Le radici della mente nel corpo
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Le radici della mente nel corpo
Le radici della mente nel corpo Nuovi legami tra teoria dell’attaccamento e psicoanalisi PETER FONAGY, MARY TARGET La relazione che intercorre tra la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento è complessa. Alcune difficoltà incontrate dalla teoria dell’attaccamento rispetto alle idee psicoanalitiche si fanno risalire ai suoi legami con le scienze cognitive ormai datate degli anni sessanta e settanta. Oggi però le scienze cognitive di seconda generazione rimandano a resoconti dotati di plausibilità neurobiologica in cui si ritiene che i nessi tra mente e corpo modellino la mente e la coscienza, sempre più diffusamente considerate «incarnate” ed emergenti dai bisogni di un essere fisico connotato da una determinata collocazione nel tempo, nello spazio e nel contesto sociale, o al servizio di tali bisogni. Questa idea risiede altresì al cuore di gran parte della riflessione psicoanalitica, che storicamente ha affermato il radicamento del pensiero simbolico nell’esperienza sensoriale, emozionale e agìta con gli oggetti. Presenteremo delle ipotesi sulla natura del linguaggio che pongono in evidenza l’origine dei modelli operativi interni (e delle rappresentazioni in generale) nelle prime esperienze sensomotorie ed emozionali con una figura di accudimento. Sosterremo che il linguaggio e il pensiero simbolico possono essere incarnati filogeneticamente ed ontogeneticamente, si costruiscono su una base di gesti ed azioni e sono profondamente influenzati dall’esperienza delle interazioni fisiche precoci con l’oggetto primario. Infine, prenderemo in esame le implicazioni di queste idee nella clinica e nella ricerca. Mutamenti della relazione tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento Negli ultimi vent’anni lo statuto della teoria dell’attaccamento all’interno della psicoanalisi sembra essere mutato. La recensione definitiva del primo volume Attaccamento e perdita, pubblicata da George Engel sull’International Journal of Psychoanalysis (Engel, 1971), fu puntuale ma oltremodo negativa: «Malgrado il trattamento impreciso della teoria analitica da parte di Bowlby e i conseguenti errori logici, nonché l’errata applicazione della teoria sistemica generale, il volume rimane un testo importante per gli psicoanalisti […]. Purtroppo Bowlby viene meno al ruolo di commentatore, lasciando al lettore il compito di individuare che cosa reca un valore in nuce per la psicoanalisi» (193). Gregory Rochlin (1971) mostrò ancora più scarsa considerazione: «Le enormi difficoltà nel tentativo di comprendere la natura delle prime relazioni del bambino, in particolare con la madre, non trovano migliore illustrazione degli 1 sforzi di Bowlby. … Il suo recente interesse per lo studio dei primati e dei sistemi di controllo, nella speranza che si riveli una direzione di ricerca più gratificante, potrebbe soddisfare lui, ma deluderà il lettore. Bowlby può convincere esclusivamente se si ammettono le sue vaste supposizioni, si è disposti a trascurare le distinzioni rilevanti tra lattanti e giovani primati e si accetta l’idea che gli schemi dei circuiti tra organismi viventi e robot hanno ben poco che li differenzia» (506). Una serie di cambiamenti in seno alla psicoanalisi ha concorso ad una crescente accettazione della teoria dell’attaccamento (per una sintesi di tali mutamenti, vedi Fonagy & Target 2007). Sandra Buechler (1997), nel recensire un volume del 1995 sulle implicazioni cliniche della ricerca sull’attaccamento, intitolò il suo articolo «Attachment Theory as a Secure Base for Psychoanalytic Explorations». La recensione abbozza dodici punti di contatto tra teoria psicoanalitica relazionale, teoria psicoanalitica e teoria dell’attaccamento, tra i quali ricordiamo che, secondo queste teorie, i problemi emotivi sono il risultato dell’interferenza con un potenziale innato di interrelazionalità, si considera cruciale il riconoscimento di pattern relazionali per la diagnosi e il trattamento e si interpreta il significato del comportamento dalla prospettiva della funzione interpersonale che svolge. Eppure, nonostante il tono più positivo della recensione della Buechler, permangono delle riserve, talvolta predominanti, nella valutazione dei contributi bowlbiani. Michael Brearley (1995), nella sua recensione del volume di Jeremy Holmes: John Bowlby and Attachment Theory, scrive: «le mappe di Bowlby sono quelle del ricercatore che mostra vaste formazioni geologiche su scala continentale, mentre gli analisti, quantomeno nel loro operare quotidiano, si occupano del dettaglio dell’esistenza umana vissuta e hanno bisogno di cartine di scala diversa che indicano le zone costruite. […] Bowlby veicola un’impressione sulla natura umana assai più benevola e su relazioni terapeutiche meno inclini alla perversione e ad attitudini distruttive di quanto suggerirebbe l’esperienza di gran parte degli analisti» (1072). Cinque anni prima Karen Gilmore (1990), scrivendo dell’ultima opera di Bowlby sull’attaccamento, Una base sicura (Bowlby, 1988), adopera un tono analogo: «Al lettore, il contributo di Bowlby risulta oscurato da questi paragoni [con la teoria psicoanalitica], dato che la sua teoria non offre né una metapsicologia alternativa né una vera e propria psicologia evolutiva. Inoltre non affronta il ruolo cardinale del conflitto nella vita psichica, la pietra di volta della teoria psicoanalitica» (496). Tali critiche pongono in luce un’autentica disparità fondamentale tra teoria dell’attaccamento e idee psicoanalitiche. Dalla prospettiva psicoanalitica la teoria dell’attaccamento è limitata, poiché evita la sessualità, considera secondaria l’aggressività rispetto ad altre motivazioni più fondamentali, probabilmente avanza dei modelli del conflitto meccanicistici, assume una posizione discutibile sulla fantasia inconscia, è riduzionistica nel suo concentrarsi su una manciata di paradigmi empirici (per es., la Strange Situation e l’Adult Attachment Interview, o AAI) che forniscono ampie classificazioni alle quali sfugge la sottigliezza e il livello particolareggiato del materiale originario e, infine, offre un inquadramento teorico limitato per il lavoro clinico. Date le 2 preoccupazioni di Bowlby rispetto alle difese inconsce dai ricordi della separazione traumatica e della perdita, e il lavoro puntuale di altri teorici dell’attaccamento su altre difese che strutturano inconsciamente la personalità in via di sviluppo e le capacità di relazionalità del soggetto, sarebbe errato sostenere che la teoria dell’attaccamento non si occupa dell’«inconscio dinamico». I teorici dell’attaccamento, tuttavia, rivolgono scarsa attenzione alle differenze qualitative tra esperienza conscia, preconscia e inconscia, e i contenuti psichici – rispetto ai quali si presume siano innalzate in modo più formativo delle difese – si concentrano non sulle pulsioni, sui loro derivati e sui conflitti che ne risultano, ma sullo sviluppo del Sé e del Sé in relazione all’altro. A mio vedere, però, la differenza fondamentale tra teoria dell’attaccamento e psicoanalisi non deve essere ricercata a livello di asserzioni concrete concernenti la primissima infanzia e l’infanzia o le relazioni adulte. Altrove mi sono proposto di dimostrare (Fonagy, 2001) che assistiamo ad un’embricazione sufficiente tra modelli psicoanalitici dominanti e teoria dell’attaccamento per poter considerare psicoanalitica la seconda. L’incompatibilità tra la teoria dell’attaccamento e la psicoanalisi si riscontra più sul piano degli assunti epistemici che su quello del contenuto. Se Bowlby assunse una posizione dalla quale era costretto a modificare la sua teoria mano a mano che procedeva lo sviluppo delle conoscenze nelle scienze affini (Bowlby, 1979, 1981), la psicoanalisi, nel bene e nel male, si è (quantomeno in passato) messa al riparo da simili riscontri continui, tranne quando l’esperienza clinica cimenta direttamente i suoi presupposti. La posizione epistemica bowlbiana porta con sé degli obblighi. La teoria di Bowlby infatti si fondava sulla scienza evolutiva cognitiva di venticinque anni fa e oggi esige una rivisitazione. Alcune ipotesi fondamentali della psicoanalisi sono segnatamente mutate, riducendo per qualche verso l’incongruenza esistente tra la teoria dell’attaccamento e la psicoanalisi. Forse però un aspetto più rilevante è che i progressi compiuti nelle scienze, cui si accoppiano le idee di Bowlby, dettano una riconsiderazione dei punti di contatto tra la teoria dell’attaccamento e la psicoanalisi. Sarà questo l’argomento affrontato in questo articolo. Passeremo in rassegna i progressi nelle scienze cognitive e dimostreremo la necessità di una riconsiderazione, principalmente perché queste «nuove idee» si rivelano lungi dall’essere nuove nel contesto psicoanalitico. Le scienze cognitive negli anni sessanta La psicologia che influenzò Bowlby (e che da allora ha guidato la teoria dell’attaccamento) emerse una cinquantina di anni addietro in reazione agli eccessi del comportamentismo. Malgrado le frequenti accuse di comportamentismo mosse a Bowlby, il suo apporto fu la costruzione di un legame tra la psicoanalisi e una psicologia cognitiva anticomportamentista. La scoperta emergente degli anni sessanta del Novecento fu la possibilità di sviluppare una scienza della mente per studiare aspetti della funzione umana che esulavano 3 dalla sfera della spiegazione comportamentista, aspetti quali l’eloquio e il linguaggio, il pensiero e la soluzione dei problemi. La psicologia cognitiva – termine coniato da Ulric Neisser nel 1967 – si occupava della descrizione di strutture mentali deducibili dalle osservazioni sperimentali. I legami epistemologici con la scienza comportamentista positivista erano prevalenti, ma concettualmente questo nuovo campo conquistò il territorio proibito ai comportamentisti: gli eventi mentali interni. Ciò fu possibile adottando la potente metafora della mente come meccanismo di elaborazione delle informazioni. Implicitamente il cervello era l’hardware e la mente il software. Il software poteva essere studiato indipendentemente in modo non-riduzionistico, applicandovi largamente l’impalcatura della teoria sistemica generale (von Bertalanffy, 1968). La potente metafora che separava il cervello e la mente in processi di hardware e di software (Gardner, 1985; Winograd e Flores, 1986) permise agli scienziati cognitivisti di generare modelli di elaborazione delle informazioni e di cercare conferma della precisione di tali modelli attraverso esperimenti, simulazioni al calcolatore e studi elettrofisiologici o (più recentemente) di imaging cerebrali. Bowlby, in particolare nell’ultimo volume della sua trilogia (1980a), e i teorici dell’attaccamento che lo hanno seguito, hanno collegato esplicitamente la loro teoria motivazionale alla metafora del calcolatore. Pertanto un concetto centrale della teoria dell’attaccamento è il modello operativo interno (Internal Working Model, o IWM), una rappresentazione del Sé nella conversazione metaforica con l’altro (Bretherton e Munholland, 1999). Il tono della conversazione è determinato dalle deviazioni dell’elaborazione delle informazioni costruite dalle aspettative radicate nell’esperienza passata. Come ha segnalato Steele (2003), il concetto si collega strettamente al modello sandleriano di responsività di ruolo (Sandler, 1976). Il bambino acquisisce la capacità di adoperare il suo sistema rappresentazionale per prevedere l’atteggiamento o il comportamento dell’altro in relazione al Sé in una situazione data. L’attaccamento sicuro è la salda aspettativa che l’angoscia troverà sollievo nel conforto. Ma al di là di questo, dato che l’attaccamento sicuro facilita l’emergere di strutture psichiche collegate all’emozione, l’intero sistema rappresentazionale sarà probabilmente più stabile e coerente in presenza di una storia di esperienze di attaccamento generalmente sicuro. I teorici dell’attaccamento, quando hanno cominciato ad approfondire le manifestazioni del sistema di attaccamento nei bambini più grandi e negli adulti, hanno cercato di misurare l’attaccamento così come si manifesta nei disegni (Main e Cassidy, 1988) e nella narrazione (Main, 2000), più che nel comportamento teso alla ricerca della prossimità. Tale variazione fu descritta come lo «spostamento della teoria dell’attaccamento sul piano delle rappresentazioni» (Main et al., 1985). La ricerca attuale sull’IWM come struttura rappresentazionale è stata alimentata, in larga misura, dall’emergere della tecnica dell’Adult Attachment Interview (AAI) (Cassidy e Shaver, 1999; George et al., 1985; Main et al., 1985). L’AAI evoca anche delle rappresentazioni del Sé e delle figure di attaccamento accanto alle strategie implicite per la regolazione dell’eccitazione emotiva. Un modello sistemico generale, orientato allo 4 schema, del mondo interno – più coerente con la metafora dell’elaborazione delle informazioni – resta al cuore del modello della teoria dell’attaccamento. La seconda generazione delle scienze cognitive I difetti principali dell’analogia con il computer per lo studio della soggettività sono ampiamente riconosciuti nella psicologia cognitiva, ma molto meno tra gli psicoanalisti e tra i teorici dell’attaccamento. Ciò potrebbe avere attinenza con la diffidenza con cui la teoria dell’attaccamento è tuttora considerata dagli psicoanalisti. Innanzi tutto, come indicato da Bruner (1990), la preoccupazione iniziale degli psicologi cognitivisti rispetto al significato era offuscata da un’attenzione crescente prestata ai particolari di un modello della mente formalistico e funzionalistico. Nella metafora del calcolatore delle scienze cognitive, il significato è introdotto dal programmatore, ma nella cognizione umana è l’hardware che sottende le sensazioni, le azioni e i sentimenti a generare significato. In secondo luogo, i modelli di elaborazione delle informazioni collegano vari processi ipotetici (moduli) con delle frecce che in realtà sono dei dispositivi euristici, e non sappiamo se abbia senso modellare il funzionamento della mente in termini di sistemi distinti e divisibili. In terzo luogo, la coscienza – e in particolare i pensieri investiti emotivamente – si è rivelata assai difficile da esplorare sperimentalmente. Il suo studio generava infatti un database empirico che talvolta sembrava non presentare pertinenza, generalizzabilità e validità apparente. In quarto luogo, il modello predominante del calcolatore, che creava uno scarto esplicativo artificiale tra la mente come processo e il cervello come meccanismo, corrispondeva sorprendentemente poco alle conoscenze emergenti su come funziona il cervello. Infine, le scienze cognitive tradizionali non riescono a spiegare in che modo compiamo dei progressi di sviluppo passando da una teoria della mente dell’altro alla sperimentazione dell’intenzione dell’altro in maniera tale da generare una reazione ad essa. Si tratta del cosiddetto problema mente/mente (Jackendoff, 1987). Questo approccio è stato soppiantato da una serie di formulazioni recenti, collettivamente designate «cognizione incarnata» (embodied cognition) o «mente enattiva» (enactive mind). Tra le caratteristiche di questo nuovo orientamento ricordiamo (1) l’impiego crescente dell’insight come metodo di ricerca; (2) un vivo interesse verso la lettura dell’emozione in quanto organizzatore e motivatore del comportamento; (3) tecnologie di imaging cerebrale in rapido sviluppo che hanno trasformato la neuropsicologia cognitiva in una scienza cerebrale oltre che una scienza mentale, determinando inoltre resoconti cognitivi sempre più funzionali; e (4) un distanziamento dagli studi di laboratorio reificati a vantaggio di un interesse per gli approcci ecologici alla cognizione. Il focus è passato da quelle che in realtà sono delle astrazioni disincarnate (per es., algoritmi in un computer digitale) alla cognizione incarnata, in cui i significati delle cose nell’ambiente si formano dalle esperienze dell’agire sulle stesse. 5 La seconda generazione delle scienze cognitive si distingue dalla prima principalmente nella ricerca di resoconti neurologicamente plausibili e di una coerenza con il comportamento osservato (Lakoff e Johnson, 1999; Varela et al., 1991). In contrasto con il modello della mente degli anni ottanta, in quanto sistema astratto generatore di simboli, la mente viene sempre più considerata incarnata dagli scienziati cognitivisti (Clark, 1997, 1999; Thompson e Varela, 2001; Varela et al., 1991). Perciò ogni separazione tra cognizione e manifestazioni fisiche a livello del cervello, delle sensazioni somatiche o delle azioni è un artefatto della metafora del calcolatore proposta dai cognitivisti, che comporta che i processi cognitivi possano essere indipendenti dal corpo, proprio come il software esiste più o meno indipendentemente dall’hardware. In generale, è il nesso tra cervello e corpo che genera la mente e la coscienza. L’emozione, l’umore e la motivazione agiscono di concerto con la cognizione, stimolati dall’evoluzione per garantire la sopravvivenza dell’individuo nella sua interezza. Il significato si acquisisce perché il pensiero è azione incarnata (Clark, 1999). «Il pensiero dipende dalle esperienze che provengono dall’avere un corpo con svariate capacità sensomotorie» e «percezione ed azione sono fondamentalmente inseparabili nel pensiero vissuto» (Varela et al., 1991, 173). Questo accento posto sulla «coscienza del nucleo», in quanto base del nostro senso fondamentale del Sé, così come emerge nell’interfaccia tra segnali somatici e segnali provenienti dal mondo esterno, allinea tra loro le scienze cognitive e la psicoanalisi (vedi anche Damasio, 2003). Un secondo aspetto di questo orientamento incarnato nelle scienze cognitive consiste nell’accento posto sul senso di Sé esteso. La mente viene esperita in quanto si estende, nel tempo e nello spazio, nel mondo sociale, nella cultura e nella storia. Si riconosce l’impossibilità di dissociare la nostra prospettiva sociale dalle esperienze sociali che hanno determinato la genesi di quella visione (Hobson, 2002). Nell’approccio abbozzato da Hobson rileviamo come i bambini piccoli, esposti a esperienze sociali interattive ripetute, sviluppino delle rappresentazioni mentali di quel mondo sociale individualizzato che permette loro di abborracciare un apparato cognitivo sociale ancor più complesso, che a sua volta apre la possibilità ad esperienze sociali sempre più complesse in un processo iterativo di crescita cognitiva sociale. Il pensiero, o cognizione, è allora costituito dalle tracce mentali lasciate da queste esperienze ricorsive (Varela et al., 1991). Il modo in cui sperimentiamo i pensieri, tra cui quelli correlati all’attaccamento e le strutture cognitive che li sostengono, potrebbe essere considerato collegato agli aspetti fisici dell’esperienza infantile precoce. Infatti, dato che la mente propriamente non si separa mai dal corpo, la natura stessa del pensiero sarà influenzata dalle caratteristiche della relazione oggettuale primaria. Il vero e proprio cambiamento nell’approccio della cognizione incarnata consiste nel fatto che le rappresentazioni mentali, così come sono descritte nei modelli computazionali della mente, potrebbero essere considerate delle deleghe delle azioni che le hanno generate e che esse rappresentano (Lakoff e Johnson, 1999; Thelen e 6 Smith, 1994; Varela et al., 1991). Si ritiene che l’origine della rappresentazione simbolica risieda nelle azioni biologicamente significative legate alla sopravvivenza e all’adattamento. Simili azioni sono immerse nelle esperienze somato-sensoriali e nella loro rilevanza, e sono guidate percettivamente. Il simbolo è una sorta di delega di questi elementi dell’azione. Pertanto, nell’impiego di una rappresentazione simbolica è implicita la storia dell’esperienza corporea e sociale delle azioni correlate al simbolo (Fónagy, 2000). L’attaccamento occupa immediatamente il centro della scena, una volta riconosciute le origini fisiche del pensiero. Il pensiero umano è meglio caratterizzato quando è governato non dalle regole logiche bensì da sequenze di azioni e analogie (Johnson-Laird, 1983). È stato suggerito che tutto il pensiero dipende da metafore non-consce. Gran parte di questo lavoro si basa sullo studio della semantica e dell’uso del linguaggio. Lakoff e colleghi (Lakoff, 1987, 1997; Lakoff e Johnson, 1999; Lakoff e Turner, 1989) hanno segnalato come le metafore non siano semplicemente delle espressioni linguistiche; esse riflettono semmai mappature concettuali sottese. Per esempio, secondo Lakoff le descrizioni metaforiche delle relazioni intime («la nostra relazione è giunta a una strada senza uscita», «il nostro matrimonio si è arenato», oppure «stiamo attraversando un momento di burrasca») derivano tutte da un’unica metafora concettuale sottesa, secondo la quale «la relazione è un viaggio» – un movimento attraverso la vita insieme ad un’altra persona. Secondo questo autore le metafore concettuali costituiscono una componente fondamentale dell’architettura della vita mentale. Altri linguisti ne convengono. Secondo Ivan Fónagy (2000, 680), «Le metafore non sono meramente delle economie adatte a esprimere il nostro sapere; esse sono il nostro sapere e la nostra lettura del fenomeno particolare in questione». Il potere delle metafore e i loro limiti risiedono nel loro legame con un insieme fondamentale sottostante di categorie affettive incarnate e di schemi inferenziali nonché nella loro dipendenza da tale insieme, quali l’esperienza del lattante del calore al seno materno e il modo in cui l’interazione contingente con la madre ha determinato nel bambino un senso di padronanza di sé e di benessere (Fonagy, 2006; Fonagy et al., 2002). Tali cambiamenti nelle scienze cognitive vanno naturalmente tutti nella direzione di una loro accresciuta portata per i teorici e i clinici psicoanalitici e comportano delle alterazioni della teoria dell’attaccamento. Se questi sviluppi perseguono, se la teoria dell’attaccamento muta lungo il cammino dettato dalle scienze cognitive in cambiamento, diventa allora più verosimile un’integrazione concettuale della teoria dell’attaccamento all’interno di una cornice psicoanalitica di riferimento. La maggiore possibilità di una simile integrazione è dovuta al fatto che l’idea di cognizione incarnata non è affatto inedita alla psicoanalisi e anzi si può sostenere che sia uno dei suoi presupposti fondamentali (vedi in particolare Isaacs, 1943; & Greenacre, 1960#1986). L’idea generale della mente che si esprime completamente ed esclusivamente attraverso i referenti corporei è già presente nell’aforismo freudiano «L’io […] è prima di ogni altra cosa un Io-corpo» (Freud, 1922, 490). 7 Attaccamento e cognizione incarnata Il meccanismo del modello operativo interno (IWM) proposto da Bowlby può considerarsi prototipico di un approccio di elaborazione delle informazioni disincarnato ormai discreditato (Lindsay e Norman, 1977). Ripudiando la teoria degli istinti, la teoria dell’attaccamento evitava di affrontare il modo in cui le sensazioni e le esperienze corporee possono diventare degli strumenti simbolici. Si suggerisce che l’interazione interpersonale efficace richieda reazioni intuitive e sovra-apprese inadeguatamente modellate dalla psicologia cognitiva tradizionale. La cognizione incarnata trasforma la funzione evolutiva adattiva della cognizione in oggetto fondamentale di studio. Anche le idee originarie di Bowlby si rifacevano ai principi darwiniani, ma la sua teoria stabiliva un’alleanza con le scienze cognitive, con scarsi legami sempre più deboli con la biologia evoluzionistica verso la terza e ultima parte della sua opera. I teorici dell’attaccamento si sono dedicati troppo alla dimostrazione dell’universalità dei tre o quattro pattern di attaccamento madre-figlio nelle varie culture. Si potrebbe muovere la stessa critica alle affermazioni universalistiche di taluni aspetti della teoria psicoanalitica. La questione più fondamentale consiste, viceversa, nell’interrogarsi sulla possibile finalità evolutiva dell’attaccamento e le modalità con cui tale finalità si realizza nei diversi contesti culturali. Ciò spiegherebbe le differenze culturali all’interno di un modello che rimane tuttora universale. Fu lasciato a Jay Belsky (1999) ed altri il compito di aggiornare la teoria dell’attaccamento all’interno della biologia evolutiva moderna. Ora ravvisiamo nei pattern di attaccamento insicuro degli adattamenti che massimizzano le possibilità di sopravvivenza del lattante fino alla maturità riproduttiva, malgrado le condizioni avverse dell’ambiente educativo. Continuare a piangere anche quando l’infante riceve conforto potrebbe apportare delle risorse vitali quando l’attenzione individuale è un bene raro. Bowlby aveva ragione quando affermava che non sono la fame e il nutrimento a fornire la chiave evolutiva. Nel lattante la pulsione al processo di bonding è l’esperienza del suo corpo (dei suoi movimenti), che gli consente di controllare le risposte del caregiver (Watson, 2001). Si tratta principalmente di un’esperienza fisica, sensomotoria. Bowlby (1969) sostiene che la mente non è mai del tutto libera dalle sue forze generative primordiali. In tal senso, la teoria dell’attaccamento potrebbe essere più vicina, nello spirito, all’orientamento emergente nelle neuroscienze della cognizione incarnata rispetto alla psicologia cognitiva tradizionale. La teoria dell’attaccamento risulta essere più saldamente radicata nell’interfaccia tra il contesto corporeo e quello ambientale di quanto lo fossero le scienze cognitive degli anni settanta. Le neuroscienze cognitive, la psicoanalisi e una teoria dell’attaccamento aggiornata possono unirsi, collocando il sentire in primo piano, nel punto di confluenza del pensiero, degli stati somatici e dell’azione. Se Bowlby avesse potuto lasciarsi ispirare dalle scienze cognitive della fine degli anni novanta, probabilmente non avrebbe ritenuto che le esperienze di attaccamento 8 generassero un sistema astratto di aspettative oppure che fossero separate dal corpo e dal mondo. La sicurezza dell’attaccamento potrebbe essere considerata non una «aspettativa» ma un gruppo di proprietà dell’esperienza (quali il sentimento di rassicurazione emotiva in presenza di un particolare individuo) che emergono dai bisogni di un individuo in un momento temporale, un luogo e un contesto sociale specifici e sono al loro servizio. Le aspettative, viceversa, sono astrazioni disincarnate (al pari degli algoritmi in un calcolatore digitale). Per contro, l’attaccamento in quanto «cognizione incarnata» si fonderebbe sui significati delle cose nell’ambiente, significati formati dalle esperienze dell’agire su di esse. Le aspettative si applicano a tutto, eppure sappiamo che alcune cose nell’ambiente sono intrinsecamente più importanti perché è possibile agire in base su di esse. L’attaccamento e il seno devono essere più strettamente collegati di quanto abbia ipotizzato Bowlby. Il neonato infatti agisce sulla madre e sul suo seno. Il seno per un neonato significherebbe l’accumulazione di tutte le esperienze in cui egli fa delle cose al seno e il seno fa delle cose a lui. In questa prospettiva, l’esperienza di attaccamento ha più a che vedere con lo stato affettivo disposizionale fondamentale della sicurezza (security) – o senso di incolumità (safety), come lo ha designato il nostro mentore Joseph Sandler (1960) – che con lo stato epistemico di aspettativa. Quello stato affettivo è l’organizzatore fondamentale delle relazioni interpersonali nella prima infanzia e oltre. Le reazioni intuitive e sovra-apprese necessarie per costruire relazioni efficaci sono modellate inadeguatamente se si adottano i concetti della psicologia cognitiva tradizionale (per es., gli schemi, le aspettative, le distorsioni cognitive). Proponiamo che i progressi nella nostra lettura del modo in cui gli affetti organizzano la mente ci offrono l’opportunità di stringere legami più ravvicinati tra i domini, un tempo separati, della psicoanalisi e della teoria dell’attaccamento. Intendiamo illustrare tale possibilità con un esempio esplicitamente ipotetico dell’applicazione dell’orientamento della cognizione incarnata che sottolinea come si potrebbe studiare la qualità del grado di sicurezza dell’attaccamento attraverso il linguaggio, con l’ausilio di un’attenzione incentrata sul corpo e sull’azione fisica in quanto origine di tutte le funzioni simboliche. I progressi compiuti nella comprensione delle metafore in quanto meccanismi organizzatori della mente ci offrono l’opportunità di instaurare legami potenti tra la psicoanalisi e la teoria dell’attaccamento. Il nostro esempio illustra che se si prendono in considerazione le implicazioni dell’incarnazione della mente, adottare l’orientamento della teoria dell’attaccamento non deve necessariamente precludere la centralità dell’esperienza mentale inconscia. Le implicazioni dell’incarnazione per una teoria della comunicazione e del pensiero orientata all’azione La ricerca sull’attaccamento, nella sua alleanza con una scienza cognitiva astratta ed orientata epistemicamente, sottovalutava l’esperienza somatica e ora deve ritornare più 9 sistematicamente alle esperienze fisiche dell’attaccamento, o almeno a quella vaga zona metaforica tra le due che la psicoanalisi ha abitato per molto tempo. Proponiamo che il modo in cui esperiamo le cognizioni (aspettative, convinzioni rispetto agli altri ecc.), tra cui le cognizioni correlate all’attaccamento e le strutture cognitive che lo sostengono, sia collegato agli aspetti fisici dell’esperienza infantile precoce. Forse a un livello ancor più profondo, poiché la mente non si separa propriamente mai dal corpo, la natura stessa del pensiero, la natura stessa dei processi simbolici adulti, sarà influenzata dalle caratteristiche della relazione oggettuale primaria. Una simile posizione è del tutto compatibile con le descrizioni della relazione tra fantasia e simbolizzazione offerte da Isaacs e Greenacre e offre uno strato di ipotesi linguistica alle suggestioni evolutive descritte nella letteratura psicoanalitica. Codifica duale del linguaggio: la fonazione Il punto da cui prenderemo le mosse è l’origine delle mappature o metafore concettuali di Lakoff. Da dove arrivano le metafore concettuali di Lakoff? Una distinzione utile operata da Fónagy (1980, 1983) si basa su un’ipotetica dualità del linguaggio in quanto sistema di codifica. In consonanza con la linguistica strutturalista di Ferdinand de Saussure, Fónagy accetta che il sistema di codifica primario nel linguaggio collega arbitrariamente i significanti (il suono delle parole) con il significato (il concetto designato). Secondo Fónagy, però, esiste un secondo sistema di codifica nel linguaggio che comunica il contenuto affettivo e conferisce profondità all’esperienza del linguaggio. I due livelli sono agevoli da illustrare. Il linguista russo Stern (vedi Vygotsky, 1934, 25–32) distinse tra il significato convenzionale (del dizionario) di una parola e il senso assai più personale o individuale delle parole. Il significato del dizionario è arbitrario, regolato dalla grammatica e si limita a riflettere poco altro che la storia delle comunicazioni all’interno di una cultura. L’accumulazione dell’esperienza individuale, viceversa, si riflette nel senso di una parola – esperienza vissuta durante il corso della sua acquisizione e del suo impiego iniziale. Il senso non può essere codificato da una definizione del dizionario e rappresenta l’accumulazione delle esperienze fisiche (emotive, corporee) in associazione con un’idea o una parola specifica. Un semplice esempio (mutuato da Klin e Jones, in corso di pubblicazione) illustrerà tale distinzione. Il sostantivo «madre» è definito adeguatamente come «donna che concepisce, dà alla luce o alleva e nutre un figlio e riveste una posizione di autorità o responsabilità in relazione al figlio/alla figlia». Per contro, il senso del termine dipende interamente dalle esperienze reali e fantasmatiche di un individuo, probabilmente soprattutto di natura fisica, esperienze con una madre o una figura materna, una combinazione di affetti e sensazioni, di alcuni dei quali potrebbe essere in parte cosciente mentre altri potrebbero restare al di fuori della sua consapevolezza. Indipendentemente dal fatto che il senso di un concetto sia cosciente, esso avrà probabilmente maggiore impatto 10 nel determinare l’azione in relazione alla «madre» rispetto al significato del termine rintracciabile nel dizionario. Klin e Jones contrappongono la semantica del calcolatore, rappresentata dalla definizione del dizionario, alla semantica umana che mappa l’esperienza cumulativa del soggetto in termini di insieme unico e singolare di sensazioni, sentimenti e desideri collegati a eventi che coinvolgono il concetto interessato. Essi si incarnano e si codificano attraverso le esperienze del corpo. In linea con la prospettiva incarnata delle scienze cognitive, Fónagy (2000) sosteneva che molte metafore concettuali possono essere intese nell’ottica di questo secondo sistema di codifica incarnato e basato sull’esperienza fisica costruito nel linguaggio mediante la sua storia evolutiva. Tale sistema di codifica rimanda forse all’origine del linguaggio umano inteso come gesto. Questa idea trova eco nelle proposizioni filogenetiche di George Herbert Mead (1934) riguardo all’emergere dei sistemi simbolici dai gesti. Il gesto comunicativo è azione condensata e viene realizzato soltanto parzialmente; si accenna all’azione voluta. L’azione è rappresentata mediante il gesto comunicativo in forma più condensata, secondo il principio della pars pro toto, mediante parti del corpo, visibili e mobili, quali le braccia e le mani (per es., fare un cenno agitando la mano) o con movimenti del capo (per es., un rapido scrollare del capo per liberarsi di un pensiero) e la mimica facciale (per es., le smorfie). L’origine della simbolizzazione è il momento in cui chi compie il gesto ha appreso ad anticipare la risposta dell’altro al suo gesto (se facesse un determinato cenno con la mano, significherebbe dire all’altro: «vattene»). Ma le mani e il capo sono necessari per altre cose. Fónagy ipotizza che ad un certo punto dell’evoluzione (probabilmente più di recente di quanto si ritenesse un tempo) gli assetti mentali giunsero ad esprimersi per mezzo di mimiche vocali – laringee e orali – e dei loro prodotti udibili: movimenti tonali e immagini sonore. Alcune tracce chiare di questo fenomeno restano «fossilizzate» nello sviluppo del linguaggio. In tutte le culture, il bambino preverbale che indica un oggetto fuori della sua portata spesso accompagna il gesto con la vocalizzazione «iii». Quando produce questo suono, il bambino spinge in avanti la lingua come per usarla ai fini di indicare e raggiungere (Engel, 1972). In tal modo i gesti corporei simbolici divennero vocali (per es., suoni flessi, vocalizzazioni simili a un discorso), forse per lasciare libere le mani e altre parti del corpo di operare, e venne gradatamente configurandosi il sistema di comunicazione simbolica del linguaggio umano. Ma le tracce filogenetiche della vocalizzazione dei gesti corporei sono ancora rintracciabili nel linguaggio; il distante passato preverbale è tuttora presente nel linguaggio. Per veicolare un significato emotivo o attitudinale, il secondo sistema di codifica saldamente incarnato modifica o «distorce» i suoni linguistici ideali (neutrali) generati dalla Grammatica. La natura della distorsione fonetica sarà dettata dal contenuto gestuale del movimento articolatorio. Perciò, se le sequenze di fonemi sono generate secondo regole essenzialmente arbitrarie, l’espressività è una modificazione del prodotto che segue i principi iconici (pars pro toto) di somiglianza tra il gesto orale e la sua controparte 11 corporea. La mimica laringea e orale è una forma interna e condensata del gesto corporeo. Lo spingere in avanti la lingua nella gioia rappresenta un approccio simbolico, un atteggiamento amichevole (una sorta di «venire incontro»). Nel linguaggio che esprime gioia, i suoni saranno distorti da una spinta in avanti leggermente esagerata della lingua. Pronunciare la parola «Benvenuto!» (welcome), con la lingua verso la parte anteriore o in quella posteriore della bocca, esprimerà gradi di sincerità assai diversi. Il destinatario della comunicazione, al di fuori della sfera di consapevolezza, «decodifica» il gesto orale dell’approccio e interpreta l’umore del comunicatore in termini amichevoli, o meno, genuinamente compiaciuto per l’incontro. Vedremo che il linguaggio gestuale esiste a tutti i livelli del linguaggio: le trasgressioni delle regole fonetiche, sintattiche e semantiche sono evocative perché non sono il prodotto di un output deficitario ma sono governate da un apparato iconico universale di gesti o azioni appartenenti ad una grammatica primordiale che permette a colui che parla di esprimere contenuti mentali preconsci e inconsci. Fónagy sostiene che si tratta di un codice primario per la comunicazione non conscia, portatore di informazioni che non potrebbero essere veicolate per mezzo della grammatica convenzionale di nessuna lingua. I messaggi secondari generati dalla grammatica primordiale sono integrati nel messaggio grammaticale primario. I due messaggi, la cui divergenza strutturale e semantica rappresenta una distanza cronologica forse di migliaia di anni, costituiscono un’unità dialettica che caratterizza tutte le lingue naturali. Una prova dimostrativa di questo elegante modello proviene dall’universalità dell’esperienza metaforica dei suoni. Come spieghiamo il fatto che adulti e bambini, inclusi i sordi, concepiscono unanimamente la /r/ come suono maschile e la /l/ come suono femminile? Oppure perché suoni, che hanno poco o nulla in comune, come la vocale /i/, la liquida /l/ e la bilabiale nasale /m/, sono consistentemente associati al gusto dolce? Una risposta parziale al primo interrogativo potrebbe essere che la /r/ apicale ha un carattere erettile mentre la /l/ forse è il suo opposto polare. Il caso di /i/, /l/ ed /m/ dolci potrebbe richiedere una descrizione incarnata diversa: la sensazione di chiusura labiale collegata a un abbassamento simultaneo dell’ugola nella creazione della /m/ come pure dei glidi palatali /l/ e /j/ potrebbe attivare memorie «procedurali» infantili (Clyman, 1991) di esperienze fisiche al seno rimosse o codificate inadeguatamente e relegate alla sfera dell’inconscio. Come ha indicato Daniel Stern (1994), l’evento sensoriale multimodale totale dell’allattamento viene probabilmente vissuto in un unico involucro sensoriale. Di conseguenza lo stimolo originario (il contatto labiale) incapsula in sé la traccia mnestica del gusto dolce: la sensazione gustativa associata all’allattamento. Immaginiamo un trasferimento transmodale, analogo alla sintestesia, dalla modalità uditiva/cinesteticoenterocettiva della creazione del suono all’esperienza visiva di movimenti corporei grossolani, la modalità dei gesti (azioni immaginarie). 12 La codifica duale del linguaggio: l’azione a livello semantico La sensibilità inconscia rispetto alla mimica orale (i gesti della lingua e della laringe) non è che un esempio della codifica duale di un linguaggio basato sul gesto fisico. Fónagy ha dimostrato che a tutti i livelli del linguaggio, al di là di quello fonemico e prosodico, incluso quello semantico e quello sintattico, possiamo individuare una forma di pensiero visivo che potrebbe costituire un residuo del linguaggio gestuale. Fónagy e Lakoff, entrambi linguisti, sostengono che le metafore possono esprimere il contenuto preconscio attraverso il linguaggio visivo del gesto. Pertanto, «aggrapparsi a un’idea” può suggerire un’immagine della presa riflessiva del bambino che si aggrappa alla madre, pur non essendo consapevoli di alcun collegamento di questo genere. Fónagy sottolinea anche l’inverso di questo processo per cui, evocando attraverso la metafora l’azione mentale dell’aggrapparsi a un’idea, per esempio, è possibile rivivere a un livello dinamicamente inconscio parte della sicurezza incarnata del primo bonding sicuro tra bambino e madre. Questo conferisce un significato metaforico agli atti cognitivi, percepiti inconsciamente a livello del corpo. Secondo Fónagy tutte le operazioni cognitive astratte hanno un senso in cui anche l’azione fisica trova espressione inconscia. Non di rado è il significato inconscio, e non la giustificazione logica conscia dell’operazione mentale, a fornire la motivazione principale. Ciò che rende dinamicamente inconscio l’atto dell’aggrapparsi a un’idea, nella prospettiva di Fónagy, è che l’individuo che non desidera lasciare andare una convinzione è difeso rispetto alla consapevolezza della misura in cui ciò dà espressione alla paura di perdere l’oggetto. Fónagy non suggerisce che operi invariabilmente questo meccanismo nell’uso della metafora o nell’atto di cognizione (persistere in un’idea) che esprime la metafora. Nondimeno, suggerisce che l’esistenza di questo sistema di codifica del linguaggio gestuale permette l’espressione di un intento ripudiato inconscio attraverso l’impiego motivato non soltanto del linguaggio ma anche di forme di pensiero, attraverso la riesperienza momentanea non-conscia di uno stato corporeo infantile. Lakoff e Fónagy sostengono, basandosi sulla nozione di incarnazione, così come è intesa sia nelle neuroscienze cognitive sia nella psicoanalisi, che tutti gli atti mentali sono metaforici e che mediante la metafora essi sono dotati di significati fisici e astratti. L’azione del pensiero reca in sé un significato metaforico inconscio. Quando «cogliamo un’idea» potremmo provare un sentimento di benessere o di «bontà» perché inconsciamente ci riuniamo all’oggetto primario. Quando «brancoliamo alla ricerca di un significato», a livello gestuale troviamo uno spazio vuoto là dove invece dovrebbe esserci un corpo caldo, e lo stato affettivo che viene a generarsi è di vuoto. Quando «afferriamo un’idea» ci saltiamo realmente sopra, siamo eccitati e trionfanti, come un bambino che ha cominciato a gattonare e rivendica il controllo onnipotente. L’atto mentale di «resistenza» potrebbe non essere semplicemente un controinvestimento o una rimozione, semmai il gesto espressivo di respingere qualcosa che non si vuole. Come analisti ne siamo consapevoli quando ci sentiamo urtati nel controtransfert dal «rifiuto» delle nostre idee da parte dei pazienti. In 13 realtà tutti i meccanismi psicologici di difesa possono intendersi come gesti che esprimono un significato che trascende l’obiettivo da raggiungere. Il diniego implicato nell’affermazione: «Non vedo che cosa c’entra» esprime, nel linguaggio gestuale della metafora, il chiudere deliberatamente gli occhi rispetto a un aspetto della realtà fisica. Quando John Steiner (1993) scrive del ‘rifugio nella mente’, illustrando un tipo particolare di organizzazione patologica, egli descrive l’atto mentale di un gruppo di pazienti che si arroccano in posizioni mentali disagevoli per conquistare un senso di seppur illusoria sicurezza. Se tutto ciò suggerisce un terreno comune tra la psicoanalisi e le scienze cognitive contemporanee rispetto all’influenza dell’esperienza infantile sulla cognizione, dobbiamo essere consapevoli anche delle differenze e delle incompatibilità. Il linguaggio gestuale è procedurale e si basa su cognizioni implicite, esso è dunque invariabilmente inconscio. Ciò che è inconscio sul piano descrittivo, può diventarlo sul piano dinamico quando è gravato dal compito di veicolare idee inaccettabili a livello conscio in un contesto specifico. Tale sistema non conscio, le cui radici affondano nell’esperienza sensoriale infantile ha, un profondo potenziale per essere utilizzato proprio a tal fine. Ciò non significa affermare che il sistema esiste unicamente per ripresentare l’esperienza infantile; il linguaggio gestuale infatti può anche comunicare il tono affettivo dell’esperienza attuale. In taluni momenti e in taluni contesti, i significati espressi con simili mezzi possono operare in contrappunto ai significati intesi coscientemente ed essere dunque utilizzati dalla comunicazione inconscia. Il suggerimento di un linguaggio gestuale inconscio inciso nel sistema del linguaggio definito dalla convenzione sociale è intrinsecamente limitato se si parte da una prospettiva psicoanalitica, essendo sprovvisto della qualità dinamica che invece si incontra quando si prende in considerazione il conflitto, il desiderio e la fantasia. Da tali premesse derivano due conseguenze. Innanzitutto il modello così come è stato abbozzato fornisce un processo rappresentazionale che molto probabilmente riveste un ruolo nella comunicazione della fantasia inconscia, perché è un processo intrinsecamente non conscio che diventa dinamico soltanto quando le comunicazioni a livello gestuale sono in conflitto con quelle a livello di contenuto cosciente. In altri termini, il modello ha la potenzialità di essere compatibile con la psicoanalisi ma non è un modello del tutto psicoanalitico. In secondo luogo, il modello così come è presentato, non spiega il modo in cui i processi inconsci – per es., le fantasie infantili, i desideri inconsci dell’infanzia, le difese – incidono sull’emergere di questo esempio di processo cognitivo incarnato. Perciò, si potrebbe congetturare la possibilità di collegamenti più intimi con temi di interesse psicoanalitico, quali tipi specifici di vissuti sensoriali (per es., l’investimento libidico nelle zone erogene), che però non sono né espliciti né ovvi. A titolo esemplificativo, è assai verosimile che gli investimenti libidici in talune parti del corpo modificheranno i modi di codifica di quella esperienza sensomotoria (per esempio, correlata alla bocca di un lattante), ma non è affatto chiaro quanto ciò potrebbe influire sulla comunicazione affettiva mediata da gesti labiali, sebbene esistano molte ipotesi al riguardo (Fónagy, 2000). 14 Implicazioni cliniche L’incarnazione degli stili di attaccamento nel linguaggio Per i teorici dell’attaccamento sono particolarmente interessanti i meccanismi per creare continuità tra la prima infanzia e l’età adulta. Ricerche longitudinali in questo campo hanno dato risultati sbalorditivi. L’attaccamento sicuro nella prima infanzia è vigorosamente associato a narrazioni di attaccamento adulto, come ha dimostrato la previsione precisa su un arco di sviluppo di diciassette anni (Hamilton, 2000; Waters et al., 2000; Weinfield et al., 2000). Indipendentemente da questa eccezionale continuità, specie in presenza di eventi esistenziali negativi, dovremmo riconsiderare la posizione bowlbiana secondo la quale le relazioni bambino-madre e adulto-adulto potrebbero presentare una qualità simile perché sono entrambe relazioni di base sicura, e le rappresentazioni mentali dell’esperienza della base sicura possono, in vasta misura, sostituire strutture psicodinamiche in quanto meccanismi di continuità e cambiamento evolutivi. Alla luce dell’ipotesi dell’incarnazione, si potrebbe sostenere che i pattern di attaccamento non si manifestano semplicemente in strutture astratte di livello elevato, quali la coerenza del pensiero. Forse più marcatamente, l’esperienza nella prima infanzia si manifesta nel modo in cui realizziamo azioni metaforiche e virtuali sui nostri pensieri e sulle nostre convinzioni oppure sulla vita mentale in generale. Poiché il pensiero astratto evolve da uno stato corporeo, non dovrebbe sorprenderci il fatto che la cognizione serbi inevitabilmente un legame con gli atti fisici (corporei) dai quali si origina a livello di significato inconscio e di metafora. Prendiamo come esempio le narrazioni dell’attaccamento adulto. L’attaccamento nell’età adulta consiste in pattern di cognizione caratteristici (Hesse e Main, 1999; van Ijzendoorn, 1995). Questi, come è stato suggerito, si configurano nella primissima infanzia. La visione contemporanea collega l’insicurezza dell’attaccamento alle violazioni delle regole conversazionali di Grice (1975) – brillante e potente scoperta di Mary Main. Il collegamento tra «logica e conversazione» in Grice e l’esperienza dell’accudimento sintonico nella prima infanzia non può essere diretto. Se la coerenza transgenerazionale dell’attaccamento è dimostrata diffusamente (Fonagy et al., 1993), il motivo per cui le caratteristiche della narrazione materna e il pattern di attaccamento del bambino dovrebbero correlarsi non è ben compreso (van Ijzendoorn, 1995). Se è in corso un lavoro oltremodo immaginativo e interessante che specifica il comportamento materno che turba l’emergere normale del comportamento di attaccamento nel bambino (see, e.g., LyonsRuth, 2003), il modo in cui i pattern di attaccamento infantile si fanno strada nelle strutture linguistiche caratteristiche è più misterioso. Basandoci sull’accento inedito posto sulla cognizione incarnata e sul sostegno metaforico del linguaggio, proponiamo che le strutture narrative caratteristiche dei diversi 15 pattern di attaccamento insicuro (Main, 2000) riflettano, a livello di gesti metaforici, esperienze prototipiche della prima infanzia, sicure e insicure. Sono tuttavia caratteristiche della prima infanzia in un senso visivo-metaforico. Un individuo la cui storia di attaccamento è connotata dall’evitamento della figura di accudimento nella Strange Situation al momento della riunione, da adulto probabilmente sarà distanziante rispetto alle relazioni di attaccamento, come dimostrato dall’apparente indifferenza con cui le descrive. Tuttavia vi è molto più che la semplice associazione per contenuto, poiché spesso narrazioni distanzianti strutturate in modo analogo non recano un contenuto altrettanto distanziante. L’elemento costante è la semplicità della narrazione; il vuoto rispetto al mondo mentale delle persone che popolano i pensieri dell’individuo non può non colpire l’intervistatore. Enunciati quali «Non so», «non ricordo», «era normale» tendono a emergere in risposta a domande sulle esperienze della prima infanzia. È l’atteggiamento verso la vita mentale, l’evitare stesso di pensare e sentire che colpisce maggiormente nello stato mentale distanziante identificato dall’Adult Attachment Interview. Sono i gesti incarnati espressi con il pensiero che rivelano insicurezza. L’incapacità di riportare alla memoria potrebbe connotare narrazioni di attaccamento evitante-rifiutante non semplicemente per il dolore psichico insito nel ricordare o per l’assenza di valore assegnato alle relazioni passate. A livello metaforico c’è il gesto fisico del protendersi verso l’esterno che non trova nulla di concreto o di particolare, l’esperienza dell’incapacità di recuperare un’idea – dell’incapacità di afferrare il sentimento o il pensiero del passato. Il gesto del pensiero distanziante è il non aver bisogno e volgersi altrove – il vero e proprio gesto fisico del lattante evitante nel momento della riunione con la figura di accudimento. L’eccessiva valutazione dei propri pensieri e delle proprie opinioni non confermati è ciò che contraddistingue la struttura narcisistica dell’idealizzazione in un tipo di trascrizione distanziante (Ds1). La mancata soluzione delle contraddizioni in una narrazione (parlare della propria madre come figura premurosa portando poi un esempio di palese negligenza) è un gesto con cui si impedisce inconsciamente il collegamento di due cose tra loro collegate. Analogamente, il pattern di attaccamento resistente nella prima infanzia, caratterizzato da un’angoscia esagerata per garantirsi l’accudimento, è collegato nel sistema di codifica di Main e Goldwyn (1991) a uno stato mentale preoccupato rispetto all’attaccamento che di solito comporta aggressività o passività. Tra i marcatori comuni, si riscontrano enunciati incompiuti, lunghi o intricati. Il gesto qui espresso è quello della necessità di aggrapparsi, senza però trovare appagamento. Perdere il filo della domanda dell’intervista, divagare su argomenti irrilevanti, è il gesto mentale che esprime un sentimento di smarrimento o forse l’atto stesso dello smarrirsi. La perdita si esprime anche a livello di linguaggio gestuale quando chi ascolta e chi parla si smarriscono nella narrazione: «Scusi, ho perso il filo. Qual era la domanda? Me la può ripetere?» La rabbia, rivolta all’intervistatore, è la caratteristica di una sottocategoria di simili interviste. A livello di gesto mentale, il racconto accenna al colpire e al tirare, al non lasciare andare, 16 intessendo una rete aggrovigliata di rimostranze intorno alla figura di attaccamento, lottando e respingendola ma anche impedendo la possibilità di separazione. I racconti dell’attaccamento sicuro sono dotati di un linguaggio cognitivo-gestuale proprio. Le regole conversazionali di Grice assicurano che colui che parla e colui che ascolta sanno entrambi dove si trovano in relazione all’altro, senza alcun rischio di scomparire dalla vista dell’altro. Le aspettative sono soddisfatte. Circola una sensazione appagante di compimento o di ‘rotondità’ rispetto alla narrazione, a tutti i suoi livelli. Le frasi sono compiute, semplici e mantengono vivo l’interesse di colui che ascolta. Il gesto è indubbiamente un gesto di contenimento sicuro, che indica che si sa che cosa ci si aspetta e ciò che ci si aspetta accade lasciandosi così conoscere. Al contempo, coloro che ascoltano sono liberi di formare le proprie associazioni e il proprio punto di vista, equivalente al modo in cui il bambino, in una relazione sicura, può muoversi liberamente tra «il rifornimento» con il genitore e l’esplorazione del mondo, come Mahler ha descritto magnificamente (1968). Non rivendichiamo alcuna innovazione. Lo scopo di presentare questi aspetti speculativi non è quello di creare uno schema di decodifica rivale. Anzi lo schema di codifica sembra riflettere una consapevolezza inconscia, da parte dei suoi fautori, rispetto al modo in cui l’esperienza di attaccamento infantile si riflette nelle narrazioni adulte attraverso la struttura metaforica del linguaggio. A quel livello le esperienze della prima infanzia sono rappresentate nel modo in cui manipoliamo la nostra mente per creare gesti mentali che rievocano i momenti formativi dei primi anni di vita. Il linguaggio della psicoanalisi Naturalmente, come psicoanalisti abbiamo fin da principio impiegato il linguaggio (talvolta con qualche imbarazzo). Gli aspetti metaforici dell’architettura della vita mentale non ci sono nuovi. Forse però consideriamo coscientemente le implicazioni istintuali di tali gesti mentali soltanto di rado. Un aspetto inconscio di ogni scambio terapeutico è il modo in cui manipoliamo i pensieri e le idee dei nostri pazienti. L’atto di operare un reciproco raccordo tra le idee nel corso del lavoro analitico più superficiale, a livello inconscio, potrebbe essere vissuto come un’operazione di unione di varie parti del Sé. Invitare i pazienti ad esplorare le idee, trovare significati alternativi, scrutare dietro l’associazione immediata ed elaborarla sono azioni mentali dotate di un significato a livello gestuale – per esempio, l’azione di trovare un significato recondito implica licenziare, buttare via ma anche rinvenire. Indipendentemente dal contenuto della nostra interpretazione, la struttura logica formale delle nostre considerazioni sul pensiero dei pazienti si collega a significati profondamente sepolti che riguardano le loro esperienze corporee dei primi anni di vita, che precedono l’acquisizione del linguaggio di mesi e non di anni. Ciò accade secondo modalità che non conosciamo né siamo in grado di seguire, a prescindere dagli sforzi che magari vi dedichiamo. Molti, in momenti diversi della storia della psicoanalisi, si sono interrogati sulla possibilità che un processo terapeutico puramente basato sul linguaggio raggiunga 17 esperienze tanto profondamente preverbali da non avere alcuna rappresentazione nella memoria autobiografica (Fonagy, 1999). La nostra ipotesi è che attraverso il linguaggio gestuale della cognizione metaforica possiamo attivare esperienze sepolte profondamente, non necessariamente legate strettamente al materiale che sembriamo discutere a livello di contenuto. Come può avvenire ciò? Forse non soltanto attraverso il contenuto delle nostre parole. Fónagy elabora il suo modello ben al di là del linguaggio gestuale della metafora. Le espressioni prosodiche, quando considerate come movimenti melodici, si rivelano espressive anche a causa degli stati e dei movimenti corporei di holding, di rifiuto o addirittura di percosse che evocano. «Il contenuto di cui le caratteristiche prosodiche sono portatrici è non concettuale; riflette emozioni e atteggiamenti di complessità variabile, quel “nocciolo originario” inaccessibile al linguaggio» (Fónagy, 2000, 136-137). Ancor più profondamente inconsce sono le strutture sintattiche che veicolano il significato per mezzo dell’allusione al gesto e allo stato corporeo. Rivisitare la psicoanalisi e l’attaccamento Proponiamo dunque che psicoanalisi e teoria dell’attaccamento possano unirsi nel dominio del pensiero incarnato. Il riconoscimento clinico e teorico del pensiero incarnato risale alle origini della psicoanalisi, all’interno della quale la consapevolezza del pensiero incarnato si è dapprima concentrata sulle azioni corporee collegate alle azioni orali (succhiare, morsicare, digerire, espellere), a quelle sessuali (penetrazione, castrazione), a quelle aggressive (attaccare, percuotere, svuotare, e così via). Si tratta di azioni correlate al comportamento istintuale legato alle pulsioni, che un tempo è stato oggetto di grande interesse per la psicoanalisi. La teoria dell’attaccamento della prima infanzia può essere utile a decodificare il significato inconscio di alcune altre esperienze formative – le esperienze di intimità e sicurezza – illustrate nel linguaggio gestuale discernibile nelle strutture del pensiero. Siamo attaccati alle idee perché, sviluppando un attaccamento nei loro confronti, possiamo risperimentare le qualità corporee del primo legame (bonding). La cognizione incarnata permette il manifestarsi di sentimenti libidici e di sentimenti di attaccamento, oltre a una serie di altre preoccupazioni inconsce (preoccupazioni relazionali, esperienza del Sé ecc.), attraverso il gesto, il linguaggio, l’adesione ad una convinzione, e così via, dando espressione all’affetto provato in quel momento. Questa cognizione e questa espressione rimandano alla continuità delle strutture evolutive a livello inconscio – continuità che tuttavia avviene non attraverso una causazione lineare bensì l’eco evocativo di uno stato emotivo attuale. I nostri atteggiamenti nei confronti delle teorie scientifiche potrebbero essere tanto espressioni inconsce di pattern infantili altrettanto profondamente colorate dall’incarnazione della mente quanto frasi di buon senso o «gesti del pensiero» nell’Adult Attachment Interview. Il pensiero astratto e la logica ci aiutano soltanto fino ad un certo 18 punto a comprendere la storia della nostra scienza. Le strutture figurative e analogiche del pensiero sono utili per capire perché talvolta non possiamo lasciare andare. Se viene attivato il sistema di attaccamento e ci sentiamo insicuri sul piano corporeo fondamentale, avremo particolare difficoltà a lasciare la nostra mente esplorare in libertà. Ci aggrappiamo ancor più rigidamente alle nostre credenze e al nostro bagaglio di conoscenze che, se fossimo in un assetto mentale diverso, saremmo in grado di giudicare viziate, parziali o che richiederebbero una revisione. Conclusioni In questo articolo ci siamo proposti di non limitarci ad una rassegna della relazione tra idee psicoanalitiche e teoria dell’attaccamento. I punti principali si possono così sintetizzare: (1) Tra gli psicoanalisti circolava la preoccupazione fondamentale che Bowlby si fosse allontanato troppo rapidamente dal corpo e dalla mente inconscia, per aderire a un costrutto strettamente definito relazionale, quello dell’attaccamento. (2) In un senso avevano ragione; secondo la Weltanschauung delle scienze cognitive emergenti, si era spostato troppo frettolosamente verso le strutture astratte di una mente sprovvista di corpo, un «software» indipendente dall’«hardware», presentando così una teoria dell’attaccamento troppo distante e separata dalle sue radici nel nucleo emozionale dell’infante umano in stati di angoscia. (3) L’abbandono di una scienza cognitiva che separava il corpo e la mente, in favore di una in cui la mente è considerata incarnata, pone in rilievo aspetti della soggettività che i cognitivisti e i teorici dell’attaccamento tradizionali non hanno colto ma verso i quali sono stati sensibili generazioni di psicoanalisti: il processo primario del pensiero o il metaforico/concreto. (4) La natura del pensiero e dei suoi intimi legami con la metafora serve da esempio di questa rappresentazione fisica di un’astrazione mediante un’esemplificazione concreta (instantiation). Si può infatti sostenere che la metafora si fonda su una logica fisica, la creazione di un nuovo significato attraverso l’indicare il simbolo fisico del gesto. (5) Oltre ad essere comprensibile dalla prospettiva di una struttura non-conscia sottesa, il pensiero metaforico esprime dinamicamente le idee inconsce. (6) L’attenzione posta su questi significati inconsci può illuminare la natura delle relazioni riattualizzate attraverso l’uso del linguaggio, non soltanto a livello di metafora linguistica ma anche attraverso l’uso metaforico della sintassi, della prosodia e della fonazione. (7) Desideriamo richiamare l’attenzione al modo in cui lo stile nel linguaggio, nel pensiero e nelle relazioni può essere determinato da un sistema di codifica sotteso e unificante delle immagini incarnate o memorie procedurali di esperienze radicate nell’esperienza corporea. Abbiamo suggerito che sia gli stili linguistici sia le stesse strutture cognitive possono essere considerati degli esempi di incarnazione. Potrebbe trattarsi di un’area feconda per la nuova generazione di ricercatori dell’attaccamento e di psicoanalisti clinici da esplorare più approfonditamente nell’ambito degli studi delle narrazioni o del linguaggio correlati all’attaccamento nella stanza di analisi. (8) In consonanza con coloro che hanno contribuito 19 nel contesto della psicoanalisi classica, abbiamo ipotizzato che le stesse strutture cognitive possano essere viste come esempi di incarnazione. Le manipolazioni mentali o i movimenti del pensiero possono essere metaforici oppure esprimere inconsciamente il vissuto infantile, esattamente come qualsiasi prodotto della mente. (9) Un’applicazione ipotetica di tali idee consiste nel considerare la natura della controversia scientifica in generale e forse anche di quella sorta tra teoria dell’attaccamento e psicoanalisi. Può darsi che la teoria dell’attaccamento, sotto l’influsso delle neuroscienze, si riaccosti a quel corpus teorico che la psicoanalisi non ha mai abbandonato. La teoria dell’attaccamento e la psicoanalisi potrebbero avvicinarsi sempre più tra loro e forse, nell’arco di qualche anno, la teoria dell’attaccamento rientrerà in seno alle idee psicoanalitiche, mano a mano che la psicoanalisi ristabilirà la propria posizione come la principale neuroscienza della soggettività. Ma questo è per il futuro. Il nostro modesto appello in questo scritto è che noi, scienziati e clinici, dovremmo conservare la consapevolezza del significato inconscio che attribuiamo al nostro modo di pensare, compreso quello di pensare alle nuove idee, tra cui naturalmente quelle presentate qui. SINTESI La relazione tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento è assai complessa. Una breve rassegna della recente letteratura psicoanalitica mostra come all’interno della psicoanalisi vi sia un crescente interesse per la teoria dell’attaccamento. Oggi le neuroscienze cognitive di seconda generazione sono alla ricerca di dati neurobiologici attendibili che diano conto di come i legami tra cervello e corpo possano modellare la mente e la coscienza. Fenomeni, questi ultimi, che sono sempre più visti come “incarnati”. Vale a dire come emergenti o rispondenti ai bisogni di una entità fisica collocata in un tempo, in un luogo e in un contesto dato. Questa idea sta al centro di buona parte del pensiero psicoanalitico che ha storicamente sostenuto la tesi del radicamento del pensiero simbolico nella esperienza degli oggetti, dal punto di vista sensoriale, emozionale e dell’azione (enaction). BIBLIOGRAFIA Belsky J. (1999). Modern evolutionary theory and patterns of attachment. In Cassidy J., Shaver P.R. 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