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I RACCONTI
DELL’AGENZIA DEL PERDONO
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Progetto grafico Giorgio Cappozzo e Haus Media Design
I edizione Livello 4 - ottobre 2011
MONIA MINNUCCI, ESTER MUTI, LUIGI SEGANTIN
Racconti
vincitori del concorso letterario
I racconti dell’Agenzia del Perdono
LIVELLO QUATTRO
prefazione
Suggestioni
dal romanzo dei Globalgroove
L4
Quando, nel 2007, fondammo la casa editrice Livello 4, un amico mi fece avere il manoscritto di due
artisti. Erano giorni piuttosto concitati. C’era ancora
molto da fare - soprattutto questioni burocratiche legate
alla fondazione della società - così promisi di leggerlo
non prima di un mese. Pochi giorni dopo li chiamai per
dire loro che quel romanzo mi era piaciuto. Ed è stato
così che Livello 4 ha incontrato i Globalgroove.
Una scommessa reciproca.
Ricordo i pomeriggi e le serate di quell’estate trascorsi a discutere con gli autori e Ninì Candalino,
che scrisse la postfazione al romanzo. Catherine era
per tutti noi il simbolo di una condizione esistenziale,
ma soprattutto era un’ipotesi di sottrazione da quella
condizione. Che ci piacesse o no, la protagonista rappresentava una possibile via di fuga dal suo mondo,
così simile al nostro mondo e così poco distante dal
nostro tempo. L’Agenzia del Perdono, per la quale
Catherine lavorava, era addirittura il superamento di
quelle forme di controllo sociale che certa fantascienza
sa ben descrivere. Un’idea semplice, futuribile eppure
antica: la vendita del perdono.
Catherine riusciva a sopravvivere, direi addirittura
a resistere, riusciva infine ad andarsene scivolando
via da quel suo/nostro mondo. La leggerezza era la
sua cifra.
Abbiamo chiesto ai nostri lettori di scrivere una
confessione per l’Agenzia del Perdono. I tre che seguono sono i racconti vincitori del concorso.
Monica Micheli
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Il bastardo
di Monia Minnucci
A questo punto avevo due possibilità: infilarmi
quella Revolver Colt su per il culo, oppure redimermi.
Ero sempre stato una testa calda, un testa di
cazzo che mentre ti accoltella sorride.
La mia filosofia di vita non contemplava debolezza e, se in un affare avevo solo il sentore
dell’altrui malafede, bene... l’altro era bello che
morto.
Il mio nome è No one, che tradotto significa
Nessuno.
Quando entrai nel giro scelsi subito questo
nomignolo, forse perché nessuno m’aveva mai
calcolato davvero o, più semplicemente, mi piaceva l’idea che anche un Signor Nessuno potesse
diventare qualcuno.
La mia strada era già tutta spianata, nessuna
esitazione, nessun rimorso, un DNA da criminale, sin da quando pisciavo contro i muri o mi
divertivo a minacciare gli intrusi che, inavvertitamente, mettevano i loro lordi piedi nel mio
quartiere.
Mia madre era una puttana grassa e acida e
mio padre un alcolizzato puzzolente che di certo
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non andava a domandarsi da dove venissero i
soldi che gli rifilavo per la bottiglia; no... non mi
picchiava, glieli davo io, solo per vederlo battere
la grossa Mamma-vacca.
Non avevo pietà, non avevo mai provato un
sentimento degno del suo nome.
Gironzolavo per il quartiere con i miei compari a spacciare droga: anfetamina, metanfetamina,
eroina, ketamina e chi più ne ha più ne metta.
Ritiravamo le consegne agli aeroporti, minacciavamo i commercianti e ci divertivamo a sfottere le puttane del quartiere, dopo averle rapinate.
Per i miei amici ero un dio, per tutti gli altri...
una minaccia.
Del resto ero solo, nessuno mi aveva mai degnato di una carezza o di uno sguardo amorevole, tranne Patty.
Patty era stata la mia ragazza.
L’avevo conosciuta al secondo anno di liceo,
prima di lasciar sia lei che gli studi ed entrare nel
giro; c’eravamo amati.
Mi piaceva stare con lei, non aveva quell’odore
stantio delle altre ragazze, era intelligente e simpatica.
Quando seppe dei miei esordi bastardi, provò
a tirarmi fuori, ma non ci riuscì; il suo amore
pressante mi infastidiva, cominciai a scacciarla
ma... come biasimarmi?
Nessuno m’aveva mai amato; la gradevolezza
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dell’inizio si risolse in oppressione e Patty, come
avevo voluto, andò via.
Sono passati tanti anni, sono molto diverso da
allora, ma il suo nome lo ricordo bene; si trasferì
lontano... lontano da me.
La carriera d’un angelo caduto è roba di lusso,
tutti si incuriosiscono davanti al “Signore del reato”, i media praticamente ci devono il lavoro e le
casalinghe frustrate i pettegolezzi, mentre il
resto del mondo ci deve un prezzo per vivere in
pace.
Cos’era quel prezzo da pagare lo capii puntando la mia Desert Eagle, semiautomatica, modello ultimo, giù per la gola di uno sbirro che s’era
montato la testa; prima che gli facessi schizzare
le cervella, lo vidi sbiancare come un fantasma, il
suo volto si liquefece in lacrime e sudore... si cagò
pure addosso.
Non provai alcun moto, riposi l’arma nel taschino del panciotto e andai a farmi un birra con
Tony Marciano.
Eravamo i signori del mondo, non di tutto il
mondo, ma di quello a noi conosciuto.
La città era quasi del tutto coperta dalla nostra
rete di traffici, avevamo fatto fuori ogni sorta di
testa di cazzo che ci s’era piantato innanzi e puntavamo all’espansione oltre confine.
Mi stavo pulendo le scarpe, quando il macellaio
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che lavorava dirimpetto casa mia arrivò trafelato
e cominciò a balbettare qualcosa riguardo un suo
nipote tossico, trovato morto nella zona sud del
paese; disse che all’autopsia avevano rilevato una
sostanza nuova e terribile, dal nome assurdo... sicuramente non l’avevamo smerciata noi.
Con i miei ragazzi facemmo un giro di ispezione nel luogo indicatoci, notammo lo strano
atteggiamento di chi voleva evitarci. I tossici
voltavano le spalle o guardavano in terra e le puttane ci sorridevano di quel sorriso “Non so nulla
tesoro!”.
Un altro paio di decessi per overdose ci fece
drizzare le antenne.
Andammo a cercare un nostro informatore che
dopo aver pianto, pregato e tentato una fuga impossibile, ci avvisò di una nuova organizzazione,
tutti giovani dai venti ai trent’anni che s’erano arrogati il diritto di vendere droga senza pagarci un
cazzo di diritti sulla zona.
Li beccammo.
Morirono tutti, male e molto lentamente.
Quel massacro sarebbe valso d’esempio a
chiunque avesse inteso ripetere l’operazione.
Quando lasciammo quel cumulo di cadaveri,
mi sorpresi a pensare all’iride verde del ragazzo
dal panciotto rosso: occhi bellissimi a mandorla un ragazzo con quegli occhi non dovrebbe morire
così! - pensai.
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Dopo quella carneficina decisi di averne abbastanza e mi ritirai nella casa d’infanzia dalla quale
continuai ad impartire ordini alla mia fottuta Gang.
Era mattina, faceva caldo, un caldo bestiale,
quelle stramaledette zanzare continuavano a
pungermi fra le dita dei piedi.
Andai in bagno a rinfrescarmi, attendevo gli
operai per ristrutturare l’ala nord della vecchia
casa che cadeva a pezzi, sapeva di muffa e morti.
Il campanello suonò un paio di trilli e quando
aprii mi trovai di fronte una donna, doveva essere sulla quarantina, ben vestita, truccata, capelli
perfetti.
Mi sorrideva; la guardai meglio strizzando le
palpebre... mi ricordava qualcuno, un lumicino
lontano nell’antro dei ricordi archiviati.
“Ciao, non ti ricordi di me?... Sono io, Patty!”
disse con voce calma quasi glaciale.
“Cazzo, Patty... entra e scusa il casino, aspetto
gli operai.” Le indicai la sala da pranzo adiacente
al corridoio.
“Allora, come stai... come ti vanno le cose?”
chiesi, versando del vino d’annata nei bicchieri di
cristallo, quelli buoni.
“Beh, mi sono laureata e lavoro come psicologa in un centro di riabilitazione. Tu?”
“Sono in affari, sai, import-export.” Mi limitai
a dire.
“Sposato... figli?”
“No.”
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Le porsi il vino, afferrò il bicchiere e iniziò a
sorseggiare con la grazia che le avevo da sempre
attribuito.
Parlammo per circa un’ora, mi analizzò fin
negli intestini, ricordammo la nostra storia e capii
di non aver mai smesso d’amarla... l’avevo solo
accantonata; ritrovammo subito la nostra vecchia
intesa, poi si fece seriosa.
Aprì la piccola borsa di pelle nera ed estrasse
una foto.
Un neonato buffo e raggrinzito dormiva placidamente nel suo lettino.
“Carino, chi è?” domandai, fingendo interesse.
“Mio figlio Giovanni” rispose.
“Ah... non sapevo avessi un figlio, sei una mamma allora!”... un poco mi infastidiva la faccenda.
“Guarda questa”, mi passò un’altra foto e iniziò a rovistare nella borsetta, stavolta visibilmente
nervosa.
Guardai il soggetto della foto, un ragazzo sui
vent’anni, capelli ricci, altezza media, occhi verdi... – un ragazzo con quegli occhi non dovrebbe
morire così! - Era lui!, il giovane che avevo fatto
fuori in Mather Street.
Sollevai lo sguardo.
Patty mi stava davanti e mi puntava addosso
una Revolver Colt, la guardai inebetito.
“E’ tuo figlio?” domandai, non avevo paura di
morire, ma di quel suo sguardo sì.
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“No, è il tuo... ero incinta quando ti lasciai! Voleva essere come te, voleva somigliarti. Voleva...
tu fossi fiero di lui.”
Una risata stridula, isterica le esplose dalle viscere di quel dolore, poi si infilò la canna in bocca
e fece fuoco.
Rimasi lì a guardare Patty nella pozza del suo
sangue.
Mi scolai la bottiglia di Whisky .
Raccolsi la foto del giovane e carezzai le chiome
di lei, zuppe dei miei peccati.
Ascoltai in lontananza le sirene delle volanti
che accorrevano.
Non avevo molto tempo e restavo, comunque,
un bastardo, di quelli che pensano a salvarsi il
culo.
Rimasi congelato ad ascoltare le mille pulsazioni che mi ridettero un cuore.
A questo punto, avevo due possibilità: infilarmi
la Revolver Colt su per il culo o redimermi.
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Il buco
di Ester Muti
Mille volte ho guardato dal buco della serratura. Mi sono contorto, abbassato, chinato
per vedere meglio, nei dettagli, cosa accadeva
dall’altra parte. Io ero fuori, escluso, e non potevo entrare. Non potevo bussare né parlare. Non
esistevo. Per lo più sesso. Movimenti e suoni,
perché anche i suoni passano dal buco della serratura. Voci piccole piccole, ridotte al minimo
per non essere sentite. E invece io ero in ascolto,
di fronte alla camera di mamma e papà, pronto
a scattare dall’altra parte della casa. Innocente.
Sempre. Aria candida. Un timido. Frequente rossore sulle guance. Bastava un accenno alle mie
qualità e mi sentivo avvampare. Dal profondo del
mio cuore invidiavo tutti coloro che si mostravano indifferenti, sicuri di sé, quasi impietriti nel
loro colorito costante, senza macchie e variazioni.
Fino a una certa età non ho avuto bisogno di
chinarmi per vedere, poi le cose sono cambiate.
Diventavo troppo alto perché gli occhi fossero
naturalmente a livello del buco della serratura.
In quel momento l’abitudine è diventata colpa.
Quando per la prima volta ho avvertito la leggera flessione della schiena e del collo, la curvatura che mi permetteva di allineare lo sguardo
all’oggetto desiderato. Più il tempo passava più la
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curva cresceva più il terrore occupava lo spazio
dei miei pensieri più provavo vergogna più non
ne potevo fare a meno. E i miei scopavano spesso.
Più crescevo, più mi incurvavo, più il mio diventava un gesto quotidiano. Conoscevo gli orari,
le abitudini, le regole e le eccezioni. Imparavo le
posizioni e le registravo. Era tutto nella testa. Il
segreto è questo. Se una sola volta avessi avuto la
tentazione di fare invece che immaginare, quella
volta mi sarebbe bastata a diventare reo e disgustoso. Niente di tutto questo. Sempre solo nella
testa, questo il mio segreto. All’esterno perfetto. Timido. Innocuo. Il caos è dentro, nascosto
nelle cellule cerebrali, nelle piccole contrazioni
dei muscoli, nelle erezioni segrete, mai condivise.
Mia madre era sempre nuda, mio padre no.
Durante il sesso. Mia madre era nuda, sopra e
sotto, di schiena e di fronte. Dalla sua voce avevo
imparato a distinguere i diversi rapporti. Sapevo
dove la stava penetrando, dove lo stava prendendo.
Fuori dalla stanza tutto cambiava. Lei non era
la stessa donna che avevo spiato. Lui non era lo
stesso uomo, io non ero lo stesso figlio. Innanzi tutto lei era sempre vestita. Non le avevo mai
visto un seno, o il pube, mai una volta che fossi entrato in bagno mentre lei usciva dalla doccia. Tutto si era sempre svolto in modo celato.
Le nostre abitudini, fuori dalla camera da letto,
erano rigidamente fissate, senza scarto. Ogni
cosa procedeva nel suo ruolo indiscusso, nella sua
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forma inalterabile, come in una sorta di sconfitta
definitiva della morte, delle degenerazioni, del
movimento. Tutto eternamente vivo e immobile.
Non mi era estraneo il paradiso. Ogni volta
che infilavo lo sguardo nel buco della serratura,
vedevo il mondo dall’alto dei cieli. Santo, santo,
santo. Ero santo e puro come l’acqua, ero eterno.
Fuori dalla camera da letto, fuori dai desideri degli
uomini e delle donne, dalle storie e dalle vicende,
dalle terre e dalle folle, anche loro erano eterni.
Mia madre bella come la neve. Mio padre altero
come una montagna quando il vento è fermo. Ero
di fronte a una vetta innevata. Poi, dentro la camera, la neve si scioglieva, colava sul corpo sudato di mia madre ferma in posizione di preghiera;
sulla montagna intanto infuriava la bufera, movimenti tellurici sconquassavano ogni più piccola
porzione di materia, la terra tremava e urlava
come un gigante in lotta per la sopravvivenza.
Grazie a quel buco della serratura scoprivo il mondo, l’inferno, la terra, gli uomini e le donne, la carne e il fuoco. Io sempre
fermo nel mio paradiso, gobbo per guardare.
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Perdono ma non dimentico
di Luigi Segantin
Perdono ma non dimentico. Questo dichiarò
Romina Power rispondendo a un giornalista che le
chiedeva di sua madre Linda Christian, e del fatto
che le avesse fatto girare certi filmini osè quando
era ancora una ragazzina. Poi lei si era emancipata da una famiglia troppo famosa e problematica
per fare il suo ingresso nel mondo con Albano,
sposandolo in diretta davanti a tutta Italia. Poi la
tenuta laggiù, nel profondo sud, vino e canzoni
con lo stesso titolo per tanti anni, la fata americana, bella e brava, con il piccolo emigrante delle
Puglie a far figli e investire in bontà e famiglia. Poi
il baratro, la mannaia della sventura si accanisce
proprio su di loro che avevano fatto dei buoni
sentimenti la cartolina dei loro auguri natalizi al
mondo. Droga, acidi e lei, la prima figlia, la più
amata, che scompare nel nulla. Se ne sono sentite
di tutti i colori in quel periodo. Poi il silenzio, finalmente. E poi ancora, poco dopo, tutto è andato
a rotoli. Ognuno per conto suo, niente più vino né
canzoni d’amore.
Perdono ma non dimentico, pure io volevo dirlo
a qualcuno. Ma a chi? L’Agenzia del Perdono alla
quale mi hanno indirizzato è chiusa fino a data da
destinarsi. La signorina sullo schermo mi ha consigliato la sede del nord est. Faccio fatica a pen17
sare a tre giorni di viaggio per una pratica di perdono. Poi, avendo sentito le ragioni e le cause per
le quali mi rivolgevo a loro, la sig.rina in questione
mi ha con gentilezza ricordato che non ero io preposto a perdonare ma soltanto a farmi perdonare.
Non ero selezionato a distillar perle di perdono in
giro. Ero la parte passiva. E avrei fatto meglio a
smettere di sognarmi altri ruoli.
Siamo abituati a raccontare tutto agli esperti
designati. Se abbiamo pensieri impuri o commettiamo atti deplorevoli ci viene spontaneo chiamare
l’Agenzia. Che è come mamma. Non condanna,
anzi sempre perdona, purché ci si confessi. Si
racconta al monitor o si scrive un prestampato
e si inoltra all’Agenzia. In breve si ottiene una
risposta. Ed è sempre positiva. Se poi ciò per
cui si chiede venia è particolarmente Denso di
Significato (un modo eccentrico per dire che la
cosa è grave) è necessario recarsi di persona sul
luogo indicato. Ma sempre ci rassicurano che
non c’è problema. In un niente si è di nuovo sollevati dal peso di una colpa, felici di tornare a
casa. Molti non sono tornati. Pare che siano in
un luogo di premialità esagerata. Grande Colpa
uguale Grande Perdono. Quindi Grande Premio.
Magari un’isola nei mari del sud, vicino alla casa
di Albano e Romina, a bere il loro vino Felicità
o Nostalgia Canaglia, anche se loro non ci sono
più. Magari un po’ di felicità ancora si respira
laggiù.
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Mi piacerebbe lavorare all’Agenzia, dispensare
moduli e perdonare a orario fisso. E poi magari
appassionarmi a qualche caso e perdonare sì ma
senza dimenticare. Lasciare che il seme del dubbio
attecchisca e poi scavare e scavare fino a trovare il
marcio. L’imperdonabile. Come ci si comporta in
un caso simile? Non c’è letteratura in materia. I
moduli non ne fanno cenno.
Cosa ho fatto di tanto grave da dovermi recare
di persona alla sede del nord est? Il mio caposettore è un uomo difficile, non posso dire che
nessuno lo ami perché non è cosa buona, ma che
è difficile sì. E non è sindacabile. Non lo si vede
mai in pausa pranzo con qualcuno dei suoi pari.
Alla mensa dei capisettore il suo posto numerato
è sempre vuoto. Pranza da solo nel suo ufficio.
Insomma non rende la vita facile nemmeno ai suoi
parigrado, figurarsi ai sottoposti. Me compreso.
Per farla breve, una notte ho sognato di sodomizzarlo con un cono al gusto di stracciatella e mango.
Alle sue evidenti rimostranze lo zittivo con un bastone da baseball sulle gengive. Con i denti rimasti
sani sul pavimento ci facevo un braccialetto che
poi avrei rivenduto a buon prezzo sul portale di
aste on line operativo dai monitor collettivi del nostro ufficio. Nei miei pensieri c’era sicuramente
il fatto che avremmo diviso i proventi della vendita del prezioso monile. Questo mi faceva sentire meno in colpa quando la mattina dopo, come
da prescrizioni impartite precedentemente, avevo
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confessato tutto al caposettore in questione. Non
eludendo nessun particolare ma neanche tacendo
sui buoni guadagni che i suoi denti ci avrebbero
fornito.
Da una settimana esatta sono a casa in attesa di
ricevere il perdono. E temo di dover far le valigie e
partire per il nord est. Mi domando se farà freddo.
Il meteo dice di coprirsi ché la nottata sarà dura.
Prima di partire chiamerò il caposettore e gli
dirò che non lo dimentico.
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Monia Minnucci è nata e vive a Frosinone. È pittrice e autrice di poesie e racconti che sono gialli
in miniatura. Le sue storie, con trame psicologiche
e tratti descrittivi forti, cupi, folli, sono popolate
da personaggi che hanno dimensione e personalità
contorta e doppia e che, attraverso le loro vicende,
rivelano al lettore la miseria umana.
Sull’onda della ricerca dell’origine profonda del
disagio, che tanto profondamente ha segnato la
cifra dei suoi racconti, l’autrice ha da poco ripreso
gli studi nel campo della Consulenza familiare.
Ester Muti è un’invenzione. Dietro questo
pseudonimo si nasconde un autore di racconti e romanzi che da cinquant’anni vive e lavora a Roma.
Scrive di notte. Di giorno è manager sportivo.
Luigi Segantin ha 42 anni, vive non lontano da
Mestre. Compra e vende oro, per conto d’altri, in
un grande centro commerciale. Nel tempo libero
si dedica a complicati puzzle che raffigurano paesaggi italiani e scrive racconti che, in genere, non
pubblica.
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Ping Pong esistenziale
di Ninì Candalino
Mi auguro che la partita esistenziale giocata
dalla nostra strana eroina vi abbia solleticato.
Catherine si parla e ci parla con un linguaggio
mentale e ironico, arguto e sorprendente, contorto,
astratto e suggestivo. Si arrovella e srotola i suoi
dilemmi in un ping pong tra malessere e benessere.
A lei come a noi non resta che pensare e coltivare
scomode consapevolezze.
La coscienza di Catherine e del lettore sembrano scrivere congiuntamente le pagine, predisposte come un collage dinamico e aperte alla
non linearità della lettura. Proseguendo su questa
linea, propongo cinque parole chiave per ripensare
trasversalmente a quello che avete letto. L’effetto
cercato è rimettere in moto frammenti sparsi tra
le righe, dispersi tra le pagine, intime rivelazioni
della nostra quotidiana vulnerabilità.
Agenzia del Perdono. Servizio di ascolto telefonico per utenti in cerca di una voce di pronto soccorso istantaneo ai propri problemi di coscienza.
Arte contemporanea. Ovvero novità del presente quotidiano artisticamente concettualizzate
e presentate come degli esempi di contemporanea
eternità, ovviamente inossidabili al tempo e al di
là del passato e del futuro.
Autocontrollo. Gestione salvavita d’individui
dotati d’identità multiple, ossessionati dai pro-
blemi di coscienza, invischiati nel mare magnum
della memoria e nella nebbia che confondono vissuto quotidiano e caos dell’immaginario.
Controllo. Vigilanza della regolarità di una società ‘evoluta’, in mano a invisibili pianificatori,
nascosti dall’ubiquità e da un sistema informatico
programmato per innestare nella realtà un credibile reame dell’apparenza.
Shopping. Passatempo fondato sull’egoistico
piacere dell’acquisto, atto doveroso per l’ambiente
della società dei consumi, gesto che libera la voglia
di svagarsi e perdersi nell’illusione ottica del reame
dell’apparenza
Tratto dalla postfazione al romanzo Catherine dei
Globalgroove.