
Spesso se ne andava dalla parte di Cartagine nel tentativo di scorgere le truppe di Amilcare.
Saettava i suoi occhi sull’orizzonte; si stendeva ventre a terra, e nel ronzio delle sue arterie credeva
si sentirvi un’armata.
Disse a Spendio che se prima di tre giorni Amilcare non fosse arrivato, gli sarebbe andato
incontro con tutti i suoi uomini per ingaggiar battaglia. Trascorsero altri due giorni. Spendio lo
tratteneva; il mattino del sesto, partì.
I Cartaginesi non erano meno dei Barbari impazienti della guerra. Nelle tende e nelle case
regnava lo stesso desiderio, la stessa angoscia; tutti si chiedevano perché Amilcare indugiasse.
Di quando in quando, saliva sulla cupola del tempio di Eshmun, dal Nunzio delle Lune, e
considerava il vento.
Un giorno, il terzo del mese di Tibby, lo si vide scendere precipitosamente dall’Acropoli. Nei
Mappali si sollevò un gran clamore. Ben presto le strade brulicarono, e ovunque i soldati
incominciavano ad armarsi in mezzo alle donne in lacrime che si gettavano contro il loro petto, poi
correvano veloci sulla piazza di Khamon ad occupare i loro ranghi. Non si poteva ne seguirli ne
parlare con loro, e neppure avvicinarsi ai bastioni; in breve, la città intera si fece muta come una
grande tomba. I soldati stavano pensierosi, appoggiati alle loro lance, e gli altri, nelle case,
sospiravano.
Al calar del sole, l’armata uscì per la porta occidentale; ma invece di prendere la strada di Tunisi
o di guadagnare le montagne nella direzione di Utica, continuò lungo la riva del mare; e ben presto
raggiunsero la laguna, ove degli spiazzi rotondi, tutti bianchi di sale, luccicavano come giganteschi
piatti d’argento dimenticati sulla spiaggia.
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Poi le pozze d’acqua si moltiplicarono. Il terreno, poco a poco, diventava più molle, i piedi
sprofondavano. Amilcare non indietreggiò. Andava sempre in testa; e il suo cavallo, coperto di
macule gialle come un drago, sbavando all’intorno, avanzava nel fango a gran colpi di reni. Cadde
la notte, una notte senza luna. Alcuni strillarono che si andava ad una brutta morte; strappò loro le
armi, che furono date ai servi. La mota intanto si faceva sempre più profonda. Bisognò salire in
groppa alle bestie da soma; altri si aggrappavano alla coda dei cavalli; i forti trascinavano i deboli, e
il corpo dei Liguri spronava la fanteria con la punta delle picche. L’oscurità raddoppiò. Si era persa
la strada. Tutti si fermarono.
A quel punto gli schiavi del Suffeta proseguirono per cercare i gavitelli disposti per suo ordine di
tratto in tratto. Gridavano nelle tenebre, e da lontano l’armata li seguiva.
Infine si percepì di nuovo la solidità del terreno. Poi una sinuosità biancastra si delineò
vagamente, e si ritrovarono sulla riva del Macar. Malgrado il freddo, non si accesero fuochi.
Nel mezzo della notte, si alzarono delle raffiche di vento, Amilcare fece svegliare i soldati, ma
non suonò neppure una tromba: i loro capitani li colpivano piano sulla spalla.
Un uomo d’alta statura scese nell’acqua. Non gli arrivava alla cintola, si poteva passare.
Il Suffeta ordinò che trentadue elefanti si ponessero nel fiume cento passi più avanti, mentre gli
altri, più in basso, avrebbero fermato le file di uomini portate via dalla corrente; e tutti, tenendo le
armi sopra la loro testa, attraversarono il Macar come tra due muraglie. Egli aveva notato che il
vento dell’ovest, sospingendo la sabbia, ostruiva il fiume e formava nel suo alveo un rialzo naturale.
Ora egli si trovava sulla riva sinistra di fronte ad Utica, in una vasta piana, posizione assai
vantaggiosa per gli elefanti che costituivano la forza della sua armata.
Quel colpo di genio entusiasmò i soldati. In essi rinasceva una straordinaria fiducia. Avrebbero
voluto scagliarsi immediatamente contro i Barbari; il Suffeta li obbligò a riposare due ore. Appena
apparve il sole, si mossero nella pianura su tre linee: davanti gli elefanti, la fanteria leggera con la
cavalleria alle sue spalle, poi veniva la falange.
I Barbari accampati ad Utica, e i quindicimila attorno al ponte, furono sorpresi di vedere in
lontananza la terra ondeggiare. Il vento che soffiava fortissimo, spingeva vortici di sabbia; si
alzavano come strappati dal suolo, salivano in grandi falde di color biondo, poi si laceravano e
ricominciavano daccapo, dissimulando ai Mercenari l’armata punica. A causa delle corna drizzate
sul fianco dei caschi, gli uni credevano di scorgere una mandria di buoi; altri ingannati dall’agitarsi
dei mantelli, pretendevano di riconoscere delle ali, e quelli che avevano molto viaggiato, alzando le
spalle, spiegavano ogni cosa con l’illusione del miraggio. Ciononostante, qualcosa di enorme
continuava ad avanzare. Piccoli vapori, sottili come aliti, correvano sulla superficie del deserto; il
sole, ora più alto, brillava più forte: una luce dura, che pareva vibrare, allontanava la profondità del
cielo, e, penetrando gli oggetti, rendeva le distanze incalcolabili. L’immensa pianura si stendeva da
tutte le parti a perdita d’occhio; e le ondulazioni del terreno, quasi impercettibili, si prolungavano
fino all’estremo orizzonte, chiuso da una grande linea azzurra che si sapeva essere il mare. Le due
armate, uscite dalle tende, scrutavano; la gente di Utica, per meglio vedere, si ammassava sui
bastioni.
Infine distinsero un gran numero di barre trasversali, irte di punte uguali. Si fecero più fitte,
ingrandirono; dei monticelli scuri oscillavano; improvvisamente apparvero dei cespugli quadrati;
erano lance ed elefanti; si levò un sol grido:
- I Cartaginesi! – e senza alcun segnale, senza ordini, i soldati di Utica e quelli del ponte accorsero
alla rinfusa, per piombare uniti su Amilcare.
A quel nome Spendio trasalì. Ripeteva ansimando:
- Amilcare! Amilcare! – e Mato non era là! Che fare? Non v’era modo di fuggire! La sorpresa
dell’evento, il suo terrore del Suffeta, soprattutto l’urgenza di una decisione lo sgomentavano; si
vedeva di già trafitto da mille spade, decapitato, morto. Frattanto lo chiamavano; trentamila uomini
attendevano i suoi ordini; fu preso da una gran rabbia contro se stesso; si aggrappò alla speranza di
una vittoria; era colma di letizia e si credette più intrepido di Epaminonda. Per nascondere il suo
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pallore, si imbrattò le gote di cinabro, poi affibbiò i suoi schinieri, la corazza, trangugiò una patera
di vino puro e corse presso le sue truppe, che si affrettavano verso quelle di Utica.
Tutte e due si congiunsero così rapidamente che il Suffeta non ebbe il tempo di schierare i suoi
uomini in battaglia. A poco a poco, rallentava. Gli elefanti si fermarono; dondolavano le loro
pesanti teste, cariche di piume di struzzo, colpendosi le spalle con la proboscide.
Sullo sfondo degli spazi che li separavano, si distinguevano le coorti dei veliti, più lontano i
grandi elmi dei Clinabari, con i ferri che brillavano al sole, le corazze, i pennacchi, gli stendardi che
si muovevano al vento. Ma l’armata cartaginese, forte di undicimilatrecentonovantasei uomini, a
stento pareva contenerne tanti, poiché formava un quadrilatero lungo, stretto sui fianchi e rinserrato
su sé stesso.
Vedendoli così deboli, i Barbari, tre volte più numerosi, furono presi da una gioia sfrenata; non si
scorgeva Amilcare. Era forse rimasto laggiù? D’altra parte che importava! Il disprezzo che
nutrivano per quei mercanti rinvigoriva il loro coraggio; e prima che Spendio comandasse la
manovra, tutti l’avevano compresa e già la eseguivano.
Si distesero su una grande linea diritta, che oltrepassava le ali dell’armata punica, al fine di
accerchiarla completamente. Ma, quando furono a trecento passi di distanza, gli elefanti, anziché
avanzare, si volsero indietro; poi ecco che i Clinabari, facendo dietro-front, li seguirono; e la
sorpresa dei Mercenari raddoppiò scorgendo tutti gli arcieri che correvano per raggiungerli. I
Cartaginesi avevano dunque paura, fuggivano! Un urlio formidabile scoppiò nelle truppe dei
Barbari, e, dall’alto del suo dromedario, Spendio gridò:
- Ah! Lo sapevo bene! Avanti! Avanti!
Allora, in una volta, zampillarono giavellotti, dardi, proiettili di fionda. Gli elefanti, con la groppa
trafitta dalle frecce, si misero a galoppare più in fretta; li avvolgeva un gran polverone, e, come
ombre in una nuvola, svanirono.
Tuttavia, si udiva in fondo un frastuono di passi, dominato dal suono acuto delle trombe che
soffiavano furiosamente. Quello spazio, che stava innanzi ai Barbari, colmo di turbini e di tumulto,
attirava come un gorgo; alcuni vi si slanciarono. Apparvero delle coorti di fanteria; si richiudevano;
e, nello stesso tempo, tutti gli altri vedevano accorrere i fanti assieme ai cavalieri al galoppo.
In effetti, Amilcare aveva ordinato alla falange di rompere le sue sezioni, agli elefanti, alle
truppe leggere e alla cavalleria di passare attraverso quegli intervalli per portarsi prontamente sulle
ali; e aveva calcolato così bene la distanza dei Barbari, che, nel momento in cui arrivavano contro di
lui, l’armata cartaginese tutta intera formava una grande linea diritta.
Nel mezzo si rizzava la falange, formata da sintagmi o quadrati pieni, aventi sedici uomini per
ciascun lato. Tutti i capifila di tutte le file comparivano fra lunghi ferri aguzzi che li oltrepassavano
inegualmente, poiché i primi sei ranghi puntavano le loro sarisse tenendole nel mezzo, e i dieci
ranghi subalterni le appoggiavano sulle spalle dei compagni che li precedevano. Tutti i volti
scomparivano a metà sotto le visiere dei caschi; schinieri di bronzo coprivano tutte le gambe destre;
grandi scudi cilindrici scendevano sino ai ginocchi; e quella terribile massa quadrangolare si
muoveva compatta, sembrava vivere come un animale e funzionare come una macchina. Due coorti
di elefanti la fiancheggiavano ordinatamente; scrollandosi, si liberavano dalle schegge di freccia
infisse nella loro pelle nera. Gli indiani accovacciati sul loro garrese, tra ciuffi di piume bianche, li
trattenevano con la cavità del rampone, mentre nelle torrette, degli uomini nascosti fino alle spalle
maneggiavano, a fianco dei grandi archi tesi, conocchie di ferro munite di stoppe accese. A destra e
a sinistra degli elefanti, volteggiavano i frombolieri, una fionda attorno alle reni, una seconda sulla
testa, una terza nella mano destra. Poi i Clinabari, ognuno affiancato da un negro, allungavano le
lance tra le orecchie dei propri cavalli, anch’essi coperti d’oro come loro. Di seguito si allargavano
i soldati armati alla leggera con scudi in pelle di lince, dai quali affioravano le punte dei giavellotti
tenuti con la mano sinistra; e i Tarentini, che conducevano due cavalli appaiati, accrescevano alle
due estremità quella muraglia di soldati.
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L’armata dei Barbari, al contrario, non aveva potuto mantenere il suo allineamento. Sulla sua
esorbitante lunghezza s’erano create delle ondulazioni, dei vuoti; tutti boccheggiavano, affannati
per aver corso.
La falange si mosse pesantemente puntando tutte le sue sarisse; sotto quella spinta enorme la
linea dei Mercenari, troppo esile, ben presto cedette nel mezzo.
Allora le ali cartaginesi si distesero per avvinghiarli; gli elefanti le seguivano. Con le sue lance
tese obliquamente, la falange fendeva i Barbari; due enormi tronconi si agitarono; le ali, a colpi di
fionda e di freccia, li ricacciavano sui falangiti. Per sbarazzarsene, ai Mercenari mancava la
cavalleria; tranne duecento Numidi che si portarono contro lo squadrone destro dei Clinabari. Tutti
gli altri si trovavano imprigionati, non potendo districarsi da quelle linee. Il pericolo era imminente
e una decisione urgente.
Spendio ordinò di attaccare la falange simultaneamente sui due fianchi, al fine di spezzarla. Ma i
ranghi più corti scivolarono sui più lunghi; ritornarono al loro posto; ed essa si rovesciò contro i
Barbari, tanto temibile sui fianchi quanto lo era stata poco prima di fronte.
I Mercenari colpivano le sarisse sull’asta, ma la cavalleria, da dietro, molestava i loro attacchi; e
la falange, protetta dagli elefanti, si rinserrava e si distendeva, presentandosi in forma di quadrato,
di cono, di rombo, di trapezio e di piramide. Dalla testa alla coda la agitava continuamente un
doppio movimento interno; poiché quelli che stavano nelle file in fondo accorrevano verso i primi
ranghi, e costoro, per stanchezza o perché feriti, ripiegavano indietro. I Barbari si ritrovarono
schiacciati contro la falange; questa non poteva avanzare: si sarebbe detto un oceano sul quale
ballonzolassero dei pennacchietti rossi e delle squame di bronzo, mentre gli scudi lucenti
rotolavano come spuma d’argento. Talora da un capo all’altro, scendevano, poi risalivano degli
imponenti flussi, e nel mezzo una massa pesante durava immobile. Le lance si abbassavano e si
rialzavano, in successione. Altrove era un così frenetico agitarsi di lame nude che ne apparivano
soltanto le punte , e gli squadroni di cavalleria irrompevano entro le cerchie, che si richiudevano
alle loro spalle in un turbine.
Sopra le voci dei capitani, gli squilli delle chiarine e lo stridore delle lire, le palle di piombo e le
noci di argilla, passando nell’aria, sibilavano, facevano saltare i ferri dalle mani, le cervella dai
crani. I feriti, proteggendosi con un braccio sotto gli scudi, tendevano le loro spade poggiandone il
pomo al suolo, e altri, in un lago di sangue, si rigiravano per addentare i talloni dei nemici. La
moltitudine era così compatta, la polvere così spessa, il tumulto così grande, ch’era impossibile
distinguere alcunché; i vili che si offrirono prigionieri non furono neppure uditi. Quando le mani
erano vuote, gli uomini si stringevano nel corpo a corpo; i petti scricchiolavano contro le corazze e i
morti ciondolavano la testa all’indietro, tra due braccia contratte. Vi fu una compagnia di sessanta
Umbri che, saldi sulle ginocchia, la picca davanti agli occhi, incrollabili e a denti stretti,
obbligarono ad indietreggiare due sintagmi alla volta. Alcuni pastori epiroti corsero verso lo
squadrone sinistro dei Clinabari, facendo roteare i propri bastoni afferrarono i cavalli per la criniera ;
le bestie, rovesciando i cavalieri, fuggirono nella pianura. I frombolieri punici, sparsi qua e là,
restavano scoperti. La falange cominciava a barcollare, i capitani correvano sconvolti, i serrafile
sospingevano i soldati, e i Barbari s’erano ricomposti, tornavano all’attacco; la vittoria era loro.
Ma un grido, uno spaventoso grido esplose, un ruggito di dolore e di rabbia: erano i settantadue
elefanti che si avventavano, disposti su due linee; poiché Amilcare aveva atteso che i Mercenari si
ammucchiassero in un unico punto per lanciarglieli contro. Gli Indiani li avevano spronati con tanta
violenza che sulle loro larghe orecchie colava del sangue. Le loro proboscidi, imbrattate di minio, si
rizzavano in aria simili a serpenti rossi; i loro pettorali erano armati di uno spiedo, i dorsi d’una
corazza, le zanne allungate con lame di ferro ricurve come sciabole; e per renderli più feroci, li si
era ubriacati con una mistura di pepe, vino puro e incenso. Scuotevano i collari di sonagli, barrivano;
gli elefantarchi chinavano il capo sotto il tiro delle falariche che cominciavano a volare dall’alto
delle torrette.
Per fare maggiore resistenza i Barbari si scagliarono in massa, compatti; gli elefanti si gettarono
in mezzo a loro, impetuosamente. Gli speroni dei loro pettorali, come prue di navi, fendevano le
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coorti; queste rifluivano in ebollizione. Con le proboscidi, strangolavano gli uomini, oppure
strappandoli dal suolo e passandoli sopra le proprie teste, li davano in balìa dei soldati nelle torrette;
con le zanne, li sventravano, li scagliavano in aria, e lunghi brandelli di viscere pendevano da quegli
uncini d’avorio come il cordame dagli alberi delle navi. I Barbari cercavano di accecarli, di tagliare
i loro garretti; altri scivolavano sotto il loro ventre, vi affondavano le lame fino all’elsa e morivano
schiacciati; i più intrepidi si aggrappavano alle corregge; esposti al fuoco, alle palle, alle frecce,
continuavano a segare il cuoio, e le torrette di vimini crollavano come torri di pietre. Quattordici
elefanti di quelli che si trovavano all’estremità destra, esasperati per le ferite, si rivoltarono contro
la seconda fila; gli indiani impugnarono la mazza e dopo aver puntato lo scalpello alla giuntura
della loro testa, con tutta forza vibrarono un gran colpo.
Le enormi bestie si accasciavano, cadevano le une sulle altre. Si formò come una montagna; e su
quel mucchio di cadaveri e di armature, un mostruoso elefante che si chiamava Furore di Baal,
avendo una gamba impigliata entro delle catene, rimase ad urlare fino a sera, con una freccia infissa
in un occhio.
Frattanto gli altri, simili a conquistatori che si dilettano nei loro massacri, rovesciavano,
annientavano, calpestavano, si accanivano sui cadaveri, sui relitti. Per respingere i manipoli stretti a
corona intorno a loro, giravano facendo perno sulle gambe posteriori, in un movimento di rotazione
continua, e tuttavia avanzando. I Cartaginesi sentirono raddoppiarsi le loro forze, e la battaglia
ricominciò.
I Barbari cedevano; degli opliti greci gettarono le armi, lo sgomento s’impadronì degli altri. Si
scorse Spendio piegato sul suo dromedario che lo spronava sulle spalle con due giavellotti. Allora
tutti si precipitarono verso le ali e corsero in direzione di Utica.
I Clinabari, i cui cavalli non ne potevano più, non cercarono di raggiungerli. I Liguri, estenuati
dalla sete, gridavano di portarsi sul fiume. Ma i Cartaginesi, che stavano nel mezzo dei sintagmi, e
che dunque avevano sofferto meno, smaniavano di desiderio di fronte alla loro vendetta che
sfuggiva; di già si slanciavano all’inseguimento dei Mercenari; comparve Amilcare.
Tratteneva con le redini d’argento il suo cavallo tigrato tutto coperto di sudore. Le bendelle
attaccate ai corni del suo elmo schioccavano, dietro lui, nel vento; e teneva lo scudo ovale
appoggiato sulla coscia sinistra. Con un movimento della picca a tre punte, arrestò l’armata.
I Tarentini saltarono veloci dal loro cavallo sul secondo, e partirono a destra e a sinistra verso il
fiume e verso la città.
La falange sterminò comodamente tutto quel che restava dei Barbari. Quando le spade li
raggiungevano, porgevano la gola chiudendo gli occhi. Altri si difesero ad oltranza; li si accoppò da
lontano, con le pietre, come dei cani arrabbiati. Amilcare aveva raccomandato di fare dei prigionieri.
Ma i Cartaginesi gli obbedivano di malavoglia, tanto gusto ci provavano ad affondare le loro lame
nel corpo dei Barbari. Siccome sentivano un gran caldo, si misero a lavorare a braccia nude, come i
falciatori; e allorché si interrompevano per riprendere fiato, seguivano con gli occhi, nella
campagna, un cavaliere che galoppava dietro un soldato che correva. Arrivava ad agguantarlo per i
capelli, lo teneva così qualche momento, poi lo abbatteva con un colpo d’ascia.
Cadde la notte. I Cartaginesi, i Barbari, tutti erano scomparsi. Gli elefanti, che se n’erano fuggiti,
vagabondavano all’orizzonte con le loro torrette incendiate. Bruciavano nelle tenebre, qua e là,
come fari mezzo sperduti nella bruma; e non si scorgeva altro movimento sulla pianura che il
serpeggiare del fiume, ingombro dei cadaveri che trascinava verso il mare.
Due ore dopo giunse Mato. Intravide al chiarore delle stelle, dei lunghi cumuli ineguali stesi per
terra.
Erano file di Barbari. Si chinò; erano tutti morti, chiamò in lontananza; nessuno gli rispose.
Quello stesso mattino, aveva lasciato Ippo Zarito con i suoi soldati per marciare su Cartagine. A
Utica, l’armata di Spendio era da poco partita, e gli abitanti si apprestavano a dar fuoco alle
macchine. Tutti si erano battuti con accanimento. Ma raddoppiando in modo incomprensibile il
tumulto che proveniva dal ponte, Mato si era slanciato, per la strada più breve, attraverso la
montagna, e siccome i Barbari fuggivano per la pianura, non aveva incontrato nessuno.
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Di fronte a lui, delle piccole masse piramidali si drizzavano nell’ombra, e di qua dal fiume, più
vicino, v’erano a livello del suolo delle luci ferme. In effetti, i Cartaginesi avevano ripiegato dietro
il ponte, e, per ingannare i Barbari, il Suffeta aveva organizzato numerosi picchetti sull’altra riva.
Mato, sempre avanzando, credette distinguere delle insegne puniche, poiché spuntavano in aria
alcune teste di cavallo immobili, fissate in cima a dei fasci di bastoni ch’era impossibile scorgere;
ed intese più lontano un gran rumore, uno schiamazzo di canti e di brindisi.
Allora, non sapendo dove si trovava, ne come rintracciare Spendio, pieno di angoscia, atterrito,
perso nelle tenebre, se ne ritornò in fretta e furia per la strada da dove era giunto. L’alba schiariva,
quando dall’alto della montagna scorse la città, con le carcasse delle macchine annerite dalle
fiamme, simili a scheletri di giganti che si appoggiavano alle mura.
Tutti riposavano immersi in un silenzio ed in uno scoramento straordinari. Tra i suoi soldati, a
fianco delle tende, alcuni uomini pressoché nudi dormivano stesi sul dorso, o con la fronte contro il
braccio, che poggiava sulla loro corazza. Alcuni srotolavano dalle loro gambe dei bendaggi
insanguinati. I moribondi giravano intorno la testa, lentamente. Altri, trascinandosi, portavano loro
da bere. Le sentinelle marciavano lungo i camminamenti per riscaldarsi, o tenevano la figura rivolta
all’orizzonte, con la picca sulla spalla, in un fiero atteggiamento. Mato scovò Spendio al riparo sotto
un lembo di tela sostenuto da due bastoni infissi a terra, un ginocchio fra le mani, la testa bassa.
Restarono gran tempo senza parlare.
Infine Mato mormorò:
- Vinti!
Spendio replicò con voce cupa:
- Si, vinti!
E a tutte le domande rispondeva con dei gesti disperati.
Intanto giungevano sino a loro dei sospiri, dei rantoli. Mato scostò la tela. Allora lo spettacolo dei
soldati gli ricordò un altro disastro, nello stesso luogo, e a denti stretti:
- Miserabile! Già una volta…
Spendio l’interruppe:
- Tu non c’eri nemmeno allora.
- È una maledizione! – gridò Mato – Alla fine nondimeno, lo coglierò! Lo vincerò! Lo ucciderò!
Ah! Se vi fossi stato io…
Il pensiero di aver mancato la battaglia lo rendeva disperato ancor più della sconfitta. Cavò la sua
spada, la scagliò per terra.
- In che modo v’hanno battuti i Cartaginesi?
L’anziano schiavo si mise a riferire le manovre. Mato era come se le vedesse e si adirava.
L’armata di Utica, invece di correre verso il ponte, avrebbe dovuto prendere Amilcare alle spalle.
- Eh! Lo so! – disse Spendio.
- Bisognava raddoppiare le tue profondità, non compromettere i veliti contro la falange, lasciare
degli sfoghi agli elefanti. All’ultimo momento era ancora possibile riguadagnare ciò che era perso;
nulla costringeva alla fuga.
Spendio rispose:
- L’ho visto passare avvolto nel suo ampio mantello rosso, le braccia in aria, sovrastava la polvere,
come un aquila che volasse a fianco delle coorti; e ad ogni cenno del suo capo, quelle si
rinserravano, si slanciavano; la calca ci ha trascinati l’uno verso l’altro; mi guardava; ho sentito nel
mio cuore come il gelo di una lama.
- Che abbia scelto il giorno? – si chiedeva Mato a voce bassa.
Si interrogarono, sforzandosi di scoprire ciò che aveva condotto il Suffeta a dar battaglia
precisamente nelle circostanze a loro più sfavorevoli. Poi vennero a discutere della loro situazione,
e per attenuare le sue colpe e ridarsi coraggio, Spendio cominciò col dire che restava ancora una
speranza.
- Anche se ciò non fosse, poco importa! – disse Mato – Continuerò la guerra, da solo!
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- Ed io pure! – gridò il Greco scattando in piedi. Camminava a grandi passi; le sue pupille
scintillavano e uno strano sorriso corrugava la sua faccia di sciacallo.
- Ricominceremo, non mi abbandonare! Non sono fatto per le battaglie in campo aperto; il bagliore
delle spade mi confonde la vista; è una malattia, ho passato troppo tempo nell’ergastolo. Ma dammi
delle mura da scalare la notte, e penetrerò nelle fortezze, e i cadaveri saranno freddi prima che i
galli cantino! Mostrami qualcuno, qualcosa, un nemico, un tesoro, una donna – ripeté – una donna,
fosse anche figlia di un re, trascinerò quanto prima ciò che desideri ai tuoi piedi. Tu mi rimproveri
d’aver perduto la battaglia contro Annone, tuttavia l’ho riguadagnata. Riconoscilo! Il mio branco di
porci ci è stato più utile che una falange di Spartani.
E, cedendo al bisogno di mettersi in luce e di prendersi una rivincita, enumerò tutto quello che
aveva fatto per la causa dei Mercenari:
- Sono io, nei giardini del Suffeta, che ho aizzato il Gallo! Più tardi, a Sicca, li ho eccitati col
timore della Repubblica! Giscone li rimpatriava, ma io ho fato in modo che gli interpreti non
potessero parlare. Ah, come pendeva loro la lingua dalla bocca! Te ne ricordi? Io ti ho introdotto in
Cartagine; io ho rubato lo Zaimf. Io ti ho condotto da lei. Farò ancora di più: vedrai! – disse, e
scoppiò a ridere come un pazzo.
Mato lo considerava ad occhi spalancati. Provava una sorta di malessere di fronte a quell’uomo,
ch’era ad un tempo vile e terribile.
Il Greco riprese in tono più gioviale, facendo schioccare le sue dita:
- Evoè ! Dopo la pioggia, il sole! Ho lavorato nelle cave, ho bevuto del massico su una nave che mi
appartenne, sotto un baldacchino d’oro, come un Tolomeo. Le sventure devono servire a renderci
più accorti. A forza di lavoro si piega la fortuna. Ama gli astuti. Si arrenderà!
Tornò presso Mato, e prendendolo per un braccio:
- Padrone, al momento i Cartaginesi sono sicuri della loro vittoria. Tu hai a disposizione
tutt’un’armata che non ha combattuto, e a te, i tuoi uomini obbediscono. Mettili davanti, i miei, per
vendicarsi, li seguiranno. Mi restano tremila Carii, milleduecento frombolieri e degli arcieri, alcune
coorti intere! Si può persino formare una falange, ricominciamo!
Mato, stordito dal disastro, non aveva ancora pensato nulla per venirne fuori. Ascoltava a bocca
aperta, e le lamine di bronzo che fasciavano le sue costole sobbalzavano ai battiti del suo cuore.
Raccolse la spada, gridando:
- Seguimi, andiamo!
Ma gli esploratori, al loro ritorno, annunciarono che i morti dei Cartaginesi erano stati portati via,
il ponte demolito e Amilcare scomparso.
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IX
IN GUERRA
Amilcare aveva pensato che i Mercenari lo avrebbero atteso a Utica o che sarebbero tornati contro
di lui; e, non giudicando le sue forze sufficienti per lanciare un attacco o per riceverlo, si era spinto
a sud, lungo la riva destra del fiume, cosa che lo metteva immediatamente al riparo da qualunque
sorpresa.
Dapprima voleva, chiudendo gli occhi sulla loro rivolta, allontanare tutte le tribù dalla causa dei
Barbari; in seguito, quando fossero ben isolati nel mezzo delle province, piombar loro addosso e
sterminarli.
In quattordici giorni, pacificò la regione compresa tra Thuccaber e Utica, con le città di
Tignicabah, Tessurah, Vacca e altre ancora ad occidente. Zunghar edificata nelle montagne; Assura
celebre per il suo tempio; Djeraado fertile di ginepri; Thapitis e Hagur gli inviarono delle
ambasciate. Gli abitanti delle campagne arrivavano con le mani colme di provviste, imploravano la
sua protezione, baciavano i suoi piedi, quelli dei soldati, e si lagnavano dei Barbari. Alcuni
venivano ad offrirgli, dentro dei sacchi, teste di Mercenari uccisi da loro, dicevano, ma che in verità
avevano tagliate a dei cadaveri; poiché molti s’erano perduti fuggendo, e li si trovava morti qua e là,
sotto gli ulivi e nelle vigne.
Per abbagliare il popolo, Amilcare, all’indomani della vittoria, aveva inviato a Cartagine i
duemila prigionieri fatti sul campo di battaglia. Arrivarono in lunghe schiere di cento uomini
ciascuna, tutti con le braccia trattenute sulle spalle con una sbarra di bronzo che li prendeva alla
nuca, e pure i feriti, ancorché sanguinanti, correvano; infatti alcuni cavalieri, dietro loro, li
spronavano a colpi di frusta.
Fu un delirio di gioia! Si ripeteva che v’erano stati seimila Barbari uccisi; gli altri non avrebbero
resistito, la guerra era finita; la gente si abbracciava per le strade, e si spalmarono di burro e
cinnamomo le statue degli Dei Pateci per ringraziarli. Coi loro grandi occhi, i grossi ventri e le
braccia alzate all’altezza delle spalle, sembravano rivivere sotto i nuovi colori e partecipare
all’allegrezza del popolo. I Ricchi lasciavano le porte delle loro case spalancate; la città risuonava
del fragore dei tamburelli; i templi erano illuminati tutte le notti, e le donne al servizio della Dea,
scese a Malqua improvvisarono, negli angoli dei crocicchi, palchetti in legno di sicomoro ove si
prostituivano. Si votarono donazioni di terre per i vincitori, olocausti per Melqart, trecento corone
d’oro per il Suffeta, e i suoi partigiani proponevano di conferirgli prerogative straordinarie e onori
mai visti.
Egli aveva sollecitato gli Anziani ad avanzare delle proposte ad Autarito per scambiare contro
tutti i Barbari, s’era necessario, il vecchio Giscone con gli altri Cartaginesi prigionieri come lui. I
Libici e i Nomadi che componevano l’armata di Autarito conoscevano a malapena quei Mercenari,
gente di razza italiota o greca; e visto che la Repubblica offriva loro un così gran numero di
Mercenari in cambio di pochi Cartaginesi, significava che gli uni non valevano nulla e gli altri, al
contrario, valevano molto. Paventarono un inganno. Autarito rifiutò.
Allora gli Anziani decretarono l’esecuzione dei prigionieri, benché il Suffeta avesse loro scritto di
non metterli a morte. Contava di incorporare i migliori nelle sue truppe, ed fomentare con ciò delle
defezioni. Ma l’odio prevalse sulla moderazione.
I duemila Barbari furono legati, nei Mappali, alle steli delle tombe; e mercanti, sguatteri di cucina,
ricamatori e persino donne, le vedove dei morti coi propri figli, insomma tutti quelli che volevano,
vennero ad ucciderli a colpi di freccia. Li si prendeva di mira con calma, per meglio prolungare il
loro supplizio: ora l’uno ora l’altro abbassava la propria arma, poi la rialzava; e la moltitudine si
accalcava urlando. Gli invalidi si facevano portare sulle barelle; molti, previdenti, si portavano da
mangiare e restavano là fino a sera; altri vi passavano tutta la notte. S’eran montate delle tende dove
la gente beveva. Parecchi fecero dei bei guadagni affittando gli archi.
79
Poi si abbandonarono in piedi sulle tombe tutti quei cadaveri martoriati che sembravano tante
statue rosse, e l’eccitazione prese persino quelli di Malqua, discendenti delle famiglie autoctone e
solitamente indifferenti alle faccende della patria. Riconoscenti per il divertimento ch’essa aveva
donato loro, ora si mostravano partecipi della sua fortuna, si sentivano Punici, e gli Anziani
trovarono ben fatto l’aver riunito così in una medesima faida l’intero popolo.
Non mancò neppure l’approvazione degli Dei; poiché da tutti i canti del cielo si precipitarono i
corvi. Volavano girando nell’aria con dei grandi gridi rauchi, e formavano un’enorme nuvola che
roteava su sé stessa continuamente. La si scorgeva da Clipea, da Rhades e dal promontorio Ermeo.
Talora si squarciava all’improvviso allargando in lontananza le sue nere spirali; si trattava di un’
aquila che irrompeva nel mezzo, poi riandava via; sulle terrazze, sulle cupole, sulla punta degli
obelischi e sul frontone dei templi, v’erano, qua e là, dei grossi uccelli che stringevano nei loro
becchi tinti di rosso dei brandelli umani.
A causa dell’odore, i Cartaginesi si rassegnarono a slegare i cadaveri. Alcuni vennero bruciati, gli
altri furono gettati in mare, e le onde, spinte dal vento del nord, ne abbandonarono sulla spiaggia, in
fondo al golfo, davanti al campo di Autarito.
Quel castigo aveva atterrito i Barbari, poiché dall’alto di Eshmun li si vide abbattere le loro tende,
radunare gli animali, caricare i bagagli sugli asini, e quella stessa sera l’intera armata si allontanò.
Essa doveva, portandosi in successione dai monti delle Acque Calde sino a Ippo Zarito, impedire
al Suffeta l’avvicinamento alle città tirie insieme alla possibilità di far ritorno a Cartagine.
In quel mentre, le altre due armate cercherebbero di colpirlo nel sud, Spendio da oriente, Mato da
occidente, in modo da ricongiungersi tutte tre per sorprenderlo e stringerlo in una morsa. Inoltre
sopravvenne un soccorso che non speravano più: riapparve Narava, con trecento cammelli carichi di
bitume, venticinque elefanti e seimila cavalieri.
Il Suffeta, per indebolire i Barbari, aveva giudicato prudente di impegnarlo a distanza nel suo
regno. Dall’interno di Cartagine, aveva preso accordi con Masgaba, un brigante getulo che voleva
procurarsi un impero. Forte del denaro punico, l’avventuriero aveva sollevato i regni della Numidia
promettendo loro la libertà. Ma Narava, avvisato dal figlio della propria nutrice, era piombato a
Cirta, aveva avvelenato i vincitori con l’acqua delle cisterne, tagliato qualche testa, ristabilito
l’ordine, e veniva contro il Suffeta più furioso che i Barbari.
I capi delle quattro armate si intesero sui preparativi della guerra. Sarebbe stata lunga:
bisognava prevedere ogni cosa.
Da subito si convenne di chiedere l’aiuto dei Romani e si offrì quella missione a Spendio; in
quanto fuggiasco, non osò incaricarsene. Dodici uomini delle colonie greche si imbarcarono ad
Annaba su una scialuppa dei Numidi. Poi i capi pretesero da tutti i Barbari un giuramento di
assoluta obbedienza. Ogni giorno i capitani ispezionavano il vestiario e le calzature; si giunse
persino a proibire alle sentinelle l’uso dello scudo, poiché di sovente l’appoggiavano contro la loro
lancia e si addormentavano in piedi; coloro che si trascinavano appresso qualche bagaglio furono
costretti a disfarsene; tutto, secondo l’uso romano, doveva essere portato sulle spalle. Per difendersi
dagli elefanti, Mato istituì un corpo di cavalieri catafratti, ove l’uomo e il cavallo scomparivano
sotto una corazza in pelle d’ippopotamo irta di chiodi; e per proteggere lo zoccolo dei cavalli, li si
dotò di stivaletti intrecciati con lo sparto.
Fu proibito di saccheggiare i villaggi e di tiranneggiare gli abitanti di razza non punica. Ma
siccome la contrada si impoveriva, Mato ordinò di ripartire i viveri per il numero di soldati, senza
preoccuparsi delle donne. In un primo tempo quelli li spartirono con queste. Privi di nutrimento
molti si indebolivano. Era una continua occasione di litigi, di sfuriate, molti infatti approfittavano
delle compagne di altri con l’esca o la promessa d’una porzione di cibo. Mato comandò che fossero
tutte scacciate, senza pietà. Esse si rifugiarono nel campo di Autarito, ma i Galli e i Libici, a forza
di oltraggi, le costrinsero ad andarsene.
Infine vennero sotto le mura di Cartagine ad implorare la protezione di Cerere e Proserpina,
poiché a Byrsa v’erano un tempio e dei sacerdoti consacrati a quelle Dee, in espiazione degli orrori
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commessi, un tempo, durante l’assedio di Siracusa. I Sissizi adducendo un loro diritto sulle cose
abbandonate, reclamarono le più giovani per venderle; e alcuni Cartaginesi nuovi presero in moglie
delle Lacedemoni, che erano bionde.
Alcune si ostinarono a seguire le armate. Correvano sul fianco dei sintagmi, a lato dei capitani.
Chiamavano i loro uomini, li tiravano per il mantello, si battevano il petto maledicendoli, e
porgevano in punta alle braccia i loro bambini nudi e piangenti.
Quello spettacolo inteneriva i Barbari; esse erano un imbarazzo, un pericolo. Più volte le si
respinse, ritornavano; Mato le fece assalire a colpi di lancia dai cavalieri di Narava; e siccome dei
Baleari gli urlavano che avevano bisogno di femmine:
- Anch’io ne faccio a meno ! – rispose.
Al momento, il genio di Moloch si era impadronito di lui. Malgrado il suo spirito si ribellasse,
faceva cose spaventose, immaginandosi di obbedire alla voce di un Dio. Quando non poteva
devastarli, Mato gettava delle pietre nei campi per renderli sterili.
Con reiterati messaggi, pressava Autarito e Spendio affinché si affrettassero. Ma le operazioni del
Suffeta erano incomprensibili. Fece campo successivamente a Eidus, a Monchar, a Tehent, alcuni
esploratori credettero individuarlo nei dintorni di Ishiil, vicino alle frontiere di Narava, e si apprese
che aveva attraversato il fiume sotto Teburba come per far ritorno a Cartagine. Appena in un luogo,
se ne andava verso un altro. Le strade che prendeva restavano sempre ignote. Senza mai dar
battaglia, il Suffeta conservava il suo vantaggio; inseguito dai Barbari, sembrava condurli.
Quelle marce e quelle contro marce stancavano ancor più i Cartaginesi; e le forze di Amilcare,
non rinnovandosi, di giorno in giorno scemavano. Gli abitanti delle campagne, ora, indugiavano a
rifornirlo di viveri. Ovunque incontrava esitazioni, taciti rancori; e malgrado le sue suppliche al
Gran Consiglio, nessun aiuto giungeva da Cartagine.
Si diceva, o forse si credeva, che non ne avesse bisogno. Le sue erano astuzie, o inutili lagnanze; e
i partigiani di Annone, al fine di nuocergli, esageravano l’importanza della sua vittoria. Già si
sopportavano privazioni per le truppe che comandava; ma non si doveva perciò continuamente
soddisfare tutte le sue richieste. La guerra era già abbastanza gravosa! Era costata troppo, e per
orgoglio, i patrizi della sua fazione l’appoggiavano fiaccamente.
Allora, disperando della Repubblica, Amilcare prese con la forza dalle tribù tutto ciò che gli
abbisognava per la guerra: grano, olio, legno, bestiame e uomini. Ma gli abitanti non tardarono a
fuggirsene. I villaggi che attraversava erano vuoti, si frugava nelle capanne senza trovarvi niente;
ben presto una spaventosa solitudine circondò l’armata punica.
I Cartaginesi, furiosi, si misero a saccheggiare le province; colmavano le cisterne, incendiavano le
case. Le scintille, portate dal vento, si spandevano in lontananza, e sulle montagne foreste intere
bruciavano; cingevano le vallate con una corona di fuoco; per attraversarle, occorreva attendere. Poi
riprendevano il loro cammino, in pieno sole, sulle ceneri calde.
A volte vedevano, a lato della strada, brillare in un cespuglio come delle pupille di gatto selvatico;
era un Barbaro, accosciato sui talloni, che si era imbrattato di polvere per confondersi con il colore
del fogliame; oppure mentre camminavano lungo un torrente, in una gola, quelli che stavano ai
fianchi sentivano all’improvviso rotolare delle pietre; e, alzando gli occhi, scorgevano nella
spaccatura un uomo a piedi nudi che balzava via.
Frattanto Utica e Ippo Zarito erano libere, giacché i Mercenari non le assediavano più. Amilcare
ordinò loro di venire in suo aiuto. Ma quelle, non osando compromettersi, gli risposero con parole
vaghe, complimenti, scuse. Repentinamente egli risalì al nord, risoluto ad entrare in una delle città
tirie, anche se l’avesse dovuta assediare. Aveva bisogno di un punto sulla costa, per poter trarre
dalle isole o da Cirene degli approvvigionamenti e dei soldati, e voleva il porto di Utica essendo il
più vicino a Cartagine.
Il Suffeta partì dunque da Zuitin e contornò con prudenza il lago di Ippo Zarito. Ma ben presto fu
costretto a disporre i suoi reggimenti in colonna per risalire la montagna che separa le due vallate.
Al calar del sole scendevano dalla sua sommità scavata in forma di imbuto, quando scorsero innanzi
a loro, a livello del suolo, delle lupe di bronzo che pareva corressero sull’erba.
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Di colpo comparvero dei grandi pennacchi, e si levò un formidabile canto al ritmo incalzante dei
flauti. Era l’armata di Spendio; ma dei Campani e dei Greci, in spregio a Cartagine, avevano
innalzato le insegne di Roma. Nello stesso tempo, sulla sinistra, apparvero delle lunghe picche,
degli scudi in pelle di leopardo, corazze di lino, delle spalle nude. Erano gli Iberici di Mato, i
Lusitani, i Baleari, i Getuli; si udì il nitrito dei cavalli di Narava; si sparsero intorno alla collina;
infine giunse l’indefinita folla al comando di Autarito; i Galli, i Libici, i Nomadi; e nel loro mezzo
si riconoscevano i Mangiatori di cose immonde per le lische di pesce che portavano nella
capigliatura.
I Barbari, organizzando con precisione i loro spostamenti, s’erano dunque riuniti. Ma, sorpresi
essi stessi, restarono alcuni minuti immobili, consultandosi.
Il Suffeta aveva ammucchiato i suoi uomini in una massa orbicolare, in modo da offrire ovunque
un’uguale resistenza. Gli alti scudi puntuti, confitti nelle zolle erbose gli uni accanto agli altri,
circondavano la fanteria. I Clinabari si tenevano all’esterno, e più lungi, di tratto in tratto, stavano
gli elefanti. I Mercenari erano spossati per la fatica, era opportuno che attendessero il giorno; e,
sicuri com’erano della loro vittoria, trascorsero la notte mangiando.
Avevano acceso grandi fuochi luminosi che, abbagliandoli, lasciavano nell’ombra l’armata punica
sotto di loro. Amilcare fece scavare attorno al suo campo, alla maniera dei Romani, un fossato largo
quindici passi e profondo sei cubiti; al suo interno, con la terra, fece innalzare una sponda sulla
quale furono infissi dei pali aguzzi che si intrecciavano, e, al levar del sole, i Mercenari restarono
stupiti di scorgere tutti i Cartaginesi trincerati così come in una fortezza.
Riconoscevano nel mezzo delle tende Amilcare che andava di qua e di là distribuendo ordini.
Aveva il corpo stretto in una corazza bruna tagliata in piccole squame; e, seguito dal suo cavallo, di
tanto in tanto si fermava ad indicare qualcosa col braccio destro disteso.
Allora più d’uno si ricordò di mattine uguali, quando, nel frastuono delle chiarine, egli li passava
in rassegna lentamente, e che un suo sguardo li faceva forti come una coppa di vino. Furon presi da
una specie di commozione. Al contrario, quelli che non conoscevano Amilcare, convinti di tenerlo
in pugno, eran fuori di sé per la contentezza.
Però, se avessero attaccato, tutti in una volta, in uno spazio angusto si sarebbero danneggiati a
vicenda. I Numidi potevano lanciarsi nel mezzo; ma i Clinabari protetti da pesanti corazze li
avrebbero schiacciati; del resto, come superare le palizzate? Quanto agli elefanti, non si sentivano
sufficientemente addesrtati.
- Siete tutti dei vigliacchi ! – gridò Mato.
E, con i migliori, si precipitò contro i trinceramenti. Un lancio di pietre lo respinse; giacché il
Suffeta s’era impossessato delle loro catapulte abbandonate sul ponte.
Quell’insuccesso fece bruscamente mutare il volubile umore dei Barbari. Il loro baldanzoso
coraggio dileguò; volevano certo vincere, ma rischiando il meno possibile.
Secondo Spendio, bisognava salvaguardare con cura la propria posizione e prender per fame
l’armata punica. Ma i Cartaginesi cominciarono a scavar pozzi, e dalle alture che li contornavano
fecero scaturire l’acqua.
Dall’alto della loro palizzata lanciavano frecce, terriccio, letame, ciottoli che strappavano dal
terreno, mentre le sei catapulte giravano incessantemente lungo tutto il terrapieno.
Ma le sorgenti si sarebbero prosciugate da sole; i viveri si sarebbero esauriti, le catapulte logorate;
i Mercenari dieci volte più numerosi finirebbero per trionfare. Il Suffeta per prendere tempo
escogitò dei negoziati, e un mattino i Barbari trovarono nelle loro linee una pelle di montone
coperta di scritte. Egli si discolpava della sua vittoria: gli Anziani l’avevano obbligato alla guerra, e
per dimostrare che diceva il vero, offriva ai Mercenari il saccheggio di Utica o quello di Ippo Zarito,
a scelta; Amilcare, infine, dichiarava di non temerli, perché aveva corrotto dei traditori e che, grazie
a costoro, l’avrebbe spuntata con facilità contro tutti gli altri.
I Barbari restarono turbati: quella proposta d’un immediato bottino li faceva sognare; temevano
un tradimento, non supponendo affatto un inganno nella furfanteria del Suffeta, e cominciarono a
guardarsi gli uni gli altri con diffidenza. Spiavano i discorsi, i comportamenti; la notte si
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risvegliavano col batticuore. Molti lasciavano i loro compagni; sceglievano l’armata seguendo il
proprio capriccio, e i Galli con Autarito andarono ad unirsi ai Cisalpini dei quali comprendevano la
parlata.
I quattro capi si riunivano tutte le sere nella tenda di Mato, e, accosciati attorno ad uno scudo,
stavano assorti muovendo avanti e indietro le statuette di legno, inventate da Pirro per simulare le
manovre militari. Spendio, metteva in luce gli espedienti di Amilcare; supplicava di non perdere
quell’opportunità e giurava su tutti gli Dei. Mato, irritato, camminava gesticolando. La guerra
contro Cartagine era una sua questione personale; si indignava che gli altri se ne immischiassero
senza volergli obbedire. Autarito, indovinandone i discorsi dal contegno, applaudiva. Narava alzava
il mento in segno di sprezzo; non c’era un provvedimento che non giudicasse funesto, e non
sorrideva più. Gli sfuggivano dei sospiri come se reprimesse il dolore per un sogno impossibile, per
un’impresa mancata.
Mentre i Barbari, incerti sul da farsi, deliberavano, il Suffeta rafforzava le sue difese: fece
scavare al di qua delle palizzate un secondo fossato, alzare una seconda muraglia, costruire negli
angoli delle torri di legno; e i suoi schiavi si spingevano fino agli avamposti a piazzare nel terreno
delle trappole. Intanto gli elefanti, le cui razioni erano diminuite, si agitavano nelle loro pastoie. Per
risparmiare gli erbaggi, ordinò ai Clinabari di uccidere gli stalloni meno robusti. Alcuni si
rifiutarono; li fece decapitare. I cavalli vennero mangiati. Il ricordo di quella carne fresca, nei giorni
seguenti, fu una grande tristezza.
Dal fondo dell’anfiteatro dove si trovavano rinchiusi, vedevano tutt’intorno a loro, sulle alture, i
quattro campi dei Barbari pieni di vita. Le donne giravano con delle brocche sul capo, le capre
vagavano belando sotto i fasci di picche; le sentinelle si davano il turno, poi andavano a mangiare
accanto ai treppiedi. In effetti le tribù li rifornivano di abbondante cibo, ed essi neppure
sospettavano quanto la loro inerzia spaventasse l’armata punica.
Dal secondo giorno, i Cartaginesi avevano notato nel campo dei Nomadi un gruppo di trecento
uomini in disparte dagli altri. Erano i Ricchi, tenuti prigionieri dall’inizio delle ostilità. Alcuni
Libici, li ordinavano sul bordo del fossato, e, appostati dietro ad essi, lanciavano giavellotti
facendosi scudo dei loro corpi. A malapena si riconoscevano, quei poveretti, perché la loro
fisionomia spariva sotto uno strato di lordura e di pidocchi. I capelli in parte strappati lasciavano
scorgere le ulcere della loro testa; ed erano così magri e orribili a vedersi da somigliare a mummie
avvolte in brandelli di lenzuolo. Alcuni, tremanti, singhiozzavano con aria idiota; altri gridavano ai
loro amici di tirare sui Barbari. Ve n’era uno, immobile, la fronte chinata, che non parlava; la sua
grande barba bianca gli scendeva fino alle mani coperte di catene; e i Cartaginesi, sentendo al fondo
del loro cuore come il crollo della Repubblica, riconoscevano Giscone. Benché la posizione fosse
pericolosa, si urtavano per poterlo vedere. Gli avevano posto sul capo una grottesca tiara, in cuoio
d’ippopotamo, incrostata di piccole pietre. Era stata un’idea di Autarito; ma a Mato non era piaciuta.
Amilcare esasperato fece aprire le palizzate, risoluto a farsi strada non importa come; e con uno
slancio furibondo i Cartaginesi salirono fino a mezza costa, per trecento passi. Calò una tal folla di
Barbari che furono ricacciati nelle proprie linee. Una guardia della Legione, restata indietro,
incespicava tra le pietre. Zarza accorse, e, atterrandola, gli affondò un pugnale nella gola; lo estrasse,
si gettò sulla ferita e, incollandovi sopra la bocca, con dei borbottii di gioia e dei sussulti che lo
scuotevano fino ai talloni, pompava il sangue a pieni polmoni. Poi tranquillamente, si sedette sul
cadavere, sollevò il viso rovesciando il collo per meglio aspirare l’aria, come un giovane cervo
dopo essersi abbeverato ad un torrente, e, con voce acuta, intonò un canto dei Baleari, una vaga
melodia piena di modulazioni prolungate, che si interrompevano, si alternavano, come echi che si
rispondono nei monti. Chiamava i suoi fratelli morti, invitandoli ad un festino. Infine lasciò ricadere
le mani tra le proprie gambe, abbassò lentamente la testa, e pianse. Questa cosa atroce inorridì i
Barbari, soprattutto i Greci.
I Cartaginesi, a partire da quel momento, rinunciarono a qualunque sortita; e neppure
vagheggiavano di arrendersi, certi com’erano di morire fra i supplizi.
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Frattanto i viveri, malgrado le cure di Amilcare, diminuivano spaventosamente. Per ogni uomo,
non restavano altro che dieci k’kommer di grano, tre hin di miglio e dodici betza di frutta secca.
Niente carne, niente olio, niente pesce sotto sale, neppure un grano d’orzo per i cavalli; li si vedeva,
con l’incollatura smagrita, cercare nella polvere minuzzoli di paglia calpestati.
Spesso le sentinelle di vedetta sul terrapieno scorgevano, al chiarore della luna, un cane dei
Barbari aggirarsi sotto i trinceramenti, tra i mucchi di immondizie; lo ammazzavano con una sassata,
e, aiutandosi con le corregge dello scudo, si calavano dall’alto delle palizzate, poi senza dir niente,
lo mangiavano. Capitava a volte di udire degli orribili latrati, e l’uomo non risaliva più. Nella quarta
dilochìa del dodicesimo sintagma, tre falangiti, disputandosi un sorcio, si uccisero a coltellate.
Tutti rimpiangevano le loro famiglie, le loro case: i poveri, le loro capanne a forma di alveare,
con le conchiglie sulla soglia delle porte, una rete appesa, e i patrizi, le loro vaste sale immerse nella
penombra azzurrognola, quando, nell’ora più molle del giorno, riposavano, ascoltando il vago
brusio delle strade, unito allo stormire delle foglie che si agitavano nei loro giardini; e, per meglio
sprofondarsi in quei pensieri, alfine di goderne maggiormente, socchiudevano le palpebre. La
scossa di una ferita li risvegliava. Ad ogni momento, erano disturbati da una scaramuccia, da un
novello allarme; le torri bruciavano, i Mangiatori di cose immonde scalavano le palizzate. Gli si
tagliava le mani con delle asce; ne accorrevano altri. Una pioggia di ferro cadeva sulle tende; si
costruirono delle gallerie con graticci di giunco per proteggersi dai proiettili. I Cartaginesi vi si
rinchiusero; non ne uscivano più.
Tutti i giorni, il sole che visitava la collina, abbandonando, fin dalle prime ore, il fondo della gola,
li lasciava nell’ombra. In faccia e alle spalle, i grigi pendii del terreno montavano verso l’alto,
coperti di pietre chiazzate da un rado lichene, e, sopra le loro teste si apriva il cielo, perennemente
sgombro di nubi, più liscio e freddo a vedersi che una cupola di metallo. Amilcare era talmente
indignato contro Cartagine che provava il desiderio di mettersi coi Barbari per condurli contro di
essa. Inoltre, ecco che i portatori, i vivandieri, gli schiavi cominciavano a lagnarsi,e ne il popolo, ne
il Gran Consiglio, nessuno inviava neppure un segno di speranza. La situazione era intollerabile
soprattutto al pensiero che sarebbe peggiorata.
Alla notizia del disastro, Cartagine aveva avuto come un sussulto di rabbia e di odio; si sarebbe
esecrato meno il Suffeta, se, fin dall’inizio, si fosse lasciato sconfiggere.
Ma ora, per assoldare altri Mercenari, mancava il tempo e pure il denaro. Quanto ad arruolare dei
soldati nella città, come equipaggiarli? Amilcare aveva preso tutte le armi! E poi, chi li
comanderebbe? I migliori capitani si trovavano laggiù con lui! Intanto, alcuni uomini inviati dal
Suffeta battevano le vie della città, strillando. Il Gran Consiglio se ne inquietò, e prese
provvedimenti per farli sparire.
Era una prudenza inutile; tutti accusavano Barca di essersi condotto fiaccamente. Avrebbe dovuto,
dopo la vittoria, annientare i Mercenari. Perché aveva infierito sulle tribù? Nonostante fossero già
stati imposti sacrifici assai pesanti! E i patrizi deploravano il loro contributo di quattordici shekel , i
Sissizi i loro duecentoventitremila kikar d’oro; quelli, poi, che non avevano dato nulla si
lamentavano al pari degli altri. La plebaglia era gelosa dei Cartaginesi nuovi ai quali egli aveva
promesso il diritto di piena cittadinanza; ed anche i Liguri, che s’erano battuti coraggiosamente,
venivano ora assimilati ai Barbari, li si malediceva come quelli; la loro razza diveniva un crimine,
una complicità. I mercanti sulla soglia delle loro botteghe, i manovali che passavano per strada con
un regolo di piombo in mano, i commercianti di salamoie mentre risciacquavano le loro ceste, i
bagnini nelle stufe e i venditori di bevande calde, tutti discutevano le operazioni della campagna
militare. Venivano tracciati col dito dei piani di battaglia sulla polvere; e non c’era garzone, per
quanto infimo, che non sapesse correggere gli errori di Amilcare.
Era, dicevano i sacerdoti, il castigo per la sua costante empietà. Non aveva per nulla offerto
olocausti; non aveva purificato le sue truppe; aveva persino rifiutato di prendere con lui degli auguri;
e lo scandalo per il sacrilegio rafforzava la violenza dei rancori repressi, la rabbia per le speranze
tradite. Si ricordavano i disastri di Sicilia, tutto il fardello del suo orgoglio che avevano sopportato
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così a lungo! I collegi dei pontefici non gli perdonavano di essersi impadronito dei loro tesori, e
pretesero dal Gran Consiglio l’impegno di crocifiggerlo, se mai fosse tornato.
Il calore del mese di Elul, eccessivo in quell’anno, era un’ulteriore calamità. Dalle sponde del
lago provenivano odori nauseabondi; passavano nell’aria con il fumo degli aromi che turbinava agli
angoli delle strade. Si udiva ininterrotto l’eco degli inni liturgici. Ondate di popolo occupavano le
scalinate dei templi: tutte le mura erano ricoperte di veli neri; dei ceri bruciavano davanti agli Dei
Pateci, e il sangue dei cammelli sgozzati in sacrificio, colando lungo le scalinate, formava, sui
gradini, delle cascatelle rosse. Cartagine era preda di un delirio funebre. Dal fondo delle viuzze più
strette, dalle più scure stamberghe, sortivano dei volti pallidi, degli uomini dal profilo di vipera che
digrignavano i denti. I gridi acuti delle donne riempivano le case, e, sfuggendo dalle grate, facevano
volgere quelli che, in piedi, discorrevano sulle piazze. A volte si credeva che i Barbari stessero per
arrivare; li si era scorti dietro la montagna delle Acque Calde; erano accampati a Tunisi; e le voci si
moltiplicavano, si gonfiavano, si confondevano in un unico clamore. Poi, sopravveniva un silenzio
di tomba; alcuni restavano inerpicati sul frontone degli edifici, con le mani aperte a schermarsi gli
occhi, mentre altri, stesi bocconi ai piedi dei bastioni, stavano in ascolto. La paura passava, tornava
la rabbia. Ma la certezza della loro impotenza li rituffava ben presto nella stessa angustia.
Raddoppiava ogni sera, quando tutti, saliti sulle terrazze, cacciavano, inchinandosi nove volte, un
grande grido per salutare il sole. Esso calava dietro la laguna, lentamente, poi di colpo scompariva
nelle montagne dal lato dei Barbari.
Si aspettava la festa tre volte santa, durante la quale, dall’alto di un rogo un aquila s’involava
verso il cielo, simbolo della rinascita dell’anno, messaggio del popolo al suo Baal supremo, e che
veniva considerata come una sorta di fusione, un modo di riallacciarsi alla forza del Sole. D’altra
parte, pieni d’odio com’erano, si volgevano candidamente verso Moloch Omicida, e in massa
abbandonavano Tanit. In effetti, la Rabbetna, non avendo più il suo velo, era come spoglia di una
parte della sua virtù. Ella rifiutava la beneficenza delle sue acque, aveva disertato Cartagine; era una
transfuga, una nemica. Alcuni per oltraggiarla, le gettavano delle pietre. Ma pur coprendola di
invettive la rimpiangevano assai; l’amavano ancora teneramente e forse più profondamente.
Tutte le sciagure provenivano dunque dalla perdita dello Zaimf. Salammbô v’era in qualche modo
implicata; la si includeva nel medesimo risentimento; doveva essere punita. La vaga idea d’un
sacrificio ben presto si fece strada nel popolo. Per placare i Baalim, bisognava senza dubbio offrir
loro qualcosa di incalcolabile valore, un essere bello, giovane, vergine, d’antica casata, prole degli
Dei, un astro umano. Ogni giorno degli sconosciuti invadevano i giardini di Megara; gli schiavi, che
temevano per sé stessi, non osavano contrastarli. Tuttavia quelli non oltrepassavano mai la scalinata
delle galee. Restavano in basso, gli occhi rivolti all’ultima terrazza; aspettavano Salammbô, e per
delle ore le strillavano contro, come cani che ululano alla luna.
85
X
IL SERPENTE
Quegli strepiti della plebaglia non spaventavano la figlia di Amilcare.
Era turbata da inquietudini più elevate: il suo grande serpente, il Pitone nero, languiva; e il
serpente era per i Cartaginesi un feticcio insieme pubblico e privato. Lo si credeva figlio del limo
della terra, poiché emerge dalle sue profondità e non ha bisogno di piedi per percorrerla; la sua
andatura ricorda le sinuosità dei fiumi, la sua temperatura le antiche tenebre viscose colme di
fecondità, e l’orbita che descrive mordendosi la coda l’insieme dei pianeti, l’intelligenza di Eshmun.
Quello di Salammbô aveva già rifiutato parecchie volte i quattro passeri vivi che gli venivano
offerti il plenilunio e ad ogni nuova luna. La sua bella pelle, coperta come il firmamento di chiazze
dorate su uno sfondo tutto nero, ora era gialla, flaccida, grinzosa e troppo larga per il suo corpo; una
muffa cotonosa si estendeva intorno alla sua testa; e all’angolo delle palpebre gli si scorgevano dei
puntini rossi che sembravano muoversi. Di tanto in tanto, Salammbô si avvicinava alla sua cesta in
fili d’argento; scostava la tenda di porpora, le foglie di loto, la peluria d’uccello; lui era là, sempre
arrotolato su sé stesso, più immobile di una liana avvizzita; e, a forza di guardarlo, ella finiva per
sentire nel suo cuore come una spirale, come un’altro serpente che poco a poco le saliva in gola e la
soffocava.
Era disperata d’aver visto lo Zaimf, e tuttavia ne provava una sorta di gioia, un intimo orgoglio.
Un mistero si celava nello splendore delle sue pieghe; era la nube che avvolgeva gli Dei, il segreto
dell’esistenza universale, e Salammbô, pur provando orrore di sé, rimpiangeva di non averlo
sollevato.
Se ne stava quasi sempre accovacciata nell’intimità del suo appartamento, tenendo fra le mani la
sua gamba sinistra piegata, la bocca socchiusa, il mento abbassato, lo sguardo intento. Si ricordava,
con spavento, il volto di suo padre; voleva andarsene tra le montagne della Fenicia, in
pellegrinaggio al tempio di Afaka, dove Tanit è discesa sotto forma di stella; fantasie d’ogni sorta la
seducevano, la spaventavano; d’altra parte la circondava una solitudine ogni giorno più grande.
Nemmeno più sapeva che ne fosse di Amilcare.
Infine, stanca dei suoi pensieri, si alzava e, trascinando i piccoli sandali la cui soletta ad ogni
passo le batteva contro i talloni, passeggiava a caso nella grande camera silenziosa. Le ametiste e i
topazi del soffitto facevano tremolare qua e là delle chiazze luminose, e Salammbô, sempre
camminando, volgeva un poco il capo a guardarle. Andava ad afferrare per il collo le anfore appese;
si rinfrescava il petto sotto dei larghi ventagli, oppure si divertiva a bruciare del cinnamomo dentro
perle incavate. Al calar del sole, Taanach toglieva le losanghe di feltro nero che tappavano le
aperture dei muri; allora le sue colombe, profumate di muschio come quelle di Tanit, entravano
all’improvviso, e le loro zampette rosa scivolavano sulle lastre di vetro tra i grani d’orzo ch’ella
gettava loro a piene mani, come un seminatore nel campo. Ma di botto scoppiava in singhiozzi, e
restava distesa sul grande letto fatto di corregge di bue, immobile, ripetendo una parola, sempre la
stessa, gli occhi aperti, pallida come una morta, insensibile, fredda; e intanto ascoltava il grido delle
scimmie nelle macchie di palme, insieme allo stridore continuo della grande ruota che, attraverso i
piani, portava un flusso d’acqua pura nella vasca di porfido.
A volte, per più giorni, ella rifiutava di mangiare. Vedeva in sogno degli oscuri astri che
scorrevano sotto i suoi piedi. Chiamava Shahabarim, e, quando giungeva, non aveva più niente da
dirgli.
Ella non poteva più vivere senza la consolazione della sua presenza. Ma poi si rivoltava dentro sé
contro quella soggezione; provava nei confronti del sacerdote, in una sola volta, terrore, gelosia,
odio e una specie di amore, dovuto alla gratitudine per la singolare voluttà ch’ella sperimentava
vicino a lui.
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Egli, esperto a distinguere quali erano gli Dei che inviavano le malattie, aveva riconosciuto
l’influenza della Rabbet; e, per guarire Salammbô, faceva aspergere il suo appartamento con lozioni
di verbena e adianto; tutte le mattine ella mangiava della mandragora, dormiva con la testa su di un
cuscinetto colmo di profumi miscelati dai pontefici; era anche ricorso al baaras, una radice color
del fuoco che respinge nel settentrione i geni funesti; infine, rivolto alla stella polare, mormorò per
tre volte il nome segreto di Tanit; ma siccome i patimenti di Salammbô seguitavano, i suoi timori
crebbero.
Nessuno a Cartagine era sapiente quanto lui. Durante la sua giovinezza aveva studiato nel
collegio dei Mogbed, a Borsippa, nei pressi di Babilonia; in seguito aveva visitato Samotracia,
Pessinunte, Efeso, la Tessaglia, la Giudea, i templi dei Nabatei sperduti tra le sabbie; e aveva
percorso a piedi, dalle cateratte fino al mare, le sponde del Nilo. Con il viso velato, al lume delle
fiaccole, aveva scagliato un gallo nero sopra un fuoco di sandracca, al cospetto della Sfinge, la
Madre del Terrore. Era disceso nelle caverne di Proserpina; aveva visto girare le cinquecento
colonne del labirinto di Lemno e risplendere il candelabro di Taranto, che portava sul suo gambo
tante luci quanti ne ha di giorni l’anno; a volte la notte riceveva dei Greci per interrogarli. La
sostanza del mondo non lo inquietava meno della natura degli Dei; con la sfera armillare posta nel
portico di Alessandria, aveva osservato gli equinozi, e aveva accompagnato fino a Cirene i bematisti
dell’Evergete, che misurano il cielo calcolando il numero dei loro passi; di modo che ora fioriva nel
suo pensiero una religione singolare, priva di un preciso enunciato, e proprio per ciò, colma di
vertigini e di ardori. Egli non credeva più che la terra avesse la forma di una pigna; la credeva
rotonda, e precipitante in eterno nell’immensità, ad una velocità così prodigiosa che non se ne
percepisce la caduta.
Dalla posizione del sole al di sopra della luna, egli inferiva la predominanza del Baal, di cui
l’astro stesso non è che il riflesso e l’immagine; d’altra parte, tutto ciò che osservava delle cose
terrestri lo obbligava a riconoscere come superiore il principio sterminatore maschile. Inoltre, egli
accusava segretamente la Rabbet dell’infortunio della sua vita. Non era forse stato a causa di lei che
un tempo il gran pontefice, avanzando nel frastuono dei cimbali, gli aveva preso sotto una patera
d’acqua bollente la sua futura virilità? Ed egli ora spiava con uno sguardo malinconico quegli
uomini che si perdevano con le sacerdotesse tra gli arbusti di terebinto.
Le sue giornate trascorrevano a sorvegliare gli incensieri, i vasi d’oro, le pinze, i rastrelli per le
ceneri dell’altare, e tutte le vesti delle statue, fino all’ago di bronzo che serviva ad arricciare i
capelli d’una vecchia Tanit, nella terza edicola, vicino alla vite di smeraldo.
Alle stesse ore sollevava i pesanti cortinaggi delle stesse porte, che poi ricadevano; se ne stava a
braccia aperte nella stessa posa; pregava prosternato sulle stesse pietre, mentre all’intorno una
moltitudine di sacerdoti circolava a piedi nudi per i corridoi immersi in un eterno crepuscolo.
Ma nell’aridità della sua vita, Salammbô era come un fiore nella crepa di un sepolcro. Ciò
nonostante, egli era inflessibile con lei, e non le risparmiava ne penitenze ne parole amare. La sua
condizione stabiliva tra loro due come l’uguaglianza d’un sesso comune, e ne voleva meno alla
giovinetta di non poterla possedere che di trovarla tanto bella e soprattutto così pura. Sovente egli
vedeva bene che ella penava a seguire i suoi pensieri. Allora se ne ritornava più triste; sentendosi
abbandonato, più solo e più vuoto.
A volte gli sfuggivano delle parole strane, che passavano davanti a Salammbô come lampi
illuminanti degli abissi. Ciò accadeva la notte, sulla terrazza, quando, loro due soli, osservavano le
stelle, mentre Cartagine si dispiegava in basso, sotto i loro piedi, con il golfo e il mare aperto
vagamente sperduti nel colore delle tenebre.
Egli le esponeva la teoria delle anime che scendono sulla terra, seguendo la stessa strada del sole
attraverso i segni dello zodiaco. Col suo braccio disteso, mostrava nell’Ariete la porta della
generazione umana, nel Capricorno, quella del ritorno verso gli Dei; e Salammbô si sforzava di
scorgerle, poiché ella prendeva quelle concezioni per delle realtà; accettava come veri in sé stessi
dei puri simboli e perfino dei modi di dire, distinzione che non era ben netta neppure per il
sacerdote.
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- Le anime dei morti – egli diceva – si dissolvono nella luna come i cadaveri nella terra. Le loro
lacrime compongono il suo umidore; è una dimora buia, piena di fango, di rovine e di tempeste.
Ella chiese che ne sarebbe stato di lei?
- Dapprima languirai, leggera come un vapore che dondola sui flutti; e, dopo aver subito una lunga
serie di prove spaventose, finirai nel fuoco del sole, dov’è la sorgente stessa dell’Intelligenza.
Però non parlava della Rabbet. Salammbô si immaginava che lo facesse per una specie di pudore
nei confronti della sua dea sconfitta, e chiamandola con uno dei nomi coi quali comunemente si
indicava la luna, ella si sprecava in benedizioni sull’astro fertile e dolce.
Alla lunga, egli gridò:
- No! No! Essa trae dall’altro tutta la sua fecondità! Non la vedi girare intorno a lui come una
femmina in calore che rincorre il suo maschio nel campo? – E senza posa egli esaltava la virtù della
luce.
Lungi dal fiaccare le sue mistiche brame, al contrario le sollecitava, e nello stesso tempo pareva
divertirsi ad affliggerla con le rivelazioni di una dottrina spietata. Salammbô, malgrado la sua
devozione ne soffrisse, vi si abbandonava con trasporto.
Ma più Shahabarim sentiva la sua fede in Tanit affievolirsi, più desiderava credervi. In fondo alla
sua anima era colto dai rimorsi. Sentiva il bisogno di una prova, di una manifestazione degli Dei, e
nella speranza di ottenerla, il sacerdote immaginò un’impresa che poteva salvare ad un tempo la sua
città e la sua fede.
Da allora cominciò a deplorare, davanti a Salammbô, il sacrilegio e le sciagure che ne erano
seguite fin nelle regioni celesti. Poi, di colpo, le annunciò che il Suffeta era in pericolo, assalito da
tre armate al comando di Mato; poiché Mato, per i Cartaginesi, era, grazie al velo, come il re dei
Barbari; e aggiunse che la salvezza della Repubblica e di suo padre dipendeva da lei sola.
- Dimmi! – gridò ella – Come posso…?
Ma il sacerdote con un sorriso sprezzante:
- Tu non consentirai giammai!
Ella lo supplicava. Infine Shahabarim le disse:
- Occorre che tu vada dai Barbari a riprendere lo Zaimf !
Ella si accasciò sullo sgabello d’ebano; e se ne stava con le braccia distese tra le ginocchia, scossa
da un brivido in tutto il corpo, come una vittima ai piedi dell’altare quando attende il colpo di
mazza. Le sue tempie martellavano, vedeva roteare cerchi di fuoco, e, nel suo stupore, non capiva
che una cosa: ben presto, certamente le sarebbe toccato andare a morire.
Ma se la Rabbetna trionfava, se lo Zaimf veniva reso e Cartagine liberata, che mai poteva
importare la vita di una donna! Questo pensava Shahabarim. D’altra parte, poteva essere che ella
ottenesse il velo senza sacrificare la propria vita.
Egli restò tre giorni senza andare da lei; la sera del quarto, ella lo mandò a cercare.
Per meglio infiammare il suo cuore, le riferì tutte le invettive gridate contro Amilcare in pieno
Consiglio; le disse che ella aveva sbagliato, che doveva riparare la sua colpa, e che la Rabbetna
esigeva quel sacrificio.
Spesso un gran clamore attraversando i Mappali giungeva dentro Megara. Shahabarim e
Salammbȏ accorrevano; e, dall’alto della scalinata delle galee, guardavano.
C’erano degli uomini sulla piazza di Khamon che strepitavano per avere delle armi. Gli Anziani
non volevano fornirle, stimando quello sforzo inutile; altri, partiti senza comandante, erano stati
massacrati. Infine si permise loro di andarsene,e, per una specie di omaggio a Moloch o per un vago
bisogno di distruzione, quelli sradicarono nei boschi dei templi alcuni grandi cipressi, e, dopo averli
incendiati con le torce dei Cabiri, li portavano per le strade cantando. Quelle mostruose lingue di
fuoco avanzavano oscillando dolcemente; proiettavano fuochi nei globi di vetro sulla cima dei
templi, sugli ornamenti dei colossi, sugli speroni delle navi, oltrepassavano le terrazze e formavano
come dei soli che rotolavano per la città. Discesero l’Acropoli. La porta di Malqua sì aprì.
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- Sei pronta? – gridò Shahabarim – O, al contrario, hai raccomandato loro di dire a tuo padre che lo
abbandonavi? – Ella nascose il viso tra i suoi veli, mentre quei giganteschi bagliori si allontanavano,
abbassandosi poco a poco fino al bordo del mare.
Uno sgomento indeterminato la tratteneva; aveva paura di Moloch, paura di Mato. Quell’uomo
gigantesco, che al momento era il padrone dello Zaimf, dominava la Rabbetna quanto il Baal e le
appariva circonfuso dello stesso splendore; e si sapeva che l’anima degli Dei, a volte, visitava i
corpi degli uomini. Shahabarim, parlando di quello, non diceva forse che lei doveva vincere Moloch?
Erano dunque mischiati l’uno all’altro; lei li confondeva; entrambi la perseguitavano.
Volle conoscere il futuro e si avvicinò al serpente, poiché si traevano pronostici dagli
atteggiamenti dei serpenti. Ma la cesta era vuota; Salammbô s’inquietò.
Lo trovò arrotolato per la coda ad una delle colonnette d’argento, vicino al letto sospeso; vi si
strofinava per liberarsi della sua vecchia pelle giallastra, mentre il suo corpo lucente e chiaro
s’allungava come una spada sfoderata a metà.
Nei giorni seguenti, a misura che lei si lasciava convincere, che era più disposta a soccorrere Tanit,
il pitone rifioriva, cresceva, sembrava rivivere.
Nella sua coscienza si stabilì la certezza che Shahabarim esprimeva la volontà degli Dei. Un
mattino si risvegliò determinata, chiese cosa doveva fare affinché Mato rendesse il velo.
- Reclamarlo. – disse Shahabarim.
- Ma se rifiuta? – ribatté ella.
Il sacerdote la considerò attentamente, con un sorriso che lei non gli aveva mai visto.
- Si, cosa devo fare? – ripeté Salammbô.
Egli arrotolava fra le sue dita l’estremità delle bendelle che gli cadevano dalla tiara sulle spalle,
gli occhi abbassati, immobile. Infine, vedendo che lei non comprendeva:
- Tu sarai sola con lui!
- Dopo? – disse ella
- Sola nella sua tenda.
- E allora?
Shahabarim si morse le labbra. Cercava qualche frase, un giro di parole.
- Se dovrai morire, sarà dopo – disse egli – dopo! Non temere nulla! E qualunque cosa egli tenti,
non chiedere aiuto! Non ti spaventare! Mostrati umile, mi capisci, sottomessa al suo desiderio che è
il volere del cielo!
- Ma il velo?
- Se ne occuperanno gli Dei – rispose Shahabarim. Ella aggiunse:
- Se tu mi accompagnassi, o padre?
- No!
La fece inginocchiare, e, tenendo la mano sinistra alzata e la destra stesa, giurò per lei di riportare
in Cartagine il manto di Tanit. Sotto pena delle più terribili maledizioni, ella si consacrava agli Dei,
ed ogni volta che Shahabarim pronunciava una sentenza, pur sentendosi mancare, ella la ripeteva.
Egli le indicò tutte le purificazioni, i digiuni che doveva fare e come giungere fino a Mato. D’altra
parte, un uomo che conosceva la strada l’avrebbe accompagnata.
Ella si sentì come liberata. Non pensava ad altro che alla felicità di rivedere lo Zaimf, ed ora
benediceva Shahabarim per le sue esortazioni.
Era il tempo in cui le colombe di Cartagine emigravano in Sicilia, sulla montagna di Erice, nei
pressi del tempio di Venere. Prima della loro partenza, per parecchi giorni, esse si cercavano, si
chiamavano per riunirsi; una sera, infine, volarono via; il vento le spingeva, e quella grossa nube
bianca scivolava nel cielo,molto in alto, sopra il mare.
L’orizzonte era color del sangue. Le colombe parevano scendere pian piano verso le onde; poi
disparvero, come se fossero state inghiottite o si fossero precipitate nelle fauci del sole. Salammbô,
che le guardava allontanarsi, chinò il capo, e Taanach allora, credendo di indovinare la sua tristezza,
le disse dolcemente:
- Ritorneranno, Padrona.
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- Si! Lo so.
- E tu le rivedrai.
- Forse! – fece ella sospirando.
Non aveva confidato a nessuno la sua risoluzione; per compierla più discretamente, mandò
Taanach ad acquistare nel quartiere di Kinisdo, in luogo di richiederle agli intendenti, tutte le cose
che le servivano: cinabro, profumi, una cintura di lino e dei vestiti nuovi. La vecchia schiava si
stupiva di quei preparativi, senza osare tuttavia farle delle domande. Infine giunse il giorno, fissato
da Shahabarim, nel quale Salammbô doveva partire.
Verso la dodicesima ora, ella scorse tra i sicomori un vecchio cieco, aveva una mano poggiata
sulla spalla di un bambino che gli camminava innanzi, e con l’altra teneva stretta al fianco una
specie di cetra di legno scuro. Gli eunuchi, gli schiavi, le donne, erano stati scrupolosamente
allontanati; nessuno doveva conoscere il mistero che si preparava.
Taanach accese nei quattro angoli dell’appartamento quattro tripodi colmi di strobo e di
cardamomo; poi svolse dei grandi tappeti babilonesi e li distese su delle corde tutt’intorno alla
camera; poiché Salammbȏ non voleva essere vista, neppure dalle pareti. Il suonatore di kinnor stava
seduto sui calcagni dietro la porta, e il fanciullo, in piedi, teneva fra le labbra un flauto di canna. Il
clamore delle strade si spegneva in lontananza, delle ombre violette s’allungavano davanti al
peristilio dei templi, e, dall’altra parte del golfo, la base delle montagne, gli uliveti e le vaghe terre
giallastre, ondulanti all’infinito, si confondevano in un vapore azzurrognolo; non si udiva alcun
rumore, un languore indicibile pesava nell’aria.
Salammbô si accovacciò sul gradino di onice, al bordo della vasca; sollevò le ampie maniche che
fissò dietro le sue spalle, e cominciò le sue abluzioni, accuratamente, come volevano i sacri riti.
Infine Taanach le portò, in una boccetta d’alabastro, qualcosa di liquido e di coagulato; era il
sangue di una cane nero, sgozzato da donne sterili, una notte d’inverno, tra i ruderi di un sepolcro.
Ella se ne strofinò le orecchie, i talloni, il pollice della mano destra, la cui unghia rimase un poco
rossa, come se avesse schiacciato un frutto.
Si levò la luna; allora la cetra e il flauto, contemporaneamente, si misero a suonare.
Salammbȏ sfilò i suoi orecchini, la collana, i braccialetti, la lunga veste bianca; snodò la fascia
intorno ai suoi capelli, e per un poco li scosse sulle spalle, dolcemente, per rinfrescarsi
sparpagliandoli. Fuori la musica continuava; erano tre note, sempre le stesse, irruenti, furiose; le
corde stridevano, il flauto ronzava; Taanach batteva il ritmo con le mani; Salammbô, con un
ondeggiamento di tutto il corpo, salmodiava delle preghiere, e le sue vesti, una dopo l’altra,
cadevano a terra intorno a lei.
La pesante tappezzeria tremò, e al di sopra della corda che la tratteneva, apparve la testa del
pitone. Discese lentamente, come una goccia d’acqua che cola lungo un muro, strisciò tra le stoffe
sparse, poi, tenendo la coda incollata al suolo, si drizzò; e i suoi occhi, più brillanti di due rubini,
dardeggiavano su Salammbô.
L’orrore del freddo contatto o una specie di pudore, dapprima la fece esitare. Ma si ricordò gli
ordini di Shahabarim, avanzò; il pitone si ripiegò e posandole sulla nuca la parte mediana del
proprio corpo, lasciava ciondolare la testa e la coda, come una collana spezzata i cui due capi
strascichino sino a terra. Salammbȏ se lo rigirò intorno ai fianchi, sotto le braccia, tra le ginocchia;
poi prendendolo per la mascella, accostò quelle piccole fauci triangolari ai propri denti, e,
socchiudendo gli occhi, si arrovesciava sotto i raggi della luna. La bianca luce pareva avvolgerla in
una nebbia d’argento, le orme dei suoi passi umidi brillavano sul lastricato di pietre, delle stelle
palpitavano nella profondità dell’acqua; il serpente le si stringeva contro con i suoi anelli decorati di
chiazze d’oro. Salammbô soffocava sotto quel peso troppo greve, le sue reni si piegavano, si sentiva
morire; e il pitone con la punta della coda la colpiva piano sulla coscia; poi, tacendosi la musica,
quello ricadde.
Taanach ritornò vicino a lei; e dopo aver approntato due candelabri le cui fiamme ardevano entro
bocce di cristallo piene d’acqua, le tinse di lausonia la parte interna delle mani, le passò del cinabro
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sulle gote, dell’antimonio sull’orlo delle palpebre, le allungò le sopracciglia con un misto di
gomma, muschio, ebano, e zampine di mosca schiacciate.
Salammbȏ, seduta su di una seggiola dai braccioli d’avorio, s’abbandonava alle cure della
schiava. Ma quei toccamenti, l’odore degli aromi e i digiuni che aveva patito, la indebolivano. Si
fece tanto pallida che Taanach si fermò.
- Continua! – disse Salammbô, e, facendosi forza, si rianimò all’istante. Allora la prese una smania;
pressava Taanach perché si affrettasse, e la vecchia schiava brontolando:
- Va bene! Va Bene, Padrona! D’altronde non c’è nessuno che ti aspetta!
- Si! – disse Salammbô - Qualcuno mi aspetta.
Taanach indietreggiò per la sorpresa, e curiosa di saperne di più:
- Quali sono i tuoi ordini, Padrona? Perché se devi restare fuori…
Ma Salammbô singhiozzava; la schiava esclamò:
- Soffri, dunque! Cos’hai? Non andartene! Portami con te! Quando eri piccolina e piangevi, ti
prendevo sul mio cuore e ti facevo ridere con la punta delle mie mammelle; tu le hai inaridite,
Padrona! – e così dicendo si batteva il petto flaccido – Ora, sono vecchia! Per te non posso fare più
niente! Tu non mi vuoi più bene! Mi nascondi le tue pene, disprezzi la tua nutrice! – E per la
tenerezza e il dispetto, lacrime le colavano lungo le gote, tra le cicatrici del suo tatuaggio.
- No! – disse Salammbô - No, ti voglio bene! Consolati!
Taanach, con un sorriso simile alla smorfia di una vecchia scimmia, riprese il suo lavoro.
Seguendo le raccomandazioni di Shahabarim, Salammbȏ le aveva ordinato di farla bellissima; ed
ella la acconciava secondo un gusto barbaro, pieno al contempo di ricercatezza e di ingenuità.
Su una prima tunica sottile, color del vino, ne passò una seconda, ornata di piume d’uccello. Delle
squame d’oro le stringevano i fianchi, e da quella grande fascia sortivano le pieghe dei suoi
calzoncini azzurri, stellati d’argento. Di seguito Taanach le infilò un’ampia veste, fatta con la tela
del paese dei Seri, bianca e variegata di righe verdi. Le aggiustò sulle spalle un manto di porpora
guarnito in basso da grani di sandastro; e sopra tutto quel vestiario, posò un mantello nero con lo
strascico; poi la contemplò, e, fiera della sua opera, non poté impedirsi di esclamare:
- Il giorno delle tue nozze non sarai più bella!
- Le mie nozze! – ripeté Salammbô; sognava, i gomiti appoggiati sui braccioli d’avorio.
Ma Taanach le drizzò innanzi uno specchio di rame così largo e così alto ch’ella vi si scorse tutta
intera. Allora si alzò, e con un leggero colpo delle dita, sollevò un ricciolo dei suoi capelli, che
cadeva troppo in basso.
Erano coperti di polvere d’oro, arricciati sulla fronte e dietro cadevano sulla schiena in lunghe
trecce terminanti con delle perle. La luminosità dei candelabri ravvivava il belletto delle sue guance,
l’oro delle sue vesti, la bianchezza della sua pelle; aveva intorno alla vita, sulle braccia, sulle mani e
alle dita dei piedi, una tale abbondanza di gioielli che lo specchio, come un sole, rifletteva su di lei i
suoi raggi; e Salammbô, in piedi a lato di Taanach, che si piegava ad ammirarla, sorrideva immersa
in quel bagliore.
Poi passeggiò in lungo e in largo, non sapendo come impiegare il tempo che le restava.
D’improvviso, risuonò il canto di un gallo. In fretta ella s’appuntò un lungo velo giallo sui capelli,
si passò una sciarpa intorno al collo, infilò i piedi dentro stivaletti di cuoio azzurro, e disse a
Taanach:
- Vai a vedere sotto i mirti se c’è un uomo con due cavalli.
Taanach era appena rientrata ch’ella di già scendeva per la scalinata delle galee.
- Padrona! – gridò la nutrice.
Salammbô si voltò, un dito sulla bocca, ad indicare d’essere discreta e di non muoversi.
Taanach scivolò silenziosamente lungo le prore fino ai piedi della terrazza; e da lontano, al
chiarore della luna, distinse, nel viale dei cipressi, un’ombra gigantesca che camminava
obliquamente alla sinistra di Salammbô, ciò era un presagio di morte.
Taanach risalì in camera. Si gettò per terra graffiandosi il viso con le unghie; si strappava i capelli,
e, a pieni polmoni, cacciava gridi acuti.
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Le venne il pensiero che qualcuno la potesse udire; allora tacque. Singhiozzava sommessamente,
distesa sul pavimento, la testa tra le mani.
92
XI
SOTTO LA TENDA
L’uomo che guidava Salammbô, la fece risalire oltre il faro, verso le Catacombe, poi scendere
attraverso il sobborgo di Moluya, pieno di stradine ripide. Il cielo cominciava a schiarire. A tratti,
delle travi di palma, spuntando dai muri, li obbligavano ad abbassare la testa. I due cavalli, che
andavano al passo, scivolavano; e giunsero così alla porta di Teveste.
I suoi pesanti battenti erano socchiusi; passarono; la porta si richiuse dietro loro.
Dapprima seguirono per un tratto la base dei bastioni, e, all’altezza delle Cisterne, presero per la
Tenia, una stretta lingua di terra gialla, che, separando il golfo dal lago, si prolungava fino a Radès.
Ne sul mare e neppure nelle campagne attorno a Cartagine v’era anima viva. Le onde color
ardesia rumoreggiavano piano, e la brezza leggera, sospingendo la loro spuma qua e là, le chiazzava
di squarci bianchi. Malgrado tutto il suo vestiario, Salammbô rabbrividiva alla frescura del mattino;
il movimento, l’aria aperta la stordivano. Poi il sole si levò; la colpiva sulla nuca e senza volerlo ella
un poco si assopiva. Le due bestie, fianco a fianco, trottavano d’ambio affondando gli zoccoli nella
sabbia silenziosa.
Quando ebbero superato la montagna delle Acque Calde, essendo il terreno più stabile,
proseguirono ad un’andatura più veloce.
Ma i campi, per quanto lontano l’occhio si spingesse, erano vuoti come il deserto, benché si fosse
nel periodo dell’aratura e della semina. Di tratto in tratto, v’erano cumuli di frumento sparsi a terra;
altrove degli orzi abbruciacchiati si sgranavano. Contro l’orizzonte limpido, i villaggi si stagliavano
neri, con delle forme incoerenti e frastagliate.
Di tanto in tanto, un’ala di muraglia mezzo calcinata si drizzava a lato della strada. I tetti delle
capanne erano crollati, e nell’interno si scorgevano schegge di stoviglie, brandelli di vestiti, ogni
sorta di utensili e di cose rotte e irriconoscibili. Spesso un essere coperto di stracci, la faccia terrea e
gli occhi infiammati, sortiva da quelle rovine. Ma correva via velocemente o si nascondeva in un
buco. Salammbô e la sua guida non si fermavano mai.
Le piane abbandonate si succedevano. Su vaste distese di terra bionda si stendeva, in strisce
difformi, una polvere di carbone che si sollevava in coda ai loro passi. A volte si imbattevano in un
posticino tranquillo, un ruscello che scorreva al riparo di lunghe erbe; e, risalendo sull’altra sponda,
Salammbô, per rinfrescarsi le mani, strappava delle foglie umide. Nei pressi di un bosco di oleandri,
il suo cavallo fece un balzo davanti al cadavere di un uomo steso a terra.
Lo schiavo, prontamente, la ristabilì sui cuscini. Era uno dei servitori del tempio, un uomo che
Shahabarim impiegava nelle missioni pericolose.
Per eccesso di precauzione, ora egli andava a piedi, vicino a lei, tra i cavalli; e li spronava col
capo di un laccetto di cuoio arrotolato al suo braccio, oppure cavava da un tascapane che portava a
tracolla delle polpettine di frumento, dei datteri e dei rossi d’uovo avvolti in foglie di loto, e li
offriva a Salammbô, senza parlare, senza fermarsi.
A metà giornata, tre Barbari, coperti di pelli di animali, li incrociarono sul sentiero. Poco a poco,
ne apparvero altri, che vagabondavano a gruppi di dieci, dodici, venticinque uomini; molti
spingevano innanzi delle capre o una vacca che zoppicava. I loro pesanti bastoni erano armati di
punte di bronzo; coltellacci rilucevano sulla sporcizia del loro selvatico vestiario, e spalancavano gli
occhi con fare meravigliato e minaccioso. Passando, alcuni lanciavano una comune benedizione;
altri, delle facezie oscene; e l’uomo di Shahabarim rispondeva ad ognuno nella sua lingua. Diceva
loro che era un giovinetto malato, in cammino verso un tempio lontano per guarirsi.
Intanto il giorno finiva. Risuonò un abbaìo; gli andarono incontro.
Poi, al chiarore del crepuscolo, scorsero un recinto di pietre a secco che racchiudeva una vaga
costruzione. Un cane correva sul muro. Lo schiavo gli scagliò dei ciottoli; entrarono in un’alta sala
a volta.
93
Nel mezzo, una donna accosciata si scaldava ad un fuoco di ramaglia, il cui fumo si dileguava
attraverso i buchi del soffitto. I suoi capelli bianchi, che scendevano sino alle ginocchia, la
nascondevano a metà; e non per rispondere, ma con un aria idiota, borbottava parole di vendetta
contro i Barbari e contro i Cartaginesi.
La guida frugò a destra e a manca. Poi ritornò presso di lei, reclamando da mangiare. La vecchia
scuoteva la testa, e, gli occhi fissi sui carboni, mormorava:
- Ero la mano. Le dieci dita sono tagliate. La bocca non mangia più.
Lo schiavo le mostrò un pugno di monete d’oro. Ella vi si gettò sopra, ma subito dopo riprese la
sua impassibilità.
Infine egli le posò sulla gola un pugnale che teneva alla cintura. Allora, tremando, ella sollevò una
larga pietra e portò un’anfora di vino insieme a dei pesci di Ippo Zarito cotti nel miele.
Salammbô si distolse da quel cibo immondo, e si addormentò sulle gualdrappe dei cavalli stese in
un angolo del locale.
Prima che facesse giorno, egli la risvegliò.
Il cane latrava. Lo schiavo gli si avvicinò piano piano; e, con un sol colpo di pugnale, gli staccò la
testa. Poi strofinò di sangue le narici dei cavalli per rinvigorirli. La vecchia gli lanciò alle spalle una
maledizione. Salammbô la scorse, ed ella strinse l’amuleto che portava sul cuore.
Si rimisero in cammino.
Di quando in quando, ella chiedeva se ben presto non si sarebbe arrivati. La strada andava su e giù
per delle collinette. Non si udiva che lo stridìo delle cicale. Il sole scaldava l’erba ingiallita; la terra
era tutta spaccata da fenditure che formavano, dividendola, come un mostruoso lastricato. A volte
passava una vipera, delle aquile volavano; lo schiavo correva ininterrottamente; Salammbô sognava
sotto i suoi veli, e malgrado la calura non li toglieva, per paura di sporcare le sue belle vesti.
A distanze regolari, si alzavano delle torri, costruite dai Cartaginesi allo scopo di sorvegliare le
tribù. Essi vi entravano per mettersi all’ombra, poi ripartivano.
Il giorno prima, per prudenza, avevano fatto un grande giro. Ma, al presente, non si incontrava
nessuno; essendo la regione improduttiva, i Barbari non vi erano affatto penetrati.
Poco a poco riprendevano le devastazioni. Talora, nel mezzo di un campo, si dispiegava un
mosaico, unico resto di una grande villa scomparsa; e gli ulivi, che non avevano più foglie, da
lontano sembravano delle macchie di rovi. Attraversarono un borgo le cui case erano
completamente distrutte dal fuoco. A ridosso delle mura si vedevano scheletri umani. Ve n’erano
anche di dromedari e di muli. Alcune carogne mezzo rosicchiate ingombravano le strade.
Calava la notte. Il cielo era basso e coperto di nuvole.
Risalirono ancora per due ore verso occidente, e, improvvisamente, davanti a loro, scorsero un
gran numero di fiammelle.
Brillavano sul fondo di un anfiteatro. Qua e là delle piastre d’oro, che cambiavano di posto,
riflettevano la luce. Erano le corazze dei Clinabari, il campo punico; poi distinsero all’intorno degli
altri barlumi più numerosi, poiché le armate dei Mercenari, ora confuse, occupavano un grande
spazio.
Salammbô fece la mossa di avanzare. Ma l’uomo di Shahabarim la trascinò più lontano, e
costeggiarono il terrapieno che chiudeva il campo dai Barbari. Vi si apriva una breccia, lo schiavo
scomparve.
Sul sommo del trinceramento passeggiava una sentinella con un arco in mano e una picca sulla
spalla.
Salammbô continuava ad avvicinarsi; il Barbaro poggiò un ginocchio a terra, e una lunga freccia
venne a bucarle la parte bassa del mantello. Poi, siccome ella restava immobile, gridando, le
domandò cosa volesse.
- Parlare con Mato – ella rispose – sono un transfuga di Cartagine.
Egli lanciò un fischio, che si ripeté più volte in lontananza.
Salammbô aspettava; il suo cavallo, spaventato, girava sbuffando.
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Quando Mato arrivò, dietro di lei si alzava la luna. Ma ella aveva sul viso un velo giallo a fiori
neri e un tal paludamento intorno al corpo ch’era impossibile indovinare alcunché. Dall’alto del
terrapieno, egli scrutava quella vaga forma che si drizzava come un fantasma nella penombra della
sera.
Infine ella gli disse:
- Portami nella tua tenda! Lo voglio!
Un ricordo che non poteva precisare gli attraversò la memoria. Sentiva il suo cuore battere forte.
Quell’aria di comando lo intimidiva.
- Seguimi! – egli disse.
Lo steccato si abbassò; ben presto ella fu nel campo dei Barbari.
Lo riempiva una gran folla tumultuante. Vividi fuochi bruciavano sotto delle marmitte appese; e i
loro riflessi rossastri, illuminando certi luoghi, ne lasciavano altri completamente nelle tenebre. Si
gridava, si chiamava; i cavalli legati alle stanghe formavano lunghe file diritte nel mezzo delle tende;
queste erano rotonde, quadrate, di cuoio o di tela; v’erano capanne di canne e delle buche nella
sabbia come ne fanno i cani. I soldati trasportavano fascine, stavano distesi a terra appoggiati sui
gomiti, o avvolgendosi in una stuoia, si preparavano a dormire; e il cavallo di Salammbô a volte,
per scavalcarli, allungava una zampa e saltava.
Ella si ricordava di averli già visti; ma le loro barbe ora erano più lunghe, i loro volti più scuri, la
loro voce più roca. Mato, camminandole innanzi, li scostava con un gesto del braccio che sollevava
il suo rosso mantello. Alcuni gli baciavano le mani, altri, inchinandosi, gli si avvicinavano a
chiedere ordini; poiché, al momento, egli era il vero, l’unico capo dei Barbari; Spendio, Autarito e
Narava erano scoraggiati, ed egli aveva mostrato tanta audacia e ostinazione che tutti gli
obbedivano.
Salammbô, seguendolo, attraversò l’intero campo. La sua tenda era in fondo, a trecento passi dal
trinceramento di Amilcare.
Ella notò sulla destra una grande fossa, e le parve di scorgere, lungo il suo bordo, delle facce,
come fossero teste mozzate disposte a livello del suolo. Però i loro occhi si muovevano, e dalle
bocche socchiuse sfuggivano dei lamenti in lingua punica.
Due negri, con delle lanterne a resina, stavano ai due lati dell’entrata. Mato scostò la tela
bruscamente. Ella lo seguì.
Era una tenda profonda, con un palo drizzato nel mezzo. La illuminava una grande lampada in
forma di loto, colma d’un olio giallo nel quale galleggiavano dei batuffoli di stoppa, e nell’ombra si
distinguevano degli arnesi, che rilucevano. Una spada sfoderata s’appoggiava contro uno sgabello,
vicino ad uno scudo; entro canestri di sparto, alla rinfusa, facevano mostra di sé delle fruste in cuoio
di ippopotamo, dei cimbali, dei sonagli, delle collane; briciole di pane nero insudiciavano una
coperta di feltro; in un angolo, su di una pietra rotonda, v’erano delle monete di rame sparse
disordinatamente, e, attraverso gli squarci della tela, il vento portava la polvere del campo insieme
all’odore degli elefanti; li si udiva mangiare, scuotendo le loro catene.
- Chi sei? – disse Mato.
Senza rispondere, ella si guardava attorno, con calma, poi i suoi occhi si fermarono nel fondo,
dove, su un letto in rami di palma, ricadeva qualcosa di azzurrognolo e scintillante.
Ella si avvicinò rapidamente. Le sfuggì un grido. Mato, alle sue spalle, batteva col piede per terra.
- Chi ti manda? Perché sei venuto?
Ella rispose indicando lo Zaimf :
- Per prenderlo! - e con l’altra mano si strappò il velo dalla testa. Egli indietreggiò, coi gomiti
arretrati, la bocca spalancata, pressoché terrorizzato.
Ella si teneva come fosse sorretta da un Dio; e, guardandolo dritto negli occhi, gli chiese lo Zaimf ;
lo reclamava con una gran quantità di belle parole.
Mato non capiva; la contemplava, e il vestiario per lui si confondeva con il corpo. Il gioco di
riflessi delle stoffe era, come lo splendore della sua pelle, qualcosa di speciale e non apparteneva
che a lei. I suoi occhi, i suoi diamanti scintillavano; la purezza delle sue unghie era la continuazione
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dell’eleganza dei gioielli che ornavano le sue dita; le fibbie della sua tunica, alzandole un poco i
seni, li avvicinavano l’uno all’altro, ed egli si perdeva col pensiero nel loro stretto varco, ove
scendeva un filo con appeso un ornamento di smeraldi, che si scorgeva più in basso sotto il velo
violetto. Come orecchini portava due piccole bilance di zaffiro che reggevano una perla scavata,
colma di un liquido profumato. Attraverso i fori della perla, di quando in quando, cadeva una
gocciolina che le inumidiva la spalla nuda. Mato la guardava cadere.
Una irresistibile curiosità lo trascinò; e, come un bimbo che allunga la mano su di un frutto
sconosciuto, tremando tutto, con la punta del dito, la sfiorò nella parte superiore del petto; la carne
un poco fredda cedette con una resistenza elastica.
Quel contatto, a malapena sensibile, scosse Mato fin nel profondo. Un moto di tutto il suo essere
lo precipitava verso di lei. Avrebbe voluto avvolgerla, assorbirla, berla. Respirava a fatica, gli
battevano i denti.
Prendendola per le mani, l’attirò dolcemente, e si sedette su una corazza, vicino al letto di palma
coperto da una pelle di leone. Ella era in piedi. La guardava dal basso in alto, e tenendola così tra le
sue gambe, ripeteva:
- Come sei bella! Come sei bella!
Gli occhi di lui costantemente fissi nei suoi la facevano soffrire; e quel malessere, quel disgusto
aumentavano a tal punto che Salammbô si tratteneva per non gridare. Le tornò il pensiero di
Shahabarim; si rassegnò.
Mato continuava a tenere le piccole mani di lei nelle sue; e, di quando in quando, malgrado le
raccomandazioni del sacerdote, distogliendo il viso, ella si sforzava di allontanarlo, scuotendo le
braccia. Egli dilatava le narici per meglio aspirare il profumo che esalava dalla sua persona. Era un
effluvio indefinibile, fresco, e tuttavia stordiva come il fumo d’una profumiera. Sapeva di miele, di
pepe, di incenso, di rose, e di altro ancora.
Ma come mai ella si trovava vicino a lui, nella sua tenda, a sua disposizione? Qualcuno,
certamente, l’aveva spinta? Era venuta per lo Zaimf ? Le sue braccia ricaddero, e lui chinò il capo,
sotto il peso di una improvvisa fantasticheria.
Salammbô, per commuoverlo, gli disse con voce supplichevole:
- Cosa ti ho fatto dunque, che vuoi la mia morte?
- La tua morte!
Ella riprese:
- T’ho visto di sfuggita una sera, al chiarore dei miei giardini in fiamme, tra coppe fumanti e i miei
schiavi sgozzati; la tua collera era tanto grande che sei balzato su di me ed ho dovuto fuggire! Poi la
paura si è insediata a Cartagine. Si gridava di città devastate, campagne incendiate, soldati
massacrati; tu ne eri il responsabile, tu l’assassino! Ti odio! Basta il tuo nome a tormentarmi come
un rimorso. Sei più esecrato della peste, della guerra romana! Le province temono il tuo furore, i
solchi sono pieni di cadaveri! Ho seguito la traccia dei tuoi incendi, come se camminassi dietro
Moloch!
Mato s’alzò di colpo; un orgoglio smisurato gli gonfiava il cuore; si sentiva sollevato all’altezza di
un dio.
Le narici frementi, a denti stretti, ella continuava:
- Come se il tuo sacrilegio non fosse già sufficiente, sei venuto da me, nel mio sonno, avvolto nello
Zaimf ! Le tue parole non le ho comprese; ma vedevo bene che mi volevi trascinare a qualcosa di
spaventoso, nel fondo di un abisso.
Mato, torcendosi le braccia, gridò:
- No! No! Era per regalartelo! Per rendertelo! Mi sembrava che la Dea avesse deposto la sua veste
per te, e che ti appartenesse! Nel suo tempio o nella tua casa, che importa? Sei tanto potente,
immacolata, radiosa e bella quanto Tanit! – E con uno sguardo colmo di infinita ammirazione:
- A meno che, forse, tu non sia Tanit?
- Io, Tanit! – si diceva Salammbô.
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Non parlavano più. I tuoni rotolavano in lontananza. Dei montoni belavano, spaventati dal
temporale.
- Oh! Avvicinati! – egli riprese – Avvicinati! Non temere nulla!
- Un tempo, non ero che un soldato confuso nel popolo dei Mercenari, e così umile, che trasportavo
per gli altri la legna sulle mie spalle. Che mi importa di Cartagine! I suoi abitanti si agitano come
una folla sperduta nella polvere dei tuoi sandali, e tutti i suoi tesori, le province, la flotta e le isole,
non li desidero quanto la freschezza delle tue labbra e la curva delle tue spalle. Ma volevo
abbatterne le mura per giungere sino a te, per possederti! D’altra parte, nell’attesa, mi vendicavo!
Ora, schiaccio gli uomini come conchiglie, mi scaglio contro le falangi, allontano le sarisse con le
mie mani, fermo gli stalloni per le narici; neppure le catapulte mi potrebbero uccidere! Oh! Se tu
sapessi, nel mezzo dei combattimenti, come ti penso! A volte, il ricordo di un gesto, d’una piega
della tua veste, mi afferra e mi imprigiona come una rete! Scorgo i tuoi occhi nella fiamma delle
falariche e sulla doratura degli scudi! Sento la tua voce nel fragore dei cimbali. Mi volto, non sei là!
E allora mi rituffo nella battaglia!
Alzava le sue braccia dove le vene si intrecciavano come l’edera sui rami degli alberi. Il sudore
gli colava sul petto, trai i muscoli quadrati; e il respiro gli scuoteva i fianchi, stretti da una cintura di
bronzo tutta guarnita di strisce di cuoio che gli scendevano fino alle ginocchia, più salde del marmo.
Salammbô, abituata agli eunuchi, restava meravigliata dall’imponenza di quell’uomo. Ciò era
dovuto al castigo della Dea o all’influsso di Moloch, che circolava intorno a lei, proveniente dalle
cinque armate. La stanchezza la vinceva; ascoltava con stupore il grido delle sentinelle che si
rispondevano.
Le fiammelle della lampada vacillavano sotto delle folate d’aria calda. A tratti, sopraggiungevano
ampie schiarite; poi l’oscurità raddoppiava; ed ella non distingueva altro che le pupille di Mato,
come due tizzoni nella notte. Tuttavia, era cosciente d’essere preda d’una fatalità, d’essere giunta ad
un attimo supremo, irrevocabile, e, con uno sforzo, si avvicinò allo Zaimf alzando le mani per
afferrarlo.
- Che stai facendo? – gridò Mato.
Ella rispose con calma:
- Me ne torno a Cartagine.
Egli avanzò incrociando le braccia, e con un’aria tanto terribile ch’ella restò come inchiodata al
pavimento.
- Tornartene a Cartagine! – Egli balbettava, e ripeteva, facendo stridere i denti:
- Tornartene a Cartagine! Ah! Sei venuta per prendere lo Zaimf, per persuadermi, poi sparire! No!
No, tu mi appartieni! E nessuno ora ti strapperà da qui! Oh! Non ho dimenticato l’insolenza dei tuoi
grandi occhi tranquilli e come mi schiacciavi con l’alterigia della tua bellezza! È il mio turno, ora!
Sei mia prigioniera, mia schiava, ai miei ordini! Chiama pure, se vuoi,tuo padre e la sua armata, gli
Anziani, i Ricchi, e tutto il tuo esecrabile popolo! Sono a capo di trecentomila soldati! Andrò a
cercarne in Lusitania, nelle Gallie e nel profondo del deserto, e rovescerò la tua città, brucerò tutti i
suoi templi; le triremi navigheranno su un mare di sangue! Non voglio che ne resti una casa, una
pietra, neppure una palma. E se mi mancano gli uomini, attirerò gli orsi delle montagne, aizzerò i
leoni! Non provarti a fuggire o ti ammazzo!
Pallido e i pugni contratti, vibrava come un’arpa le cui corde stanno per saltare. All’improvviso fu
soffocato dai singhiozzi, e piegandosi sulle ginocchia:
- Ah! Perdonami! Sono un infame, più vile degli scorpioni, del fango e della polvere! Poco fa,
mentre parlavi, il tuo respiro è passato sul mio volto, ed io mi dilettavo come un moribondo che
beve, pancia a terra, al bordo di un ruscello. Schiacciami, purché senta i tuoi piedi! Maledicimi,
purché intenda la tua voce! Non te ne andare! Pietà! Ti amo!
Era in ginocchio, per terra, davanti a lei; e le circondava il corpo con le due braccia, la testa
all’indietro, le mani erranti; i cerchietti d’oro che gli pendevano dalle orecchie luccicavano sul suo
collo abbronzato; dagli occhi gli rotolavano delle grosse lacrime simili a globuli d’argento;
sospirava con fare suadente, e mormorava parole vaghe, più leggere della brezza e soavi come baci.
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Salammbô era invasa da un languore nel quale smarriva la coscienza di sé stessa. Qualcosa ad un
tempo di intimo e di superiore, un’ingiunzione degli Dei la forzava ad abbandonarsi; si sentiva
leggera come una nuvola, e, venendo meno, ella si rovesciò sul letto nella pelliccia di leone. Mato le
afferrò i talloni, la catenella d’oro andò in pezzi, e i due capi, volandosene via, colpirono la tela
come due vipere rimbalzanti. Lo Zaimf cadde, avvolgendoli; ella scorse la sagoma di Mato che si
curvava sul suo petto.
- Moloch, tu mi bruci! – e i baci del soldato, più voraci delle fiamme, la percorrevano; era come
trascinata da un uragano, presa nella forza del sole.
Egli le baciava ogni dito delle mani, le braccia, i piedi, e da un capo all’altro le lunghe trecce dei
suoi capelli.
- Portalo via – le diceva – ci tengo forse? Ma portami con lui! Abbandono l’armata! Rinuncio a
tutto! Oltre Gadès, navigando venti giorni, si incontra un’isola coperta di polvere d’oro, di verzura e
di uccelli. Sulle montagne, grandi fiori, colmi di profumi che svaporano, dondolano come
inestinguibili incensieri; negli alberi di limone, più alti che i cedri, serpenti color del latte fanno
cadere, con i diamanti delle loro fauci, i frutti sull’erba dei prati; l’aria è così dolce che non ti lascia
morire. Oh! La troverò, verrai con me. Vivremo nelle grotte di cristalli che si aprono ai piedi delle
colline. Nessuno vi abita ancora, oppure diventerò il re di quella contrada.
Spazzò la polvere dei suoi coturni; volle che mangiasse uno spicchio di melagrana; le accomodò
dietro il capo dei vestiti a mo’ di cuscino. Cercava in tutti i modi di servirla, di farsi umile, stese
persino sulle sue gambe lo Zaimf, come una semplice coperta.
- Hai sempre – le diceva – quei piccoli corni di gazzella sui quali appendi le tue collane? Me li devi
regalare; mi piacciono! – Perché parlava come se la guerra fosse finita, gli sfuggivano risa gioiose;
e i Mercenari, Amilcare, tutti quanti gli ostacoli fossero scomparsi.
La luna scivolava tra due nuvole. La vedevano attraverso un’apertura della tenda.
- Ah! Ne ho trascorse di notti a contemplarla! Mi sembrava un velo che nascondesse il tuo volto,
attraverso il quale tu mi guardavi; il ricordo di te si confondeva col suo splendore; non vi
distinguevo più! – E con la testa tra i suoi seni, piangeva copiosamente.
- È dunque questo – ella pensava – quell’uomo formidabile che fa tremare Cartagine!
Egli si addormentò. Allora, sciogliendosi dal suo abbraccio, posò un piede a terra, e si accorse che
la catenella era rotta.
Nelle grandi famiglie si abituavano le vergini a rispettare quell’impedimento come una cosa
quasi religiosa, e Salammbô, arrossendo, arrotolò attorno alle sue caviglie i due tronconi della
catenella d’oro.
Cartagine, Megara, la sua casa, la sua camera e le campagne che aveva attraversato le turbinavano
nella memoria in immagini tumultuose e tuttavia precise. Ma si era spalancato un baratro che le
respingeva, lontano da lei, a una distanza infinita.
Il temporale si allontanava; rade gocce d’acqua, crepitando una ad una, facevano oscillare il tetto
della tenda.
Mato, tal quale un uomo ubriaco, dormiva steso su di un fianco, con un braccio che fuoriusciva
dal bordo del letto. La sua fascia di perle si era un poco sollevata e gli scopriva la fronte. Un sorriso
scopriva i suoi denti. Brillavano fra la sua barba nera, e nelle palpebre socchiuse aveva una gaiezza
silenziosa e insolente.
Salammbô lo fissava immobile, il capo chino, le mani incrociate.
Al capezzale del letto, su un tavolino di cipresso c’era un pugnale; la vista di quella lama lucente
l’accese d’una voglia feroce. Delle voci lamentose si trascinavano in lontananza, nell’oscurità, e,
come un coro di Geni, la sollecitavano. Ella si avvicinò; afferrò il ferro per il manico. Al fruscio
della sua veste, Mato socchiuse gli occhi, sporgendo le labbra verso le sue mani, e il pugnale cadde.
Si alzarono dei gridi, un bagliore tremendo sfolgorò dietro la tela. Mato la sollevò; scorsero delle
grandi fiamme che avvolgevano il campo dei Libici.
I loro ricoveri di canne bruciavano, e i fusti, torcendosi, scoppiavano nel fumo e volavano via
come frecce; sullo sfondo rosseggiante, delle ombre nere correvano come impazzite. Si udivano le
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urla di quelli rimasti nelle capanne; gli elefanti, i buoi e i cavalli balzavano tra la folla,
calpestandola insieme alle munizioni e ai bagagli che venivano sottratti alle fiamme. Le trombe
squillavano; si chiamava:
- Mato! Mato! – Alcuni che stavano sulla soglia volevano entrare.
- Vieni dunque! C’è Amilcare che brucia il campo di Autarito.
Egli balzò fuori. Ella si ritrovò tutta sola.
Allora esaminò lo Zaimf; e quando l’ebbe contemplato per bene, rimase sorpresa di non provare
quella felicità che un tempo s’era immaginata. Restava malinconica davanti al suo sogno realizzato.
Ma il bordo inferiore della tenda si sollevò, e apparve una figura mostruosa. Dapprima Salammbô
non distinse che due occhi, con una lunga barba bianca che scendeva sino a terra; perché il resto del
corpo, impacciato negli stracci d’una veste rossiccia, si trascinava contro il suolo; e, ad ogni
movimento per avanzare, le due mani scomparivano nella barba, poi ne riuscivano. Strisciando in
quel modo, giunse fino ai suoi piedi, e Salammbô riconobbe il vecchio Giscone.
In effetti, i Mercenari, per impedire agli Anziani, che tenevano prigionieri, di fuggirsene, avevano
loro rotto le gambe con una spranga di bronzo; e quelli marcivano, dentro una fossa, confusi alle
immondizie. I più robusti, quando sentivano il rumore delle gavette, si sollevavano strillando. È così
che Giscone aveva scorto Salammbô. Aveva indovinato che era una Cartaginese, dalle sferette di
sandastro che battevano contro i suoi coturni; e, nel presentimento di un mistero degno di attenzione,
facendosi aiutare dai suoi compagni, era riuscito ad uscire dalla fossa; poi, a forza di gomiti e di
mani, s’era trascinato per venti passi fino alla tenda di Mato. Due voci vi discorrevano. Aveva
ascoltato dall’esterno e capito ogni cosa.
- Sei tu! – ella disse infine, poco meno che spaventata.
Sollevandosi sui polsi, egli replicò:
- Si, sono io! Mi si crede morto, non è vero?
Ella chinò il capo. Egli riprese:
- Ah! Perché i Baal non mi hanno concesso questa misericordia! – E avvicinandosi tanto da
sfiorarla – Mi avrebbero risparmiato la pena di maledirti!
Salammbô d’impulso si ritrasse, tanto provò paura di quell’essere immondo, che era schifoso
come una larva e terribile come un fantasma.
- Fra non molto, ho cent’anni – egli disse – Ho visto Agatocle; ho visto Regolo e le aquile dei
Romani passare sulle messi dei campi punici! Ho visto tutti gli orrori delle battaglie e il mare
ingombro dei relitti delle nostre flotte! Dei Barbari che io comandavo m’hanno incatenato mani e
piedi, come uno schiavo assassino. I miei compagni, uno dopo l’altro, mi muoiono intorno; l’odore
dei loro cadaveri mi sveglia la notte; scaccio gli uccelli che vengono a beccare i loro occhi; e
ciononostante non un solo giorno ho disperato di Cartagine! Quand’anche avessi visto contro di lei
tutti gli eserciti della terra, e le fiamme dell’assedio superare l’altezza dei templi, avrei creduto
ancora alla sua eternità! Ma, ora, tutto è finto! Tutto è perduto!Gli Dei la disprezzano! Maledizione
a te che ha precipitato la sua rovina con la tua ignominia!
Ella aprì le sue labbra.
- Ah! Ero là! – egli esclamò – T’ho udita rantolare di piacere come una prostituta; poi egli ti
parlava dei suoi desideri, e tu ti lasciavi baciare le mani! Ma, se ti spingeva il furore della tua
lascivia, dovevi fare almeno come gli animali selvatici che si nascondono quando si accoppiano, e
non mettere in mostra il tuo disonore fin sotto gli occhi di tuo padre!
- Come? – ella disse.
- Ah! Tu non sapevi che le due trincee sono a sessanta cubiti l’una dall’altra, e che il tuo Mato, per
eccesso d’orgoglio, s’è stabilito proprio di fronte ad Amilcare. È là, tuo padre, dietro a te; e se
potessi inerpicarmi per il sentiero che porta sulla piattaforma, gli griderei: vieni dunque a vedere tua
figlia tra le braccia del Barbaro! Per piacergli ha indossato la veste della Dea; e, concedendo il suo
corpo, ella cede, insieme alla gloria del tuo nome, la maestà degli Dei, la rivalsa della patria, la
salvezza stessa di Cartagine! – Il movimento della sua bocca sdentata gli agitava la barba per quanto
era lunga; i suoi occhi, fissi su di lei, la divoravano; e ripeteva ansimando nella polvere:
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- Ah! Sacrilegio! Tu sia maledetta! Maledetta! Maledetta!
Salammbô aveva scostato la tela, la teneva sollevata col braccio disteso, e, senza rispondergli,
guardava dalla parte di Amilcare.
- È da questa parte, non è vero? – ella disse.
- Che ti importa? Volgiti altrove! Vattene! Schiaccia piuttosto la tua faccia contro la terra! È un
luogo santo che la tua vista sporcherebbe.
Ella si gettò lo Zaimf intorno al corpo, raccolse in fretta i suoi veli, il suo mantello, la sua fascia.
- Corro da lui! – ella gridò; e, fuggendo, Salammbô disparve.
Dapprima, camminò nelle tenebre senza incontrare nessuno, perché tutti accorrevano verso
l’incendio; e il clamore raddoppiava, alte fiamme, imporporavano il cielo da dietro; un lungo
terrapieno la fermò.
Girò su se stessa, verso destra e verso sinistra, a caso, alla ricerca di una scala, una corda, una
pietra, qualcosa insomma che la aiutasse. Aveva paura di Giscone, e le sembrava che la inseguissero
dei gridi e dei passi. Albeggiava. Scorse un sentiero nella compattezza della trincea. Strappò con i
denti la parte inferiore della sua veste che la impacciava, e, in tre salti, si trovò sulla piattaforma.
Un forte grido scoppiò sotto di lei, nell’ombra, lo stesso che aveva inteso ai piedi della scalinata
delle galee; e, chinandosi, riconobbe l’uomo di Shahabarim con i suoi cavalli appaiati.
Tutta la notte aveva vagato tra le due trincee; poi, preoccupato a causa dell’incendio, era tornato
indietro, cercando di scorgere ciò che accadeva nel campo di Mato; e, siccome sapeva che quel
posto era il più vicino alla sua tenda, obbedendo al sacerdote, non si era più mosso.
Egli montò ritto su uno dei cavalli. Salammbô si lasciò scivolare sino a lui; e fuggirono al gran
galoppo girando intorno al campo punico, per trovare un varco da qualche parte.
Mato era rientrato nella sua tenda. La lampada, che faceva fumo, la illuminava a malapena, e così
egli credette che Salammbô dormisse. Allora, tastò delicatamente la pelle di leone, sul letto di
palma. Chiamò, ella non rispose; scostò bruscamente un lembo della tela per far entrare luce; lo
Zaimf era scomparso.
La terra tremava sotto un calpestio di passi. Forti gridi, nitriti, cozzi d’armature riempivano l’aria,
e le fanfare dei trombettieri suonavano la carica. C’era come un uragano che gli turbinava intorno.
Uno sfrenato furore lo fece balzare sulle sue armi, si slanciò all’esterno.
Lunghe file di Barbari scendevano correndo dalla montagna, e i quadrati punici andavan loro
contro, con una oscillazione pesante e regolare. La nebbia, squarciata dai raggi del sole, formava
delle nuvolette che indugiavano, e poco a poco, alzandosi, scoprivano gli stendardi, gli elmi e le
punte delle picche. A causa delle veloci evoluzioni, delle parti del campo ancora in ombra
sembravano cambiar di posto in blocco; altrove, si sarebbe detto vi fossero dei torrenti che si
incrociavano, e, immobili nel loro intrico, degli ammassi irti di spine. Mato distingueva i capitani, i
soldati, gli araldi e perfino i servi, nelle retroguardie, che erano montati sugli asini. Ma invece di
mantenere la sua posizione per coprire la fanteria, Narava volse bruscamente a destra, come se
volesse farsi schiacciare da Amilcare.
I suoi cavalieri oltrepassarono gli elefanti che rallentavano; e tutti i cavalli, allungando il collo a
briglia sciolta, galoppavano ad una andatura tanto sfrenata che la loro pancia sembrava sfiorare il
terreno. Poi, di colpo, Narava si diresse risolutamente verso una sentinella. Gettò a terra la sua
spada, la lancia, i giavellotti, e scomparve nel mezzo dei Cartaginesi.
Il re dei Numidi arrivò nella tenda di Amilcare; e disse, mostrandogli i suoi uomini che si
tenevano fermi in lontananza:
- Barca! Te li porto. Sono tuoi.
Allora si prosternò in segno di sottomissione, e, come prova della sua fedeltà, gli ricordò tutta la
sua condotta dall’inizio della guerra.
Dapprima aveva impedito l’assedio di Cartagine e il massacro dei prigionieri; poi, non aveva per
nulla approfittato della vittoria contro Annone dopo la disfatta di Utica. Quanto alle città tirie, il
fatto era che esse si trovavano sulle frontiere del suo regno. Infine, non aveva partecipato alla
100
battaglia del Macar; di più, s’era allontanato apposta per sfuggire all’obbligo di combattere il
Suffeta.
Narava, in effetti, aveva avuto l’intenzione d’estendere il suo dominio a spese delle province
puniche, e, assecondando le sorti della guerra, di volta in volta soccorso o abbandonato i Mercenari.
Ma vedendo che alla fine Amilcare avrebbe prevalso, s’era convertito alla sua causa; e c’era forse
nella sua defezione un astio contro Mato, sia a causa del comando o del suo antico amore.
Il Suffeta lo ascoltò senza interrompere. L’uomo che in tal modo si presentava, nel mezzo di una
armata dalla quale poteva attendersi delle rappresaglie, non era un aiuto da disprezzare; Amilcare
intuì immediatamente l’utilità di una tale alleanza per i suoi grandi progetti. Con l’aiuto dei Numidi,
si sarebbe sbarazzato dei Libici. In seguito avrebbe trascinato l’Occidente alla conquista dell’Iberia;
e, senza chiedergli perché non s’era fatto avanti prima, ne rilevare alcuna delle sue menzogne, baciò
Narava, cozzando tre volte il proprio petto contro il suo.
Era per disperazione, e per finirla, che aveva incendiato il campo dei Libici. Quell’armata gli
giungeva come un soccorso degli Dei; dissimulando la sua gioia, rispose:
- Che i Baal ti favoriscano!Non so cosa farà per te la Repubblica, ma Amilcare non è un ingrato.
Il tumulto raddoppiava; entravano dei capitani. Sempre parlando, si armava:
- Su, torna sul campo! Con i cavalieri costringi la loro fanteria tra i tuoi elefanti e i miei! Coraggio!
Sterminali!
E Narava si precipitava, quando apparve Salammbô. Ella smontò lesta dal suo cavallo. Aprì il suo
ampio mantelllo, e, allargando le braccia, distese lo Zaimf.
La tenda di cuoio, rialzata agli angoli, lasciava vedere l’intero giro della montagna coperto di
soldati, e siccome si trovava al centro, da tutti i lati si scorgeva Salammbô. Scoppiò un clamore
immenso, un grido prolungato di trionfo e di speranza. Quelli che erano in movimento s’arrestarono;
i moribondi, appoggiandosi sul gomito, si rigiravano a benedirla. Tutti i Barbari ora sapevano che
aveva ripreso lo Zaimf ; la vedevano da lontano, credevano di vederla; e, malgrado le acclamazioni
dei Cartaginesi, risuonavano delle altre grida, ma di rabbia e di vendetta. Così le cinque armate,
disposte a strati sulla montagna, battevano i piedi e strepitavano tutt’intorno a Salammbô.
Amilcare, incapace di parlare, la ringraziava con dei cenni del capo. I suoi occhi passavano
alternativamente dallo Zaimf a lei, ed egli notò che la catenella era rotta. Allora inorridì, colto da un
terribile sospetto. Ma subito riprendendo la sua impassibilità, considerò Narava di sbieco, senza
girare il viso.
Il re dei Numidi si teneva in disparte con fare discreto; sulla fronte gli era rimasta un po’ della
polvere che aveva toccata prosternandosi. Infine il Suffeta avanzò verso di lui e, con aria grave:
- In ricompensa dei servizi che tu mi hai reso, Narava, ti dono mia figlia – aggiunse – Sii mio figlio
e difendi tuo padre!.
Narava ebbe un gran gesto di sorpresa, poi si gettò sulle sue mani che coprì di baci.
Salammbô, calma come una statua, sembrava non capire. Arrossiva un poco, abbassando le
palpebre; le lunghe ciglia ricurve le facevano delle ombre sulle gote.
Amilcare volle immediatamente unirli con una promessa indissolubile. Nelle mani di Salammbô
fu posta una lancia che ella offrì a Narava; si legarono uno all’altro i loro pollici con una striscia di
cuoio, poi si versò sul loro capo del frumento, e i grani che ricadevano intorno ad essi, rimbalzando,
risuonarono come grandine.
101
XII
L’ACQUEDOTTO
Dodici ore dopo, dei Mercenari non restava altro che un mucchio di feriti, di morti e di
agonizzanti.
Amilcare uscito bruscamente dal fondo della gola, era ridisceso sul pendio occidentale che guarda
Ippo Zarito, e, essendovi in quel luogo maggior spazio, s’era premurato di attirarvi i Barbari.
Narava li aveva inviluppati coi suoi cavalieri; il Suffeta, contemporaneamente, li comprimeva, li
schiacciava; del resto si sentivano sconfitti in partenza per la perdita dello Zaimf ; anche coloro che
se ne infischiavano avevano sentito un’angoscia, come se avessero perduto le forze. Amilcare, che
non aveva la superbia di tenere per sé il campo di battaglia, s’era ritirato un po’ più lontano, a
sinistra, su delle alture da dove li dominava.
Si riconosceva la forma dei campi dalle loro palizzate inclinate. Un lungo cumulo di ceneri nere
fumava nell’area dei Libici; il suolo, sconvolto, era ondulato come il mare, e le tende, con i loro teli
in brandelli, sembravano dei vaghi navigli mezzo sperduti fra gli scogli. Corazze, forconi, chiarine,
pezzi di legno, di ferro e di bronzo, grano, paglia e vesti varie stavano sparpagliati nel mezzo dei
cadaveri; qua e là qualche falarica pronta ad estinguersi bruciava contro un mucchio di bagagli; la
terra, in certi punti, scompariva sotto gli scudi; delle carogne di cavalli si susseguivano come una
serie di monticelli; si scorgevano gambe, sandali, braccia, giachi di maglia e alcune teste nei loro
caschi, tenute strette dal soggolo, che rotolavano come palle; delle capigliature pendevano dai rovi;
in un mare di sangue degli elefanti, viscere all’aria, rantolavano stesi a terra con le loro torrette; si
camminava su delle cose vischiose e c’erano pozzanghere di fango, benché la pioggia non fosse
caduta.
Quella confusione di cadaveri occupava,dall’alto in basso, tutt’intera la montagna.
I sopravvissuti non si muovevano più dei morti. Accovacciati in gruppi ineguali, si guardavano
sgomenti, e non parlavano.
Al fondo di una lunga prateria il lago di Ippo Zarito risplendeva sotto il sole del tramonto. A
destra, un agglomerato di case bianche oltrepassava una cinta di mura; poi, a perdita d’occhio, si
stendeva il mare; e, il mento fra le mani, i Barbari sospiravano sognando la loro patria. Una nube di
polvere grigia ricadeva a terra.
Soffiò il vento della sera, allora tutti i petti si dilatarono; e, a misura che il fresco aumentava, si
potevano vedere i pidocchi abbandonare i morti che si raffreddavano, e correre sulla sabbia calda.
In cima ai massi, stavano immobili i corvi, rivolti verso gli agonizzanti.
Calata la notte, dei cani col pelo giallo, di quella razza immonda che seguiva le armate, giunsero
alla chetichella tra i Barbari. Dapprima leccarono i grumi di sangue sui monconi ancora tiepidi; e
ben presto si misero a divorare i cadaveri, incominciando dal ventre.
I fuggitivi riapparivano uno ad uno, come delle ombre; anche le donne si azzardarono a tornare,
giacché ne restavano ancora, soprattutto presso i Libici, malgrado il terribile massacro che i Numidi
ne avevano fatto.
Alcuni raccolsero dei capi di corda che incendiarono perché servissero da fiaccole. Altri
reggevano delle picche incrociate. Vi si mettevano sopra i cadaveri e li si trasportava in disparte.
Erano stesi in lunghe file, sul dorso, la bocca aperta, con le loro lance al fianco; oppure erano
ammassati alla rinfusa, e sovente, per scoprire i dispersi, bisognava rivoltarne tutto un mucchio. Poi
si passava la torcia sul loro viso, lentamente. Delle armi orribili avevano inferto loro delle ferite
complicate. Dalle fronti pendevano brandelli verdastri; erano ridotti in pezzi, schiacciati fino al
midollo, illividiti per essere stati strangolati, o ampiamente straziati dall’avorio degli elefanti.
Benché fossero morti pressoché contemporaneamente, esistevano differenze nella loro corruzione.
Gli uomini del Nord eran tumidi d’una livida enfiagione, mentre gli Africani, più nervosi, avevano
l’aspetto affumicato, e già si disseccavano. I Mercenari si riconoscevano dai tatuaggi sulle loro
102
mani: i vecchi soldati d’Antioco portavano uno sparviero, coloro che avevano servito in Egitto la
testa di un cinocefalo; presso i principi dell’Asia un’ascia, una melagrana, un martello; nelle
Repubbliche greche, il profilo di una fortezza o il nome di un arconte; e se ne vedevano le cui
braccia erano interamente ricoperte da numerosi simboli, che si confondevano con le cicatrici e le
ferite fresche.
Per gli uomini di razza latina, i Sanniti, gli Etruschi, i Campani e i Bruzi, si prepararono quattro
grandi roghi.
I Greci con la punta delle loro spade, scavarono delle fosse. Gli Spartani, si tolsero i loro rossi
mantelli e ne avvolsero i morti; gli Ateniesi li distendevano con la faccia rivolta al sol levante; i
Cantabri li seppellivano sotto un cumulo di ciottoli; i Nasamoni li piegavano in due con delle
corregge di bue, e i Garamanti andarono a sotterrarli sulla spiaggia, perché fossero per sempre
bagnati dai flutti. Ma i Latini si affliggevano di non poter raccogliere le loro ceneri nelle urne; i
Nomadi rimpiangevano il calore delle sabbie dove i corpi si mummificano, e i Celti, tre rozze pietre,
sotto un cielo piovoso, in fondo ad un golfo cosparso di isolotti.
Si alzavano delle voci lamentose, seguite da un lungo silenzio. Erano per forzare le anime a
ritornare. Poi il clamore riprendeva, a intervalli regolari, ostinatamente.
Ci si scusava presso i morti di non poterli onorare come prescrivevano i riti: poiché, a causa di
quella mancanza, erano destinati a ripassare, per un tempo infinito, attraverso ogni sorta di pericoli
e di metamorfosi. Li interpellavano, chiedevano loro se avessero dei desideri; altri li colmavano di
ingiurie perché s’erano lasciati vincere.
Il bagliore dei grandi roghi sbiancava i volti esangui, qua e là riversi sulle armature sfasciate; e le
lacrime chiamavano altre lacrime, i singhiozzi si facevano più acuti, i riconoscimenti e gli abbracci
più frenetici. Alcune donne si prostravano sui cadaveri, bocca contro bocca, fronte contro fronte;
bisognava batterle affinché si togliessero, quando si gettava la terra. C’era chi si anneriva le gote;
chi si tagliava i capelli; chi si cavava il sangue per versarlo nelle fosse; e chi si procurava delle
ferite simili a quelle che sfiguravano i morti. Delle urla prorompevano sopra lo strepito dei cimbali.
Alcuni si strappavano i propri amuleti, vi sputavano sopra. I moribondi si voltolavano nella poltiglia
sanguinolenta mordendo di rabbia i propri moncherini; e quarantatre Sanniti, tutta una primavera
sacra, si sgozzarono tra loro come dei gladiatori. Ben presto mancò la legna per i roghi, le fiamme si
smorzarono, tutte le fosse erano occupate; e stanchi per aver tanto strillato, estenuati, barcollanti, si
addormentarono accanto ai loro fratelli morti; quelli che ci tenevano a vivere pieni di inquietudini, e
gli altri desiderosi di non risvegliarsi più.
Allo schiarire dell’alba, apparvero alle barriere dei Barbari alcuni soldati che sfilavano con i
caschi sollevati sulla punta delle picche; salutando i Mercenari, chiedevan loro se non avessero
nulla da mandare a dire nelle loro patrie.
Se ne accostarono degli altri, e i Barbari riconobbero alcuni dei loro vecchi compagni.
Il Suffeta aveva proposto a tutti i prigionieri di servire nelle sue truppe. Molti, coraggiosamente,
avevano rifiutato; e, ben risoluto a non mantenerli ne ad abbandonarli al Gran Consiglio, li aveva
scacciati, ordinando loro di non combattere mai più contro Cartagine. Quanto a coloro che la paura
dei supplizi rendeva docili, li si era dotati delle armi del nemico; e ora si presentavano ai vinti,
meno per sedurli che per un moto d’orgoglio e di curiosità.
Dapprima raccontarono del buon trattamento ricevuto dal Suffeta; i Barbari li ascoltavano pieni
d’invidia, benché li considerassero dei vili. Poi, alle prime parole di biasimo, i vili si adirarono; da
lungi mostravan loro le proprie spade, le corazze, e li invitavano ingiuriandoli ad andare a prenderle.
I Barbari raccattarono delle pietre; fuggirono tutti; e non si vide altro sulla sommità della montagna
che le punte delle lance oltrepassanti il bordo delle palizzate.
Allora un dolore più grave che l’umiliazione della sconfitta accasciò i Barbari. Riflettevano su
quanto fosse stato inutile il loro coraggio. Restavano a fissare il vuoto digrignando i denti.
103
A tutti venne la medesima idea. Si precipitarono tumultuosamente sui prigionieri Cartaginesi. Per
caso, i soldati del Suffeta non avevano potuto scoprirli, e allorché si ritiravano dal campo di
battaglia, quelli si trovavano ancora nella profonda fossa.
Li si dispose per terra, in un punto pianeggiante. Delle sentinelle fecero cerchio intorno a loro, e si
lasciarono entrare le donne, trenta o quaranta alla volta. Volendo approfittare del poco tempo
concesso loro, correvano dall’uno all’altro, incerte sul da farsi, palpitanti; poi, curve su quei poveri
corpi, li colpivano a tutta forza come lavandaie che battono i panni; urlando il nome dei loro uomini
li straziavano con le unghie; li accecavano con gli spilloni delle loro capigliature. Dopo si fecero
avanti gli uomini, e li tormentavano dai piedi, che mozzavano alle caviglie, fino alla fronte, dalla
quale asportavano ghirlande di pelle che si mettevano sulla testa. I Mangiatori di cose immonde
furono atroci nelle loro immaginazioni. Irritavano le ferite versandovi della polvere, dell’aceto,
delle schegge di vasellame; alle loro spalle, altri erano in attesa; il sangue colava ed essi si
divertivano come fanno i vendemmiatori intorno ai tini fumanti.
Intanto Mato stava seduto per terra, nello stesso posto dove si trovava quando la battaglia era
finita, i gomiti sulle ginocchia, le tempie fra le mani; non vedeva niente, non sentiva niente, non
pensava più.
Alle urla di gioia che cacciava la folla, sollevò la testa. Davanti a lui un pezzo di tela, che pendeva
fino a terra appeso ad un palo, ricopriva vagamente dei canestri, dei tappeti, una pelle di leone.
Riconobbe la propria tenda; e i suoi occhi si fissavano al suolo come se la figlia di Amilcare,
scomparendo, fosse sprofondata sotto terra.
Il telo strappato sbatteva al vento; a momenti i suoi lunghi brandelli gli passavano davanti alla
bocca, ed egli scorse una traccia rossa, simile all’impronta di una mano. Era la mano di Narava, il
segno della loro alleanza. Allora Mato si alzò. Prese un tizzone che fumava ancora, e lo gettò sui
resti della tenda, sdegnosamente. Poi, con la punta di uno stivale, respinse tra le fiamme delle cose
che vi sfuggivano, affinché non ne restasse nulla.
All’improvviso, senza che si potesse capire da dove spuntava, apparve Spendio.
Il vecchio schiavo s’era legato alla coscia due schegge di lancia; zoppicava in modo pietoso,
sfogando lamenti.
- Togliti quella cosa – gli disse Mato – so bene che sei un prode! – Poiché era così abbattuto per
l’ingiustizia degli Dei che non aveva abbastanza forze per indignarsi contro gli uomini.
Spendio gli fece un segno, e lo guidò nella cavità di un’altura, dove si erano nascosti Zarza e
Autarito.
Erano fuggiti come lo schiavo, l’uno benché fosse crudele, e l’altro malgrado il suo coraggio. Ma
chi avrebbe potuto aspettarsi, dicevano, il tradimento di Narava, l’incendio del campo libico, la
perdita dello Zaimf, il repentino attacco di Amilcare, e soprattutto le sue manovre per forzarli a
ritornare nella parte bassa della montagna sotto il tiro diretto dei Cartaginesi? Spendio non
confessava affatto d’aver tremato e persisteva a sostenere che aveva una gamba rotta.
Infine, i tre capi e lo shalishim si interrogarono sul da farsi.
Amilcare chiudeva loro la strada di Cartagine; erano stretti tra i suoi soldati e le province di
Narava; le città tirie si sarebbero unite ai vincitori; stavano per trovarsi con le spalle al mare, e tutte
quelle forze assieme li avrebbero schiacciati. Ecco ciò che sarebbe immancabilmente successo.
Di conseguenza non c’era modo di evitare la guerra. Dunque, erano costretti a proseguirla ad
oltranza. Ma, come far comprendere la necessità di uno scontro senza fine a tutti quegli uomini
scoraggiati e ancora sanguinanti dalle le loro ferite?
- Me ne incarico io! – disse Spendio.
Due ore dopo, un uomo, che giungeva dalla parte di Ippo Zarito, salì per la montagna correndo.
Agitava delle tavolette col braccio disteso, e siccome urlava forte, i Barbari gli si fecero attorno.
Erano state spedite dai soldati greci di Sardegna. Raccomandavano ai loro compagni d’Africa di
sorvegliare Giscone con gli altri prigionieri. Un mercante di Samo, tale Ipponatte, che veniva da
Cartagine, li aveva informati che si organizzava un complotto per farli evadere, e consigliava i
Barbari di ben premunirsi, essendo la Repubblica assai potente.
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Lo stratagemma di Spendio, in un primo momento, non sortì l’effetto da lui sperato. Quella
conferma di un nuovo pericolo, lungi dal rianimare il furore, suscitò solo timori; e ricordandosi
dell’avvertimento gettato nel loro accampamento da Amilcare non molto tempo prima, essi si
aspettavano qualcosa di improvviso e di terribile. La notte trascorse in una grande angoscia; così
molti si sbarazzarono delle loro armi per intenerire il Suffeta quando fosse comparso.
Ma l’indomani, al terzo turno di guardia, apparve un secondo corriere ancora più affannato e nero
di polvere. Il Greco gli strappò dalle mani un rotolo di papiro pieno di caratteri fenici. Vi si
scongiuravano i Mercenari di non scoraggiarsi; i valorosi di Tunisi stavano per giungere con
numerosi rinforzi.
Spendio lesse immediatamente la lettera tre volte di seguito; poi, sorretto da due Cappadoci che
lo tenevano seduto sulle loro spalle, si faceva trasportare di bivacco in bivacco, e la rileggeva. Per
sette ore filate, arringò la folla.
Ricordava ai Mercenari le promesse del Gran Consiglio; agli Africani le crudeltà degli intendenti;
a tutti i Barbari l’ingiustizia di Cartagine. La clemenza del Suffeta era un’esca per catturarli. Quelli
che si fossero consegnati, verrebbero venduti come schiavi; i vinti perirebbero suppliziati. Quanto a
fuggire, per quali strade? Nessuna popolazione vorrebbe accoglierli. Mentre persistendo nei loro
sforzi, otterrebbero al contempo la libertà, la vittoria, e del denaro! Non avrebbero atteso molto,
prima che gli uomini di Tunisi, che l’intera Libia accorressero in loro soccorso. Mostrava il papiro
srotolato:
- Guardate dunque! Leggete! Ecco le loro promesse! Io non mento.
Dei cani vagavano per il campo, col loro muso nero tutto impiastrato di rosso. Il sole a picco
surriscaldava le teste nude. Un odore nauseabondo esalava dai cadaveri mal sotterrati. Alcuni
addirittura sporgevano dal terreno fino al ventre. Spendio li chiamava a testimoni di quanto andava
affermando; poi alzava i pugni dalla parte di Amilcare.
Mato in un canto lo osservava e, per nascondere il suo scoraggiamento, faceva mostra di una
collera nella quale poco a poco credeva lui stesso. Consacrandosi agli Dei, sprecò maledizioni
contro Cartagine. Il supplizio dei prigionieri era un gioco da ragazzi. Perché dunque risparmiarli e
trascinarsi sempre dietro quel gregge inutile!
- No! Bisogna farla finita!I loro disegni sono noti! Uno solo può perderci! Nessuna pietà! I migliori
si riconosceranno dalla velocità delle gambe e dalla forza del colpo.
Allora si volsero verso i prigionieri. Molti rantolavano ancora; li si finì affondandogli il tallone in
bocca, oppure pugnalandoli con la punta di un giavellotto.
Poi pensarono a Giscone. Non lo si scorgeva da nessuna parte; si inquietarono. Volevano ad un
tempo convincersi della sua morte e parteciparvi. Infine tre pastori sanniti lo scoprirono a quindici
passi dal luogo ove poco prima sorgeva la tenda di Mato. Lo riconobbero dalla sua lunga barba, e
chiamarono gli altri.
Steso sulla schiena, le braccia strette ai fianchi e le ginocchia serrate, sembrava un cadavere
pronto per il sepolcro. Tuttavia le sue costole smagrite si alzavano e si abbassavano, e i suoi occhi,
spalancati nel mezzo del volto esangue, non smettevano di fissare in una maniera intollerabile.
I Barbari dapprima lo considerarono con gran stupore. Dacché viveva nella fossa, l’avevano
pressoché dimenticato; tormentati da antichi ricordi, si tenevano a distanza e non osavano alzare le
mani su di lui.
Ma coloro che stavano dietro mormoravano e si spintonavano, quando un Garamante si fece largo
tra la folla; brandiva un falcetto; tutti compresero ciò che gli passava per la testa; i loro volti
s’imporporarono, e, pur vergognandosi, urlavano:
- Si! Si!
L’uomo col ferro ricurvo si avvicinò a Giscone. Gli prese la testa,e, appoggiandola sul suo
ginocchio, la recise a rapidi colpi; quella cadde; due grossi getti di sangue fecero un buco nella
polvere. Zarza le era saltato addosso, e, più leggero di un leopardo, correva verso i Cartaginesi.
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Poi, quando fu a due terzi del monte, si tolse dal petto la testa di Giscone tenendola per la barba,
roteò il braccio più volte rapidamente, e la massa, finalmente lanciata, descrisse una lunga parabola
scomparendo dietro il trinceramento punico.
Tosto si levarono al bordo della palizzata due stendardi incrociati, segno convenuto per reclamare
i cadaveri.
Allora quattro araldi scelti per la capacità dei loro polmoni, avanzarono con delle grandi trombe, e,
parlando dentro i tubi di bronzo, dichiararono che ormai, tra i Cartaginesi e i Barbari, non c’era più
ne fede, ne pietà, ne dei, che si rifiutavano in anticipo tutte le proposte e che eventuali messaggeri
sarebbero stati rinviati con le mani mozzate.
Immediatamente dopo, si delegò Spendio a Ippo Zarito per avere dei viveri; la città tiria ne inviò
la sera stessa. Mangiarono avidamente. Poi, quando si furono ristorati, raccolsero in fretta i resti dei
loro bagagli e delle loro armi rotte; le donne si ammucchiarono al centro, e, senza preoccuparsi dei
lamenti dei feriti che si lasciavano dietro, si avviarono lungo la riva, a passi rapidi, come un branco
di lupi in fuga.
Marciavano su Ippo Zarito, decisi a conquistarla, poiché avevano bisogno di una città.
Amilcare, scorgendoli in lontananza, si disperò, malgrado l’orgoglio che sentiva vedendoli
fuggire davanti a lui. Avrebbe voluto poterli attaccare subito con delle truppe fresche. Ancora una
giornata come quella, e la guerra era finita! Se le cose si trascinavano, essi sarebbero tornati più
forti; le città tirie si sarebbero unite a loro; la sua clemenza verso i vinti non era servita a nulla.
Decise di essere spietato.
La sera stessa, inviò al Gran Consiglio un dromedario carico di braccialetti raccolti sui morti, e,
con delle orribili minacce, ordinava che gli si inviasse un’altra armata.
Tutti, da gran tempo, lo credevano perduto; di modo che apprendendo della sua vittoria,
provarono uno stupore che era quasi paura. Il ritorno dello Zaimf , annunciato vagamente,
completava la meraviglia. Così gli Dei e la forza di Cartagine sembravano ora appartenergli.
Nessuno dei suoi nemici azzardò un lamento o una recriminazione. A causa dell’entusiasmo degli
uni e della pusillanimità degli altri, prima del tempo stabilito, fu pronta un’armata di cinquemila
uomini
Guadagnò prontamente Utica per coprire il Suffeta alle spalle, mentre tremila uomini dei migliori
salirono sulle navi che dovevano sbarcarli a Ippo Zarito, da dove avrebbero respinto i Barbari.
Annone ne aveva accettato il comando; ma affidò l’armata al suo luogotenente Magdassan, per
capitanare lui stesso le truppe di sbarco, poiché non era più in grado di tollerare le scosse della
lettiga. La sua malattia, consumandogli le labbra e le narici, aveva scavato nella sua faccia un largo
buco; a dieci passi, gli si vedeva il fondo della gola, ed egli si sapeva tanto orribile che, come una
donna, si metteva un velo sulla testa.
Ippo Zarito non dava ascolto alle sue ingiunzioni più che a quelle dei Barbari; ma ogni mattina gli
abitanti calavano, dentro ceste, dei viveri per loro, e gridando dall’alto delle torri, incolpavano le
esigenze della Repubblica e li scongiuravano di allontanarsi. Indirizzavano tramite segnali le stesse
proteste ai Cartaginesi che stazionavano in mare.
Annone si contentava di bloccare il porto senza rischiare un attacco. Tuttavia persuase i magistrati
di Ippo Zarito ad accogliere in città trecento soldati. Poi se ne andò verso Capo dell’Uva e fece un
lungo giro per accerchiare i Barbari, operazione inopportuna oltre che pericolosa. La sua gelosia gli
impediva di soccorrere il Suffeta; ne arrestava le spie, lo intralciava in tutti i suoi piani,
comprometteva l’impresa. Infine Amilcare scrisse al Gran Consiglio affinché glielo levassero di
torno, e Annone rientrò a Cartagine, furioso contro la bassezza degli Anziani e la follia del suo
collega. Dunque, dopo tante speranze, ci si ritrovava in una situazione ancora più deplorevole; ma ci
si sforzava di non pensarvi e anche di non parlarne affatto.
Come se ciò non fosse già abbastanza, si seppe che i Mercenari di Sardegna avevano crocifisso il
loro generale, si erano impossessati delle piazzeforti, e avevano sgozzato dappertutto gli uomini di
razza cananea. Il popolo romano minacciava la Repubblica di immediate ostilità, se essa non avesse
106
pagato milleduecento talenti ed insieme ceduto l’intera isola di Sardegna. Roma aveva accettato
l’alleanza coi Barbari, e spedì loro delle chiatte cariche di farina e di carni secche. I Cartaginesi le
inseguirono; ma tre giorni dopo, una flotta che veniva da Bizacena, portando viveri a Cartagine,
naufragò durante una tempesta. Gli Dei evidentemente le si schieravano contro.
Allora i Cittadini di Ippo Zarito, col pretesto di un allarme, fecero salire sulle mura della città i
trecento uomini di Annone; poi, sorprendendoli alle spalle, all’improvviso li presero per le gambe e
li gettarono giù dai bastioni. I pochi che non perirono, furono inseguiti e finirono annegati in mare.
Anche Utica sopportava dei soldati, poiché Magdassan si era comportato come Annone, e,
ubbidendo ai suoi ordini, circondava la città, sordo alle preghiere di Amilcare. A quelli, fu dato da
bere un vino drogato con la mandragora, poi vennero sgozzati nel sonno. In quel lasso di tempo
giunsero i Barbari; Magdassan se ne fuggì, vennero aperte le porte, e da allora in poi le due città
tirie mostrarono verso i loro nuovi amici una tenace devozione, e nei confronti dei loro vecchi
alleati un irriducibile odio.
Quella defezione dalla causa punica servì di consiglio e d’esempio. Le speranze di libertà si
rianimarono. Alcune popolazioni, ancora incerte, non ebbero più esitazioni. Si creò un gran
fermento. Il Suffeta ne venne a conoscenza, e non si aspettava soccorso alcuno! Ora egli era
irrevocabilmente perduto.
Tosto congedò Narava, che doveva custodire i confini del suo regno. Quanto a lui, decise di
rientrare a Cartagine per prendervi dei soldati e ricominciare la guerra.
I Barbari, che si erano stabiliti a Ippo Zarito, scorsero la sua armata mentre scendeva dalla
montagna.
Dove mai andavano i Cartaginesi? Senza dubbio li spingeva la fame; e, smarrita la ragione a causa
dei patimenti, malgrado la loro debolezza, venivano a dar battaglia. Ma li videro svoltare a destra:
fuggivano. Si poteva raggiungerli, annientarli tutti quanti. I Barbari si lanciarono al loro
inseguimento.
I Cartaginesi furono fermati dal fiume. Questa volta era ampio, non avendo soffiato il vento
d’occidente. Alcuni lo passarono a nuoto, altri sui loro scudi. Si rimisero in marcia. Cadde la notte.
Non li si vide più.
I Barbari non si arrestarono; risalirono oltre, per trovare un punto più stretto. Gli abitanti di Tunisi
accorsero; trascinarono quelli di Utica. Ad ogni cespuglio, il loro numero aumentava; e i
Cartaginesi, stendendosi a terra, sentivano il calpestio dei loro passi nelle tenebre. Di tanto in tanto,
per rallentarli, Barca faceva lanciare, alle sue spalle, una scarica di frecce; molti restavano uccisi.
Quando si levò il giorno, erano tra le alture dell’Ariana, nel luogo dove la strada fa una curva a
gomito.
Allora Mato, che andava in testa, credette distinguere all’orizzonte qualcosa di verde, al sommo di
un poggio. Poi il terreno si abbassò, e apparvero degli obelischi, delle cupole, delle case: era
Cartagine! Si appoggiò ad un albero per non cadere, tanto il suo cuore batteva forte.
Ripensò a tutto quello che era avvenuto nella sua vita dall’ultima volta che era stato là! Provava
uno stupore infinito, uno stordimento. Poi fu preso dalla gioia, al pensiero di rivedere Salammbô.
Gli tornarono alla memoria i motivi che aveva per detestarla; subito li respinse. Fremendo allungava
lo sguardo, contemplava, oltre Eshmun, l’alta terrazza di un palazzo, al di sopra di un palmeto; un
sorriso estasiato illuminava il suo volto, come se fosse stato colpito da una luce intensa; allargava le
braccia, mandava baci al vento, e mormorava:
- Vieni! Vieni! – un sospiro gli gonfiò i polmoni, e due lacrime, allungate come perle, gli caddero
sulla barba.
- Cosa ti prende? – gridò Spendio – Svegliati dunque! In marcia! Il Suffeta ci sta sfuggendo! Ma tu
barcolli ed hai lo sguardo di un uomo ubriaco!
Non si conteneva per l’impazienza; pressava Mato; e, con delle strizzatine d’occhio, come
all’approssimarsi d’una meta lungamente ambita:
- Ah! Ci siamo! Eccoci! Li tengo in pugno!
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Aveva un’aria tanto convinta e trionfante che Mato, sorpreso nel suo torpore, si sentì trascinato.
Quelle parole sopraggiungevano al colmo della sua desolazione, spingevano la sua disperazione a
cercar vendetta, indicavano un pascolo alla sua collera. Balzò su uno dei cammelli che
trasportavano i bagagli, gli strappò la cavezza; con quella lunga fune colpiva a tutta forza gli
sbrancati; e correva ora a destra ora a manca, in coda all’armata, come un cane che fa fretta a un
gregge.
Al suono della sua voce stentorea, le linee degli uomini si rinserravano; anche quelli che
zoppicavano accelerarono il passo; nel mezzo dell’istmo, la distanza diminuì. Le avanguardie dei
Barbari camminavano nella polvere dei Cartaginesi. Le due armate si avvicinavano, stavano per
toccarsi. Ma la porta di Malqua, la porta di Tagaste e la grande porta di Khamon spalancarono i loro
battenti. Il quadrato punico si divise; tre colonne vi si ingolfarono, turbinavano sotto i portici. Ben
presto la massa, troppo chiusa su sé stessa, s’arrestò; le picche si urtavano per aria, e le frecce dei
Barbari si spezzavano contro le mura.
Sulla soglia di Khamon, si scorse Amilcare. Si rigirò urlando ai suoi uomini di scansarsi. Smontò
dal proprio cavallo, e con la spada sguainata, spronandolo sulla groppa, lo mandò contro i Barbari.
Era uno stallone oringa nutrito con polpette di farina, e che si metteva in ginocchio per far salire il
suo padrone. Perché dunque rimandarlo? Si trattava d’un sacrificio?
Il grande cavallo galoppava nel mezzo dei soldati armati di lance, li rovesciava, e, impigliandosi
con gli zoccoli nelle proprie viscere, cadeva, poi con dei balzi furiosi si rialzava; e schivandolo i
Mercenari si sforzavano di fermarlo, o guardavano con sorpresa i Cartaginesi che intanto s’erano
riuniti; entrarono; l’enorme porta si richiuse alle loro spalle con gran fragore.
Non cedette più. I Barbari le si gettarono contro; per qualche minuto, lungo tutta la lunghezza
dell’armata, si ripercosse un’oscillazione via via più fiacca, che infine si fermò.
I Cartaginesi avevano messo dei soldati sull’acquedotto, cominciavano a lanciare pietre, palle,
travi. Spendio già sapeva che non conveniva insistere. Se ne andarono ad accamparsi più lontano,
ben risoluti a porre sotto assedio Cartagine.
Nel frattempo il rumore della guerra aveva superato i confini dell’impero punico; e, dalle Colonne
d’Ercole fin oltre Cirene, i pastori ne fantasticavano custodendo le loro greggi, e i carovanieri ne
discutevano la notte, al chiarore delle stelle. Quella grande Cartagine, dominatrice dei mari,
splendida come il sole e terribile come un dio, v’erano uomini che osavano attaccarla! Era pur vero
che molte volte si era data per certa la sua caduta; e tutti vi avevano creduto, poiché tutti se
l’auguravano: le popolazioni sottomesse, i villaggi tributari, le province alleate, le tribù indipendenti,
coloro che la esecravano per la sua tirannia, o che la invidiavano per la sua potenza, o che ne
bramavano la ricchezza. I più coraggiosi s’eran da subito uniti ai Mercenari. La sconfitta del Macar
aveva fermato tutti gli altri. Infine, avevano ripreso fiducia, poco a poco s’erano fatti avanti,
riavvicinati; ed ora gli uomini delle regioni orientali occupavano le dune intorno a Clipea, dall’altra
parte del golfo. Dal momento in cui scorsero i Barbari, a loro volta si mostrarono.
Non erano i Libici dei dintorni di Cartagine, che da lungo tempo facevano parte della terza armata;
bensì i nomadi dell’altopiano di Barca, i banditi di capo Fisco e del promontorio di Derna, quelli
della Fazzania e della Marmarica. Avevano attraversato il deserto dissetandosi ai pozzi salmastri
murati con le ossa dei cammelli; gli Zuaeci, coperti di piume di struzzo, erano giunti sulle quadrighe;
i Garamanti, velati di nero, seduti sulla groppa delle loro giumente dipinte; altri su degli asini, degli
onagri, delle zebre, dei bufali, e alcuni si portavano appresso, con le famiglie e gli idoli, il tetto in
forma di scialuppa della loro capanna. C’erano Ammonii dalle membra grinzose a causa dell’acqua
calda delle fonti; Ataranti, che maledicono il sole; Trogloditi, che ridendo seppelliscono i loro morti
sotto rami d’albero; e gli immondi Ausei, che mangiano cavallette; gli Achirmachidi, che mangiano
pidocchi,e i Gisanti, dipinti di cinabro, che mangiano le scimmie.
S’erano tutti disposti sulla riva del mare, in una grande fila diritta. Poi avanzarono come turbini di
sabbia sollevati dal vento. Nel mezzo dell’istmo quella turba si arrestò, perché i Mercenari, posti
davanti a loro vicino alle mura, non volevano spostarsi.
108
In seguito, sul fianco dell’Ariana apparvero gli uomini dell’Occidente, il popolo dei Numidi. In
effetti, Narava non governava che i Massilii; e d’altra parte, avendo un’usanza che permetteva loro
di abbandonare il re dopo un rovescio, si erano radunati sullo Zaine, quindi l’avevano varcato alle
prime mosse di Amilcare. Per primi si videro accorrere i cacciatori del Malethut Baal e del
Garaphos, vestiti con pelli di leone, che conducevano con l’asta della picca dei cavallini scarni dalla
lunga criniera; poi seguivano i Getuli dentro corazze in pelle di serpente; poi i Farusii, con in testa
alte corone fatte di cera e di resina; e i Cauni, i Macari, i Tillabari, ciascuno con due giavellotti e
uno scudo in cuoio d’ippopotamo. Si fermarono ai piedi delle Catacombe, nelle prime pozze della
laguna.
Ma quando i Libici si furono spostati, si scorse, nel punto che occupavano, e come fosse una
nuvola a livello del suolo, la moltitudine dei Negri. Ne erano giunti dall’Harush bianco, dall’Harush
nero, dal deserto d’Augila, e dalla grande contrada d’Agazimba, che sta a quattro mesi di marcia a
sud dei Garamanti, e da più lontano ancora! Malgrado i gioielli di legno rosso, la sporcizia della
loro pelle nera li faceva rassomigliare a delle more voltolate a lungo nella polvere. Portavano
calzoncini in fili di corteccia, tuniche fatte di erbe seccate, in testa avevano grugni di bestie
selvatiche, e, ululando come lupi, scuotevano listelli muniti di cerchietti e brandivano, a mo’ di
stendardi, bastoni con in cima delle code di vacca.
Poi dietro i Numidi, i Mauri, i Getuli, si accalcavano gli uomini giallastri sparsi al di là del Taggir
nelle foreste di cedri. Portavano sulle spalle faretre fatte con la pelliccia di gatto, e conducevano al
guinzaglio degli enormi cani, alti quanto asini, e che non abbaiavano.
Infine, come se l’Africa non si fosse già sufficientemente vuotata, e come se, per raccogliere il
massimo dei furori, fosse stato necessario pescare fin nella sentina delle razze, si vedevano, dietro
tutti gli altri, degli uomini dall’aspetto bestiale, sghignazzanti d’un riso idiota; miserabili guastati da
laide malattie, pigmei deformi, mulatti dal sesso ambiguo, albini i cui occhi arrossati battevano alla
luce del sole; balbettando suoni indecifrabili, mettevano un dito in bocca per mostrare che avevano
fame.
La confusione delle armi non era minore di quella degli abbigliamenti e dei popoli. Non
un’invenzione di morte che mancasse, dai pugnali di legno, le asce di pietra e i tridenti d’avorio,
fino alle lunghe sciabole dentellate come seghe, fatte d’una lama di rame sottile e flessibile.
Maneggiavano coltellacci che si biforcavano in parecchie ramificazioni come corna di antilopi,
roncole attaccate al capo di una corda, triangoli di ferro, clave, punteruoli. Gli Etiopi del Bamboto
celavano nelle loro capigliature dei piccoli dardi avvelenati. Molti avevano portato dei ciottoli
dentro sacchi. Altri, che non avevano nulla, digrignavano i denti.
Un ondeggiamento continuo agitava quella moltitudine. Alcuni dromedari, completamente
imbrattati di catrame come navigli, rovesciavano a terra le donne, che portavano i loro figli
sull’anca. Le provviste nelle ceste si versavano all’intorno; camminando si calpestavano pezzi di
sale, involti di gomma, datteri marci, noci di cola; e a volte, su dei seni ricoperti di pidocchi
pendeva da una cordicella uno di quei diamanti tanto ricercati dai Satrapi, una pietra pressoché
favolosa e bastante ad acquistare un impero. I più non sapevano neppure perché erano venuti. Una
fascinazione, una curiosità li spingeva; dei Nomadi che non avevano mai visto una città erano
atterriti dall’ombra delle mura.
L’istmo ora scompariva sotto una massa d’uomini; e quella lunga superficie, dove le tende
somigliavano a capanne nel turbine di una inondazione, si dispiegava fino alle prime linee degli altri
Barbari, tutte grondanti di ferro e simmetricamente disposte sui due fianchi dell’acquedotto.
I Cartaginesi, ancora invasi dal terrore per l’arrivo di quelli, scorsero, che venivano dritte verso di
loro, come delle costruzioni mostruose. Erano le macchine per l’assedio inviate dalle città tirie,con i
loro pali, i loro bracci, i loro cordami, le loro giunture, i loro teloni, i loro gusci: sessanta carro
baliste, ottanta onagri, trenta scorpioni, cinquanta tollenoni, dodici arieti e tre catapulte gigantesche
capaci di scagliare pezzi di roccia del peso di quindici talenti. Delle formazioni d’uomini, afferrati
alle loro parti inferiori, le spingevano innanzi; ad ogni passo le scuoteva un fremito; in tal modo
giunsero fin sotto le mura.
109
Ma occorrevano ancora parecchi giorni per completare i preparativi dell’assedio. I Mercenari,
istruiti dalle loro disfatte, non volevano punto arrischiarsi in inutili scaramucce; e, da entrambe le
parti, non c’era alcuna fretta, ben sapendo che stava per iniziare una terribile battaglia, il cui esito
poteva essere la vittoria o la completa disfatta.
Cartagine era in grado di resistere a lungo; le sue larghe mura offrivano una serie di angoli
rientranti e sporgenti, assetto vantaggioso per respingere gli assalti.
Tuttavia, dal lato delle Catacombe una porzione era crollata, e nelle notti buie, tra i blocchi
disgiunti si scorgevano delle luci nelle catapecchie di Malqua. In alcuni punti queste dominavano
l’altezza dei bastioni. Era là che vivevano, con i loro nuovi sposi, le donne dei Mercenari scacciate
da Mato. Rivedendoli, il loro cuore non si trattenne. Da lontano agitarono le loro sciarpe; poi
venivano, nelle tenebre, a discutere coi soldati attraverso il varco della muraglia, e il Gran Consiglio
un mattino apprese che se n’erano tutte fuggite. Alcune erano passate tra le pietre; altre, più
intrepide, s’erano calate con le corde.
Infine Spendio risolse di compiere il suo progetto.
La guerra, trattenendolo lontano, glielo aveva fino allora impedito; e da quando erano tornati di
fronte a Cartagine, a lui era parso che gli abitanti sospettassero la sua impresa. Ma tosto le sentinelle
dell’acquedotto diminuirono. Non c’erano abbastanza uomini per la difesa della cinta.
Il vecchio schiavo si esercitò per giorni a tirar frecce contro i fenicotteri del lago. Poi una sera che
la luna brillava, pregò Mato perché accendesse nel mezzo della notte un gran fuoco di paglia, nel
contempo tutti i suoi uomini avrebbero dovuto gridar forte; e prendendo con sé Zarza, se ne andò
lungo la riva del golfo, nella direzione di Tunisi.
All’altezza degli ultimi archi, piegarono diritti verso l’acquedotto; poiché il luogo era scoperto,
avanzarono strisciando fino alla base dei pilastri.
Le sentinelle della piattaforma camminavano tranquillamente.
Improvvisamente sorsero delle alte fiamme; risuonarono echi di chiarine; i soldati di guardia,
immaginando un assalto, si precipitarono dal lato di Cartagine.
Era rimasto un uomo. Spiccava nero contro lo sfondo del cielo. La luna lo colpiva da dietro, e la
sua ombra smisurata formava in lontananza sulla pianura come un obelisco in movimento.
Attesero che fosse ben collocato davanti a loro. Zarza afferrò la sua fionda; per prudenza o per
ferocia, Spendio lo fermò.
- No, il ronzio della palla farebbe rumore! Lascialo a me!
Allora tese il suo arco con tutte le forze, appoggiandone la parte inferiore contro il pollice del
piede sinistro; prese la mira, e la freccia partì.
L’uomo non precipitò. Disparve.
- Se fosse ferito, lo sentiremmo lamentarsi! – disse Spendio; e salì agilmente di piano in piano,
come aveva fatto la prima volta, aiutandosi con una corda ed un arpione. Poi quando fu in alto,
vicino al cadavere, la lasciò ricadere. Il Baleare vi appese un piccone e un mazzuolo e se ne ritornò.
Le trombe non suonavano più. Ora tutto era tranquillo. Spendio aveva sollevato una delle lastre,
era entrato nell’acqua, e l’aveva richiusa su di sé.
Calcolando la distanza con il numero dei propri passi, arrivò giusto nel punto dove aveva notato
una fessura obliqua; e per tre ore, fino al mattino, lavorò senza posa, con foga, respirando a fatica
attraverso gli interstizi delle lastre superiori, in preda all’angoscia e per venti volte credendo di
morire. Infine, si udì uno scricchiolio; un’enorme pietra, rimbalzando sugli archi inferiori, rotolò
fino in basso; e improvvisamente una cataratta d’acqua, un fiume intero precipitò dal cielo sulla
piana sottostante. L’acquedotto, tagliato nel mezzo, si scaricava. Ciò significava la morte per
Cartagine, e la vittoria per i Barbari.
In un istante i Cartaginesi, risvegliatisi, apparvero sulle mura, sulle case, sui templi. I Barbari si
spintonavano, gridavano. Danzavano in delirio attorno alla grande cascata d’acqua, e, nella
stravagante frenesia della loro gioia, vi si ficcavano sotto a bagnarsi la testa.
In cima all’acquedotto si vide un uomo con una tunica bruna strappata. Stava chino sul bordo, le
mani sui fianchi, e guardava in basso, sotto di lui, come sorpreso dalla sua opera.
110
Poi si raddrizzò. Percorse l’orizzonte con un aria superba che pareva dire: “ Tutto questo ora è
mio!” Scoppiarono gli applausi dei Barbari; i Cartaginesi, comprendendo infine la loro disgrazia,
urlavano di disperazione. Allora Spendio si mise a correre sulla piattaforma da un capo all’altro, e
alzava le braccia, folle d’orgoglio, come un conduttore di biga trionfante ai giochi Olimpici.
111
XIII
MOLOCH
I Barbari non avevano bisogno di un vallo dal lato dell’Africa: era già loro. Per rendere più facile
l’avvicinamento alle mura , fu pure abbattuto il trinceramento che orlava il fossato. Poi, Mato
suddivise l’armata in ampi semicerchi, così da circondare meglio Cartagine. Gli opliti dei Mercenari
furono posti in prima linea; dietro loro i frombolieri e i cavalieri; per ultimi, i bagagli, i carri, i
cavalli; di qua da quella moltitudine, a trecento passi dalle torri, si rizzavano le macchine per
l’assedio.
Sotto la varietà infinita dei loro nomi, che mutarono più volte nel corso dei secoli, potevano
ridursi a due sistemi: quelle che agivano come fionde e quelle che agivano come archi.
Le prime, ovvero le catapulte, si componevano di un telaio quadrato, con due montanti verticali e
una sbarra orizzontale. Nella parte anteriore un cilindro, munito di cavi, tratteneva un grosso timone
con un cucchiaio per alloggiare i proiettili; la parte inferiore di questo era stretta in una matassa di
fili ritorti, e quando si allentavano le corde, il timone si rialzava e andava a sbattere contro la sbarra
orizzontale, ciò che, arrestandolo di colpo, moltiplicava la sua potenza.
Le seconde presentavano un meccanismo più complicato: su una colonnetta, era fissata una
traversa nel suo punto di mezzo, là dove metteva capo ad angolo retto una specie di canaletta; alle
estremità della traversa si alzavano due alloggiamenti rettangolari che contenevano ognuno un
attorcigliamento di crini; vi si trovavano stretti due bastoni per tenere i capi di una corda che veniva
trascinata sino alla parte inferiore della canaletta, su una tavoletta di bronzo. Per elasticità, questa
placca di metallo si spiccava, e scivolando entro scanalature, spingeva le frecce.
Le catapulte si chiamavano anche onagri, come gli asini selvatici che scagliano pietre con le
zampe, e le baliste scorpioni, per un uncino infisso sulla tavoletta che, abbattuto con un pugno,
libera il meccanismo.
La loro costruzione esigeva sapienti calcoli; il loro legno doveva essere scelto fra le specie più
dure, i loro ingranaggi, tutti di bronzo; venivano messe in tensione per mezzo di leve, martinetti,
argani o timpani; dei robusti cardini permettevano di variare la direzione del loro tiro, dei rulli le
facevano avanzare, e le più imponenti, che si trasportavano in pezzi, venivano montate in faccia al
nemico.
Spendio dispose le tre grandi catapulte rivolte ai tre angoli principali; davanti ad ogni porta
collocò un ariete, davanti ad ogni torre una balista, e le carrobaliste avrebbero circolato alle loro
spalle. Ma bisognava proteggerle dal fuoco degli assediati e per prima cosa riempire il fossato che
le separava dalle mura.
Si fecero avanzare corridoi coperti con l’intreccio di giunchi verdi e l’ossatura in quercia,
somiglianti ad enormi scudi che correvano su tre ruote; delle piccole capanne coperte di pelli
fresche e imbottite di alghe marine davan ricovero ai lavoratori; le catapulte e le baliste furono
protette con teloni di cordame inzuppato nell’aceto per renderlo incombustibile. Le donne e i
bambini andavano a prendere ciottoli sulla spiaggia, raccoglievano la terra con le proprie mani e la
portavano ai soldati.
Anche i Cartaginesi si preparavano.
Amilcare li aveva ben presto rassicurati dichiarando che restava acqua nelle cisterne per
centoventitre giorni. Quella affermazione, la sua presenza, e soprattutto quella dello Zaimf, diedero
loro buone speranze. Cartagine si sollevò dal proprio scoramento; quelli che non erano di razza
cananea furono trascinati dalla passione degli altri.
Vennero armati gli schiavi, si vuotarono gli arsenali; i cittadini ebbero ciascuno il loro posto e la
loro funzione. Dei transfughi sopravvivevano milleduecento uomini, il Suffeta li fece tutti capitani;
e i carpentieri, gli armaioli, i fabbri e gli operai furono preposti alle macchine. I Cartaginesi ne
112
avevano mantenute alcune, malgrado le condizioni della pace romana. Vennero riparate. Erano, in
quei lavori, degli esperti.
I due lati settentrionale ed orientale, difesi dal mare e dal golfo, restavano inaccessibili. Si
issarono, sulle mura in faccia ai Barbari, tronchi d’albero, macine di mulino, marmitte piene di
zolfo, tini colmi d’olio, e si approntarono dei fornelli. Sulle piattaforme delle torri vennero
ammassate pietre, e le case immediatamente adiacenti ai bastioni furono imbottite di sabbia per
rinforzarle e aumentarne lo spessore.
Davanti a questi preparativi i Barbari si innervosirono. Vollero al più presto dar battaglia. I carichi
coi quali gravarono le catapulte erano d’un peso così esorbitante, che i timoni si ruppero. L’attacco
fu rimandato.
Infine il tredicesimo giorno del mese di shebat, al levar del sole, si udì contro la porta di Khamon
un gran colpo.
Settantacinque soldati tiravano delle funi attaccate alla base d’una gigantesca trave, sospesa
orizzontalmente con delle catene che scendevano da una forca di sostegno, e terminante con una
testa d’ariete tutta di bronzo. La trave era avvolta in pelli di bue, di tratto in tratto cerchiata con
bracciali di ferro, grossa tre volte il corpo di un uomo e lunga centoventi cubiti; e sotto una folla di
braccia nude che la spingevano e la richiamavano, essa avanzava e indietreggiava con una
oscillazione regolare.
Gli altri arieti davanti alle altre porte cominciarono a muoversi. Nelle ruote cave dei timpani, si
scorgevano uomini che salivano di piolo in piolo. Le pulegge, i telai cigolarono, caddero i ripari di
cordame e contemporaneamente partirono le prime scariche di pietre e di frecce; tutti i frombolieri
correvano sparpagliati all’intorno. Parecchi si avvicinavano ai bastioni, nascondendo sotto gli scudi
dei vasi di resina; poi li scagliavano a tutta forza. Quella gragnola di palle, di dardi e di fuoco
oltrepassava le prime linee tracciando una curva che ricadeva dietro le mura. Ma, sulla sommità di
queste, si drizzarono delle lunghe gru per alberare le navi, e ne discesero delle enormi tenaglie che
finivano con due semicerchi dentellati all’interno. Addentarono gli arieti. I soldati, aggrappandosi
alla trave, tiravano indietro. I Cartaginesi alavano per farla salire; e la lotta si prolungò fino a sera.
Quando i Mercenari, l’indomani, ripresero il loro lavoro, trovarono l’alto delle mura interamente
tappezzato con balle di cotone, teli, cuscini; le feritoie tappate con le stuoie; e, sui bastioni, tra le
gru, si distingueva una parata di forconi e di lame immanicate su bastoni. Subito prese il via
un’accanita resistenza.
Dei tronchi d’albero, trattenuti da cavi, cadevano e ricadevano alternamente colpendo gli arieti;
gli arpioni, lanciati dalle baliste, strappavano il tetto delle capanne; e, dalla piattaforma delle torri, si
scaricavano torrenti di selci e di ghiaia.
Infine gli arieti sfondarono la porta di Khamon e quella di Tagaste. Ma i Cartaginesi avevano
ammucchiato all’interno una tale quantità di materiali che i battenti non si aprirono. Restarono in
piedi.
Allora si spinsero contro le mura delle trivelle, che, applicate alle commessure dei blocchi le
dissigillavano. Le macchine furono governate meglio, i serventi ripartiti in squadre; dal mattino alla
sera funzionavano senza posa, con la monotona precisione d’un telaio da tessitore.
Spendio non si stancava di regolarle. Era lui stesso che tendeva le matasse delle baliste. Perché vi
fosse nelle loro tensioni gemelle un’assoluta uguaglianza, i loro fili venivano stretti colpendo di
volta in volta la destra e la sinistra, fin quando i due lati restituivano un ugual suono. Spendio saliva
sulla loro ossatura. Con la punta del piede le percuoteva appena, tendendo l’orecchio come un
musicista che accorda una lira.
Poi, quando il timone della catapulta scattava, quando la colonna della balista vibrava per la
scossa del meccanismo, sia che le pietre si proiettassero a raggiera o i dardi precipitassero
ruscellando, si rannicchiava tutto e gettava in aria le braccia, come volesse seguirli.
I soldati, ammirandone l’abilità, eseguivano i suoi ordini. Lavorando di buon umore inventavano
spiritosaggini sui nomi delle macchine. Così, le tenaglie per afferrare gli arieti le chiamavano “lupi”
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e i corridoi coperti “pergolati”, si era agnelli, si andava a vendemmiare; caricando i loro pezzi,
dicevano agli onagri:
- Andiamo, scalcia bene! – e agli scorpioni – Pungili al cuore! - Quelle facezie, sempre le stesse,
davan loro coraggio.
Ciononostante le macchine non demolivano affatto il bastione. Era fatto di due muri riempiti di
terra; quelle ne abbattevano la parte superiore. Ma gli assediati, ogni volta, la restauravano. Mato
ordinò di costruire delle torri in legno alte quanto le torri di pietra. Nel fossato furono gettate zolle
d’erba, pali, ghiaia e interi carri con le ruote per riempirlo più in fretta; prima che fosse pieno,
l’immensa folla dei Barbari ondeggiò sulla pianura con un solo movimento, e venne ad infrangersi
contro la base delle mura, come un mare in burrasca.
Si avvicinarono le scale di corda, le scale rigide e le sambuche, vale a dire due pali dai quali si
abbassava, per mezzo di paranchi, una serie di bambù che completavano un ponte mobile.
Formavano tante linee rette appoggiate contro la muraglia, e i Mercenari, infilati uno dietro l’altro,
le risalivano armi alla mano. Già avevano raggiunto i due terzi del bastione, e nessun Cartaginese si
faceva vedere. Le feritoie si aprirono, vomitando, come le fauci di un drago, fumo e fiamme; la
sabbia si spandeva intorno, penetrava nelle articolazioni delle armature; il petrolio impregnava il
vestiario; il piombo liquido saltellava sui caschi, faceva buchi nella carne; una pioggia di scintille
schizzava sui volti, e delle orbite senza occhi sembravano piangere lacrime grosse come mandorle.
Uomini, tutti gialli d’olio, prendevano fuoco dai capelli. Si mettevano a correre, appiccavano il
fuoco ad altri. Li si soffocava gettando loro sul viso, da lontano, mantelli inzuppati di sangue.
Parecchi che non avevano ferite restavano immobili, più rigidi d’un palo, a bocca aperta e braccia
spalancate.
L’assalto riprese per parecchi giorni di seguito; i Mercenari speravano di trionfare per un eccesso
di forze e di audacia.
Qualche volta un uomo sulle spalle di un altro affondava un arpioncino tra le pietre, poi se ne
serviva come piolo per andar oltre, ne piazzava un secondo, un terzo; e, protetti dal bordo della
merlatura che sporgeva dalla muraglia, poco a poco, salivano in tal maniera; ma, ad una certa
altezza, sempre, cadevano giù. Il grande fossato troppo pieno traboccava; sotto i passi dei vivi, i
feriti si ammucchiavano alla rinfusa con i cadaveri e i moribondi. Tra viscere aperte, cervella sparse
e pozzanghere di sangue, i tronchi calcinati formavano delle macchie nere; braccia e gambe che
fuoriuscivano a metà da un cumulo se ne stavano ritte come pali in una vigna incendiata.
Non bastando le scale, si impiegarono i tollenoni: congegni composti da una lunga trave posta
trasversalmente su di un’altra, e avente all’estremità una cesta quadrangolare nella quale potevano
trovar posto trenta fanti con le loro armi.
Mato volle salire sulla prima che fu allestita. Spendio lo fermò.
Alcuni uomini si curvarono su di un verricello; la grande trave si innalzò, divenne orizzontale, si
drizzò pressoché verticalmente, e, troppo carica ad una estremità, si piegava come un’enorme canna.
I soldati ammonticchiati si tenevano nascosti fin sopra gli occhi; non se ne scorgeva che il
pennacchio dei caschi. Infine, quando raggiunse l’altezza di cinquanta cubiti, girò a destra e a
sinistra parecchie volte, poi s’abbassò; e, come il braccio di un gigante che tenesse sulla sua mano
una coorte di pigmei, depose sul ciglio del muro la cesta piena d’uomini. Saltarono nella calca e mai
più ritornarono.
Tutti gli altri tollenoni furono ben presto disposti. Ma ce ne sarebbero voluti cento volte di più per
prendere la città. Li si usò per uccidere: degli arcieri etiopi si piazzavano nelle ceste; poi, bloccate le
funi, restavano sospesi in aria e scagliavano frecce avvelenate. I cinquanta tollenoni, dominando le
merlature, circondavano così Cartagine, come mostruosi avvoltoi; e i Negri ridevano vedendo le
guardie sui bastioni morire in preda ad atroci convulsioni.
Amilcare vi inviò gli opliti; faceva loro bere ogni mattino il succo di certe erbe che li proteggeva
dal veleno.
Una sera che il tempo era fosco, imbarcò i migliori fra i suoi soldati su delle gabarre, delle tavole,
e, contornando a destra il porto, giunse a sbarcare sulla Tenia. Poi avanzarono fino alle prime linee
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dei Barbari, e, sorprendendoli sul fianco, ne fecero strage. Degli uomini scendevano, di notte,
dall’alto delle mura sospesi alle funi, davan fuoco alle opere dei Mercenari, e risalivano.
Mato era fuori di sé; ogni ostacolo rafforzava la sua collera; arrivava a compiere cose terribili e
stravaganti. Convocò Salammbô, mentalmente, a un incontro; poi l’attese. Ella non venne; ciò gli
parve un ulteriore tradimento; e da quel momento, la detestò. Se l’avesse vista morta, forse se ne
sarebbe andato. Raddoppiò gli avamposti, conficcò forconi ai piedi delle mura, sotterrò trappole nel
terreno, e ordinò ai Libici di portargli tutta una foresta per dar fuoco e bruciare Cartagine come una
tana di volpi.
Spendio si ostinava nell’assedio. Tentava di inventare macchine spaventose come non se n’erano
mai viste.
Gli altri Barbari accampati in lontananza sull’istmo, si stupivano di quei ritardi; si lagnavano; li si
lasciò liberi di agire.
Allora, si precipitarono armati di coltellacci e di giavellotti, coi quali si scagliavano contro le
porte. Ma essendo facilmente vulnerabili poiché andavano nudi, i Cartaginesi ne facevano strage. I
Mercenari se ne rallegrarono, senza dubbio perché gelosi del saccheggio. Sorsero fra loro contese e
litigi. Inoltre, essendo le campagne devastate, ben presto si disputò per i viveri. Perdevano coraggio.
Numerose tribù se ne andarono. La ressa era tale che non ci si fece caso. I più intraprendenti si
provarono a scavare gallerie; il terreno mal sostenuto crollò. Le ricominciarono da un’altra parte;
Amilcare ne indovinava sempre la direzione accostando l’orecchio ad uno scudo di bronzo. A sua
volta fece scavare dei cunicoli sotto il percorso delle torri di legno; quando le si volle far avanzare,
sprofondarono negli scavi.
Infine, tutti riconobbero che la città era imprendibile finché non si fosse alzato sino all’altezza
delle mura un lungo terrapieno che permettesse di combattere sullo stesso piano; se ne
lastricherebbe la sommità per farvi circolar sopra le macchine. Allora sarebbe stato davvero
impossibile per Cartagine resistere.
La città cominciava a soffrire la sete. L’acqua, che all’inizio dell’assedio valeva due kesitah il
bath, ora si vendeva a uno shekel d’argento; anche le provviste di carne e di grano andavano
esaurendosi; si temeva la fame; già qualcuno parlava di bocche inutili, la qual cosa spaventava tutti.
Dalla piazza di Khamon fino al tempio di Melkarth i cadaveri ingombravano le strade; e, siccome
si era alla fine dell’estate, grosse mosche nere molestavano i combattenti. I vecchi trasportavano i
feriti, e la gente devota si ostinava a simulare i funerali dei propri parenti e dei propri amici, morti
lontano durante la guerra. Sull’architrave delle porte venivano esposte statue di cera complete di
capigliature e vesti. Al calore dei ceri che vi ardevano accanto, si scioglievano; la pittura colava
sulle loro spalle, e le lacrime cadevano a ruscelli sul volto dei viventi, che a lato salmodiavano
lugubri canti. Intanto la folla correva le strade; passavano bande armate; i capitani gridavano ordini,
e di continuo s’udiva l’urto degli arieti che battevano il bastione.
Il caldo si fece così forte che i corpi, rigonfi, non potevano più entrare nelle bare. Li si bruciò nel
mezzo dei viali. Ma i fuochi, troppo allo stretto, incendiavano le mura vicine, e delle lingue di
fiamma, all’improvviso, sfuggivano dalle case come del sangue che zampilli da un’arteria. Così
Moloch prendeva possesso di Cartagine; ne stringeva i bastioni, si aggirava per le sue strade, ne
divorava perfino i morti.
Alcuni uomini, che in segno di disperazione portavano mantelli fatti di stracci raccattati, si
stabilirono negli angoli dei crocicchi. Inveivano contro gli Anziani, contro Amilcare, predicevano al
popolo completa rovina e lo invitavano a distruggere tutto e a tutto permettersi. I più pericolosi
erano i bevitori di giusquiamo; nelle loro crisi si credevano bestie feroci e saltavano sui passanti che
dilaniavano. Intorno a loro si formavano degli assembramenti; si tralasciava la difesa di Cartagine.
Il Suffeta immaginò di pagarne altri che sostenessero la sua politica.
Allo scopo di trattenere nella città il genio degli Dei, i loro simulacri erano stati incatenati. Si
posarono veli neri sui Pateci e cilici intorno agli altari; ci si sforzava di eccitare l’orgoglio e la
gelosia dei Baal cantando nelle loro orecchie:
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- Stai lasciandoti vincere! Forse che gli altri sono più forti? Fa vedere chi sei! Aiutaci! Affinché i
popoli non dicano: dove sono ora i loro Dei?
Una continua ansietà agitava i collegi dei pontefici. Quelli della Rabbetna in particolare avevano
paura, non essendo servito il ritorno dello Zaimf. Si tenevano rinchiusi nella terza cinta,
inespugnabile come una fortezza. Uno solo tra loro si azzardava ad uscire, il gran sacerdote
Shahabarim.
Veniva presso Salammbô. Ma restava silenzioso, osservandola con uno sguardo insistente, oppure
era prodigo di parole e i rimproveri che le faceva erano più duri che mai.
Per una contraddizione incomprensibile, non perdonava alla ragazza d’aver eseguito i suoi ordini;
Shahabarim aveva indovinato ogni cosa, e l’ossessione di quel pensiero riattizzava le gelosie della
sua impotenza. L’accusava di essere la causa della guerra. Mato, a volergli credere, assediava
Cartagine per riprendere lo Zaimf; e riversava imprecazioni ed ironie su quel Barbaro che
pretendeva di possedere delle cose sacre. Ciò tuttavia non era precisamente quel che il sacerdote
intendeva dire.
Ma, al presente, Salammbô non provava nei suoi confronti alcun timore. Le paure delle quali un
tempo soffriva l’avevano abbandonata. Era pervasa da una singolare tranquillità. Il suo sguardo,
meno incerto, brillava d’una limpida fiamma.
Però il pitone s’era di nuovo ammalato; e, siccome Salammbô, al contrario, sembrava guarire, la
vecchia Taanach se ne rallegrava, convinta che egli si prendesse attraverso quel deperimento i
languori della sua padrona.
Un mattino lo trovò dietro il letto di pelli di bue, tutto arrotolato su sé stesso, più freddo del
marmo, e con la testa che spariva sotto un ammasso di vermi. Ai suoi gridi, sopraggiunse
Salammbô. Lo rigirò per un poco con la punta del sandalo, e la schiava si meravigliò della sua
insensibilità.
La figlia di Amilcare non metteva più tanto zelo nei propri digiuni. Trascorreva giornate intere
sull’alto della sua terrazza, i gomiti sulla balaustra, dilettandosi a guardare davanti a sé. Dove la
città finiva, l’orlo delle mura ritagliava contro il cielo degli zigzag irregolari, e le lance delle
sentinelle vi facevano da un capo all’altro come una bordura di spighe. Ella scorgeva, al di là, tra le
torri, i movimenti dei Barbari; i giorni nei quali l’assedio era interrotto, poteva anche distinguerne le
occupazioni. Riaccomodavano le armi, si ungevano la capigliatura, oppure lavavano nel mare le
loro braccia insanguinate; le tende restavano chiuse; le bestie da soma mangiavano; e in lontananza,
le falci dei carri, disposti in semicerchio, sembravano una scimitarra d’argento allungata ai piedi
delle montagne. Le tornavano in mente le parole di Shahabarim. Aspettava il suo promesso sposo
Narava. Avrebbe voluto, malgrado l’avversione che provava, rivedere Mato. Di tutti i Cartaginesi,
era l’unica, forse, che gli avesse parlato senza paura.
Spesso suo padre andava nella sua camera. Si sedeva trafelato sui cuscini e la considerava con
un’aria quasi intenerita, come se avesse trovato in quello spettacolo una ricreazione dalle proprie
fatiche. A volte la interrogava intorno al suo viaggio al campo dei Mercenari. Le domandava pure
se qualcuno, per caso, ve l’avesse spinta; e, con un gesto del capo, ella rispondeva di no, tanto
Salammbô andava fiera d’aver posto in salvo lo Zaimf.
Ma il Suffeta ritornava sempre a Mato, col pretesto delle informazioni militari. Non si spiegava
com’ella avesse impiegato le ore trascorse nella tenda. In effetti, Salammbô non parlava di Giscone;
perché, avendo le parole per loro stesse un potere effettivo, le maledizioni riportate a qualcuno
potevano rivoltarsi contro di lui; e taceva pure del suo impulso omicida, per paura di essere
rimproverata per non avervi ceduto. Diceva che lo Shalishim appariva furioso, che aveva molto
gridato, che in seguito s’era addormentato. Salammbô non raccontava altro, forse perché si
vergognava, oppure per un eccesso di candore che faceva sì che ella non desse troppa importanza ai
baci del soldato. Tutto ciò, del resto, fluttuava nella sua testa, confusa e malinconica, come il
ricordo di un sogno opprimente; ed ella non avrebbe saputo in che modo, con quali parole
esprimerlo.
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Una sera che si trovavano così uno in faccia all’altro, sopraggiunse Taanach tutta sconvolta. Un
vecchio con un bambino stava giù nei cortili, e voleva vedere il Suffeta.
Amilcare impallidì. Poi replicò vivacemente:
- Che salga!
Iddibal entrò, senza inchinarsi. Teneva per mano un fanciullo coperto d’un mantello in pelle di
caprone; e tosto sollevando il cappuccio che gli copriva il volto:
- Eccolo, Padrone! Prendilo!
Il Suffeta e lo schiavo si appartarono in un angolo della camera.
Il bimbo era rimasto nel mezzo, in piedi; e, con uno sguardo più curioso che turbato percorreva il
soffitto, i mobili, le collane di perle dimenticate sui drappeggi di porpora, e quella maestosa ragazza
che si chinava su di lui.
Poteva avere diec’anni, e non era più alto d’una spada romana. I capelli crespi gli ombreggiavano
la fronte sporgente. Si sarebbe detto che i suoi occhi fossero abituati ai grandi spazi. Le narici del
suo naso sottile palpitavano senza tregua; da tutta la sua figura emanava l’indefinibile splendore di
coloro che sono destinati a grandi imprese. Quando si fu liberato del mantello troppo pesante, restò
vestito d’una pelliccia di lince che gli aderiva al corpo, e poggiava risolutamente sul pavimento i
suoi piccoli piedi nudi tutti bianchi di polvere. Ma, senza dubbio, indovinava che il momento era
importante, poiché se ne stava immobile, una mano dietro la schiena e il mento abbassato, con un
dito in bocca.
Infine Amilcare, con un gesto, chiamò a sé Salammbô e le disse a voce bassa:
- Lo terrai qui conte, intesi! Occorre che nessuno, neppure quelli di casa, sappiano della sua
esistenza!
Poi, dietro la porta, chiese ancora una volta a Iddibal s’era ben certo di non essere stato notato.
- No! – disse lo schiavo – Le strade erano vuote.
Dilagando la guerra in tutte le province, aveva temuto per il figlio del suo padrone. Allora non
sapendo dove nasconderlo, era venuto, lungo la costa, su di una scialuppa; e da tre giorni Iddibal
bordeggiava nel golfo, osservando i bastioni. Infine quella sera, siccome i dintorni di Khamon
sembravano deserti, aveva prontamente superato lo stretto ed era sbarcato vicino all’arsenale,
essendo l’entrata del porto libera.
Ma ben presto i Barbari vi collocarono davanti una zattera immensa, per impedire ai Cartaginesi
di uscirne. Innalzavano le torri di legno, e, nello stesso tempo, il terrapieno saliva in altezza.
Poiché le comunicazioni con l’esterno erano interrotte, ebbe inizio una insopportabile carestia.
Si uccisero tutti i cani, tutti i muli, tutti gli asini, poi i quindici elefanti riportati dal Suffeta. I leoni
del tempio di Moloch erano diventati furiosi e gli ieroduli non osavano più avvicinarli. Dapprima li
si nutrì con i Barbari feriti; in seguito furono gettati loro dei cadaveri ancora tiepidi; li rifiutarono e
morirono tutti. Al crepuscolo, degli individui vagavano lungo le vecchie mura, raccogliendo tra le
pietre erbe e fiori che facevano bollire nel vino; il vino costava meno dell’acqua. Altri si
insinuavano fino agli avamposti del nemico e si introducevano nelle tende per rubare del cibo; i
Barbari, meravigliati, a volte li lasciavano ritornare. Infine giunse il giorno in cui gli Anziani
risolsero, tra loro, di sgozzare i cavalli di Eshmun. Erano animali sacri, ai quali i pontefici
intrecciavano le criniere con nastri d’oro, e rappresentavano con la loro vita il moto del sole, l’idea
del fuoco nella forma più alta. Le loro carni, tagliate in porzioni uguali, furono nascoste dietro
l’altare. Poi, tutte le sere, con la scusa di qualche devozione, gli Anziani salivano verso il tempio,
facevano festa di nascosto; e sotto le tuniche riportavano un boccone per i propri figli. Nei quartieri
deserti, lontano dalle mura, gli abitanti meno poveri, per paura degli altri, se ne stavano barricati in
casa.
Le pietre delle catapulte e le demolizioni ordinate per la difesa avevano accumulato una gran
quantità di rovine nel mezzo delle strade. Nelle ore più tranquille, all’improvviso, moltitudini di
popolo si precipitavano gridando; e, dall’alto dell’Acropoli, gli incendi parevano cenci di porpora,
dispersi sulle terrazze, che il vento torceva.
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Le tre grandi catapulte, malgrado tutto ciò, non si fermavano. I loro scempi erano a volte
sbalorditivi; così, la testa di un uomo andò a rimbalzare sul frontone dei Sissizi; nella via di Kinisdo,
una partoriente fu schiacciata da un blocco di marmo, e il suo bimbo insieme al letto scagliato fino
all’incrocio di Cinasyn dove vennero ritrovate le coltri.
Più moleste d’ogni cosa erano le palle dei frombolieri. Cadevano sui tetti, nei giardini e nel mezzo
delle corti, tanto che si mangiava accomodati a tavola dinnanzi a un magro pranzo e col cuore
gonfio di sospiri. Quegli atroci proiettili portavano delle lettere incise che si imprimevano nella
carne; e, sui cadaveri, si leggevano ingiurie quali “porco” “sciacallo” “pidocchio” e a volte delle
facezie come: “colpito!” Oppure: “l’ho ben meritato!”
La parte dei bastioni che si estendeva dall’angolo del porto fino al rialzo delle cisterne fu rasa al
suolo. Allora gli abitanti di Malqua si trovarono stretti fra la vecchia cinta di Byrsa alle spalle e i
Barbari di fronte. Ma da fare se ne aveva già abbastanza ad ingrossare la muraglia e ad innalzarla il
più possibile perché ci si curasse di loro; furono abbandonati; perirono tutti; e sebbene fossero
generalmente odiati, si provò per Amilcare un grande orrore.
L’indomani, aprì le fosse dove teneva il frumento; i suoi intendenti lo regalarono al popolo, che
per tre giorni se ne ingozzò.
Il risultato fu che la sete si fece intollerabile; e sempre avevano davanti agli occhi la lunga cascata
che l’acqua limpida formava cadendo dall’acquedotto. Sotto i raggi del sole, un vapore fine risaliva
dalla sua base con a fianco un arcobaleno, e un piccolo ruscello, serpeggiando sulla spiaggia,
andava a versarsi nel golfo.
Amilcare non si scoraggiava. Contava su un evento, qualcosa di decisivo, di straordinario.
I suoi stessi schiavi strapparono le lamine d’argento dal tempio di Melqart, si fecero uscire dal
porto quattro lunghe imbarcazioni, per mezzo di argani le si trascinò sino ai piedi dei Mappali, il
muro che dava sulla spiaggia fu perforato; e quelle partirono per le Gallie, per acquistarvi, non
importa a che prezzo, dei Mercenari. Intanto Amilcare era desolato di non poter comunicare con il
re dei Numidi, giacché lo sapeva alle spalle dei Barbari, pronto a piombare su di loro. Ma Narava
troppo debole, non osava arrischiarsi da solo; e il Suffeta fece alzare il bastione di dodici spanne,
ammassare sull’Acropoli tutto il materiale degli arsenali e ancora una volta riparare le macchine.
Ci si serviva, per gli attorcigliamenti delle catapulte, dei tendini presi dal collo dei tori oppure dai
garretti dei cervi. Però, non c’erano in Cartagine ne cervi ne tori. Amilcare chiese agli Anziani i
capelli delle loro donne; tutte li sacrificarono; la quantità non fu sufficiente. Negli edifici dei Sissizi
c’erano milleduecento schiave nubili, di quelle che venivano destinate alla prostituzione in Grecia e
in Italia, e i loro capelli, resi elastici dall’uso degli unguenti, erano perfetti per le macchine da
guerra. Ma il danno in seguito sarebbe stato troppo considerevole. Dunque, fu deciso di scegliere,
tra le spose dei plebei, le capigliature più belle. Senza darsi pensiero alcuno per le necessità della
patria, quelle gridarono per la disperazione quando i servitori dei Cento giunsero, armati di forbici,
a metter loro le mani addosso.
Un raddoppiato furore animava i Barbari. Li si vedeva da lontano estrarre il grasso dai morti per
oliare le loro macchine, ed altri ne strappavano le unghie che poi cucivano una ad una per farsi delle
corazze. Idearono di mettere nelle catapulte vasi pieni di serpenti cacciati dai Negri; le pentole
d’argilla si spezzavano sul lastricato, i serpenti correvano all’intorno, sembravano pullulare, e, tanto
erano numerosi, uscire spontaneamente dai muri. Poi, i Barbari, scontenti della loro trovata, la
perfezionarono; lanciavano ogni sorta di immondizie, escrementi umani, pezzi di carogna, cadaveri.
Ricomparve la peste. Ai Cartaginesi cadevano i denti di bocca, e avevano le gengive scolorite come
quelle dei cammelli dopo un viaggio troppo lungo.
Le macchine furono innalzate sul terrapieno, benché non raggiungesse ancora dappertutto
l’altezza del bastione. Davanti alle ventitre torri delle fortificazioni si alzavano altre ventitre torri di
legno. Tutti i tollenoni erano in azione, e nel mezzo, un po’ più arretrata, si levava la formidabile
elepoli di Demetrio Poliorcete, che Spendio, infine, aveva ricostruito. Piramidale come il faro di
Alessandria, era alta centotrenta cubiti e larga ventitre, con nove piani che andavano rimpicciolendo
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verso la sommità ed erano corazzati con lastre di bronzo, bucati da numerose aperture, colmi di
soldati; sulla piattaforma superiore si rizzava una catapulta affiancata da due baliste.
Allora Amilcare fece piantare delle croci per quelli che avessero parlato d’arrendersi; le donne
stesse furono arruolate. Si dormiva nelle strade, immersi in un’attesa colma di angosce.
Poi un mattino, un po’ prima del levar del sole, era il settimo giorno del mese di Nyssan, udirono
un forte grido cacciato da tutti i Barbari insieme; le trombe dal tubo di piombo rimbombavano, i
grandi corni di Paflagonia muggivano come tori. Tutti si alzarono e corsero al bastione.
Una foresta di lance, di picche e di spade si alzava alla sua base. Si scagliò contro le mura; le
scale vennero posate; e, nelle aperture fra i merli, apparvero delle teste di Barbari.
Le travi, sostenute da lunghe file di uomini, battevano contro le porte; e, nei punti dove mancava
il terrapieno, i Mercenari, per demolire il muro, arrivavano in coorti serrate, con la prima linea
accovacciata, la seconda con le ginocchia piegate, e le altre che in successione si drizzavano, fino
alle ultime completamente erette; mentre altrove, per dar l’assalto, i più alti avanzavano in testa, i
più bassi in coda, e tutti, col braccio sinistro, appoggiavano sui caschi i loro scudi unendoli per il
bordo così strettamente, che si sarebbe detta una riunione di grandi tartarughe. I proiettili
scivolavano su quelle masse oblique.
I Cartaginesi lanciavano macine di mulino,, magli, tini, barili, letti, tutto ciò che poteva far peso
ed ammazzare. Alcuni aspettavano nei varchi con una rete da pescatore, e quando arrivava il
Barbaro, si trovava preso nelle maglie e si dibatteva come un pesce. Demolivano essi stessi le
proprie merlature; ali di muro crollavano sollevando una gran polvere; e, siccome le catapulte del
terrapieno tiravano le une contro le altre, i proiettili cozzavano tra loro, e scoppiavano in mille pezzi
ricadendo a pioggia sui combattenti.
Ben presto le due turbe non formarono più che una grossa catena di corpi umani, che straripava
negli intervalli del terrapieno, e, un po’ più dispersa ai due capi, si arrotolava continuamente su sé
stessa senza mai avanzare. Si avvinghiavano stesi ventre a terra come dei lottatori. Si schiacciavano.
Le donne chine sulle merlature urlavano. Venivano afferrate per i veli, e la bianchezza dei loro
fianchi, improvvisamente scoperti, splendeva fra le braccia dei Negri che vi affondavano i pugnali.
Dei cadaveri, troppo stretti nella ressa, non cadevano a terra; sostenuti per le spalle dai loro
compagni, proseguivano qualche tempo in piedi con gli occhi sbarrati. Alcuni, che avevano le due
tempie trapassate da una verretta, dondolavano la testa come orsi. Delle bocche aperte per gridare
restavano spalancate; delle mani tagliate volavano via. Si videro, in quella circostanza, azioni
straordinarie, delle quali parlarono per lungo tempo coloro che sopravvissero.
Nel frattempo, le frecce zampillavano dalla sommità delle torri di legno e delle torri di pietra. I
tollenoni movevano con rapidità le loro lunghe antenne, e siccome i Barbari avevano saccheggiato
sotto le Catacombe l’antico cimitero degli autoctoni, lanciavano sui Cartaginesi delle lastre tombali.
Sotto il carico troppo pesante delle ceste, a volte i cavi si tranciavano, e masse d’uomini con le
braccia levate al cielo cadevano nel vuoto.
Fino a metà giornata, i veterani degli opliti si erano accaniti contro la Tenia, per penetrare nel
porto e distruggere la flotta. Amilcare diede ordine di accendere sul tetto di Khamon un fuoco di
paglia umida; poiché il fumo li accecava, ripiegarono sulla sinistra e andarono ad aumentare la
tremenda calca che si spingeva dentro Malqua. Alcuni sintagmi, composti da uomini robusti scelti
apposta per la bisogna, avevano sfondato tre porte. Degli alti sbarramenti, fatti con tavole munite di
chiodi, li fermarono; una quarta cedette facilmente; si slanciarono oltre correndo, e rotolarono in
una fossa ove erano state nascoste delle trappole. All’angolo sud-est, Autarito e i suoi uomini
demolirono il bastione, che aveva un varco tappato con dei mattoni. Dietro, il terreno saliva; lo
scalarono rapidamente. Ma in alto trovarono una seconda muraglia, composta di pietre e di lunghe
travi stese orizzontalmente, che si alternavano come i pezzi di una scacchiera. Era un metodo
gallico adattato dal Suffeta al bisogno della situazione; i Galli si credettero innanzi ad una città del
loro paese. Attaccarono fiaccamente e furono respinti.
Dalla via di Khamon fino al Mercato delle erbe, ora tutto il cammino di ronda apparteneva ai
Barbari, e i Sanniti finivano a colpi di spiedo i moribondi; oppure, con un piede sul muro,
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contemplavano in basso, sotto di loro, le rovine fumanti, e in lontananza la battaglia che
ricominciava.
I frombolieri, distribuiti nelle retrovie, non smettevano di lanciare. Ma, logorato dall’uso,
l’elastico delle fionde acarnane si spezzava, e molti, com’è uso tra i pastori, tiravano ciottoli con le
mani; altri lanciavano palle di piombo con il manico delle sferze. Zarza, con le spalle coperte dai
suoi lunghi capelli neri, scattando accorreva ovunque e trascinava i Baleari. Due tascapani erano
appesi ai suoi fianchi; egli vi tuffava di continuo la mano sinistra e il suo braccio destro girava come
la ruota d’un carro.
Mato in un primo momento s’era trattenuto dal combattere, per meglio comandare tutti i Barbari
contemporaneamente. Lo si era visto lungo il golfo con i Mercenari, nei pressi della laguna coi
Numidi, sulle rive del lago tra i Negri, e dal fondo della pianura spingeva le masse dei soldati che
senza posa si gettavano contro la linea delle fortificazioni. Poco a poco s’era ravvicinato; l’odore
del sangue, lo spettacolo della carneficina e lo strepito delle chiarine avevano finito per fargli
sobbalzare il cuore. Allora era rientrato nella sua tenda, e, liberatosi della corazza, aveva indossato
la sua pelle di leone, più comoda per combattere. Il muso, adattandosi alla testa, gli incorniciava il
viso con una corona di zanne; le due zampe anteriori si incrociavano sul petto, e quelle posteriori
allungavano i loro artigli fin sotto i ginocchi.
Aveva tenuto il suo robusto cinturone, su cui luccicava una scure a doppio taglio, e con la sua
grande spada nelle mani si era precipitato attraverso la breccia, impetuosamente. Come un potatore
che taglia i rami d’un salice, e che si adopera ad abbatterne il maggior numero possibile per
guadagnare più denaro, avanzava falciando i Cartaginesi che gli stavano intorno. Quelli che
tentavano di afferrarlo ai fianchi, li rovesciava a colpi d’impugnatura; quando lo attaccavano di
fronte, li trafiggeva; se fuggivano, li colpiva di taglio. Due uomini insieme gli saltarono sulla
schiena; indietreggiò con un balzo e li schiacciò contro una porta. La sua spada si abbassava, si
alzava. Andò in pezzi contro l’angolo d’un muro. Allora prese la pesante ascia, e andava sventrando
intorno a sé i Cartaginesi come fossero un gregge di pecore. Quelli si tenevano sempre più alla larga,
ed egli giunse tutto solo davanti alla seconda cinta, ai piedi dell’Acropoli. Il materiale lanciato
dall’alto impediva il cammino e debordava fin sopra la muraglia. Mato, nel mezzo delle rovine, si
volse a chiamare i suoi compagni.
Scorse i loro pennacchi disseminati sulla moltitudine: sprofondavano; stavano per soccombere; si
slanciò verso loro; allora l’ampia corona di piume rosse si rinserrò, ben presto si riavvicinarono e lo
circondarono. Ma dalle vie laterali si riversava una gran folla. Fu preso per i fianchi, sollevato, e
trascinato fin fuori il bastione, in un punto ove il terrapieno era alto.
Mato urlò un ordine: tutti gli scudi si raccolsero sui caschi. Egli vi saltò sopra, alfine di trovare un
qualche appiglio che gli permettesse di rientrare in Cartagine; e, sempre impugnando la terribile
scure, correva sugli scudi, simili a delle onde di bronzo, come un dio marino che corre sui flutti
scuotendo il suo tridente.
Frattanto un uomo vestito d’una tunica bianca camminava sul bordo del bastione, impassibile e
indifferente alla morte che lo circondava. A volte stendeva la mano destra al di sopra degli occhi
alla ricerca di qualcuno. Mato venne a passare sotto di lui. Di colpo le sue pupille fiammeggiarono;
la sua faccia livida si contrasse; e gli gridava delle ingiurie levando le braccia al cielo.
Mato non le udì; ma si sentì trafitto da uno sguardo tanto crudele e furente che gli sfuggì un
ruggito. Lanciò verso quello la sua lunga lancia; degli uomini si gettarono su Shahabarim; e Mato,
non vedendolo più, cadde all’indietro, sfinito.
Uno cigolio spaventoso si avvicinava, unito ad un suono di voci roche che cantavano in cadenza.
Era la grande elepoli, circondata da una folla di soldati. La tiravano a due mani, alavano con le
corde e spingevano di spalla; perché il pendio, che saliva dalla spianata sul terrapieno, benché fosse
estremamente dolce, era disagevole per delle macchine d’un peso prodigioso. Eppure aveva otto
ruote cerchiate di ferro, e fin dal mattino avanzava così, lentamente, come una montagna che si
fosse elevata su un’altra. Poi spuntò dalla sua base un gigantesco ariete, le aperture sui tre lati rivolti
alla città caddero, e nell’interno apparvero, simili a colonne di ferro, dei soldati corazzati. Se ne
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vedevano arrampicare e discendere le due scale che attraversavano i suoi piani. Alcuni attendevano
per lanciarsi fuori che i ganci delle porte toccassero il muro; nel mezzo della piattaforma superiore,
le matasse delle baliste si avvolgevano, e il grande timone della catapulta si abbassava.
Amilcare era, in quel momento, in piedi sul tetto di Melqart. Aveva valutato che l’elepoli doveva
venire direttamente verso di lui, contro il punto ove la muraglia era più invulnerabile, e a causa di
ciò sguarnito di sentinelle. Già da lungo tempo i suoi schiavi trasportavano degli otri sul cammino
di ronda, dove avevano alzato, con l’argilla, due muri di tramezzo che formavano una specie di
vasca. L’acqua colava impercettibilmente sul terrapieno, e Amilcare, fatto strano, non sembrava
affatto inquietarsene.
Ma quando la macchina fu a circa trenta passi, ordinò di disporre delle tavole sopra le strade, di
traverso tra le case, dalle cisterne fino al bastione; e degli uomini messi infila si passavano, di mano
in mano, caschi e anfore che vuotavano in continuazione.
I Cartaginesi però si indignavano di quell’acqua sprecata. L’ariete demoliva la muraglia;
improvvisamente ne sfuggì un fiotto dalle pietre disgiunte. Allora l’alta mole di bronzo a nove piani,
che conteneva e impegnava più di tremila soldati, cominciò pian piano ad oscillare come una nave.
In effetti, l’acqua, penetrando nel terrapieno, aveva scavato il percorso dell’elepoli; le sue ruote si
impantanarono; al primo piano, tra i teloni di cuoio, apparve la testa di Spendio che soffiava a pieni
polmoni in una cornetta d’avorio. La grande macchina, come in preda ad una convulsione, avanzò
forse di dieci passi; ma il terreno si faceva sempre più cedevole, il fango raggiungeva gli assali e
l’elepoli si arrestò inclinandosi paurosamente da un lato. La catapulta rotolò fino al bordo della
piattaforma; e, trascinata dal carico del timone, cadde fracassando i piani inferiori. I soldati, in piedi
davanti alle aperture, scivolarono nel vuoto, oppure si aggrappavano all’estremità delle lunghe travi,
aumentando con il loro peso l’inclinazione dell’elepoli, che si smembrava scricchiolando in tutte le
sue giunture.
Gli altri Barbari si slanciarono per soccorrerli. Si ammucchiavano in una massa compatta. I
Cartaginesi scesero dal bastione, e assalendoli alle spalle, li uccisero senza fatica. Ma accorsero i
carri muniti di falci. Galoppavano al margine di quella moltitudine; essa risalì la muraglia;
sopravvenne la notte; poco a poco i Barbari si ritirarono.
Non si vedeva altro sulla pianura che una sorta di formicolio nero, dal golfo bluastro sino alla
laguna tutta bianca; e il lago, nel quale era colato del sangue, si stendeva, più lontano, come un
grande mare color porpora.
Il terrapieno ora era così carico di cadaveri che lo si sarebbe creduto edificato con dei corpi umani.
Nel mezzo si drizzava l’elepoli rivestita di armature; e, di tanto in tanto, se ne staccavano degli
enormi frammenti come pietre da una piramide che crolla. Sulle mura si distinguevano delle larghe
striature fatte dalle colate di piombo. Qua e là, bruciava una torre di legno; e le case apparivano
indistintamente, simili a gradinate d’un anfiteatro in rovina.
Un fumo denso saliva, sollevando turbini di scintille che si perdevano nel cielo nero.
Nel frattempo i Cartaginesi, divorati dalla sete, s’erano precipitati alle cisterne. Ne fracassarono le
porte. Sul fondo si allargava una pozzanghera melmosa.
Che fare ora? Per altro i Barbari erano innumerevoli, e una volta riavutisi dalla fatica, avrebbero
ricominciato.
Il popolo, per tutta la notte, deliberò diviso in gruppi agli angoli delle strade. Gli uni sostenevano
che bisognasse allontanare le donne, i malati e i vecchi; gli altri proposero d’abbandonare la città
per stabilirsi lontano in una colonia. Ma non v’erano navi, e venne l’alba che non s’era deciso nulla.
Quel giorno non si combatté affatto, essendo tutti troppo sfiniti. I dormienti avevano l’aspetto di
cadaveri.
A quel punto i Cartaginesi, riflettendo sulla causa delle loro sventure, si ricordarono di non aver
spedito in Fenicia l’offerta annuale dovuta a Melqart Tirio; e furono colti da grande spavento. Gli
Dei, indignati contro la Repubblica, si stavano certamente vendicando.
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Venivano considerati come dei padroni crudeli, che si placavano con le suppliche e si lasciavano
corrompere a forza di regali. Tutti soggiacevano a Moloch il divoratore. La vita, la carne stessa
degli uomini gli apparteneva; infatti, per averla salva, era costume dei Cartaginesi di offrirgliene
una porzione che calmasse la sua collera. Si bruciavano i bambini sulla fronte o sulla nuca con degli
stoppini di lana; e poiché quel modo di soddisfare il Baal fruttava ai sacerdoti un mucchio di
quattrini, essi non mancavano di raccomandarlo come il più agevole e il meno doloroso.
Ma questa volta si trattava della Repubblica stessa. Orbene, dovendo ogni profitto essere
compensato da una qualsivoglia perdita, regolandosi ogni transazione sul bisogno del più debole e
sull’esigenza del più forte, nessun dolore era abbastanza grande per soddisfare il Dio, poiché egli si
compiaceva dei più terribili ed ora si era alla sua mercé. Occorreva dunque saziarlo interamente. Gli
esempi dimostravano che quello specifico mezzo costringeva il flagello a scomparire. D’altra parte,
credevano che un sacrificio col fuoco avrebbe purificato Cartagine. La ferocia del popolo ne era
allettata in anticipo. Inoltre la scelta sarebbe caduta esclusivamente sulle grandi famiglie.
Gli Anziani si riunirono in assemblea. La seduta fu lunga. Annone vi si era recato. Siccome non
poteva più sedersi, restò sdraiato vicino alla porta, seminascosto tra le frange degli alti drappeggi; e
quando il pontefice di Moloch chiese il loro assenso a consegnare i propri figlioletti, la sua voce,
improvvisamente, proruppe dall’ombra come il ruggito d’un Genio dal fondo di una caverna.
Diceva di rimpiangere di non averne da donare del suo stesso sangue; e scrutava Amilcare, di fronte
a lui all’altro capo della sala. Il Suffeta fu talmente turbato da quello sguardo che abbassò gli occhi.
Tutti, uno ad uno, approvarono annuendo col capo; e, come esigeva il rito, Amilcare dovette
rispondere al gran sacerdote:
- Si, così sia - Allora gli Anziani decretarono il sacrificio usando la tradizionale perifrasi; perché vi
son cose più imbarazzanti a dirsi che a farsi.
La decisione, quasi subito, si riseppe in Cartagine; la città risonò di lamenti. Ovunque si udivano
le donne gridare; i loro mariti le consolavano o le strapazzavano rimproverandole.
Ma tre ore dopo, si sparse una notizia ancor più straordinaria: il Suffeta aveva trovato delle
sorgenti ai piedi della falesia. Vi si accorse. Alcune buche scavate nella sabbia lasciavano vedere
dell’acqua; e già alcuni stesi ventre a terra vi bevevano.
Amilcare non sapeva lui stesso se la sua scoperta fosse dovuta ad un consiglio degli Dei o al vago
ricordo d’una rivelazione che suo padre un tempo gli avrebbe fatto; ma, dopo aver lasciato gli
Anziani, era sceso alla spiaggia, e con i suoi schiavi s’era messo a scavare la rena.
Regalò abiti, calzature e vino. Regalò il resto del frumento che custodiva nella sua casa. Fece
anche entrare il volgo nel suo palazzo, e aprì le cucine, i magazzini e tutte le stanze; eccettuata
quella di Salammbô. Annunciò che seimila Mercenari galli stavano per giungere, e che il re di
Macedonia inviava dei soldati.
Ma dal secondo giorno le sorgenti ridussero la portata; e la sera del terzo erano completamente
asciutte. Allora il decreto degli Anziani circolò di nuovo su tutte le bocche e i sacerdoti di Moloch
cominciarono il loro lavoro.
Degli uomini vestiti di nero si presentarono nelle case. Molti ne erano usciti prima col pretesto
d’un affare o la scusa che andavano ad acquistare delle ghiottonerie; i servitori di Moloch
sopraggiungevano e prelevavano i fanciulli. Altri, come ebeti, li consegnavano da sé. Poi venivano
condotti nel tempio di Tanit, dove le sacerdotesse erano incaricate di nutrirli e di distrarli fino al
giorno solenne.
Arrivarono da Amilcare all’improvviso, e lo trovarono nei suoi giardini:
- Barca! Veniamo per la cosa che sai…tuo figlio! – Aggiunsero che alcuni l’avevano incontrato una
sera dell’altra luna, nel centro dei Mappali, scortato da un vecchio.
Dapprima fu come gli mancasse l’aria. Ma ben presto comprendendo che negarlo sarebbe servito
a niente, Amilcare si persuase, e li introdusse nella casa di commercio. Alcuni schiavi accorsi ad un
suo cenno ne sorvegliavano i dintorni.
Entrò nella camera di Salammbô in preda all’agitazione. Afferrò con una mano Annibale, con
l’altra un nastro che pendeva da una veste, legò i suoi piedi e le sue mani, ne passò l’estremità nella
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sua bocca per farne un bavaglio e lo nascose sotto il letto di pelli di bue, lasciando ricadere sino a
terra un ampio drappeggio.
In seguito passeggiò avanti e indietro; sollevava le braccia, girava in tondo, si mordeva le labbra.
Poi si immobilizzò con lo sguardo fisso e il fiato corto come se stesse per morire.
Ma batté tre volte con le mani. Apparve Giddenem.
- Ascolta! – disse – Va a prendere tra gli schiavi un bambino maschio di otto o nove anni con i
capelli neri e la fronte sporgente! Portalo qui! Svelto!
Ben presto Giddenem ritornò portando un ragazzino.
Era un povero bimbo, magro e col ventre gonfio; la sua pelle aveva il medesimo colore grigiastro
dello lurido cencio che gli cadeva sui fianchi; teneva la testa infossata tra le spalle, e col rovescio
della mano si sfregava gli occhi, coperti di mosche.
Come lo si sarebbe mai potuto scambiare per Annibale! E mancava il tempo per sceglierne un
altro! Amilcare guardava Giddenem; avrebbe voluto strangolarlo.
- Vattene! – gridò; il capo degli schiavi se ne scappò via.
La sciagura che temeva da lungo tempo era dunque sopraggiunta, ed egli cercava con uno sforzo
smisurato se non vi fosse una maniera, un mezzo di sfuggirvi.
Abdalonim, all’improvviso, parlò dietro la porta. Si chiedeva del Suffeta. I servitori di Moloch si
impazientivano.
Amilcare trattenne un grido, come per la scottatura d’un ferro rovente; e di nuovo riprese a
percorrere la camera tal quale un insensato. Poi si accasciò a lato della balaustra e, i gomiti sulle
ginocchia, stringeva le tempie fra i due pugni chiusi.
La vasca di porfido conteneva ancora un po’ d’acqua pulita per le abluzioni di Salammbô.
Malgrado la ripugnanza e l’orgoglio, il Suffeta vi immerse il bambino, e, come un mercante di
schiavi, si mise a lavarlo e a sfregarlo con le spazzole e la terra rossa. Prese poi dalle scansie attorno
alla parete due quadrati di porpora, gliene mise uno sul torace, l’altro sulla schiena, e li giuntò sulle
clavicole con due fibbie di diamanti. Gli versò del profumo sul capo; passò attorno al suo collo una
collana d’ambra, e lo calzò con dei sandali con il tacco di perle; i sandali stessi di sua figlia! Ma
tremava per l’onta e lo sdegno; Salammbô, che si affaccendava a servirlo, era pallida quanto lui. Il
bambino sorrideva, abbagliato da tanta magnificenza, e viepiù rincorandosi, cominciava a battere le
mani e a saltare quando Amilcare lo trascinò via.
Lo teneva per il braccio saldamente, come avesse paura di perderlo; e il bambino, al quale faceva
male, piangeva un poco correndogli accanto.
All’altezza dell’ergastolo, sotto una palma, si levò una voce lamentosa e supplichevole.
Mormorava:
- Padrone! Oh, Padrone!
Amilcare si voltò, e scorse accanto a sé un uomo dall’aspetto infimo, uno di quei miserabili che
vivevano alla stregua di parassiti nella casa.
- Cosa vuoi? - disse il Suffeta.
Lo schiavo, che tremava orribilmente, balbettò:
- Sono suo padre!
Amilcare continuava a camminare; l’altro lo seguiva, la schiena curva, le ginocchia piegate, la
testa in avanti. Il suo volto era alterato da un’indicibile angoscia, e aveva un tal desiderio di
interrogarlo e al contempo di gridargli: “Grazia!”, che i singhiozzi, trattenuti, lo soffocavano.
Infine osò toccarlo con un dito, sul gomito, leggermente.
- Lo conduci forse…? – non ebbe la forza di terminare, e Amilcare si arrestò, stupito di quel dolore.
Non aveva mai pensato, tanto l’abisso che li separava era grande, che ci potesse mai essere tra
loro qualcosa in comune. L’idea stessa gli parve una specie d’oltraggio, e come un’usurpazione dei
suoi privilegi. Rispose con uno sguardo più freddo e più tagliente che la scure d’un boia; lo schiavo,
tramortito, cadde nella polvere ai suoi piedi. Amilcare lo scavalcò.
I tre uomini vestiti di nero l’attendevano nella grande sala, in piedi di fronte al disco di pietra.
Immediatamente egli si lacerò le vesti, e si rotolava sul pavimento levando grida acute:
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- Ah! Povero piccolo Annibale! Oh! Figlio mio! Mia consolazione! Mia speranza! Vita mia!
Uccidete anche me! Portatemi via! Che sciagura! Che sciagura! – Si straziava il viso con le unghie,
si strappava i capelli e urlava come le prefiche dei funerali – Portatelo via dunque! Soffro troppo!
Andatevene! Uccidetemi con lui! – I servitori di Moloch si stupivano che il grande Amilcare avesse
un cuore così tenero. Ne erano quasi commossi.
Si intese un rumore di piedi nudi accompagnato da un rantolio spezzato, simile al respiro d’una
bestia feroce che accorresse; e sulla soglia della terza galleria, tra gli stipiti d’avorio, comparve un
uomo, livido, terribile, le braccia spalancate; gridò:
- Figlio mio!
Amilcare, con un balzo, si era gettato sullo schiavo; e coprendogli la bocca con le mani, gridava
ancora più forte:
- E' il vecchio che l’ha cresciuto! Lo chiama figlio mio! Ne impazzirà! Basta! Basta! – E,
sospingendo per le spalle i tre sacerdoti e la loro vittima, uscì con essi, e con un calcio richiuse la
porta alle proprie spalle.
Amilcare tese l’orecchio per qualche minuto, sempre temendo di vederli ritornare. Pensò poi di
liberarsi dello schiavo per essere sicuro che non parlasse; ma il pericolo non era scongiurato, e
quella morte, se gli Dei se ne sdegnavano, poteva rivoltarsi contro suo figlio. Allora cambiando
parere, gli inviò per mezzo di Taanach le cose migliori delle sue cucine: un quarto di becco, delle
fave, e delle conserve di melagrana. Lo schiavo, che non mangiava da tanto tempo, vi si avventò
sopra; le sue lacrime cadevano nei piatti.
Amilcare, finalmente tornato da Salammbô, sciolse i legacci di Annibale. Il bambino esasperato,
lo morse alla mano sino a farlo sanguinare. Egli lo respinse con una carezza.
Per farlo star quieto, Salammbô volle spaventarlo con Lamia, un’orchessa di Cirene.
- Dov’è? – egli chiese.
Gli si raccontò che stavano venendo i briganti per imprigionarlo. Egli replicò:
- Che vengano pure, li ammazzo!
Amilcare allora gli disse la spaventosa verità. Ma egli si adirò contro il padre, il quale poteva ben
annientare l’intero popolo, poiché era il padrone di Cartagine.
Infine, spossato dagli sforzi e dalla collera, s’addormentò d’un sonno agitato. Sognando parlava,
la schiena appoggiata contro un cuscino di scarlatto; la testa gli ricadeva un po’ indietro, e il piccolo
braccio, staccato dal corpo, stava dritto in una posa di comando.
Quando la notte divenne nera, Amilcare lo sollevò dolcemente e scese senza fiaccola la scalinata
delle galee. Passando per la casa di commercio, prese un cesto d’uva insieme ad una brocca d’acqua
pura; il bambino si risvegliò davanti alla statua di Alete, nel sotterraneo delle pietre preziose; e
sorrideva, come l’altro, tra le braccia di suo padre, al bagliore delle luci che lo circondavano.
Amilcare era oramai certo che non si poteva sottrargli il figlio. Quello era un luogo impenetrabile,
comunicante con la spiaggia attraverso un cunicolo segreto che lui solo conosceva, e, guardandosi
attorno, tirò un gran sospiro di sollievo. Poi lo depose su uno sgabello, vicino agli scudi d’oro.
In quel momento non lo vedeva nessuno; non aveva più nulla di cui preoccuparsi; allora si lasciò
andare. Come una madre che ritrovi il suo primogenito perduto, si gettò sul figlio; se lo stringeva al
petto, rideva ed insieme piangeva, lo chiamava con i nomi più dolci, lo copriva di baci; il piccolo
Annibale, spaventato da quella tenerezza straordinaria, non parlava più.
Amilcare ritornò a passi muti, tastando i muri intorno a lui; e giunse nella grande sala, ove la luce
della luna entrava da un’apertura della cupola; nel mezzo, lo schiavo, sazio di cibo, dormiva
allungato sul pavimento di marmo. Lo guardò, e una specie di pietà lo commosse. Con la punta
dello stivale, gli avvicinò un tappeto sotto il capo. Poi sollevò gli occhi a considerare Tanit, la cui
falce sottile brillava nel cielo, e si sentì più forte dei Baal e pieno di disprezzo per loro.
I preparativi per il sacrificio erano già iniziati. Nel tempio di Moloch venne abbattuta un’ala di
muro per farne uscire il dio di bronzo, senza toccare le ceneri dell’altare. Poi, da che il sole si levò,
gli ieroduli lo spinsero verso la piazza di Khamon.
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Andava a ritroso, scivolando su dei rulli; le sue spalle superavano l’altezza delle mura; già
vedendolo da lontano, i Cartaginesi si affrettavano a scappare, poiché non si poteva contemplare
impunemente il Baal che nell’esercizio della suo furore.
Un sentore di profumi si sparse per le strade. Contemporaneamente tutti i templi avevano
spalancato le loro porte; ne uscirono i tabernacoli montati su carri o su lettighe portate dai pontefici.
Grossi mazzi di piume dondolavano ai loro angoli, e dei raggi luminosi sfuggivano dai loro fastigi
aguzzi, che avevano in punta delle sfere di cristallo, d’oro, d’argento o di rame.
Si trattava dei Baalim cananei; sdoppiamenti del Baal supremo, che tornavano al loro principio,
per umiliarsi davanti alla sua forza e annientarsi davanti al suo splendore.
Il padiglione di Melqart, in fine porpora, alloggiava una fiamma di petrolio; su quello di Khamon,
color giacinto, si rizzava un fallo d’avorio ornato d’una corona di gemme; tra i tendaggi di Eshmun,
azzurri come il cielo, un pitone addormentato formava un cerchio con la sua coda; e gli Dei Pateci,
tenuti in braccio dai loro sacerdoti, sembravano dei grossi bimbi avvolti nelle fasce, i cui talloni
strisciavano per terra.
Poi seguivano tutte le forme inferiori della divinità: Baal Samin, dio degli spazi celesti; Baal Peor,
dio dei monti sacri; Baal Zebub, dio della corruzione; e quelli dei paesi vicini e delle razze
congeneri: lo Iarbal di Libia; l’Adrammelech di Caldea; il Kijun dei Siri; Derceto, dall’aspetto
virgineo, strisciava sulle sue pinne, e il cadavere di Tammuz era trascinato su di un catafalco,
circondato di fiaccole e di capigliature. Per asservire i re del firmamento al Sole e impedire che le
loro influenze particolari molestassero la sua, si impugnavano delle lunghe pertiche che avevano in
cima delle stelle metalliche di vari colori; e c’erano tutti, dal nero Nebo, genio di Mercurio, fino
all’immondo Rahab, che è la costellazione del Coccodrillo. Gli Abbadir, pietre cadute dalla luna,
giravano nelle fionde fatte con fili d’argento; dei piccoli pani, che riproducevano il sesso femminile,
erano portati dentro canestri dai sacerdoti di Cerere; altri recavano i loro feticci, i loro amuleti; si
rividero idoli da tempo scomparsi; ed vennero pure tolti alle navi i loro simboli mistici, come se
Cartagine avesse voluto raccogliersi tutta quanta in un pensiero di morte e di desolazione.
Davanti a ciascun tabernacolo, un uomo teneva in equilibrio sul capo un largo vaso nel quale
fumava dell’incenso. Qua e là si libravano delle nuvole, e tra questi densi vapori comparivano i
drappeggi, i pendenti di cristallo e gli ornamenti dei padiglioni sacri. Questi avanzavano lentamente
a causa del loro enorme peso. Il mozzo dei carri a volte si incagliava nella strettoia d’una strada,
allora i devoti ne approfittavano per toccare i Baalim con le proprie vesti, che in seguito
conservavano come reliquie.
La statua di bronzo continuava ad avanzare verso la piazza di Khamon. I Ricchi, portando scettri
col pomo di smeraldo, partirono dal fondo di Megara; gli Anziani, con il capo coronato da diademi,
s’eran riuniti nel quartiere di Kinisdo, e i finanzieri, i governatori delle province, i mercanti, i
soldati, i marinai e la numerosa orda dei necrofori, tutti con le insegne del loro ufficio o gli
strumenti del loro mestiere, si dirigevano incontro ai tabernacoli che discendevano l’Acropoli tra i
collegi dei pontefici.
Per deferenza verso Moloch, erano adorni dei loro gioielli più splendidi. I diamanti lucevano sulle
nere vesti, ma gli anelli, troppo larghi, cadevano dalle dita smagrite; e niente era tanto lugubre
quanto quella folla silenziosa dove gli orecchini danzavano sui volti smunti e le tiare d’oro
serravano le fronti segnate da un’atroce disperazione.
Finalmente il Baal giunse proprio nel centro della piazza. I suoi pontefici, con delle grate,
disposero un recinto per tener discosta la folla, e restarono intorno a lui, ai suoi piedi.
I sacerdoti di Khamon, in vesti di lana rossa, s’allinearono davanti al loro tempio, sotto il
colonnato del portico; quelli di Eshmun in mantelli di lino, collari a testa di cucufa e tiare aguzze, si
stabilirono sui gradini dell’Acropoli; i sacerdoti di Melqart, in tuniche violette, presero per sé il lato
d’occidente; i sacerdoti degli Abbadir, stretti in fasce di stoffa frigia, si collocarono ad oriente; e sul
lato meridionale, con i necromanti completamente coperti di tatuaggi, si disposero gli urlatori
avvolti in mantelli rattoppati, i cappellani dei Pateci e gli Ydonim che, per conoscere il futuro, si
mettevano in bocca un osso di morto. I sacerdoti di Cerere, abbigliati con vesti azzurre, s’erano
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fermati, prudentemente, nella via di Satheb, e salmodiavano a voce bassa un tesmoforion in dialetto
megarese.
Di tanto in tanto, arrivavano lunghe file di uomini completamente nudi, che si tenevano l’un
l’altro per le spalle a braccia distese. Traevano dal profondo del loro petto una intonazione roca e
cavernosa; gli occhi, fissi al colosso, brillavano nel polverio, e tutti insieme, ad intervalli regolari,
barcollavano, come scossi da un unico movimento. Erano così agitati che, per ristabilire l’ordine, gli
ieroduli, a colpi di bastone, li fecero distendere ventre a terra con la faccia contro le grate di bronzo.
Fu allora, che dal fondo della piazza, un uomo coperto da una veste bianca si fece innanzi.
Attraversò lentamente la folla e venne riconosciuto per un sacerdote di Tanit, il gran sacerdote
Shahabarim. Si alzarono degli schiamazzi, poiché la tirannia del principio maschile in quei giorni
prevaleva in tutte le coscienze, e la Dea era talmente tenuta in poco conto che non si era neppure
notata l’assenza dei suoi pontefici. Ma lo stupore raddoppiò quando lo si scorse aprire nelle grate
una delle porte destinate a quelli che entravano per offrire le vittime. I sacerdoti di Moloch
credevano si trattasse d’un oltraggio che egli era venuto a fare al loro dio; a forza di
gesti,cercavano di ricacciarlo indietro. Nutriti con le carni degli olocausti, vestiti di porpora come
dei re e con in capo una triplice corona, schernivano quel pallido eunuco estenuato dai digiuni, e
delle risa stizzite scuotevano sui loro petti le nere barbe sciorinate al sole.
Shahabarim, senza rispondere, continuava a camminare; e, attraversando passo a passo tutto il
recinto, giunse sotto le gambe del colosso, poi, allargando le braccia, le toccò entrambe; quel gesto
era una formula solenne di adorazione. Da troppo tempo ormai la Rabbet lo tormentava; e per
disperazione, o forse perché non v’era un dio che soddisfacesse in pieno la sua mente, s’era deciso
infine per quello.
La folla, spaventata da quell’apostasia, liberò un lungo mormorio. Si sentiva spezzarsi l’ultimo
legame che teneva unite le anime ad una divinità clemente.
Ma Shahabarim, a causa della sua mutilazione, non poteva partecipare al culto del Baal. Gli
uomini dal mantello rosso lo esclusero dal recinto; e quando fu all’esterno, vagò intorno a tutti i
collegi successivamente, poi il sacerdote, ormai senza un dio, disparve nella folla. Al suo
avvicinarsi, essa si scostava.
Frattanto un fuoco di aloe, di cedri e di lauri bruciava tra le gambe del colosso. Le sue lunghe ali
affondavano le loro punte nelle fiamme; gli unguenti dei quali era cosparso colavano come sudore
sulle sue membra di bronzo. Intorno alla lastra circolare sulla quale appoggiava i piedi, i bambini,
avvolti in veli neri, formavano un cerchio immobile; e le sue braccia smisuratamente lunghe
abbassavano le palme delle sue mani fino ad essi, come per afferrare quella corona e portarla in
cielo.
I Ricchi, gli Anziani, le donne, tutta la moltitudine si accalcava dietro i sacerdoti e sulle terrazze
delle case. Le grandi stelle colorate non gironzolavano più; i tabernacoli stavano deposti a terra; e le
fumate degli incensieri salivano verticalmente, come giganteschi alberi che allungassero nel mezzo
del cielo i loro rami azzurrognoli.
Molti svennero; altri, nella loro estasi, divennero inerti come pietre. Un’angoscia infinita pesava
su tutti i petti. Gli ultimi clamori, uno ad uno, andavano spegnendosi; e il popolo di Cartagine
respirava a fatica, divorato dal desiderio di ciò che lo spaventava.
Infine, il gran sacerdote di Moloch passò la mano sinistra sotto i veli dei bambini, e strappò dalle
loro fronti una ciocca di capelli che gettò tra le fiamme. Allora gli uomini nei mantelli rossi
intonarono l’inno sacro:
- Omaggio a te, Sole! Re delle due zone, creatore che si procrea, Padre e Madre, Padre e Figlio,
Dio e Dea, Dea e Dio! – E la loro voce si perse nell’esplosione di tutti gli strumenti che suonavano
assieme, per soffocare i gridi delle vittime. Gli sheminith a otto corde, i kinnor, che ne avevano
dieci, e i nebal, che ne avevano dodici, stridevano, sibilavano, tuonavano. Degli enormi otri irti di
canne producevano un acuto rumore di risacca; i tamburelli, battuti a gran forza, risuonavano di
colpi sordi e rapidi; e, malgrado il furore delle trombe, i salsalim schioccavano come ali di locuste.
126
Gli ieroduli, con un lungo ferro ad uncino, aprirono i sette scomparti disposti lungo il corpo del
Baal. Nel più alto, venne introdotta della farina; nel secondo, due tortore; nel terzo, una scimmia;
nel quarto, un montone; nel quinto, una pecora; e, siccome mancava il bue per il sesto, vi si gettò
una pelle conciata presa dal santuario. Il settimo compartimento restava spalancato.
Innanzi tutto, era necessario saggiare le braccia del Dio. Delle sottili catenelle che partivano dalle
sue dita ne raggiungevano le spalle e ridiscendevano dietro, dove alcuni uomini, tirandole, facevano
salire, sino all’altezza dei gomiti, le sue due mani aperte che, riavvicinandosi, arrivavano contro il
suo ventre; esse si mossero più volte di seguito, a piccoli scatti interrotti. Poi gli strumenti tacquero.
Il fuoco ronfava.
I pontefici di Moloch andavano avanti e indietro sulla grande lastra, osservavano la folla.
Era necessario un sacrificio individuale, un’oblazione del tutto volontaria, che avrebbe trascinato
con sé tutte le altre. Ma, sino a quel momento, non s’era fatto avanti nessuno, e i sette corridoi che
conducevano dalle barriere al colosso erano del tutto vuoti. Allora, per incoraggiare il popolo, i
sacerdoti trassero dalle loro cinture dei pungiglioni e si sfregiavano il volto. Si fecero entrare nel
recinto i Consacrati, distesi per terra all’esterno. Venne gettato loro un corredo di orribili ferraglie e
ciascuno scelse la sua tortura. Si trapassavano i seni con degli spilloni; si ferivano le gote; si posero
in capo delle corone di spine; poi si allacciarono per le braccia e, circondando i bambini, formavano
un altro grande cerchio che si contraeva e si allargava. Arrivavano contro la balaustra, si rigettavano
indietro e ricominciavano sempre da capo, attirando la folla con la vertigine di quel movimento
traboccante sangue e gridi.
Poco a poco alcuni avanzarono sino in fondo ai corridoi; lanciavano nelle fiamme perle, vasi
d’oro, coppe, fiaccole, tutte le loro ricchezze; le offerte, via via, crescevano di numero e di valore.
Infine un uomo vacillante, un uomo pallido e stravolto dal terrore, spinse avanti un bambino; poi si
scorse tra le mani del colosso una piccola massa nera che scomparve nella tenebrosa apertura. I
sacerdoti si chinarono sul bordo della grande lastra; ed esplose un nuovo canto, che celebrava le
gioie della morte e della rinascita nell’eternità.
Salivano lentamente, e, siccome il fumo volandosene via formava degli alti vortici, sembravano
da lontano sparire in una nuvola. Non uno che si movesse. Erano legati ai polsi e alle caviglie, e lo
scuro drappeggio li impediva di vedere e di essere visti.
Amilcare, avvolto in un mantello rosso come i sacerdoti di Moloch, stava vicino al Baal, in piedi
davanti al pollice del suo piede destro. Quando fu condotto il quattordicesimo bambino, tutti
poterono accorgersi ch’ebbe un moto d’orrore. Ma subito, riprendendo il suo contegno, incrociò le
sue braccia e guardava per terra. Dall’altro lato della statua, il Gran Pontefice restava immobile
come lui. Chinando la sua testa carica d’una mitria assira, osservava sul proprio petto la placca
d’oro coperta di pietre fatidiche, sulla quale la fiamma, specchiandosi, formava dei bagliori iridati.
Impallidiva, turbato. Amilcare inclinava la fronte; ed erano entrambi così vicini al rogo che la parte
inferiore dei loro mantelli, svolazzando, di tanto in tanto lo sfiorava.
Le braccia di bronzo andavano più svelte. Non si fermavano più. Ogni volta che vi veniva posato
un bambino, i sacerdoti di Moloch stendevano la mano su di lui, per caricarlo dei crimini del popolo,
vociando:
- Non sono uomini questi, ma buoi! – E la moltitudine all’intorno ripeteva:
- Sono buoi! Sono buoi! – I Consacrati gridavano:
- Signore! Mangia! – E i sacerdoti di Proserpina, conformandosi per timore alle esigenze di
Cartagine, borbottavano la formula eleusiaca:
- Versa la pioggia! Partorisci!
Le vittime appena sul bordo dell’apertura scomparivano come gocce d’acqua su una piastra
rovente, e una fumata bianca saliva nel gran riverbero scarlatto.
Ciononostante l’appetito del Dio non si saziava. Ne voleva in continuazione. Per fornirgliene in
abbondanza, li si ammucchiò sulle sue mani, stretti da una grossa catena. All’inizio alcuni devoti
avevano voluto contarli, per vedere se il loro numero corrispondeva ai giorni dell’anno solare; ma
ne vennero aggiunti altri, ed era impossibile distinguerli nel vertiginoso movimento delle orribili
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braccia. Tutto ciò durò a lungo, senza sosta fino a sera. Poi il fulgore delle pareti interne si fece più
scuro. Allora si scorsero delle carni che bruciavano. Alcuni credevano persino di ravvisarvi
capigliature, membra, interi corpi.
Il giorno cadde; delle nuvole si accumularono al di sopra del Baal. Il rogo, ora senza fiamme,
formava una piramide di carboni che giungeva alle sue ginocchia; tutto rosso come un gigante
coperto di sangue, sembrava, con la sua testa arrovesciata, barcollare sotto il peso della propria
ebbrezza.
A misura che i sacerdoti si affrettavano, la frenesia del popolo aumentava; riducendosi il numero
delle vittime, alcuni gridavano che le si lesinasse, altri che ne volevano ancora. Si sarebbe detto che
le mura stracariche di gente fossero sul punto di crollare per le grida d’orrore e di voluttà mistica.
Poi dei fedeli si presentarono nei corridoi trascinando i propri figli che si aggrappavano a loro; e li
picchiavano per levarseli di dosso ed affidarli agli uomini rossi. A volte i suonatori degli strumenti
si arrestavano spossati; allora si udivano le grida delle madri e lo sfrigolio del grasso che cadeva sui
carboni. I bevitori di giusquiamo, camminando a quattro zampe, giravano attorno al colosso e
ruggivano come tigri, gli Ydonim vaticinavano, i Consacrati cantavano con le loro labbra spaccate;
le grate erano state abbattute, ognuno voleva la propria parte nel sacrificio; e i padri i cui figli erano
morti un tempo, gettavano nel fuoco le loro effigi, i loro giocattoli, le loro ossa conservate. Alcuni
che avevano con sé dei coltelli si scagliarono contro altri. Finirono per sgozzarsi a vicenda. Gli
ieroduli, con dei setacci di bronzo, presero dal bordo della lastra le ceneri cadute; e le lanciavano
per aria, perché il sacrificio si sparpagliasse sull’intera città e fin nello spazio stellato.
Quel gran fracasso e quell’intensa luce avevano attirato i Barbari ai piedi delle mura;
aggrappandosi, per veder meglio, ai rottami dell’elepoli, stavano a guardare a bocca aperta,
inorriditi.
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XIV
LA GOLA DELL’ASCIA
I Cartaginesi non erano ancora rientrati nelle loro case, che le nuvole si addensarono ancor più;
quelli che alzavano la testa verso il colosso sentirono sulle loro fronti delle grosse gocce, e la
pioggia cadde.
Cadde tutta la notte, abbondantemente, a catinelle; i tuoni rumoreggiavano; era la voce di Moloch;
aveva sottomesso Tanit; ed ella, finalmente fecondata, apriva dall’alto del cielo il suo vasto seno. A
momenti la si scorgeva, in una schiarita luminosa, distesa su dei cuscini di nuvole; poi le tenebre si
richiudevano, come se, ancora troppo stanca, volesse riprender sonno; i Cartaginesi, credendo
l’acqua generata dalla luna, gridavano per agevolarne il travaglio.
La pioggia batteva sulle terrazze e straripava ovunque, formava dei laghi nei cortili, delle cascate
sulle scalinate, dei mulinelli negli angoli delle strade. Si versava in pesanti masse tiepide e in fitti
raggi; dagli angoli di tutti gli edifici ne zampillavano dei grossi getti schiumosi; contro i muri
v’erano come drappi biancastri vagamente sospesi, e i tetti dei templi, lavati, brillavano in nero al
bagliore dei lampi. Per mille corsi dei torrenti scendevano dall’Acropoli; all’improvviso interi
caseggiati crollavano; e travi, calcinacci, mobili erano trascinati nella corrente che scorreva
impetuosa sul lastricato delle strade.
Erano state esposte anfore, brocche, teloni; ma le torce si spegnevano; si presero dei tizzoni dal
rogo del Baal, e i Cartaginesi, per bere, rovesciavano il collo e spalancavano la bocca. Altri, sul
bordo di pozzanghere fangose, vi tuffavano le braccia fino alle ascelle, e tanto si ingozzavano
d’acqua da vomitarla come bufali. Poco a poco la frescura si spandeva; aspiravano l’aria umida
stirando le membra, e nel piacere di quell’ebbrezza, ben presto crebbe una profonda speranza. Ogni
miseria fu dimenticata. La patria ancora una volta rinasceva.
Sentivano come il bisogno di scaricare su altri l’eccesso di furore che non avevano potuto sfogare
contro sé stessi. Un tal sacrificio non doveva essere vanificato; benché non provassero alcun
rimorso, erano preda di quella frenesia che la complicità in un crimine irreparabile è solita donare.
I Barbari s’erano buscati il temporale nelle loro tende mal chiuse; e l’indomani ancora tutti
intirizziti, si affannavano, sommersi nel fango, cercando le loro munizioni, le loro armi, fradice e
disperse.
Amilcare, di sua iniziativa, andò a trovare Annone; e, avvalendosi dei suoi pieni poteri, gli affidò
il comando della città. Il vecchio Suffeta esitò qualche minuto sospeso tra il proprio rancore e la
propria sete di potere. Infine accettò.
In seguito Amilcare fece uscire una galea armata di una catapulta ad ogni estremità. La collocò
nel golfo di fronte alla zattera; poi imbarcò sulle navi disponibili le sue truppe migliori. Dunque,
egli fuggiva; e navigando a gonfie vele verso nord, scomparve nella bruma.
Ma tre giorni dopo, allorché l’attacco stava per riprendere, arrivarono tumultuosamente degli
abitanti della costa libica. Barca era entrato nel loro territorio. Aveva raccolto viveri ovunque ed ora
penetrava nella regione.
Allora i Barbari si indignarono come se li avesse traditi. I più annoiati dall’assedio, soprattutto i
Galli, non esitarono ad abbandonare le mura per tentare di raggiungerlo. Spendio voleva ricostruire
l’elepoli; Mato s’era tracciato una linea ideale che andava dalla sua tenda fino a Megara, si era
giurato di seguirla; e nessuno dei loro uomini lasciò il proprio posto. Ma gli altri, comandati da
Autarito, se ne andarono, abbandonando la porzione occidentale del bastione. L’incuria era tale che
non si pensò a rimpiazzarli.
Narava li spiava da lontano, nelle montagne. Durante la notte fece passare tutta la sua gente sul
fianco esterno della laguna, per la riva del mare, ed entrò in Cartagine.
Vi si presentò come un salvatore, con seimila uomini, che trasportavano tutti della farina sotto i
mantelli, e quaranta elefanti carichi di foraggi e di carne secca. Intorno a questi si formò subito una
129
folla; ad ognuno venne dato un nome. L’arrivo d’un tal soccorso rallegrò meno i Cartaginesi, che lo
spettacolo di quei vigorosi animali consacrati al Baal; era un pegno del suo affetto, una prova che
finalmente, per difenderli, si accingeva ad occuparsi della guerra.
Narava ricevette i complimenti degli Anziani. Poi salì verso il palazzo di Salammbô.
Non l’aveva più rivista da quella volta, quando, nella tenda di Amilcare, al cospetto delle cinque
armate, aveva sentito contro la propria la sua piccola mano morbida e fredda; dopo la promessa di
matrimonio ella era partita per Cartagine. La sua passione, sviata da altre ambizioni, gli era tornata
prepotente; ed ora egli contava di godere dei propri diritti, di sposarla, di farla sua.
Salammbô non capiva come quel giovane potesse mai divenire il suo padrone! Benché ella
chiedesse a Tanit, ogni giorno, la morte di Mato, il suo orrore per il Libico diminuiva. Sentiva
confusamente che l’odio con il quale l’aveva perseguitata era una cosa quasi religiosa; ed avrebbe
voluto vedere nella persona di Narava come un riflesso di quella violenza che la seduceva ancora.
Ella desiderava conoscerlo più profondamente e ciononostante la sua presenza l’avrebbe messa in
imbarazzo. Gli fece rispondere che era tenuta a non riceverlo.
D’altra parte, Amilcare aveva proibito ai servitori di casa di ammettere alla presenza di Salammbô il
re dei Numidi; ritardando sino alla fine della guerra quella ricompensa, sperava di mantenere salva
la sua devozione; e Narava, per timore del Suffeta, si ritirò.
Ma in compenso di mostrò altero nei confronti dei Cento. Mutò le loro disposizioni. Pretese dei
privilegi per i propri uomini e li collocò nelle postazioni importanti; così i Barbari fecero tanto
d’occhi scorgendo i Numidi sull’alto delle torri.
La sorpresa dei Cartaginesi fu ancora più grande allorché giunsero, su una vecchia trireme punica,
quattrocento dei loro, fatti prigionieri durante la guerra di Sicilia. In effetti, Amilcare aveva
segretamente rimandato ai Quiriti gli equipaggi delle navi latine catturati prima della defezione
delle città tirie; e Roma, per uno scambio di cortesie, ora gli restituiva i suoi prigionieri. Essa,
inoltre, respinse le proposte dei Mercenari in Sardegna, e neppure volle riconoscere come sudditi
gli abitanti di Utica.
Gerone, che reggeva Siracusa, fu trascinato da codesto esempio. Per conservare il suo potere, gli
era necessario un equilibrio tra i due popoli; aveva dunque interesse alla salvezza dei Cananei, e
dichiarò la sua amicizia inviando milleduecento buoi assieme a cinquantatremila nebel di puro
frumento.
V’era poi un motivo più profondo per soccorrere Cartagine: si intuiva che se i Mercenari avessero
trionfato, dal soldato sino al lavapiatti, tutti sarebbero insorti, e nessun governo, nessuna casata vi
avrebbero resistito.
Amilcare, in quel mentre, batteva le campagne orientali. Respinse i Galli e tutti i Barbari si
trovarono a loro volta come assediati.
Allora cominciò a incalzarli. Giungeva all’improvviso, si allontanava, e ripetendo sempre quella
manovra, poco a poco, li distaccò dai loro accampamenti. Spendio si sentì obbligato ad inseguirli;
Mato, alla fine, cedette anche lui.
Non andò oltre Tunisi. Si rinchiuse tra le sue mura. Quell’ostinazione era piena di saggezza;
perché ben presto si scorse Narava uscire dalla porta di Khamon con i suoi elefanti e i suoi soldati;
Amilcare lo chiamava a sé. Ma ormai gli altri Barbari vagavano nelle province alla ricerca del
Suffeta.
Egli aveva ricevuto a Clipea tremila Galli. Fece venire cavalli dalla Cirenaica, armature dal Bruzio,
e ricominciò la guerra.
Mai il suo genio fu così impetuoso e fertile. Per ben cinque lune se li trascinò dietro. Aveva una
meta ove condurli.
Dapprima i Barbari avevano tentato di circondarlo con dei piccoli distaccamenti di soldati;
sfuggiva sempre. Non lo abbandonarono più. La loro armata era di quarantamila uomini, e più di
una volta ebbero la soddisfazione di vedere i Cartaginesi indietreggiare.
130
Ciò che più li tormentava, era la cavalleria di Narava! Spesso, nelle ore più calde, quando
avanzavano nella pianura, semiaddormentati, sotto il peso delle armi, all’improvviso una spessa
striscia di polvere s’alzava all’orizzonte; accorreva un calpestio di cavalli al galoppo, e dal grembo
di una nuvola piena di pupille fiammeggianti, precipitava una pioggia di dardi. I Numidi, coperti di
mantelli bianchi, lanciavano forti gridi, sollevavano le braccia stringendo tra le ginocchia i loro
stalloni impennati, li facevano girare bruscamente, poi sparivano. Ad una certa distanza, sui
dromedari, tenevano sempre una riserva di giavellotti, e ritornavano più terribili, urlavano come lupi,
fuggivano come avvoltoi. Quelli tra i Barbari che stavano all’estremità delle file cadevano uno ad
uno; e si continuava così fino a sera, quando si cercava di penetrare tra le montagne.
Benché queste fossero pericolose per gli elefanti, Amilcare vi si impegnò. Seguì la lunga catena
che si stendeva dal promontorio Ermeo fino alla cima dello Zaguan. I Barbari credevano fosse un
espediente per dissimulare l’insufficienza delle sue truppe. Ma l’incertezza continua nella quale egli
li teneva finiva per esasperarli più di qualunque disfatta. Non si scoraggiavano, e marciavano sui
suoi passi.
Infine, una sera, fra la Montagna d’Argento e la Montagna di Piombo, in mezzo a grossi macigni
all’entrata d’una gola, sorpresero un corpo di veliti; e il resto dell’armata doveva di certo trovarsi
davanti a costoro, perché si udiva un rumore di passi unito agli squilli delle chiarine;
immediatamente i Cartaginesi fuggirono giù per la forra. Scendeva in una piana che aveva la forma
del ferro di un’ascia ed era circondata da alte falesie. I Barbari vi si slanciarono per raggiungere i
veliti; sul fondo, in mezzo a una mandria di buoi al galoppo, altri Cartaginesi correvano
tumultuosamente. Scorsero un uomo dal mantello rosso, si gridavano l’un l’altro che era il Suffeta;
un furore e una gioia incontenibili si impadronirono di loro. Molti, per pigrizia o per prudenza, si
erano arrestati all’entrata della gola. Ma alcuni cavalieri sbucati da un bosco, a colpi di lancia e di
sciabola li spinsero verso gli altri; e ben presto tutti i Barbari si ritrovarono in basso, nella piana.
Quella gran massa d’uomini, dopo aver ondeggiato qualche tempo, si arrestò; non trovavano
l’uscita.
Quelli che erano più vicini alla gola tornarono indietro; ma il passaggio era scomparso senza
lasciar traccia. Gridarono ai compagni davanti per farli continuare; quelli si schiacciavano contro la
montagna, e da lontano insultarono gli altri che non sapevano ritrovare la strada.
In effetti, non appena i Barbari erano discesi, alcuni uomini accovacciati dietro i massi,
sollevandoli con delle travi, li avevano rovesciati nella gola; siccome era ripida, quegli enormi
blocchi, rotolando disordinatamente, avevano del tutto ostruito la stretta apertura.
All’altra estremità della spianata si allungava un corridoio, qua e là spezzato da alcune crepe, che
conduceva ad un burrone risalente verso l’altopiano dove si trovava l’armata punica. In quel
corridoio, contro le pareti della falesia, erano state disposte in precedenza delle scale; e protetti dalle
tortuosità delle crepe, i veliti ebbero il tempo di afferrarle e risalirle, prima d’essere raggiunti. Molti
si spinsero sino alla base del burrone; li si aiutò ad uscire per mezzo di funi, perché il terreno in quel
punto era tanto ripido e franoso che, anche camminando carponi, sarebbe risultato impossibile
risalirlo. I Barbari vi giunsero quasi subito. Ma una grata alta quaranta cubiti, e dell’esatta misura
dello spazio tra le due pareti, scese improvvisamente davanti a loro, simile ad un bastione che
cadesse dal cielo.
Le astuzie del Suffeta erano dunque riuscite. Nessuno tra i Mercenari conosceva la montagna, e
quelli che marciavano in testa alle colonne, avevano trascinato tutti gli altri. I massi, un po’ più
stretti alla base, erano precipitati con facilità, e mentre tutti accorrevano, la sua armata, da lontano,
aveva gridato come fosse in pericolo. Amilcare, è vero, poteva perdere i suoi veliti; di fatto se ne
salvò solo la metà. Ma ne avrebbe sacrificati venti volte tanti per il successo di una simile impresa.
Sino al mattino, i Barbari, si spinsero in file serrate da un capo all’altro della piana. Tastavano la
montagna con le mani, cercando di scoprirvi un passaggio.
Infine si levò il giorno; scorsero ovunque intorno a loro una grande muraglia bianca, tagliata a
picco. E non v’era modo di porsi in salvo, non una speranza! Le due uscite naturali di quella
trappola erano sbarrate dalla grata e dal cumulo di macigni.
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Allora si guardarono l’un l’altro senza parlare. Si accasciarono su sé stessi, sentendo un brivido
ghiacciato lungo la schiena, e una pesantezza opprimente alle palpebre.
Si risollevarono, e balzarono contro i massi. Ma quelli che stavano sotto, schiacciati dal peso degli
altri, erano inamovibili. Si affannarono ad aggrapparvisi per raggiungerne la sommità; la forma
panciuta di quei grossi macigni impediva qualsiasi presa. Vollero spaccare il terreno ai due lati della
gola: gli attrezzi si spezzarono. Con i pali delle tende fecero un gran falò; il fuoco non poteva
bruciare la montagna.
Ritornarono alla grata; era irta di lunghi chiodi, solidi come pioli, aguzzi come aculei di un
porcospino e più fitti che le setole d’una spazzola. Ma li animava tanta collera, che le si
precipitarono contro. I primi vi penetrarono fino alla schiena, i secondi vi scivolarono sopra, e
ricaddero malamente, lasciando su quegli orribili tralci brandelli di carne e capigliature insanguinate.
Quando lo scoraggiamento si fu un po’ placato, si considerò quel che c’era da mangiare. I
Mercenari i cui bagagli s’eran perduti, ne avevano a malapena per due giorni; e tutti gli altri ne
erano sprovvisti, poiché aspettavano una carovana promessa dai villaggi del Sud. Tuttavia nella
spianata vagabondavano dei tori, gli stessi che i Cartaginesi avevano liberato nella gola per attirarvi
i Barbari. Li uccisero a colpi di lancia; li si mangiò, e con lo stomaco pieno i pensieri si fecero meno
lugubri.
L’indomani sgozzarono tutti i muli, una quarantina circa, poi raschiarono le loro pelli, ne fecero
bollire le viscere, ne tritarono le ossa, e ancora non avevano perso la speranza; l’armata di Tunisi,
senza dubbio informata, stava per arrivare.
Ma la sera del quinto giorno la fame raddoppiò; rosicchiarono i budrieri delle spade e le piccole
spugne che foderavano il fondo dei caschi.
Quei quarantamila uomini erano ammucchiati in una specie di ippodromo che la montagna formava
attorno a loro. Alcuni restavano davanti alla grata o alla base dei massi; gli altri ricoprivano
confusamente la piana. I più violenti si evitavano, e i timorosi cercavano gli impavidi che tuttavia
non potevano salvarli.
Si erano sotterrati alla svelta, a causa del loro fetore, i cadaveri dei veliti; il luogo dove erano state
scavate le fosse non si distingueva più.
Tutti i Barbari languivano sdraiati per terra. Qua e là tra le loro file passava un veterano; ed essi
lanciavano delle maledizioni contro Cartagine, contro Amilcare, e contro Mato benché fosse
innocente del loro disastro; ma sembrava loro che quelle pene sarebbero state minori se egli le
avesse condivise. Poi seguitavano coi lamenti; qualcuno piangeva piano, come un bambinetto.
Andavano dai capitani e li supplicavano di trovare qualcosa che lenisse le loro sofferenze. Quelli
non rispondevano niente, oppure, colti da furore, raccoglievano una pietra e gliela scagliavano sulla
faccia.
Molti, in verità, conservavano accuratamente, in una buca per terra, una riserva di cibo, qualche
manciata di datteri, un po’ di farina; e nottetempo la mangiavano, nascondendo la testa sotto il
mantello. Quelli che avevano una spada la tenevano in mano sguainata; i più diffidenti se ne
stavano in piedi addossati alla montagna.
Accusavano i loro capi e li minacciavano. Autarito non temeva di mostrarsi. Con
quell’ostinazione del Barbaro che non si scoraggia di nulla, venti volte al giorno si spingeva sino in
fondo alla piana, verso i macigni, ogni volta sperando di trovarli, perché no, rimossi; e dondolando
le sue pesanti spalle ricoperte di pelli, ricordava ai suoi compagni un orso uscito dalla tana per
vedere se la neve si è sciolta.
Spendio, circondato dai Greci, si nascondeva in una crepa; siccome aveva paura, fece girare la
notizia della sua morte.
Ormai erano d’una magrezza spaventosa; la loro pelle era segnata da striature bluastre. La sera del
nono giorno morirono tre Iberi.
I loro compagni, atterriti, abbandonarono il luogo. Li si spogliò; e quei corpi nudi e bianchi
restarono sulla sabbia, al sole.
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Allora alcuni Garamanti cominciarono piano piano ad aggirarsi nelle vicinanze. Erano uomini
avvezzi alla vita delle solitudini, che non rispettavano alcun dio. Infine il più vecchio del gruppo
fece un segno, e chinandosi sui cadaveri, con i loro coltelli ne presero delle strisce; poi, accovacciati
sui talloni, mangiavano. Gli altri guardavano da lontano; si alzarono grida d’orrore; molti, però, in
fondo all’animo, invidiavano il loro coraggio.
In piena notte, alcuni di questi si avvicinarono, e dissimulando il proprio desiderio ne
domandavano un piccolo boccone, soltanto per assaggiare, dicevano.
Ne vennero di più coraggiosi, il loro numero aumentò; presto furono una folla. Ma quasi tutti,
sentendo quella carne fredda sul bordo delle labbra, lasciavano ricadere le mani; altri, al contrario,
la divoravano con gusto.
Alfine di essere trascinati dall’esempio, si stimolavano vicendevolmente. Colui che in un primo
momento s’era rifiutato, andava a vedere i Garamanti e non ritornava più. Essi facevano cuocere
alla brace i pezzi infilzati sulla punta di una spada; li salavano con la polvere e si disputavano i
migliori. Quando non restò più nulla dei tre cadaveri, gli occhi vagarono su tutta la spianata per
trovarne altri.
Ma non si avevano tra le mani alcuni Cartaginesi, venti prigionieri fatti durante l’ultimo scontro e
che nessuno, fino a quel momento, aveva notato? Scomparvero; d’altra parte, lo si faceva per
vendetta. Poi, siccome bisognava pur sopravvivere, siccome il gusto di quel cibo aveva preso piede,
siccome si stava morendo, vennero sgozzati i portatori d’acqua, i palafrenieri, tutti i servi dei
Mercenari. Se ne uccideva quotidianamente. Alcuni mangiavano molto, riprendevano forze e non
erano più tristi.
Ben presto quella risorsa venne a mancare. Allora la brama si volse verso i feriti e i malati. Poiché
non si potevano guarire, tanto valeva liberarli dalle loro torture; e, non appena un uomo barcollava,
tutti esclamavano che ormai era perduto e doveva servire agli altri. Per accelerarne la morte si
mettevano in opera degli stratagemmi; si sottraevan loro gli ultimi resti di quelle immonde porzioni;
fingendo di non vederli, li si calpestava; gli agonizzanti, per far credere al proprio vigore, si
sforzavano di distendere le braccia, di risollevarsi, di ridere. Alcuni, semisvenuti, riprendevano
coscienza al contatto d’una lama sbrecciata che segava loro un arto; ma si uccideva anche per
ferocia, senza necessità, per appagare il proprio furore.
Il quattordicesimo giorno, una nebbia tiepida e pesante, come ne giungono in quelle regioni alla
fine dell’inverno, si abbatté sull’armata. Quel cambiamento della temperatura portò numerose morti,
e la decomposizione progrediva con una velocità spaventosa in quella calda umidità trattenuta dalle
pareti della montagna. L’acquerugiola che scendeva sui cadaveri, rammollendoli, presto ridusse
l’intera piana una vasta putredine. Dei vapori biancastri le aleggiavano sopra; pungevano le narici,
penetravano la pelle, molestavano gli occhi; e i Barbari credevano di intravvedervi l’alito degli
agonizzanti, l’anima dei loro compagni morti. Uno smisurato disgusto li abbatté. Non ne potevano
più, meglio sarebbe stato morire.
Due giorni dopo, il tempo ritornò limpido e li riprese la fame. A volte, avevano la sensazione che
lo stomaco venisse loro strappato con delle tenaglie. Allora, si voltolavano in preda alle convulsioni,
si cacciavano in bocca manciate di terra, si mordevano le braccia e scoppiavano in un riso frenetico.
La sete li tormentava ancor più, giacché non avevano neppure una goccia d’acqua, essendo gli otri
completamente asciutti dalla nona giornata. Per ingannare il bisogno, si mettevano sulla lingua le
fibbie metalliche dei cinturoni, i pomi d’avorio, le lame delle spade. Dei vecchi conducenti di
carovane si comprimevano il ventre per mezzo di corde. Altri succhiavano un ciottolo. Si beveva
l’urina raffreddata nei caschi di bronzo.
E attendevano sempre l’armata di Tunisi! Il gran tempo che impiegava a venire, stando alle loro
congetture, era garanzia del suo prossimo arrivo. D’altra parte Mato, che era un prode, non li
abbandonerebbe.
- Sarà per domani! - si dicevano; e domani passava.
All’inizio, avevano fatto delle preghiere, dei voti; praticato ogni sorta di incantesimi. Ora non
provavano per le loro divinità che rancore,e, per vendetta, si sforzavano di non credervi.
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Gli uomini di carattere violento morirono per primi; gli Africani resistettero meglio che i Galli.
Zarza se ne stava inerte, lungo disteso tra i Baleari, con i capelli che gli ricadevano sul braccio.
Spendio trovò una pianta a foglie larghe piene di un abbondante succo, e, avendola dichiarata
velenosa per tener lontano gli altri, se ne nutriva.
Erano troppo deboli per abbattere, a colpi di pietre, i corvi che svolazzavano. A volte, allorché un
gipeto, posato su un cadavere, già da un pezzo andava straziandolo, un uomo strisciava verso di lui
con un giavellotto tra i denti. Si appoggiava su una mano, e dopo aver preso bene la mira, scagliava
la sua arma. L’animale dalle bianche piume, disturbato dal rumore, s’interrompeva, si guardava
intorno con aria tranquilla, come un cormorano su uno scoglio, poi rituffava il suo orribile becco
giallo; e l’uomo disperato ricadeva pancia in giù nella polvere. Alcuni giungevano a scovare dei
camaleonti, dei serpenti. Ma ciò che li faceva vivere, era l’amore per la vita. Essi tendevano con la
loro anima esclusivamente a quell’idea, e si attaccavano all’esistenza con uno sforzo di volontà che
la prolungava.
I più stoici si tenevano gli uni presso gli altri, seduti in cerchio, nel mezzo della piana, qua e là tra
i morti; e, avvolti nei mantelli, s’abbandonavano silenziosamente alla loro tristezza.
Quelli che erano nati nelle città si ricordavano le strade piene di frastuono, le taverne, i teatri, i
bagni, e le botteghe dei barbieri dove si ascoltano delle storie. Altri rivedevano delle campagne al
calar del sole, quando il frumento giallo ondeggia e i buoi maestosi risalgono le colline con il
vomere degli aratri sul collo. I viaggiatori pensavano alle cisterne, i cacciatori alle loro foreste, i
veterani alle battaglie; e nella sonnolenza che li intorbidiva, i loro pensieri si accavallavano con la
furia e la lucidità dei sogni. All’improvviso cadevano preda di allucinazioni; cercavano nella
montagna una porta per fuggirsene e volevano attraversarla. Altri, credendo di navigare nel mezzo
d’una tempesta, gridavano ordini all’equipaggio, oppure indietreggiavano terrorizzati, ravvisando,
nelle nuvole, dei battaglioni punici. Ve n’erano che si immaginavano d’essere ad un banchetto, e
cantavano.
Molti, per una strana mania, ripetevano la stessa parola o facevano continuamente lo stesso gesto.
Poi, quando si trovavano a rialzare la testa e a guardarsi, erano soffocati dai singhiozzi scoprendo
l’orribile devastazione dei loro volti. Alcuni non soffrivano più, e per passare il tempo, si
raccontavano i pericoli ai quali erano scampati.
La loro morte era certa, imminente. Ogni loro tentativo di aprirsi un varco era fallito. Quanto ad
implorare, presso colui che li aveva vinti, le condizione della loro salvezza, in che modo? Non
sapevano neppure dove si trovasse Amilcare.
Il vento soffiava dal lato del burrone. Faceva continuamente colare cascate di sabbia attraverso la
grata; e i mantelli e le capigliature dei Barbari ne erano pieni, come se la terra, aggredendoli, avesse
voluto seppellirli. Nulla mutava; l’eterna montagna, ogni mattino, sembrava loro ancora più alta.
A volte stormi di uccelli passavano a volo spiegato, nell’azzurro del cielo, liberi come l’aria.
Chiudevano gli occhi per non vederli.
Cominciava con un ronzio nelle orecchie, le unghie diventavano nere, il freddo conquistava il
torace, si allungavano su di un fianco e si spegnevano senza un grido.
Il diciannovesimo giorno, duemila Asiatici erano morti, millecinquecento dell’Arcipelago,
ottomila della Libia, i Mercenari più giovani e intere tribù; in tutto ventimila soldati, la metà
dell’armata.
Autarito, ch’era rimasto con non più di cinquanta Galli, era sul punto di farsi uccidere per farla
finita, quando, sulla sommità della montagna, di fronte a lui, credette di vedere un uomo.
Quell’uomo, a causa dell’altezza, non sembrava più grande di un nano. Eppure Autarito ravvisò al
suo braccio sinistro uno scudo a forma di trifoglio. Gridò:
- Un Cartaginese! – E, nella piana, davanti alla grata e sotto i macigni, tutti si alzarono
immediatamente. Il soldato camminava sul bordo del precipizio. Da sotto i Barbari lo osservavano.
Spendio raccolse un cranio di bue; poi con due cinturoni intrecciò un diadema, lo inalberò sulle
corna in cima ad una pertica, come testimonianza di intenzioni pacifiche. Il Cartaginese disparve.
Essi restarono in attesa.
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Infine la sera, come una pietra staccatasi dalla parete, improvvisamente cadde dall’alto un
budriere. Fatto di cuoio rosso e ornato con tre stelle di diamanti, portava impresso nel mezzo il
marchio del Gran Consiglio: un cavallo sotto una palma. Si trattava della risposta di Amilcare, il
salvacondotto che egli inviava.
In ogni caso, non avevano nulla da temere; ogni mutamento della sorte porterebbe la fine dei loro
mali. Li colse una smisurata gioia, si abbracciavano, piangevano. Spendio, Autarito e Zarza, quattro
Italioti, un Negro e due Spartani si offrirono come parlamentari. Vennero immediatamente accettati.
Tuttavia non sapevano in che modo andarsene.
Ma uno scricchiolio risuonò nella direzione dei macigni; e quello che stava più in alto, dopo aver
oscillato su sé stesso, rimbalzò fino in basso. In effetti, se dal lato dei Barbari essi risultavano
inamovibili, poiché sarebbe stato necessario far loro risalire un piano inclinato, e d’altronde erano
stretti nel restringimento della gola; dall’altro lato, al contrario, era sufficiente urtarli con forza
perché precipitassero. I Cartaginesi li spinsero e, al levar del sole, i macigni si allungavano nella
piana come i gradini di un’immensa scala in rovina.
I Barbari non riuscivano ancora ad arrampicarli. Si tesero loro delle scale; tutti vi si slanciarono.
La scarica di una catapulta li respinse; solo i Dieci furono condotti via.
Marciavano tra i Clinabari, e appoggiavano la mano sulla groppa dei cavalli per sostenersi.
Ora che la loro iniziale gioia era passata, cominciavano a nutrire delle inquietudini. Le pretese di
Amilcare sarebbero state crudeli. Ma Spendio li rassicurava:
- Parlerò io! – E si vantava di sapere ciò che era meglio dire per la salvezza dell’armata.
Dietro ogni cespuglio indovinavano delle sentinelle imboscate. Queste si prosternavano di fronte
al budriere che Spendio aveva messo sulla sua spalla.
Quando giunsero nel campo punico, la folla fece ressa intorno a loro, e sentivano come dei
mormorii, delle risate. La porta di una tenda si aprì.
Amilcare stava sul fondo, seduto su uno sgabello, vicino ad una tavola bassa sulla quale luccicava
la lama di una spada. Alcuni capitani, in piedi, lo attorniavano.
Scorgendo quegli uomini, fece un movimento indietro, poi si chinò ad esaminarli.
Avevano le pupille straordinariamente dilatate, con un gran cerchio nero attorno agli occhi che si
prolungava sino in basso alle orecchie, e i nasi lividi sporgevano tra le loro gote scavate, segnate da
rughe profonde; la pelle dei loro corpi, troppo larga per i muscoli, scompariva sotto una polvere
color ardesia; le labbra si incollavano contro i denti giallastri; esalavano una puzza infetta; si
sarebbero detti delle tombe socchiuse, dei sepolcri viventi.
Nel mezzo della tenda, su una stuoia dove i capitani stavano per sedersi, c’era un piatto di zucche
fumanti. I Barbari vi tenevano gli occhi attaccati tremando con tutte le membra, e delle lacrime
salivano loro alle palpebre. Tuttavia si trattenevano.
Amilcare si distolse per parlare a qualcuno. Allora vi si avventarono sopra, ventre a terra. I loro
volti si immergevano nel grasso, e il rumore che facevano deglutendo si mischiava ai singhiozzi di
gioia che emettevano. Senza dubbio, più per lo stupore che per compassione, li lasciarono finire il
rancio. Poi quando si furono rialzati, Amilcare comandò con un gesto, all’uomo che portava il
budriere, di parlare. Spendio aveva paura; balbettava.
Amilcare, ascoltandolo, faceva girare intorno al dito un grosso anello d’oro, quello che aveva
impresso sul budriere il sigillo di Cartagine. Lo lasciò cadere a terra; Spendio immediatamente lo
raccolse; davanti al padrone, lo riprendevano le sue abitudini di schiavo. Gli altri fremettero,
indignati per quella bassezza.
Ma il Greco alzò la voce, e riferendo i misfatti di Annone, che sapeva essere nemico di Barca,
cercando di impietosirlo con i dettagli delle loro miserie e il ricordo della loro devozione, parlò a
lungo, con un eloquio rapido, insidioso, persino violento; alla fine, si lasciava andare, trasportato
dall’ardore del proprio estro.
Amilcare replicò che accettava le loro scuse. Dunque si sarebbe conclusa la pace, quella definitiva!
Ma egli esigeva che gli si consegnassero dieci Mercenari, a sua scelta, privi delle armi e della tunica.
Non si aspettavano tanta clemenza; Spendio gridò:
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- Oh! Venti, se vuoi, Padrone!
- No! Me ne bastano dieci – rispose amabilmente Amilcare.
Li si fece uscire dalla tenda perché potessero deliberare. Quando furono soli, Autarito reclamò per
i compagni sacrificati, e Zarza disse a Spendio:
- Perché non l’hai ucciso? La sua spada stava là, vicino a te!
- Lui! – fece Spendio; e ripeté più volte:
- Lui! Lui! – come se la cosa fosse stata impossibile e Amilcare un immortale.
Una simile vigliaccheria li abbatteva talmente che si lasciarono cadere a terra, sulla schiena, non
sapendo a che risolversi.
Spendio li persuadeva a cedere. Infine acconsentirono, e rientrarono.
Allora il Suffeta mise la propria mano nelle mani dei dieci Barbari, uno alla volta, stringendo i
loro pollici; poi la sfregò sulle proprie vesti, poiché la loro pelle viscida causava al tocco
un’impressione penosa e fiacca, un brulichio unto che faceva rabbrividire. Dopo disse loro:
- Voi siete davvero tutti i capi dei Barbari e avete giurato per loro?
- Si! – risposero.
- Senza esserne costretti, nel profondo del vostro animo, con l’intenzione di compiere le vostre
promesse?
Essi assicurarono che sarebbero tornati dagli altri per mandarle ad effetto.
- Bene! – riprese il Suffeta – stando alla convenzione stipulata tra me, Barca, e gli ambasciatori dei
Mercenari, siete voi che io scelgo, e io vi trattengo!
Spendio cadde svenuto sulla stuoia. I Barbari, come distanziandosene, si strinsero gli uni agli altri;
e non si udì una parola, non un lamento.
I loro compagni, che li aspettavano, non vedendoli ritornare, si credettero traditi. Senza dubbio, i
parlamentari s’erano dati al Suffeta.
Attesero ancora due giorni; poi, il mattino del terzo, presero la loro decisione. Con delle corde,
delle picche e delle frecce disposte a mo’ di pioli tra due lembi di tela, riuscirono a scalare i massi;
lasciandosi dietro i più deboli, circa tremila uomini, si misero in marcia per raggiungere l’armata di
Tunisi.
In alto alla gola si stendeva una prateria disseminata di arbusti; i Barbari ne divorarono i germogli.
In seguito trovarono un campo di fave; e non ne rimase nulla, come se l’avesse attraversato una
nube di cavallette. Tre ore dopo giunsero su un secondo altopiano, orlato da una cintura di colline
verdi.
Tra le ondulazioni di quelle alture brillavano dei covoni color argento, ad una certa distanza gli
uni dagli altri; i Barbari, accecati dal sole, scorgevano confusamente, al di sotto, delle grosse masse
nere che li sostenevano. Si sollevarono, come se fossero sbocciate. Erano lance nelle torrette sopra
degli elefanti terribilmente armati.
Oltre lo spiedo sul pettorale, gli spunzoni sulle zanne, le piastre di bronzo sui fianchi, e i pugnali
sulle ginocchiere, avevano un bracciale di cuoio, in cima alle proboscidi, dov’era infisso il manico
di un largo coltellaccio; partiti tutti insieme dal fondo della pianura, avanzavano da ogni lato,
parallelamente.
Un terrore senza nome gelò i Barbari. Non tentarono neppure di fuggire. Ormai erano circondati.
Gli elefanti penetrarono in quella massa d’uomini; e gli speroni dei loro pettorali la fendevano, le
lance delle zanne la rivoltavano come vomeri di un aratro; tagliavano, recidevano, trinciavano con
le falci delle loro proboscidi; le torrette piene di falariche sembravano vulcani in movimento; non si
distingueva che un vasto ammasso nel quale le carni umane formavano delle chiazze bianche, i
pezzi di bronzo delle placche grigie, il sangue degli schizzi rossi; gli orribili animali, passandovi nel
mezzo, scavavano dei solchi neri. Il più furioso era condotto da un Numida coronato da un diadema
di piume. Scagliava giavellotti con una velocità spaventosa, lanciando ad intervalli regolari un
fischio acuto; i grossi animali, docili come cani, durante la carneficina tenevano un occhio rivolto a
lui.
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Il loro cerchio poco a poco si restringeva; i Barbari, estenuati, non resistevano più; ben presto gli
elefanti guadagnarono il centro della pianura. Mancava loro lo spazio; si ammucchiavano gli uni
sugli altri, gli avori si urtavano. Narava li placò di colpo, e volgendo la groppa, se ne ritornarono
trottando verso le colline.
Due sintagmi s’erano però rifugiati a destra in una piega del terreno, avevano gettato le armi, e
inginocchiati verso le tende puniche, imploravano grazia con le braccia alzate.
Vennero legati gambe e braccia; poi quando furono distesi ventre a terra gli uni vicino agli altri, si
fecero ritornare gli elefanti.
I toraci scricchiolavano come cofani che si spezzano; con un solo passo ne schiacciavano due; i
loro grossi piedi affondavano nei corpi con un movimento delle anche per cui sembrava
zoppicassero. Non si arrestavano, e andarono fino in fondo.
La superficie della pianura tornò immobile. Cadde la notte. Amilcare si dilettava davanti allo
spettacolo della sua vendetta; ma improvvisamente trasalì.
Vedeva, e tutti vedevano a seicento passi da là, sulla sinistra, in cima ad un poggio, ancora dei
Barbari! In effetti quattrocento Mercenari, tra i più robusti, Etruschi, Libici e Spartani, da subito
avevano guadagnato le alture, e sino ad allora erano stati a guardare, nell’incertezza. Dopo il
massacro dei loro compagni, risolsero di passare attraverso le linee cartaginesi; e già scendevano in
colonne serrate, meravigliose e formidabili a vedersi.
Immediatamente fu inviato incontro a loro un messo. Il Suffeta aveva bisogno di soldati; li
accoglieva senza condizioni, tanto ammirava il loro coraggio. Inoltre potevano, aggiunse l’inviato
di Cartagine, avvicinandosi un altro po’, trovare dei viveri in un luogo che indicò.
I Barbari vi accorsero e passarono la notte mangiando. Allora i Cartaginesi mormorarono di
malcontento contro la parzialità del Suffeta nei confronti dei Mercenari.
Cedette a quelle manifestazioni di implacabile odio, oppure si trattava di una raffinata perfidia?
L’indomani si recò da loro egli stesso, disarmato, a capo scoperto, scortato da alcuni Clinabari, e
dichiarò che avendo troppa gente da sfamare, non aveva intenzione di mantenerli. Tuttavia, siccome
aveva bisogno di uomini e non sapeva in che modo scegliere i più validi, dovevano battersi tra loro
ad oltranza; poi avrebbe ammesso i vincitori nella sua guardia personale. Quella morte ne valeva
un’altra; a quel punto, facendo allontanare i suoi soldati, poiché gli stendardi punici nascondevano
l’orizzonte ai Mercenari, mostrò loro i centonovantadue elefanti di Narava schierati su una sola
linea retta, le cui proboscidi brandivano delle grandi lame, come braccia di giganti che tenessero
alte, sopra le loro teste, delle scuri.
I Barbari si guardarono in silenzio. Non era la morte che li faceva impallidire, ma l’orribile
obbligo nel quale si trovavano.
La comunanza di vita aveva stabilito fra quegli uomini delle profonde amicizie. Per i più,
l’accampamento sostituiva la patria; vivendo lontani dalla famiglia, trasferivano su di un compagno
il loro bisogno d’affetto, e si dormiva fianco a fianco, sotto lo stesso mantello, al chiarore delle
stelle. Poi, in quel perpetuo vagabondare attraverso ogni sorta di paesi, di violenze e di avventure,
s’erano creati degli strani legami: lubriche unioni importanti quanto matrimoni, nelle quali il più
forte difendeva il più giovane nel mezzo delle battaglie, lo aiutava a superare i precipizi, asciugava
dalla sua fronte il sudore delle febbri, rubava per lui del cibo; e l’altro, il ragazzo raccolto al bordo
di una strada, divenuto a sua volta un Mercenario, ricambiava quella devozione con un’infinità di
delicate attenzioni e con le compiacenze d’una sposa.
Si scambiarono tra loro le collane e gli orecchini, regali che si erano fatti un tempo, dopo aver
passato un gran pericolo, nei momenti di ebbrezza. Tutti chiedevano di morire, e nessuno voleva
colpire per primo. Qua e là si vedeva un giovane che diceva ad un altro la cui barba era di già grigia:
- No! Tu sei il più robusto! Ci vincerai tutti, uccidimi! – e l’uomo rispondeva:
- Mi restano meno anni da vivere! Colpisci al cuore e non pensarci più! – I fratelli si rimiravano
stringendosi la mano, e gli amanti, in piedi, si salutavano per l’eternità, piangendo uno sulla spalla
dell’altro.
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Si spogliarono delle corazze affinché la punta delle spade affondasse più velocemente. Allora
apparvero le cicatrici dei gran colpi che avevano ricevuto difendendo Cartagine; si sarebbero dette
iscrizioni incise su delle colonne.
Si sistemarono su quattro file eguali alla maniera dei gladiatori, e cominciarono con dei timidi
scontri. Alcuni s’erano bendati gli occhi, e le loro spade remigavano nell’aria, adagio, come il
bastone di un cieco. I Cartaginesi lanciarono dei fischi, gridando che erano dei vigliacchi. I Barbari
si rianimarono, e ben presto il combattimento fu generale, impetuoso, terribile.
A volte due uomini si arrestavano sanguinanti, cadevano l’uno nelle braccia dell’altro e morivano
scambiandosi baci. Nessuno indietreggiava. Si scagliavano contro le lame protese. La loro frenesia
era così furiosa che i Cartaginesi, da lontano, avevano paura.
Infine si arrestarono. I loro petti producevano un suono rauco, e si scorgevano le loro pupille tra i
lunghi capelli che pendevano, come fossero usciti da un bagno di porpora. Molti giravano su sé
stessi, rapidamente, come pantere ferite in fronte. Altri stavano immobili considerando un cadavere
ai loro piedi; poi, d’improvviso, si laceravano il volto con le unghie, impugnavano la spada a due
mani e se l’affondavano nel ventre.
Ne restavano ancora sessanta. Domandarono da bere. Si gridò loro di gettare le spade; e quando le
ebbero gettate, si portò dell’acqua.
Mentre quelli bevevano, con la faccia sprofondata nei recipienti, sessanta Cartaginesi,
aggredendoli, li uccisero con una pugnalata alla schiena.
Amilcare aveva fatto ciò per soddisfare gli istinti dei suoi soldati, e, mediante quel tradimento,
legarli alla sua persona.
La guerra era dunque terminata; per lo meno così egli credeva; Mato non poteva resistergli; in
preda alla frenesia, il Suffeta ordinò l’immediata partenza.
I suoi esploratori tornarono dicendogli che era stata individuata una carovana diretta verso la
Montagna di Piombo. Amilcare non se ne preoccupò. Una volta annientati i Mercenari, i Nomadi
non erano più un problema. L’importante era prendere Tunisi. A tappe forzate marciò sulla città.
Intanto aveva inviato Narava a Cartagine, recante la notizia della vittoria; e il re dei Numidi, fiero
dei propri successi, si presentò da Salammbô.
Ella lo ricevette nei suoi giardini, sotto un largo sicomoro, tra cuscini di cuoio giallo, con Taanach
vicino a lei. Il suo volto era coperto da una sciarpa bianca, che, passandole sulla bocca e sulla fronte,
non lasciava vedere che gli occhi; ma le sue labbra brillavano nella trasparenza del tessuto come le
pietre alle sue dita, poiché Salammbô teneva le due mani avviluppate, e per tutto il tempo che
parlarono, non fece un gesto.
Narava le annunciò la disfatta dei Barbari. Ella lo ringraziò benedicendolo per i servigi che aveva
reso a suo padre. Allora egli si mise a raccontare tutta la guerra.
Le colombe, sulle palme attorno a loro, tubavano dolcemente, e altri uccelli svolazzavano tra le
erbe: galeoli dal collare, quaglie di Tartesso e faraone puniche. Il giardino, da lungo tempo incolto,
aveva moltiplicato le sue verzure; le coloquintidi salivano sui rami delle cassie, le asclepiadi
avevano invaso i roseti, ogni sorta di vegetazione formava degli intrecci, dei pergolati; e i raggi del
sole,che cadevano obliqui, disegnavano qua e là, come nei boschi, l’ombra di una foglia sulla terra.
Gli animali domestici, ritornati selvatici, fuggivano al minimo rumore. Talora si scorgeva una
gazzella che trascinava coi suoi piccoli zoccoli neri delle penne di pavone disperse. Il clamore della
città, in lontananza, si confondeva col mormorio delle onde.
Il cielo era tutto azzurro; non una vela appariva sul mare.
Narava non parlava più; Salammbô senza rispondergli, lo guardava. Aveva una veste di lino, con
dei fiori dipinti, che terminava in basso con una frangia d’oro; due frecce d’argento gli trattenevano
i capelli intrecciati al bordo della orecchie; si appoggiava con la mano destra al legno di una picca
ornato con cerchietti di elettro e ciuffi di pelo.
Considerandolo, una folla di pensieri indefiniti l’assorbiva. Quel giovane dalla voce dolce e
l’aspetto femmineo catturava i suoi occhi con la grazia della propria persona e le sembrava come
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una sorella maggiore che i Baal inviavano per proteggerla. Si sovvenne di Mato e non resistette al
desiderio di sapere che ne fosse di lui.
Narava rispose che i Cartaginesi avanzavano verso Tunisi, per catturarlo. A misura che egli
esponeva le loro possibilità di riuscita e la debolezza di Mato, ella pareva gioire d’una speranza
straordinaria. Le sue labbra tremavano, il suo petto ansava. Quando egli infine promise di ucciderlo
con le proprie mani, ella gridò:
- Si! Uccidilo, è necessario!
Il Numida replicò che desiderava ardentemente quella morte, poiché, finita la guerra, sarebbe
divenuto suo sposo.
Salammbô trasalì, e chinò il capo.
Ma Narava, proseguendo, paragonò i propri desideri ai fiori che languono aspettando la pioggia,
ai viaggiatori sperduti che attendono il giorno. Le disse ancora che era più bella della luna, migliore
della brezza del mattino e del volto dell’ospite. Per lei farebbe venire, dal paese dei Negri, cose che
a Cartagine non s’erano mai viste, e cospargere le stanze della loro casa con polvere d’oro.
Scendeva la sera, esalavano profumi balsamici. Si guardarono a lungo in silenzio; e gli occhi di
Salammbô, nella cornice dei suoi drappeggi, sembravano due stelle nello squarcio di una nuvola.
Prima che il sole tramontasse, egli si ritirò.
Gli Anziani si sentirono sollevati da una grande inquietudine quando partì da Cartagine. Il popolo
lo aveva ricevuto con acclamazioni ancora più entusiaste che la prima volta. Se a trionfare dei
Mercenari fossero stati Amilcare ed il re dei Numidi da soli, sarebbe stato impossibile tener loro
testa. Dunque decisero, per indebolire Barca, di far partecipare alla liberazione della Repubblica il
loro favorito, il vecchio Annone.
Questi si portò immediatamente verso le province occidentali, allo scopo di vendicarsi nei luoghi
stessi che avevano visto la sua vergogna. Ma gli abitanti e i Barbari erano morti, nascosti o fuggiti.
Allora la sua collera si scaricò sulle campagne. Bruciò le rovine delle rovine, non lasciò un solo
albero, non un filo d’erba; i bambini e gli infermi che capitavano sulla sua strada venivano
suppliziati; prima che fossero sgozzate, dava ai suoi soldati le donne perché le violentassero; le più
belle venivano gettate nella sua lettiga, poiché il suo male atroce lo infiammava d’un desiderio
impetuoso che egli saziava con tutto il furore di un uomo disperato.
Sovente, sulla cresta di una collina, delle tende scure s’abbattevano come rovesciate dal vento, e
dei grandi dischi dal contorno brillante, che si riconoscevano come ruote di carri, rotolando con un
suono lamentoso, sprofondavano nelle vallate. Le tribù, che avevano abbandonato l’assedio di
Cartagine, vagavano in tal modo per le province, aspettando un’occasione, una vittoria dei
Mercenari per ritornare. Ma, fosse per paura o per fame, tutte ripresero il cammino verso le loro
contrade, e scomparvero.
Amilcare non invidiò affatto ad Annone i suoi successi. Però aveva fretta di concludere; gli ordinò
di ripiegare su Tunisi; e Annone, che amava la sua patria, il giorno fissato si trovò sotto le mura
della città.
V’erano a difenderla la sua popolazione autoctona, dodicimila Mercenari, e tutti i Mangiatori di
cose immonde, poiché, al pari di Mato, essi erano incatenati all’orizzonte di Cartagine, ed insieme,
la plebe e lo Shalishim, contemplavano da lungi le sue alte muraglie, sognando dietro ad esse dei
godimenti senza fine. Grazie a quella comunione di rancori, la resistenza fu prontamente
organizzata. Con gli otri si fecero caschi, nei giardini vennero tagliate tutte le palme per farne lance,
si scavarono cisterne e, quanto ai viveri, pescavano sulle rive del lago dei grossi pesci bianchi, che
si nutrivano di cadaveri e di immondizie. I loro bastioni, mantenuti in rovina per la gelosia di
Cartagine, erano così deboli, che si potevano abbattere con una spallata. Mato ne tappò i buchi con
le pietre delle case. Era lo scontro finale; non nutriva speranze, e tuttavia si diceva che la fortuna è
volubile.
I Cartaginesi, avvicinandosi, notarono sul bastione un uomo che superava la merlatura di tutta la
cintola. Le frecce che gli volavano intorno non avevano l’aria di spaventarlo più che una stormo di
rondinelle. Nessuna, incredibilmente, lo colpiva.
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Amilcare stabilì il suo campo sul lato meridionale; Narava, alla sua destra, occupava la piana di
Rhades, Annone il bordo del lago; e s’era convenuto che i tre generali mantenessero la loro
rispettiva posizione per attaccare la cinta tutti nel medesimo tempo.
Ma Amilcare, per cominciare, volle mostrare ai Mercenari che li avrebbe puniti tal quali schiavi.
Fece crocifiggere i dieci ambasciatori, uno accanto all’altro, su una collina di fronte alla città.
A quello spettacolo, gli assediati abbandonarono il bastione.
Mato si era detto che, se riusciva a passare tra le mura e le tende di Narava tanto rapidamente che
i Numidi non avessero il tempo di uscirne,sarebbe potuto piombare sulla retroguardia della fanteria
cartaginese, la quale si sarebbe trovata intrappolata fra la sua divisione e quelli all’interno della città.
Si slanciò fuori coi veterani.
Narava lo scorse; superò la spiaggia del lago e andò ad avvertire Annone di mandare degli uomini
in soccorso di Amilcare. Pensava che il Barca fosse troppo debole per resistere ai Mercenari? Fu
una cattiveria o una sciocchezza? Non si potrà mai sapere.
Annone per la smania che aveva di umiliare il suo rivale, non se lo fece dire due volte. Urlò di dar
voce alle trombe, e tutta la sua armata si precipitò sui Barbari. Questi volsero indietro e si
avventarono sui Cartaginesi; li rovesciavano, li calpestavano, e, così respingendoli, arrivarono fino
alla tenda di Annone, che in quel momento era circondato da trenta Cartaginesi, i più illustri fra gli
Anziani.
Parve stupefatto della loro audacia; chiamava i suoi capitani. Tutti allungavano i pugni sotto la
sua gola, gridando ingiurie. La folla si accalcava, e quelli che gli avevano messo le mani addosso lo
trattenevano a fatica. Tuttavia egli si sforzava di dir loro sottovoce:
- Ti darò tutto quello che vuoi! Sono ricco! Salvami! – Lo strattonavano; benché fosse assai
pesante i suoi piedi non toccavano più terra. Gli Anziani erano stati trascinati via. Il suo terrore
raddoppiò:
- Mi avete vinto! Sono vostro prigioniero! Mi riscatto! Ascoltatemi, amici! – E, trasportato da tutte
quelle spalle che lo serravano ai fianchi, ripeteva:
- Cosa avete intenzione di fare? Cosa volete? Non faccio resistenza, lo vedete bene! Son sempre
stato buono io!
Una gigantesca croce era stata preparata nei pressi della porta. I Barbari urlavano:
- Qui! Qui! – Ma egli gridò ancora più forte; e , nel nome dei loro Dei, intimò loro di condurlo
presso lo Shalishim, poiché doveva confidargli una cosa dalla quale dipendeva la loro salvezza.
Si fermarono, poiché alcuni asserivano fosse giusto chiamare Mato. Si andò a cercarlo.
Annone cadde sull’erba; e, intorno a lui, vedeva altre croci ancora, come se il supplizio di cui
stava per morire si fosse anticipatamente moltiplicato; si sforzava di convincersi che si ingannava,
che di croce ve n’era una sola, di più, che non v’era neppure quella. Infine lo si obbligò ad alzarsi.
- Parla! – disse Mato.
Si offrì di consegnare Amilcare nelle sue mani, poi entrerebbero in Cartagine ed entrambi
sarebbero stati re.
Mato si allontanò, facendo segno agli altri di sbrigarsi. Non poteva essere che un’astuzia per
guadagnare tempo, così egli pensava.
Il Barbaro si ingannava; Annone si trovava in uno di quei momenti estremi nei quali non si tien
conto più di nulla, e d’altra parte esecrava talmente Amilcare, che, in cambio d’una briciola di
speranza, lo avrebbe sacrificato con tutto il suo esercito.
Gli Anziani languivano in terra, ai piedi delle trenta croci; già le corde erano state passate sotto le
loro ascelle. Allora il vecchio Suffeta, comprendendo che bisognava morire, pianse.
Strapparono via quel che gli restava delle vesti, e si scoprì l’orrore del suo corpo. Le ulcere
ricoprivano quella massa senza nome; il grasso delle gambe ricadeva fino a nascondergli le unghie
dei piedi; dalle sue dita pendevano come dei brandelli verdastri; e le lacrime che gli scorrevano fra
le escrescenze delle gote davano al suo volto un qualcosa di spaventosamente triste, sembrando
occupare più spazio che su un altro viso umano. La sua fascia regale, mezzo disfatta, strisciava nella
polvere assieme ai suoi capelli bianchi.
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Stimarono di non aver corde abbastanza robuste per issarlo fino in alto alla croce, e ve lo
inchiodarono sopra, prima che fosse innalzata, alla maniera punica. Ma nel dolore si risvegliò il suo
orgoglio. Li colmò di ingiurie. Sbuffava e si torceva come un mostro marino che viene sgozzato
sulla riva del mare, predicendo loro che avrebbero fatto tutti una fine ancor più orribile e che
sarebbe stato vendicato.
Lo era di già. Dall’altra parte della città, da dove sfuggivano lingue di fuoco e colonne di fumo,
gli ambasciatori dei Mercenari agonizzavano.
Alcuni, svenuti in un primo momento, si stavano rianimando alla frescura della brezza; ma
restavano col mento poggiato sul petto, e il loro corpo discendeva un poco, malgrado i chiodi che
fissavano le loro braccia più in alto della testa; dai loro talloni e dalle loro mani cadevano grosse
gocce di sangue, lentamente, come dai rami d’un albero cadono i frutti maturi; e Cartagine, il golfo,
le montagne e le pianure, tutto sembrava loro girare come un’immensa ruota. A momenti una nube
di polvere saliva dal suolo e li avvolgeva turbinando; erano arsi da una sete orribile, la loro lingua si
rigirava nella bocca, e sentivano su di sé colare un sudore ghiacciato, che se ne andava insieme alla
loro anima.
Intanto vedevano confusamente, in una lontana profondità, le strade, i soldati in marcia, le spade
che oscillavano; e giungeva fino a loro il vago tumulto della battaglia, come il rumore del mare a
dei naufraghi che muoiano sull’alberatura di una nave. Gli Italioti, più robusti degli altri, gridavano
ancora; i Lacedemoni, silenziosi, tenevano le palpebre chiuse; Zarza, un tempo così vigoroso,
pendeva come una canna spezzata; l’Etiope, vicino a lui, aveva la testa rovesciata indietro sopra il
braccio della croce; Autarito, immobile, roteava gli occhi; la sua lunga capigliatura, impigliata in
una fenditura del legno, gli si rizzava sulla fronte e il rantolo che emetteva somigliava piuttosto ad
un ruggito di rabbia. Quanto a Spendio, gli era venuto uno strano coraggio; ora disprezzava la vita,
per la certezza che aveva d’esserne liberato entro breve e per sempre, e attendeva la morte con
impassibilità.
Nel venir meno della loro coscienza, talora trasalivano ad un fruscio di piume che li sfiorava sulla
bocca. Le ombre di grandi ali fluttuavano intorno a loro, un gracchìo scoppiettava nell’aria; e
siccome la croce di Spendio era la più alta, fu su quella che il primo avvoltoio si avventò. Allora
egli girò il volto verso Autarito, e, con un indefinibile sorriso gli disse piano:
- Ti ricordi i leoni sula strada di Sicca?
- Erano nostri fratelli! – rispose il Gallo spirando.
Il Suffeta nel frattempo aveva bucato la cinta e raggiunto la cittadella. Sotto una raffica di vento il
fumo di colpo volò via, scoprendo l’orizzonte fino alle mura di Cartagine; gli parve persino di
vedere della gente intenta a guardare sulla piattaforma di Eshmun; poi, riavvicinando lo sguardo,
scorse, a sinistra, sulla riva del lago, trenta croci smisurate.
In effetti, per renderle più spaventose, le avevano costruite unendo capo con capo i pali delle loro
tende; e i trenta cadaveri degli Anziani apparivano altissimi, nel cielo. Sui loro petti v’erano come
delle farfalle bianche; erano le barbe delle frecce con le quali erano stati colpiti dal basso.
In cima alla più alta, brillava un largo nastro d’oro; penzolava su una spalla priva del proprio
braccio, e Amilcare faticò a riconoscere Annone. Alcune parti del suo corpo si erano staccate,
poiché le sue ossa spugnose non avevano retto sotto i chiodi di ferro; e sulla croce non restavano
che informi brandelli, simili ai resti degli animali appesi sulle porte dei cacciatori.
Il Suffeta non si era accorto di nulla; la città, davanti a lui, nascondeva tutto ciò che le stava alle
spalle, dall’altra parte; e i capitani inviati successivamente ai due generali non erano più riapparsi.
In quel momento giunsero dei fuggitivi portando la notizia della rotta; e l’armata punica restò
paralizzata. Quel disastro sopraggiunto nel pieno della vittoria, li stordiva. Non comprendevano più
gli ordini di Amilcare.
Mato ne approfittava per prolungare le sue devastazioni tra i Numidi.
Messo a soqquadro il campo di Annone, era ritornato su di loro. Uscirono gli elefanti. Ma i
Mercenari, con dei residui infiammati divelti dai muri, avanzarono nella piana agitandone le
fiamme, e quei bestioni, terrorizzati, corsero a gettarsi nel golfo, dove,dibattendosi si ammazzavano
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gli uni gli altri, e annegarono sotto il peso delle loro corazze. Narava aveva già lanciato la sua
cavalleria; tutti si gettarono faccia al sole; poi, quando i cavalli furono a tre passi, balzarono sotto le
loro pance sventrandoli con un colpo di pugnale, e la metà dei Numidi era morta allorché
sopraggiunse Barca.
I Mercenari, spossati, non erano in grado di resistere alle sue truppe. Indietreggiarono in buon
ordine fino alla montagna delle Acque Calde. Il Suffeta ebbe l’accortezza di non inseguirli. Si portò
verso le foci del Macar.
Tunisi era sua; ma non ne restava che un mucchio di rovine fumanti. Le macerie rigurgitavano
dalle brecce delle mura sin nel mezzo della piana; in fondo, entro i margini del golfo, i cadaveri
degli elefanti, sospinti dalla brezza, si urtavano, come un arcipelago di neri macigni galleggianti
sull’acqua.
Narava, per sostenere quella guerra, aveva vuotato le sue foreste, preso giovani e vecchi, maschi e
femmine, e la forza militare del suo regno non si riebbe mai più. Il popolo, che li aveva visti morire
da lontano, ne fu desolato; alcuni uomini andavano per le strade lamentandosi e chiamandoli per
nome, come fossero amici defunti:
- Ah! L’Invincibile! La Vittoria! Il Fulmineo! La Rondine! – Il primo giorno, addirittura,se ne parlò
più che dei cittadini morti. Ma il giorno seguente si scorsero le tende dei Mercenari sulla montagna
delle Acque Calde. Allora la disperazione fu tale, che molti, soprattutto donne, si precipitarono a
testa in giù dall’alto dell’Acropoli.
Si ignoravano i piani di Amilcare. Viveva solo, nella sua tenda, non ammetteva presso di sé che
un ragazzo, e mai nessuno mangiava con lui, neppure Narava. Tuttavia, dopo la disfatta di Annone,
era pieno di premure nei suoi confronti. Ma il re dei Numidi aveva troppo interesse a diventare suo
figlio per non diffidarne.
Quell’inerzia celava degli abili maneggi. Amilcare sedusse con ogni sorta di espedienti i capi dei
villaggi; e i Mercenari vennero inseguiti, respinti, braccati come bestie feroci. Appena entravano in
un bosco, intorno a loro gli alberi prendevano fuoco; quando bevevano ad una sorgente, era stata in
precedenza avvelenata; le caverne ove si nascondevano per dormire venivano murate. Le
popolazioni che fino a quel momento li avevano difesi, i loro antichi complici, ora li perseguitavano;
riconoscevano sempre in quelle bande dei soldati cartaginesi.
Molti avevano il volto segnato da un’impetigine rossastra; ciò era dovuto, pensavano, al contatto
con Annone. Altri si immaginavano che la causa fosse l’aver mangiato i pesci di Salammbô, e,
lungi dal pentirsene, fantasticavano dei sacrilegi ancor più abominevoli, affinché il vituperio degli
Dei punici fosse ancora più grande. Avrebbero voluto annientarli.
Si trascinarono così per tre mesi lungo la costa orientale, poi alle spalle del monte Sellum e fino
alle prime sabbie del deserto. Cercavano un posto dove rifugiarsi, non importa quale. Solo Utica e
Ippo Zarito non li avevano traditi; ma Amilcare circondava le due città. Poi risalirono a nord, a
casaccio, senza neppure conoscere le strade. A forza di patimenti, la loro mente s’era offuscata.
Non restava loro nient’altro che il sentimento di una esasperazione che andava crescendo; e un
giorno si ritrovarono nelle gole del Cobus, ancora una volta davanti a Cartagine!
Allora le scaramucce si moltiplicarono. La fortuna non si sbilanciava; ma gli uni e gli altri erano
talmente esausti, che si auguravano, in luogo di quelle avvisaglie, una grande battaglia, purché fosse
la definitva.
Mato aveva voglia di recarne lui stesso la proposta al Suffeta. Uno dei suoi Libici si sacrificò.
Tutti, vedendolo partire, erano convinti che non l’avrebbero più rivisto. Tornò la sera stessa.
Amilcare accettava la loro sfida. Si sarebbero scontrati l’indomani, al sorgere del sole, nella piana
di Rhades.
I Mercenari volevano sapere se non aveva detto altro, e il Libico aggiunse:
- Siccome restavo davanti a lui, mi ha domandato cosa aspettassi; ho risposto: “Di venire ucciso!”
Allora egli ha soggiunto: “No, vattene! Sarà per domani con gli altri.”
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Quella generosità sorprese i Barbari; alcuni ne furono atterriti, e Mato rimpianse che il
messaggero non fosse stato ucciso.
Gli restavano ancora tremila Africani, milleduecento Greci, millecinquecento Campani, duecento
Iberi, quattrocento Etruschi, cinquecento Sanniti, quaranta Galli e una truppa di Naffur, predoni
nomadi incontrati nella regione dei datteri; in totale settemiladuecentodiciannove soldati, ma non un
solo sintagma completo. Avevano tappato i buchi delle corazze con delle scapole di quadrupedi e
rimpiazzato i coturni di bronzo con sandali di stracci. Delle piastre di rame o di ferro appesantivano
il loro vestiario; le loro cotte di maglia cadevano a brandelli e le cicatrici delle loro ferite
apparivano, come fili di porpora, tra i peli delle braccia e del viso.
L’ira per i compagni morti ritornava a colmare le loro anime moltiplicandone il vigore; sentivano
confusamente di essere i vicari di un dio diffuso nel cuore degli oppressi, e come i pontefici di una
vendetta universale! Inoltre, li infuriava il tormento di un’enorme ingiustizia, e soprattutto la vista,
all’orizzonte, di Cartagine. Giurarono di combattere gli uni per gli altri sino alla morte.
Vennero uccise le bestie da soma, e si mangiò il più possibile, per recuperare le forze; poi
dormirono. Alcuni pregarono, rivolti a differenti costellazioni.
I Cartaginesi giunsero nella pianura prima di loro. Strofinarono il bordo degli scudi con dell’olio
per facilitare lo scivolamento delle frecce; i fanti che avevano i capelli lunghi, se li tagliarono sulla
fronte, per prudenza; e Amilcare, dall’ora quinta, fece rovesciare tutte le gamelle, ben sapendo che
è svantaggioso combattere a stomaco pieno. La sua armata contava quattordicimila uomini, il
doppio circa dell’armata barbara. Nonostante ciò, mai aveva provato un’inquietudine simile; se
soccombeva, era l’annientamento della Repubblica ed egli sarebbe morto crocefisso; se trionfava, al
contrario, attraverso i Pirenei, la Gallia e le Alpi avrebbe raggiunto l’Italia, e il dominio dei Barca
sarebbe stato imperituro. Venti volte durante la notte si alzò per controllare ogni cosa
personalmente fin nei minimi dettagli. Quanto ai Cartaginesi, erano esasperati dal quel lungo
periodo di tensione.
Narava dubitava della fedeltà dei suoi Numidi. D’altra parte i Barbari potevano vincerli. L’aveva
colto una strana debolezza;ogni poco beveva larghe coppe d’acqua.
Ma un uomo che egli non conosceva aprì la sua tenda, e depositò a terra una corona di salgemma,
ornata di disegni ieratici fatti con lo zolfo e losanghe di madreperla; si usava talvolta inviare al
fidanzato la corona di matrimonio; era una prova d’amore, una sorta di invito.
Però la figlia di Amilcare non provava tenerezza per Narava.
Il ricordo di Mato la torturava intollerabilmente; le sembrava che la morte di quell’uomo avrebbe
liberato la sua mente, allo stesso modo che per guarirsi dai morsi delle vipere le si schiaccia sulla
ferita. Il re dei Numidi dipendeva da lei; attendeva con impazienza le nozze, e siccome si sarebbero
celebrate dopo la vittoria, Salammbô gli faceva quel regalo per eccitarne il coraggio. Infatti i timori
che egli nutriva scomparvero e non pensava che alla gioia di possedere una donna tanto bella.
La stessa visione aveva assalito Mato; ma egli la respinse immediatamente, e quell’amore
represso si riversò sui suoi compagni d’arme. Se ne occupava teneramente come di parti del suo
stesso corpo, del suo stesso odio, e si sentiva l’animo più fiero, le braccia più vigorose. Tutto ciò
che era necessario fare gli si mostrò chiaramente. Se a momenti gli sfuggivano dei sospiri, era a
Spendio che pensava.
Ordinò i Barbari su sei file uguali. Nel mezzo collocò gli Etruschi, tutti attaccati ad una catena di
bronzo, i tiratori stavano dietro, e sulle due ali distribuì i Naffur, montati su dei cammelli a pelo
raso guarniti di penne di struzzo.
Il Suffeta dispose i Cartaginesi in un ordine simile. Ai margini della fanteria, vicino ai veliti,
piazzò i Clinabari, oltre i Numidi; quando apparve il giorno, stavano così allineati gli uni in faccia
agli altri. Tutti, da lontano, si scrutavano coi loro grandi occhi feroci. Vi furono attimi di esitazione;
infine le due armate si mossero.
I Barbari avanzavano lentamente, per non sfiatarsi, battendo la terra coi piedi; il centro
dell’armata punica formava una linea piegata ad arco verso l’esterno. Poi scoppiò un terribile colpo,
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simile allo schianto di due flotte che si scontrano. La prima fila dei Barbari s’era prontamente aperta,
e i tiratori, nascosti dietro gli altri, lanciavano palle, frecce, giavellotti. Intanto la piega dell’armata
cartaginese poco a poco si spianava , si raddrizzò, poi si curvò verso l’interno; allora le due sezioni
dei veliti si riaccostarono parallelamente, come le due aste di un compasso che si richiude. I Barbari,
che si accanivano contro la falange, precipitavano in quel solco; si perdevano. Mato li fermò, e
mentre le ali cartaginesi continuavano ad avanzare, fece scivolare all’esterno le tre linee interne del
suo schieramento; ben presto queste traboccarono sui fianchi, e la sua armata apparve tre volte più
lunga.
Ma i Barbari che stavano ai due capi si trovavano ad essere i più deboli, soprattutto quelli alla
sinistra, che avevano svuotato le loro faretre, e la truppa dei veliti, infine giunta contro di loro, ne
intaccava ampiamente i ranghi.
Mato li fece arretrare. La sua ala destra comprendeva dei Campani armati di asce; la spinse
sull’ala sinistra dei Cartaginesi; il centro attaccava il nemico e quelli all’altra estremità, fuori
pericolo, tenevano in rispetto i veliti.
Allora Amilcare divise i suoi cavalieri in squadroni, tra questi collocò degli opliti, e li lanciò sui
Mercenari.
Quelle masse coniche presentavano un fronte di cavalli, e le pareti più estese erano
completamente irte di lance. Ai Barbari era impossibile resistere; solo i fanti greci disponevano di
corazze di bronzo; tutti gli altri erano armati di coltellacci montati su pertiche, di falci arraffate nelle
masserie, di spade fabbricate col cerchione di una ruota; le lame troppo tenere, colpendo, si
torcevano, e mentre erano occupati a raddrizzarle battendole coi talloni, i Cartaginesi, da destra e da
sinistra, avevano agio di massacrarli.
Ma gli Etruschi, che stavano alla catena, non si spostavano; i morti, non potendo cadere, erano
d’inciampo coi loro cadaveri; e quel massiccio fronte di bronzo, volta a volta, si apriva e si
richiudeva, flessibile come un serpente, stabile come un muro. I Barbari andavano a riordinarsi al
suo riparo, per un momento riprendevano fiato, poi ripartivano con i rottami delle loro armi in mano.
Molti ormai ne erano privi, e saltavano sui Cartaginesi mordendoli al viso, come cani. I Galli per
spavalderia, si spogliarono dei saioni; mostravano da lontano i loro grandi corpi tutti bianchi, e per
spaventare il nemico, ne aprivano le ferite. Nel mezzo dei sintagmi punici non si udiva più la voce
del banditore che gridava gli ordini; gli stendardi al di sopra della polvere ripetevano i loro segnali,
e ognuno andava, trascinato nel flusso della grande massa che lo circondava.
Amilcare comandò ai Numidi di avanzare. Ma i Naffur si precipitarono incontro a loro.
Ammantati d’ampie vesti scure, con un ciuffo di capelli sulla sommità del capo e uno scudo in
pelle di rinoceronte, manovravano un ferro privo di impugnatura trattenuto da una corda; e i loro
cammelli, tutti irti di piume, mandavano gridi rauchi e prolungati. Le lame cadevano in determinati
punti, poi risalivano con uno scossone secco, accompagnate da un arto. Gli animali galoppavano
furiosamente attraverso i sintagmi. Alcuni, che avevano le gambe spezzate, andavano saltellando,
come struzzi feriti.
Tutta la fanteria punica ritornò sui Barbari; li divise. I loro manipoli si aggiravano, separati gli uni
dagli altri. Le armi dei Cartaginesi, più lucenti, li accerchiavano come corone d’oro; in mezzo si
agitava un formicolio, e il sole, che cadeva a picco, metteva sulle punte delle spade dei bagliori
bianchi che volteggiavano. Nel frattempo, intere file di Clinabari restavano stese sulla pianura; i
Mercenari li spogliavano delle loro armature, se ne rivestivano, e ritornavano a combattere. I
Cartaginesi,tratti in inganno, si inserirono più volte in mezzo a loro. Sbigottiti, si immobilizzavano
oppure rifluivano, e i clamori di trionfo che si alzavano in lontananza sembravano sospingerli come
relitti in una tempesta. Amilcare si disperava; tutto andava perduto sotto il genio di Mato e
l’invincibile coraggio dei Mercenari!
Ma un diffuso fragore di tamburelli scoppiò all’orizzonte, Era una folla di vecchi, di malati, di
adolescenti e persino di donne, che, non sopportando più l’angoscia, era partita da Cartagine, e, pur
di mettersi sotto la protezione di qualcosa di formidabile, aveva preso, nei giardini di Amilcare, il
solo elefante posseduto dalla Repubblica in quel momento, quello con la proboscide mozzata.
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Allora ai Cartaginesi parve che la Patria, abbandonando le sue mura, venisse a comandar loro di
morire per lei. Sentirono raddoppiarsi il furore che li animava, e i Numidi trascinarono tutti gli altri.
I Barbari, nel mezzo della piana, s’erano addossati ad una collina. Non avevano alcuna possibilità
di vincere, neppure di scamparla; eppure erano i migliori, i più intrepidi e i più forti.
La folla di Cartagine cominciò a scagliare, al di sopra dei Numidi, spiedi, lardatoi, martelli; quelli
di cui i consoli avevano avuto paura morivano colpiti dalle armi lanciate dalle donne; così la plebe
punica sterminava i Mercenari.
Questi s’eran rifugiati in alto alla collina. Per ognuno che cadeva, il loro cerchio si faceva più
stretto; due volte discese, subito una scossa lo respingeva; e i Cartaginesi stendevano le braccia
caoticamente; allungavano le picche di tra le gambe dei loro compagni e frugavano a caso innanzi a
loro. Scivolavano nel sangue; la china del terreno, assai ripida, faceva rotolare in basso i cadaveri.
L’elefante che tentava di salire la collina ne aveva fino al ventre; si sarebbe detto che vi si sdraiasse
sopra con diletto; e la sua proboscide scorciata, assai larga all’estremità, di tanto in tanto si
sollevava, come un’enorme sanguisuga.
Poi si arrestarono tutti. I Cartaginesi, digrignando i denti, osservavano la sommità del colle sul
quale stavano ritti i Barbari.
Infine, si slanciarono bruscamente, e la mischia riprese. Spesso i Mercenari li lasciavano
avvicinare gridando loro che volevano arrendersi; poi con un terribile sogghigno, di colpo, si
ammazzavano, e a misura che i morti cadevano, gli altri per difendersi vi montavano sopra. Era
come una piramide che man mano s’ingrandiva.
Ben presto non ne restarono che cinquanta, poi venti, poi tre e infine due soltanto, un Sannita
armato di ascia, e Mato che aveva ancora la sua spada.
Il Sannita, piegato sui garretti, spingeva la sua ascia alternativamente a destra e a sinistra,
avvertendo Mato dei colpi che gli venivano portati:
- Di qua, capo! Di là! Chinati!
Mato aveva perso i suoi copri spalle , il casco, la corazza; era completamente nudo, più livido di
un morto, i capelli ritti, con due chiazze di bava agli angoli della bocca; e la sua spada roteava tanto
rapidamente da formare come un’aureola intorno a lui. Una pietra la spezzò vicino all’elsa; il
Sannita era morto e una folla di Cartaginesi gli si stringeva intorno, lo toccava. Allora alzò verso il
cielo le sue mani vuote, poi chiuse gli occhi; e aprendo le braccia, come un uomo che dall’alto di un
promontorio si getti in mare, si lanciò sulle picche.
Quelle si scostarono. Più volte si avventò contro i Cartaginesi. Ma sempre quelli indietreggiavano,
distogliendo le armi.
Il suo piede urtò una spada. Mato volle afferrarla. Si sentì stringere ai polsi e alle ginocchia e
cadde.
Era Narava che, passo a passo, lo seguiva da qualche tempo con una di quelle grandi reti per
catturare le bestie feroci, e approfittando del momento in cui si chinava, ve l’aveva inviluppato.
Poi lo legarono sull’elefante, i quattro arti in croce; e tutti quelli che non erano feriti, scortandolo,
si precipitarono in gran tumulto verso Cartagine.
La notizia della vittoria era giunta in città, inspiegabilmente, già dall’ora terza della notte. La
clessidra di Khamon aveva versato la quinta mentre giungevano a Malqua; in quel momento Mato
aprì gli occhi. V’erano così tante luci sulle case che la città pareva tutta in fiamme.
Un immenso clamore giungeva confusamente sino a lui, che, disteso sulla schiena, guardava le
stelle.
Poi una porta si richiuse e lo avvolsero le tenebre.
L’indomani, alla stessa ora, l’ultimo degli uomini rimasti nella gola dell’Ascia spirò.
Il giorno che i loro compagni erano partiti, gli Zuaeci, che partivano, avevano fatto franare i massi,
e per qualche tempo li avevano sfamati.
I Barbari ogni giorno si aspettavano di veder comparire Mato; e non volevano lasciare la
montagna per scoraggiamento, stanchezza, per quell’ ostinazione che mostrano i malati a non mutar
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di posto; infine, esaurite le provviste, gli Zuaeci se ne andarono. Si sapeva che erano a malapena
trecento, e non ci fu bisogno, per farla finita, di impiegare dei soldati.
Le bestie feroci, soprattutto i leoni, nei tre anni che la guerra era durata, s’erano moltiplicati.
Narava aveva fatto una grande battuta, poi inseguendoli, dopo aver appeso delle capre lungo il
percorso, li aveva spinti verso la gola dell’Ascia; e vi vivevano ancora, allorché giunse l’uomo
inviato dagli Anziani per sapere quel che restava dei Barbari.
Sulla distesa della piana stavano sdraiati leoni e cadaveri, e i morti si confondevano alle vesti e
alle armature. Pressoché a tutti mancava il viso o un braccio; alcuni sembravano ancora intatti; altri
erano disseccati completamente e crani polverosi riempivano dei caschi; piedi scarnificati
fuoriuscivano dai gambali, degli scheletri avevano conservato i loro mantelli; le ossa, ripulite dal
sole, formavano chiazze luminose tra la sabbia.
I leoni riposavano, il petto a terra e le due zampe allungate, strizzando le palpebre per la
lucentezza del giorno, esagerata dal riverbero delle rocce bianche. Altri, seduti sulla groppa,
avevano lo sguardo fisso davanti a loro; oppure, semisommersi nella loro folta criniera, dormivano
arrotolati a palla, e tutti avevano l’aria sazia, stanca, annoiata. Erano immobili come la montagna e
come i morti. Cadeva la notte, larghe strisce rosse rigavano il cielo ad occidente.
In uno di quegli ammassi che deformavano irregolarmente la piana, si levò qualcosa più vago di
uno spettro. Allora uno dei leoni s’avviò, ritagliando con la sua sagoma mostruosa un’ombra nera
sullo sfondo del cielo color porpora; quando fu vicino all’uomo, lo rovesciò con una zampata.
Poi disteso sul ventre sopra lui , con la punta delle zanne, lentamente, ne estraeva le viscere.
In seguito aprì le sue grandi fauci, e cacciò un lungo ruggito, che l’eco della montagna ripeté, e
che infine si perse nella solitudine.
All’improvviso dall’alto rotolò della ghiaia. Si udì un fruscio di passi rapidi, e dal lato della grata
come da quello della strozzatura, comparvero dei musi aguzzi, delle orecchie diritte; brillavano
delle pupille selvagge. Erano gli sciacalli che giungevano per mangiare i resti.
Il Cartaginese, che guardava piegato sull’alto del precipizio, se ne ritornò.
146
XV
MATO
Cartagine era colma di gioia, una gioia profonda, universale, smisurata, frenetica. Erano stati
chiusi gli squarci delle rovine, ridipinte le statue degli Dei, rami di mirto adornavano le vie, agli
angoli dei crocicchi fumava l’incenso, e la moltitudine sulle terrazze con le sue vesti screziate di
colori formava come dei mazzi di fiori che sbocciavano nell’aria.
Il continuo brusio delle voci era sovrastato dal grido dei portatori d’acqua che innaffiavano il
lastricato; degli schiavi di Amilcare offrivano , in suo nome, orzo tostato e pezzi di carne cruda; la
gente si incontrava, si abbracciava piangendo; le città tirie erano state espugnate, i Nomadi dispersi,
tutti i Barbari annientati. L’Acropoli scompariva sotto dei velari colorati; i rostri delle triremi,
allineate lungo il molo, risplendevano come uno sbarramento di diamanti; ovunque si sentiva
l’ordine ristabilito, una nuova vita che ricominciava, un’immensa felicità diffusa: era il giorno delle
nozze di Salammbô con il re dei Numidi.
Sulla terrazza del tempio di Khamon, gigantesche argenterie ingombravano tre lunghe tavolate
dove stavano per sedersi i Sacerdoti, gli Anziani e i Ricchi, e ve n’era una quarta, più alta, per
Amilcare, per Narava e per lei; avendo Salammbô salvato la Patria con la restituzione del velo, il
popolo faceva delle sue nozze una festa nazionale, e in basso, sulla piazza, attendeva ch’ella
apparisse.
Ma un altro desiderio, più pungente, eccitava la sua impazienza; la morte di Mato era promessa
per la cerimonia.
Dapprima era stato proposto di scorticarlo vivo, di colargli del piombo nelle viscere, di farlo
morire di fame; lo si sarebbe legato ad un albero, e una scimmia, alle sue spalle, lo colpirebbe con
una pietra; aveva offeso Tanit, i cinocefali di Tanit l’avrebbero vendicata. Altri erano dell’avviso
che lo si portasse in giro su un dromedario, dopo avergli infilato in più punti del corpo degli
stoppini di lino imbevuti d’olio; e si compiacevano all’idea del grande animale vagabondante per le
strade con quell’uomo che si torceva sotto il fuoco come un candelabro agitato dal vento.
Ma quali cittadini sarebbero stati incaricati del suo supplizio e perché deludere gli altri? Ci
sarebbe voluta una specie di morte alla quale partecipasse l’intera città, e che tutte le mani, tutte le
armi, tutte le cose cartaginesi, fino al selciato delle strade e alle onde del golfo potessero dilaniarlo,
schiacciarlo, annientarlo. Dunque gli Anziani decisero che sarebbe andato dalla sua prigione alla
piazza di Khamon, senza alcuna scorta, con le mani legate sulla schiena; ed era proibito colpirlo al
cuore affinché vivesse più a lungo, accecarlo affinché potesse vedere fino in fondo il suo supplizio,
non si doveva scagliare nulla contro la sua persona e mettergli addosso più di tre dita alla volta.
Benché non dovesse comparire che alla fine del giorno, talora si credeva di scorgerlo, e la folla si
precipitava verso l’Acropoli, le strade si vuotavano, poi essa rifluiva con un lungo mormorio.
Alcuni, già dalla vigilia, stavano in attesa nello stesso posto, e da lontano si interpellavano
mostrandosi le unghie, che avevano lasciato crescere per affondarle meglio nella sua carne. Altri
andavano qua e là in preda all’agitazione; qualcuno era pallido come se fosse in attesa della propria
esecuzione.
Improvvisamente, dietro i Mappali, degli alti ventagli di piume si levarono sopra le teste. Era
Salammbô che usciva dal suo palazzo;dalla folla esalò un sospiro di sollievo.
Ma il corteo impiegò molto tempo ad avanzare; procedeva lentamente.
Per primi sfilarono i sacerdoti dei Pateci, poi quelli di Eshmun, quelli di Melqart, e via via tutti gli
altri collegi con le stesse insegne e nel medesimo ordine che avevano osservato la volta del
sacrificio. I pontefici di Moloch passarono col capo chino, e la moltitudine, per una specie di
rimorso, si scostava da loro. Al contrario, i sacerdoti della Rabbetna avanzavano con un portamento
fiero, tenendo fra le mani delle lire; le sacerdotesse li seguivano in vesti trasparenti di color giallo o
nero, emettendo gridi d’uccello, contorcendosi come vipere; oppure volteggiavano al suono dei
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flauti per imitare la danza delle stelle, e le loro vesti leggere mandavano per le strade sbuffi di molli
profumi. Si acclamavano, tra quelle femmine, i Kedeshim dalle palpebre dipinte, che
simboleggiavano l’ermafroditismo della Dea, e profumati e abbigliati come quelle, vi somigliavano
malgrado i loro seni piatti e i fianchi più stretti. D’altra parte quel giorno il principio femminile
dominava, confondeva ogni cosa: nell’aria greve circolava una mistica lascivia; di già le torce
andavano illuminandosi nel fondo dei sacri boschetti; durante la notte vi si sarebbe tenuta una
grande prostituzione; tre vascelli avevano portato dalla Sicilia delle cortigiane e altre ne erano
giunte dal deserto.
I collegi, man mano che arrivavano, si disponevano nei cortili del tempio, lungo le gallerie esterne
e sulle doppie scalinate che salivano addossate alle mura riunendosi in alto. Filari di vesti bianche
apparivano tra i colonnati, e l’architettura si popolava di statue umane, immobili come statue di
pietra.
Poi sopraggiunsero i responsabili delle finanze, i governatori delle province e tutti i Ricchi. In
basso si produsse un gran tumulto. La folla rigurgitava dalle strade vicine; gli ieroduli la
respingevano a colpi di bastone; e nel mezzo degli Anziani coronati di tiare d’oro, su una lettiga
sormontata da un baldacchino di porpora, si scorse Salammbô.
Allora si alzò un immenso grido; i cimbali e i crotali risuonarono più forte, i tamburelli
rimbombarono, e il grande baldacchino di porpora scomparve tra i due pilastri dell’entrata.
Riapparve al primo piano. Salammbô vi camminava sotto, lentamente; poi attraversò la terrazza
per andare a sedersi, in fondo, su una specie di trono tagliato in un guscio di tartaruga. Fu posto
sotto i suoi piedi uno sgabello d’avorio a tre gradini; sul bordo del primo stavano inginocchiati due
bambini negri, e di tanto in tanto ella appoggiava sulla loro testa le sue braccia cariche di anelli
troppo pesanti.
Dalle caviglie ai fianchi, era stretta in una rete di fitte maglie che imitavano le squame di un pesce
e rilucevano come madreperla; una fascia d’un azzurro intenso, serrandole il corpo, lasciava vedere
i suoi seni attraverso due incavi a mezzaluna; due gocciole di carbonchio ne nascondevano le punte.
Aveva una acconciatura fatta con penne di pavone stellate di pietre preziose; un ampio mantello,
bianco come la neve, le ricadeva dietro; e, con i gomiti stretti ai fianchi, le ginocchia serrate,
cerchietti di diamanti in alto alle braccia, se ne stava impettita in una posa ieratica.
Su due sedili più bassi v’erano suo padre e il suo sposo. Narava, vestito d’una zimarra color
biondo, portava la corona di salgemma dalla quale sfuggivano due trecce di capelli, ritorte come
corni di Ammone; e Amilcare, in una tunica violetta intessuta di pampini d’oro, teneva al fianco una
spada da combattimento.
Nello spazio limitato dalle tavole, il pitone del tempio di Eshmun, disteso a terra tra pozze d’olio
di rosa, mordendosi la coda descriveva un gran cerchio nero. Nel mezzo del cerchio stava una
colonna di rame che sosteneva un uovo di cristallo; e siccome vi batteva sopra il sole, da ogni lato si
sprigionavano raggi luminosi.
Alle spalle di Salammbô si dispiegavano i sacerdoti di Tanit in vesti di lino; gli Anziani, alla sua
destra, formavano con le loro tiare una grande linea d’oro, e, dall’altro lato, i Ricchi con i loro
scettri di smeraldo una grande linea verde; mentre, sullo sfondo, dove erano disposti i sacerdoti di
Moloch, a causa dei loro mantelli, si sarebbe detto esserci una muraglia di porpora. Gli altri collegi
occupavano le terrazze inferiori. La moltitudine ingombrava le strade. Saliva sulle case e in lunghe
file giungeva sino in alto all’Acropoli. In tal modo, con il popolo ai suoi piedi, il firmamento sopra
la testa, e all’intorno l’immensità del mare, il golfo, le montagne e la prospettiva delle province,
Salammbô, risplendente, si confondeva con Tanit e sembrava il genio stesso di Cartagine,
l’incarnazione della sua anima.
Il festino doveva durare tutta la notte, e delle lumiere a più bracci stavano piantate come alberi sui
tappeti di lana colorata che circondavano le basse tavole. Grandi fiale d’ambra, anfore di vetro
azzurro, cucchiai di tartaruga e piccoli pani rotondi riempivano una doppia schiera di piatti bordati
di perle; grappoli d’uva con le loro foglie erano arrotolati come tirsi a ceppi d’avorio; dei blocchi di
ghiaccio si liquefacevano sui vassoi d’ebano, e i limoni, le melagrane, le zucche, i cocomeri si
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ammonticchiavano sotto le alte argenterie; cinghiali con le fauci aperte si avvoltolavano in una
polvere di spezie; lepri, complete di pelliccia, sembravano saltellare tra i fiori; composte di carni si
stipavano entro conchiglie; i dolci avevano forme simboliche; quando le campane dei piatti
venivano sollevate, ne volavano fuori delle colombe.
Intanto gli schiavi, con le tuniche rimboccate, giravano in punta di piedi; di tanto in tanto le lire
suonavano un inno, oppure si alzava un coro di voci. Il brusio del popolo, continuo come il rumore
del mare, fluttuava vagamente attorno al festino e sembrava cullarlo in una più vasta armonia;
alcuni ricordavano il banchetto dei Mercenari; ci si abbandonava a sogni di felicità; il sole
cominciava a calare, e già, dall’altra parte del cielo, si alzava la falce della luna.
Ma Salammbô, come se qualcuno l’avesse chiamata, volse il capo; il popolo, che la guardava,
seguì la direzione dei suoi occhi.
In cima all’Acropoli, la porta della prigione, tagliata nella roccia ai piedi del tempio, stava
aprendosi; e sulla soglia di quel buco nero v’era un uomo in piedi.
Ne uscì piegato in due, con l’aria spaventata degli animali selvatici quando di colpo li si lascia
liberi.
La luce lo accecava; restò qualche momento immobile. Tutti l’avevano riconosciuto e
trattenevano il respiro.
Il corpo di quella vittima era per loro qualcosa di speciale, adorno d’uno splendore quasi religioso.
Si sporgevano per vederlo, soprattutto le donne. Bruciavano dalla voglia di contemplare colui che
aveva fatto morire i loro figli e i loro sposi; e dal profondo della anima, loro malgrado, sentivano
sorgere un’infame curiosità, il desiderio di conoscerlo compiutamente; un desiderio intriso di
rimorsi che si mutava in un sovrappiù di odio.
Infine venne avanti; allora lo stordimento per la sorpresa svanì. Innumerevoli braccia si
sollevarono e non lo si vide più.
La scalinata dell’Acropoli aveva sessanta gradini. Li discese come se rotolasse in un torrente
dall’alto di una montagna. Tre volte lo si scorse che rimbalzava, poi, in basso, ricadde sui talloni.
Le sue spalle sanguinavano, il suo petto ansimava agitato; e per spezzare le corde faceva tali
sforzi, che le sue braccia incrociate sulle reni nude si gonfiavano come i tronconi di un serpente.
Nel punto dove si trovava, si aprivano davanti a lui più strade. In ciascuna di esse, una tripla fila
di catene di bronzo, fissate all’ombelico degli Dei Pateci, andavano parallele da un capo all’altro; la
moltitudine stava pigiata contro le case, e, nel mezzo, alcuni servitori degli Anziani andavano su e
giù brandendo staffili di cuoio.
Uno di questi lo spinse in avanti con un gran colpo; Mato si mise a camminare.
La folla allungava le braccia al di sopra delle catene, urlando che gli si era lasciato un passaggio
troppo largo; ed egli andava, palpeggiato, pizzicato, graffiato da tutte quelle dita; quando giungeva
alla fine di una via, ne appariva un’altra, più volte si gettò di lato per morderli, quelli si scostavano
prontamente, le catene lo trattenevano, e tutti scoppiavano a ridere.
Un bimbo gli lacerò un orecchio; una giovinetta, celando sotto la manica la punta di un fuso, gli
trafisse una gota; gli strappavano manciate di capelli, lembi di carne; altri, con dei bastoni sui quali
reggevano spugne imbevute di immondizie, gli tamponavano il viso. Dal lato destro della sua gola
scaturì un fiotto di sangue; subito cominciò il delirio. Quell’ultimo Barbaro rappresentava ai loro
occhi tutti i Barbari, tutta l’armata; si vendicavano su di lui dei loro disastri, delle loro paure, dei
loro obbrobri. La rabbia del popolo soddisfacendosi aumentava; le catene troppo tese si incurvavano,
stavano per rompersi; non facevano nemmeno caso ai colpi che gli schiavi vibravano su di loro per
tenerli indietro; alcuni si tenevano aggrappati alle sporgenze delle case; tutte le aperture nei muri
erano ostruite di volti; e il male che non potevano fargli glielo urlavano contro.
Erano ingiurie atroci, immonde, miste a incoraggiamenti ironici e a imprecazioni. E siccome
sembrava loro che i suoi dolori attuali non bastassero gliene annunciavano altri, ancor più terribili,
per l’eternità.
Quel vasto abbaìo riempiva Cartagine, con stupida costanza. Spesso una sola sillaba, con una
intonazione roca, profonda, frenetica, veniva ripetuta per alcuni minuti da tutto il popolo. I muri ne
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vibravano dalle fondamenta alla sommità, e Mato aveva l’impressione che le due pareti della strada
gli si stringessero contro e lo sollevassero da terra, come due immense braccia, per soffocarlo in aria.
Intanto si ricordava di avere già vissuto qualcosa di simile. C’era la stessa folla sulle terrazze, gli
stessi sguardi, la stessa collera; ma allora egli camminava libero, tutti si scostavano, lo ricopriva un
Dio; e quel ricordo, precisandosi poco a poco, gli cagionava una tristezza insopportabile. Delle
ombre trascorrevano davanti ai suoi occhi; la città tumultuava nella sua testa, il sangue gli sgorgava
da una ferita al fianco, si sentiva morire; le ginocchia gli cedettero, ed egli si accasciò lentamente
sul lastricato.
Qualcuno andò a prendere, nel peristilio del tempio di Melquart, l’asta di un tripode arroventata
sui carboni, e, facendola passare sotto la prima catena, gliela appoggiò sulla ferita. Si vide fumare la
carne; gli urli del popolo coprirono la sua voce; era di nuovo in piedi.
Sei passi più avanti, e cadde una terza, una quarta volta; sempre un nuovo tormento lo faceva
rialzare. Gli si lanciavano con dei tubi delle goccioline d’olio bollente; vennero disseminati lungo il
suo cammino dei cocci di vetro; ciononostante proseguiva. All’angolo della via di Satheb, appoggiò
la schiena contro il muro sotto la tettoia di una bottega, e non avanzò oltre.
Gli schiavi del Consiglio lo colpirono con delle fruste in cuoio d’ippopotamo così furiosamente e
per un tempo così lungo che le frange delle loro tuniche erano zuppe di sudore. Mato sembrava
insensibile; di colpo fece un balzo e si mise a correre alla cieca, facendo con le labbra il rumore di
chi rabbrividisce per il freddo. Infilò la via di Budes, quella di Sepo, traversò il Mercato delle Erbe
e giunse sulla piazza di Khamon.
Ora apparteneva ai sacerdoti; gli schiavi accorrevano per allontanare la folla; non c’era più spazio.
Mato si guardò intorno, e i suoi occhi incontrarono Salammbô.
Fin dai primi passi ch’egli aveva mosso, ella s’era alzata; poi, senza volerlo, man mano ch’egli si
avvicinava, era avanzata poco a poco sino al bordo della terrazza; e ben presto, sparite tutte le cose
esterne, non aveva visto che Mato. Un silenzio s’era fatto nella sua anima, uno di quegli abissi entro
i quali il mondo intero scompare sotto la pressione di un unico pensiero, di un ricordo, di uno
sguardo. Quell’uomo, che veniva verso di lei, l’attirava.
Egli non aveva più, salvo gli occhi, un’apparenza umana; era una lunga forma completamente
rossa; i legacci spezzati gli pendevano lungo le cosce, ma non li si distingueva dai tendini dei suoi
polsi messi a nudo; la sua bocca restava spalancata; dalle orbite gli uscivano due fiamme che
sembravano salire sino ai suoi capelli; e il miserabile continuava a camminare!
Arrivò giusto ai piedi della terrazza. Salammbô era china sulla balaustra; quei terribili occhi la
contemplavano, ed ella prese coscienza di tutto ciò che egli aveva sofferto per lei. Benché
agonizzasse, lo rivedeva nella sua tenda, in ginocchio, che le circondava la vita con le braccia,
balbettando dolci parole. Desiderava sentirle ancora, ascoltarle; non voleva ch’egli morisse! Proprio
in quel momento, Mato ebbe un gran sussulto; ella stava per gridare. Cadde riverso e non si mosse
più.
Salammbô, pressoché svenuta, fu riportata sul suo trono dai sacerdoti che s’erano
premurosamente affollati intorno a lei. Si congratulavano; era merito suo. Tutti applaudivano,
scalpitavano urlando il suo nome.
Un uomo si lanciò sul cadavere. Benché fosse senza barba, portava sulle spalle il mantello dei
sacerdoti di Moloch, e alla cintura lo speciale coltello del quale si servivano per squartare le carni
consacrate, che terminava, ad una estremità del manico, con una spatola d’oro. Con un sol colpo,
squarciò il petto di Mato, poi ne strappò il cuore, lo posò sul cucchiaio, e Shahabarim, levando il
braccio, l’offrì al sole.
Il sole si abbassava dietro le onde; i suoi raggi, simili a lunghe frecce, colpivano il cuore tutto
rosso. Man mano che i battiti diminuivano, l’astro sprofondava nel mare; all’ultimo palpito,
scomparve.
Allora, dal golfo sino alla laguna e dall’istmo sino al faro, in tutte le vie, su tutte le case e su tutti i
templi fu un solo grido; talora si arrestava, poi riprendeva; gli edifici ne tremavano; Cartagine era
come contratta nello spasmo di una gioia titanica e di una speranza senza limiti.
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Narava, ebbro d’orgoglio, passò il suo braccio sinistro attorno alla vita di Salammbô in segno di
possesso; e, con la destra, prendendo una patera d’oro, bevve al genio di Cartagine.
Salammbô si alzò come il suo sposo, con una coppa in mano, per bere anche lei. Ricadde con la
testa rovesciata sullo schienale del trono, livida, irrigidita, le labbra aperte, e i capelli, che le si
erano sciolti, pendevano sino a terra.
Così morì la figlia di Amilcare per aver toccato il mantello di Tanit.
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