L`intellettuale nel Novecento

Transcript

L`intellettuale nel Novecento
1
INDICE
Italiano: Quadro generale sul Neorealismo, successivamente approfondito sia nell'ambito letterario
che in quello cinematografico.
In ambito letterario ho analizzato due percorsi: da un lato il dibattito politico-culturale che si
va sviluppando nel secondo dopoguerra e interessa numerose riviste, tra cui il "Politecnico", dal
quale ho preso la celeberrima polemica Togliatti-Vittorini sul ruolo della cultura in relazione alla
politica. Dall'altro la figura di Italo Calvino ponendolo come esempio di letterato impegnato,
soffermandomi in particolare sulla prefazione de "Il sentiero dei nidi di ragno", considerata una
sorta di manifesto del Neorealismo.
Per l'ambito cinematografico ho allegato una scheda di analisi del film "Ladri di biciclette" di
De Sica, che mi ha permesso di cogliere a pieno quanto il neorealismo rifletta il clima di impegno e
di ricostruzione nell'Italia del secondo dopoguerra.
Francese: ho approfondito la figura di Albert Camus, intellettuale engagé per eccellenza portando
come documento di testimonianza dei suo engagement quotidien "La peste", uno dei suoi
capolavori, scritto nel 1947.
Filosofia: discorso generale sui filosofi engagés con particolare attenzione al rapporto tra MerleauPonty e Sartre che, con la rivista francese "Les Temps modernes", affrontano un'esperienza molto
simile a quella italiana di Vittorini e Togliatti. Ho poi approfondito la figura di Sartre con
riferimenti alla corrente filosofica cui appartiene, l'esistenzialismo, e al suo engagement politico che
si riflette anche nell'articolo che ho allegato, tratto da "Les Temps Modernes", sulla responsabilità
dello scrittore.
Inglese: ho deciso di inserire nel mio lavoro la figura di George Orwell, a committed writer, e, dopo
aver analizzato il ruolo che, per Orwell, uno scrittore deve avere, ho allegato l'analisi di
"Animal Farm", dove l'autore, usando l'allegoria dei suoi personaggi-animali, fa una satira politica
della Russia di Stalin.
Storia: ho puntato l'attenzione sull'Italia, in particolar modo sul periodo che va dalla caduta dei
fascismo alle elezioni politiche dei 18 aprile 1948, cercando di far emergere anche in ambito storico
il leit-motiv che ho scelto di esaminare: ho quindi messo in primo piano l'impegno degli italiani
verso una ricostruzione, materiale ma anche civile e politica , dopo la tragedia del conflitto
mondiale.
INTRODUZIONE
Il Novecento è stato senza dubbio un'epoca di crisi, di complessità, di fatti storici grandiosi e
drammatici, come i totalitarismi e i due conflitti mondiali; questi eventi, oltre ad avere causato un
impensabile numero di morti e disillusioni di ogni genere, hanno anche notevolmente influito sulla
mentalità e sui valori ideologici delle popolazioni. Ho voluto, con il mio percorso, andare ad
esplorare come l'intellettuale si è posto nei confronti di tale scenario. L'arco di tempo è molto vasto,
le situazioni sono numerose ed è per questo che ho deciso di focalizzare la mia attenzione nel
periodo che va dall'inizio della prima guerra mondiale al secondo dopoguerra. Gli intellettuali che
hanno vissuto quest'età di trapasso si sono sovente interrogati sul proprio ruolo sociale, in un mondo
dominato in misura crescente dalla scienza e dalle professioni tecniche specializzate che ne mettono
in crisi l'antico privilegio e la missione di "chierici". All'inizio del mio lavoro mi sono subito
interrogata sul significato che la parola "impegno" avrebbe potuto assumere in riferimento ai vari
autori. Innanzitutto con il termine "intellettuale" non voglio intendere solo la figura del filosofo,
anche se leggendo vari documenti ho potuto osservare che molto spesso si tende a far coincidere
queste due "figure". Sono sicuramente d'accordo con questa tesi nel momento in cui si indica con il
2
termine "filosofo" qualcuno che pensa, che formula idee, che è coscienza critica, ma sono più
propensa a vedere l'intellettuale in un ambito più ampio.
L'intellettuale impegnato è quello che "non sta nella torre eburnea, avulso dal contesto, che non si
compromette con le vicende storiche... ". Per forza di cose, eventi così drammatici come la seconda
guerra mondiale stimolano l'impegno e la presa di coscienza; in questi anni assistiamo infatti a un
dibattito molto intenso sulle scelte degli intellettuali contro i totalitarismi a favore della libertà.
In Italia, ad esempio, è presente un intenso dibattito culturale che interessa anche alcune riviste del
periodo, e mi è sembrato interessante entrare nel vivo di queste agitazioni ideologiche localizzando
l'attenzione sulla polemica Togliatti-Vittorini. Anche in Francia ho riscontrato lo stesso clima, la
stessa voglia di ricostruzione e ho scelto come autore più esemplificativo Albert Camus di cui ho
approfondito in particolare il messaggio positivo che l'autore intende diffondere. Restando sempre
in territorio francese, per l'ambito filosofico, ho preso in esame un intellettuale che nell'Europa
occidentale è stato un modello di impegno, anche se abbastanza astratto e che, proprio per questo
motivo, negli ultimi decenni ha fatto parecchio discutere. Come ultimo autore ho approfondito
Orwell, che in realtà è considerato quasi un anticipatore delle idee che si andavano diffondendo in
quegli anni. Ho poi allegato una scheda di analisi sul film "Ladri di biciclette" dei maestro De Sica,
che mi ha permesso di capire a pieno quanto il Neorealismo rifletta il clima di impegno e
ricostruzione nell'Italia dell'immediato dopoguerra.
IL NEOREALISMO
Quadro introduttivo
La situazione della società italiana che si crea in conseguenza della resistenza e della ripresa
democratica ha dirette ripercussioni sulla vita letteraria ed artistica: inizia un nuovo corso che si è
soliti indicare come "l'età del Neorealismo". Con questo termine si suole indicare il processo alla
letteratura precedente, l'esigenza che la letteratura imbocchi una nuova strada, le suggestioni
culturali derivanti dai problemi dibattuti nella società e nella politica e dai nuovi testi venuti alla
luce; in sintesi con il Neorealismo si intende rappresentare la realtà italiana con tutto quello che di
nuovo presentava. Il Neorealismo che, a grosso modo, abbraccia il decennio che va dal 1945 al
1955 (includendo in questi anni tutto l'arco della sua parabola, cioè dal suo sorgere al suo esaurirsi),
non è né una scuola né un gruppo di scrittori operanti secondo un programma e una poetica comuni,
ma si tratta di uno stato d'animo collettivo, di un'esigenza, sincera anche se spesso confusa, di
impegno. Concordo con il giudizio di un critico, Manacorda, il quale considera il Neorealismo
“come una disposizione più pratica, etico-politica, che non estetica, più di una unzione della volontà
che non della fantasia o dell'intelletto".
Gli ambiti in cui il Neorealismo si manifesta in modo più incisivo sono essenzialmente due:
LETTERARIO e CINEMATOGRAFICO.
AMBITO LETTERARIO L'ambito letterario si divide a sua volta in due branche:
Dibattito culturale, coinvolgimento delle riviste con il celeberrimo scontro su "Il Politecnico"
tra Vittorini e Togliatti.
Forte produzione narrativa, caratterizzata da un lato da una letteratura di testimonianza di
Primo Levi e dall'altro da una letteratura di invenzione di Calvino. In questi anni si sviluppa un
letteratura nazional-popolare portata avanti soprattutto da Gramsci che si era reso conto della
costante frattura fra intellettuali e popolo che secondo lui "si è verificata e continua a verificarsi
perché manca un'identità di concezione del mondo tra scrittori e popolo: in pratica i sentimenti
popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori né gli scrittori hanno una funzione educatrice
nazionale, non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo
averli rivissuti e fatti propri. In sostanza si sente la mancanza di una letteratura che risponda alle
3
esigenze della collettività nazionale, nelle quali non un'elite ma la stragrande maggioranza della
popolazione trovi espresse i propri valori e il proprio sentire.
AMBITO CINEMATOGRAFICO Il desiderio di raccontare, il valore della testimonianza, il fervore
della rinascita dopo la distruzione operata dalla guerra, si riversò in modo evidente anche nel
cinema. Parafrasando il titolo di un successivo film di Rossellini, sì può affermare che "Cinecittà è
tornata all'anno zero" dopo che gli studi del complesso romano sono stati utilizzati come campo
profughi e lo stabilimento Pisorno di Tirrenia è divenuto un deposito delle forze armate
americane.....Cinecittà non è in grado di funzionare o gli uomini del cinema scendono per le strade
dimostrando che l'Italia è uno straordinario set naturale e il popolo italiano, nel suo insieme, può
essere soggetto di infinite storie cinematografiche.
Il pubblico diviene così destinatario e protagonista dei film realizzati. Le opere di Rossellini e De
Sica prima, De Sanctis e Visconti poi, intendono includere il più possibile gli spettatori nel cerchio
dei messaggio mettendo in corto circuito le convenzioni spettacolari narrative e recitative. I registi
di queste opere sono accusati di diffamare la patria presentando all'estero gli italiani come tanti
"sciuscià”, ladri, straccioni: si censurano e si tagliano pellicole e si preferisce immettere nei circuiti
cinematografici la nuova produzione hollywoodiana, sorretta da una forte campagna pubblicitaria.
Tuttavia l'esperienza neorealista rimarrà fondamentale per il cinema mondiale.
DIBATTITO POLITICO -CULTURALE. una letteratura impegnata
Nel dopoguerra si sviluppa un vivace dibattito letterario caratterizzato in primo luogo dalla
politicizzazione del letterato. in generale, si può affermare che, la letteratura, come la cultura vanno
risolutamente a Sinistra. Il Paese avverte il bisogno di rivedere la propria storia; si hanno così nuove
interpretazioni dei Risorgimento, con un'analisi precisa dell'esclusione da esso delle masse popolari,
e, successivamente, del brigantaggio e della questione Meridionale, poi delle lotte operaie, dei
ventennio fascista e della Resistenza. Questi argomenti diventano così molto spesso, occasioni e
temi narrativi affidati al romanzo che, proprio in questi anni, è protagonista della scena. A questo
proposito, si può parlare di un dominante populismo nella nostra letteratura, ossia di una visione
ottimistica del popolo, della masse oppresse e avvilite, viste come capaci di una coscienza politica e
di un'etica superiori. Inoltre il rivolgersi dei paese a una politica moderata e avara delle riforme di
fondo di cui si avvertiva la necessità, orienta molti scrittori verso un'adesione al Partito comunista,
che nasce, spesso, da un generico entusiasmo e da una volontà d'azione, piuttosto che di una vera
accettazione del Marxismo, e dà presto origine a crisi e ripensamenti, già evidenti in Pavese e
Vittorini. Segue poi una crisi più profonda, col rinnegamento, nel '56, da parte della Russia, dello
Stalinismo e la denuncia dei crimini del dittatore, accompagnata, poco dopo, dalla dura repressione
dei moti ungheresi, che appare come un ritorno al passato appena annegato. Tralasciando il riflesso
immediatamente politico, vediamo il forte impegno intellettuale che interessa la nostra letteratura,
allora e subito ,dopo, fra guerra fredda e minaccia atomica, in una vicenda statale, e cioè politicosociale, condizionata anche da quegli eventi in senso prevalentemente non positivo. Un intenso
fervore non soltanto di libertà e di giustizia, ma anche di verità pervade l'Italia all'indomani della
Liberazione, con un entusiasmo per le idee e una volontà di riscatto che sfociano in una grande
costruzione culturale collettiva: la prima Costituzione democratica del Paese. Gli intellettuali
rifiutano la sterile solitudine di un tempo e avvertono la necessità di superare la cultura mistificata,
imposta attraverso le anni subdole della propaganda totalitaria. Fra il '45 e il '47 gli italiani
compiono lo sforzo massimo per uscire dall'ignoranza e dal provincialismo cui li avevano
condannati il Fascismo e la loro inerzia. Nascono dovunque centri di cultura dove si discute di
marxismo, di esistenzialismo, di nuovo impegno politico dei cattolici e di letteratura. Nasce una
4
nuova cultura progressista che pone fra le sue prime esigenze quella della larga comunicazione e del
dibattito.
Fra le numerose riviste coinvolte in quest'opera di rinnovamento culturale, una delle più importanti
è senza dubbio "IL POLITECNICO", diretta da Elio Vittorini, uscita dal 29 settembre 1945 come
settimanale, e poi, dal 1 maggio 1946 al dicembre 1947, come mensile. Facendosi portavoce degli
intellettuali usciti dalla Resistenza, si pone come obiettivo la fondazione di una cultura in grado di
creare un connubio tra le istanze scientifiche e quelle umanistiche, tra la letteratura e il pensiero
scientifico; in pratica una cultura attiva nei confronti dell'uomo e della società, combattendo il
disimpegno precedente. La crisi della rivista è segnata, sul piano ideologico, dalla polemica fra
Vittorini (allora iscritto al partito Comunista) e il segretario del partito Palmiro Togliatti . La
cultura, per così dire, di massa che si forma nella nuova Italia democratica e repubblicana, deve fare
i conti con le nuove forme di organizzazione del consenso di matrice socio-politica. La lotta è tra
letteratura (e cultura) libera e letteratura condizionata, organizzata, cioè finanziata in vista di un
consenso. Come testimonianza di questo dibattito, ho analizzato un articolo di Vittorini tratto da "Il
Politecnico" del 29 settembre 1945, nel quale l'autore si pone come problema di fondo il ruolo della
cultura e stende un bilancio della letteratura nei decenni precedenti: (vedi documento allegato).
Polemica Togliatti-Vittorini: nel 1946 una lettera del leader comunista Togliatti alla rivista, critica
"la ricerca astratta del nuovo, dei diverso, del sorprendente". Vittorini risponde difendendo
l'autonomia della cultura dalla politica e proclamando il rifiuto di "suonare il piffero alla
rivoluzione"; ma di lì a poco, perduto il rapporto con la sua più naturale base di lettori e
collaboratori, si decide a chiudere la rivista. In sintesi. Vittorini si fa portatore di una letteratura
libera, vista come un'avventura imprevedibile, come ricerca che si pone prima, e forse al di sopra,
dell’impegno
anche se dove, comporsi e integrarsi armonicamente con esso.
Cultura è senso di ricerca, critica spregiudicata dell'esistente, un po' come il Marxismo. Togliatti,
per contro, è reciso nel collegare la cultura alla lotta per il socialismo, nell'identificarla, anzi,
totalmente con essa, secondo l'ortodossia marxista, almeno nel momento in cui la dinamica storica è
ancora stabilmente fondata sulla lotta di classe. Per Vittorini è invece importante non fare della
cultura un momento meramente strumentale di propaganda politica, di ornamento. li dibattito ha
una vasta eco, non solo fra gli intellettuali comunisti, ma fra quelli di sinistra, intesi a un rinnovato
impegno culturale e, insieme, etico-politico, nel tentativo di fondare una società nuova, e al dibattito
sui fini e sui mezzi con la sinistra marxista. li suo interesse più profondo sta comunque nel fatto che
esso pone in forma lucida e appassionata il problema del rapporto, anzi, della dialettica fra cultura e
politica, fra intellettuali e partiti, intellettuali e società: fra cultura come spirito di demistificazione e
di -ricerca spregiudicata e cultura come posizione e difesa di un sistema di valori.
Togliatti a Vittorini
“Quando «li Politecnico» è sorto, l'abbiamo tutti salutato con gioia. Il suo programma ci sembrava
adeguato a quella necessità di rinnovamento della cultura italiana che sentiamo in modo così vivo.
Naturalmente, noi non pensiamo che spetti a noi, partito politico, il compito immediato e diretto di
rinnovare la cultura italiana. Pensiamo che spetti agli uomini stessi della cultura: scrittori, letterati,
storici, artisti. Per questo ci sembrava dovesse essere utile un'azione come quella intrapresa dal
«Politecnico», alla quale tu chiamavi a collaborare, secondo un indirizzo che ci sembrava giusto,
una parte del mondo culturale italiano. […]
Seguendo la strada per la quale «Il Politecnico» tendeva a mettersi, ci sembrava infatti si potesse
arrivare, non solo alla superficialità, ma anche a compiere o avallare sbagli fondamentali di
indirizzo ideologico, e in questo modo temevamo che la tua iniziativa avesse ad esaurirsi, come
5
molte altre già si esaurirono, in un conato infruttuoso, se non proprio nel contrario di quelle che
sono le tue intenzioni. […]
Quante promesse, e quante speranze legate a ciascuno di essi. Ma tu, se osservi con attenzione,
constati che a un certo punto eesi si esauriscono e finiscono tutti o quasi tutti allo stesso modo.
Manca la costanza nel perseguire il fine proposto; affiora spesso una generica irrequietezza, una
superficiale ricerca dei nuovo; la forza d'attrazione si perde; […]
A noi rincrescerebbe che «Il Politecnico» o se non esso qualche altra rivista di natura culturale, non
riuscisse a rompere una buona volta questa tradizione, e a fare finalmente opera seria, profonda,
duratura, di rinnovamento. Il nostro voleva quindi essere, più che altro, un richiamo alla serietà del
compito che sta davanti a voi, uomini della cultura, e un appello a lavorare, secondo le linee che voi
stessi avete tracciato, in modo adeguato a questa serietà”.
Vittorini a Togliatti
lo non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte e che il terreno dell'una sia da
considerarsi chiuso all'attività dell'altra, e viceversa. Cercherò più avanti di mostrare come invece le
due attività mi sembrino strettamente legate. Ma –certo- sono due attività, non un'attività sola; e
quando l'una di esse è ridotta (per ragioni interne o esterne) a non avere il dinamismo suo proprio, e
a svolgersi, a divenire, nel senso dell'altra, sul terreno dell'altra, come sussidiaria o componente
dell'altra, non si può non dire che lascia un vuoto nella storia.
La cultura che perda la possibilità di svilupparsi in quel senso di ricerca che è il senso proprio della
cultura, e si mantenga viva attraverso la possibilità di svilupparsi in «senso di influenza», cioè in un
senso politico,
'La cultura, cioè, deve svolgere il suo lavoro su un doppio fronte. Da una parte svolgerlo in modo
che le masse le restino agganciate e non si fermino, anzi ne ricevano incentivo ad accelerare la
propria andatura, e a lasciar cadere sempre più in fretta quelle sopravvivenza di cultura sorpassata
che inceppano il loro dinamismo storico. Da un'altra parte svolgerlo (e allo stesso tempo) in modo
che non si verifichino arresti nel suo sviluppo e alterazioni nella sua natura, per via dell'arretratezza
culturale in cui le masse, o parte di esse, si trovano. La politica può adeguare la propria azione al
livello di maturità raggiunto dalle masse, e persino segnare il passo, persino fermarsi, appunto in
ragione del fatto che qualche altra cosa, la cultura, continua ad andare avanti. Anzi è in questo,
direi, che si effettua in pratica la distinzione tra cultura e politica; o almeno è solo in questo che si
riesce a veder scorrere separatamente le acque loro attraverso la storia. Politica si chiamerà la
cultura che, per agire (e qui lascio intendere «agire» tanto nel senso dello storicismo idealistico
quanto in quello dei materialismo storico), si adegua di continuo al livello di maturità delle masse, e
segna anche il passo con esse, si ferma con esse,
[…] Continuerà invece a chiamarsi cultura la cultura che, non impegnandosi in nessuna forma di
azione diretta, saprà andare avanti sulla strada della ricerca. Ma se tutta la cultura diventa politica, e
si ferma su tutta la linea, e non vi è più ricerca da nessuna parte, addio. Da che cosa riceverà la
politica l'avvio alla ripresa se la cultura è ferma? [...]
Cultura è verità che si sviluppa e muta; e si sviluppa, muta non solo grazie ai mutamenti concreti
del mondo e grazie alle esigenze di mutamento che si presentano nel mondo, ma grazie anche al suo
proprio impulso per cui essa «è» nella misura in cui è un tale impulso, ovvero nella misura in cui
non si placa, non si soddisfa, non si cristallizza in possesso e sistema. Essa è la forza umana che
scopre nel mondo le esigenze di mutamento e ne dà coscienza al mondo. Essa, dunque, vuole le
trasformazioni del mondo.
[…]
6
Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie
diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell'uomo ch'egli soltanto
sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore
rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze
che -pone la politica.
ITALO CALVINO: un intellettuale impegnato
Nato a Santiago de Las Vegas, Cuba, nel 1923, morto nel 1985, narratore e saggista, amico di
Pavese (che lo scoprì), e di Vittorini (col quale diresse la rivista "Il Menabò"), partecipò alla
Resistenza e militò nel partito comunista fino al tempo della rivolta ungherese, battendosi contro
ogni conformismo culturale. È forse lo scrittore di più lucida intelligenza e di più matura
consapevolezza della sua generazione: un intellettuale impegnato, uscito dalla Resistenza e rimasto
sempre fedele a un ideale di letteratura in cui si fondessero impegno conoscitivo e volontà eticopolitica di trasformazione del reale. Partito dal Neorealismo del dopoguerra, ne superò le limitazioni
con un senso complesso della storia come sviluppo problematico e incessante che pone di continuo
in discussione le barriere ideologiche e razionali. Il suo razionalismo assume la vitalità come
mistero continuamente presente e riaffiorante di là dalle singole costruzioni intellettuali. In Calvino
persiste un ottimismo vitale che nasce dalla fede nella ragione e, al tempo stesso, dall'amore della
vita come azione e costruzione dell'uomo. La non accettazione della situazione data, la volontà di
contrasto, lo scatto attivo e cosciente, sono i mezzi attraverso i quali Calvino afferma la propria
presenza e la propria dignità davanti alla storia e alla natura. Vasta fu la tematica di Calvino: dalla
Resistenza alla crisi della guerra fredda, all'alienazione del neocapitalismo, alle prospettive
sconvolgenti delle nuove dimensioni cosmiche scoperte dalla scienza. Tra le opere più importanti
ricordiamo: "Il sentiero dei nidi di ragno "; "Ultimo venne il corvo "; "I racconti "; "Marcovaldo ";
"La giornata di uno scrutatore"; "Il cavaliere inesistente"; "Il barone rampante"; "Il visconte
dimezzato"; "Le città invisibili".
Alla produzione narrativa si accompagnò in Calvino una costante meditazione sul romanzo, sull'atto
dello scrivere, sul loro significato nella vita del singolo e della società. La problematico trattata da
Calvino investe il Neorealismo, anche come fatto etico-politico, e la sua crisi, la nuova cultura
legata allo sviluppo della civiltà industriale e al tramonto delle ideologie, la rivolta del sessantotto e
lo sfaldamento di valori e della stessa creatività che sembra anzi caratterizzare il tempo più vicino a
noi.
L'attività di pubblicista influì notevolmente sulla sua ideologia. Già al tempo del primo romanzo,
Calvino fa parte di un gruppo di intellettuali d'avanguardia, con Pavese e Vittorini, intesi alla
formazione di una nuova cultura e di un nuovo impegno letterato collabora al Politecnico e ai
programmi culturali ed editoriali della casa editrice Einaudi, una delle più impegnate a livello
nazionale. Nel 1980 raccolse tutti i suoi contributi giornalistici più importanti nel volume "Una
pietra sopra": un approdo della progettazione intellettuale e culturale esperita fino ad allora. Il titolo
alludeva a un segnale posto come punto di arrivo di un'esperienza che appariva ormai superata,
davanti ai problemi di una società e di una letteratura in via di ulteriore trasformazione. Nella
prefazione Calvino interpretava l'obiettivo del lavoro fino ad allora compiuto come la ricerca di
fondazione di una cultura che divenisse il "contesto in cui situare le opere ancora da scrivere" e
tracciava una storia del proprio impegno culturale in tal senso.
Nell'immediato dopoguerra l'ambizione era stata quella del 1 progetto di costruzione di una nuova
letteratura che a sua volta servisse alla costruzione di una nuova società" . Di conseguenza il nuovo
7
intellettuale ce Calvino si sente ora di impersonare è quello che ancora cerca di "comprendere,
indicare e comporre la realtà", non però con l'impazienza di traguardi immediati, ma facendo
propria e diffondendo la coscienza del complicato e del molteplice e del relativo". È un accanito
sostenitore di una "letteratura che sia presenza attiva nella storia", un'educazione che richiami
l'uomo ad essere consapevole degli eventi, lo aiuti a mantenere la propria responsabilità intellettuale
e morale anche in epoche in cui difficile appare orientarsi: una letteratura come rifugio
dell'intelligenza. In questa volontà di non cedere alla massificazione perdura il messaggio
resistenziale di Calvino: il richiamo alla responsabilità dell'intellettuale e del letterato nella storia di
tutti.
Come è già stato accennato, poiché è difficile una definizione precisa ed univoca dei Neorealismo,
il testo che a mio parere può essere maggiormente utile per tracciare un bilancio su questa
"stagione", è la PREFAZIONE (chiamata “postfazione”) de "Il sentiero dei nidi di ragno".
Questa prefazione , scritta nel giugno del 1964 per una nuova edizione dei libro (ecco perché prese
il nome di postfazione) divenne subito un testo fondamentale della riflessione di Calvino sulla
propria opera. Calvino vuole trattare del Neorealismo non per farne un'epopea al contrario, cerca di
interpretarlo con un certo distacco.
Il testo può essere suddiviso in vari paragrafi nei quali lo scrittore più volte cerca di riprendere il
discorso, che nel frattempo si è andato frantumando, sull'esperienza di lettore di se stesso. Il testo
propone diverse problematiche:
La letteratura neorealista nasce da un clima umano ben preciso, ricco di esperienza, di
tensione morale; pertanto i racconti delle avventure di guerra nascono come racconti orali anonimi,
senza il filtro del narratore. Predominante è la coralità, come conseguenza dell'aver vissuto
l'esperienza comune della guerra, tutti hanno qualcosa da raccontare e l'autore è, al tempo stesso,
una voce singola che esce dal coro ma con il quale anche si identifica.
Il Neorealismo non ha l'intenzione di informare , quanto piuttosto di esprimere un'esperienza
eccezionale; ciò in polemica con l'intenzione ideologica di molti intellettuali. Si assiste alla rinascita
della libertà di parlare; lo scrittore non vuole più semplicemente documentare ma esprimere se
stesso, questo è il Neorealismo di cui si sente partecipe Calvino.
Si assiste al superamento dell'estetismo solitario della prosa d'arte e si cerca di riportare il
romanzo ad una tonalità epica, nazionale e popolare, giungendo "alla molteplice scoperta delle
diverse Italie, soprattutto di quelle più inedite alla letteratura". Il Neorealismo infatti "non fu una
scuola ma un insieme di voci, in gran parte periferiche...", il punto di partenza è quindi la lezione
delle cose. Calvino riprende alcuni tratti del regionalismo veristico ma non si voleva chiudere nel
localismo, o diventare eccessivamente paesano e specifico.
Calvino tenta di scrivere un romanzo della Resistenza, pertanto opera una scelta che parte
dalla sua esperienza senza intenzione di illustrare tesi definite a priori, evitando così di cadere
nell'inutile retorica.
Un altro elemento importante è, secondo Calvino, la ricerca stilistica, dal lessico (le
influenze dialettali e dei "parlato": un altro modo per unire le due Italie, quella paesana e quella
borghese), al ritmo narrativa e alla scrittura, secondo una linea che univa Verga a Vittorini e Pavese
al romanzo nordamericano, nel tentativo di superare regionalismo e provincialismo.
Nel seguito della Prefazione , l'autore parla più direttamente dei romanzo "Il sentiero dei nidi di
ragno" , con osservazioni di notevole interesse come la volontà di non idealizzare la Resistenza, e di
8
salvarla, contemporaneamente, da troppo facili denigrazioni. La Resistenza in Calvino, rappresenta
la fusione tra personaggio e paesaggio, è la peripezia che scaturisce il romanzo.
Da molti suoi romanzi, ma in particolare da questo che ho preso in esame, emerge un Calvino che,
oltre ad essere uno scrittore impegnato, è anche, senza dubbio, uno scrittore in movimento. Leggere
i suoi libri è come seguire le tracce di qualcuno che cerca di capire il mondo senza mai essere
soddisfatto delle risposte e continua instancabilmente ad allargare il proprio orizzonte di
osservazione.
Estratti dalla “Postfazione a Il sentiero dei nidi di ragno”
“Più che come un'opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale
d'un'epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione
si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico,
esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani - che avevamo fatto appena in
tempo a fare il partigiano - non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti
dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità. Non
era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt'altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un
senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale,
anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l'accento che vi mettevamo era
quello d'una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi
racconti e del primo romanzo.
Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell'epoca, più forte delle nostre inflessioni
individuali ancora incerte. L'essere usciti da un'esperienza - guerra, guerra civile - che non aveva
risparmiato nessuno, stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico:
si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno
aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata
libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a
funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d'olio, ogni passeggero raccontava agli
sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle « mense del
popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d'altre
epoche; ci muovevamo in -un multicolore universo di storie.
Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore
orale: alle sto- rie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo sta- ti spettatori s'aggiungevano
quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un'espressione mimica.
Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie
raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di
bravata, una ricerca d'effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo
romanzo hanno all'origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.
Eppure, eppure, il segreto di come si scriveva allora non era soltanto in questa elementare
universalità dei contenuti, non era lì la molla (forse l'aver cominciato questa prefazione rievocando
uno stato d'animo collettivo, mi fa dimenticare che sto parlando di un libro, roba scritta, righe di
parole sulla pagina bianca); al contrario, mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano
materiale grezzo: la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella
sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi
stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di
sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi,
spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori
9
della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la
musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo,
mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere..
[…]
Il «neorealismo» non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di
voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una
all'altra - o che si supponevano sconosciute. -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far
lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato ,, neorealismo,, - ma non fu paesano
nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di
verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia
americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli
allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per
questo- nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. C’eravamo fatta
una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui
partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e dei proprio paesaggio. (Continuo a parlare al
plurale, come se alludessi a un movimento organizzato e cosciente, anche ora che sto spiegando che
era proprio il contrario).
[…]
Questo romanzo è il primo che ho scritto. Che effetto mi, fa, a rileggerlo adesso? (Ora ho trovato il
punto: questo rimorso. È di qui che devo cominciare la prefazione). Il disagio che per tanto tempo
questo libro mi ha dato in parte si è attutito, in parte resta: è il rapporto con qual- cosa di tanto più
grande di me, con emozioni che hanno coinvolto tutti i miei contemporanei, e tragedie, ed eroismi, e
slanci,generosi e geniali, e oscuri drammi di coscienza. La Resistenza; come entra questo libro nella
,,letteratura della Resistenza »? Al tempo in cui l'ho scritto, creare una «letteratura della Resistenza»
era ancora un problema aperto, scrivere «il romanzo della Resistenza» si poneva come un
imperativo; a due mesi appena dalla Liberazione nelle vetrine dei librai c'era già Uomini e no di
Vittorini, con dentro la nostra primordiale dialettica di morte e di felicità; i gap di Milano avevano
avuto subito il loro romanzo, tutto rapidi scatti sulla mappa concentrica della città; noi che eravamo
stati partigiani di montagna avremmo voluto avere il nostro, di romanzo, con il nostro diverso ritmo,
il nostro diverso andirivieni...”
Cinema: "LADRI DI BICICLETTE”(1948)
Nell'autunno del 1958, esattamente dieci anni dopo l'uscita in Italia di "Ladri di biciclette", la
"Confrontation des meilleurs films de tous les temps", indetta dalla Cinémathèque de Belgique per
l'Esposizione Universale di Bruxelles stila una lista dei primi dodici capolavori. “La febbre dell'oro"
di Chaplin e "Ladri di biciclette" di De Sica sono al secondo posto a pari merito con 85 voti. Per
sensibilità e umanità De Sica è senza dubbio accostabile al grande modello (Chaplin); come attore
De Sica non recita nei suoi capolavori neorealisti e come regista si avvale di interpreti non
professionisti, "presi dalla strada” si diceva allora. Invece Chaplin comunica sempre attraverso
Charlot. Ora un operaio della Breda romana, quale Lamberto Maggiorani non avrebbe potuto
competere con Charlot. Ma anche "Ladri di bìciclette" non sarebbe stato lo stesso se lo avesse
interpretato Cary Grant che gli americani offrivano ma che De Sica rifiuta deciso a realizzare da
solo il suo film.
Mentre la risonanza all'estero sarà enorme, il pubblico italiano è assente. Tutti gli sforzi della
critica si infrangono contro il muro dei mercato: in quel dannato 1948, anno di elezioni sfortunate, il
neorealismo più avanzato è sconfitto e, tra i crescenti ostacoli dei suoi potenti nemici, inizia la
parabola discendente. Il ricordo del periodo può servire ad entrare meglio nello spirito dei film,
10
strettamente legato al suo tempo, e che insieme lo trascende per l'universalità del suo nucleo
poetico.
L'intreccio
Il film si apre con la presentazione del protagonista, Antonio Ricci, che vive con la sua
famiglia a Roma, in attesa di un posto di lavoro che gli consenta una vita migliore. Il rapporto
pa&e-figlio, su cui si incentra la vicenda, dopo l'incisivo disegno iniziale della madre, perde ogni
astrazione sentimentale e si fa sempre più duro e amaro, anche perché calato nella Roma del
dopoguerra e nella sua precarietà sociale. In una città dove per andare al lavoro, ma anche allo
stadio la domenica, si adopera la bicicletta, non averla può voler dire disoccupazione, ma esserne
privati appena ottenuto il posto conduce alla tragedia. Il racconto in pratica accomuna la vittima al
ladro: per entrambi infatti, la bicicletta , da mezzo di trasporto, diventa simbolo di sopravvivenza.
Dall'ufficio periferico di collocamento al monte di pietà, dall'appartamento della Santona (la
moglie ci va per ringraziamento, il marito ci tornerà per disperazione) al centro municipale da cui
Antonio esce felice con la divisa e gli strumenti dell'attacchino: questo è il breve prologo della
speranza dove la vita sembra addirittura rosea. Ma, mentre attacca il suo primo manifesto (Rita
Hayworth in "Gilda"), il poveretto è derubato della sua bicicletta recuperata impegnando le lenzuola
di casa. E da qui comincia il calvario: una consequenzialità inesorabile trasforma l'incidente in un
dramma. Sfumato l'inseguimento del ladro si entra al commissariato troppo intento a spedire agenti
al comizio mentre il furto di una bicicletta è meno di niente. Poi la cellula di partito con attiguo
teatrino di varietà, il mercato delle pulci di Piazza Vittorio dove telai e ruote, campanelli e pompe
abbondano, ma il corpo del reato è introvabile. E ancora Porta Portese con i seminaristi stranieri che
si n'parano dalla pioggia, la messa-mensa dei poveri, la trattoria, la casa di tolleranza, la "Santona"
rivisitata ("o la trovi subito, o non la trovi più"), l'incontro con la madre del ladro e la crisi epilettica
del giovane. Un'intera domenica di angosciosa e vana ricerca, che è insieme esplorazione di una
metropoli ed esplorazione dell'animo dell'uomo, delle sue delusioni, del suo doloroso litigio con il
figlioletto Brano, che in tutti i modi cerca di assisterlo. Finché, al colmo dello sconforto, Antonio si
accinge a sua volta al gesto per il quale è negato: rubare una bicicletta a uno come lui, che nel
lavoro non può fame a meno. Immediatamente preso, umiliato, picchiato ma soprattutto visto dal
bambino, la sua umiliazione è totale. Sarà il piccolo, con il suo pianto irrefrenabile a salvarlo dalla
denuncia. E mentre prima si era allontanato offeso quando il padre l'aveva ingiustamente
schiaffeggiato, adesso lo conforta dandogli la mano. Se la città è il motivo unificante del film,
questo ometto di dieci anni, coprotagonista, ne è la forza emotiva.
ALBERT CAMUS: un intellectuel engagé
L'existentialisme est un mouvement dont le but était l'étude de ce qui se manifeste à la conscience.
Il refuse la philosophie traditionnelle; le trait le plus caractéristique de la littérature existentielle est
l'engagement, conçu comme une expérience quotidienne. Albert Camus et Jean Paul Sartre, aussi
différents qu'ils soient, donnent l'expression la plus pure et la plus intense de ce mouvement
existentialiste.
Albert Camus est né en Algérie; il n'a pas connu son père, mort à la guerre en 1914. Sa mère est
d'origine espagnole, donc il a du sang espagnol dans les veines. Il a vécu une enfance triste au près
de sa mère qui était fruste et taciturne, dans un appartement d'une extrême pauvreté. A l’age de 16
ans il subit une première atteinte de tuberculose. Il lutte pour l'émancipation musulmane et il
accomplit de brillantes études; il s'initie au journalisme et adhère, un moment, au parti communiste.
En effet à cette époque-là les intellectuels sont attirés par le marxisme. Mais, tandis que Sartre s'en
rapproche de plus en plus, Camus dénonce les excès du Stalinisme; pour ce fait il aura l'hostilité
déclarée de bien des milieux intellectuels. En conséquence il y aura la rupture avec Sartre et la
11
rédaction de la revue "Les temps modernes ". Cette revue avait optée dès le premier numéro pour un
choix précis: "la responsabilité, l'engagement politique révolutionnaire, contre l'irresponsabilité des
intellectuels, de leur silence, complice devant les crimes les plus terribles du pouvoir. Mais Camus
est loin de renoncer à l'action, parce que, plus que jamais, l'histoire sollicite les écrivains à l'activité.
La problématique de l'engagement devient essentielle; elle se pose de nouvelles valeurs sur
lesquelles fonder une action qui se manifeste dans la participation à la résistance. L'oeuvre est ainsi
le lieu où s’exprime cette recherche par étapes successives; il y a en effet une certaine dynamique
de la réflexion qu'il faut suivre dans ses progrès, mais aussi dans ses doutes et ses renoncements. La
volonté d'engagement explique aussi le caractère, souvent didactique, de ses oeuvres et le souci
constant du publie auquel elles s'adressent. Multipliant les moyens d'expression, Camus pratique
des genres très divers (roman, ouvrage philosophique, essai, théâtre), parmi les quels les nombreux
textes d'actualité (articles, conférences ... ), témoignent d'un engagement quotidien.
L'engagement de Camus, qui s'est exprimé tout le long de sa vie, fut couronné en 1957 par le prix
Nobel.
LA PESTE (1947)
"Comparée à l'Etranger, la Peste marque le passage d'une attitude de révolte solitaire à la
reconnaissance d'une communauté dont il faut partager les luttes. S'il y a une révolution de
l'Etranger à la Peste, elle s’est faite dans le sens de la solidarité et de la participation.
TRAME
C'est l'histoire d'une épidémie de peste imaginaire à Oran, en Algérie. Narrés à la troisième
personne, par le docteur Rieux, ces événements se sont déroulés en 194.. . L'épidémie se répand
inéluctablement, les morts se multiplient jour après jour. La ville est isolée du reste du monde et,
dans cet état de siège, la vie reprend lentement. Certains essaient de se distraire, d'autres sont
paralysés par la peur, et d'autres encore cherchent même à profiter de cette situation dramatique
pour s'enrichir, et puis il y a ceux qui essaient courageusement de combattre ce fléau. Enfin
l'épidémie est peu à peu maîtrisée; elle cesse et dans la ville, qui redevient libre, les habitants
s'abandonnent de nouveau au sommeil de l'inconscience. Mais Rieux invite à la prudence, parce que
"le microbe de la peste ne disparaît jamais".
COMMENTAIRE
La dimension allégorique de "La peste" est évidente: dans l'épidémie de peste qui frappe Oran, dans
les réactions diverses des quelques personnages que suit le récit, on a pu lire l'évocation de la
seconde guerre mondiale et de la résistance contre le fascisme. Cela est sans doute vrai, à condition
de ne pas enfermer le livre dans la -problématique du roman à thèse. Il est, aussi, le récit d'une
épidémie présentée en scènes saisis~es. Et il ne se ramène pas à un sens symbolique unique et
réducteur, mais, comme le souhaitait Camus, peut servir "à toutes les résistances contre toutes les
tyrannies". Il peut se lire au niveau métaphysique (l'homme confronte au mal que les réponses
religieuses évoquées par le Père Paneloux ne peuvent justifier) comme au niveau historique et
politique.
Dans le personnage du docteur Rieux, qui se dévoile à la fin comme le narrateur de l'histoire,
Camus incarne cette sagesse (celle d'un "saint sans Dieu" dit à Rieux son ami Tarrou) dont
l'Homme révolté dégage les bases conceptuelles, En luttant contre la peste, les hommes découvrent
la " fraternité de la révolte collective, qui donne sens à la vie. Ce combat ne peut déboucher sur une
12
victoire définitive: il n'y a pas de fin de l'Histoire. Rieux n'oublie pas qu'un jour viendra où "pour le
malheur et l'enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une
cité heureuse". Mais cela n'empêche pas de lutter quotidiennement contre le fléau, avec la patience
modeste du médecin.
Sartre e i filosofi impegnati
FILOSOFI ENGAGES
Nella Francia del dopoguerra, l'ideale dell'impegno (engagement) sociale degli intellettuali,
motivato più da una scelta di valori, da un'opzione indiretta a favore dell'uomo e delle sue libertà,
piuttosto che da un'esplicita adesione a un'ideologia politica (di destra come di sinistra) è
rappresentato soprattutto da due filosofi di matrice fenomenologica-esistenzialistica: Maurice
Merleau-Ponty e Jean-Paul Sartre. Nell'articolo "Merleau-Ponty vivant”, comparso su "Les Temps
Modernes" all'indomani della prematura scomparsa del filosofo, Sartre cerca di ricostruire a caldo il
complesso rapporto che lo ha legato per tanti anni a Merleau-Ponty, definendo la loro amicizia una
"rottura mai avvenuta". La loro storia è caratterizzata da un continuo perdersi e ritrovarsi.
Compagni di studio all'università nella seconda metà degli anni venti, negli anni trenta si perdono di
vista pur muovendosi su percorsi filosofici affini. Durante la guerra, nel 1941, fanno causa comune
nel gruppo resistenziale "Socialismo e libertà". Al termine del conflitto sono tra i fondatori de "Les
Temps Modernes"; allorché la rivista viene delineando più precisamente la propria linea politica e si
presenta come una "terza forza", distante tanto dall'imperialismo statunitense quanto dallo
Stalinismo sovietico, i collaboratori liberali e comunisti prendono le distanze dal progetto e i due
amici si ritrovano praticamente soli a sostenerne il peso editoriale. Tra i due è senza dubbio
Merleau-Ponty a salvare la rivista accettando di assumerne la direzione politica. Si può dunque dire
che Merleau-Ponty abbia giocato un ruolo importante nell'orientare l'impegno di tipo ancora morale
di Sartre, verso un engagement più direttamente politico e, in particolare, verso un confronto con il
marxismo e il comunismo.
In ambito italiano, un'esperienza paragonabile a quella di "les Temps Modernes" è quella cui dette
vita, tra il 1945 e il 1951, Elio Vittorini con il periodico "Il Politecnico”.
SARTRE e l'ESISTENZIALISMO
L'Esistenzialismo è una delle correnti filosofiche più importanti degli anni fra le due guerre e del
secondo dopoguerra, affermatasi prima in Germania, poi in Francia e in Italia. Gli esponenti
principali sono: Heidegger, Jasper, Marcel, Jean-Paut Sartre. L'esistenzialismo si oppone sia a
Hegel e ai vari hegelismi, sia al positivismo e all'idolatria della scienza e della tecnica concepite
come fondazione di un sapere su basi di certezza assoluta e di strutture sociali esemplari; in genere
vanno contro ad ogni sapere totalizzante, inteso, cioè, a sacrificare la concreta esistenza del singolo,
la sua irriducibile originalità, a leggi generali e assolute. Le ideologie totalitarie sono infatti pronte a
sacrificare la persona a mitologie collettive di razza e d'impero, presentate come il cammino unico e
vincente della storia, ma anche ad o ' forma di collettivismo e storicismo.
I caratteri principali di questa filosofia sono i seguenti:
Centralità dell'esistenza come modo di essere dell'uomo: essa implica non un essere statico,
ma si fonda sulla costante trasformazione e sull'apertura a vane possibilità, momento per momento,
(vedi Nietzsche, anche lui è concentrato sul momento, Kalpós). È commistione teorica tra
Kierkegaard e Marx, è una possibilità, non un'essenza. Di conseguenza l'uomo si trova
nell'incertezza, nel rischio ma deve affrontare questo slancio in avanti, che può essere verso Dio,
verso la libertà, ma anche verso il nulla.
13
L'uomo è quindi libero di scegliere, ma si tratta di una libertà assoluta, incondizionata;
l'uomo è così libero da non avere più il controllo sulle cose, non ha nemmeno più punti di
riferimento metafisici che lo guidino. La libertà è, in sostanza, la malattia dell'individualismo
estremizzato, in quanto non esisterà mai una libertà collettiva. Questo eccesso di libertà, la caduta
dell'esistenza nella completa esistenza, la condizione di gettatezza (gevorfenheit), creano nell'uomo
un malessere fisico, un senso di depressione, definito "nausea".
L'uomo libero ha la possibilità di agire, ecco perché l'esistenzialismo è definito anche
"filosofia dell'azione". Proprio in riferimento a questo punto è possibile fare un parallelo tra
l'esistenzialismo e il concetto di prassi portato avanti da Marx . Come Marx rovescia il presupposto
hegeliano, così gli esistenzialisti negano 'esistenza di un principio, affermando che la struttura è
Inesistenza stessa. Per Marx la struttura è il capitale e la sovrastruttura è l'ideologia, per gli
esistenzialisti, la struttura è l'esistenza e la sovrastruttura è l'essere
La prassi, per la filosofia esistenzialista è il momento che unisce la ricerca di me stesso, e
l'attivismo; in questa fase il fatto di essere consapevoli della propria finitezza permette il progresso
sociale. I conflitti che Marx considera come generanti sempre e comunque di qualcosa, sono adesso
conflitti caratterizzati da volontà di impegno nelle coscienze che se ne fanno portatrici. L'impegno
non è solo riferito alla mia interiorità, come in Hegel, dove il soggetto è sì attivo, ma solo in
funzione di una personale realizzazione, qui si cerca di attuare la trasposizione dell'individualità nel
sociale.
Trascendenza dell'essere cui l'esistenza si rapporta; il paradosso scoperto dall'esistenzialismo
sta nella costante ricerca, da parte dell'esistenza, di un'autenticità che si identifica con la pienezza di
essere; la quale però, una volta che sia penetrata nell'esistenza, partecipa alla legge di questa, che è
legge di mutamento, di scelte imprevedibili, di definirsi incerto di potenzialità; partecipa, insomma,
della relatività dell'esistere, della sua impossibilità di consistere automaticamente.
SARTRE e l'ENGAGEMENT
Nato a Parigi nel 1905, morto nel 1980, Sartre è stato, soprattutto nel secondo dopoguerra, una
figura di scrittore e intellettuale impegnato di notevole importanza. Narratore, drammaturgo, ha
sempre preso una posizione nei momenti di crisi mondiale, dalla guerra di Algeria a quelle di
Indocina, con spirito anticonformista. È stato uno dei maggiori esponenti dell'esistenzialismo ateo
che, se lo ha condotto alla scoperta del nulla, dell'assenza, dell'assurdo che si celano al fondo
dell'esistenza, lo ha spinto anche ad una radicale demistificazione dei falsi valori borghesi, al
tentativo infine di una filosofia della libertà, cioè della responsabilità e della scelta. In un universo
senza Dio, privo di giustificazioni e certezze metafisiche, l'uomo è chiamato a costruire liberamente
se stesso e il suo destino, a un'assunzione di responsabilità nella vita comune. L'impegno etico di
Sartre nei confronti della società, si misura nella presa di posizione quotidiana, di fronte alle scelte e
agli orientamenti concreti dell'opinione pubblica francese del suo tempo. Sartre si presenta come il
diretto continuatore di quella tradizione di impegno dell'intellettuale “progressista" che (almeno dai
tempi dell'affaire Dreyfus), non aveva mancato di assillare la coscienza della Francia intellettuale
L'articolo che ho allegato , "LA RESPONSABELITA DELLO SCRITTORE", è l'articolo di
presentazione della rivista "Les temps modernes", fondata da Sartre nel 1945, pochi mesi dopo la
conclusione della seconda guerra mondiale. Il brano è un appello appassionato alla responsabilità
sociale dello scrittore. Cresciuto in seno alla borghesia, letto da un pubblico borghese, lo scrittore
deve sapere che ogni parola che scrive o è contro le ingiustizie del mondo presente, o contribuisce a
mantenerle; il rifugio nell'arte pura non giustifica nessuno, perché il silenzio è già un'approvazione.
"Lo scrittore è in situazione nella sua epoca: ogni parola ha i suoi echi. Ogni silenzio anche".
14
Jean Paul Sartre
La responsabilità dello scrittore
Presentiamo alcuni brani dell'articolo di presentazione della rivista «Les Temps Modernès»
("Tempi moderni), fondata da Sartre nel 1945, pochi mesi dopo la conclusione della seconda
guerra mondiale.
Tutti gli scrittori d'origine borghese hanno conosciuto la tentazione dell'irresponsabilità che, da un
secolo a questa parte, è divenuta tradizionale nella carriera delle lettere. Raramente l'autore
stabilisce un nesso tra le sue opere e la loro rimunerazione in contanti. Da un lato lui scrive, canta,
sospira; dall'altro gli si dà del denaro. Sono due fatti senza relazione apparente; al massimo, può
dire a se stesso che lo sovvenzionano perché sospiri. Tanto che, generalmente, si considera piuttosto
simile a uno studente premiato con una borsa di studio che a un lavoratore al quale si paga il prezzo
della sua fatica. A siffatta opinione lo hanno ancorato i teorici dell'Arte per l'Arte e del Realismo. Si
è fatto caso che hanno tutti gli stessi obiettivi e la medesima origine? L’autore che segue
l'insegnamento dei primi si pone come principale obiettivo di scrivere opere che non servono a
niente: purché siano completamente gratuite, assolutamente prive di radici, non sarà difficile che gli
sembrino belle. E così si colloca ai margini della società; o piuttosto non consente di figurarvi se
non a titolo di puro consumatore: precisamente come chi ha vinto una borsa di studio. Anche il
Realista consuma volentieri. Quanto a produrre, è un'altra cosa: gli hanno detto che la scienza non
mira all'utile, e così lui tende all’imparzialità infeconda dello scienziato. Ci hanno ripetuto a sazietà
che lui «si chinava» sugli ambienti che voleva descrivere. Si chinava! E dovè-stava dunque? Per
aria? La verità è che, incerto circa la propria posizione sociale, troppo timorato per levarsi contro la
borghesia che lo paga, troppo lucido per accettarla senza riserve, ha scelto di giudicare il proprio
secolo e si è così convinto di restarne fuori, come lo sperimentatore è esterno al sistema sperimentale. li disinteresse della scienza pura raggiunge dunque la gratuità dell'Arte per l'Arte. Non a
caso Flaubert è, a un tempo, stilista puro, puro amante della forma e padre del naturalismo; non a
caso i Goncourt si vantano di saper osservare e di possedere insieme la scrittura artistica.
Questo legato d'irresponsabilità ha gettato lo scompiglio in molte anime. Poiché soffrono di cattiva
coscienza letteraria non sanno più se scrivere sia cosa ammirevole o grottesca. Un tempo il poeta si
credeva un profeta, ed era un fatto onorevole; in seguito, divenne paria e maledetto; il che poteva
ancora andare. Ma oggi è caduto al rango degli specialisti, e quando deve indicare accanto al suo
nome, nei registri d'albergo, il suo mestiere di «letterato», avverte un certo disagio. Letterato: è una
parola tale, da provocare il disgusto di scrivere; si pensa a un Ariele, a una Vestale, a un enfant
terrible e anche a un maniaco inoffensivo apparentato con i sollevatori di pesi o con i numismatici.
Il tutto è piuttosto ridicolo. Mentre si combatte, il letterato scrive; un giorno ne è fiero, si sente
chierico e guardiano dei valori ideali; il giorno dopo, se ne vergogna, pensa che la letteratura
assomiglia assai a un modo d'affettazione particolare. Con i borghesi che lo leggono, ha coscienza
della propria dignità, ma in faccia agli operai, che non lo leggono, soffre d'un complesso
d'inferiorità, [ ... ] Non è correndo dietro all'immortalità che si diventa eterni: né diventeremo
assoluti per aver riflesso nelle nostre opere qualche principio scarnificato, abbastanza vuoto e
abbastanza nullo per passare da un secolo all'altro; ma perché avremo combattuto
appassionatamente nella nostra epoca, perché l'avremo amata appassionatamente e avremo accettato
di seguirne fino in fondo la sorte.
In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci
circonda. E con questo non intendiamo un mutamento d'anime: lasciamo ben volentieri la direzione
15
delle anime agli autori che hanno una clientela specializzata. Noi che, senza essere materialisti non
abbiamo mai distinto l'anima dal corpo e non conosciamo che una sola, indecomponibile realtà,
quella umana, noi ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la condizione sociale
dell'uomo e la concezione che egli ha di se stesso. Pertanto, a proposito degli avvenimenti politici e
sociali che verranno, la nostra rivista prenderà posizione in ogni caso. Non politicamente, cioè non
servirà alcun partito, ma si sforzerà di porre in luce-la concezione a cui si ispireranno le tesi in
contrasto, e darà il proprio parere conformemente alla concezione che verrà sostenendo. Se potremo
mantenere quanto ci siamo ripromessi, se potremo far condividere i nostri punti di vista a qualche
lettore, non ne trarremo un orgoglio esagerato; ci feliciteremo semplicemente d'aver ritrovato una
buona coscienza professionale, e del fatto che, almeno per noi, la letteratura sia tornata a essere
quella che non avrebbe mai dovuto cessare d'essere: una funzione sociale;
Il secondo dopoguerra tra rinnovamento e restaurazione
La guerra e il crollo del fascismo
La seconda guerra mondiale (1939-45) si è rivelata, tra i tanti conflitti combattuti nella storia, il più
sanguinoso e distruttivo, per le ingenti perdite di vite umane, per l'impiego dei campi di sterminio e
di terrificanti mezzi di distruzione, per le profonde divisioni, infine, determinatesi al termine del
conflitto, ma andiamo per ordine. La decisione di Mussolini di far entrare l'Italia in guerra a fianco
della Germania segna l'inizio della fine del fascismo. Nel 1940 l'andamento delle operazioni si
dimostra immediatamente sfavorevole per l'Italia, impreparata dal punto di vista militare. Alla
sconfitta sui vari fronti, nel 1943 si aggiunge l'invasione degli alleati che sbarcano in Sicilia e
cominciano a risalire la penisola. L'irreversibilità della situazione che si viene a creare provoca una
crisi all'interno dello stesso fascismo, che sfocia nell'ordine del giorno votato dal Gran Consiglio del
fascismo la notte del 25 luglio 1943 con il quale, sia pure in forma equivoca, viene tolta la fiducia a
Mussolini e vengono restituite alla monarchia le sue prerogative statutarie. Il re Vittorio Emanuele
III dimette Mussolini e lo fa arrestare, affidando il nuovo governo al maresciallo Badoglio. Pur
dichiarando nel suo proclama che "la guerra continua”, Badoglio intavola subito le trattative con gli
alleati per un armistizio reso noto l'8 settembre 1943. Le truppe tedesche presenti in Italia si
trasformano in truppe di occupazione. Il governo e la corte fuggono precipitosamente da Roma per
installarsi nei territori in mano degli alleati. L'esercito si dissolve su tutti i fronti: alcuni vengono
catturati e internati dai tedeschi, altri si collegano ai CLN e iniziano la guerriglia partigiana contro i
tedeschi. L'Italia è divisa in due: il centro-nord occupato dai tedeschi (che, liberato Mussolini, vi
creano lo stato fantoccio della repubblica di Salò), e il sud occupato dagli alleati e sede del governo
badogliano.
La Resistenza
Tra il settembre 1943 e l'aprile 1945 si sviluppa la Resistenza: riforniti dagli alleati e protetti dalla
popolazione, i partigiani lottano contro tedeschi e fascisti per affrettare la liberazione dei paese. Ma
la Resistenza non è solo un fatto militare, è soprattutto un fatto politico e morale: è una presa di
coscienza che investe le masse popolari. Gli uomini dei diversi partiti, o senza partito, che vi
prendono parte non combattono solo contro gli invasori e i resti del regime, ma contro quello che
dietro il fascismo si cela e lo ha reso possibile. Perciò la resistenza pone concretamente le basi per
un rinnovamento profondo delle strutture dello stato e della società.
Ritorno allo stato prefascista o rinnovamento?
Il campo antifascista non è però omogeneo nei propositi per il domani. La monarchia non condivide
un programma che comporti un rinnovamento radicale, perché sarebbe la prima a fame le spese. In
campo alleato essa trova sostegno nelle forze più moderate dello schieramento antifascista e in
particolare nel partito liberale, che fa parte del CLN. I "santoni' dell'Italia prefascista, Croce,
Orlando ... appoggiano con il loro prestigio questo posizioni. I partiti più sostenitori del
16
rinnovamento sono, invece, quello comunista, quello socialista e il partito d'azione. Ad accantonare
la pregiudiziale repubblicana è, però, proprio il segretario del partito comunista, Palmiro Togliatti,
accorso in Italia dopo vent'anni di esilio in Unione Sovietica. Egli sostiene la necessità di unire
intanto tutte le forze antifasciste per concludere la guerra di liberazione, rinviando all'indomani
della fine della guerra la soluzione del problema istituzionale. La soluzione del segretario viene
accolta e al governo Badoglio viene sostituito un governo presieduto da Bonomi, espressione dei
CLN e del quale fanno parte esponenti di tutti i partiti. Mentre la sollevazione popolare porta alla
liberazione di Firenze nell'agosto del 1944, la marcia delle truppe alleate verso il nord si arresta
sull'Appennino emiliano, la cosiddetta "Linea Gotica”, per l'inverno e parte della primavera del
1944- 45. Soltanto nell'aprile del 1945 gli anglo-americani sfondano il fronte difeso dai tedeschi e
raggiungono il nord. Milano ed altre città, tra cui Genova, insorgono il 25 Aprile, data poi scelta per
commemorare la liberazione.
La ricostruzione del Paese
Ricostruire è il titolo che compare a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali italiani
all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale. L'Italia, infatti, dopo la definitiva
liberazione, deve affrontare enormi sacrifici per la ricostruzione morale e materiale del paese. I
primi governi dell'Italia liberata varano programmi atti ad una ricostruzione che riguarda tutti gli
ambiti, e che permetteranno all'Italia di rimettere in moto la macchina produttiva.
Nel giugno dei 1945 nasce il primo governo del dopoguerra, presieduto da Ferruccio
Parri, il prestigioso capo partigiano "Maurizio" che subentra a Bonomi. Ne facevano parte la
Democrazia cristiana, il partito comunista, il partito socialista, il partito liberale, il partito d'azione, i
democratico del lavoro. Il governo Parri cade dopo soli cinque mesi, paralizzato dai contrasti
interni.
Le spinte moderate Nel Paese, intanto, sorge un nuovo movimento politico, che si diffonde
prevalentemente nelle regioni meridionali, che non hanno vissuto i giorni della Resistenza. A
fondarlo è Guglielmo Giannini; "l'Uomo qualunque", così si chiama il movimento, ha buon gioco
nel raccogliere ed amplificare la stanchezza per la politica e per gli intrighi dei partiti ed esprime
perfettamente l'inquietudine dei ceti medi che anelano all'ordine come valore supremo e ad uno
stato che si limiti a custodirlo, garantendo l'iniziativa economica privata. È inevitabile che in questo
atteggiamento vi sia una punta di nostalgia verso il fascismo: " si stava meglio quando si stava
peggio" è la frase tipica di questa mentalità. Ma, più che da questo movimento pittoresco, le spinte
moderate di maggior peso politico vengono dall'interno dello stesso CLN, soprattutto da parte dei
liberali, espressione di quelle forze conservatrici che, se erano state pronte a liquidare il fascismo,
più di quest'ultimo temevano l'ascesa al potere dei partiti di sinistra. Perciò alla fine del 1945
mettono in crisi il governo Parri e chiedono che si ponga fine al regime straordinario dei CLN e si
normalizzino rapidamente gli organi dello stato. La crisi del governo Parri mette in primo piano la
forza-chiave della situazione, la democrazia cristiana, il partito cattolico in cui rivive il vecchio
partito popolare: è a questo che passa la presidenza del consiglio, alla quale viene chiamato Alcide
De Gasperì. Quest'ultimo è l'uomo che dà l'impronta alla democrazia cristiana fra il 1945-48. Grazie
a lui la DC conquista una posizione centrale accreditando come l'unica forza politica capace di
garantire un trapasso pacifico dal fascismo alla democrazia. I comunisti, interessati ad un accordo
con i cattolici, lo appoggiano; ma gli esponenti del partito d'azione escono dal governo: l'equilibrio
interno del governo si era spostato definitivamente a destra, nonostante la permanenza dei due
maggiori partiti di sinistra. A spingere in questa direzione sono tutte le forze variamente interessate
a invertire la tendenza in atto: la monarchia, i ceti imprenditoriali, la Chiesa, gli inglesi e gli
americani.
17
Repubblica e costituzione
De Gasperi avvia la "normalizzazione" richiesta dai liberali, che coincide con l'esautoramento degli
organismi nati dalla lotta partigiana e portatori delle esigenze più profonde di rinnovamento della
società. De Gasperi ha il delicato compito di portare il Paese "dalle armi al voto". Per il 2 giugno
1946 viene fissata una doppia consultazione popolare: il referendum istituzionale e l'elezione
dell'Assemblea costituente. Il primo dà un risultato favorevole alla repubblica: il centro-nord vota in
maggioranza per la repubblica, il sud è monarchico, rivelando in questo modo l'esistenza di due
Italie. Le elezioni per la costituente vedono una chiara affermazione dei tre partiti di massa. Ad
ottenere il successo maggiore è la DC, seguita dai socialisti di Nenni (PSIUP), e dai comunisti. La
vittoria della repubblica sembra, ed è, una vittoria della sinistra; ma le forze della restaurazione non
hanno più bisogno di appoggiarsi ad un trono screditato come quello dei Savoia: agiscono
all'interno degli stessi partiti antifascisti. Comunisti e socialisti sono legati da un patto di unità
d'azione; si parla anche di una fusione tra i due partiti. Il leader sovietico Stalin è preso a modello
ma si infittiscono le notizie sulle gravi degenerazioni della sua dittatura in Unione Sovietica. Mentre
il PCI le fronteggia con notevole compattezza, il PSI subisce una nuova scissione nell'ala
socialdemocratica guidata da Saragat, che esce dal partito al congresso di Roma dei gennaio 1947.
L'assemblea costituente, intanto, prosegue l'elaborazione della Carta Costituzionale. che è il frutto
di un compromesso tra le diverse matrici ideologiche delle forze antifasciste: essa disegna le
strutture di uno stato diverso da quello prefascista, con larghe autonomie regionali e notevoli
contenuti sociali, fermo restando lo schema della libertà di iniziativa privata nell'economia.
L'estromissione della sinistra dal governo e le elezioni del 1948
La situazione, tuttavia, per le forze in gioco non può portare che ad un'estromissione dei partiti di
sinistra dal governo: nel maggio del 1947 alla coalizione subentra un governo monocolore
democristiano, integrato da indipendenti, tra cui Einaudi, che avvia il risanamento monetario. Si
giunge così alle prime elezioni politiche dalla proclamazione della repubblica, che hanno luogo il
18 aprile 1948, in condizioni di rottura frontale tra la DC da un lato, e il blocco socialcomunista,
che presenta liste unitarie (Fronte popolare). Vi sono anche partiti minori (socialdemocratici,
repubblicani, liberali e monarchia), ma lo scontro diretto è tra la DC e il Fronte popolare. Le
elezioni si svolgono in un clima da crociata, sul quale pesa sinistramente la situazione
internazionale; i moderati impostano la consultazione come una scelta per la civiltà occidentale, per
gli aiuti americani, per il cristianesimo, o contro tutto questo. La chiesa interviene nella campagna
elettorale con appelli drammatici. Il risultato è che la DC sfiora la maggioranza in voti ma la supera
in seggi, per il meccanismo della legge elettorale. La destra è quasi scomparsa, assorbita dalla DC.
Pur potendo governare da solo, De Gasperi invita liberali, repubblicani e socialdemocratici ad
entrare nel governo (CENTRISMO: DC-PLI-PRI-PSDI)
18