Clausura e santità femminile in contesto cattolico

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Clausura e santità femminile in contesto cattolico
STORIA
E IDENTITÀ
DI GENERE
ipertesto
Clausura e santità
femminile in
contesto cattolico
La Riforma cattolica dei conventi femminili
Noël Hallé, La Regola della Visitazione, dipinto del XVIII secolo.
In quest’opera un gruppo di monache riceve la Regola
della Visitazione, che permetteva ad alcune di loro di prestare
conforto e aiuto ai poveri anche all’esterno del convento.
Dalla metà del XVI secolo, però, una serie di nuove disposizioni
impedì alle suore di clausura di uscire dal convento.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
IPERTESTO A
➔Legami tra
convento e realtà
esterna
1
➔Religiosità
equilibrata
Riferimento
storiografico
pag. 5
1
Clausura e santità femminile in contesto cattolico
Nei paesi cattolici, un numero elevatissimo di donne viveva in conventi: secondo i dati
forniti all’epoca dalla suora e scrittrice Arcangela tarabotti (1604-1652), solo a Venezia
vivevano 2000 monache, distribuite in ben trenta monasteri. La maggior parte di loro aveva preso i voti senza una precisa vocazione. A condurle in convento non era stata tanto
una religiosità ardente, quanto la volontà del padre, che in tal modo riusciva a risparmiare
una dote e a mantenere integro il patrimonio della famiglia. Fino al Concilio di Trento,
una simile strategia era risultata accettabile da parte di tutti i soggetti coinvolti. infatti,
qualora non fosse stata indotta a diventare suora, con ogni probabilità una giovane di alto
livello sociale non avrebbe condotto una vita felice al fianco della persona di cui era innamorata, ma sarebbe stata obbligata a sposare un estraneo: un uomo scelto dalla famiglia per ragioni di prestigio, di potere o di interesse. talvolta, un individuo molto più vecchio di lei o un vedovo che si risposava perché qualcuno accudisse i figli orfani di madre.
Le suore di famiglia nobile o prestigiosa non abbandonavano completamente il mondo esterno al convento; potevano continuare ad avere con esso relazioni e contatti relativamente assidui. in genere, il monastero concedeva loro di vivere in una stanza a parte,
insieme con una sorella o un’altra parente, che rimaneva con lei in convento per un periodo più o meno lungo di studio o di formazione. La solitudine e il distacco erano ulteriormente alleviati dalle frequenti visite dei familiari, che con la presenza volevano mostrare
la loro capacità di influenza sul convento, contribuendo alle necessità materiali delle monache e a volte indirizzando pure il tipo di spiritualità che l’istituzione adottava.
Questo clima di religiosità moderata, equilibrata e per certi versi addirittura rilassata (sebbene l’assenza di toni esasperati non fosse necessariamente sinonimo di mondanità, ipocrisia e peccato dilagante, come denunciavano gli avversari) fu attaccato frontalmente dalla religiosità post-tridentina. Negli anni 1566-1572, a più riprese, vari pontefici emanarono nuove e sempre più severe disposizioni, che innanzi tutto resero la clausura
impermeabile a qualsiasi contatto con l’esterno. in
passato, ad alcune monache dei conventi più poveri era
stato concesso di uscire a chiedere elemosine; complice
anche la nuova legislazione che vietava l’accattonaggio,
tale prassi fu proibita, mentre la condizione delle suore
assomigliava sempre più a quella di recluse e i conventi si facevano simili a prigioni. in alcuni luoghi, per qualche tempo fu possibile mantenere la prassi che consentiva alle religiose di ricevere regolari lezioni di canto o
di musica da istruttori esterni; in altre situazioni, sappiamo
che la nuova normativa incontrò l’esplicita opposizione
ipertesto
➔Conventi simili
a prigioni
di potenti famiglie, che in essa vedevano un oltraggio al prestigio di una loro familiare
presente in un particolare convento.
La disciplina, tuttavia, non cessò di crescere in durezza e rigidità. Nel 1629, la Congregazione romana dei regolari, l’organismo che da roma dava indicazioni e direttive a tutti gli ordini religiosi, impose a un monastero di Lecce di rendere più strette le inferriate del parlatorio, il luogo in cui le monache potevano dialogare con gli eventuali visitatori, «affinché le monache non possino in alcuna maniera stendere il braccio verso le grati di fuora, e toccar le
mani, dita o altro di persona che stia fuori del monasterio». Quanto alle porte del convento
stesso – ordinò la stessa Congregazione, nel 1617 – «stiano perpetuamente serrate né s’aprano
mai se non ne’ casi di precisa necessità»; anzi, si precisò nel 1639, gli ingressi dovevano essere sprangati «con due catenacci, e due chiavi, l’una di fuora e l’altra di dentro».
Sensi di colpa e trasgressioni
UNITÀ VII
V
➔Paura dell’inferno
IL SEICENTO DEI
L’ETÀ
POVERI
DI CALVINO
E DELLE
E FILIPPO
STREGHE
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A livello spirituale, le monache furono spesso vittime di una formidabile pastorale della
paura, per molti versi analoga a quella che, negli stessi decenni, fu rovesciata addosso agli
abitanti delle zone rurali o isolate. Nelle campagne, la paura dell’inferno e l’insistenza sulla potenza del diavolo dovevano indurre i contadini ad abbandonare le numerose usanze semipagane che ancora praticavano o inconsciamente associavano a riti cristiani. Nei
conventi, il terrorismo spirituale fu usato come deterrente per spegnere il disagio delle
suore, obbligate di fatto a percepirsi come indegne peccatrici, se non accettavano con zelo
ed entusiasmo la disciplina conventuale.
per molte monache, il convento si trasformò in un incubo, in un «teatro in cui si recitan
funestissime tragedie», per riprendere una forte espressione coniata dalla già menzionata suor Arcangela tarabotti, che non a caso diede al suo libro di denuncia della condizione femminile nei conventi veneziani un titolo durissimo: L’Inferno monacale.
su questo sfondo si colloca anche la tragica vicenda di Marianna de Leyva (1575-1650), che
sta alla base della figura manzoniana della monaca di Monza. i de Leyva, in effetti, erano i
signori di Monza, e nel 1591 (quando Marianna aveva sedici anni) la obbligarono a farsi suora, al fine di tramandare l’intera eredità della famiglia al figlio primogenito, seguendo una con-
Gaetano Dura,
La presentazione della
monaca di Monza,
litografia del 1830
per un’edizione de
I Promessi sposi
di Alessandro Manzoni
(Milano, Civica Raccolta
Bertarelli).
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ipertesto
suetudine nobiliare nota come maggiorasco. Una volta professati i voti (nel convento monzese di santa Margherita, oggi non più esistente), Marianna assunse il nome di suor Virginia, ma non riuscì ad adeguarsi alla rigida disciplina monastica. pertanto, dopo alcuni anni
intrecciò una relazione con il nobile monzese Gian paolo osio, la cui abitazione confinava
con il monastero. Dalla relazione nacque una figlia, ma i due riuscirono a tenerla nascosta;
la situazione si aggravò bruscamente nel 1606, quando una giovane conversa, Caterina Cassini da Meda, minacciò di rendere pubblica l’intera vicenda. osio uccise la serva e la seppellì
presso il convento; poi, tentò di eliminare altre due suore, ottavia e Benedetta, che erano al
corrente della tresca. Benedetta, però, sopravvisse e denunciò tutto alle autorità.
Suor Virginia fu arrestata il 15 novembre 1607 a Monza, fu trasferita a Milano e condannata alla reclusione a vita in una cella di «tre braccia per cinque» (un metro e ottanta
per tre). Gian paolo osio, invece, fu condannato a morte; ricercato dalle autorità, si rifugiò
a Milano presso i nobili taverna suoi amici, che però lo tradirono e lo uccisero a bastonate
nei sotterranei del loro palazzo, per ottenere i favori del governatore spagnolo. Nel 1622, dopo
tredici anni di durissima prigionia, suor Virginia fu graziata dal cardinale Federigo Borromeo.
Al momento della morte (17 gennaio 1650), secondo ripamonti – il cronista cui Manzoni
attinse numerose notizie sul seicento milanese – era «una vecchia ricurva, magra, veneranda: a vederla si crederebbe a malapena che un tempo avesse potuto essere bella e spudorata».
➔I delitti della
monaca di Monza
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Riferimento
storiografico
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3
➔Un grande
spettacolo pubblico
Clausura
Il miro dell’età
e santitàdell’oro
femminile
e delinPaese
contesto
di Cuccagna
cattolico
Nel xVii secolo, lo storico incontra nel mondo monastico femminile numerosi casi di fughe, di suicidi e, soprattutto, di nevrosi, classificate all’epoca come vere possessioni diaboliche. Gli episodi più importanti si verificarono in Francia, all’interno dell’ordine delle orsoline, che registrarono casi di possessione: ad Aix-en-provence, a pontoise
e a parigi (nel 1621-1622) e infine a Loudun, nel 1632
Ad Aix-en-provence, nell’estate 1609 una giovane monaca iniziò a soffrire di malesseri notturni, mescolati ad allucinazioni. i primi esorcismi iniziarono in dicembre, da parte di numerosi sacerdoti e religiosi provenzali. Nella primavera 1610, un prete che svolgeva il ruolo di direttore spirituale all’interno del convento fu accusato dalla monaca di averla stregata con il suo fiato. Messo sotto tortura, il sacerdote confessò il delitto, fu condannato
e infine giustiziato il 30 aprile 1611. i fatti di Loudun si svolsero secondo un copione per
molti versi analogo, ma ricevettero particolare notorietà in virtù del fatto che a essere colpita fu la badessa in persona, che poi si trascinò dietro quasi tutto il convento. sia la priora (Jeanne des Anges) sia le monache diventate improvvisamente ossesse, cioè possedute
dal demonio, appartenevano alla piccola nobiltà locale; Loudun, tuttavia, era una città
abitata da una popolazione mista, per metà cattolica e per metà ugonotta: anzi, era
una delle piazzeforti d’asilo concesse ai protestanti francesi dall’editto di Nantes, del 1598.
Fin dall’inizio, la vicenda assunse valore politico-propagandistico, in quanto le autorità cattoliche si sforzarono di apparire come capaci di distruggere le forze diaboliche scatenate. Gli esorcismi furono un grandioso spettacolo pubblico, con le donne collocate sopra appositi palchi, all’interno delle chiese della città, per mostrare il trionfo della Chiesa sulle potenze demoniache, e quindi la superiorità della verità cattolica sull’errore dei riformati. intanto,
come già era accaduto ad Aix-en-provence, anche in questa circostanza fu accusato un prete,
Urbain Grandier, che venne incarcerato nel dicembre 1633 e giustiziato il 18 agosto 1634.
infine, possiamo ricordare un ulteriore caso di possessione, verificatosi a Louviers, in Normandia, nel 1643. La vicenda è interessante perché il presunto prete stregone era morto
dieci anni prima; dopo l’esplicita accusa di alcune monache possedute, la sua tomba fu aperta e il cadavere condannato al rogo. tuttavia, l’intera faccenda destò un profondo e generale disagio quando la principale accusatrice – Madeleine Bavent – accusò anche una
celebre religiosa, che in passato era stata priora a Louviers, ma al momento guidava un
prestigioso convento nella capitale. poiché la badessa parigina era universalmente stimata per la sua pietà, Madeleine Bavent perse gran parte della propria credibilità e fu rinchiusa in una segreta del tribunale vescovile di Èvreux. per mettere a tacere lo scandalo,
si decise infine di sciogliere l’intero convento.
IPERTESTO A
Possessioni diaboliche
Antonio Bezzi,
Svenimento di santa
Caterina, 1526 (Siena,
Basilica di San
Domenico). La santa
morì, provata da una
vita di digiuni
e di astinenze forzate,
a soli 33 anni.
UNITÀ VII
ipertesto
Sante, mistiche e anoressiche
IL SEICENTO DEI POVERI E DELLE STREGHE
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3
Riferimento
storiografico
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Le vicende di Loudun e di Louviers sollevarono in Francia un grande dibattito. Da più
parti, infatti, cominciarono a levarsi voci di intellettuali decisamente critici; bollati all’epoca con epiteti infamanti come atei o libertini, essi accusavano le monache di essere delle simulatrici, delle imbroglione, oppure delle semplici pazze furiose: comunque, questi
polemisti si rifiutavano di tirare in causa il demonio.
Di tutt’altro genere e tenore le critiche che colpirono un altro gruppo di suore, il cui atteggiamento tormentato e provocatorio aveva attirato l’attenzione e il biasimo delle autorità ecclesiastiche. Dall’atteggiamento di queste monache, gli uomini di Chiesa (nel senso di maschi che si rapportano con delle donne) si sentivano contestati in modo radicale: ma la sfida non si svolgeva su un piano dottrinale (al punto che molte di quelle religiose furono infine canonizzate), bensì a livello di comportamento, ritenuto “eccessivo” dagli uomini. tali monache singolari ed eccezionali vivevano in modo illimitato il senso del proprio peccato, della propria impurità e della propria
inadeguatezza a seguire le regole del monastero e i precetti cristiani.
Ciò le spinse a ripetere di essere indegne di ricevere il corpo di Cristo, cioè l’eucaristia, e a sottoporsi a penitenze lunghe e umilianti. il risultato era spesso devastante per il fisico di queste donne, che passavano diverse ore a flagellarsi e a punirsi. Così facendo, però, le monache non delegavano la direzione della propria vita spirituale al loro confessore: si sforzavano di essere protagoniste della propria esperienza religiosa, ed era tale risvolto che rendeva il loro comportamento provocatorio e sospetto, agli occhi della gerarchia.
il rifiuto di fatto della mediazione ecclesiastica (e maschile)
del direttore spirituale – e più in generale della Chiesa stessa – poteva esprimersi nell’esperienza mistica. infatti,
quando – dopo mesi o anni di penitenze atroci – Gesù
si rivelava a queste monache lo faceva in forma diretta e
sensibile, concedendo loro estasi pienamente appaganti.
infine, almeno ai nostri occhi di studiosi moderni, il meccanismo psicologico in cui erano entrate spingeva spesso
queste giovani donne a trasformarsi in soggetti devastati dall’anoressia, disturbo del comportamento che – tramite il rifiuto del cibo – in realtà esprime un disperato sforzo di affermazione dell’io. il soggetto anoressico esercita un formidabile
potere ricattatorio su tutti coloro che lo circondano: anzi, malgrado il risultato drammatico e autodistruttivo, l’anoressica in realtà
controlla tutti quelli che hanno a che fare con lei. A maggior ragione, questo era vero in un contesto come quello del tardo Medioevo
e del Cinquecento e seicento, secoli nei quali il rifiuto del cibo era considerato una penitenza di straordinario valore, una prova purificatrice efficacissima, una sofferenza capace di espiare i peccati di sé e degli altri. Nel trecento, Caterina da siena portò fino all’estremo questa esperienza di digiuno radicale e morì
di inedia nel 1380; nel seicento, il suo esempio fu imitato soprattutto da Veronica Giuliani, che uscì dall’anoressia solo dopo aver ricevuto le stimmate (cioè le piaghe di Cristo, come
san Francesco). A quel punto riuscì anche a mettere da parte le catene con cui si era atrocemente flagellata per anni e il grosso macigno sotto cui aveva pressato la propria lingua.
A suo tempo, Veronica Giuliani (1660-1727) e altre figure affini furono spesso sospettate di eresia o di possessione diabolica. si trattava, in realtà, di gesti estremi, comprensibili solo in un contesto di una religione che rifiutava la realtà mondana, disprezzava la donna e la voleva sottomessa al maschio. in un tragico e disumano universo religioso di questo tipo, per imporsi, ad una femmina non restava che segnalarsi per eccesso di autonegazione: un comportamento paradossale, perché da un lato otteneva lo scopo che si prefiggeva (l’autonomia del soggetto femminile), ma dall’altro otteneva il suo successo ad un prezzo altissimo, che al limite poteva coincidere con l’autodistruzione del soggetto stesso.
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Riferimenti storiografici
Spazi e tempi della clausura
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Lazzaro Baldi,
La Madonna dona
il velo della purezza
a Santa Maria
Maddalena de’ Pazzi,
1669 ca.
Clausura e santità femminile
Clausuraine contesto
santità femminile
cattolico
Imposta o accolta la clausura nei monasteri, l’ordine al suo interno era il risultato quotidiano di una lotta ininterrotta da parte delle singole religiose e della intera comunità, nel rispetto anch’esso ossessivo dei tempi di preghiera e di lavoro. Molto tempo ovviamente era
dedicato alla preghiera individuale e comunitaria, alle letture personali ascetiche ed edificanti,
personali e collettive, al culto divino e alla pratica sacramentale, in specie quella eucaristica, alla meditazione e agli esercizi spirituali sotto la guida di direttori
e confessori, per lo più chierici regolari [inquadrati all’interno di un ordine religioso, dotato di una regola; i
preti incaricati della normale cura d’anime, ad esempio in una parrocchia, erano invece detti secolari,
perché a diretto contatto con il secolo, cioè con il
mondo, n.d.r.] e cappuccini, dei quali vanno sottolineate qui una volta per tutte l’importanza e l’influenza
nella vita religiosa dei monasteri femminili. La preghiera, che nelle sue varie espressioni occupava circa
un terzo della giornata, era interrotta dalle ore di lavoro
manuale e domestico, dai pasti e dai momenti di ricreazione, che potevano assumere aspetti severi e
semplici nei monasteri riformati [che avevano introdotto le innovazioni prescritte dalle autorità dopo il
Concilio di Trento, in un’ottica di Riforma cattolica,
n.d.r.], e forme più aperte ai richiami mondani, come
la pratica della musica e della pittura, negli altri. Soprattutto il lavoro era elemento fondamentale nella vita
dei monasteri femminili. Strumento per fuggire ogni rischiosa occasione d’ozio, era anche di norma, e a
maggior ragione in caso di necessità, fonte di integrazione, col ricavato, delle rendite non di rado modeste dei monasteri stessi: fossero i lavori di ricamo
o la fabbricazione di piccoli oggetti devoti o la preparazione di dolci e confetture e soprattutto di sciroppi,
medicamenti e pomate, largamente richiesti fuori della
cerchia claustrale, come il famoso unguento di Mère
Agnès de Sainte-Thècle, zia di Racine, che veniva
venduto a Port-Royal.
Il silenzio e le parole sommesse, i gesti misurati e discreti, se non l’assoluta immobilità
nei momenti di meditazione, il controllo dei movimenti del corpo, secondo un preciso codice di comportamento, e possibilmente delle intenzioni dell’anima, dovevano dominare sovrani. Ma tutto questo era anch’esso un dover essere, un ideale da raggiungere, sconvolto
talora da fiumi di parole e da gesti scomposti, come nei ratti mistici e nelle fughe di santa
Maria Maddalena de’ Pazzi, inseguita all’interno del suo monastero carmelitano di Firenze
dalle solerti consorelle, che in una sorta di sacra staffetta ne trascrissero le fluenti visioni; e,
più spesso, un ideale spezzato dalle piccole, frequenti infrazioni quotidiane, che le religiose
stesse una o due volte la settimana, insieme con le loro inosservanze della regola e delle obbedienze, erano tenute a denunziare pubblicamente durante il capitolo delle colpe, secondo
un’attenta casistica, per ricevere le relative punizioni, in forma pubblica, in refettorio. Al fondo
di tutta questa larga opera di controllo, che traduceva introiettata in un continuo sforzo di
autodisciplinamento, v’era l’idea dominante maschile e clericale, rafforzata dalla Controriforma, della debolezza e della fragilità della donna, bisognosa di tutela, insieme con una
vera e propria ossessione della castità femminile, tant’è che nelle riforme [nei nuovi regola-
IPERTESTO A
Una clausura sempre più rigorosa fu il nuovo tratto che caratterizzò la maggior parte degli ordini
monastici femminili nel Seicento. Le autorità ecclesiastiche erano profondamente convinte che la donna fosse una creatura debole ed esposta alle tentazioni. L’unico modo per salvare le donne dall’inferno era la loro totale separazione dal mondo, a costo di una vera reclusione in convento.
ipertesto
UNITÀ VII
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IL SEICENTO DEI
L’ETÀ
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E FILIPPO
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Quale ruolo giocava
il lavoro nella vita
delle monache?
Quali funzioni
svolgeva?
Che ruolo aveva
e che importanza
assumeva la figura
del diavolo, nella
esperienza umana
e spirituale delle
monache?
menti relativi ai conventi e agli ordini religiosi, n.d.r.] del Seicento si sarà indotti ad insistere
più sul voto di castità che su quelli di povertà e obbedienza, e più in generale a ritenere i monasteri femminili prima che luoghi di santificazione conservatori di virtù.
Divenuta dunque la clausura, con tutte le sue valenze pratiche e simboliche, la condizione stessa della vita monastica femminile, l’isolamento familiare e intellettuale da un lato
e la mortificazione e la condanna della carne dall’altro finivano con l’acuire nelle religiose i
sentimenti e le impressioni; e in molte né l’impegno incessante nella preghiera e nel lavoro,
né la repressione continua delle pulsioni interiori – ciò che la letteratura ascetica dell’epoca
definiva la lotta dello spirito contro la natura perversa – potevano annullare o sublimare del
tutto i ricordi, i desideri, i rimpianti derivanti dal confronto tra l’esperienza della esistenza passata e la condizione presente. Tali sentimenti venivano anzi esaltati dalla stessa solitudine,
traducendosi nella mentalità corrente delle religiose e dei loro confessori e direttori spirituali
nella illusione, nella ossessione o addirittura nella possessione diabolica, cui la coeva trattatistica devota ed esorcistica attribuiva le modalità inquietanti di belve molteplici e mostri
accovacciati nel fondo del cuore umano e pronti ad assalirlo. […] Per liberarsi dal Nemico
incombente e talora vicino a ghermire, non bastava il quotidiano, insistito autodisciplinamento. Non restava che domare più duramente il corpo, fonte di ogni tentazione, imponendogli lunghe veglie durante la notte, nel tempo cioè degli inganni e delle insidie più sottili, che la sensibilità della Controriforma popolava di immagini di terrore e di raffinati
strumenti salvifici; oppure sottoponendolo a prolungati periodi di astinenze e di digiuni, sino
all’anoressia, a penitenze iterate [ripetute, n.d.r.] e a impietose flagellazioni praticate individualmente o in comune, o a quelle segrete torture che comportavano l’uso del cilicio o delle
camicie di crine o dell’abito «tutto pieno di spini, che lo chiamavo la veste ricamata», indossato da santa Veronica Giuliani, o a quel che la beata cappuccina Maria Maddalena Martinengo indicava tra le sue «solite picciole ricreazioni», consistenti nel ricamare gli strumenti
della Passione «con l’ago infilzato di seta… nella propria carne, ben grandi, al modo che si
ricama un velo di calici, non senza uscita di sangue».
M. rosA, La religiosa, in r. ViLLANi (a cura di), L’uomo barocco, Laterza, roma-Bari 1991, pp. 225-227
2
Gli scandali delle monache francesi possedute
dal demonio
Nel Seicento francese, in numerosi conventi si registrarono casi di possessione diabolica che assunsero notorietà nazionale. All’epoca, gli episodi erano letti come prove che le suore erano chiamate
a superare, in vista della salvezza eterna. Ai nostri occhi moderni, invece, essi appaiono come dei casi
di nevrosi, individuale o collettiva, cioè dei tentativi di rimuovere il disagio e il senso di colpa, provati
da numerose monache, di fronte un tipo di esistenza che a volte risultava disumano.
[A Loudun], nelle diverse chiese della città, i cappuccini procedono ai quotidiani esorcismi della comunità conventuale posseduta (i demoni, costretti qualche mese prima al silenzio, si sono fatti chiacchieroni ed esibizionisti). Le orsoline producono ripetutamente davanti
alla folla dichiarazioni e patti, e i loro demoni arrivano a preannunciare il programma dell’indomani, come fa ad esempio un tale Asmodeo il 19 maggio 1634: «Io prometto che uscendo
dal corpo di questa creatura gli aprirò una fessura sopra il cuore… la quale sanguinerà domani ventesimo giorno di maggio, sabato, alla sesta ora dopo il mezzogiorno». Collocate nelle
chiese, su dei palchi, le monache – priora in testa – offrono le loro rivelazioni sui misfatti dei
demoni e su Urbani Grandier ad un pubblico enorme. L’accennata uscita di Asmodeo ha
luogo il 20 maggio 1634 «alla presenza di duemila persone, tra le quali figuravano molti distinti signori, in numero superiore a centocinquanta (tanto vescovi e abati che magistrati) e
altrettanti preti, più cinque medici». Questi esorcismi interminabili, da cui la priora confessa
di ricavare qualche soddisfazione, comportano convulsioni e scene di prostrazione alternate
a momenti di frenesia, con grande sbalordimento e compassione degli spettatori. Il 30 giugno il vescovo di Poitiers (che si mostra tanto favorevole alla possessione quanto l’arcivescovo
di Bordeaux è cauto) fa bruciare quattro patti diabolici ritrovati nel convento: ebbene, Jeanne
des Anges e suor Agnès «sono state travagliate per più di tre quarti d’ora dalle più violente
convulsioni che si siano mai viste». A furia di dimostrazioni violente, le possedute giungono
a suscitare vere e proprie emozioni collettive. Gli astanti [gli spettaori, n.d.r.] rimangono a
bocca aperta, ma fremono anche di terrore o di pietà per queste infelici scatenate. […]
Ad Aix come a Loudun, l’atmosfera di questi conventi senza vera clausura, votati all’educazione delle fanciulle della buona società – nobili e borghesi – è tutt’altro che sfaF.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
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vorevole a questo tipo di ossessione. Intanto la vita conventuale femminile, che in quell’epoca ha preso tanto slancio, sta ancora ricercando le sue norme. La disciplina di vita
e di lavoro che le fondatrici e le superiori si sforzano d’imporre alle loro monache non è
sempre equilibrata, né sempre accettabile da parte di novizie che spesso cercano nel convento, più che la realizzazione di una vocazione ben precisa, un rifugio lontano dal mondo
(è questo senza dubbio il caso di Madeleine Demandols a Aix e Marsiglia, e anche di parecchie orsoline intorno a Jeanne des Anges, come le Mesdames de Dampierre). Ma soprattutto queste comunità non possono considerare le crisi di possessione che si abbattono su di loro come una maledizione. È piuttosto una pesante croce, loro inflitta perché
serva alla santificazione delle anime. E il complotto satanico, che travia qualche membro
della comunità, costituisce il segno stesso dell’importanza riconosciuta all’ordine insieme
dal diavolo e da Dio: dal diavolo perché attacca le devote di S. Orsola anziché le altre, evidentemente meno attive e ai suoi occhi meno temibili; da Dio perché ha autorizzato il demonio a imporre loro questa prova. Nonostante le perturbazioni provocate dagli esorcismi, dalle ispezioni, dall’afflusso dei curiosi e dalla macchina giudiziaria, i progetti diabolici
rimangono una prova della sollecitudine divina. È sufficiente, per rendersi conto chiaramente di tale interpretazione, leggere la quasi contemporanea cronaca dell’ordine delle
orsoline, pubblicata nel 1673. La madre de Pomereu così presenta il convento di Loudun:
«Casa ove Dio s’è fatto ammirare per i modi che ha tenuto nel santificare un grande numero di anime, consentendo la possessione e l’ossessione di parecchie giovani donne,
sia secolari che religiose». Dato questo quadro mentale, in cui l’intervento divino è cosa Maestro di San
di ordinaria amministrazione (madre de Pomereu riferisce spesso il miracolo dei sacchi di Severino, Esorcizzazione
frumento che si moltiplicano nel granaio), la lotta con il demonio finisce per costituire un di una indemoniata
IPERTESTO A
(Firenze, Museo Horne).
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Il miro dell’età
e santitàdell’oro
femminile
e delinPaese
contesto
di Cuccagna
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indizio di elezione divina […]. In questo senso, quando vediamo i nostri contemporanei,
educati nella mentalità del XX secolo, interrogarsi spesso e volentieri sulla propagazione
di queste crisi conventuali di comunità in comunità, ci vien fatto di osservare che occorrerebbe piuttosto chiedersi come mai i fenomeni di ossessione e possessione di religiose
non siano stati più frequenti: la sola prosperità temporale goduta da Loudun dopo la morte
di Grandier avrebbe potuto suggerire l’emulazione. Non v’è dubbio che le discussioni accanite sollevate dalle due ultime possessioni dovettero porre un freno all’ardore delle eventuali accusatrici. Inoltre occorreva avere sottomano un prete suscettibile di essere accusato del «più grande dei delitti» [la stipulazione di un patto col diavolo, al fine di mandare
in perdizione le anime delle monache, n.d.r.] e un gruppo di monache capaci di prender
parte al gran giuoco sinistro della possessione collettiva.
Va infatti osservato che la febbre demoniaca investe invariabilmente un gruppo di giovani religiose provenienti da buone famiglie. A Loudun come ad Aix, il reclutamento è aristocratico e borghese; e […] il buon livello educativo generale di questi gruppi di monache
appartenenti alle classi superiori della società impressionò i contemporanei. Le streghe di
villaggio bruciate a dozzine in Lorena qualche anno prima hanno attirato un’attenzione minore di quella sollecitata da quelle monache che portano nomi conosciuti nelle loro province
e sono talvolta imparentate con grandi famiglie del regno.
UNITÀ VII
r. MANDroU, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza, roma-Bari 1979,
pp. 241-242, 269, trad. it. G. serrAVA
IL SEICENTO DEI POVERI E DELLE STREGHE
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Per quali ragioni le crisi di possessione erano considerate una specie di privilegio di cui andare fieri?
Spiega l’espressione secondo cui i progetti diabolici rimangono una «prova della sollecitudine
divina».
Che cosa distingue, da un punto di vista sociale, le streghe ordinarie, dalle monache possedute
dei monasteri francesi?
3
Le sante anoressiche tra psicologia e storia
Nel suo studio sulla religiosità monastica femminile tra Medioevo ed Età moderna, lo storico inglese R.M. Bell segnala che tra il Duecento e i giorni nostri in Italia la Chiesa ha riconosciuto come
sante 261 donne. Di circa un terzo di loro, secondo l’autore, i documenti storici sono così scarsi da
non permettere alcuna valutazione del rapporto che ebbero con il cibo. Delle rimanenti 170, invece, più di metà mostrarono chiari sintomi di anoressia. Secondo Bell, questo elevato numero di soggetti giustifica il nuovo metodo interdisciplinare da lui adottato, per avvicinarsi al tema della santità femminile: un approccio in cui medicina, psicologia e psicoanalisi offrono un importante contributo all’indagine storiografica.
Il modello di comportamento anoressico coinvolge non solo un rifiuto o l’impossibilità
di mangiare, ma anche una dimensione psicologica più vasta in cui una ragazza apparentemente ubbidiente e sottomessa (ma che si sente ribelle) si rivolta contro il mondo circostante nello sforzo disperato di far riconoscere la sua personalità. Generalmente questo mondo è la sua stessa famiglia; i genitori simboleggiano e sono i principali ostacoli alla
sua autoaffermazione, anche se le loro intenzioni sono apparentemente opposte. Per un
giovane, al contrario, vi sono molte possibilità di raggiungere l’autonomia, seguire il modello paterno, all’università o negli affari, come soldato o prete, e la cultura europea occidentale è ricca di celebrazioni approvanti la sua autoaffermazione. Un maschio può essere sconfitto nella sua battaglia per un primato, ma quando ciò avviene la sconfitta è
pubblica, esterna, visibile. Vi possono essere conseguenze negative, anche un grave
trauma emotivo, ma generalmente non si riscontra il modello di comportamento tipicamente anoressico. Una ragazza aveva aperte davanti a sé meno strade; fino a un’epoca
piuttosto recente, e con le possibili eccezioni di alcune nobildonne, l’unica via era il passaggio dalla dominazione paterna alla sottomissione maritale. La cultura occidentale
condanna ogni tipo di deviazione da questo modello; le donne si trovano in condizioni sfavorevoli, psicologicamente dominate dal senso di colpa. […] La giovane donna italiana del
Medioevo in lotta per l’autonomia, non diversamente dalle moderne ragazze americane,
inglesi o giapponesi di fronte al medesimo dilemma, a volte spostava la lotta dal mondo
esterno, in cui subiva una sconfitta sicura, a una battaglia interiore per ottenere la padronanza su se stessa e sui propri impulsi fisici. In questo senso la risposta anoressica è
senza tempo. E almeno temporaneamente, è una vittoria potente e reale sull’unica cosa
che la civiltà occidentale (o occidentalizzata) permette a una ragazza di conquistare – se
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
ipertesto
IPERTESTO A
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Clausura e santità femminile in contesto cattolico
stessa. Ma la vittoria porta all’autodistruzione, e questo viola la convinzione propria
della cultura che tutti i suoi membri sani
debbano dimostrare voglia di vivere. Nel
secolo XX questi casi devianti sono rimessi
alle cure dei medici, dèi della razionalità
scientifica, con risultati molto vari. Nei
tempi antichi comportamenti simili richiedevano l’intervento dei preti o guardiani
maschi, praticanti una teologia patriarcale
che vedeva nella donna Eva in tutta la sua
malvagità, anche qui con risultati molto
vari. Molte erano le streghe, poche le
sante, un numero indefinito le curate che rinunciavano alla loro autonomia distruttiva e
si sottomettevano a un marito, oppure languivano vivendo una vita squallida; in quantità sconosciuta erano quelle che, anonime, si affamarono fino a morire.
Nelle vitae dei santi accade spesso di incontrare la giovane che si accorge presto
che il convento è il miglior posto dove realizzare il suo bisogno di autosufficienza. Un
modello di santa anoressia guarita si può
riassumere in breve: una bambina dall’apparenza ubbidiente, ma di carattere fortemente volitivo, viene educata nella religione,
generalmente dalla madre. Compiuti i dieci
anni, il padre prende il sopravvento e la costringe a sposarsi; lei resiste e giunge a mostrare i sintomi classici dell’anoressia; alla
fine si rifugia in un convento, o il padre
muore, o in qualche modo la sua volontà [il
volere del genitore, contrario alla monacazione, n.d.r.] viene drammaticamente spezzata; durante il noviziato, e per molti anni
seguenti, è profondamente depressa, tormentata da visioni demoniache, e sempre incapace di mangiare; gradualmente, in genere Michele Fanolli,
verso la trentina, guarisce, e i diavoli scompaiono per dar luogo a sentimenti più rassicuranti; Veronica Giuliani
nel frattempo i suoi rapporti con i confessori sono ambigui e talvolta persino ostili, perché circondata da angeli
questi uomini interferiscono con il suo desiderio di sperimentare Dio direttamente e perso- (particolare), 1832
nalmente come individuo del tutto autonomo; col tempo le altre suore, che all’inizio erano (Cittadella, Duomo).
antagoniste, diventano la sua principale fonte di consolazione terrena. […]
[Il confessore di Veronica Giuliani] più e più volte le impedì di ricevere la comunione,
non perché avesse commesso qualche peccato, ma soltanto per farle ben intendere chi
aveva il potere di dispensare le grazie salvifiche di Dio, chi poteva negarle a proprio piacimento il corpo del suo sposo. Verso i trentacinque anni Veronica ricevette sulle mani, sui
piedi e sul petto le stimmate di Cristo. Questo squisito segno del favore di Dio, che per
Veronica significò il coronamento della sua vita, fu trattato dalla Chiesa, durante i successivi Spiega l’espressione
«La risposta
ventinove anni e fino alla sua autopsia, come una difficoltà e un possibile e persino proanoressica è senza
babile falso. Da Roma giunsero ordini che non scrivesse o parlasse delle piaghe a nestempo».
suno, ad eccezione del suo confessore, del vescovo e, per lettera, delle sorelle carnali al
convento di Mercatello. In breve, non le fu concesso di confidarsi con nessuna delle donne Perché i rapporti
delle sante
con le quali doveva vivere giornalmente per altri tre decenni. I confessori, sospettando che
anoressiche con
le ferite fossero autoprovocate, le ordinarono di indossare grosse manopole strettamente
i propri confessori
legate e sigillate ai polsi. E questo seguitò per anni, con continue applicazioni di unguenti
sono stati, in genere,
che le davano dolori e bruciature strazianti, finché fu chiaro che niente poteva cicatrizzare
tesi, e talvolta
le ferite e fermare le emorragie. In vita sua Veronica non ebbe mai la soddisfazione di espersino ostili?
sere riconosciuta dai suoi fratelli e sorelle terrene come una creatura in grazia di Dio e non
Il caso di Veronica
come un agente di Satana.
Giuliani conferma
r.M. BeLL, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi,
o smentisce la
Laterza, roma-Bari 2002, pp. 66-68, 92-93, trad. it. A. CAsiNi pAszkowski
tendenza generale?