Salvataggi e fallimenti del capitalismo

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Salvataggi e fallimenti del capitalismo
Crisi e conflitti – periodico on line
Copyright © 2008 Maurizio Donato
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MAURIZIO DONATO°
Salvataggi e fallimenti del capitalismo
1.Rischi, debiti e derivati: distribuzioni normali ed eventi eccezionali.- 2.Le ondate
anomale e il giro della morte del capitale fittizio. - 3. Il mercato immobiliare e le
cartolarizzazioni dei crediti. - 4. Crisi della teoria e teoria della crisi. - 5. Insolvenza e
sovranità. - 6. Le riserve ufficiali come assicurazione dal rischio di insolvenza. - 7.
Insolvenza sovrana e stato di emergenza.
Tutti i paesi vengono, l’uno dopo l’altro, coinvolti dalla crisi e si vede allora che quasi tutti
hanno importato e esportato troppo. Può accadere che la crisi scoppi in un primo tempo in quel
paese che più di tutti gli altri concede credito e meno ne domanda, con la massa di capitali che
ha dato in prestito all’estero. Viene ora il turno di un altro paese: tutti i pagamenti devono
essere effettuati contemporaneamente. Ma in tutti i paesi vi è stata una sovraimportazione e una
sovraesportazione, ossia sovrapproduzione stimolata dal credito e dal generale aumento dei
prezzi. In periodi di crisi generale sempre, una dopo l’altra, come un fuoco di fila, lo stesso
collasso colpisce tutte le nazioni, o per lo meno quelle sviluppate. E’ curioso che gli esperti –
appena un mese prima della crisi – facciano rivivere questa illusione: gli affari sono sempre
sanissimi e il loro svolgimento progredisce a un ritmo favorevole, fino a che il crollo avviene
tutto in una volta. Del resto, tutto qui si presenta deformato perché in questo mondo di carta
non appaiono mai il prezzo reale e i suoi reali elementi, ma soltanto lingotti, denaro sonante,
banconote, cambiali, titoli.
Karl Marx, Il Capitale, Libro III, cap. 30
Il 9 agosto 2007, a causa di “tensioni nel mercato monetario dell’euro”, la Banca
centrale europea ha iniettato più di 130mld$ in un tipo di operazione di emergenza che
non era stata messa in atto “nemmeno” dopo gli attentati alle torri gemelle di New York;
pochi giorni dopo, la sua omologa statunitense faceva lo stesso avviando
contemporaneamente un ciclo di manovre di ribasso del tasso di interesse nel tentativo
di scongiurare o almeno di ammorbidire i contraccolpi sull’economia reale del nuovo
episodio della saga della crisi questa volta concentrata nel cuore del sistema finanziario
occidentale. Dopo avere colpito nella seconda metà degli anni ’90 paesi pur importanti
ma non dominanti come Messico, Brasile, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia,
Ecuador, Argentina, la crisi irrisolta ha provocato finora il fallimento di una importante
banca inglese, prontamente nazionalizzata dalle istituzioni del paese simbolo del
liberismo, e di una recidiva banca di investimenti nordamericana, altrettanto
rapidamente salvata dal provvidenziale intervento della Banca federale Usa.
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Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo.
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Nonostante l’ottimismo profuso senza risparmi dagli apologeti del libero
mercato, il modo di produzione capitalistico non sembra col tempo essere diventato
immune dalla crisi. Anzi. Proprio in sospetta coincidenza con l’ondata di privatizzazioni
e liberalizzazioni dei mercati finanziari definita col termine passato alla moda di
“globalizzazione”, le crisi economiche sono diventate più frequenti, più estese e più
violente, sollevando più di un dubbio sulle interpretazioni fondate sul carattere
eccezionale dei singoli episodi, di volta in volta attribuiti a comportamenti sbagliati di
questo o quel soggetto economico cui attribuire il ruolo di capro espiatorio di turno.
Conviene perciò affrontare l’argomento crisi senza pregiudizi ideologici, tentando
piuttosto di rintracciarne le radici a cominciare dai comportamenti dei soggetti più in
grado di orientare i mercati, le istituzioni finanziarie, e dalle teorie poste alla base delle
loro scelte.
1. Rischi, debiti e derivati: distribuzioni normali ed eventi eccezionali
La famiglia dei prodotti finanziari si è arricchita di nuovi membri a partire
dall’autunno del 1968, anno in cui fu stipulato il primo tipo di contratto moderno in cui
sia presente un prodotto finanziario derivato. Le opzioni sono un esempio di derivato;
più precisamente, si tratta di contratti che consentono di comprare azioni di imprese a un
prezzo prefissato; le opzioni di tipo call consentono di comprare uno stock a un
determinato prezzo di esercizio nel futuro, quelle put di vendere a un prezzo fisso; se il
prezzo effettivo è più alto di quello di esercizio, l’operatore finanziario compra, vende e
realizza un “profitto”; in caso contrario l’opzione scade e il sottoscrittore incassa il
premio. Ma come “indovinare” il prezzo finale di un’azione? Come scegliere il prezzo
da proporre nel contratto? Fino alla fine degli anni ’50 gli analisti finanziati non
adoperavano statistiche particolarmente sofisticate per prevedere il valore di un titolo,
anche perché i calcolatori non erano diffusi come oggi; si guardava ai risultati raggiunti
da una impresa e, al più, si teneva conto della volatilità del titolo, cioè dei suoi
scostamenti dalla media dei risultati; ma, come comportarsi con le opzioni?
La scoperta rivoluzionaria di Fischer Black1 fu quella di sostenere che il
rendimento di una opzione dipende dalla sua volatilità, esattamente come accade per le
azioni; quando nel 1969, assieme con Myron Scholes, scoprì la “formula magica” in
grado di slegare il prezzo dell’opzione dal suo rendimento, la teoria moderna della
finanza era nata. Una importante banca di investimenti americana si mise subito
all’opera per applicare la formula ai propri affari, traducendola pressappoco così: per
coprirsi dai rischi è sufficiente tenere tanti stocks quante opzioni vendi e “replicare” il
portafoglio: non ha alcun interesse se il prezzo dell’azione vada giù o su, dal momento
che il guadagno è sul contratto. Basta aggiungere una percentuale di punto al tasso di
interesse, ed hai fatto arbitraggio coperto dai rischi. Nella primavera del 1973 la
Commissione statunitense di controllo sulla borsa consentì lo scambio di opzioni al
Chicago Board Of Exchange, a maggio Black e Scholes resero pubblica la “formula
magica” e Merton pubblicò un importante articolo collegato alla questione di cui
discutiamo. Al di là degli aspetti tecnici sicuramente importanti ma non fondamentali
per il nostro lavoro, ci interessa sottolineare le ipotesi alla base non solo degli articoli
cui stiamo facendo riferimento, ma di tutta la nuova teoria economica e finanziaria
ortodossa. Si tratta di assunzioni apparentemente innocue, considerate come dogmi
dall’accademia, eppure ricche di implicazioni importanti, perché è a partire da queste
1
Espressa compiutamente nell’articolo scritto con Myron Scholes dal titolo The Pricing of Options and
Corporate Liabilities, Journal of Political Economy, maggio-giugno 1973
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fondamenta che si è sviluppata non solo la nuova teoria della finanza moderna, ma la
concreta pratica di gestione delle banche che su tali ipotesi continua a fondarsi. Una
prima ipotesi, espressa solitamente assieme a una seconda, presuppone l’esistenza di
“scambi di mercato continui e senza frizioni”. La critica di molti economisti eterodossi
è stata rivolta negli anni prevalentemente alla seconda delle due affermazioni,
sostenendo che in realtà le frizioni – definibili come costi di transazione – esistono ed è
sbagliato non tenerne conto, ma a nostro giudizio l’ipotesi più importante è la prima, che
presuppone la capacità dei mercati di funzionare sempre, come se non esistesse e non
potesse mai esistere un problema di liquidità, che viceversa esiste e si manifesta come
sintomo di crisi in una situazione in cui, ad esempio, tutti vogliono vendere ma non c’è
nessuno che compra. La terza assunzione di fondo è probabilmente il vero assunto di
base della teoria economica liberale, la pietra angolare su cui si costruisce tutto
l’edificio dell’ortodossia economica e finanziaria: l’ipotesi di mercati efficienti. I prezzi
– si sostiene - conterrebbero tutta l’informazione necessaria che viene “processata” dal
mercato senza lasciare agli operatori alcuna possibilità di “vincere”, di “battere” il
mercato stesso. In un mercato efficiente nessuna impresa ha potere, e i prezzi, dunque i
rendimenti delle attività finanziarie, seguono un tipico andamento da random walk ,
distribuzioni statistiche la cui forma è di tipo Normale, con media stabile e varianza
finita.
La teoria finanziaria standard considera uno stock come un insieme di rendimenti
sul capitale di cui osservare i risultati giorno per giorno; tale insieme, come ogni altro
esempio del mondo naturale, può essere studiato dal punto di vista statistico formulando
ipotesi sulla forma della sua distribuzione, di cui si possono considerare momenti
significativi la media e la deviazione standard (dalla media), altrimenti definita come
volatilità, il cui valore ci dice come si distribuiscono i rendimenti di un determinato
stock attorno alla media. Esistono tuttavia altre caratteristiche che può essere utile
conoscere riguardo alla forma di una distribuzione statistica: ad esempio una banca può
chiedersi, scegliendo un investimento a caso tra quelli che compongono il proprio
portafoglio, qual è il valore più basso che tale investimento può raggiungere in –
mettiamo – 19 casi su 20. In termini finanziari, questa domanda equivale a chiedersi
quale sia la massima perdita realizzabile su una singola attività, e la risposta dipende
ancora una volta dalla forma della distribuzione: se si ipotizza che sia Normale, con la
classica forma a campana in cui la maggioranza dei valori sta attorno alla media, allora
basta conoscere la volatilità. Tuttavia, contrariamente alle ipotesi standard della teoria
finanziaria, non è così scontato assumere che i rendimenti delle attività finanziarie si
distribuiscano in modo Normale; è possibile invece ritenere che la loro distribuzione sia
caratterizzata dalla presenza di leggi di potenza, come è più plausibile ritenere quando
gli eventi oggetti di studio (nel nostro caso il valore delle azioni o comunque rendimenti
di attività finanziarie) sono tra loro interdipendenti e non indipendenti. Ma l’ipotesi di
mercati efficienti, l’assunzione di concorrenza perfetta, si basano proprio sulla presunta
indipendenza di soggetti le cui scelte (i prezzi, i rendimenti delle attività finanziarie)
sarebbero a loro volta eventi statisticamente indipendenti, con le conseguenze
ipotizzabili in merito alla correlazione. Oggetti indipendenti producono tipicamente
distribuzioni Gaussiane, normali, in cui gli eventi eccezionali sono così rari rispetto alla
media che trascurarli è una scelta saggia, dal punto di vista della ricerca; al contrario,
eventi interdipendenti tendono a rafforzare reciprocamente i propri risultati
presentandosi a grappoli caratterizzati dal classico effetto contagio.
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L’esempio tipico di distribuzione statistica dominata da una legge di potenza è
quella del reddito e della ricchezza2 notata per primo da Vilfredo Pareto; l’80% della
terra nelle mani del 20% delle persone; l’80% delle risorse concentrate nel 20% delle
famiglie, e così di seguito. Ai nostri giorni l’industria del cinema è caratterizzata dalla
presenza di leggi di potenza, dal momento che un singolo film “blockbuster” incassa in
un anno più della somma di tutti gli altri, riuscendo in alcune stagioni a rappresentare
l’unica posta in attivo del bilancio dell’intero settore. In termini più generali, applicare
la legge di potenza all’economia finanziaria vuol dire che anche se un evento come una
crisi si produce raramente, i suoi effetti vanno ben al di là delle probabilità che l’evento
stesso si verifichi, producendo risultati catastrofici difficilmente prevedibili dagli attuali
modelli su cui si fondano le scelte delle istituzioni finanziarie leader.
L’assunzione di Normalità nella distribuzione dei rendimenti dei titoli non è una
semplice ipotesi statistica priva di conseguenze nella gestione degli affari; se si ipotizza
che azioni e titoli sono correlati negativamente in modo da annullare la volatilità
reciproca, allora è possibile “prendere due rischi pagandone uno”. Se il mercato in
questione è quello delle “opzioni”, diventa relativamente semplice per una banca di
investimenti realizzare profitti: basta vendere contratti sul prezzo futuro di un’azione a
soggetti diversi con aspettative opposte; se perderà uno, guadagnerà l’altro, ma in ogni
caso la banca avrà guadagnato sulle commissioni, rimanendo indifferente al prezzo
finale del titolo. L’unico “piccolo” problema è rappresentato dalla liquidità necessaria a
“replicare” le opzioni garantendo un collaterale, ma con un rapporto di leva
praticamente infinito il problema non si pone quasi mai, dal momento che il capitale di
una tipica banca di investimento è costituito in media da un decimo, a volte anche dal
5% del volume di affari che gestisce. Nella gestione corrente delle banche, tutte le volte
che il “radar” segnala che si sta raggiungendo un limite rischioso, la scelta che la teoria
ortodossa suggerisce non è fermarsi, ma cercare di raccogliere nuovo capitale da
utilizzare come collaterale, facendo felici allo stesso tempo i regolatori di Basilea che
raccomandano di utilizzare il VaR come indicatore del rischio. Così funzionava il fondo
LTCM di cui era consulente uno dei premi Nobel citati in precedenza; così i proprietari
e i manager di LTCM hanno guadagnato denaro a palate per anni; così il fondo è fallito
nell’estate del 1998. Nelle stesse settimane in cui il governo russo dichiarò di non poter
onorare (parte de)i propri debiti, il mercato non funzionò come la teoria prevedeva:
insolvenza, a causa di illiquidità. Fallimento del mercato, assieme all’insolvenza di un
soggetto sovrano.
Come ammettono candidamente oggi eccellenti economisti chiamati a stimare gli
effetti della crisi generata dal mercato immobiliare3, gli intermediari finanziari
gestiscono il bilancio delle proprie attività e passività in modo esattamente opposto a
quanto fanno usualmente i soggetti economici “normali”, che tendono ad abbassare il
livello di indebitamento se la propria ricchezza cresce, e dunque comportandosi in modo
anticiclico; al contrario, le grandi istituzioni finanziarie come banche e fondi,
aumentano il proprio livello di indebitamento nei periodi di boom perché questo
predicono i modelli di valutazione del rischio, quasi universalmente basati sul valore a
rischio (VaR). Il VaR, in quanto stima delle perdite che una banca
“approssimativamente” sopporterebbe nel caso si verifichi un evento eccezionalmente
negativo, costituisce una stima della probabilità di perdite condizionata alla scelta
soggettiva di due parametri, l’intervallo di confidenza e l’orizzonte temporale
dell’investimento. La regola di gestione basata sul VaR consiste nel mantenere una
2
Maurizio Donato, Miseria e nobiltà, su questa rivista
David Greenlaw, Jan Hatzius, Anil Kashyap, Hyung Song Shin, Leveraged Losses: Lessons from the
Mortgage Market Meltdown, febbraio 2008
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quota di capitale che è pari alla somma considerata a rischio E = V x A; il rapporto di
leva L rappresenta la quota delle attività rispetto al capitale mantenuto L = A/E ed è
evidentemente l’inverso del valore a rischio L = 1/V4. La caratteristica natura prociclica
del rapporto di leva dipende così direttamente dalla natura anticiclica della misura del
rischio: l’indebitamento è alto quando il valore considerato a rischio è basso e ciò
accade quando il ciclo è nella sua fase positiva ed i prezzi delle attività finanziarie, come
tutti gli altri prezzi, in ascesa; il rapporto di leva è basso quando il ciclo si trova nella
sua fase negativa, caratterizzata da aumentata volatilità nei prezzi delle attività e di
accresciuta correlazione dei suoi rendimenti.
Diversi autori hanno negli ultimi anni sottoposto a critica il VaR come misura
efficace del rischio5 focalizzando l’attenzione in particolare sulle proprietà statistiche
del VaR che, basandosi solo sul momento secondo delle distribuzioni (la deviazione
standard), ignora sia indicatori come l’asimmetria e la curtosi, sia i momenti frazionali
tipici della dipendenza di lungo periodo. E’ a causa di tale insufficienza che la
metodologia basata sul VaR sottostima gli eventi eccezionali, che tendono a presentarsi
tipicamente a grappolo a causa della loro “memoria lunga”. I processi di prezzo nei
mercati finanziari, sebbene in maniera differente a seconda del tipo di mercato, tendono
ad essere caratterizzati da dipendenza globale, trattandosi di processi statistici a
memoria lunga, con funzioni di autocovarianza che declinano piuttosto lentamente a
causa dell’aggregazione di flussi di investimento con orizzonte temporale diverso e
diverso grado di liquidità. I processi che governano i prezzi di azioni, monete e
obbligazioni seguono una tipica dinamica non lineare, in cui periodi di alta frequenza
nelle transazioni si alternano a periodi di condensazione e di rarefazione. Dal punto di
vista dell’efficacia della misura, è stato pure sottolineato il carattere puramente fittizio
dei “test di stress” che riflettono il ruolo della soggettività nella scelta dell’intervallo di
confidenza del VaR: scegliere livelli di confidenza più alti implica VaR maggiori, che a
sua volta implica un più alto livello di capitale richiesto, ma anche periodi più lunghi per
testare la misura. Se, ad esempio, l’orizzonte temporale degli investimenti è un giorno e
la banca sceglie un intervallo di confidenza del 95%, vuol dire che si aspetta una perdita
peggiore del VaR in media un giorno ogni venti; se scegli un intervallo di confidenza
del 99%, devi aspettare in media più di tre mesi per verificare se il test funziona, ma se
l’orizzonte temporale dell’investimento è un mese allora la scelta dell’intervallo di
confidenza al 99% implica che devi aspettare almeno cento mesi, cioè otto anni, prima
di poter sapere se il modello funziona e se l’orizzonte dell’investimento è un anno,
allora scegliere il 99% significa aspettare un secolo! Inoltre, l’ipotesi generale è che le
osservazioni in ciascuno dei periodi siano indipendenti e stazionarie, e si tratta di
un’assunzione tutt’altro che verificata.
Per apprezzare a pieno la relazione che esiste tra fondamenti teorici della teoria
finanziaria e crisi, è utile tornare a considerarne lo svolgimento storico, che dimostra
come le opportunità di impiego del capitale in eccesso siano da porre in relazione ai
nuovi mercati finanziari apparsi sulla scena del capitalismo contemporaneo. Nell’estate
del 1971 il dollaro nordamericano si sgancia dall’oro, rendendo flessibili i tassi di
cambio tra le monete e dunque aprendo un nuovo mercato su cui sperimentare teoria e
pratica economico-finanziaria. Ancora nel 1970 l’inflazione negli Usa era al 10%, il che
significa per le banche che prestavano denaro vederselo restituire svalutato di un
decimo; i tassi di interesse erano necessariamente alti e, per farli diminuire, la Banca
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Se V è il valore a rischio per euro di attività, il totale del rischio per un soggetto è dato da V x A, dove A
rappresenta il totale delle attività
5
Ad esempio citiamo l’articolo di Cornelis Los, Why the Var Fails: Long Memory and Extreme Events in
Financial Markets, 2004
6
federale statunitense era costretta a comprare titoli del Tesoro aumentando l’offerta di
moneta. Questo comportamento a sua volta rafforzava l’inflazione producendo come
risultato la recessione dell’economia. L’introduzione dei cambi flessibili consente di
estendere i comportamenti speculativi oltre i mercati tradizionali delle azioni o delle
merci: nel 1972 il Chicago Mercantile Exchange (CME) dà vita al nuovo Intenational
Monetary Market (IMM) che consente di trattare contratti futures sulle valute, che
sfruttano la differenza tra tassi di interesse e tassi di cambio, proteggendosi dal rischio
con un future. Si poteva fare altrettanto (o meglio) con i titoli del debito pubblico? Il
“problema” è di nuovo rappresentato dalla volatilità, ma con un senso capovolto rispetto
alla logica di uso corrente: i tassi di interesse sono in genere molto meno volatili delle
azioni e fino a quando la politica monetaria delle banche centrali considerava la stabilità
dei tassi un valore positivo non c’è stato business in questo settore. La svolta arriva con
la nomina a governatore della Banca federale di Paul Volcker (voluta dal democratico
Carter) che innova la gestione della politica monetaria lasciando i tassi di interesse liberi
di fluttuare; il 6 ottobre 1979 resta nella memoria dei mercati finanziari Usa come il
“saturday night massacre”, al lunedì i prezzi dei titoli persero l’11% perché tutti
vendevano impauriti e la discesa continuò al ritmo di due punti al giorno per tutta la
settimana. Le banche di investimento nordamericane persero milioni di dollari; tutte
tranne una, la Salomon Bank, i cui azionisti e manager avevano colto l’opportunità
dell’apertura (avvenuta nell’estate del 1977) del mercato dei futures sui buoni del
Tesoro. La Banca di Salomone aveva coperto i titoli con futures inaugurando la nuova
epopea della finanza moderna; finita l’era della stabilità, cominciava quella della
volatilità.
Nello stesso tempo l’aumento del prezzo del petrolio e la fine della convertibilità
dollaro – oro avevano fatto nascere un nuovo e promettente mercato: quello dei
cosiddetti eurodollari, con sede a Londra. I ricchi sceicchi investivano colà i dollari
ricavati dalla rendita del petrolio e, considerato l’andamento piuttosto piatto dei mercati
azionari, preferirono puntare sul mercato delle obbligazioni. Poi, nel corso degli anni
’80, il ciclo cambiò ancora, con il corso delle azioni galvanizzato dalla nuova politica
economica reaganiana; alla fine degli anni ’80 i mercati finanziari mondiali erano
caratterizzati dalla progressiva riduzione dei rendimenti offerti dai titoli di Stato nei
paesi industrializzati, accompagnata da una riduzione della volatilità e dall’aumento
della correlazione tra i diversi mercati del debito pubblico, particolarmente nell’area
valutaria europea interessata dal processo di integrazione monetaria. La speculazione
doveva spostarsi altrove, e l’obiettivo scelto furono i mercati dei paesi “emergenti”.
2. Le ondate anomale e il giro della morte del capitale fittizio
Una sera di settembre del 1985, all’Hotel Plaza, i leader economici e politici mondiali
raggiunsero un accordo per favorire una discesa pilotata del dollaro, la cui
sopravvalutazione soprattutto nei confronti dello yen aveva consentito alle economie
concorrenti di ricostituire una forza che avevano perso alla fine della seconda guerra
mondiale. Ci è voluto forse più tempo del previsto, ma nel giro di dieci anni i rapporti di
forza tornarono ad essere più favorevoli alle economie occidentali, prima che il ciclo si
invertisse nuovamente sul finire degli anni ’90. Se si considerano gli investimenti di
capitale come caratteristica della fase imperialista del capitalismo, il Giappone, che
aveva superato il 10% nel totale dei flussi di Ide in uscita a metà degli anni ottanta, torna
indietro al 7% nel 1993, più o meno la stessa percentuale del 1975; nello stesso periodo
la quota degli Usa sul totale passa dal 23% di metà anni ottanta al 30% intorno alla metà
degli anni novanta: indubbiamente un recupero, ma va ricordato che alla metà degli anni
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settanta le multinazionali americane contavano per più della metà (53%) del totale degli
investimenti di capitale in uscita. Per quanto riguarda le destinazioni di questi
investimenti, i paesi dell’Asia orientale attraevano a metà anni ottanta solo il 10% del
totale dei flussi di capitale, che diventano il 25% a metà del decennio successivo.
Un risultato non secondario della svolta del Plaza e interessante per il filo del
nostro ragionamento fu che la svalutazione della moneta statunitense consentiva di
chiudere la crisi del debito estero dei paesi in via di sviluppo per avviare la nuova fase
dominata dallo sfruttamento diretto di questi mercati attraverso la promozione degli
investimenti, che avevano però bisogno di una massiccia dose di liberalizzazione per
consentirne l’invasione. In quell’occasione, le banche private di Usa, Giappone, Europa
rinunciarono a chiedere il rimborso totale dei propri crediti, dando avvio a una diversa
modalità di gestione dei rapporti imperialistici in cui il ruolo più importante nel
movimento internazionale dei capitali si spostava dai prestiti gestiti dai consorzi di
banche, prevalenti nel ventennio ’70-’80, agli Investimenti diretti all’estero effettuati
dalle compagnie multinazionali e agli Investimenti di portafoglio gestiti dai cosiddetti
investitori istituzionali. Beninteso, ciò non vuol dire che le banche si ritirassero dal
business, piuttosto cambiava la modalità del proprio coinvolgimento, assieme agli
strumenti operativi e finanziari con cui intervenire. Agli inizi degli anni ’90 lo scenario
è pronto, in concomitanza col declino dei tassi di interesse Usa e del conseguente
collegato calo del dollaro, per un promettente afflusso dei capitali verso i paesi “in via di
sviluppo” le cui economie erano state nel frattempo ampiamente privatizzate anche
grazie agli “aiuti” del Fondo monetario internazionale generosamente erogati in cambio
della ristrutturazione dei loro debiti. Per dare un’idea dell’entità dei flussi di cui si
discute, ricordiamo che all’inizio degli anni ’80, nella fase di avvio della prima crisi del
debito estero, l’afflusso di capitali nei paesi in via di sviluppo non raggiungeva
l’equivalente di 50.000mld di vecchie lire; dopo che la svolta del Plaza fu metabolizzata
dai mercati, nel 1993, il flusso era arrivato a 300.000mld ma non appena, come successe
durante il 1994, la politica monetaria Usa cambiò di segno, i capitali volarono via: tra la
primavera e l’autunno dello stesso gli investimenti erano già calati a 200.000mld.
Appare così chiaro che, nonostante si sia trattato e si tratti di movimenti di
capitale ingenti in relazione alla storia passata di questi paesi, non si deve commettere
l’errore di sopravvalutarne il peso, ma soprattutto occorre tenere ben presente il ruolo
“di riserva” di tale impiego del capitale; i flussi finanziari prendono la via dei paesi
emergenti solo se e quando le opportunità di profitto nei paesi dominanti appaiono
incerte o in calo, pronte a spiccare il “volo verso la qualità” non appena la situazione lo
consente. In particolare va sottolineato il ruolo centrale che ha giocato in questi
movimenti la politica monetaria della Banca federale statunitense6; il capitale si sposta
verso la “periferia” dell’impero se e quando i tassi di interesse sulle obbligazioni del
Tesoro Usa sono bassi, chiarendo bene il senso in cui va intesa l’espressione “capitale
speculativo”. Tra alti e bassi, le “ondate anomale” di investimenti nei paesi emergenti
sono continuate e continuano tuttora, ed è molto difficile per i paesi “ospiti” cercare di
controllarne i flussi. La “sovranità limitata” cui sono sottoposti i paesi dominati
dall’imperialismo consiste proprio nella difficoltà di condurre una politica economica
autonoma in grado di orientare la direzione dei flussi di capitale, sia in entrata che in
uscita. Le “ondate anomale” si interrompono spesso bruscamente, con conseguenze
fortemente negative sulle economie dei paesi coinvolti; alcuni autori7 hanno preso in
esame tutte le più recenti ondate di investimento nei paesi emergenti per studiare le
6
Insiste spesso, e a ragione, su questo argomento, Marcello De Cecco
Torbjorn Becker e Paolo Mauro, Output Drops and the Shocks that Matter, IMF Working Paper 172,
2006
7
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caratteristiche di eventi che hanno tutte le carte in regola per meritare la qualifica di
eccezionali: su 87 episodi presi in considerazione (un aumento degli investimenti
particolarmente superiore alla media storica di un dato paese) ben 40, ossia circa la
metà, si sono conclusi in modo brusco, dando avvio a una crisi nel paese interessato.
Dopo l’episodio del Messico, su cui torneremo in seguito, furono alcuni paesi
dell’est Asia le prime vittime di una “ondata anomala” che al suo ritiro ha scatenato una
crisi gravissima in paesi che, in virtù dello sviluppo raggiunto, evidentemente
cominciavano a rappresentare una minaccia per le multinazionali legate ai paesi
dominanti. Dopo anni di crescita sostenuta, ottenuta anche grazie al legame valutario
stabilito con un dollaro che perdeva quota come deciso al Plaza, bastarono poche
settimane per provocarne il collasso; secondo le stime riportate da Joseph Stiglitz8 nel
giro di pochi mesi la percentuale di disoccupati quadruplicò in Corea, triplicò in
Thailandia e decuplicò in Indonesia. Non solo. Per via dell’accresciuta interdipendenza
tra i sistemi economici, il crollo dell’area del mondo più vitale in termini di tassi di
crescita e di accumulazione contagiò rapidamente altri mercati “emergenti” scatenando
una crisi globale i cui effetti hanno provocato grosse critiche all’operato delle istituzioni
capitalistiche. Uno dei pochi paesi del gruppo delle “tigri asiatiche” a non subire
conseguenze particolarmente gravi dall’ondata anomala – a parte la Cina – è stata la
Malesia, i cui dirigenti politici rifiutarono saggiamente di seguire i “consigli” del Fondo
monetario rafforzando anziché ridurre o eliminare i controlli sul movimento dei capitali
e cominciando a pensare a un’alternativa al ricatto valutario esercitato nei confronti dei
paesi dominati. La gravità della crisi est-Asiatica aveva mostrato infatti come, oltre al
controllo sui movimenti dei capitale, nemmeno la strategia di tenere la propria valuta
agganciata al dollaro può essere considerata una garanzia sufficiente in un mondo di
cambi flessibili, anche perché la speculazione internazionale può trovare diversi canali
per manifestarsi.
3. Il mercato immobiliare e le cartolarizzazioni dei crediti
Ma,come abbiamo accennato sopra, non di soli investimenti all’estero vive il capitale,
anzi. Proprio in virtù del carattere stratificato dell’imperialismo, il grosso dell’impiego
del capitale avviene all’interno dei propri confini, e da sempre il mercato immobiliare è
una valvola di sfogo importante per il capitale in eccesso, per alcuni addirittura il volano
dell’economia reale. Fu nell’autunno del 1975, dunque in coincidenza con l’inizio
dell’era della volatilità sui mercati dei cambi e dei tassi di interesse, che a Richard
Sandor venne per primo l’idea di legare un contratto future ai mutui immobiliari. Erano
le piccole Saving & Loans Banks che negli Usa finanziavano con il denaro depositato
dai risparmiatori chi voleva comprare casa. Comportandosi in modo convenzionalmente
conservativo, le S&L si rifiutavano di accendere mutui a quel tipo di famiglie – spesso
composto da giovani coppie non ricche – che pure ne avrebbero maggiormente bisogno,
dal momento che si tratta di soggetti economici che normalmente non sono in grado di
fornire garanzie sufficienti. Il governo Usa aveva costituito una agenzia, la Government
National Mortgage Association (GNMA) il cui scopo era comprare mutui dalle S&L,
“impacchettarli” per poi rivenderli come obbligazioni; questi titoli, denominati
mortgage-backed securities (Mbs), fruttando un interesse maggiore di quello pagato dai
buoni del Tesoro, si rivelarono subito allettanti per gli investitori. Con i titoli in
portafoglio, i costruttori di case americani potevano organizzare il finanziamento dei
8
Joseph. Stiglitz, La gobalizzazione e i suoi oppositori , Einaudi, 2002; per una ricostruzione puntuale
della crisi asiatica si veda pure il libro di Domenica Tropeano, Liberalizzazione e crisi finanziarie,
Carocci, 2001
9
mutui prima ancora di iniziare a edificare; quando le case erano completate, potevano
pubblicizzarne l’acquisto con mutuo incluso, il che costituiva una garanzia di vendita
immediata. Ovviamente, un cambiamento nei tassi di interesse poteva generare perdite
anche considerevoli per i proprietari di case, ma per le banche coinvolte nell’affare il
rischio era già stato trasferito: cartolarizzato. Solo un anno dopo, nel 1976, furono
sottoscritti i primi contratti futures sui titoli del debito pubblico e i big del mercato
finanziario si spostarono rapidamente sul nuovo business, più redditizio e sicuro, ma nel
frattempo le cartolarizzazioni erano diventate una pratica normale dell’intermediazione
finanziaria che ha rivoluzionato il funzionamento delle banche. Durante gli anni ’60 e
’70 gli istituti di credito raccoglievano denaro sotto forma di depositi e conti correnti
che poi impiegavano in mutui aziendali, ipotecari e prestiti. Oggi le banche concedono
ancora mutui ed emettono carte di credito ma, una volta che hanno finanziato i prestiti,
li convertono in titoli negoziabili, li cartolarizzano, trasferendo il rischio a soggetti
diversi, che non sempre conoscono con precisione che tipo di titoli hanno in portafoglio.
Nel 1980 la quota di debito del settore privato posseduta direttamente dalle banche era
pari al 45%, mentre quella cartolarizzata rappresentava il 27% del totale; nel 2007 le
banche tengono il 30% dei debiti e ne cartolarizzano il 55%.
Le innovazioni finanziarie che stiamo considerando hanno modificato
profondamente la catena finanziaria della crisi con effetti perversi sui meccanismi di
trasmissione, dal momento che, una volta operata la cartolarizzazione, gli ex crediti
trasformati in titoli diventano obbligazioni junior, ossia subordinate, appartenendo a una
classe con priorità inferiore nei confronti dei debiti qualora si verificasse un fallimento.
Un fallimento presenta tipicamente circostanze che richiedono una valutazione
speciale per quanto riguarda i creditori, i debitori e i tribunali. Assegnare dei valori,
prevedere le azioni della corte, determinare lo status dei detentori di azioni o di
obbligazioni sono solo alcuni dei problemi implicati da una procedura di fallimento. Un
investitore deve cercare di prevedere che cosa farà la società quando la ristrutturazione
sarà completata, quanto varrà la nuova società, e soprattutto come il valore residuo
dell’azienda fallita verrà suddiviso tra le varie categorie di creditori. In generale, più una
obbligazione è junior, maggiore sarà l’incertezza sul suo valore finale; tale livello di
incertezza può teoricamente tradursi anche in un apprezzamento, tuttavia – come
riferisce il sito ufficiale del New York Asset Exchange – it is also not uncommon to see
junior bonds receive only a few cents on the dollar for their claims.
In diversi e importanti lavori, Hyman Minsky ha costruito un modello utile a
comprendere le conseguenze, se non le cause, della fragilità finanziaria per le imprese
che sono costrette a ricorrere al debito come fonte di finanziamento. Distinguendo tra
posizioni coperte, speculative e ultra-speculative, gli economisti che si rifanno al
pensiero di quest’autore osservano che quando una impresa indebitata vede fallire un
proprio progetto di investimento, i suoi creditori sono in qualche senso “costretti” a
rinnovare il credito proprio per offrire a se stessi, oltre che all’azienda, qualche chance
in più. Dal canto loro, per (sperare di) ottenere un profitto sufficiente non solo a
recuperare i costi con un sovrappiù ma a rimborsare i debiti vecchi e nuovi, le imprese
finanziariamente fragili sono a loro volta spinte a intraprendere progetti di investimento
(reale o finanziario) che per essere più remunerativi sono necessariamente anche più
rischiosi, con la ovvia conseguenza di moltiplicare il rischio di insuccesso in una spirale
che può condurre al fallimento. L’insolvenza di un singolo può “contagiare” altri
soggetti economici, tanto più numerosi quanto maggiore è l’intensità dei legami che
l’impresa intrattiene col mercato. In altre parole, maggiore l’interdipendenza, maggiore
il rischio di contagio, ed è proprio questa la situazione che vogliamo esaminare se,
passando dal “micro” al “macro”, affrontiamo il problema del fallimento non di un
10
singolo attore economico per quanto importante, ma di un intero settore come quello
finanziario e addirittura di entità sovrane come alcuni Stati nazionali considerando la
crisi non già un evento eccezionale, ma la modalità normale di funzionamento del ciclo
capitalistico di accumulazione.
La regolamentazione del settore bancario non solo negli Usa ma pure in Europa
avvenne dopo quello che tradizionalmente si continua a considerare il più grande
fallimento della storia del capitalismo, il crollo del 1929, che coinvolse pesantemente il
settore bancario. In alcuni paesi come l’Italia il Tesoro è stato a lungo addirittura
proprietario delle banche, ma più in generale sia in Europa che negli Usa nel periodo
pre-privatizzazioni spesso indicato a esempio negativo di una eccessiva invadenza del
settore pubblico nell’economia, non si sono verificati significativi esempi di crisi del
mondo bancario, tranne alcune limitate eccezioni. Viceversa, da quando è stata avviata
a livello internazionale la liberalizzazione del settore finanziario, non solo nei paesi
“emergenti”, ma anche in quelli avanzati, la frequenza e l’intensità delle crisi è
aumentata fino a raggiungere i valori tipici del periodo pre-regolamentazione9. Eppure,
tale evidenza storica difficilmente contestabile sembra non scalfire le certezze degli
apologeti del libero mercato; piuttosto che riflettere criticamente sulle contraddizioni in
cui si dibatte il liberismo, le istituzioni finanziarie internazionali continuano a reclamare
il diritto di possedere privatamente le banche, salvo invocare l’intervento pubblico ogni
volta che la crisi si manifesta minacciando i propri interessi. E’ successo con le S&Ls
durante gli anni ’80, poi con le gravi crisi finanziarie della seconda metà degli anni ’90,
sta accadendo di nuovo in questo periodo, con il salvataggio delle banche coinvolte
nella crisi legata alla cartolarizzazione dei mutui sub-prime.
Appare
invece
evidente che un comportamento coerente con l’impostazione liberista dovrebbe
accettare e non solo teorizzare la possibilità del fallimento come una virtù del libero
mercato. Se una banca o un fondo di investimenti fallisce, vuol dire che il mercato ha
giudicato sbagliati o scorretti i comportamenti di quelle imprese, e se si decide di
salvarli, ciò equivale a riconoscere ad alcune istituzioni del capitalismo uno status
particolare che altri soggetti dotati di minora forza contrattuale non hanno. Tale status
dipende chiaramente dal ruolo che il nodo finanziario gioca nella rete delle filiere
transnazionali di produzione. Per via del meccanismo di trasmissione degli impulsi
finanziari al settore reale dell’economia, una perdita del settore finanziario si trasmette
amplificata al settore produttivo ed il moltiplicatore corrisponde esattamente al rapporto
di leva delle istituzioni finanziarie. Seguendo i principi della teoria ortodossa della
finanza, quando una banca osserva un attivo alto del proprio bilancio, deduce che il
proprio rapporto di leva sia troppo basso e deve essere aumentato; se – ad esempio –
aumenta il prezzo delle obbligazioni detenute dalla banca, cresce anche la domanda di
queste obbligazioni che la banca sostiene aumentando la propria leva. Greenwald et al.
(2008) trovano in questo comportamento un interessante analogia con la “capacità in
eccesso” con cui operano normalmente le imprese manifatturiere; nel caso della
produzione industriale, la tipica forma “ a catino” della curva dei costi medi sta ad
indicare che le imprese, per fronteggiare una domanda stocastica, devono operare con
impianti che non lavorano quasi mai al massimo delle proprie capacità. Dal versante
delle passività, questo comportamento implica un aumento dei debiti a breve, da quello
delle attività la ricerca continua di impieghi e di nuovi potenziali debitori. Quando la
crisi scoppia, come avviene nell’estate del 2007, le istituzioni finanziarie con un elevato
rapporto di leva non hanno molte alternative: o contrarre le proprie attività rimettendo
ordine nei propri bilanci, o riuscire a raccogliere nuovo capitale per raggiungere un
9
Michael Bordo, Barry Eichengreen et al., Is the Crisis Problem Growing More Severe?, 2001
11
nuovo equilibrio manovrando sul versante delle passività. In attesa del raggiungimento
del nuovo equilibrio, il settore finanziario si vedrà costretto a ridurre di una quota anche
significativa la leva del credito e questo comportamento avrà a sua volta ripercussioni
amplificate sul settore reale dell’economia colpendo particolarmente gli agenti
economici per cui il vincolo di bilancio morde. Per sistemi economici in cui la spesa dei
consumatori dipende in modo considerevole dall’indebitamento, una contrazione del
credito può ridurre di molto la crescita del reddito con effetti a catena sugli altri soggetti
del mercato mondiale. E’ per evitare questo genere di conseguenze che, quando scoppia
la crisi, si torna a invocare l’intervento pubblico.
Dal punto di vista teorico richiedere l’intervento pubblico per salvare una
istituzione finanziaria fallita segnala che la teoria liberista non funziona in modo
coerente e questa considerazione assume un peso particolare a seconda del giudizio che
si dà sulla probabilità che si verifichi un evento negativo, cioè a seconda che si consideri
o meno la crisi un evento eccezionale, per frequenza, diffusione, intensità.
4. Crisi della teoria e teoria della crisi
La teoria economica ortodossa assume, nei confronti delle crisi, un atteggiamento
che tende a presentare i suoi fenomeni come eventi eccezionali, ossia accadimenti rari
che, almeno dal punto di vista della frequenza con cui si manifestano, non rappresentano
altro che scostamenti occasionali da una modalità di funzionamento del macrosistema
economico contrassegnato nella maggior parte dei casi da regolarità e prevedibilità nel
comportamento dei soggetti. Le crisi finanziarie in particolare, che costituiscono gli
epifenomeni con cui si manifesta la prima apparizione della crisi, vengono analizzate
spesso senza considerarne le relazioni con il settore reale dell’economia, quasi a voler
preservare la fondatezza di almeno una parte della teoria, da non contagiare con il suo
versante finanziario. Ancora, si tende a restringere le preoccupazioni relative alla crisi
al sottoinsieme dei mercati “emergenti”, a voler significare che se problemi esistono,
questi hanno origine e causa in sistemi ancora “primitivi” rispetto al ristretto club dei
paesi a capitalismo “maturo” che riuscirebbe a tenere efficacemente sotto controllo
anche le dinamiche potenzialmente perniciose del capitalismo, in virtù della sua lunga
storia e – va da sé – della superiore abilità della sua classe dirigente. Con tali dispositivi
ideologici, non sorprende che la crisi venga sottovalutata e ridimensionata dalla teoria
mainstream, che fa ricorso a un ventaglio di ipotesi esplicative che, pur con molti
elementi alternativi, hanno alcuni punti in comune.
Alla base c’è l’idea che le crisi economiche vadano considerate alla stregua di
eventi eccezionali naturali come i terremoti, per loro natura rari e difficilmente
prevedibili. Una variante – come accennavamo sopra – consiste nel separare
drasticamente l’economia reale, presupposta stabile e efficiente, da quella finanziaria,
fraintendendo in questo modo la nozione di capitale finanziario da intendersi invece,
leninianamente, come unità, fusione avvenuta e realizzata nelle holdings, di banche e
imprese. Non è possibile separare nettamente il capitalismo finanziario da quello
produttivo per la semplice ragione che spesso queste due funzioni del capitale
convivono nello stesso soggetto, tipicamente rappresentato da una holding, che opera sia
nel campo degli investimenti produttivi che in quello della speculazione, attraverso
strumenti operativi diversi che rendono solo più difficile l’individuazione della piramide
societaria agli occhi del fisco10.
Tuttavia, è possibile considerare separatamente le
10
In più di un caso, le funzioni diverse sono incarnate dalla stessa persona fisica che può essere, ad
esempio, amministratore delegato della FIAT e vicepresidente della UBS. Secondo questa stessa persona,
12
due funzioni del capitale ed in questo senso appare corretto sostenere che siamo in
presenza di una tendenza a una progressiva autonomizzazione delle funzioni meramente
speculative del capitale, a patto di tenere bene a mente che tale fenomeno avviene
proprio a causa dei meccanismi su cui si fonda l’accumulazione di capitale, che rendono
ciclicamente insufficiente la produzione di plusvalore in rapporto al valore e alla
consistenza del capitale esistente.
Per estorcere plusvalore nella produzione, tra i diversi modi teoricamente
possibili, quello storicamente più efficace per battere la concorrenza è l’introduzione di
continue innovazioni tecnologiche nei prodotti e nei processi produttivi. Le nuove
tecnologie incorporate in macchinari e sistemi organizzativi più efficienti aumentano la
forza produttiva del lavoro, che riesce così a realizzare volumi maggiori di merce in un
tempo di lavoro inferiore a quello necessario con macchinari o metodi di produzione
meno avanzati. In questo modo, a patto di riuscire poi a vendere la maggiore quantità di
merce prodotta, le imprese innovatrici possono sfruttare con la concorrenza la possibilità
di produrre e dunque di vendere le singole unità di merce a un prezzo che sarà più basso
unicamente perché più breve è stato il tempo di lavoro necessario a produrle.
L’introduzione di continue innovazioni tecnologiche, resa “obbligata” dalla
concorrenza crescente, aumenta la forza produttiva del lavoro e per ciò stesso, riducendo
il tempo di lavoro necessario a produrre la singola unità di merce, ne riduce anche il
valore. Il comportamento dei capitalisti innovatori ha successo a patto che si riesca a
vendere sul mercato un quantitativo di merce superiore a quello prodotto con la
tecnologia precedente, il che significa assumere un contesto di domanda infinitamente
crescente; bisogna considerare il ruolo dei cicli, dal momento che gli effetti di
monopolio temporaneo da innovazione durano fintanto che i capitalisti imitatori non
riescono a replicare le condizioni della best technology nei propri impianti; soprattutto,
le innovazioni tecnologiche modificano la composizione del capitale aumentando la sua
parte costante a spese di quella variabile, che può anche crescere in assoluto, ma sempre
meno di quanto aumenti la spesa per capitale fisso. La riduzione relativa della quota di
capitale variabile sul totale significa che diminuisce il lavoro necessario su scala
globale, mentre cresce il lavoro eccedente, superfluo. In queste condizioni, se si
mantiene l’ipotesi marxiana secondo cui il valore delle merci dipende dal tempo di
lavoro necessario a produrle, e si continua a ritenere conseguentemente che il
plusvalore si estrae dal lavoro necessario, si può concludere che, riducendosi il lavoro
necessario, si abbassa – col tempo, in tendenza e con tutte le controtendenze che è
necessario prendere in considerazione, in primis il credito – anche il saggio di
plusvalore, che si trasforma grazie alla concorrenza in saggio di profitto, relativamente
al capitale in circolazione. Tra le controtendenze all’opera una, di natura ciclica,
consiste nella svalutazione periodica e nella distruzione quando la svalutazione non
basta più, di quote di capitale in eccesso rispetto alla quantità necessaria a mantenere il
saggio del plusvalore a livelli soddisfacenti. Mentre il capitale cerca, via innovazioni
tecnologiche, di aumentare il saggio di profitto facendo crescere il numeratore del
rapporto, periodicamente si tenta di mantenere il risultato raggiunto facendo diminuire il
denominatore. L’altra tendenza, di lungo periodo, è quella rappresentata dal credito e
dalle innovazioni finanziarie che, anticipando finanziamenti, rinviano il bilancio del
capitale posticipando all’infinito la realizzazione. Fino a questo momento è stata proprio
quella del credito la leva principale, la cui manovra può incepparsi se i soggetti
economici non riescono a sostenere adeguatamente i due pilastri fondamentali su cui si
regge l’equilibrio finanziario di una struttura, la liquidità e la solvibilità.
d’altro canto, un marchio industriale tedesco concorrente rappresenterebbe una istituzione finanziaria che
fabbrica merci
13
Del fallimento di una impresa abbiamo detto, ma la gravità della crisi costringe
oggi a fare i conti con un problema inedito per la storia economica del capitalismo, il
fallimento dello Stato sovrano.
5. Insolvenza e sovranità
Le differenze tra insolvenza sovrana e fallimento di una impresa sono evidenti
dalla natura dei soggetti coinvolti, tuttavia è difficile resistere alla tentazione di istituire
una analogia, utile se non altro almeno a sottolineare i problemi cui vanno incontro la
logica giuridica e quella economica quando devono occuparsi di situazioni eccezionali.
Possiamo definire insolvenza sovrana la situazione in cui, a causa di una crisi
economica che si può manifestare in riferimento ai conti correnti, al tasso di cambio, ai
bilanci delle banche, il governo di un paese sospende il pagamento degli interessi sul
debito estero o il rimborso del valore del principale del debito estero stesso (default).
L’insolvenza sovrana può essere dichiarata sia con riferimento ad obbligazioni
collocate sul mercato internazionale dei capitali, che nei confronti di prestiti erogati da
un pool di banche estere; in questo contesto, quando non specificato ulteriormente, ci
riferiremo in generale al debito pubblico detenuto da creditori esteri, prestando
particolare attenzione al problema della denominazione valutaria del debito emesso.
Escludere dalla trattazione il debito pubblico collocato all’interno non modifica la
sostanza delle nostre osservazioni, dal momento che le crisi sovrane dichiarate sul
debito collocato all’estero si sono manifestate nel periodo 1975-2002 con una frequenza
dieci volte superiore a quella riferita al debito pubblico interno. La differenza rilevante
tra le insolvenze sovrane degli anni ’80 e quelle del decennio scorso va rintracciata
piuttosto nel cambiamento intervenuto nella composizione dei finanziamenti esteri, dai
prestiti bancari alle obbligazioni; tale modifica si è di conseguenza riflessa in un
analogo cambiamento intervenuto nella tipologia di insolvenza sovrana prevalente, con
le conseguenze in termini di gestione della crisi debitoria.
Un primo problema riguarda la definizione: che cosa deve intendersi esattamente
per causa di insolvenza di uno Stato? Paulus11 parla di “proven inability to pay its
debits” come criterio oggettivo, che in termini economici potrebbe riferirsi a una
situazione in cui il raggiungimento dell’avanzo di bilancia commerciale necessario per
consentire di onorare i propri impegni internazionali richiederebbe una compressione
dei consumi interni al di sotto del livello di sussistenza. Diverso è il caso teorico della
unwillingness to pay, da intendersi come indisponibilità del sovrano a rispettare i propri
impegni contrattuali. La differenza tra impossibilità e indisponibilità a pagare è
sufficientemente chiara dal punto di vista semantico e dell’atteggiamento soggettivo cui
rimanda, ma non altrettanto in quanto ai riferimenti oggettivi, al valore delle variabili,
dei “fondamentali” dell’economia in grado di rivelare senza possibilità di errore se una
dichiarazione di insolvenza sovrana sia da attribuirsi a impossibilità o indisponibilità da
parte di un governo. Da parte nostra, non insisteremo su questo aspetto del problema,
centrando piuttosto l’attenzione sulla logica, politica giuridica ed economica, che ha
guidato la riflessione su come intervenire una volta che la dichiarazione di insolvenza
abbia avuto luogo.
Come appare evidente, in una relazione contrattuale di tipo debito/credito, non si
può trattare il problema dell’insolvenza senza considerare il punto di vista dei creditori,
il che equivale ad affrontare l’aspetto del rendimento dei titoli sovrani. Nel caso della
Russia, la condizione in cui si trovava il governo di Mosca nell’estate del 1998 era
quella di debitore in dollari nei confronti dei prestiti del Fondo monetario internazionale
11
C. G. Paulus, When Countries go Bankrupt: the Virtues and Flaws of the International Monetary
Fund’s Proposal of an Insolvency Law for Nation-States, Findlaw, 2002
14
e in rubli nei confronti delle banche occidentali rispetto a titoli denominati in valuta
locale che fruttavano un interesse annuo superiore al 40%. Si tratta, come è evidente, di
un rendimento talmente elevato da implicare un livello di rischio conseguentemente
alto; le banche occidentali, cui non mancano sofisticati strumenti di monitoraggio dei
rischi, erano evidentemente più che consapevoli e felici di impegnarsi nel business, dal
momento che l’economia russa prometteva di rappresentare la nuova frontiera del
neonato capitalismo privato made in Moscow. L’anno precedente, con il boom delle
privatizzazioni delle risorse ex sovietiche, la borsa di Mosca era cresciuta del 149% in
termini di dollari, mostrando come sia obbiettivamente difficile accettare il punto di
vista secondo cui le crisi sovrane – come quella del debito russo – possano essere
considerate eventi “eccezionali” nel senso di imprevedibili: quando il valore di una serie
storica si allontana così bruscamente dalla sua media, per quanto limitata possa essere la
serie stessa, dovrebbe essere evidente che si tratta di rendimenti “eccezionali” e in
quanto tali difficilmente sostenibili e replicabili se non per periodi estremamente
limitati. Inoltre il mercato delle obbligazioni pubbliche funziona in modo diverso da
quello delle borse: il rischio è in media più basso, e sarebbe ragionevole attendersi
rendimenti conseguentemente minori. Prestare denaro ai governi dei paesi “emergenti” è
un business estremamente conveniente e, per i creditori, non più rischioso della media
se si tiene conto che i rendimenti effettivi (ovvero tenuto conto dei casi di default e/o di
rinegoziazione) dei titoli di debito emessi dai paesi (allora considerati) in via di sviluppo
tra il 1968 e il 1988 sono stati equivalenti ai rendimenti dei meno rischiosi titoli di stato
statunitensi o inglesi12. Secondo Lindert e Morton13 il rendimento effettivo dei titoli
pubblici emessi dai paesi in via di sviluppo tra il 1850 e il 1970 sarebbe stato addirittura
superiore, sebbene di poco, a quello di alcuni titoli del Tesoro americano. Più
recentemente, alcuni economisti del Fondo monetario internazionale14 hanno
confrontato il tasso d’interesse sui titoli emessi dai paesi oggi ridefiniti emergenti tra il
1970 e il 2000 con quello dei titoli pubblici Usa a 3 e a 10 anni, trovando che il
rendimento dei primi risulta in media del 9% l’anno, valore analogo a quello dei titoli
Usa decennali e leggermente superiore a quelli a breve. Ne risulta che, pur tenendo
conto dei rischi di insolvenza sovrana, il rischio di prestare denaro ai paesi emergenti è
praticamente zero, il che solleverebbe semmai un’altra questione, relativa al rating
solitamente inferiore per questi titoli rispetto alla media delle obbligazioni private.
Come sta emergendo chiaramente dall’ultimo episodio della crisi generato dalla
concessione di mutui immobiliari anche a soggetti senza merito di credito, le
innovazioni finanziarie centrate sui prodotti derivati consentono alle banche di liberarsi
dal rischio di prestiti poco sicuri trasformandoli in obbligazioni sul cui grado di rischio
la valutazione è rimandata alle agenzie di rating.
Tuttavia una differenza tra debiti sovrani esiste, ed è tutt’altro che irrilevante: la
maggiore variabilità e la minore correlazione dei titoli del debito estero dei paesi
emergenti con i rendimenti dei mercati azionari dei paesi dominanti. Queste
caratteristiche giocano però a favore e non contro le banche creditrici, dal momento che
consentono al capitale finanziario transnazionale di investire tranquillamente nei mercati
emergenti, trovando poi nel “ritorno alla qualità” un ottimo strumento di copertura dai
rischi. A loro volta, la diversa (maggiore) variabilità e la minore correlazione al ciclo
mondiale del debito pubblico dei paesi emergenti dipendono in maniera cruciale dalle
12
Barry Eichengreen e Richard Portes, Dealing with the Debt. The 1930s and the 1980s, 1989
How Sovereign Debt Has Worked, in Jeffrey D. Sachs (a cura di), Developing Country Debt and the
World Economy, Univ. of Chicago Press, 1990
14
Christoph Kligen, Beatrice Weder, Jeronim Zettelmeyer, How Private Creditors Fared in Emerged
Debt Markets, 1970- 2000, Working Paper n° 13, IMF 2004
13
15
diverse caratteristiche del debito tra paesi dominanti e paesi dominati, particolarmente in
riferimento all’ammontare del debito, alla quota del debito estero sul totale, alla sua
durata (maturità) e alla valuta in cui il debito è denominato.
Nei
paesi
“emergenti”, ossia dominati dall’imperialismo, non solo – come è facile attendersi –
l’ammontare di debito è maggiore, ma anche la quota del debito estero sul totale è
tipicamente molto più alta della media dei paesi dominanti e, soprattutto, non è possibile
per i governi che raccolgono tasse in una valuta diversa da quelle forti accendere debiti
nelle proprie monete. Gli Usa, il maggior debitore del mondo, hanno un debito estero
che vale circa il 30% del proprio reddito nazionale annuo, ma si tratta di un debito
interamente denominato in dollari. Da questo punto di vista, il calo continuo e per certi
versi impressionante del valore del dollaro che continua da anni e che non accenna a
diminuire nel primo trimestre del 2008 ha un indubbio effetto benefico sul valore del
proprio debito che si svaluta assieme alla moneta. Al contrario, come ben sanno al
FMI15, il 99,7% del debito estero dei paesi emergenti è denominato in valuta estera, di
cui un po’ più della metà è costituito da dollari; detto in modo diverso16 nel periodo più
caldo delle crisi di insolvenza sovrane i centri finanziari dei paesi dominanti (Usa, Ue,
Regno Unito, Giappone e Svizzera) hanno emesso il 71,5% del debito estero e tuttavia
la quota di debito denominata nelle loro valute (Dollaro, Euro, Sterlina, Yen e Franco
svizzero) risulta pari nello stesso periodo al 94,6%; di converso, i paesi dominati
dall’imperialismo hanno emesso tra il 1993 e il 2001 il 9% del debito mondiale ma le
loro valute pesano per lo 0,7% del totale. Barry Eichengreen e Ricardo Hausman17
parlano a questo proposito del “peccato originale” della finanza internazionale che
fonda sul ricatto valutario la propria forza, impedendo ai paesi dominati di poter
accendere debiti nelle proprie monete. C’è da sottolineare a tale proposito il ruolo della
Banca mondiale, che pure dovrebbe onorare il proprio ruolo internazionale di prestatore
di fondi indipendente in quanto a loro denominazione valutaria; ripetutamente chiamati
in causa su questo argomento, i dirigenti della Banca si sono difesi dichiarando che
anch’essi, come qualsiasi altra banca, per poter erogare finanziamenti devono a loro
volta reperire fondi e questi, sul mercato internazionale dei capitali, sono denominati
esclusivamente in valute forti. Va tuttavia osservato che delle due linee di finanziamento
con cui la Banca mondiale reperisce i fondi necessari alle proprie attività istituzionali,
una è effettivamente “di mercato”, mentre l’altra è costituita dalle risorse conferite alla
Banca dai singoli governi nazionali e queste sono denominate in valuta locale, sicché
non ci sarebbe alcun problema se almeno alcune linee di finanziamento a progetti di
sviluppo locale potessero essere fornite in valuta nazionale invece che in monete forti.
6. Le riserve ufficiali come assicurazione dal rischio di insolvenza
Con questo “peccato originale” da scontare si capisce come, soprattutto dopo la
disastrosa esperienza degli anni ’90, la maggioranza dei paesi “emergenti” a rischio,
abbia cercato e stia cercando di assicurarsi dal rischio di insolvenza trattenendo riserve
monetarie in eccesso, anche “molto” in eccesso rispetto al valore considerato di
“equilibrio” dalla teoria standard a riguardo. Curiosamente (dal punto di vista degli
economisti ortodossi) mentre un comportamento del genere, osservato oggi con
15
Eduardo Borenzstein, Marcos Chamon, Olivier Jeanne, Paolo Mauro, Jeronim Zettelmeyer, Sovereign
Debt Structure for Crisis Prevention, Occasional Paper n° 237, IMF 2005
16
R. Hausmann, Should Be There Five Currencies of One Hundred and Five?, Foreign Policy, 116, 1999
17
Barry Eichengreen, Ricardo Hausmann, Ugo Panizza, The Mystery of Original Sin, in B. Eichengreen
and R. Hausmann (a cura di), Other People’s Money: Debt Denomination and Financial Instability in
Emerging Market Economies, Univ. of Chicago Press, 2004
16
comprensibile scrupolo da tutti i principali candidati ad essere colpiti dalla speculazione
internazionale, dovrebbe essere salutato con favore da parte dei custodi dell’ortodossia
monetaria, è proprio il livello di riserve e ancor più il loro utilizzo ad essere oggi al
centro degli strali del Fondo monetario internazionale. Avendo accumulato negli ultimi
anni, grazie anche ad una dinamica del prezzo delle materie prime per una volta a loro
favorevole, un ammontare di valuta estera al di là delle necessità pur prudenziali di
ridurre il rischio di fallimento, questi paesi hanno deciso di utilizzare una parte di tali
riserve costituendo Fondi sovrani che compiono investimenti di mercato né più né meno
degli altri investitori istituzionali che sono impegnati quotidianamente in operazioni di
movimento dei capitali. I Sovereign wealth funds possono contare (primavera 2008) su
attività del valore di 3.100mld$, che rappresentano ovviamente una cifra più che
rispettabile, soprattutto se rapportata al totale delle riserve detenute dalle Banche
centrali dei paesi emergenti che ammontano, oro escluso, a 4.200mld$; se alla metà
degli anni ’90 l’investimento gestito dai Fondi sovrani era limitato a 500mio$, le mutate
condizioni del mercato mondiale hanno consentito a questi nuovi soggetti di entrare con
un certo peso anche nelle istituzioni finanziarie occidentali per quote che si aggiravano
sui 10mld$ nel 2006, fino ad arrivare a 80mld$ nel 2007. Comprensibile la paura della
concorrenza, tenendo a mente che le attività gestite dalle compagnie assicurative
occidentali ammontano a 16milamld$, quelle dei fondi pensione a poco meno di
18mila, e che l’attivo del sistema bancario Usa è stimato (dicembre 2007) dal Federal
reserve board in 1.100mld$.
Se però escludiamo l’argomento della concorrenza, dovrebbe essere ragionevole
riconoscere che, piuttosto che tenere tali riserve inattive e improduttive, sia conveniente
per qualsiasi paese, ma a maggior ragione per soggetti deboli sul piano internazionale,
cercare di utilizzarle nella maniera più redditizia ma il Fondo monetario e le altre
istituzioni internazionali considerano improprio un tale utilizzo cercando in vari modi di
regolamentare (alias ostacolare) tali operazioni, gettando una luce sinistra sulle
“preoccupazioni” che tali istituzioni esprimono in ordine alla eventualità che i paesi
emergenti possano venire colpiti nuovamente da eventi eccezionali negativi dai quali
stanno con ogni evidenza cercando di assicurarsi utilizzando strumenti di mercato. Vale
la pena insistere su questo punto, dal momento che molte delle riflessioni degli
economisti che si stanno occupando di quest’argomento sono rivolte a mettere in
guardia dai “rischi” di un utilizzo improprio delle riserve ufficialmente detenute dalle
Banche centrali, che per la teoria ortodossa dovrebbero rimanere congelate nei caveau
lasciando ai soggetti privati della finanza internazionale il monopolio di tutte le
operazioni più redditizie vietate, ma non è mai esattamente chiarito il perché,
esattamente a quei soggetti pubblici che ne avrebbero maggiormente bisogno. La
ragione di una tale impostazione appare più chiara se si esamina la letteratura che
considera, a proposito della gestione delle crisi come uniche alternative considerare il
Fondo monetario internazionale come prestatore di ultima istanza (International Lender
of Last Resort, ILOLR) o coinvolgere i creditori privati in un processo, da rendere meno
costoso, di rinegoziazione del debito. Il disegno istituzionale è abbastanza evidente: a
provvedere i Paesi in difficoltà dei fondi necessari alla crescita e allo sviluppo possono e
devono essere unicamente i soggetti “a ciò preposti”: IMF e banche occidentali, con il
ruolo più limitato possibile da riservare agli Stati dominati la cui sovranità va messa
sotto tutela. Per discutere criticamente una tale impostazione e rilevarne i limiti, oltre ad
insistere sulla questione dell’utilizzo delle riserve ufficiali anche come Fondi sovrani,
che semmai dovrebbe essere una possibilità da prendere in considerazione anche da
parte degli Stati dominanti, piuttosto che cercare di impedirla agli Stati dominati,
passeremo in rassegna nuovamente i principali episodi di crisi dell’ultimo decennio,
17
questa volta però con l’attenzione rivolta non tanto alle ragioni che hanno reso possibili
le crisi, quanto agli strumenti di volta in volta adoperati per risolverle.
Che si tratti di incapacità o di mancata volontà di onorare i propri impegni da
parte di un governo, uno dei problemi principali dei contratti di debito pubblico riguarda
la priorità che possono vantare i creditori nei confronti di tali obbligazioni. Come è noto
agli studiosi di diritto fallimentare, un tipico regime che regola l’insolvenza deve
definire, in termini generali, come trattare i diversi diritti su una impresa fallita in caso
di ristrutturazione e come definire l’ordine dei pagamenti in caso di liquidazione. Le
leggi fallimentari indicano che, in via generale, azioni e obbligazioni hanno grado
inferiore (junior) rispetto al debito: i debiti vanno pagati prima e, se i debitori non
possono pagare, i creditori possono prendere il controllo dell’impresa. Nel caso dei
debiti sovrani, non esiste alcuna regola formale che stabilisca l’ordine di priorità, e
questa assenza ha fatto sì che il dibattito si sia concentrato attorno alla dimostrazione di
quanto una analogia con il settore privato sia sostenibile o, al contrario, impossibile da
argomentare. Oltre all’assenza di un regime formale che regoli la seniority non esiste
nemmeno una Corte che abbia il potere di forzare un governo a rispettare una qualche
regola, e queste due caratteristiche lasciano ai governi una discrezionalità nell’ordine dei
pagamenti che tipicamente può lasciare scontenti alcune classi di creditori.
La priorità di cui qui si discute può essere di tipo assoluto o relativo; priorità
assoluta vuol dire che le obbligazioni senior vanno rispettate interamente, quelle di
rango minore per una quota inferiore e così di seguito, mentre un regime di priorità
relativa assicura solo un miglior trattamento ai senior rispetto alle obbligazioni di grado
inferiore. Da un punto di vista materialistico, appare evidente come sia la forza
contrattuale relativa dei contraenti ad assicurare agli stessi un grado di protezione
conseguente anche sul piano giuridico formale; non sorprende allora che al Sovrano sia
stato storicamente riservato un grado di libertà superiore a quello di un qualsiasi altro
soggetto contrattuale di natura privata: la battaglia sull’interpretazione delle clausole
contrattuali riflette così l’attuale declino della forza della sovranità statuale (più
precisamente, della sovranità degli Stati dominati, meno di quella degli Stati
imperialisti) nei confronti della maggiore forza dei soggetti che rappresentano gli
interessi del settore privato dell’economia. Nel corso degli ultimi trenta anni, una delle
“traiettorie naturali” del capitalismo giunto alla sua fase di imperialismo transnazionale
è stata la progressiva trasformazione del ruolo del settore pubblico, a favore di una
privatizzazione non solo delle risorse del pianeta, ma anche – e conseguentemente –
dello stesso regime giuridico dei contratti, da quelli che regolano il mercato del lavoro,
fino a quelli che regolano l’insolvenza. In tutti i campi una regolazione di natura
privatistica tende a soppiantare la logica pubblicistica, fino a realizzare oggi un inedito
mix in cui la governance18 si esprime in nuovi soggetti della sovranità che, sul piano
interno dei singoli Stati nazionali, vanno dalle varie Autorità indipendenti ai Consorzi
misti alle Fondazioni fino alle Organizzazioni non governative.
Volendo riassumere e sintetizzare le questioni sul tappeto facendo riferimento
all’esperienza degli ultimi dieci anni, il dibattito a proposito dell’insolvenza si è
concentrato su una domanda: è meglio provvedere a rifinanziare con fondi pubblici lo
Stato insolvente (ipotesi definita in letteratura come Bailout) o è meglio incentivare in
qualche modo la ristrutturazione del debito coinvolgendo attivamente il settore privato
dell’economia (Bail-in)? Dei principali paesi coinvolti nella seconda metà degli anni ’90
in crisi talmente gravi da portare in tre casi alla dichiarazione di insolvenza da parte del
18
Per una trattazione approfondita e un’analisi acuta del tema della governance rimandiamo al libro
curato da Vittorio Dini dal titolo Eccezione, Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2006, e in particolare ai
saggi di Gianfranco Borrelli e Alessandro Arienzo.
18
sovrano, la scelta di intervenire con prestiti – salvataggi ha avuto successo praticamente
solo nel primo degli episodi verificatisi, il Messico.
7. Insolvenza sovrana e stato di emergenza
La crisi dell’economia messicana costituisce un caso particolarmente importante
perché fu il primo episodio di quella fase nuova del ciclo della crisi, avviata con
l’accordo monetario raggiunto all’Hotel Plaza nel settembre 1985 e poi venuta a
maturazione completa nei primi anni ’90. Quando, per effetto del cambiamento nella
politica monetaria Usa, il dollaro tornò (per l’ultima volta) ad apprezzarsi, i capitali
volarono via e non solo dal Messico del “miracolo economico”, per tornare verso la
“qualità”, ossia i titoli pubblici emessi dal governo nordamericano. A partire da quel
periodo, cioè dalla metà degli anni ’90, il giro della morte del capitale fittizio ha colpito,
con un effetto domino, l’Argentina, il Brasile e, più tardi, le economie delle cosiddette
“tigri” dell’Asia orientale. Ecco perché, con riferimento alla crisi messicana,
l’intervento di salvataggio è stato così immediato e deciso: circa 38mld di dollari sono
stati messi da Imf (18mld) e Tesoro Usa (20mld) a disposizione di chi voleva liquidare i
Tesobonos emessi per finanziare la speculazione e dopo lo scoppio della crisi ridotti a
un valore da liquidazione. La ragione di tanto interesse è fin troppo evidente: quella del
Messico è una economia con rapporti strettissimi con gli Usa e il NAFTA uno strumento
cruciale di tali rapporti.
Il caso polare (in quanto a strumenti adoperati) rispetto al Messico fu l’Ecuador:
se nei confronti della crisi messicana la strada scelta fu quella del salvataggio diretto e
totale, nei confronti dell’Ecuador si adottò la strategia opposta. Alla fine dell’estate del
1999 il governo dell’Ecuador si dichiarò insolvente nei confronti dei vecchi Brady
bonds: la decisione fu commentata con toni fortemente preoccupati dai dirigenti del
Fondo monetario internazionale i quali dichiararono pubblicamente, per la prima volta,
che non intendevano prestare aiuti al governo centroamericano, anche perché all’epoca
il governo di Quito non aveva alcun programma in gestione con il Fondo. La prima
lettera di intenti è di settembre, anche se negoziati veri e propri non iniziano prima di
aprile dell’anno successivo: debitori e creditori furono lasciati contrattare “liberamente”
e, in estate, il governo offrì di scambiare i vecchi titoli con nuove obbligazioni il cui
rendimento era fissato a meno della metà (6,5mld$): il tasso di partecipazione fu del
99%, ma la vera posta in gioco fu chiara nel giro di poche settimane. A settembre dello
stesso anno il governo dell’Ecuador dichiarò di rinunciare alla propria sovranità
valutaria per adottare il dollaro Usa come propria valuta; la decisione scatenò una
rivolta popolare generalizzata in seguito alla quale, il 2 febbraio del 2001, venne
dichiarato lo stato di emergenza. La successione temporale degli avvenimenti deve far
riflettere: non è accaduto che provvedimenti economici di tipo straordinario come la
dollarizzazione dell’economia di uno Stato sovrano siano stati presi in conseguenza
della dichiarazione dello stato di emergenza; al contrario, la proclamazione dello stato di
emergenza è stata la reazione all’opposizione popolare nei confronti di un
provvedimento eccezionale, come la rinuncia alla propria sovranità valutaria. Il
risultato, anche limitando le osservazioni alla sola ristrutturazione del debito
ecuadoregno e dunque tralasciando ogni altra considerazione sulle conseguenze della
dollarizzazione, è che il governo dell’Ecuador, pur in presenza di una crescita
dell’economia, di prezzi del petrolio in aumento, e di un surplus di bilancio, ha dovuto
continuare in tutti questi anni a pagare un altissimo prezzo per i propri prestiti al Club di
Parigi e agli altri debitori esteri con il coupon sull’eurobond che ha continuato ad
19
aumentare fino al 2006, senza dunque aver risolto il problema della sostenibilità del
proprio debito.
Nelle stesse settimane in cui il governo dell’Ecuador contrattava con i banchieri
internazionali la ristrutturazione del proprio debito estero, anche il governo russo era
impegnato in una operazione analoga il cui valore era però cinque volte superiore: il
valore dei titoli da scambiare era pari a 31,8mld$. Il caso dell’insolvenza russa è
diverso anche per altri aspetti, a parte l’entità, rispetto alla crisi dell’Ecuador. Nei mesi
precedenti la crisi, l’economia russa era considerata ufficialmente dagli investitori e
dalle istituzioni internazionali la nuova terra promessa del capitalismo: finalmente
liberata dalle regole e dalle inefficienze dello Stato “socialista”, il paese più esteso del
mondo con i suoi 11 fusi orari, era considerata indubbiamente dai pescecani della
finanza internazionale una preda più appetitosa di un piccolo paese equatoriale. Ben
prima, e dunque in totale assenza, di una qualsiasi ristrutturazione del settore pubblico o
di una regolamentazione dei mercati, la liberalizzazione dei movimenti di capitale
fortemente perseguita dagli ambienti finanziari occidentali in combutta con le nuove
“forze emergenti” (la mafia russa, tanto per non far nomi) si è tradotta in un disastro
senza precedenti per la finanza pubblica, in cui evasori interni e banchieri esteri si
dividevano gli alti rendimenti sul debito pubblico trasferendo poi all’estero i capitali.
Per assicurarsi dal rischio di una svalutazione del rublo, gli investitori esteri si coprivano
con le banche locali, sottoscrivendo contratti che obbligavano gli istituti di credito russi
a vendere dollari a una data prefissata e a un prezzo già stabilito, anche se nel frattempo
il rublo si fosse svalutato. Non c’è da stupirsi se la crisi si sia manifestata a partire dal
settore bancario, e in un certo senso è stato un vantaggio che le banche russe fossero
prevalentemente impegnate in questo genere di business piuttosto che nel finanziamento
alla produzione, ché questa assenza di legami ha impedito un effetto contagio più
pesante sul settore reale del paese. Nei confronti della crisi russa l’intervento diretto del
Fondo monetario ci fu, ma si trattò solo di un piccolo aumento nell’esposizione che
passò da 13 a 19mld$ nel corso del ’98; il grosso del salvataggio riguardò il fallimento
del fondo LTCM, ma questa è un’altra storia. L’insolvenza russa riguardava 14mld$ nel
debito denominato in rubli (i celebri GKOs e gli OFZs) e 32mld$ di debiti emessi in
epoca sovietica; i primi furono ristrutturati nel corso del 1999, gli altri (il cosiddetto
debito nei confronti del Club di Londra) vennero riconvertiti in eurobond più tardi, nel
2000.
Nel caso dell’Argentina, la decisione chiave riguardò la fissazione del tasso di
cambio: il governo, già agli inizi degli anni ‘90, seguì fedelmente i consigli (e gli
interessi) dei creditori, fissando una parità di 1:1 col dollaro che serviva unicamente a
garantire la stabilità per gli investitori che volevano ritirare i loro risparmi. Le
privatizzazioni dei più importanti settori economici del paese, assieme
all’apprezzamento del valore del dollaro verificatosi tra il 1998 e il 2001, si rivelarono
insostenibili per il debito del paese: tra la metà del ’99 e l’estate del 2000 i tassi di
interesse a breve sul dollaro crebbero di 175 punti base generando una situazione fuori
controllo. Quando divenne evidente che gli investitori esteri avevano smesso di avere
fiducia nella sostenibilità del debito argentino, anche i risparmiatori interni
cominciarono a esportare capitali fuori dal paese facendo esplodere la crisi. Il Fondo
monetario internazionale approvò a gennaio del 2001 un programma di salvataggio che
(15mld$) serviva a coprire giusto il fabbisogno pubblico del primo trimestre dell’anno,
con l’idea che il governo di Buenos Aires dovesse/potesse cercare il grosso dei
finanziamenti di cui necessitava sul mercato internazionale dei capitali. Il progetto del
Fondo fallì e in autunno furono stanziati altri 8mld$; il governo non riuscì a pensare a
niente di meglio che a impedire ai lavoratori di ritirare i propri fondi (i grandi capitali
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erano nel frattempo scappati a gambe levate) e il risultato fu, anche in questo caso, la
dichiarazione di insolvenza e la proclamazione dello stato di emergenza non come causa
diretta e immediata della crisi economica, ma piuttosto come conseguenza del
fallimento della sua gestione.