Da “Tutti gli uomini del Presidente” a “Sbatti il mostro in prima

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Da “Tutti gli uomini del Presidente” a “Sbatti il mostro in prima
Da “Tutti gli uomini del Presidente” a
“Sbatti il mostro in prima pagina”, da
“Quarto Potere” a “Vogliamo i colonnelli”:
quando il giornalismo fa politica.
Domenico Palattella (29)
Tra Usa e Italia una serie di film costruiti come delle
vere e proprie inchieste giornalistiche, hanno portato
alla luce momenti di storia spesso nascosti. Il
cosiddetto “giornalismo d’inchiesta” non ha fatto
altro che rialzare polveroni ormai sopiti, o riportare
alla luce scandali meritevoli di una loro versione
cinematografica. Il giornalismo che descrive la
politica attraverso il cinema dunque; non la politica
che entra nella pellicola, con le classiche ingerenze
di cui è piena la storia del cinema. Il cosiddetto giornalismo d’inchiesta ha offerto quindi a registi e
sceneggiatori un ventaglio di potenzialità tutt’altro che indifferente. Il film più importante e
celebrato, per capire la valenza e il significato di questo genere cinematografico piuttosto
particolare è “Tutti gli uomini del presidente”(1976), capolavoro di Alan J.Pakula. Indiscussa pietra
miliare quando si parla di cinema d’inchiesta, il film è interpretato da una coppia di protagonisti
d’eccezione, Dustin Hoffman e Robert Redford, nei rispettivi ruoli dei cronisti del Washington Post
Carl Bernstein e Bob Woodward. Basato sull’omonimo non-fiction book di Bernstein e Woodward,
Tutti gli uomini del presidente è un’esemplare ricostruzione dell’inchiesta, iniziata nell’estate del
1972, che due anni più tardi avrebbe portato alle dimissioni del Presidente Richard Nixon, coinvolto
in prima persona nello scandalo Watergate. Film magistrale per la capacità di fondere il senso dello
spettacolo con il rigore della messa in scena e la denuncia contro i soprusi della politica, Tutti gli
uomini del presidente è un classico intramontabile ricompensato con quattro premi Oscar: miglior
attore supporter per Jason Robards, miglior sceneggiatura, miglior scenografia e miglior sonoro.
Con “Tutti gli uomini del Presidente” siamo negli anni ’70, proprio nel periodo in cui l’Italia è scossa
dalle stragi brigatiste e dai tumulti sociali e politici. In questo clima culturale, nettamente diverso da
quello del decennio precedente, si sviluppa il cosiddetto “cinema sociale e politico”, che ha in Elio
Petri il suo autore più importante e in Gian Maria Volontè, la maschera italica della corruzione e
dell’abuso di potere tipico di gran parte della classe politica italiana. Con “Indagine su un cittadino
al di sopra di ogni sospetto”(1970), l’accoppiata raggiunge i massimi livelli e l’Oscar come miglior
film straniero. Uno splendido thriller psicoanalitico sulla cristallizzazione e le aberrazioni del potere
che analizza in chiave grottesca i metodi e i fini degli apparati polizieschi. Il film attribuisce poi, ai
rappresentanti del potere un’eccessiva coscienza (ancorchè negativa) del proprio ruolo e della
propria funzione. Resta molto convincente, anche per merito della perfetta interpretazione di Gian
Maria Volonté, la descrizione di “un piccolo personaggio della piccola borghesia meridionale che non
ha la possibilità di accesso a un potere diverso da quello burocratico e che sfoga nell’autorità le sue
repressioni sessuali e di classe”.
E poi l’anno successivo c’è il film “Sbatti il mostro in prima
pagina”, ancora interpretato da Gian Maria Volontè e diretto da
Marco Bellocchio, è forse il film da cui ha preso spunto Alan
J.Pakula, per la sua precisa descrizione del caso Watergate, che
sconvolse l’America nel 1972. Un’aberrante campagna
giornalistica diffamatoria nei confronti di un extraparlamentare
di sinistra, condotta da un redattore capo, sullo sfondo di
un’Italia cupa, grigia, che ha smarrito la spensieratezza del boom
economico e si prepara alla strategia della tensione, con la
rivoluzione sessantottina ormai andata verso il definitivo
fallimento. Il potere della diffamazione a mezzo stampa, il potere
della politica che si serve dei mass-media, nel bene e nel male.
Ma giunti a questo punto, val la pena citare il film capostipite di tale genere, quel “Quarto
Potere”(1942), di Orson Welles, ripetutamente eletto dai critici come “il film più bello di tutti i
tempi”. Opera capitale nella storia del cinema è il ritratto di un magnate della stampa (sempre Orson
Welles) e di un mistero che si porterà nella tomba, e sul quale indagherà un volenteroso giornalista.
Sullo sfondo della vicenda, l’America che avanza e che si candida ad essere il motore trainante
dell’intero Globo terrestre. Quello di “Quarto Potere” è il ritratto faustiano di un americano al “cento
per cento”, ed un opera capitale nella storia del cinema. Il modello assoluto per capire il giornalismo
d’inchiesta e ancora di più per capire come si crea un film d’inchiesta politica o sociale.
Ritornando in Italia, c’è un film del 1973, ingiustamente dimenticato, vuoi per la valenza culturale
che esso riveste, vuoi per il merito di descriverci, con grande precisione storico-sociologica un pezzo
nascosto di storia patria. Il 5 marzo 1973 arriva sugli schermi “Vogliamo i colonnelli”, un soggetto
che Mario Monicelli, insieme ad Age e Scarpelli, ha concepito qualche anno prima ispirandosi alle
voci che giravano per l’Italia su un imminente colpo di stato. Sfruttando la tematica del gruppo di
imbecilli che si mettono insieme per combinare un’impresa più grossa di loro, Monicelli e i due
sceneggiatori seguono le vicende di un manipolo di militari e fascisti irriducibili che portano avanti
un tentativo di golpe naufragato nel ridicolo, capitanati da un vanaglorioso onorevole di destra (Ugo
Tognazzi). La pellicola è scatenata, con un tono grottesco, acido e cattivissimo di perfida efficacia, e
con una spassosa galleria di fascisti cialtroni e di militari rimbambiti. Alle spalle, precisi riferimenti
al tentato golpe del generale De Lorenzo (scoperto e denunciato dall’Espresso nel 1969, cinque anni
dopo i fatti) e a quello ancora più farsesco di Junio Valerio Borghese del dicembre del 1970. La
pellicola procede esattamente come il golpe del 1970, e sui quali Monicelli e sceneggiatori si erano
documentati corposamente: i campi di addestramento paramilitari preparatori al fallito golpe
Borghese, la mancata occupazione della Rai, il progettato arresto del presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat. Un film di violenta satira politica, un film che mette a nudo e rende pubblico un
pezzo di storia segreta della repubblica italiana e dei rischi che la sua democrazia ha corso, e forse è
proprio per quanto denuncia, che il film viene ritirato quasi subito dal mercato: sabotato, ritirato
nelle sale dopo pochi giorni di proiezioni, ci si adopera nei piani alti perché la pellicola sparisca il
prima possibile dalla circolazione. E “Vogliamo i colonnelli” diviene così una delle pellicole che ha
incassato meno nella storia del cinema italiano. Un film scomodo, troppo scomodo per ciò che
denunciava, ma preziosissimo: un documento storico, realisticamente ineccepibile, retto dalla
memorabile interpretazione di Ugo Tognazzi.
E oggi? E oggi c’è “Il caso Spotlight”(2015), di Tom McCarthy. La
storia di come il Boston Globe rivelò – con un’inchiesta alla
vecchia maniera, forse l’ultima del suo genere già nell’epoca
digitale – lo scandalo dei preti pedofili a Boston. Ma anche la
storia di come lo stesso giornale l’aveva trascurata. Di sei
nomination, ha vinto due Oscar, tra cui il più importante per il
miglior film. Bisogna dire la verità, non c’è nulla di originale,
all’interno del fatto che sia effettivamente un grande film, i
modelli di riferimento sono quelli citati qui sopra e alla loro
grandezza, che si vinca l’Oscar o meno, è difficile se non
impossibile arrivarci.