Traslazione-traduzione di testi letterari_di Aldo

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Traslazione-traduzione di testi letterari_di Aldo
Piccoli problemi di traslazione culturale nella traduzione letteraria
Aldo Magagnino
La traduzione di testi letterari, specialmente, ma non solo, di scritture appartenenti a contesti
linguistici e culturali molto diversi come, ad esempio, le letterature postcoloniali, presenta la sfida
di riuscire a preservare i tratti culturali e linguistici specifici e identitari, per evitare una
colonizzazione, una naturalizzazione del testo nella lingua e nella cultura d’arrivo che farebbe
violenza alle forme linguistiche e culturali del testo d’origine.
Come sappiamo, la traduzione è sempre un tentativo di appropriazione che mira a trasportare a casa
propria, nella propria lingua, nella maniera la più “rilevante possibile, il senso più proprio
dell’originale”, per dirla con Jacques Derrida. Si tratta di una sfida che il traduttore raccoglie “in
una lingua e giura di renderla nell’altra,” solo apparentemente distruggendo il corpo dell’originale,
in realtà ricomponendolo e assicurandogli la sopravvivenza al di là della (e oltre la) lingua originale,
una sopravvivenza doppia (o multipla).
Il traduttore si trova spesso a dover attuare un processo di mediazione continua, nel corso del quale
tenta di perdere il meno possibile e di guadagnare il massimo. Il risultato è quasi sempre un
temporaneo equilibrio, dato dalle convinzioni e conoscenze del momento, spesso dalla condizione
personale del momento. Un punto di negoziazione, spesso faticosamente raggiunto, che però potrà
sembrare, a distanza di tempo, un accordo non equo. Il traduttore è, comunque, chiamato ad operare
delle scelte, tentando di preservare, nella fedeltà al testo, al lessico, alla sintassi, anche gli elementi
essenziali della scrittura.
A volte si tratta di preservare lo stile e il ritmo di certe narrazioni ed è un compito relativamente
facile, in quanto lo stesso testo aiuta, con la punteggiatura e la struttura dei paragrafi e della frase. In
questo caso risulta anche importante, come sempre, la scelta del lessico.
Si veda, ad esempio, questo, passaggio dal racconto “Swans” (“Cigni”) di Janet Frame. Qui mi pare
che l’elemento fondamentale sia lo stupore dei bambini che osservano dal finestrino il susseguirsi di
scene che si presentano ai loro occhi, mentre il treno attraversa veloce la campagna australiana
diretto verso il mare, il ritmo delle rotaie, i gesti e le procedure alle fermate, in contrasto con il
silenzio e l’immobilità della scena una volta che il treno giunge a destinazione. Il tutto è narrato da
un narratore onnisciente ma attraverso gli occhi, le parole, le impressioni e le espressioni tipiche dei
bambini:
O the train and the coloured pictures on the station, South America and Australia, and the bottle of fizzy
drink that you could only half finish because you were too full, and the ham sandwiches that curled up at
the edges, because they were stale, Dad said, and he knew, and the rabbits and cows and bulls outside in
the paddocks, and the sheep running away from the noise and the houses that came and went like a dream,
clackety-clack, Kaitangata, Kaitangata, and the train stopping and panting and the man with the stick
tapping at the wheels and the huge rubber hose to give the engine a drink, and the voices of the people in
the carriage on and on and waiting.
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The train stopped with a jerk and a cloud of smoke as if it had died and finished and would never go
anywhere else just stay by the sea though you couldn’t see the water from here, and the carriages would
be empty and slowly rusting as if the people in them had come to an end and could never go back as if
they had found what they were looking for after years and years of travelling on and on. (Janet Frame,
“Swans”, The New Zealand Short Story Collection, University of Queensland Press, St Lucia, Australia 1990)
Oh, il treno e i manifesti a colori nella stazione, Sud America e Australia, e la bottiglia di bibita gassata
che non riuscivi a bere tutta perché eri già troppo piena e i tramezzini al prosciutto che si piegavano
all’estremità perché erano raffermi, diceva papà, e papà sapeva, e i conigli e le mucche e i tori nei recinti
e le pecore che correvano spaventate dal rumore e le case che comparivano e sparivano come in un sogno,
clacchete-clac, Kaitangata, Kaitangata e il treno che si fermava ansimando e l’uomo con la mazza che
batteva sulle ruote e l’enorme tubo di gomma per dare da bere al treno e nella carrozza le voci della gente
che aspettava.
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Il treno si fermò con un sobbalzo e una nuvola di fumo, come se fosse morto e finito e che non sarebbe
più andato da nessun’altra parte ma sarebbe per sempre restato lì, vicino al mare anche se da lì non si
riusciva ancora a vedere l’acqua, e le carrozze sarebbero rimaste vuote ad arrugginire lentamente come se
la gente là dentro fosse arrivata alla fine e non potesse più tornare indietro, come se avessero finalmente
trovato ciò che stavano cercando dopo anni e anni di continuo viaggiare. (Janet Frame, “Cigni”, Le Gloriose
Tradizioni del Pacifico, a cura di A. Magagnino, Edizioni Controluce, Nardò 2013)
Possono, però, spesso comparire espressioni e termini caratterizzanti la cultura del testo di partenza,
espressioni o termini che non hanno un preciso corrispondente nella lingua d’arrivo, né sarebbe
possibile, direi addirittura non sarebbe “onesto”, operare delle forzature utilizzando termini ed
espressioni tipici di situazioni analoghe nella lingua d’arrivo, perché il rischio è quello di snaturare
il testo, facendogli perdere la sua caratteristica di “altro”, di esotico, se vogliamo.
Nel passaggio che segue, ad esempio, tratto dal racconto “A Nightsong for the Shining Cuckoo”
della neozelandese Keri Hulme, sono state lasciate in lingua originale maori alcune espressioni così
come apparivano nel testo s’origine perché il significato o è chiarito dal contesto o è spiegato subito
dopo.
“Kaore. Ko Te Pipiwharauroa tona ingoa”. Old lady: “Kaore noa iho! Penei mete pipiwharauroa, ne?”
And they sniggered. Your Maori is good enough to follow that?
“Nope.”
“OK, his given name is Te Pipiwharauroa. There’s an old saying, Penei me te pipiwharauroa, which is a
polite way of saying a child is a bastard, you know, a cuckoo’s child laid in some other bird’s nest.” (Keri
Hulme, “A Nightsong for the Shining Cuckoo”, Te Kaihau - The Wind Eater, Victoria University Press, Wellington, NZ 1992)
“Kaore. Ko Te Pipiwharauroa tona ingoa”. La vecchia: “Kaore noa iho! Penei me te pipiwharauroa,
ne?” Ridacchiarono. Il tuo maori è abbastanza buono da seguire?”
“No.”
“Ok. Il suo nome di battesimo è Te Pipiwharauroa. C’è un vecchio detto, Penei me te pipiwharauroa, che
è un modo carino per dire che un ragazzo è un bastardo, sai il pulcino del cuculo nel nido degli altri
uccelli. (Keri Hulme, Canto Notturno per il Cuculo Splendente, Le Gloriose Tradizioni del Pacifico, op cit.)
Lo stesso può dirsi per quest’altro passaggio tratto da “In Our Circle” di Sia Figiel, una delle più
note scrittici delle isole Fiji.
Moa’s family ate kale pisupo last night. The kind made with coconut milk and diced potatoes. They’re the
only family in Malaefou that does it that way. With a large bowl of rice. (Sia Figiel, “In Our Circle”, The Girl in
the Moon Circle, Mana Publications, Raiwaqa, Suva, Fiji 1996)
La famiglia di Moa ieri sera ha mangiato pisupo. Quello fatto con il latte di cocco e patate a dadini. Sono
l’unica famiglia a Malaefou che lo faccia così. L’unica. Con una grande ciotola di riso. (Sia Figiel, “Nel
Nostro Circolo”, Le Gloriose Tradizioni del Pacifico, op. cit)
In altre situazioni, invece, la soluzione più conveniente sembra quella di utilizzare una breve
espansione del testo per chiarire un termine o un’espressione che per il lettore della lingua d’arrivo,
il lettore italiano in questo caso, potrebbe risultare incomprensibile, nonostante oggi internet aiuti
molto nella ricerca del significato di termini esotici.
Si vedano, ad esempio questi due brevi passaggi tratti da “A Card of Games” del neozelandese Witi
Ihimaera.
Eeee! You cheat! Nanny would say. You just keep your eyes to yourself, Maka tiko bum!
………………………………………….
… I was her favourite mokopuna … (Witi Ihimaera, “A Game of Cards”, The New Zealand Short Story Collection, op. cit.)
Eeee! Bara,” esclamava la nonna. “Tieni gli occhi sulle tue carte, Maka tiko bum, Maka culo sporco.
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… ero il suo mokopuna preferito, il nipotino prediletto… (Witi Ihimaera, “Una Partita a Carte”, Le Gloriose
Tradizioni del Pacifico, op. cit.)
E questi altri tratti dal racconto della già citata Sia Figiel.
Topu who tells everyone what they’re having. Which she really doesn’t have to. Since everyone knew just
by listening to their loku.
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In the hopes that ….. the other family … would send someone over with a mealelei. Since Tomasi has not
been lucky at the nets this whole week. And we were having a saka kaamau again. With lemon leaf tea.
(Sia Figiel, “In Our Circle, ”op. cit.)
Tupu che dice a tutti che cos’hanno mangiato e non ne avrebbe bisogno. Poiché lo sanno tutti. Basta
ascoltare il loro loku, le loro preghiere.
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Nella speranza che … un’altra famiglia … mandasse qualcuno con un mealelei. Poiché Tomasi non ha
avuto fortuna con le reti per tutta la settimana e mangiavamo nuovamente saka ka’amu, radici di
colocasia, bollite con foglie di limone. (Sia Figiel, “Nel Nostro Circolo,” op. cit.)
Nell’ultimo passaggio, si è operata un’espansione solo per l’espressione “saka ka’amu”, ma non per
“mealelei”, in quanto dal contesto era chiaro che questo termine indicava del cibo recato in dono
alla famiglia bisognosa.
Sostanzialmente si tratta di una tecnica che tutti i traduttori conoscono e che era stata utilizzata
anche da Italo Calvino nella traduzione di Les Fleures Bleues di Raymond Queneau (I Fiori Blu,
Einaudi, I Nuovi Coralli, Torino 1973). Di fronte alla necessità di rendere in italiano la frase “C’est
à vous, s’il vous plaît, que le discours s’adresse, ” una citazione da Molière, Calvino la lascia tale e
quale, in francese, aggiungendoci l’indicazione della fonte che, come spiega nella postfazione,
“solo per il lettore francese può considerarsi sottintesa.” Nel testo italiano la frase in questione
appare quindi così articolata:
“C’est à vous, s’il vous plaît, que le discours s’adresse, ” – dice il passante a Cidrolin, citando
Molière, Le Misanthrope, Atto I, scena II”
Il problema, infatti, si presenta, ed in modo più sottile, specialmente quando si traducono testi nei
quali il tratto identitario non è chiaramente visibile, ma è nascosto in una narrazione che contiene
citazioni, parafrasi, metafore o altre figure retoriche che, per il lettore della lingua nella quale il
testo è stato originariamente redatto dall’autore, sono immediatamente percepibili come tali ed
associate a rimandi familiari e significati condivisi. Ma tali espressioni risulterebbero, in molti casi
del tutto incomprensibili per il lettore della lingua d’arrivo, senza una “mediazione” da parte del
traduttore, una mediazione che si tenti di rendere la meno invasiva possibile, la meno “visibile”.
Può servire, come esempio, il caso delle opere di Michael Wilding, uno dei più acclamati narratori
australiani ma che ha anche avuto una brillante carriera accademica nelle università di Sydney,
Birmingham e Los Angeles. Ed è proprio questo che rende la sua scrittura particolarmente
interessante, perché Michael Wilding trasferisce nei suoi romanzi la propria esperienza accademica
e di grande studioso della letteratura inglese in modo del tutto naturale, spesso “nascondendo” nel
testo citazioni e parafrasi dai classici inglesi, ma senza mai rivelare direttamente da dove
provengano. Si veda, ad esempio, nel romanzo Wild Amazement, il rigo finale del capitolo
introduttivo “Something Else”, che Wilding utilizza come una sorta di prologo dei grandi poemi
classici, nei quali si anticipano gli eventi che verranno successivamente narrati:
… Sidney was an Oxford man, however briefly. Our muse. Builder of our nest of singing birds. Only
begetter of our epigraphic line, our work’s motto, our shield’s impresa.
I am not I, pity the tale of me. (Michael Wilding, Wild Amazement, Central Queensland University Press, Rockhampton,
Queensland, Australia. 2006)
Qui, anche per l’accenno a Sir Philip Sydney, per un lettore di lingua inglese di media cultura la
citazione da Astrophil and Stella (ultimo verso del sonetto 45) risulterebbe facilmente riconoscibile,
ma un lettore italiano sarebbe in seria difficoltà, anche perché, nel periodo in cui ho tradotto il
romanzo, non c’era ancora in italiano una traduzione di Astrophil and Stella. Mi è sembrato, quindi,
necessario dare una pur minima indicazione a un lettore che non solo era probabile non conoscesse
Sidney, ma che difficilmente poteva anche aver mai sentito nominare la lunga sequenza di sonetti e
canzoni che costituiscono Astrophil and Stella.
… Sidney fu un uomo di Oxford, anche se per poco. La nostra musa. Il costruttore del nostro nido di
uccelli canterini. L’unico autore del nostro verso epigrafico, il motto del nostro lavoro, l’impresa sul
nostro scudo.
‘Se non io, vi muova a compassione il racconto mio,’ aveva scritto Sir Philip in Astrophil e Stella.
(Michael Wilding, Con Folle Stupore, trad. A. Magagnino, Edizioni Controluce, Nardò 2008)
Inoltre, come si vede, nel testo inglese la citazione era “I am not I, pity the tale of me”. La fedele
traduzione in italiano della prima parte del verso, “Io non sono io”, poteva risultare senza senso o
comunque difficilmente comprensibile e sono ricorso, d’accordo con l’autore, ad una diversa
edizione che Sidney aveva pubblicato di Astrophil and Stella, nella quale il verso in questione
appare così modificato: “If not me, pity the tale of me” e meglio si prestava ad essere reso in
italiano.
Più avanti, nel capitolo “Symposium” due personaggi che partecipano ad un convegno letterario,
salgono su un pullman per prendere parte ad un’escursione e, appena saliti sul mezzo ancora vuoto,
uno dei due esclama:
“The seats lay all before them, where to choose their place of rest and Providence their guide, said the
smiling man.” (Michael Wilding, Wild Amazement, op. cit.)
Qui non si tratta di una citazione, ma di una parafrasi dei versi conclusivi del Paradise Lost di John
Milton (“The world was all before them, / where to choose thir place of rest, / and Providence thir
guide”) e, pur non presentando, in questo caso, alcuna difficoltà di traduzione, l’allusione sarebbe
del tutto sfuggita al lettore italiano senza una sommessa intromissione da parte del traduttore:
“A sé dinanzi avean tutti i sedili, ove un luogo sceglier di riposo, e loro guida era la Provvidenza.’ disse
l’uomo sorridente, parafrasando l’epilogo del Paradiso Perduto.” (Michael Wilding, Con Folle Stupore, op. cit.)
In conclusione, potremmo dire che il traduttore trasferisce spesso nel testo d’arrivo non solo le
tecniche tipiche del mestiere, ma anche informazioni ed emozioni che derivano dal proprio vissuto e
dal tipo di formazione che ha avuto, elementi senza i quali tanti testi tradotti non avrebbero forse
avuto la fortuna che li ha accompagnati.