00 Capitolo 00 - Saturno Carnoli

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dedicato alla memoria di Pier Paolo D’Attorre
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Elios Andreini
Saturno Carnoli
CAMICIE
NERE
di Ravenna e Romagna
TRA OBLIO E CASTIGO
Edizioni Artestampa
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Nel licenziare queste pagine, gli autori desiderano ringraziare: il dott. Roberto Petullà, funzionario
di Cancelleria del Tribunale di Ravenna che diligentemente ha ritrovato le Sentenze della Corte
Straordinaria d’Assise di Ravenna (1945/47), consentendo il lungo lavoro di fotocopiatura dei fogli
originali; Marianna Carnoli, per la perseveranza profusa nella trascrizione digitale di tutte le sentenze originariamente scritte a mano, sessant’anni fa, da funzionari diversi, spesso con una grafia
impossibile, e con inchiostri post bellici molto allungati. Si ringraziano in fine Paola Penzo, Gian
Luigi Melandri e i direttori degli Istituti Storici della Resistenza che ci hanno permesso di completare
la ricerca: a Ravenna Giuseppe Masetti, a Forlì Vladimiro Flamigni, a Verona Maurizio Zangarini,
a Torino Luciano Boccalatte.
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INDICE
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Prefazione di Mimmo Franzinelli
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LE DUE LIBERAZIONI
Dicembre 1944. Aprile 1945
Ora si può fare giustizia anche a Ravenna
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IN NOME DI SUA ALTEZZA REALE
“La Santa Milizia”, per la prima seduta
Un vecchio ed un figlio di squadrista
Nell’attesa
Da Torre Pedrera alla Classense
Giovani e giovanissimi
Le “fascistone”. Capelli al vento
L’istigatrice
Abbandonata due volte
La levatrice di Solarolo
Il giallo dello Jutificio
Impiegate pubbliche, dipendenti tutto fare, vivandiere, amanti:
collaborazioniste generiche o spie?
In cerca di radicchi
Maestra spia?
Un caso a sé. La sfortuna di chiamarsi Maltoni
Reduci di guerra e nuovi coscritti
Il Palazzone
Il figlio del barbiere
Una giornata di riposo
Come sopra
Il venditore di formaggi
Dopo la catarsi
L’area di Faenza
Alcune storie di Faenza e dintorni
Di nuovo nel faentino
Ravenna sud
Tra il Lamone e il Reno
La suddetta area in Tribunale
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Uno svincolo sfortunato
Da Savarna a Mezzano. Tra botte e spiate
I fratelli Siboni
Traversara e Villanova
La Capitale
Buda Sante
Ravennati in funzioni varie. Teatranti e seduttori
Torniamo ai fascisti di città
“Un bucalon” in gita?
A gambe!
L’U.P.I.
Sempre a Porta Aurea
Libertà
Un nobile in campagna
Ravenna e il mare
Le Ferrovie
Lugo, il cuore della Romagna
Squadrista prima e dopo
“Camerata ferroviere”
Da autista negli eccidi
Un Triunviro
Demetrio il ritardatario
Dal Campo di prigionia di Coltano
Da Ca’ Lugo
Un caso da ricordare
Uno studente ed un analfabeta
L’area più pericolosa: Alfonsine, Conselice, Fusignano, Massalombarda
Un caso minore
Una storia particolare
In piena estate
Per un po’ di sigarette
Da Cervia ad Alfonsine
La vendetta del calzolaio
Massalombarda, 19 maggio 1944
Le tentò tutte, ma…
Da Arsiè ad Arsiè, via Lavezzola
Vestito da donna... 2 giugno1944
Il dottor Ellero da Modigliana (Forlì)
Con tessera da partigiano
“Guardia del Duce”
Sempre in fuga
L’ebanista da Forlì
Barbiano di Cotignola. In cerca di donne
Solarolo. Caccia all’uomo in piazza
Un calzolaio in veste di barbiere
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Santa Lucia o Santa Sofia?
“Se non cominciamo a prendere…”
Sarto e portaferiti
L’entusiasmo dei giovanissimi
La transumanza
Postino o raccoglitore di “tacchine” ?
Falchi e colombe a Faenza
La Brigata Nera di Faenza
Un ex Guardacaccia di Ravenna
Animosità d’antica data o testimonianza credibile?
Cariche fantasma
Dal Lussemburgo a Ravenna
Tra il Ronco e il Montone
Cuore di mamma
Nero da sempre
Un trio male assortito
Fascisti di una volta
Ragazzi allo sbando
Una gaffe dell’accusa
Le due tessere
“Mi manca uno di Ravenna”
Un giocatore di Fusignano
“Piccolo e dal naso storto”
Contabile, sempre
Un imbianchino custode ed accompagnatore
Un faentino tra Cotignola e Solarolo
Due cadaveri, due imputati
Mister 2%
Il farmacista di Ravenna
Vita quotidiana nei rifugi
Un riso sardonico
A casa in moto “Gilera”
Il declino del CLN e la lotta politica
Polemiche incrociate
Natale di fuoco
I soldi per la fuga
Bagnacavallo, un’isola di pace
Il caso e la morte. Villanova di Bagnacavallo
Via Aguta
Dall’altra parte del fiume Lamone
Una tragica partita. Russi
Un cuciniere in movimento
Da Tredozio a Modigliana, a Baireuth
Da Forlì a Cervia
Di equivoco in equivoco
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Incredibile
Un autista di tutto rispetto
Un bottaio di Lugo
Da S. Agata
Dalla Questura alla Questura
Una curiosità più grande
Ponte degli Allocchi
Giovanni Gamberini, a parte
Bisogna rassegnarsi
Un paradosso della legge
Vicchi Giovanni, presidente
Vantaggi e svantaggi di essere fratelli
Finalmente un po’ di date
Mario Gordini
Un ragazzo del ‘99 di S. Agata sul Santerno
Arnaldo da Faenza
Due detenuti e due latitanti
Da S. Pietro in Vincoli a Carraie
Basta e avanza
Torniamo al mare, a Cervia
Di professione saccheggiatore
Il dott. Sgarbi Lorenzo di Alfonsine
L’ultima divisa?
Compagni di scuola
Commissario Prefettizio a Conselice
La caduta delle imputazioni
Un personaggio chiave
Arcieri di Ravenna
1921 o 1922, in Lugo
Rubboli di Ravenna, informatore dei fascisti o dei partigiani?
Dalla Valle del Santerno alla Valle del Senio
Boschi di Faenza. Al manicomio o al poligono di tiro
Due verità opposte. La Neva e Frida
Un faentino giovane e violento
Il giovanilismo fascista
Geminiani di Faenza. A morte!
Mazzotti di Ravenna. A morte!
A zonzo per le osterie e per il paese
Dalla vicina e remota Comacchio
A ventaglio
Da Corte a Corte
A tempo pieno
Orchideo di Ravenna
Saccheggio della Saccheria Ravennate
Un giallo del Borgo S. Rocco
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Doppio processo
Pro memoria
Da Ravenna a Domodossola
Non era Gervasio
Una questione di diritto
Faenza è in Romagna
Tre siculi in terra di Romagna
Dalla Rocca delle Caminate al Lago di Garda
L’obiezione del Pubblico Ministero
Tre donne e un Casanova
Della Cava e Giacometti di Lugo
Agostino detto Alieto
Tre polesani
Due casi semplici
Ci penso io
Non aspettò il 1944
Madre e figlio, di Lugo
Un latitante di nome Tartaul
Un latitante più fortunato
Un latitante di Casola
In nome di Sua Maestà Umberto II, Re d’Italia
Il Capo Provincia
4 latitanti e 4 detenuti
Ferretti di Conselice
Un nastro nei capelli
Latitante per così poco
“ Quando verremo fuori …”
Una vita da carceriere
La vendetta dello studente
Gramigna di Riolo Bagni
Qualche novità
Tosi di Faenza
Geminiani di Massalombarda
Bertulli di Conselice. A morte!
Garotti di Lugo. A morte!
Amici di mensa
Ancora su Cervia
Il latitante Bacchetta
Il rebus di Russi
Una catena di equivoci
“Tunin d’Pezpan”
Chi entra e chi esce
Il “Quarto” del Polesine
La parola alla fidanzata
Frumento da Porto Corsini
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La testimonianza di una sfollata
S. Maria in Fabriago
Una doppia dimenticanza
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L’amnistia
Lo spionaggio: dall’OVRA all’Ufficio Politico Investigativo, alla Gestapo…
L’OVRA
Renier di Massalombarda, a processo
I primi frutti del Decreto di amnistia
Al limite
Non era nessuno
Non era lui
Le disgrazie dei Matteucci di Massalombarda
Elisabetta più dieci
Il vecchio Raffaeli
La fortuna di chiamarsi Natale
Nato sotto l’Aquila Asburgica
Giovane, ma abile
“Ombra”
Un vero autista e non solo
Comandante, Questore, Capo Provincia: Guido Guidi
Il più violento di Modigliana
A vantarsi!
Un veterano
I fratelli Sangiorgi di Lugo, latitanti
Contro e a favore della Brigata Nera di Faenza
Stesso reparto, stessi misfatti
O prima o dopo
Orsini di Lugo
Reggi di Lugo
Il Commissario Prefettizio di Solarolo
Nella parrocchia di Scaldino
Alpi di Casola Valsenio
Da Guastalla a Conselice
Il “Califfo” di Lugo
Amadei Guido di Ravenna
Morigi Lino di Ravenna
Uno dei Dal Pozzo
Soldi e sangue
Il delitto di via S. Mama a Ravenna
Sangiorgi Pasquale di Casola Valsenio
Il figlio del Podestà
Una lunga vacanza
“Bucci” di Lugo
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Un Colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana
Arnaldo da Faenza
La testimonianza di una gamba
Spero di Ravenna
Dalla Corte di Assise di Ferrara
Un macabro spettacolo
Da Montecchio Emilia a Conselice
Un originale Commissario Prefettizio a Bagnacavallo
La Norma di Faenza
Saccheggi in città
Un autosaccheggio?
16 ottobre 1944
Suggerimenti controproducenti
Parti Civili
Da libero
Da latitante
Pomi Afro di Casola Valsenio
Camanzi, un verniciatore di Lugo
Un altro Raffaeli
Basigli di Ravenna
Imputato latitante?
Quante voci!
Nell’altalena dei criteri
Dove, come, quando
Dalle Brigate Nere alle SS
Il vecchio Mattioli di Casola. Un caso unico
Mariani Franco di Ravenna
Una “cilecca” provvidenziale
Dei Tribunali Militari di Guerra
La Rocca delle Caminate
10 in un colpo
Un enigma
Di novità in novità
Seminava il panico tra la popolazione
Un Ivan nella Brigata “Sanguinaria”
Una sessione presieduta dall’avv. Domenico Avezzana
Altra sosta
Un omicidio del 1926
Le peripezie di Ancarani di Alfonsine
Solo un Segretario Amministrativo
Bando alle emozioni
Da Caorso a Lugo
Raffaeli Raffaele di Faenza
Negri Guelfo, il Federale
Il barbiere di Villanova sul Lamone
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Venieri di Giovecca
Le “obbrobiose mansioni” di Bandini Mario di Faenza
Taceva sempre
Il sicario di Faenza
Vistoli di S. Agata sul Santerno
Valtancoli di Portico di Romagna
Giunchi di Ravenna, latitante
Dragoni Giacomo di Longastrino di Argenta
Minardi Giulio di Faenza
Il superlatitante Andreani
Un giornalista di Lugo, contumace, ma non latitante
Ferruzzi, Comandante delle B.N. di Lugo
Giù nel Senio
La pressione dell’opinione pubblica
Dispute giuridiche sul caso Faccani, detto Lenin
Il ras di Massalombarda
Vitaliano di Imola
Una deplorazione
Tre latitanti e un detenuto
Un giallo tra Faenza e Ravenna
Padre e figlio di Faenza
Un ravennate nella Valle del Senio
Mondini di Massalombarda
D’ignota dimora
Ultimi scampoli
Ultimo atto
Libere interpretazioni su due episodi cruciali
A proposito di mons. Rossini, due Vescovi a confronto
Il castigo
La stagione delle vendette
L’Epurazione
Una vicenda particolare
La ruota, di cui sopra
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“FUORI SACCO”
Da Forlì: Alberto Zaccherini ed altri
Da Bologna: Orchideo Mazzotti ed altri
Da Novara: il Califfo.
Da Vicenza: Cattani di Faenza, detto Pirtò
Da Verona: Franco Bogazzi, I° Capo Provincia di Ravenna
Da Torino: Emilio Grazioli, da Lubiana a Torino, via Ravenna
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APPARATI
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Elenco cronologico delle sentenze 1945-1947
Elenco degli Squadristi della provincia di Ravenna
Elenco detenuti politici
Elenco vigilati politici. Presenti ed esonerati. Ravenna città
Iscritti all’organizzazione “La Capillare” del Comune di Ravenna
Presidenti e Giurati della Corte d’Assise Straordinaria di Ravenna
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Fonti
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Abbreviazioni
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Indice dei nomi
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Indice dei luoghi e dei nomi geografici
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Bibliografia
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Prefazione
Ho molto apprezzato e immediatamente utilizzato questa corposa monografia sin da
quando mi è stata trasmessa da Elios Andreini e Saturno Carnoli, un anno addietro, nella
prima stesura dattiloscritta. Ero allora alle prese con l’amnistia Togliatti e intendevo approfondire l’operato delle Corti d’Assise Speciali, per comprendere dinamiche e conseguenze
dei processi ai fascisti. Gli studi in materia sono scarsi e soltanto per l’Alto Adige e per un
paio di province venete (Rovigo, Belluno e Venezia), esistono edizioni affidabili dei regesti
delle sentenze pronunziate negli anni 1945-47.
Andreini e Carnoli hanno scelto un altro itinerario, più travagliato per loro e più soddisfacente per noi. Sulla base delle trascrizioni processuali, integrate da ulteriore documentazione, essi hanno ricostruito una molteplicità di micro-storie, reticolo straordinariamente
vasto e vivace di accadimenti di varia umanità.
Il contesto ravennate presenta specifici punti d’interesse, anzitutto per l’atipica situazione di una parte della provincia (prevalentemente costiera), liberata l’autunno 1944, e di
un’altra parte controllata dai nazifascisti sino alla primavera 1945, con quanto ne consegue
in termini di lacerazioni prodotte dalla linea del fronte. Vi è poi la peculiarità romagnola
della transizione dalla dittatura alla democrazia in una zona a forte presenza comunista.
Andreini e Carnoli, esperti conoscitori della realtà locale, hanno trascritto, selezionato e
montato gli atti processuali in un racconto avvincente, che entra nelle pieghe di eventi politici e di vicende personali, nell’intrico di situazioni complesse, delle quali si conosce poco,
e quel poco è influenzato da opere più affini al romanzo che alla ricostruzione storica, che
non ricollegano le vicende del post-liberazione con l’antecedente naturale: l’oppressione di
una dittatura ventennale e la sanguinosa guerra civile innescata dalla costituzione della
Repubblica sociale italiana. Attraverso vicende importanti e cronache minute, sulla scorta
degli incarti giudiziari, di fonti orali e di altra documentazione eterogenea, escono allo scoperto le concrete modalità di vita del 1943-44, l’organizzazione territoriale di Brigate Nere e
Guardia Nazionale Repubblicana, e, più in generale, l’attività dell’apparato collaborazionista,
cui si contrapposero gruppi partigiani sostenuti da settori significativi della popolazione.
La scansione del libro raggruppa gli episodi in una periodizzazione essenziale: 1) Le due
liberazioni, da fine 1944 al 1945; 2) In nome di Sua Altezza Reale, dall’uscita dell’emergenza
al referendum istituzionale; 3) In nome del popolo italiano, dall’amnistia Togliatti, emanata
per solennizzare la nascita della Repubblica, al 1947; 4) Fuori sacco, sui ravennati giudicati
fuori provincia. L’accurato repertorio di apparati - straordinariamente folto - permette infine
di orientarsi tra sentenze, squadristi, detenuti politici e giurati della Corte d’Assise Speciale.
Il rilevante numero dei paragrafi, lungi dal frammentare la narrazione, evidenzia sin dalla
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struttura dell’indice la tipologia dei comportamenti e dei casi presi in esame, oltre ad agevolare l’utilizzo del libro - in alternativa alla tradizionale modalità lineare - attraverso selezioni soggettive, suggerite dagli interessi del lettore.
In queste pagine sono disseminati centinaia e centinaia di nominativi: persone di cui,
nonostante i decenni trascorsi, è rimasta traccia nella memoria della comunità locale. Anche
il dettaglio geografico è preciso, dal capoluogo alle frazioni e alle case sparse, dove si è svolta la resistenza e dove ha colpito la rappresaglia. Luoghi nei quali, come Andreini e Carnoli
documentano, si ricostruì con rapidità straordinaria, in relazione alle difficoltà oggettive, il
tessuto democratico-participativo, pur tra i seri problemi di ordine pubblico lasciati in eredità dalla guerra.
Il ristabilimento della giustizia, con l’arduo quanto indispensabile passaggio dalla vendetta al processo, a partire dall’estate 1945, occupa il cuore del libro, in una cronaca minuta e
minuziosa come solo la può tracciare chi vive con inesauribile curiosità intellettuale l’appartenenza alla sua terra. In un triennio si è compiuto un lavoro giudiziario imponente, con 404
sentenze (183 pronunziate nel 1945 e 221 nel 1946-47), per un totale di 460 imputati.
Nel suo complesso l’operato della Corte d’Assise Speciale può ritenersi equanime e
moderato; sono poi intervenute - in rapidissima successione - l’amnistia Togliatti, le cancellazioni della Cassazione, le revisioni in Corte d’Assise, gli sconti di pena, la libertà condizionale, le riabilitazioni. Le poche sentenze capitali hanno riguardato personaggi che, da Morigi
a Capanna, avevano seguito con estrema determinazione l’apparato repressivo repubblichino, macchiandosi di uccisioni alla testa dei brigatisti neri di Ravenna. Vi sono stati in compenso casi come quelli del comandante di battaglione Pietro Querzani, responsabile della
fucilazione di tre soldati rientrati in ritardo dalla licenza: condannato a soli 10 anni di reclusione, subito ridotti a 5 (Querzani è stato poi prosciolto dalla Cassazione).
Egualmente mite il giudizio nei confronti del generale Emilio Grazioli, Capo Provincia di
Ravenna, artefice di spietate rappresaglie: in suo favore si mosse - come spiegano gli Autori
- ben cinque Arcivescovi, l’amministratore delegato della FIAT, ingegner Valletta, scampato
lui stesso all’epurazione e trasformatosi in benefattore di gerarchi fascisti. Grazioli, condannato a soli 8 anni, è liberato all’atto stesso della sentenza, per il riconoscimento di una serie
di attenuanti e di benemerenze militari. Il suo nome è tornato di recente agli onori della cronaca, in riferimento ai crimini di guerra italiani in Jugoslavia, per reati mai contestati dalla
nostra magistratura al gerarca fascista.
Al lettore, ora, il gusto di addentrarsi nelle storie di vita quotidiana ricostruite con realismo e pietas da Andreini e Carnoli, i quali hanno reso un importante servizio alla loro comunità e, più in generale, alla comunità degli studiosi di storia contemporanea, che si accosteranno a questo libro come a una preziosa miniera, e non se ne ritrarranno delusi.
Mimmo Franzinelli
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LE DUE LIBERAZIONI
Dicembre 1944. Aprile 1945
Non tutti gli italiani sanno che gli alleati superarono la Linea Gotica nell’autunno del 1944
e non nella primavera 1945, almeno lungo la fascia adriatica, consentendo così la liberazione
di larga parte della Romagna. D’altra parte, a molti romagnoli sfugge che il nord-ovest della
Toscana rimase sotto il tallone tedesco fino alla fine della guerra e tanti ravennati ignorano
che la Liberazione di Ravenna (4 dicembre) non coincise con quella dell’intera provincia.
Giusto, quindi, parlare di due liberazioni dal nazifascismo, una, a seguito della campagna
militare d’autunno, con la scomparsa delle croci uncinate nei comuni di Cervia, Russi,
Ravenna, Bagnacavallo, Brisighella, Faenza e Casola Valsenio; l’altra, in coincidenza con
l’avanzata decisiva dell’aprile ‘45, che portò la fine dell’incubo negli 11 comuni rimasti tragicamente per altri quattro mesi sulla linea del fronte invernale, segnato dal fiume Senio. Oltre
il fiume si concentrò il massimo di sofferenze, di morti e di distruzioni.
Sta scritto nelle coscienze degli abitanti, testimoni e non, di Alfonsine, Fusignano,
Conselice, Cotignola, Lugo, S. Agata sul Santerno, Massalombarda, Bagnara di Romagna,
Solarolo, Castel Bolognese e Riolo Terme.
Una condizione unica quella della provincia di Ravenna, ad un tempo felice e angosciata,
libera ed oppressa, avviata alla ricostruzione e sottoposta alle prove più dure, rifornita di
cibo, seppure con notevoli limitazioni, ed affamata, intenta a contare le ferite e costretta a
registrarne altre, desiderosa di fare i conti con il passato e obbligata ad un presente disperato e violento, con le piazze festanti di popolo e con famiglie ricacciate nei rifugi e nelle buche.
In vero, il confine tra le due realtà non era sempre evidente in tutti gli aspetti. Faenza,
per esempio, già semidistrutta dai bombardamenti, liberata il 16 dicembre 1944, dopo un
assedio durato 22 giorni, dovette patire a lungo colpi di mortaio tedeschi e non poté per
mesi riabbracciare le migliaia di sfollati, sistematisi sulle colline e nel forlivese, tenuti lontano dalla città per decisione dell’Amministrazione di Guerra alleata, per timore d’infiltrazioni fasciste. Altri concittadini, compreso il socialista Morini, indicato come Sindaco dal CLN,
rimasero bloccati nei territori controllati dai tedeschi. Sotto questo aspetto, si presentava
nettamente più tranquilla la vita del capoluogo, fuori della portata degli obici teutonici e da
certi vincoli alleati. Sfortunatamente, però, parte dei suoi abitanti in cerca di sicurezza, da
tempo era sfollata tra il Senio e il Santerno.
Detto così, sembrerebbe quasi che tra i due mondi esistesse una linea di demarcazione
assoluta, tra il bene il male, tra la vita e la morte, tra la possibile soluzione degli immani problemi della ripresa e l’ulteriore aggravarsi degli stessi. Non era sempre così. Innanzitutto,
perché nuove vittime si contarono nei territori di confine, a Bagnacavallo, a Casola, a Faenza
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e nella parte nord del comune capoluogo: morti civili e combattenti partigiani che durante
la liberazione di Ravenna, avvenuta senza colpo ferire, avevano combattuto contro i tedeschi
e i fascisti della Decima Mas, cacciando il nemico da Porto Corsini, dalle Valli e dalle campagne verso il Lamone. Contributo riconosciuto dagli inglesi, che pertanto accettarono l’allineamento al fronte della Brigata partigiana di Bulow.
Fatto unico questo nella campagna d’Italia, che comportò altri caduti ravennati lungo la
fascia della Romea, fino a Codevigo, liberata alla fine d’aprile del 1945. A fianco dei patrioti
locali e poi in posizione gerarchicamente superiore operò anche una formazione regolare
dell’Esercito Italiano, la “Brigata Cremona”, integrata nei ranghi da molti partigiani
dell’Umbria, delle Marche e della Romagna stessa.
Da ultimo, sarebbe imperdonabile dimenticare le migliaia di bambini, di donne, di lavoratori dei campi, di operai e di specialisti, rimasti uccisi o mutilati a causa delle mine collocate dai tedeschi ovunque, nei fossi, nei campi, nelle case, in mezzo ai macchinari, persino
sotto i cadaveri dei loro camerati. Una carneficina iniziata già con la liberazione di Cervia,
esplosa dopo la partenza dei crucchi dalla parte rimasta sotto Ravenna e continuata nel
dopoguerra per anni. Fu un’autentica ecatombe, non seconda a quella dei bombardamenti,
al di qua e soprattutto al di là del Senio e del Santerno.
Soffermiamoci per il momento sulla parte della provincia liberata sul finire del 1944 e tornata alla cosiddetta normalità. A Ravenna, il 3 dicembre ‘44, i tedeschi fecero saltare le torri
della Casa Littoria (via Guidone, sede della Brigata Nera), della Caserma Balbo (via Alberoni)
e quella dell’Acquedotto con danni agli edifici vicini.
Nelle campagne e nei borghi del “forese” essi avevano già provveduto a demolire decine
di prestigiose ville, dove si erano accasermati per mesi, e tutti i campanili, con conseguente
distruzione delle Chiese e delle Canoniche. Questo il volto della città che appariva a quanti
a lungo erano rimasti nascosti o da sfollati ritornavano alle loro case, ammesso che fossero
in piedi. (Si ricordi che allora il Comune di Ravenna contava poco più di 80.000 abitanti al
censimento 1936 e che in centro ne risiedevano non più di 30.000, ridottisi a 10.000 durante l’estate 1944): sconvolta la zona portuale, rasi al suolo la stazione e il vicino ospedale,
dimezzata la Chiesa di S. Giovanni Evangelista, distrutti i Salesiani, sparito il S. Marco, il principale albergo della città, sito in via Diaz, stessa fine della Caserma Garibaldi di via Roma,
incendiata la Chiesa di S. Domenico, come il retro delle Poste e parte della Prefettura, colpito il Duomo, lesionati numerosi convitti religiosi, irriconoscibile la Chiesa di S. Vittore
(una speculazione degli anni’60 completerà l’opera abbattendo il campanile rimasto in
piedi), polverizzati alcuni palazzi del regime fascista, tra cui le sedi della GIL (di fronte alla
stazione) e delle Corporazioni, impraticabili le Case di Riposo, centrati il Museo
Archeologico, la vicina Caserma Gorizia (della sua contiguità con S. Vitale vanamente avevano protestato anni prima i cultori delle bellezze ravennati) e l’area dantesca, colpiti le poche
industrie e diversi magazzini. L’elenco potrebbe continuare, ricordando gli ingenti danni alle
centinaia d’abitazioni civili e ai negozi. Tra le zone più danneggiate, via di Roma, via Diaz, via
Cavour, la Darsena (compreso il cimitero), il Borgo S. Biagio. Quasi illeso il Borgo S. Rocco.
Relativamente integro il patrimonio scolastico pubblico, più malandato quello religioso.
Casualmente si salvarono alcuni simboli, il Municipio, le Banche (non tutte) e, utili all’economia di questa ricerca, il Carcere e il Tribunale.
Fu un bilancio sicuramente pesante (il danno fu calcolato nel 30% delle case), frutto di
decine e decine di bombardamenti, iniziati sul finire del 1943 e protrattisi fino all’ottobre del
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1944, ma che in compenso non comportò un elevato numero di morti, duecento o poco più
in città, più del doppio nelle frazioni. Più dolorosa la conta a Rimini, a Forlì e, in provincia,
a Faenza con più di 700 caduti. Ancora più tragico sarà il tributo in vite umane e in edifici di
Lugo, Cotignola, Alfonsine, Fusignano e delle altre zone occupate. Alla fine di tutto, dopo lo
stillicidio provocato dalle mine, Ravenna e Faenza sfioreranno i mille caduti civili, Lugo i 700,
Alfonsine i 400. Martoriati anche i centri di Solarolo, Riolo e Cotignola.
Quanto ai danni ai fabbricati, a Faenza (comune di 47.000 abitanti, nel 1936) il quadro
delle distruzioni e dei danneggiamenti appariva più grave che a Ravenna. Fatti saltare dai
tedeschi i campanili di S. Domenico, S. Antonio, S. Agostino, S. Francesco, la Torre
dell’Orologio ed altri; bombardati o colpiti da granate l’ospedale (da tempo trasferito presso
i Salesiani), le Carceri (poi collocate in Seminario, nonostante le vivaci proteste del Vescovo),
il Museo delle Ceramiche, la Biblioteca Comunale, scuole, banche ed altri edifici pubblici e
religiosi. In totale, 726 fabbricati distrutti completamente, concentrati soprattutto nell’area
della stazione, di Borgo Durbecco, di qua e di là dal Lamone.
E, ovunque, strade disselciate, ponti abbattuti, reti dell’acqua e del gas inutilizzabili, mancanza d’elettricità, paralisi dei trasporti, case senza vetri ed infissi, zone proibite, ecc.
Arduo, quasi impossibile, il compito degli Amministratori alleati e di quelli italiani chiamati dal CLN a dirigere la cosa pubblica, il Sindaco repubblicano Riccardo Compagnoni a
Ravenna e a Faenza il comunista Pietro Ferrucci (stante, come detto, la permanenza obbligata in territorio occupato dai tedeschi del designato Morini, socialista).
Questi i nomi delle altre “autorità” ravennati proposte agli alleati dal Comitato Provinciale
di Liberazione Nazionale: due Viceprefetti, l’avv. Vito Baroncini e il rag. Riccardo Bonetti;
Questore, Giannunzio Guerrini; vice Questore, il prof. Aurelio Macchiorro; Preside della
Provincia (sta per Presidente), Bindo Giacomo Caletti; vice Preside, il dott. Riccardo
Magliozzi; vice Sindaco, il rag. Luigi Fietta; Consiglio Provinciale dell’Economia (corretto con
Camera di Commercio), Camillo Garavini; Alimentazione, il dott. Ugo Battistini; Provveditore
agli Studi, il prof. Luigi Bertoni; direttore dell’ospedale, il prof. Orazio Ortali; Sindacato
Medici, il dott. Lucio Paolo Massaroli; Opere Pie, don Renato Casadio; Cassa di Risparmio, il
dott. Fortunato Casadei Lelli; Consorzio Agrario, Larione Gaudenzi.
Tutti costoro, compreso il Sindaco, in forma diversa dovevano rispondere al Governo
Militare alleato, rappresentato dal Commissario Provinciale (il Prefetto), il Maggiore Baldwin
prima, il Colonnello Kucera poi, e dal Capo della Polizia Civile, Cap. Peter Tompkins. Di scelta alleata erano pure le due figure più importanti per l’amministrazione dell’intera provincia, il Prefetto, Cipriano Cipriani (un sardo) e il Questore, Gino Guida, disattendendo in ciò
le attese delle forze politiche antifasciste.
Non sfugga il nome di Tompkins, un americano formatosi a Firenze e Roma, corrispondente dall’Italia, dal 1941 nell’organizzazione spionistica denominata OSS (Office Stategic
Service), che diventerà CIA, collegato alla Resistenza romana, romagnola, piemontese, ecc.
Esperto di storia, archeologia e botanica, è autore di una ventina di saggi. Sua la tesi che ad
uccidere Mussolini siano stati i Servizi Segreti inglesi.
Vive a Roma alla bella età di 86 anni, sempre attivissimo in giro per l’Italia. Un vulcano,
simpaticissimo. Tra i mille problemi che la nuova classe dirigente doveva affrontare, al primo
posto si poneva quello dei senza tetto, sistemati in locali di fortuna, penetrati talora a forza
in edifici non idonei o nelle abitazioni dei fascisti fuggiti al nord con le famiglie. I bisogni
reali si mescolavano con le pretese, rivendicate in nome dei prezzi già pagati alla guerra e
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contro i pescecani di sempre e gli opportunisti, nonché contro i signori che tenevano le
“finestre chiuse”, come si scriveva, negando solidarietà come avevano fatto in montagna di
fronte ai partigiani infreddoliti e affamati. A complicare il problema casa, si era aggiunta la
necessità di sistemare i Comandi alleati, per i quali era doveroso trovare soluzioni idonee
per gli uffici e per gli alloggi degli ufficiali e della multiforme truppa, polacca, canadese,
indiana, neozelandese, ecc. Il clima si surriscaldava di giorno in giorno. Clamorosi gli episodi di Faenza, percorsa da reiterati saccheggi, stigmatizzati pubblicamente dal Vescovo
Battaglia, la voce più autorevole ed ascoltata, affranto anche per la corruzione dei costumi.
Nonostante persistesse il coprifuoco, le due polizie, quella dei liberatori-occupanti e quella
italiana, integrata da partigiani con il bracciale di riconoscimento, avevano un bel daffare.
Furti d’ogni tipo, violenze, anche a sfondo politico, mercato nero, vendita di merce deteriorata, farmacie con prezzi differenti. Si sgomitava e si urlava davanti ai pochi spacci, presso le
Giunte Popolari (un’originale esperienza di democrazia diffusa), presso le autorità e con più
aggressività nei confronti di quelle locali. Mancavano l’acqua, la legna, la carne, i grassi, la
luce, sparita fin dal 15 novembre. I rifornimenti subivano le conseguenze dei sequestri tedeschi di camion, carri, automobili (compresa quella dell’Arcivescovo) e biciclette. Niente treni
e niente corriere. Solo i mezzi militari alleati potevano garantire i trasporti di generi alimentari e di altro (per inciso, si contarono ben 80 civili, morti in incidenti provocati da jeep,
camion ed altri mezzi militari). I mulini erano quasi tutti distrutti o fermi, come pure gli zuccherifici. Non si trovavano i pezzi di ricambio per la rete dell’acqua, le poche fontane erano
insufficienti ed era impossibile tentare altre trivellazioni, per la natura del suolo e per la mancanza di strumenti adeguati. A consolazione, la rapidità con cui Rimini aveva rimesso in funzione l’acquedotto di Torre Pedrera, lo stesso che in precedenza dava acqua a Ravenna.
La frutta e la verdura restavano nei campi e ogni tentativo di raccolta poteva risultare fatale. Fu considerato un successo l’arrivo di un po’ di vino dalla vicina Russi. In compenso
cominciò a giungere frutta secca dal sud, che purtroppo, come tutte le altre merci, faceva
scalo solo nel Porto di Ancona, scelto perché funzionante e ideale perché lontano dal fronte. Ciò, per altro, generò il timore che il Candiano fosse declassato anche per il futuro.
Fermo il porto, chiuse le fabbriche (lesionate, senza macchine, senza materie prime), la
disoccupazione appariva generalizzata, con prospettive di lavoro solo per muratori ed affini.
Da qui richieste generalizzate di sussidi; sussidi anche per le vedove, per le famiglie dei partigiani ancora al fronte, per le mogli degli internati in Germania, dei prigionieri in mano
alleata, dei dispersi in guerra, ecc. La priorità assoluta, naturalmente, andava agli orfani, da
alloggiare presso qualche privato o presso le istituzioni di carità.
Tutto ciò richiedeva molto denaro, in parte inviato dal Governo Bonomi, altro messo a
disposizione dagli alleati, altro offerto da qualche benestante. Inutile rivolgersi alle casse
delle Banche, che avevano patito anch’esse per i prelievi forzati delle Brigate Nere in fuga.
Compromessi pure, per l’inflazione galoppante, gli averi di coloro che avevano collocato i
propri risparmi in Buoni del Tesoro o in prestiti di guerra. Quante tragedie! Inevitabile che
il popolo chiedesse il sequestro dei beni di chi si era arricchito con il fascismo e con la guerra. Speranze vane, perché sgradite agli inglesi, per la complessità delle indagini e, talora, perché ciò contrastava con la richiesta della ripresa dell’attività produttiva. Vicende, queste, già
vissute nelle zone liberate da tempo.
Ogni bisogno e ogni rivendicazione, compreso il diritto di avere giustizia nei confronti
dei colpevoli della tragedia, finivano sul tavolo della Giunta Comunale, su quelli delle Giunte
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Popolari (che aprivano inchieste) e su quello del CLN (presieduto dal medico democristiano Benigno Zaccagnini), per altro appena tollerato dal Governo Militare alleato (AMG) e
privo d’adeguata investitura da parte del Governo di Roma. In effetti, il potere reale, stabilito da accordi bilaterali superiori, prevedeva che la pubblica amministrazione, con relative
competenze, sarebbe stata trasferita ai legittimi rappresentanti del popolo italiano solo
dopo quattro mesi dall’avvenuta liberazione. Le eventuali flessibilità potevano scaturire
esclusivamente dai militari inglesi, che ovunque seguivano la regola che nessun processo
doveva essere celebrato contro gli uomini del fascismo prima della fine delle operazioni
militari. A maggior ragione, per la vicinanza del fronte, a Ravenna e Faenza non era consentito procedere con provvedimenti giudiziari di natura politica.
D’altra parte, i fascisti più compromessi non si vedevano di certo in giro, avendo scelto,
i benestanti ed alcuni politici, la sicurezza sui laghi alpini, a Ferrara, a Venezia, e i militi il
combattimento in Piemonte e in Veneto.
Tra i primi, i più furbi avevano optato invece per le città del centro Italia e per la capitale. Che il potere effettivo appartenesse ai liberatori era testimoniato dai ricorrenti Bandi, che
per certi aspetti ricordavano quelli classici del recente passato.
Spettava a loro anche decidere i provvedimenti di polizia, gli arresti e gli internamenti in
campi di concentramento dei capi e dei gregari fascisti. Per molti di questi la detenzione
durò a lungo, ad alcuni salvò la vita.
Soltanto nei primissimi giorni le autorità britanniche concessero o tollerarono nei comuni della Romagna liberata che le vittime della dominazione fascista potessero sfogarsi. Morti
ammazzati si contarono nelle campagne e nei centri urbani, a Faenza persino una donna.
La Chiesa protestò con gli alleati e il CLN condannò con manifesti la giustizia sommaria
e le vendette. Arriverà - si disse - il giorno della verità e della giustizia davanti ai Tribunali del
Popolo e i colpevoli pagheranno fino in fondo per i loro crimini.
A rinfocolare il furore popolare contribuivano inoltre le notizie di tragiche scoperte: le
fosse di ravennati uccisi dai tedeschi e dai fascisti nel forlivese e, soprattutto, i 55 corpi
(donne, vecchi e bambini, di 15 famiglie) scoperti a pochi chilometri dal centro, oltre i Fiumi
Uniti, a Madonna dell’Albero, trucidati dai nazisti, definiti tutti “ribelli” nel rapporto inviato
in Germania. Vano risulterà ogni tentativo di trovare il cadavere del parroco, don Turci.
L’eccidio era stato preceduto da altri due, avvenuti nella zona del Montone ed ancora
oggi poco noti. Occasione di sfogo e di richiesta di giustizia era anche, quotidianamente, la
celebrazione dei funerali di partigiani uccisi, cui era stata negata una dignitosa sepoltura. La
rabbia per le strade e nelle piazze vedeva protagoniste soprattutto le donne, in molti casi nel
timore che i propri cari avessero subito analoga sorte, nonostante la “rassicurazione” ricevuta a suo tempo sulle avvenute deportazioni in Germania.
Le donne ricordavano tutto, più degli uomini che stavano nascosti o con i ribelli: le paure
dei bombardamenti, le retate in cerca dei figli, le minacce d’arresto al loro posto (spesso tradottesi in realtà), la fuga affannosa con i figli piccoli alla ricerca dei rifugi, i crolli, la fine sotto
le macerie di parenti, amici, vicini, le mille umiliazioni subite, i ricatti per campare, per avere
medicinali, le pressioni di opportunisti e di speculatori, gli scambi di cose care con un po’
di cibo. Non avevano neppure dimenticato i volti delle “puttane fasciste”, eleganti e senza
patemi, delle favorite degli ufficiali tedeschi, delle donne “bene” frequentatrici dei balli e dei
salotti riservati agli occupanti e ai gerarchi. Alcune di queste erano sfollate al nord, altre
ricomparvero presto, protette da qualche ufficiale inglese o polacco e (perché no?) da qual-
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che partigiano (tra i casi più noti quello di due affascinanti ravennati, le sorelle Fabbri, figlie
di un affermato dentista-orafo, propagandiste radiofoniche a favore dell’Asse in quel di
Alfonsine, sotto l’alta protezione di ufficiali germanici, passate poi ai pari grado Inglesi e finite in Argentina con tanto di fede nuziale accanto a due polacchi, come amava raccontare il
fratello, il “bellissimo Cecé”). E’ la vita. Ma per le popolane ravennati non c’era spazio per il
fatalismo, come confermava, a liberazione avvenuta, anche un anonimo manifesto firmato
“Rogo”. Le “mantenute” dovevano pagare e qualcuna pagò con qualche schiaffo, con insulti, con inviti a nascondersi, con l’abbandono dell’abitazione, con il taglio dei capelli in pubblico. In vero, chi lanciava anatemi non sempre era indenne da colpe, rese talora esplicite
dalla nascita di figli, pur con i mariti al fronte o prigionieri.
Di questi ultimi drammi e del problema morale si era preoccupata in particolar modo la
Chiesa, che durante i bombardamenti aveva fatto chiudere le chiese, lamentando la promiscuità peccaminosa, e che, per non ingenerare future complicazioni o ritorsioni fasciste, di
fronte alle numerose richieste di dispense per matrimoni senza pubblicazioni, aveva consigliato ai parroci di prendere tempo, onde non compromettere le ragazze o tradire i giovani
renitenti alla leva. Il caso vorrà che così alcune donne perderanno i mancati mariti, senza i
conseguenti diritti di vedovanza.
Ritornando ai problemi dell’ordine pubblico, a scanso d’equivoci e di sgradite sorprese,
gli inglesi avevano pensato bene di portarsi appresso, dalla base di Riccione, due figure decisive per il governo della città e di parte della provincia, il Questore e il Prefetto Cipriano
Cipriani, un sassarese di 56 anni, aggregatosi fin dallo sbarco in Sicilia e proveniente dalla
sede di Ragusa. Gran delusione tra gli antifascisti, che avrebbero preferito due figure locali
indicate dal CLN (la cui sede era presso la Casa Oriani). Del resto, c’era da aspettarselo, data
la scelta analoga compiuta a Forlì. Il Cipriani resterà al suo posto fino al passaggio della provincia all’amministrazione italiana (5 agosto 1945), confermato poi dal Governo fino al 1°
novembre. Un incarico delicato il suo, nonostante la piena fiducia dei liberatori, costretto a
continui rapporti con Roma per le mille esigenze, aggravate, nella prima fase, dalla vicinanza del fronte e dai reclutamenti volontari di partigiani da inviare nelle Valli.
Nonostante quanto detto, non si deve pensare che a Ravenna, a Faenza o altrove si vivesse solo come in mezzo ad una valle di lacrime. Si riaprirono le sedi dei partiti, comparvero
le organizzazioni sindacali, quelle della Gioventù e delle donne, l’UDI, molto attiva nel
campo assistenziale. Qualcuno si commosse nel vedere la bandiera sovietica a fianco di quelle alleate sul balcone del municipio. C’erano le gioie dei ricongiungimenti con le persone
care, di cui si erano perse notizie. Si moltiplicavano le feste e i balli, benché non graditi a
tutti, per opposti motivi. A Faenza suscitò scalpore la riapertura di una casa di piacere, collocata in via Laderchi 5, nell’abitazione abbandonata da un Capo della Brigata Nera locale, il
famigerato Nello Cassani, fuggito oltrepò. A Ravenna diventò occasione di giubilo la scoperta di pellicce in un deposito nascosto di una “fascistona” sfollata al nord. Si diffuse una specie di caccia al tesoro, finalizzata all’individuazione di supposti bottini di guerra, lasciati dai
fascisti in fuga. Ne patirono orti, scantinati e muri. Al clima festaiolo, quello tollerato da tutti,
diedero impulso le varie autorità e ben presto si videro partite di calcio tra formazioni di
ravennati e squadre polacche, inglesi, sudafricane. Tardarono un poco le proiezioni di film,
per la mancanza di materiale, compensate però da pellicole in lingua inglese; si recupererà
ampiamente con i mesi caldi, quando tra le macerie nasceranno i cinema all’aperto (aree del
vecchio ospedale, dell’ex Albergo S. Marco, ecc.). A farla da padrone, comunque, in ogni sta-
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gione saranno sempre i balli, che talora degeneravano in risse a sfondo politico. Tra i protagonisti, spesso, i soldati polacchi che mal sopportavano il colore rosso. Si parla dei balli aperti a tutti, su quelli privati si avventavano le solite cattiverie contro le “belle” dei tedeschi.
La politica si mescolava persino nel gioco dei piccoli, con i comuni epiteti del periodo;
“sei un fascista”, e con gustosi equivoci: “Taci, sei un repubblichino”, intendendo dire repubblicano. Fu una vera festa per i ragazzini, liberi da ogni impegno, visto che le scuole apriranno solo nella seconda quindicina di marzo e limitatamente al comune di Cervia e, in parte,
a quello di Ravenna.
Per gli adolescenti e i bambini si mossero da subito i preti con la riapertura del
Ricreatorio e poi dei Salesiani, nonostante le mille difficoltà, per le distruzioni e le peregrinazioni in cerca di spazi. Si pensi che, dopo la distruzione del loro convitto e dei laboratori, i Salesiani dapprima ottennero dal Federale Pietro Montanari i locali lasciati liberi dalla
Brigata Nera alla Sacca, (causa ripiegamento), poi il Teatro Rasi e la Caserma Balbo. Soluzioni
precarie, perché gli alleati alla Sacca (oggi Liceo Scientifico) collocarono un ospedale militare e alla “Balbo” la sede dell’Associazione Partigiani.
Gli scontri tra italiani e polacchi, tra “patrioti” e polacchi, erano veramente un problema
serio, che andava ben aldilà di un rifiuto da parte delle ragazze ravennati di concedere un
ballo. Omicidi per rapina furono attribuiti ad uomini con divisa polacca. Altri, in servizio di
ronda, provocarono e pestarono partigiani autorizzati a circolare, messi poi in Carcere in
compagnia di fascisti. Avvenne in tutta la Romagna e dopo la liberazione in tutta l’Emilia.
Da parte loro, gli inglesi cercarono di tamponare il fenomeno con qualche trasferimento. Delinquenza comune a parte, a motivare i polacchi era l’odio antirusso di vecchia data,
cresciuto con la spartizione della loro terra tra Stalin ed Hitler e riacceso alla notizia della
nuova invasione sovietica, nella certezza (per noi solo con il senno del poi) che non sarebbe stata una liberazione. Per molti di loro, la scelta di campo aveva anche risvolti ideologici,
visto che alla fine della guerra in tanti scelsero di emigrare in Argentina, dal regime parafascista, luogo ideale per i profughi nazisti e fascisti.
A creare guai a Faenza furono anche i Neozelandesi, come denunciato dalla locale
Diocesi. Era successo che a Basiago e altrove essi saccheggiassero Chiese, con “parodie
sacrileghe”, gli archivi di parrocchie, svuotassero cantine, distruggessero case alla ricerca di
tesori e “perfino i muri dei cimiteri per pavimentare strade”. Sempre a Faenza, attivi anche
gli Indiani, che smerciavano di tutto davanti al Vescovado (gomme d’auto, motori elettrici,
bilance ed altro). Ad un certo Santandrea i Polacchi avevano addirittura offerto una “Balilla”,
senza targa. Agli stessi, infine, veniva attribuita la responsabilità dello scontro avvenuto con
un gruppo di partigiani, il 12 marzo 1945, davanti al Circolo Socialista di via Mazzini, conclusosi con morti da entrambe le parti. Il ricordo dei vecchi non dice di fatti analoghi ad opera
dei Canadesi (i migliori) e degli Inglesi, benché arroganti e prepotenti.
Le singole esperienze, del resto, avevano differenziato i giudizi anche sui Germanici, tutti
indicati per comodità come Tedeschi, nonostante la presenza di Austriaci, Sud Tirolesi,
Slovacchi, Ungheresi, Ucraini, Bielorussi, Cechi e finanche Mongoli.
Ovviamente tutte queste notizie non comparivano sul “Corriere Alleato”, emanazione
diretta della 8a Armata, né sui periodici autorizzati, tra cui il più autorevole era
“Democrazia”, diretto da Benigno Zaccagnini, espressione ufficiale del CLN, composto nel
marzo 1945 dal dott. Paolo Massaroli (DC), da Camillo Bedeschi e Gaetano Verdelli (PCI),
dai professori Bruno Biral e Aurelio Macchiorro (Partito d’Azione), dai repubblicani Aldo
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Spallicci e Celso dott. Cicognani, dai socialisti Luigi rag. Fietta e Giovanni dott. Amadei, da
Ulisse Merli (Comunista Libertario), da Antonio avv. Garzolini e Aldo rag. Cantatori (Liberali),
da Valeria De Wachenhusen (UDI), da Alberto geom. Pirazzoli (Federazione della Gioventù),
da Giovanni Geminiani (Lega dei Contadini), Alberto Bardi, in rappresentanza dei Partigiani).
Nel “Corriere Alleato” si parlava prevalentemente delle vicende sui fronti europei e dei
temi della ricostruzione nell’Italia liberata.
Vi si auspicava anche la defascistizzazione della Nazione e se ne citavano i successi già
conseguiti. Di certo, questa non avveniva con un processo lineare. Perché, da una parte gli
inglesi volevano veramente punire i fascisti, non solo gli alti gerarchi, ma anche i fanatici,
compresi “moltissimi” italiani (moltissimi, si noti) che avevano gioito per i bombardamenti
di Londra, dall’altra, con il pensiero al dopo e alla luce dell’esperienza greca, essi erano preoccupati che il domani politico fosse monopolizzato dai comunisti. Di qui il contraddittorio
comportamento britannico: chiedevano l’aiuto degli antifascisti per liberare dai tedeschi e
da Mussolini la valle padana e contemporaneamente, giunti a Rimini, avevano ritirato il contingente greco per dislocarlo contro la resistenza ellenica, incoraggiavano un repulisti rapido della burocrazia, almeno per i 4 livelli più alti, e, intanto, si erano portati nella repubblicana Ravenna un Prefetto che per anni aveva servito la dittatura come vice Prefetto monarchico-fascista. Sullo sfondo, come naturale, la preoccupazione per i futuri assetti politici e
l’obiettivo di impedire sia il superamento della monarchia, sia l’affermarsi di governi troppo
radicali. Preoccupazioni condivise in parte dagli americani e totalmente dal Papa, dalla
Corona e dai ceti moderati e conservatori. Persino Badoglio, che fin dal suo primo incarico,
il 25 luglio 1943, si era attivato per una pronta epurazione, facendo arrestare alti gerarchi e
le loro famiglie, sequestrando beni, sostituendo molti prefetti, si era dimenticato però di
sciogliere l’OVRA e aveva salvato quasi per intero l’Esercito, un tempo da lui stesso comandato nelle feroci campagne di Etiopia e di Grecia. In ciò, con tutta evidenza, confluivano le
primarie esigenze del Re, che con le epurazioni poteva dimostrare agli alleati e al paese la
sua irresponsabilità nei crimini del Ventennio, addebitati esclusivamente a Mussolini e ai
suoi accoliti. Occorreva assolutamente impedire che la caduta del Governo di Salò trascinasse seco le sorti dei Savoia.
Per la vicinanza del fronte, altri erano i temi su cui si soffermava il periodico ravennate
del CLN (limitato a due fogli, stampato presso una Tipografia di via Costa e con periodicità
altalenante, una quindicina di numeri in quattro mesi) In esso: questioni locali, notizie sulla
guerra, la visita del Presidente del Consiglio Bonomi, biografie di partigiani uccisi, elenchi di
caduti causa mine (da sottolineare la sventura di Giulio Masotti che aveva perso tre giovani
figli, “patrioti”), il funerale del simbolo della Cooperazione, Nullo Baldini, la cattura nella
Pineta di Classe di 4 giovani della Decima Mas, sbarcati da un canotto, la scarsità di tutto
(compresa la carta per i giornali), i cavilli delle banche per non aiutare la causa nazionale, la
bonifica di 17.000 ettari tra Forlì e Ravenna, allagati a suo tempo dai tedeschi, la riapertura
delle Biblioteche, la nomina del prof. Orselli all’Accademia, la distribuzione in Piazza del
Mercato di onorificenze ai partigiani, i cortei al Ponte degli Allocchi (già denominato dei
Martiri), il privilegio dei dipendenti della Società Elettrica Romagnola di avere la luce, negata ancora a parte della città.
Gli articoli di “Democrazia”, mai firmati, non permettono di cogliere le varie appartenenze ai partiti provinciali e neppure vi si trova documentazione di eventuali censure ad opera
dell’AMG.
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Un messaggio, però, è ricorrente, quello di capire perché il fascismo aveva vinto, chi lo
aveva aiutato, chi doveva pagare per le violenze lontane e recenti. Andava svelato anche il
“marcio” amministrativo che emergeva dalle carte comunali e d’altri uffici. Veri “bubboni” di
corruzione, nascosti da “fittissimi veli”, di fronte ai quali - si temeva - la malapianta degli
uomini potrebbe volersi fermare. Si affermava, in vista di una resa dei conti locale, che la
rovina dell’Italia non era addebitabile esclusivamente a 200 caporioni, scagionando quindi la
“massa vile”. Ci s’indignava che il Life avesse concesso addirittura un’intervista ad uno dei
più alti gerarchi, Dino Grandi, divenuto Conte di Mordano, Capo degli squadristi che avevano messo a ferro e fuoco Ravenna e la Romagna intera ed ora dipinto nei “panni dell’agnello”. Ma “nessun nascondiglio gli avrebbe consentito di sottrarsi alla giustizia popolare”.
Come sarebbe stato anche per “i collaborazionisti che camminavano tranquillamente per le strade”.
Sullo stesso periodico, al fine di placare il furore dei ravennati liberati, desiderosi di giustizia o di rivincita, ampio risalto veniva dato alle notizie provenienti dalla capitale, alle
disposizioni di legge sull’epurazione ed in modo particolare alla celebrazione dei primi processi, tenuti a Roma, con imputati di spicco. Non c’era bisogno di giustizia sommaria - pare
sottintendere la voce del CLN - visto che “Finalmente si fa sul serio”, in grande ed in grassetto, come testimoniavano le sentenze contro l’ex Ministro Acerbo, Barone dell’Aterno, nonché Ambasciatore a Berlino della Repubblica Sociale Italiana negli anni 1944-45, condannato in contumacia alla fucilazione alla schiena (neanche lui avrebbe potuto immaginare l’assoluzione del 1949 e l’elezione per tre volte al Parlamento nelle liste del MSI) e contro il
Gen. Roatta, già capo militare in Spagna, in Italia e in Jugoslavia, dove aveva avviato la pulizia etnica, condannato invece all’ergastolo. Peccato che fosse già evaso da un Liceo-Carcere
di via Giulia, con la complicità diretta dei sorveglianti e per la regia di “forze antidemocratiche”. Per questo fatto si susseguirono manifestazioni di protesta in Piazza del Quirinale, culminate con l’uccisione di un dimostrante e con accuse reciproche tra i partiti di governo.
Sia consentita un’incidentale osservazione su questo periodo: mai un articolo in cui compaia il riferimento preciso, con nome e cognome, a qualche gerarca ravennate del periodo
dello squadrismo o di quello del Ventennio, nessun cenno neppure ai nomi dei collaborazionisti dei tedeschi, che erano invece sulla bocca di tutti. Motivi d’opportunità o divieto inglese? Forse si rinviava ad un domani prossimo, come i dispacci dai Fronti di Guerra,
dall’Europa al Senio, rendevano ormai certo: “Lugo, Castel Bolognese, Longastrino e Riolo
liberate”, in grande nel titolo del 14 aprile 1945; “Alfonsine, Fusignano, Tossignano e
Cotignola liberate. L’offensiva continua. Il Santerno varcato” nel sottotitolo. Finalmente l’intera provincia sottratta al tallone nazifascista. La gioia era immensa, anche per il rincorrersi
d’ottime notizie provenienti dall’estero, gli americani all’Elba, i sovietici a Vienna. Era veramente finita, nonostante le vicine Argenta e Bologna potessero festeggiare soltanto una settimana dopo. La liberazione delle città del nord è ampiamente nota. Grande fu l’apporto
delle forze partigiane della Liguria, del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia e del Veneto.
Grande anche l’amarezza della Brigata di Bulow, taciuta ai lettori, che, nonostante l’esclusivo merito di avere liberato tutte le zone costiere, lungo la Romea e fino a Chioggia, fu bloccata sul fiume Brenta, onde impedire la sua partecipazione alla liberazione di Venezia, onore
consentito unicamente alla “Brigata Cremona”. Dimenticate le promesse fatte dal Maresciallo
Alexander in persona, il 14 aprile, in visita ai partigiani combattenti di Ravenna.
A consolazione, gli onori militari concessi dagli alleati alla Brigata Garibaldi “Mario
Gordini” nel giorno della smobilitazione (20 maggio) e le meritate medaglie per mano ingle-
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se. La guerra era finita (da ricordare gli ultimi caduti della “Brigata Ebraica”), la seconda liberazione aveva investito il resto della provincia, che aveva vissuto una situazione disperata per
ben quattro mesi. I danni materiali di quei comuni erano immensi, nemmeno paragonabili
a quelli di Ravenna e Faenza. Non è facile immaginarlo: interi paesi cancellati, moltissimi i
morti, mine ovunque. A nulla paragonabile neppure il conseguente desiderio di giustizia o
di vendetta, come si dimostrerà nei mesi e negli anni successivi.
Ma il clima si riaccese anche nelle zone liberate a dicembre. Nuove tensioni sorsero al
ritorno degli internati in Germania e dei profughi civili oltre il Senio, per il rientro dal nord
dei sostenitori del fascismo e per la cattura d’alcuni esponenti delle Brigate Nere. Le notizie
che tenevano campo erano quelle sulle ultime ore di Mussolini, sul fermo di Rachele alla
frontiera, sulla fucilazione dei massimi gerarchi, catturati sui laghi o a Milano, sulla consegna
di Graziani agli alleati.
Ora si può fare giustizia anche a Ravenna
Nella confusione del momento, è da ricordare una delle rivendicazioni poste durante il
primo sciopero a Faenza (14 luglio): mandare a sminare i prigionieri tedeschi e gli ex fascisti! Rappresentava un vero stillicidio quello delle mine, che ricadeva soprattutto su quanti
avevano già pagato duramente. Alla bonifica partecipavano volontari, addestrati dagli inglesi e mossi talora dai buoni guadagni garantiti, di cui purtroppo molti non goderono il frutto. Tantissimi morirono o rimasero invalidi, stessa sorte per centinaia e centinaia di contadini e bambini. Per comprenderne le proporzioni basta girare per le piazze della Romagna
intera. Anche di queste tragedie si faceva colpa a quanti avevano portato alla rovina l’Italia,
contrassegnata da lutti d’ogni tipo e da distruzioni senza precedenti. Qualche moderato e
qualche uomo di Chiesa avanzavano il sospetto, appena velato, che non tutti i raid aerei fossero giustificati da esigenze militari. Sentire condiviso forse da parte dell’opinione pubblica,
ma che non trovava ascolto nei partiti, almeno in Romagna.
“Chi aveva voluto il fascismo e la rovinosa guerra doveva rispondere” si affermava a Roma
e in Romagna. Nessun suggerimento partì da Ravenna sulle sanzioni penali già stabilite con
decreto e gradite; in sede locale scaturì invece una proposta organica sulla complessa questione dei danni di guerra. Essa apparve su “Democrazia”, con un articolo di fondo firmato
A.G., un’eccezione. Questi i punti cardine: 1) confisca del patrimonio di tutti i fascisti che,
quali responsabili della catastrofe nazionale, sono tenuti a rispondere anche economicamente; 2) confisca dei beni di coloro che, pur non essendo fascisti responsabili, hanno potuto accumulare ricchezze in maniera rapida grazie ai monopoli istituiti dal fascismo e alle altre
condizioni da esso create che hanno favorito immorali speculazioni ed impedito sane attività economiche; 3) appropriazione da parte dello Stato di tutti i profitti conseguiti dagli
imprenditori in lavori per le forze germaniche; 4) applicazione di un’imposta fortemente
progressiva da pagare in un’unica soluzione.
Nell’attesa, il CLN poteva esultare, in data 12 maggio, perché finalmente a Ravenna era
stata istituita la Corte Straordinaria d’Assise per i reati di collaborazione con i tedeschi, come
previsto dal Decreto Legislativo del 22 aprile del 1945. Spettava al Comitato stesso proporre un elenco di almeno 100 cittadini maggiorenni “di illibata condotta morale e politica”, tra
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cui il Presidente del Tribunale avrebbe scelto 50 nomi. Tra questi i quattro Giurati Popolari
che, di volta in volta, avrebbero affiancato il Presidente della Corte, indicato da Bologna tra
i giudici di Corte d’Appello.
Rapido l’iter previsto, al massimo entro 15 giorni. A commento, si chiedeva ai giudici di
essere “imparziali e severi” contro coloro che si erano macchiati di tradimento verso la
patria e verso il Popolo. Sollecitazione opportuna e necessaria, nella speranza di evitare
“ogni atto di violenza o vendetta privata che ci degrada come popolo civile”. In chiusura: “la
giustizia è ora possibile”. “E giustizia sarà fatta”.
Ma contro chi e per quali fatti avrebbe agito la Corte? In molti avrebbero voluto alla sbarra i picchiatori del 1920-21, i Marcia su Roma, gli squadristi del 1924-25, gli scherani dei
tempi successivi, i federali, i Podestà, i prepotenti in orbace, tutti coloro che avevano fatto
imprigionare gli antifascisti, li avevano umiliati, li avevano discriminati, licenziati, spediti al
confino o in carcere, i segretari politici locali o rionali, gli arricchiti per appoggi politici, i
finanziatori delle squadracce, i propagandisti, i giornalisti di regime, i falsi pedagoghi, i carrieristi con tessera, i beneficiati e i benedicenti in divisa o in tonaca, i capi della Milizia, le
spie dell’Ovra. Un mondo intero, in parte ricavabile dai resoconti delle cerimonie di regime
e in parte scritto in atti legislativi, come l’elenco di quanti potevano fregiarsi del titolo di
“squadristi”, ecc.
Ci sarebbe voluto più di un ventennio per smaltire un simile lavoro, con il probabile
rischio di inguaiare accusatori, testimoni e giudici. Ciò, in ogni modo, non era assolutamente nelle intenzioni e neppure nei provvedimenti di legge emanati da Badoglio in poi, riassumibili sotto il titolo “Sanzioni contro il fascismo”. Tre gli obiettivi da perseguire. Primo: defascistizzare lo Stato, tramite una vasta opera d’epurazione, da svolgere nei luoghi di lavoro,
pubblici e privati. Secondo: colpire penalmente i massimi responsabili del passato regime e
i gregari, esecutori di crimini, anche se già assolti da tribunali compiacenti o amnistiati.
Terzo: punire chi aveva collaborato con l’invasore tedesco al fine di favorirne gli obiettivi
politici e militari, ovvero i repubblichini.
Grosso modo, alla sbarra dovevano andare, specialmente in provincia, i fascisti della
prima e dell’ultima ora. Ugualmente una discreta quantità di imputabili, stante le chiamate
di leva obbligatoria, con minaccia di fucilazione in caso di rifiuto. Sarebbe toccato alle Corti
Straordinarie di Assise valutare le singole colpe, le aggravanti, le diminuenti, i fatti specifici
e i ruoli. A disposizione delle giurie, il Codice Penale del 1889 e il Codice Penale Militare di
Guerra, come richiamato dai Decreti Legislativi Luogotenenziali, 27 aprile 1944, n.159 e 22
aprile 1945, n.142, e successive modificazioni. Riferimenti scottanti questi, poiché pervasi da
norme di carattere retroattivo, come emerse nei vivaci dibattiti del tempo. Furono alterate,
infine, anche le regole di Procedura Penale. Occorre, però, ricordare l’eccezionalità del
momento storico, con i Campi alleati pieni di fascisti arrestati a vario titolo, di cui accertare
le provenienze e le imputazioni, con le Questure subissate da mandati di ricerca, con le esecuzioni sommarie, con la pressione dell’opinione pubblica, con la scomparsa di molte
Caserme dei Carabinieri, con le numerose latitanze, con imputati che preferivano aspettare
la sentenza in carcere, con la difficoltà di reperire le vittime e i testi, con gli archivi della RSI
bruciati o dispersi, e altri depurati dai Servizi Segreti inglesi, con la necessità di chiudere in
fretta un capitolo di storia tragica, senza cadere nel “perdonismo”, con le esigenze della ricostruzione. Insomma, bisognava fare bene e in fretta, a scapito talora della verità. Ne beneficiarono non pochi repubblichini, giudicati spesso prima che i capi di imputazione fossero
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completi e in assenza di riscontri sulle attività svolte in altre parti d’Italia, causa la carenza di
carta, di telefoni, di automobili, di trasporti agibili, di macchine da scrivere, di organici capaci e completi, e a fronte di archivi manomessi, di anagrafi distrutte, di false dichiarazioni di
identità, ecc.
Di contro, a danno dei sospetti rei: taluni interrogatori non rispettosi dei diritti degli
imputati, il clima interno ed esterno alle aule del tribunale, le testimonianze per sentito dire,
la pressione della stampa, i falsi pentiti, i difensori poco motivati, d’ufficio e non, e gli
immancabili motivi personali. Successe pure che alcuni repubblichini accusassero i camerati latitanti nella convinzione che fossero deceduti.
Danni, però, ampiamente annullati dalla brevità dei processi, dalla morte sotto i bombardamenti di molti potenziali testi, dalle parentele trasversali con i vincitori, dai ricatti incrociati, dalle remote complicità, dal rigore dei presidenti, dalle pressioni massoniche, politiche
e religiose, dalla progressiva caduta di tensione, dalle emergenti divisioni tra i partiti del CLN
e dagli autorevoli interventi in sede romana presso la Corte di Cassazione, composta per lo
più da uomini promossi nel periodo monarchico-fascista, inclini troppo spesso ai colpi di
spugna, attivissimi nell’annullare le sentenze, con ogni forma di cavillo e con pronunce paradossali, prima e dopo l’amnistia.
A Ravenna, come altrove, accadde spesso che le indagini si limitassero alla dimostrazione del collaborazionismo, inequivocabile a fronte di rastrellamenti nazi-fascisti, culminati
con patrioti uccisi sul posto o successivamente dopo torture. All’inizio, per la dimostrazione della colpa, non era necessario che l’imputato avesse partecipato a tutte le fasi, poi le
cose cambiarono. In sintesi, fu fatta vera giustizia?
Al lettore le personali risposte. Per seguire adeguatamente il lavoro delle Giurie s’impongono ulteriori conoscenze. Le istruttorie sommarie erano di competenza del PM, il quale
poteva avvalersi, data la mole di lavoro, di due avvocati indicati dall’Ordine. Il Decreto
Luogotenenziale del 27 luglio 1944 stabiliva quanto segue: l’abrogazione di tutte le disposizioni penali emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo (art.1),
la pena di morte o dell’ergastolo per i membri del governo fascista e i gerarchi, colpevoli di
avere creato il regime fascista, compromesso e tradito il Paese, condotto all’attuale catastrofe (art.2). Il giudizio su questi non rientrava tra i compiti delle Corti Straordinarie d’Assise,
ma spettava all’Alta Corte di Giustizia. Le Corti locali, una per provincia, dovevano invece pronunciarsi sugli squadristi, sui “Marcia su Roma” e sui promotori del colpo di Stato del 3 gennaio 1925, in base al Codice Penale del 1889.
Soggetto a dette Corti è soprattutto “Chiunque, posteriormente all’8 settembre 1943,
abbia commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto
o di assistenza ad esso prestata”. Costui “è punito a norma delle disposizioni del Codice penale militare di guerra. Le pene stabilite per i militari sono applicate anche ai non militari.
I militari saranno giudicati dai Tribunali Militari, i non militari dai giudici ordinari” (art.5).
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IN NOME DI SUA ALTEZZA REALE
“La Santa Milizia”, per la prima seduta
Nessun imputato di rilievo, di quelli noti, visti in divisa sui palchi o uscire dalla
Federazione o letti sui giornali. Quattro accusati, di cui uno latitante e tre alla sbarra, detenuti da un mese, quasi sconosciuti anche come manovalanza. La Corte di Assise
Straordinaria, battezzata con speranze o con disappunto “Tribunale del Popolo”, era composta quel giorno (26 giugno 1945, martedì) da Giuseppe Peveri, Giudice di carriera nonché
Cavaliere Ufficiale, e dai Giudici popolari Bezzi Giuseppe, Gardini Vincenzo, Giannetti
Augusto e Linari Luigi di Faenza, tutti senza precedenti fascisti, nemmeno la semplice iscrizione al partito.
Dunque, il 26 giugno non comparve nessun gerarca di quelli apparsi nelle foto sui quotidiani o sui periodici, ma in compenso si giudicò il quarto potere, la stampa, su cui il condottiero Mussolini aveva sempre contato, prima, durante e dopo il ventennio, anche durante la Repubblica di Salò. Ogni giorno ai giornali pervenivano veline, sicché le pubblicazioni
presentavano poche differenze tra provincia e provincia.
Dopo l’8 settembre 1943 due i fogli più diffusi nel ravennate, “Il Resto del Carlino” e “La
Santa Milizia”, un quotidiano e un settimanale, gli stessi di sempre. Il secondo, espressione
del partito provinciale, portava la voce delle Brigate Nere e del regime, un veicolo di propaganda, con pochissimo spazio per l’informazione, ancorché deformata.
A firmarlo, come direttore, fino al novembre 1943 era stato chiamato il Federale,
Giuseppe Altini, poi il compito era passato a Valcurone Emilio (di Pietro), un ligure originario di Nervi, non ancora trentenne. Sotto di lui, come Redattore responsabile, il ravennate
Schiari Giulio, (fu Angelo e Santoni Assunta) classe 1911, che abitava in Piazza Duomo 6
(dove era la redazione). L’impegno del dott. Valcurone si protrasse fino al giugno del 1944;
poi egli assunse un altro incarico, di maggiore delicatezza, quello di segretario particolare
del Capo Provincia (così si chiamava il Prefetto del tempo), Franco Bogazzi, a Ravenna dall’ottobre 1943 al maggio 1944. Toccò quindi allo Schiari fare carriera, passando in breve
tempo da modesto operaio a direttore tecnico, a giornalista, a direttore. Di fatto, già dal
maggio la coppia Bogazzi-Valcurone aveva lasciato la città per raggiungere Verona, il punto
nevralgico della Repubblica Sociale. Del destino del Prefetto si sa che rimase nella città scaligera fino alla sconfitta finale, affiancato dal Valcurone.
Il Valcurone fu giudicato in stato di latitanza, presente invece lo Schiari, da detenuto.
Le prove, ovviamente, erano costituite dalla natura dei vari articoli, tutti esaltanti le
repressioni contro i renitenti e le uccisioni dei “banditi”. Costante anche il richiamo al dovere sacro di seguire fino alla morte la Germania di Hitler, l’alleato garante del nostro futuro
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diritto a spartirci il mondo. Tra gli articoli apparsi, il più inquietante restava quello a commento dell’eccidio di Ponte degli Allocchi, ripreso pari pari da “Il Resto del Carlino”. Ne fu
menzionato anche uno contro il giornale clandestino “La Scintilla”. Nessun accenno invece
alla direzione da parte del Valcurone del periodico dei fascisti faentini, “La Rivolta Ideale”
(con evidente richiamo ad Alfredo Oriani).
Non vi potevano essere dubbi sul reato di collaborazionismo con il tedesco invasore e
così si orientò la Corte. Ma a favore dello Schiari giunsero deposizioni favorevoli, relative al
suo ruolo nella difesa di individui minacciati per sentimenti antifascisti (Maria Luisa Fabbri,
Amedeo Totti, Giorgio Ballerini e Tommaso Ducenta). Il delitto di collaborazionismo comportò per il Valcurone la pena di anni 15 e per lo Schiari di anni 12, ridotti a 10 in considerazione delle attenuanti generiche previste dal Codice Zanardelli. Non poco. A novembre
dello stesso anno la Corte di Cassazione di Milano (notare Milano, segno dei tempi) annullò la parte relativa al Valcurone e rinviò le carte alla Corte di Assise di Verona. Per unificare
con altri fascicoli accusatori? Ipotesi ardita.
Nel luglio successivo arrivò la lieta novella anche per l’operaio tipografo divenuto opinionista: amnistia.
A corollario. La prima udienza fu contraddistinta dall’apertura solenne tenuta dal
Procuratore Generale, avv. Tropea, che ricordò, a seguito dell’armistizio con gli alleati, il tradimento del popolo e del legittimo governo italiano da parte dei fascisti, cui rispose con significative e coraggiose parole l’avv. Vistoli, a nome del Foro ravennate: “La storia contro la quale
non si ricorre in appello ci guarda” .(ma neppure le sentenze erano appellabili, essendo consentito solo il ricorso in Cassazione). “Non si dovrà dire che il popolo italiano, chiamato a
giudicare nemici sconfitti, si è macchiato degli stessi delitti da loro commessi”. Mai riflessione fu più opportuna, visto che il vento del nord era appena giunto a Roma, con l’incarico di
Presidente del Consiglio al capo dell’insurrezione in Alta Italia, Ferruccio Parri. Per completezza: al debutto processuale, quel 26 giugno 1945, partecipò in veste di difensore lo stesso
Vistoli, affiancato dall’avv. Stanghellini.
Un vecchio ed un figlio di squadrista
La giornata proseguì con altre due cause penali di modesto significato. Una contro un calzolaio di Faenza, di via Luciano Manara 24, l’altra contro un ravennate, residente in vicolo
Carraie 4 (la sana abitudine di indicare le residenze si perderà invece nelle sedute successive; talora rimarrà in presenza di latitanti, spesso si perderà addirittura per indicare i luoghi
dei delitti). Il primo si chiamava Enrico Galassini, originario di Brisighella, il cui padre aveva
portato per tutta la vita un nome d’ardua scrittura, ma di facile pronunzia nel dialetto romagnolo, Melchisedech. L’uomo non aveva obblighi di leva, essendo nato nel 1890, ma la sua
fede fascista (forse maturata al tempo dello squadrismo) lo aveva spinto ad aderire al Partito
Fascista Repubblicano fin dall’ottobre del 1943. Trovò spazio nelle Brigate Nere di Faenza,
che, valutando il pro e il contro, ritennero che il suo contributo alla lotta antipartigiana si
potesse esplicare appieno potendo egli garantire l’efficienza delle numerose calzature in
dotazione, da parata e da rastrellamento. I superiori gli furono riconoscenti, tant’è che nell’ottobre 1944, quando i vari reparti si diressero verso nord, lo presero con sè. Cessò di fare
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il calzolaio a Varese, allorché i patrioti bloccarono il suo reparto. Dopo un mese di prigione
a Busto Arsizio lo spedirono a Faenza, dove fu di nuovo arrestato con l’accusa di collaborazionismo. Accusa pesante, visto che al processo non risultò neppure chiaro se gli avessero
assegnato una divisa e se girasse armato. E’ quasi certo che non fosse in grado di svolgere
attività di propaganda e neppure che venisse utilizzato per azioni militari o di polizia.
L’accusa però si sostanziava in un episodio di rapina compiuta a Faenza. Era successo che
nell’ottobre, in vista del trasloco al nord, il Comandante della Brigata Nera, Raffaele Raffaeli,
aveva ordinato che tutto fosse pronto. Da vero stratega e da buon organizzatore, aveva chiesto a tutti di indicare i bisogni per una spedizione dalla durata indefinita.
Non si sottrasse il Nostro, e tosto provvide con l’ausilio del milite Aldo Sansoni. Subito
piombarono in tre nel negozio di calzature di Pietro Fiorentini. Giunsero in automobile, due
in divisa. Non era la prima volta. Il titolare era assente e la figlia, intimorita dagli ordini e dal
fracasso, non ebbe la forza di reagire. I tre non cercarono il cassetto e si accontentarono di
prendere quanto il Galassini, nel ruolo d’esperto, indicava. Lucido, lacci, bottigliette di nero,
suolette da scarpe. Nessun pagamento e nessuna distinta. La ragazza non osò fiatare. Alla
Corte non rimase che il verdetto. Insufficienza di prove per la prima imputazione, di collaborazionismo. Sulla seconda, forse, si poteva sorridere. Ciò nonostante essa si comportò da
saggia. La rapina venne declassata a furto aggravato, il che portò alla pena d’anni cinque.
Il Galassini, fu Melchisedech, ne trascorse uno, prima dell’amnistia. In quell’anno, forse,
dovette ricorrere di nuovo alla sua arte a favore degli altri detenuti nel Carcere di Faenza, se
non altro per coprire la parte più onerosa della pena, non si sa se cassata dalla Cassazione:
cinquemila lire di multa.
Dal vecchio Galassini ad un giovanissimo, Walter Spadoni (di Arrigo e Mazzanti Fedora),
classe 1927, residente a Ravenna, difeso dall’avv. Luigi Cilla (da non confondere con Leone
Cilla, cronista a Palazzo Rasponi, sede delle udienze). Lo Spadoni non aveva obblighi di leva,
ma il curriculum del padre lo aveva spinto verso impegni guerreschi. Lasciò perciò a sedici
anni i banchi di scuola. Era l’ottobre 1943. Passaggio rapido dall’organizzazione dei Balilla al
Partito Fascista Repubblicano.
E subito al fronte a fianco dei tedeschi sull’Appennino Tosco-Emiliano. Ben presto divenne caporale e fu uno dei rari fascisti romagnoli che combatterono davvero gli alleati.
Si distinse, infatti, contro la Quinta Armata americana, ottenendo vari riconoscimenti:
medaglia d’argento, croci di guerra e persino una decorazione teutonica, Croce di ferro di
prima classe. Encomi conseguiti tutti nella zona più cruenta del fronte, tra il Passo della Futa
e Pianoro, dal novembre 1944 all’aprile successivo. Infine si arrese al CLN di Brescia.
Il collaborazionismo militare con i nazisti è indiscutibile per le sue stesse dichiarazioni, il
che comportava la pena di anni 10. Ma a discarico pesarono i titoli e le colpe del padre
(Sciarpa Littorio e Marcia su Roma), l’educazione scolastica e gli entusiasmi giovanili.
Da ciò: 4 anni e mesi 6. Ai primi di luglio dell’anno dopo interverrà l’amnistia.
La prima giornata si era conclusa felicemente, con gli astanti disciplinati e talora “un po’
rumorosi”. Non sarà sempre così. Si ricordi che per impedire incidenti, alla luce di quanto
avvenuto tragicamente a Roma con il linciaggio dell’ex direttore di “Regina Coeli”, Donato
Carretta, il trasferimento dal carcere dei detenuti era anticipato all’alba, se non al giorno
prima.
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Nell’attesa
Non era facile trovare posto alle udienze. Ad alcuni bastava entrare il tempo necessario
per un’occhiata a chi per lunghi mesi li aveva terrorizzati. Col tempo le cose rientreranno
nella normalità e il tutto esaurito si estenderà alla Piazza del Mercato solamente in occasione dei processi ai brigatisti neri più noti ed accusati dei peggiori crimini, allorché le fasi
dibattimentali verranno diffuse attraverso altoparlanti. Mai venne meno, comunque, il privilegio degli abitanti di Ravenna rispetto a quelli della provincia, bloccati dalla carenza dei trasporti. A Faenza, poi, si aggiungeva il fatto della distruzione del carcere, per cui non poté
essere accolta con la dovuta soddisfazione la notizia che a Vicenza erano stati arrestati alcuni “figuri” locali e delle vallate vicine.
A tutti, in ogni modo, andava incontro la stampa, di partito e non, con ampie ricostruzioni di quanto avveniva in Palazzo Rasponi. A soddisfare le curiosità si provvedeva anche con
la pubblicazione degli elenchi aggiornati degli ultimi detenuti associati alle Carceri
Giudiziarie, arrestati in Veneto, in Piemonte, nelle città del Sud, fermati dai partigiani, dalla
polizia, dai carabinieri, prigionieri degli alleati o consegnatisi spontaneamente in Questura.
La guerra era terminata da poco, l’istituzione delle Corti d’Assise straordinarie era recente anch’essa, ma le indagini di polizia erano state avviate già al tempo della liberazione di
Ravenna in forma riservata. Ora i nomi dei detenuti potevano correre sulla bocca di tutti. Ve
ne proponiamo alcuni, con l’avvertenza che non tutti saranno pronunciati in Tribunale, giacché una parte dei sospetti sarà scagionata in istruttoria.
Vediamoli, secondo l’ordine di pubblicazione: Troncossi Carlo, Galassini Enrico, Vitali
Tullo, Galliani Luigi, Zampiga Attilio, Pirazzoli Guido, Bruni Aldo, Bacchilega Rosa, Finotelli
Dalila, Cimino Vincenzo, Malagola Cesare, Fasoli Sergio, Zanzi Arturo, Montanari Cesare,
Versari Aurelio, Govoni Corrado, Lighieri Girolamo, Bandoli Bruno, Taroni Emilio, Focchi
Paolo, Rosignoli Alberto, Vitali Renzo, Molducci Cesare, Leonardi Aldo, Morelli Francesco
detto Scartozz, Caselli Augusto, Gandolfi Ricciotti, Guberti Giuseppe, Rubboli Giuseppe,
Scaioli Martino, Nanni Irma, Papa Federico, Calzi Giuseppe, Rivalta Renata, Montanari
Achille, Ercolani Giuseppe, Zanattoni Wanda, Rossini Pietro, Battistini Giuseppe, Lugaresi
Giovanni, Minghetti Luigi, Versari Ettore, Fabbri Domenico, Cassani Ugo, Fortini Giancarlo,
Poggiali Umberto, Falerni Armando, Andreolli Ilario, Bertini Antonio, Zaccaria Renzo, Visani
Carlo, Trimboli Giuseppe, Calderoni Giuseppe, Sgobba Frediano, Gennari Primo, Caon
Ermenegildo, Corbelli Dante, Casadio Pietro, Minghetti Mario, Giannelli Raimondo, Casadei
Viviana, Mercaldo Antonio, Bianchi Primo, Notturni Renato, Briganti Anna Maria, Rivalta
Antonio, Rosati Riccardo, Cotronei Alfredo, Ancarani Natale, Vernocchi Mario, Mariani Nino,
Bandini Paolo, Brunelli Giuseppe, Fellini Carlo, Quero Arcangelo, Bolzania Wolfango, Ricci
Cassio, Casadio Luigi detto Bucaza, Damassa Giovanni, Savorelli Enrico, Nardi Luciano,
Candiani Renato, Ranuzzi Paolo, Guidetti Emilio, Godoli Dino, Savorini Carlo, Cremoni
Guido, Tarantola Carlo, Ravaglia Andrea, Bernardi Egisto, Zitelli Lorenzo, Schiari Guido,
Orioli Loris, Cicetti Pasquale, Fiamminghi Romeo, Drei Alfredo, Ercolani Giorgio, Zuppa
Pietro, Veneri Walter, Baroni Alfredo, Delgrande Giuliano, Cattani Carlo, Tazzari Francesco,
Piadelli Fulvio, Ravaioli Glauco, Ravaioli Guido, Tarlazzi Guglielmo, Vasi Nobel. Quante storie da raccontare, di fascistoni e di poveri diavoli, di fanatici e di giovani reclute, di uomini
e donne, d’intere famiglie, di idealisti e di delinquenti comuni; quanto lavoro anche per gli
assistenti del PM, gli avvocati Antonio Garzolini e Vito Baroncini.
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Da Torre Pedrera alla Classense
Numerosi i motivi d’interesse per la seduta successiva, convocata il 3 luglio 1945. Tre
imputati, legati da parentela, di cui una donna, la prima. Non saranno tante. Le storie dei
due uomini venivano da lontano, dal periodo dello Squadrismo, e uno di questi era fratello
di un “martire del Fascismo”, Giovanni Ballestrazzi (con una sola elle nella cartolina commemorativa), un facchino “erculeo”, ucciso in Borgo Saffi il 26 luglio 1922 in uno scontro con
i “rossi”, durante lo sciopero dei barrocciai socialisti e repubblicani, in lotta perché l’Agraria
voleva trasferire alle organizzazioni fasciste, violando i patti, il trasporto del raccolto dopo la
trebbiatura. Botte, fucilate, bombe. Reparti della Fanteria e delle Guardie Regie sparano sulla
folla. Alla fine, un bilancio di 30 feriti e di 7 morti (si scrisse), di cui due “identificati”(secondo i neri), il Ballestrazzi (“vittima fascista”) e il ragioniere repubblicano Dino Silvestroni.
Tutti con nome e cognome, secondo i socialisti. Una storia terribile per Ravenna, non ancora dimenticata, raccontata con esaltazione da Italo Balbo in “Diario 1922”. Qui si racconta
che Muty e Celso Calvetti (futuro podestà) chiedono rinforzi a Ferrara, mentre altri fascisti
convergono da Lugo e Bologna, agli ordini di Grandi e Baroncini. Immobili o solidali le forze
dell’ordine. Finirà con il sequestro all’ospedale del cadavere di Giovanni Ballestrazzi, con un
finto corteo funebre in direzione del cimitero, dirottato invece alla conquista in armi della
Casa del Popolo dei repubblicani (via Paolo Costa), costretti ad uscire dall’Alleanza del
Lavoro (socialisti, repubblicani, comunisti e anarchici) pena la distruzione della sede. Poi è
la volta del palazzo delle Cooperative rosse, ex Hotel Byron (Piazza S. Francesco). “Bagliori
nella notte, tutta la città ne era illuminata”. Disperazione del presidente Nullo Baldini (riparato successivamente in Francia) e del socialista Caletti (Presidente dell’Amministrazione
Provinciale prima e dopo il Ventennio), entrambi presenti al momento dell’irruzione.
Tutto in cenere. La polizia introvabile. Non contenti, gli squadristi proseguono nella loro
“marcia trionfale”, con i camion forniti dalla Questura dietro promessa di ritornare a casa.
Distruzioni e morti a Cervia, Cesenatico, Rimini Sant’Arcangelo, Savignano, Cesena,
Bertinoro, ancora a Ravenna, nelle frazioni e nei borghi.
“Incendiammo - scrive il condottiero Balbo - tutte le case rosse, dalla pianura romagnola
ai colli, allo scopo di mettere fine al terrore rosso”. La Polizia e l’Esercito finsero stupore,
durato dal 26 luglio al 30 luglio. Del resto la Compagnia Mitraglieri a presidio della Prefettura
era comandata da un certo Bonomi, “fratello del Segretario del Fascio di Lugo”. Mussolini,
da Milano, si compiacque per le devastazioni inflitte alla sua Romagna e il Prefetto del
tempo, il palermitano Giuseppe Siragusa, a fine novembre fu premiato con il trasferimento
nella sede di Salerno.
Cose da Corte Marziale, entrate invece nell’epopea del Ventennio.
Nel dopoguerra, questa serie infinita di omicidi e barbarie avrebbe meritato una qualche
attenzione specifica, alla ricerca delle responsabilità personali degli squadristi di Ravenna e
provincia. Ma non fu così, almeno nell’ambito delle Corti d’Assise straordinarie. In qualche
caso, sarebbe bastato raccogliere la documentazione presentata dai fascisti stessi per ottenere onorificenze e il diploma di squadrista. Ben presto, invece, cominciarono le apologie,
non ancora spente. Su Grandi, l’ottimo Ambasciatore a Londra e l’artefice del famoso ordine del giorno del 24 luglio, che portò alla caduta di Mussolini; su Arpinati (assente a
Ravenna), il realizzatore dello Stadio di Bologna, ritornato alla vita dei campi dopo uno scontro con Mussolini, neutrale durante la Repubblica di Salò e ciononostante ucciso “prodito-
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riamente” da un Gap bolognese; su Balbo, eroe dell’aviazione, antitedesco, contrario alle
leggi razziali, verso il quale Mussolini era invidioso e diffidente, sì da ipotizzare una sua corresponsabilità nell’incidente in Libia, nel quale Balbo morì.
Silenzio, o quasi, sulle responsabilità dei fascisti ravennati, anche quando se n’offrì l’occasione, come per il processo in agenda ai primi di luglio del 1945.
Gli imputati. 1) Ballestrazzi Mario (fratello di Giovanni), figlio di Giuseppe, classe 1896,
latitante. Del suo curriculum, nei verbali del processo, si tace. Squadrista, iscrizione al PFR?
La prima qualifica non è menzionata, nonostante gli atti ufficiali della Federazione Fascista di
Ravenna, a firma del Federale Rambelli, lo confermino. Un unico cenno: “noto come fervente fascista”, almeno fino all’8 settembre, malgrado avesse ricoperto la carica di segretario rionale a Ravenna e non fosse estraneo agli scontri tra i fascisti ravennati per il controllo del
potere. Infine, né affermata né negata la sua adesione al Partito Fascista Repubblicano. Di
certo non ne fu protagonista, odiato per questo dai nuovi camerati, che mal sopportavano i
lunghi soggiorni a Torre Pedrera, ospite della cognata, la coimputata 2) Fabbri Anna Maria (di
Tullo e fu Calderoni Giulia), classe 1904, e del marito 3) Calzi Giuseppe ( di Francesco e
Gamberini Rosa), classe 1894. Entrambi detenuti dal 13 giugno.
Nelle carte appare più evidente il passato del Calzi, fascista dal 1921, Marcia su Roma,
Sciarpa littorio. Come molti, con simili titoli e senza particolari competenze, aveva trovato
lavoro come custode-meccanico presso l’Acquedotto, inaugurato il 1 agosto 1931 da Benito
Mussolini in persona. Numerose sono le foto sulla circostanza e quasi certamente i nostri
saranno riconoscibili in mezzo ad autorità e agli Squadristi schierati in prima fila. (A proposito: Balbo aveva scritto che, se Ravenna avesse avuto l’Acquedotto nel 1922, il palazzo delle
Cooperative non sarebbe andato totalmente in cenere). Con tali mansioni il Calzi viveva a
Torre Pedrera, a pochi chilometri da Rimini, da dove partiva l’acqua destinata alla città, come
ricordano i più anziani. Aveva un brutto carattere ed era insofferente della disciplina. Per fortuna il direttore, ing. Caporioni, era lontano da Torre Pedrera. Ciò nonostante, non erano
mancate le occasioni d’attrito, come quando il Calzi aveva preferito insediare, in un alloggio
destinato ad un operaio che gli stava antipatico, una famiglia sfollata da Rimini.
Si beccò un rimprovero di fronte ad un Maresciallo tedesco, poiché così facendo poteva
mettere a rischio l’operatività del servizio. Ed ecco la vendetta.
Era accaduto che nell’ottobre del 1943, quando i tedeschi, dopo avere preso pieno possesso di caserme e di ogni altro impianto civile e militare, erano arrivati a Torre Pedrera per
controllare gli impianti di sollevamento, non avevano notato una struttura distante 500
metri, costruita per prevedibili eventi bellici, dotata di un motore diesel e di una pompa centrifuga. Saggiamente l’Ufficio Tecnico del Comune di Ravenna subito provvide a trasportare
in città tutto il materiale, per sottrarlo al pericolo di requisizioni o di deturpazione da parte
dei teutonici. La cosa non era sfuggita all’iroso custode, che tramite la moglie, la Fabbri,
aveva informato il cognato Ballestrazzi e, a più riprese con nuovi dettagli e sospetti, gli occupanti tedeschi. Toccò quindi alla Federazione repubblicana, con funzioni di polizia, recarsi
presso il possibile nascondiglio. A capo della spedizione era il Ballestrazzi stesso e il citato
Maresciallo tedesco, provvisto anche del numero del motore (fornito dal Calzi), onde evitare scuse di sorta. Era il novembre 1943.
Il tesoro in questione si trovava presso la Biblioteca Classense. Il materiale, così scoperto, dopo un mese ritornò al luogo d’origine, dove subì, circa un anno dopo, l’opera distruttiva dei nazisti in ritirata, destino non diverso da quello dell’impianto cittadino, fatto saltare
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alla vigilia della liberazione. Non sappiamo se in assenza della delazione, i ravennati, nel caotico dopoguerra, avrebbero beneficiato prima dell’acqua. Certo è che i responsabili del primitivo e coraggioso trafugamento ne avevano subito le conseguenze penali con l’accusa di
sabotaggio dell’attività militare tedesca.
Inevitabile, per i tre “spioni”, l’imputazione del reato di collaborazione. Contro di loro
numerosi testi, Donati, Ronchi, Rigatti, Alberani, che videro e udirono frasi esplicite, contro
l’ingegnere Caporioni: “Vivono di quelli più grandi di lui, adesso metteremo a posto anche
lui!”. I due uomini furono condannati a 14 anni di prigione; fu respinto un loro ricorso e
dopo 11 mesi arrivò l’amnistia per il Ballestrazzi, troppo sollecita se si pensa che il relativo
Decreto portava la data del 22 giugno 1946 ( un errore dello scrivano?). Inoltre, a norma di
detto provvedimento, il Ballestrazzi non avrebbe potuto beneficiare invece del condono,
escluso per i latitanti. Per la cronaca, il Ballestrazzi, temendo accoglienze ostili, non metterà
più piede a Ravenna. Meglio restare a Roma. Non risulta agli atti un analogo provvedimento a favore del Calzi, anche se deve darsi per scontato. Fu più fortunata la moglie, che riuscì
a far sorgere nei Giudici il dubbio sulla natura delle sue frequenti visite al Maresciallo tedesco, non passate inosservate. Delazione o richiesta d’aiuto contro un probabile licenziamento del marito a causa dell’alloggio incautamente dirottato verso un amico? Chissà se il nostro
meccanico-custode sarà riuscito a mantenere il posto, certamente raggiunto per meriti squadristi? In vero, la sentenza di Ravenna lo condannava anche all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici.
Da ultimo: quel giorno di luglio la Corte (Peveri, Zaccaria Silvano di Alfonsine, Foschini
Giuseppe di Bagnacavallo, Linari Luigi di Faenza, Triossi Ernesto di Ravenna, uno dei tantissimi fratelli di Decimo, l’attuale Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza, già
Presidente della Provincia) non fu molto apprezzata né dalla stampa per la “longanime assoluzione della Calzi”, né dal folto pubblico, che protestò in aula, né dal PM, l’avv. Garzolini,
che ricorse in Cassazione. Rasserenanti, invece, i titoli dei giornali: “Giustizia in cammino:
14 anni al sabotatore dell’Acquedotto”.
Giovani e giovanissimi
Govoni Corrado del 1926. Cattani Carlo del 1927. Rosati Riccardo del 1928. Damassa
Giovanni del 1926. Veneri Walter del 1927. Poco più che bambini allo scoppio della guerra,
adolescenti sotto il tedesco invasore, ancora ragazzi, da detenuti, nell’estate 1945. Per tutti
l’accusa di collaborazionismo. Non doveva essere facile giudicare per coloro che avevano
vissuto gli stessi frangenti con qualche anno di più, che avevano visto i bandi, i fratelli
nascondersi, le minacciate rappresaglie, gli arresti dei genitori dei renitenti. La vera tragedia
non fu l’8 settembre, ma il dopo. Di fronte all’ultima avventura dall’esito incerto, alcuni giovani si erano presentati con entusiasmo, altri per paura, altri per senso del dovere. I più si
erano eclissati. I coraggiosi erano andati in montagna. Talora le vicende si erano incrociate
e i ruoli capovolti. Il caso, le storie di famiglia, gli amici spesso avevano spinto verso il rosso
o verso il nero. Per lo storico capire e spiegare non è cosa ardua; diverso il discorso per chi
era appena uscito dai lutti e dalla stagione del terrore. Particolare, infine, la posizione dei giurati, in sintonia con il mondo esterno che chiedeva giustizia (sinonimo a volte di vendetta),
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ma obbligati a valutare le responsabilità individuali, i fatti specifici, a norma dei vari Decreti.
Delle alternative dei coscritti, rifugi e montagne, si sa… E che dire di chi volontariamente anticipava la leva o di chi lasciava scuola e lavoro per correre ad arruolarsi, di chi voleva
un’arma per sentirsi uomo, unendo così bellezza ed utilità. Più soldi, più prestigio, più tranquillità. Era successo così anche ai loro padri e zii squadristi. Di converso, tra i partigiani si
trovavano spesso gli eredi delle vittime del biennio 1920-21. E, paradossalmente, ad interpretare gli odi e le rivincite spettò a chi non era stato protagonista di quegli eventi, non poi
tanto lontani. Spaccati di vita che purtroppo le sentenze non ci svelano. Se accanto ai giudici di carriera si fossero assisi anche sociologi di professione, oggi sapremmo di più sulla precocità o meno dei giovani di quei tempi. Pazienza.
1) Govoni Corrado (di Oreste e di Tunioli Oliva), abitante a Russi, aveva 18 anni quando
si era presentato volontariamente alla GNR (Guardia Nazionale Repubblicana). In pochi
mesi passò dalla località Due Madonne di Bologna alla Flak (contraerea tedesca), impegnata a Francolino di Ferrara e a Castel San Pietro. I tedeschi, che molto apprezzavano chi era
disposto a morire con le loro divise, se lo portarono in ritirata fino a Bolzano. A sua discolpa disse di avere soltanto pulito cannoni. Non era necessario.
La Corte lo assolse con formula piena (3 luglio 1945).
2) Cattani Carlo, di Civitella di Romagna, figlio di Stefano e di Gentili Maria, da appena 24
ore aveva superato i 17 anni allorché era corso alla GNR di Ravenna (dove abitava). E poi,
per oltre un anno, tra l’Emilia e il Veneto, nella “Divisione Etna” a Bologna, a Schio, a
Bassano, a S. Venanzio di Galliera. Ed ancora, nel 105° Reggimento Flak, dove più aspri
erano i combattimenti: a Savigno, a Vergato, a Casalecchio, infine a Punta San Maggia e a
Trento. Quando lo fermarono i partigiani aveva poco più di 18 anni, con un curriculum militare di tutto rispetto in mezzo alle bombe e alle mitragliatrici. La legge lo censurava, ma non
lo puniva. Assolto? No, avendo il Cattani partecipato con la GNR di Ravenna al rastrellamento e all’eccidio del Palazzone di Fusignano. Se ne parlerà ancora.
Dura fu la sentenza (10-7-45). 14 anni di carcere, invece dei 18 previsti. Per il Cattani, appena diciannovenne, arriverà l’agognata liberazione. Amnistia.
3) Rosati, originario di Avezzano, di Pietro e di Fontana Virginia, aveva battuto ogni
record. 15 anni aveva nel 1943 e fu assegnato al “Battaglione Otello Boldrini” di Bologna.
Rapidamente addestrato, prese parte a combattimenti nella zona calda di Pianoro, dove partecipò ad almeno un rastrellamento con compiti di controllo documenti (a suo dire).
Rimase nel bolognese fino al 18 aprile e nei giorni della disfatta fu catturato dai partigiani di
Treviso. Lo guardarono in faccia e lo lasciarono andare. Ritornato in Romagna, cercò la famiglia a Massa Forese e non trovandola si rivolse al CLN.
La Corte dichiarò l’incompetenza territoriale e lo spedì ai Giudici di Bologna.
4) Damassa di Ravenna, fu Bruno e Cavini Emilia, aveva avuto esperienze in parte simili
a quelle di Cattani. Nella GNR a poco più di 17 anni. Subito a Mezzano, poi a Bologna. Nella
Flak, come moltissimi giovani, seguì la “Legione Tagliamento” di stanza a Torre Bel Vicino di
Vicenza. Con essa peregrinò in diverse località del nord. Da Italo (Brescia) a Trento. Tornò
a casa da solo, a Gambellara, e da solo si presentò in Questura a Ravenna. Su consiglio o
spontaneamente? Da sprovveduto o in malizia? In cuor suo, non poteva essere responsabile di niente, avendo lavorato quasi sempre in officina, al magazzino ricambi e carburante.
Si era scordato però dei morti del Palazzone di Fusignano. Inevitabile la condanna a 14
anni, in data 10 luglio 1945. Inevitabile pure l’amnistia del 1946.
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Nella regola il Damassa, tranne che per un aspetto. Nella sentenza era previsto, come di
rito, il pagamento delle spese processuali e, in aggiunta, dei costi della custodia preventiva.
Ciò aveva comportato nel 1946 la confisca della metà di un suo terreno, a Massa Forese.
L’anno appresso era avvenuta la transazione, annullata soltanto dopo 15 anni (1962). I tempi
della giustizia civile!
Favorevole, infine, la sentenza per l’ultimo giovanissimo di quel luglio: Veneri Walter, classe 1927, di Ravenna, figlio di Domenico e Savini Ernesta, Era passato in breve tempo
dall’Opera Balilla alla Guardia Giovanile Legionaria, alla Flak. Obbligato, sostenne. Più probabilmente volontario. Una vita la sua, tutta spesa tra addestramento ed azioni di guerra.
Girò tra l’Emilia e il Veneto; fu a Bassano, Savigno di Bologna, S. Prospero di Modena, Idice
di Bologna, Cento di Ferrara. Difendeva i ponti e fu fortunato. Dopo la disfatta, invece di tornarsene a casa, era arrivato fino a Milano. Nessuna presunzione di colpe.
Le “fascistone”. Capelli al vento
Dell’animosità popolare contro le donne dei tedeschi e dei repubblichini già si è detto
nelle premesse. Particolarmente bersagliate non erano le parenti legittime, madri, mogli
(alcune diventate vedove), figlie, fidanzate, se non per le questioni legate ad alloggi di favore assegnati o per il manifestato fanatismo o per supposta attività spionistica. Nel mirino,
invece, le accompagnatrici casuali, in divisa di ausiliarie o senza, bersagliate ancor più se
riapparse dopo la liberazione accanto ai vincitori. La gogna nei loro confronti, in genere, si
esaurì in pochi giorni, prendendo di mira soprattutto i capelli. Un caso limite accadde invece a S. Lucia nel faentino: nel torrente Samoggia fu ripescato un corpo di donna martoriato.
Di solito le fasciste, vilipese ed umiliate, non erano imputabili di alcunché a livello penale. Naturale quindi che esplodesse la curiosità nei pochi casi in cui alcune di loro furono condotte alla sbarra, talune in stato di detenzione. In prima fila, donne vocianti, come evidenziato dall’assoluzione della Calzi. Ma poche furono queste occasioni, motivo per cui si preferisce riunire in un unico capitolo le accusate di collaborazionismo con il tedesco ed altro,
giudicate dal giugno al dicembre 1945.
Una di queste si chiamava Luisa Valentini ed aveva 40 anni quando si presentò da detenuta alla Corte d’Assise Straordinaria di Ravenna, in data 21 agosto 1945. Era nata a S.
Zaccaria, lungo la via Dismano, che da Ravenna conduce a Cesena. A 20 anni la vita l’aveva
portata invece a Bologna, dove aveva trovato marito, un certo Brambilla. L’unione non aveva
dato frutti e la donna aveva continuato a vivere a Bologna senza figli e senza marito. E, quando la città divenne un inferno per le continue incursioni aeree, la donna ripercorse nel gennaio 1944 il cammino inverso, fermandosi a Godo, nei pressi di Russi, dove c’era una sorella, insegnante del posto o sfollata anche lei. Ben presto però i bombardamenti arrivarono
anche lì e la Valentini riapparve nel luglio al paese natio, dove il padre era stato un noto fascista ed aveva diretto il Sindacato dei braccianti. Discreta fu l’accoglienza, ma, allorché emersero le sue simpatie politiche, la famiglia ospitante le chiese di trovarsi un altro alloggio.
Non le fu difficile, se si considera che a S. Zaccaria aveva preso a frequentare i tedeschi,
meno disprezzati dei fascisti e più potenti. Luisa doveva essere piacente, gradita agli ufficiali, con i quali festeggiava spensieratamente, senza preoccuparsi di farsi vedere con i capelli
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svolazzanti in auto. Non di questo doveva rispondere ai giurati (Bartolazzi Pirro, Minghelli
Arturo, Babini Terzo, Bovoli Renato), che non usarono toni moralistici nella sentenza, ritenendo il suo stile di vita legittimo (tanto più che viveva separata), riconducibile tutt’al più
alla “fragilità femminile”. Ben più grave l’imputazione: avere comunicato ai nazisti i nomi di
tre partigiani locali, Miccoli, Fiammenghi e Ariano Casadei, un muratore di S. Zaccaria, fucilato in paese il 2 settembre 1944.
Ad accusarla un’altra donna, Giuliana Monti, conoscente, “non amica”, di un ufficiale
tedesco che le aveva comunicato di avere saputo dalla Valentini stessa dell’appartenenza ai
partigiani dei tre. Credibile o mossa da sentimenti d’ostilità preconcetta? La Corte
(Presidente Peveri) scelse la versione dell’imputata (ben rappresentata dall’ottimo avvocato
Primo Stanghellini) poiché i primi due patrioti non furono molestati. Mentre il terzo, il povero Casadei, aveva pagato con la vita il possesso di un fucile nascosto nel pagliaio. Questa la
causa ufficiale della fucilazione e non l’appartenenza al movimento partigiano. Del resto, la
lunga permanenza a Bologna non aveva consentito alla Valentini di conoscere le nuove leve
di S. Zaccaria. A favore della donna testimoniò anche un agente di PS, tale Nunzio Cicognani,
che, pur avendo disertato il servizio, cosa nota alla Luisa, non aveva incontrato problemi di
sorta. Disinvolta la quarantenne, che con l’arrivo degli alleati, cessato l’incubo dei bombardamenti, aveva preferito allontanarsi per ignota destinazione, forse a nord. Apprezzabile per
la Corte anche il fatto che nel luglio appena trascorso ella, senza impacci, avesse fatto visita
alla sorella definitivamente ritornata al paese natale.
Inevitabile l’assoluzione per insufficienza di prove, con una punta polemica verso l’accusatrice Monti, in “dimestichezza” con l’ufficiale citato.
L’istigatrice
Dopo una settimana (il 28 agosto), in pieno periodo di ferie, sacre nella tradizione giudiziaria, fu la volta di Maria Penazzi, una faentina di 25 anni, nata da Angelo e da Nanni Rosa.
Due le imputazioni. Una generica, avere svolto attività ostile al movimento partigiano. Una
specifica, essere stata la causa, come istigatrice, nel duplice omicidio di due Placci, padre e
figlio. I fatti si erano svolti in rapida sequenza neanche un anno prima a Faenza. Una sera del
settembre 1944 (il 18), la donna era in casa con il marito, Alceo un milite della GNR. Il coprifuoco era rigoroso, anche perché il fronte lungo la Valle del Lamone non era lontano.
Qualcuno, incurante del divieto, si presentò davanti ai coniugi. Erano in cinque, non tutti
a volto scoperto. Precauzione o timore di essere riconosciuti? Lo spavento fu grande, ma
nessuna violenza fu esercitata. I cinque volevano armi e si accontentarono di una bomba a
mano. Nella concitata perquisizione la rivoltella d’ordinanza non fu trovata. Lo schiaffo
morale poteva restare segreto, ma non la pensava così la Maria, che per di più riteneva di
avere riconosciuto uno dei travisati. La sera successiva la donna era in casa da sola, in attesa e senza alcun timore. Verso le 22 sentì bussare. Erano amici, camerati del marito, uscito
verso le 19. Li seguì fino a casa di Vincenzo Placci, un partigiano di 23 anni, bracciante, uno
dei visitatori abusivi, quello da lei individuato. Sì, era proprio lui e giaceva a terra crivellato
di colpi. La casa era a soqquadro e in cucina giaceva anche il corpo di un altro uomo, anziano, Giovanni Placci, il padre di Vincenzo, un colono di 66 anni. Era stato ucciso subito, men-
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tre il figlio aveva tentato di guadagnare la salvezza fuggendo in mezzo ai campi. Là era stato
raggiunto e freddato. Rapida e spietata la giustizia fascista, della GNR in questo caso.
Ma come mai Alceo, il marito, non era venuto lui a prenderla, a dimostrazione che non
aveva perso tempo per sanare la ferita della sera innanzi? I camerati provvidero subito
accompagnandola in ospedale, dove Alceo era ricoverato, colpito da arma da fuoco. Nella
sparatoria contro il vecchio una palla amica lo aveva ferito. Non doveva essere un danno da
poco, se ad ottobre il Nostro non aveva ancora abbandonato il letto. Non si sa il giorno preciso in cui egli si alzò, ma ciò non avvenne spontaneamente. Nel frattempo, la donna si era
allontanata da casa: tre giorni dopo gli omicidi, per ritirare la biancheria, e tre settimane
dopo, per andarsene definitivamente. Paura di ritorsioni o preparativi per andare al nord, in
previsione dell’arrivo degli alleati? Delle sue peripezie si tace, ma è certo che Alceo, il marito, era stato rapito, imperanti ancora i tedeschi.
Ora Maria, detenuta, doveva rispondere d’istigazione a duplice omicidio e di partecipazione al saccheggio. I Giurati (Zannoni, Bertoni, Bubani, Bezzi) non ebbero incertezze.
“Naturale” il suo desiderio di vendetta, dubbi sul resto. Assoluzione per insufficienza di
prove. Non è escluso che il Presidente Peveri, nel dirigere il Collegio, abbia perorato in tal
senso, visto che la donna vestiva di nero, poiché Alceo non aveva più fatto ritorno né in
ospedale, né a casa.
Ucciso? Quasi certamente, anche se nell’Albo dei Caduti della RSI non risulta nessun
Casamurati o Casemurati.
Abbandonata due volte
Dopo una vedova, fu la volta di una separata, Benvenuta Calandri. Una donna poco fortunata, che nel nome portava la speranza di un destino felice. Figlia di Ignoti, era nata nel
1910 a Conselice. Da nove anni aveva rotto con il marito che aveva fatto in tempo a lasciarle tre figli. Nel giugno del 1944 si trovava a Ravenna, lontana dalla sua residenza di Lugo.
Vi aveva trovato lavoro presso i Tedeschi. Dopo un mese aveva fatto ritorno a casa sua e
continuato a frequentare gli stessi ambienti, secondo l’accusa entrando nel Corpo delle
Ausiliarie. Lei in giudizio negò, ma ammise che allora non le dispiaceva portare una giacca
militare tedesca. Non per motivi estetici, ma per comodità, soprattutto quando doveva fermare qualcuno per muoversi. A suo dire, era impegnata in mansioni di cucina per i nazifascisti e non c’è motivo per non crederle. Meno credibile quando motivò la sua partenza da
Lugo a causa dei bombardamenti. Non si era trasferita in campagna, ma a Bussolengo di
Verona, destinazione di molti fascisti ravennati, allontanatisi in formazione prima dell’arrivo
degli alleati. Là aveva continuato a svolgere il suo lavoro di aiuto-cuoca nelle mense militari,
e, per due mesi, a favore degli sfollati, i militi delle B.N. della provincia di Ravenna e loro
famigliari. Quindi non aveva cambiato mansioni e probabilmente le era era rimasto il gusto
di portare le divise degli occupanti, tant’è che alla Liberazione era incocciata nella tonsura
totale ad opera dei partigiani locali. Umiliata, aveva fatto ritorno a Lugo, convinta che il peggio fosse passato.
E qui cominciarono i suoi guai. Fermata dalla PS, arrestata e denunciata. Nelle incertezze
del vivere, la Benvenuta non aveva discriminato i civili e nell’agosto del 1944 aveva stretto
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amicizia con tale Antonio Gulmanelli di Lugo. Non sono chiari i rapporti.
Li lasciamo all’immaginazione. Un mattino, la donna passeggiava per città in compagnia
dei soliti tedeschi, quando incrociò Antonio. Non si sa se corresse un segno di saluto, più o
meno complice. Sta di fatto che nel pomeriggio gli stessi compari visitarono casa
Gulmanelli, per asportare due vestiti da uomo, 30 metri di tela, 12 lenzuola, 6 Kg di carne di
maiale, una macchina fotografica ed una bicicletta. Un vero bottino. Il sospetto di delazione
era legittimo, tanto più che la donna, nella sua ingenuità, era rimasta fuori, come il doppiamente deluso Gulmanelli ebbe a notare dalla finestra.
Dalle carte non si capisce se il proprietario venisse anche fermato come sospetto partigiano. Qualche confidenza di troppo! Tra le imputazioni s’indica anche la finalità dell’arresto. Sembra più probabile che i tedeschi in quell’occasione si siano accontentati della merce,
con beneficio anche per la denunciante. La pensarono così anche i giudici che riconobbero
il reato di collaborazionismo, esplicatosi nel saccheggio mirato. A sua discolpa, le attenuanti di essere senza famiglia d’origine e il ripudio da parte del marito.
Otto anni, invece di dieci, in data 4 settembre 1945. Tanto; ma non per la legge. La donna
dopo pochi mesi potrà riabbracciare i figlioli, per sopravvenuta amnistia. Giusto, anche se il
Decreto escludeva il beneficio, in presenza dello scopo di lucro.
La levatrice di Solarolo
La successiva imputata in stato di detenzione aveva 29 anni. Nativa di Alfonsine, viveva a
Solarolo. Non aveva ancora trovato marito o non lo aveva cercato. Lavorava alle dipendenze
del Comune, impiegata avventizia in una delle mansioni più delicate in quei tempi, come
levatrice. Si chiamava Emilia Taroni (di Paolo e di Amadei Marianna) ed era stata denunciata dal Comitato di Liberazione locale. La donna non solo aiutava a nascere, ma era in grado,
frequentando tante case, di raccogliere notizie d’ogni genere. Il posto le piaceva e per nulla
vi avrebbe rinunciato, anche a costo di prendere la tessera del Partito Fascista Repubblicano.
Così nelle sue parole. Qualcuno la pensava in modo diverso, poiché la donna era sempre
assieme ai tedeschi che con lei convivevano e soprattutto con Romolo Babini, il
Comandante del presidio della GNR di Solarolo, suo frequentatore assiduo. Nelle logiche di
vicinato la cosa non era sfuggita ad un tale, il quale ripetutamente aveva ricevuto la visita
domiciliare del sergente Babini, una il 23 luglio 1944. Per questo la donna fu accusata di delazioni a vantaggio dei fascisti e di propaganda filotedesca, desumibile in parte, dalle continue
invettive da lei lanciate contro i partigiani.
Troppo poco per la Corte, tanto più che l’unico accusatore, il citato teste, soffriva al
momento del giudizio di malattia nervosa ed era stato ricoverato nel vicino Manicomio di
Imola, che già l’aveva ospitato per due mesi nel luglio 1943. Inevitabile l’assoluzione per
insufficienza di prove, in data 11-9-45.
Resta la curiosità se la donna abbia mantenuto o meno il posto di levatrice, perseguito
con ogni mezzo (a suo dire), fino ad assecondare la sollecitazione del Commissario
Prefettizio dei tempi di guerra con l’adesione alla Repubblica di Salò. L’epurazione, dato il
generale fallimento, sembra da escludersi, ma l’Emilia, purtroppo per lei, era solo avventizia.
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Il giallo dello Jutificio
Comparvero in tre il 13 settembre 1945, un uomo e due donne, tutti detenuti dal 25
luglio, tutti nati e residenti a Ravenna. Errani Tino (di Giuseppe e Babini Enrica), classe 1910,
Pinza Emma (fu Gaspare e fu Farneti Luigia), nata nel 1900, e Venturi Luciana (di Antonio e
Baruzzi Santa), classe 1918.
I tre lavoravano nello Jutificio della Montecatini, il cui stabilimento era collocato nella zona
portuale. Dopo la Callegari, si trattava della seconda industria per la forte presenza di manodopera femminile, anche in tempo di pace. Meno nota della prima, meno chiacchierata per i
comportamenti trasgressivi, meno battagliera, più esposta però ai pericoli provenienti dal
cielo. Ciò si era accentuato nell’estate del 1944, man mano che la città andava spopolandosi.
Allarmi frequenti, fughe precipitose, crolli nei dintorni. Ne derivò che molte operaie preferissero raggiungere la campagna, da sfollate, alla fine di ogni turno. La poca manovalanza
maschile aveva goduto del beneficio di non essere precettata per il servizio militare e quella
femminile poteva sfidare il coprifuoco e girare in bicicletta senza incorrere in divieti. Nel trasloco lo stabilimento era stato sdoppiato: a Porto Fuori, verso il mare, gli uffici, al solito posto
(destra Candiano, non lontano da S. Simone) la produzione. La fabbrica vera e propria si trovava ad un chilometro dal centro e distava tre chilometri dalla Direzione. Tragitti che vari
dipendenti, con relativi lasciapassare, dovevano percorrere quotidianamente.
Una di questi era l’Emma Pinza, incaricata di recapitare la posta a Porto Fuori. Tutti i giorni, anche il 13 luglio. Erano le undici, quando Jader Giunchi, impiegato, le chiese un favore.
Che l’indomani, meglio ancora quel pomeriggio stesso, gli recapitasse un libro, collocato nel
suo cassetto presso la mensa aziendale. Non era chiuso a chiave. Neanche in tempo di guerra i libri facevano gola. Per facilitarle il compito, verso mezzogiorno Jader avvisò della commissione affidata alla Pinza anche l’aiutante cuoca, Adriana Zampiga. Nel pomeriggio, ad ora
incerta, la Pinza fece quanto promesso, ma poco dopo suonò l’allarme aereo. Tutti nel rifugio. Con le due donne, la Pinza e la Zampiga, anche Tino Errani e Luciana Venturi, occupati entrambi a Porto Fuori. Nell’attesa si mosse la curiosità ed in tre controllarono il contenuto del pacchetto, con la Zampiga che osservava a distanza.
Alle 17 e 10 suonò il cessato pericolo, orario registrato con precisione industriale dai registri, ancora intatti un anno dopo. Poi, l’Errani e la Venturi si mossero assieme in bicicletta
per rientrare in sede a Porto Fuori, portandosi appresso il pacchetto ben fissato al manubrio
dell’uomo. Jader non fece in tempo a ringraziare che i due ripartirono: la donna in compagnia di Guerrino Lolli verso S. Alberto dov’era sfollata, l’uomo per rientrare in fabbrica come
attesta il cartellino che segnava le 18, 28. I riferimenti alle ore e ai minuti sono essenziali per
la nostra storia. Per comprendere appieno bisognerebbe calcolare pure il tempo necessario
per passare da un luogo all’altro in bicicletta per strade di campagna, bianche. Diciamo 15
o 20 minuti, ad andatura normale, per percorrere tre chilometri; diversi i tempi se il tragitto avesse subito una deviazione verso il centro. Nel lasso di tempo sopraindicato, dal centro
città si mosse con più rapidità un’automobile di servizio, con a bordo un ufficiale della GNR,
tale Bianca o La Bianca, ed un milite. Andava verso Punta Marina e dopo un po’ di strada girò
a destra. Alle 18 e 30 il superiore era negli uffici della Montecatini, a Porto Fuori, a prelevare il “libro” di Giunchi, che invece conteneva “manifesti” di propaganda antifascista, o, per
meglio dire, manifestini o volantini. Immediato sequestro ed arresto dell’incauto possessore. La soffiata era evidente. Ma di chi la responsabilità?
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Per alcuni giorni del Giunchi si persero notizie. Detenuto alla Caserma Garibaldi di via
Roma, in Federazione, alla Sacca, in carcere? Inutilmente la moglie si affannò a correre dall’uno all’altro luogo. Infine, la tragica notizia comunicatole in Questura: il marito era stato
fucilato (non indicati il luogo e la data, e il corpo non sarà più ritrovato) per possesso di
“manifesti sovversivi” e di armi. Armi al plurale o una pistola? Nascosta in ufficio o a casa?
Trovata a seguito di ulteriori perquisizioni o consegnata dallo sfortunato Giunchi dopo
pestaggi? O più semplicemente una menzogna per attenuare l’enormità della punizione?
La delazione, come si vede, aveva provocato effetti terribili. E le indagini, caduto il regime fascista, si erano indirizzate verso i tre che a vario titolo avevano maneggiato il famoso
pacchetto di volantini. Il colpevole era sicuramente tra loro, uno o più di uno. Potevano
avere agito in accordo, distribuendosi i ruoli. Oppure fu opera spontanea di uno solo? La
GNR (o la Questura) aveva ricevuto la spiata prima o dopo l’allarme aereo, direttamente o
indirettamente per via telefonica? La consegna del libro fu operata in accordo coi fascisti
oppure no?
Risposte non facili. La Venturi, per raggiungere S. Alberto, era obbligata a passare per
l’unica strada possibile e quindi per Ravenna, ma non per il centro. E il suo servizio presso
la sede di Porto Fuori scadeva alle 17, orario quel giorno non rispettato, poiché, secondo la
narrazione di cui sopra, ella aveva lasciato lo stabilimento di produzione dopo le 17 e 10. In
più aveva percorso altri tre Km per andare dal Giunchi in compagnia dell’Errani. Si stringono di molto i tempi se s’ipotizza un salto in centro presso i gendarmi ravennati sulla via del
ritorno. Inoltre, che garanzie potevano avere, i due ciclisti della consegna, di non essere fermati per strada con materiale compromettente? La sicurezza loro poteva venire soltanto da
un’intesa preventiva con i militi, previa telefonata dallo stabilimento principale. Oppure il
traditore (o la traditrice) si era presentato direttamente al Tenente La Guardia, percorrendo
un triangolo fabbrica, centro, uffici di Porto Fuori e allungando il percorso di circa un Km e
mezzo o due? Possibile, ma mancavano i riscontri. Fra l’altro, neppure i movimenti dei protagonisti erano certi. Per esempio, la Zampiga sosteneva che la Venturi era partita con la
Pinza e non con l’Errani. Osservazione spiegabile considerando che la Zampiga, a voce di
popolo, era indicata come amante dell’uomo. E perché non sospettare di lei? Sarebbe potuta andare a Ravenna ad avvisare la GNR (presso la Caserma Balbo di via Alberoni, la più vicina), mentre il suo uomo consegnava il cosiddetto libro al Giunchi. Il dubbio deve essere passato nella mente degli inquisitori, subito abbandonato però, dato che la donna si era dimostrata, tra i possibili responsabili, la più chiacchierona, fornendo particolari a iosa. Non vide
passaggi di merce e neppure sapeva dei rispettivi impegni verso il Giunchi. A dire il vero non
scorse neppure il contenuto del pacchetto, anche se un qualche sospetto doveva esserle
venuto, visto con quale attenzione i tre lo esaminavano, mentre sopra le loro teste volavano
aerei da bombardamento. I tre rimasti negavano recisamente la responsabilità della delazione, e, a rafforzare in parte la posizione or dell’uno or dell’altro, a seconda dei viaggi e dei
tempi di percorrenza, sembrava assodato che il telefono della fabbrica fosse fuori uso.
La Corte sembrava propendere per tale certezza, anche se, a detta della vedova Giunchi,
il Tenente responsabile della cattura le aveva detto, qualche tempo dopo la fucilazione, che
la spiata era venuta per via telefonica da parte di una donna. Vero o non vero? Della responsabilità femminile si era detto certo anche il povero Jader, che in tal senso si era espresso
con certo Piron (in cella con lui?), che poi lo aveva riferito alla moglie di Jader. Purtroppo il
Piron nel frattempo era deceduto. Ma dove era finito il Tenente? L’unico in grado di dire di
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più sui modi della cattura, sulle comunicazioni, sull’interrogatorio del Giunchi. Sarebbe
risultato un teste prezioso, tramutabile facilmente in accusato principale.
Tornò in gioco, invece, la Zampiga, che dichiarò che le due donne le chiesero di giustificare la loro assenza in caso di bisogno, dovendosi recare in città per motivi personali. I conti
tornerebbero, modificando parzialmente quanto narrato sopra. La principale sospettata
diventava sempre più la Pinza. A lei si era rivolto il Giunchi, lei aveva preso il pacchetto, lei
lo aveva aperto, lei lo aveva consegnato all’Errani, lei aveva avuto il tempo di percorrere il
chilometri e mezzo in più per fare la denuncia, mentre gli altri, o l’altro, compivano la consegna. Non avrebbe avuto bisogno neppure di scuse, rientrando la visita giornaliera alle
Poste di Ravenna nelle sue mansioni, scusa a cui aveva invece fatto ricorso due giorni dopo
l’arresto del povero collega, forse quando ancora ignoto era il suo destino. Infatti, parlando
con la Ornella Sgubbi (o Sgobbi) le aveva comunicato di non avere provveduto direttamente alla consegna del pacco, dovendo urgentemente ritirare la posta. Confessione ingenua,
quasi da innocente, ma allora mica era accusata da nessuno! Smentì tale versione l’imputata, affermando che era uscita dallo Iutificio solo alle 19, al termine del suo servizio di portinaia. A smentire lei, ritornò la Zampiga che non l’aveva affatto notata in portineria. Semplice
la replica: era andata a dare il becchime alle galline che teneva in allevamento. In tempi di
guerra succedeva anche questo. Un rompicapo dunque.
C’era il rischio di condannare un innocente e di assolvere un colpevole.
I comportamenti e i precedenti degli imputati non erano di grande aiuto. L’Errani nel
1941 aveva rivelato ad agenti dell’Ovra i nomi dei lavoratori sospettati d’antifascismo, di scarso “spirito patriottico”, il che aveva portato all’arresto del dipendente Alberto Vicini. La
Pinza era la segretaria del Fiduciario fascista di fabbrica e la Venturi, da parte sua, dopo il
luglio 1943 si era dichiarata fervente fascista.
Di male in peggio. Come aveva fatto il Giunchi a fidarsi della Pinza con i suoi precedenti
politici e professionali? A prescindere da ciò, come non avere sospetto sulla lealtà di una
portinaia, categoria da sempre orecchio del padrone e, durante il ventennio, anche del regime? Infine, il Collegio (Peveri, presidente, e Giudici popolari, Buttini, Triossi, Morigi,
Morosi) si orientò per la più semplice delle soluzioni. La Pinza, il perno di tutti i passaggi e
la più libera nei movimenti, aveva fatto la delazione. Gli altri due, a conoscenza del contenuto del plico, avevano provveduto alla consegna, previo accordo con lei, se non altro per
evitare denunce trasversali.
E così sentenziarono. 14 anni alla Pinza, 12 all’Errani, 10 alla Venturi.
Si udì malamente la campanella del Cancelliere, sovrastata dal fischione, quello della
Callegari, che, a poche centinaia di metri dal Tribunale, era ritornato a scandire i tempi.
Nel luglio successivo, il primo, la Cassazione riprese in mano il rebus. Confermò la condanna della Pinza e la fece rientrare nel decreto d’amnistia. Assolse gli altri due per non
avere commesso il fatto. Uscirono tutti e tre liberi dal Carcere di Porta Aurea. Riassunti?
Un dubbio finale. E’ pensabile che i due assolti consegnassero materiale tanto scottante per
conto terzi, senza coprirsi le spalle e senza conoscere le intenzioni della Pinza? Più logica
sarebbe stata l’insufficienza di prove. Jader Giunchi, classe 1912, impiegato, padre di un
bambino, all’anagrafe risulterà disperso nel luglio del 1944, il che potrebbe far pensare ad
una morte diversa. Non fucilato, ma finito sotto le torture. Chi aveva messo i volantini nel
cassetto? A chi dovevano essere consegnati? Era la prima volta? Forse la Montecatini non era
sotto osservazione come la Callegari, dove scioperi e manifestazioni indicavano chiaramen-
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te la presenza di una cellula partigiana, come in seguito si scoprirà, con a capo Lina Vacchi,
poi impiccata al Ponte degli Allocchi. E di sicuro la Lina doveva avere un qualche collegamento con il Giunchi. E forse Jader non si era dimostrato tanto ingenuo. Quale accorgimento migliore che ricevere un plico compromettente uscito dalla fabbrica e portato da persona al di sopra d’ogni sospetto? La postina portinaia. Appunto.
Del resto, la vita sui luoghi di lavoro non era mai stata facile, neppure durante il
Ventennio. Le spie potevano nascondersi dovunque, nel superiore, nel collega, nel vicino di
casa. L’Italia si era trasformata in una grande caserma, popolata di delatori, al servizio del
padrone, della Questura, dei Carabinieri, del Partito. Meglio tacere, come consigliavano gli
artefici di tutto ciò. Un paradosso!
Per altri, invece, il sistema informativo ideato da Mussolini rappresentò un autentico
capolavoro. Ad esso il Duce dedicò la parte migliore di sé (o peggiore) e le ore più intense
della giornata. Ogni giorno il Capo della Polizia, Bocchini, lo aggiornava, nell’attesa dei provvedimenti conseguenti, su ciò che gli italiani scrivevano, dicevano, telefonavano.
Un’esagerazione? Ascoltate!
Un giovane del “forese”, tale Umberto Penazzi, era stato assunto alla “Callegari” nel 1935.
Era contento: posto sicuro, salario tutto l’anno, possibilità di vivere in città. Per prima cosa
prese alloggio a Ravenna. Ben presto, però, egli si accorse che i conti non tornavano. Tanta
fatica e modesta ricompensa. E così, il 27 agosto 1935, capitò che il Nostro scambiasse qualche impressione con un collega di lavoro, un uomo in questo caso. I due stavano confezionando le “tende Dux” e il discorso scivolò sulle condizioni di vita (non di lavoro) del neo
assunto. Non bene - disse il campagnolo - i soldi non bastano neppure per l’affitto. Ma la
“confessione” (come scrive Franzinelli) non si fermò qui e il Penazzi proseguì con uno sfogo:
“Che venga un cancro alla Dux con tutto il Duce!”. Una semplice imprecazione, ma non per
il collega-servo, che subito informò il capo reparto, che informò il direttore, che informò il
Questore, che informò il Prefetto (Agostino Guerresi), che informò Bocchini. La palla arrivò, infine, al Duce, che sentenziò: “Confino”.
E così il diciannovenne Penazzi si ritrovò senza lavoro, con un alloggio lontanissimo da
casa e sotto sorveglianza continua delle forze di polizia. Nella disgrazia, fortuna volle che nel
maggio del 1936 fosse proclamato l’Impero. Solo nove mesi di confino, prima di ritornare ai
lavori campestri.
Ignoriamo le ricompense nella scala dei delatori. Sappiamo soltanto che il Prefetto, nel
1939, sarà nominato Senatore, a vita, secondo le norme del tempo.
Impiegate pubbliche, dipendenti tutto fare, vivandiere, amanti:
collaborazioniste generiche o spie?
Nel declinante 1945 furono portate a giudizio altre 9 donne, quasi tutte detenute dal
maggio e arrestate dai CLN locali, dalla Squadra politica della Questura e dai Carabinieri.
Alcune presentatesi spontaneamente, onde evitare guai peggiori, altre fermate a scopo precauzionale. Tra loro, insegnanti, impiegate, semplici aderenti al Corpo delle Ausiliarie, che
portavano la divisa ed avevano seguito i commilitoni maschi, fuggiti da Ravenna o allontanatisi prima della liberazione. La più giovane era del 1928, la più anziana del 1905.
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Vediamo le storie.
Dina Mazzotti (cl. 1916) di Ravenna non aveva avuto fortuna nella vita. Certamente non
aveva conosciuto il padre Luigi, morto nella prima guerra mondiale. Con lei il secondo conflitto era stato più clemente, con il marito solamente prigioniero in Africa Orientale. Per sbarcare il lunario o forse per simpatie politiche si era messa a lavorare per i tedeschi, convivendo con loro, in località Tre Ponti (per la strada di S. Alberto o al limitare della pineta?), appena a nord della città, e poi a Imola. Doppia l’occupazione, sarta e cuoca. Tripla secondo l’accusa: anche spia. Ma accuse concrete non emersero. Naturale quindi, a norma di legge, l’assoluzione piena (13-9-45), perché il fatto non costituiva reato.
D’altro livello Rosa Bacchilega (di Domenico e Bertuzzi Maria), nata a Mordano nel 1906,
coniugata. Gestiva l’Ufficio Postale di Bagnara di Romagna. Aveva aderito al PFR e non solo
per non perdere il posto, tant’è che verso la fine di settembre del 1944 ripiegò al nord. Con
il marito? Si tace. Doveva essere un personaggio in vista se i partigiani la dovettero fermare
per impedire rappresaglie da parte della popolazione, e così la pensarono i Carabinieri che
la giudicarono “elemento pericoloso”. Clima ostile comprensibile nel piccolo comune, che
aveva pagato duramente la presenza dei fascisti e dei tedeschi, fatto segno, inoltre, di pesantissimi bombardamenti. Queste le accuse: avere fomentato la lotta contro i patrioti e fornito ai Comandi nomi di persone ostili
Il 4 agosto 1944 la Polizia tedesca aveva arrestato tre personaggi di rilievo: due medici,
Alvaro Merendi e Antonio Poppi, e il mugnaio Giuseppe Piani.
Sul primo pendeva il sospetto di usare una radio trasmittente, lanciata da un aereo alleato; sospetti gli altri due, per la frequenza e il contenuto di telefonate che erano partite proprio dall’Ufficio Postale, anche posto telefonico pubblico.
Gravi i rischi. Gli inquisitori tedeschi erano certi delle telefonate sospette dei due, tanto
più che nell’occasione di una di queste si era aperta una disputa politica con uno dei presenti, certo Del Bosco, che già aveva ricoperto la carica di Segretario politico del Fascio locale. In quella circostanza, con coraggio e con poca circospezione, il Poppi era esploso dicendo che la vera patria non era quella in mano dei tedeschi. La cosa per i tre era finita bene,
anche perché uno dei medici era riuscito a dimostrare il numero della ricetta da lui consigliata per telefono. Dovette risultare credibile anche per l’ufficiale tedesco che li licenziò
parlando di “vendetta di italiani”. Partirono da qui anche gli inquisitori dell’Italia liberata,
puntando il dito sulla Bacchilega, gerente dell’ufficio, che si era difesa ricordando che alla
domanda dei tedeschi sulle simpatie politiche degli accusati aveva semplicemente risposto:
“Non iscritti al Partito Fascista Repubblicano”. Ma perché era stata chiamata in causa proprio lei? Come denunciante o semplicemente come responsabile del servizio? E perché non
dubitare del suo supplente o di Del Bosco? L’unica cosa certa per i giurati, come da carte, fu
che a compiere opera di delazione era stata una donna. Si accontentarono di ciò e mandarono libera la Bacchilega con il dubbio (18-9-45).
Un dubbio anche a noi: fu epurata?
Poco più giovane Angelina Bonaldo (di Sante e di Ballanti Paola). Aveva 34 anni nel 1944.
Nubile, ma da sempre in mezzo agli uomini. Doveva essere conosciuta negli ambienti cittadini, poiché lavorava in Piazza delle Arti, più nota come Littorio (Ettore Muti sotto Salò, oggi
Caduti per la Libertà), presso la sede della Federazione provinciale fascista. E doveva conoscere anche molti segreti, visto che di lì passavano i prigionieri politici.
Donna di fiducia sicuramente, come direttrice amministrativa, legata al regime, del quale
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condivise la sorte fino alla fine, andando a nord con tutti i registri e con le giacenze di cassa,
circa mezzo milione. Quali le sue colpe? In correità con altri avere prelevato somme
dall’Erario, in tre trance, per la bella cifra di lire 7 milioni e mezzo. La cosa non era avvenuta senza difficoltà. L’Intendenza di Finanza si era opposta. Ma il Federale, l’ing. Pietro
Montanari, e il Capo Provincia, il famigerato Emilio Grazioli, avevano emesso un’ordinanza
tassativa, interpretando fedelmente quanto disposto dalla Direzione Nazionale del PFR: in
caso di bisogno chiedere anticipazioni su fondi giacenti presso la Tesoreria. A settembre si
dette il caso. Le Brigate Nere si preparavano a sloggiare e quindi serviva denaro da distribuire ai brigatisti e alle loro famiglie per i traslochi e per vivere in Veneto o in Lombardia.
E così avvenne. La donna provvide materialmente a ritirare il tutto, passandolo subito ad
Andreani, il vero capo dei repubblichini ravennati, pur essendo solo vice del Montanari.
Che fosse legittimo o speso bene a lei non interessava; l’importante era che le ricevute
corrispondessero e che nulla si potesse obiettare sul rendiconto della sua gestione. Di più:
agli occhi dei giurati sembra addirittura che la Bonaldo avesse seguito le Camicie Nere oltre
Po esclusivamente per questo! Ottima impiegata, come era risultato financo agli Ispettori
della Finanza badogliani, che avevano gestito i beni della Federazione dal luglio fino all’8 settembre 1943, con lei regolarmente al lavoro.
Nessuna colpa quindi. Ubbidì ad ordini superiori e a norma del Codice Militare di Pace
nessun reato era stato commesso (in data 20-9-45). Purtroppo però perse il posto, per la cessata attività della sede littoria. Siamo certi comunque che l’efficiente ragioniera non sia rimasta a lungo disoccupata. Troppo straordinarie le referenze burocratiche e, perché no? quelle politiche. Ipotesi centrata, come confermano le informazioni fornite da Bruno Babini.
“L’Angelona”, divenuta sposa di un chiassoso fascista di piazza (Dante Corbelli), diverrà capo
contabile della ditta Ferruzzi, sempre attiva e precisa.
Più spedita la causa contro Liliana Spada (di Luigi e Sagrini Fernanda). Era una semplice
casalinga di 22 anni. Non stava volentieri in casa e nel periodo critico frequentava assiduamente le forze germaniche, con preferenza per gli ufficiali di stanza a Casola Valsenio, suo
luogo di nascita e di residenza. E con loro si portò anche a Molinella. Con l’avvicinarsi del
fronte, fu giocoforza accontentarsi dei camion della GNR, che la portarono a vivere i giorni
della disperazione nel vicentino e nel veronese. I giurati non videro nella sua breve follia
alcun reato (28-9-45).
La vicenda di Dalila Finotelli (di Luigi e Baldini Maria) altra ravennate, classe 1909, appare una storia da strapaese, tipica di via Fiume postbellica. Seria invece l’accusa: istigazione
all’omicidio. Il fatto era avvenuto in data quasi impossibile, il 3 novembre 1944.
Sembrerebbe un errore dello scrivano del Tribunale. Infatti i fascisti, caporioni e gregari, non
si vedevano quasi più per le vie della città, nonostante l’esercito greco-inglese-indiano-canadese, ecc., non si scorgesse ancora all’orizzonte. Per precauzione, come già detto, essi, per
difendere la patria minacciata a sud (difesa solo dai tedeschi), avevano guadagnato il nord
da circa un mese. Però la città continuava ad essere sotto controllo della Repubblica di Salò.
Quindi c’era da aspettarsi che da un giorno all’altro i fascisti potessero ritornare per un’ultima vendetta, una resa dei conti dimenticata o maturata per circostanze successive: un fascista rimasto, dimostratosi riottoso a fare i bagagli o pentito, un parente non più garantito nei
privilegi, una fascistona di prestigio senza protettori.
Era il caso della Finotelli, un’insegnante, coniugata, che aveva aderito al PFR.
Costei, nella data sopraindicata, stava ospitando, forse controvoglia in quel momento, la
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famiglia della madre del fascista Arcieri Luigi Francesco, riparato al nord. La cosa antipatica
era che il nucleo Arceri era stato sfrattato dal precedente domicilio, occupato fin dalla primavera da Giovanni Zanotti, un tempo in rapporti amichevoli con il suddetto Arcieri.
Fascista e compromesso anche lo Zanotti, dipendente del Distretto Militare e sicuramente
in cerca di una verginità per affrontare meglio il vicino domani. Già in ottobre costui si era
mosso a denunciare a Romeo Piccinini, noto fascista rimasto in loco, la famiglia Arcieri, per
possesso abusivo di 40 quintali di legna depositati nella Federazione fascista. I soldi erano
partiti tutti, ciò che ingombrava era rimasto. In vero, non erano 40 quintali, ma cinque, e
furono sequestrati. Due, quindi, gli affronti dell’ex commilitone Zanotti in danno degli
Arcieri. A vendicarsi piombarono giù fra gli altri l’Andreani e l’Arcieri Luigi. A sobillarli,
ammesso che ce ne fosse bisogno, ci si mise anche la Finotelli, la quale apparve rinata quando vide i due in compagnia del Calvetti. Strette di mano, abbracci, addirittura un bacio,
accompagnato dall’invito perentorio: “Nessuna pietà per Zanotti e famiglia”. Per sua fortuna, costui non fu trovato né al Distretto, né in casa. Sparito. Passata la paura e trascorsi alcuni mesi, il 18 aprile 1945 Zanotti prese carta e penna per ricordare alla città che la Finotelli
aveva istigato ad ucciderlo, sia pure inutilmente. Lui, proprio lui, che già allora aveva maturato sentimenti antifascisti. La Dalila prima ammise una generica sua deplorazione dello
Zanotti, poi negò tutto. Contro di lei due donne, Clara Gentilini e Diana Olivieri, figlia e
madre, che agli occhi dei giurati avevano il torto di convivere con lo Zanotti.
Alla Corte non piacque proprio la parte lesa. Frasi minacciose o meno pronunciate dalla
Finotelli, andava escluso comunque il movente politico. Il fatto non costituiva reato (in data
4 ottobre 1945). Beghe tra sfollati. Da notare che la donna era stata arrestata il giorno stesso della Liberazione, proprio il 25 aprile. Che fretta da parte dello Zanotti!
Stessa sentenza anche contro Viviana Casadei, figlia di Pompeo e di Francia Rosa, classe
1921. Costei doveva essere una donna capace, nonostante la giovane età, e in grado di dare
garanzie politiche. Non ancora ventitreenne nel febbraio 1944 si era iscritta al PFR e come
dipendente del Comune aveva scelto il Corpo delle Ausiliarie, che l’aveva spedita all’Ufficio
Matricole del Distretto Militare a controllare i nominativi dei giovani da richiamare alle armi.
In quella veste doveva avere conosciuto lo Zanotti, a differenza del quale, ella ad ottobre se
n’era andata dal lavoro e dalla sua casa di via Corti alle Mura 10. Sfollata o nascosta a S.
Alberto, luogo più sicuro della città. Ma a dicembre il borgo al confine delle valli fu investito in pieno dalla guerra, con la g maiuscola. Le inevitabili paure la spinsero così a rimettersi la divisa e a seguire fino in fondo l’avventura dei repubblichini. Prima a Lavezzola, poi oltre
Po a Rovigo, infine a Candiana e Padova, l’ultima spiaggia. Quanti ravennati a Candiana in
quel periodo! Nome ideale per profughi, come l’etimo suggerisce: in fuga da Candia caduta in mano ai Turchi. Ma la sveglia Viviana forse colse l’altra ipotesi etimologica, più civettuola e consona al suo ruolo di ausiliaria, Campo di Diana. A fine guerra, come convinta di avere
partecipato ad una suggestiva partita di caccia, se ne tornò bel bello verso casa, subito, in
compagnia di due cacciatori, due ex ufficiali della GNR. Non sapeva che in Borgo S. Biagio
si poteva incrociare una pattuglia di patrioti in attesa dei rientri. Era appena il 3 maggio e in
giornata la Viviana finì in carcere.
La Corte l’11 ottobre dello stesso anno le restituì la piena libertà.
Nessun addebito specifico. Ritornò in Comune? Forse no. In fondo, la donna aveva
abbandonato il posto di servizio senza essere costretta. Anche se, come sappiamo, ben presto arrivarono autorevoli ordinanze ed interpretazioni favorevoli ai fascisti nella sua stessa
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posizione. Un unico spiraglio: nelle carte del processo la Viviana è indicata come casalinga.
In cerca di radicchi
Quasi casalinga, aggregata con funzioni di vivandiera, era la più giovane delle imputate.
Classe del 1928, nata ad Alfonsine, residente a Voltana. Aveva perso il padre in guerra. Non
aveva ancora sedici anni, quando, nel gennaio del 1944, Luigia Tamburini (fu Agostino e di
Ballanzani Clementa) aveva bussato alla porta del Fascio di Voltana. Preparava da mangiare
agli uomini in divisa nera e talora, a suo dire, si allontanava dal presidio in cerca di cibo.
Andava per la campagna ed una volta, in compagnia della Tonina Scacchi, in armi anche
lei, aveva scoperto dei radicchi lungo un canale. Non fu gradita la sua presenza e tre uomini mascherati (partigiani) le fecero capire il mancato gradimento in zona. Si era verso il 20
aprile del 1944. Dopo due o tre giorni, a 500 metri di distanza dai radicchi, uno dei fatti più
tragici della primavera. La strage del Palazzone.
La voce pubblica non ebbe dubbi: le due donne fingevano di cercare erbette.
La Nostra ritenne perciò opportuno cambiare aria ed andò al Comando mensa di
Mezzano. Da dove, con qualifica d’impiegata, passò a Venezia, a Como, a La Spezia. Un itinerario diverso dal solito.
Nel dopoguerra, Angelino Guerra (parente di un caduto o uno dei tre mascherati) ed
altri tradussero in una denuncia formale il dire dell’opinione pubblica che la indicava come
spia, all’origine dell’eccidio del Palazzone.
Il 4 ottobre 1945, la Luigia tirò un sospiro di sollievo: insufficienza di prove. Ma non era
il caso di tornare a vivere a Voltana.
Maestra spia?
Vent’anni di Fascismo non erano trascorsi invano nella scuola. “Libro e moschetto”, parate militari, esercizi ginnici, divise, discorsi solenni e retorici, conquiste imperiali. E non si
può dire di certo che il regime trascurasse le ragazze, spesso coinvolte e protagoniste nelle
varie ricorrenze. Solo la Chiesa aveva offerto di più. Paradossalmente aveva dato di meno la
sinistra che aveva scommesso sull’emancipazione della donna, proponendo cortei di protesta, scioperi, fatiche aggiuntive, e in tempi ormai lontani. Nessuna meraviglia quindi che le
insegnanti giovani si fossero sentite parte integrante dell’avventura bellica, fino all’appendice nazifascista.
Una di queste era la Maria Cristina Saladini (di Andrea e Pezzi Giovanna), nata a Faenza
nel 1921. Insegnante, iscritta al PFR, collaborava alla causa fascista repubblicana come impiegata nella segreteria del Fascio di Castelbolognese. La zona vasta dipendeva dalla Brigata
Nera di Faenza, diretta dal Comandante Raffaeli, il cui referente locale, il segretario, era un
certo Conti. La donna di tanto in tanto lasciava la sede di Castelbolognese, sita in piazza, per
conferire con il ras presso la Villa S. Prospero (sede di fortuna della B.N. di Faenza, dopo lo
sfollamento, situata poco fuori Faenza, in direzione di Castel Raniero
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Il 2 settembre 1944 capitò l’inverso. Un camion di fascisti arrivò a Castel Bolognese da
Faenza e il Raffaeli cercò la Saladini per affidarle l’incarico di trovare il Conti prima di sera.
Nel frattempo la comitiva sarebbe andata a Riolo Bagni per urgenti operazioni. Alle 18 l’incontro in ufficio dei due capi. La presenza della Maria Cristina non era necessaria e la cosa
probabilmente non le dispiacque, poiché a tenerle compagnia rimase Giulio Marri, segnalatore nella contraerea faentina, nonché suo fidanzato. Poi partirono gli ordini, e alcuni militi
si allontanarono a piedi per un breve tragitto. Al ritorno portavano un uomo e una donna,
Dionisio Mazzarra e Luisa Boldrini, sposati con tre figli. Salirono su in camion e via per il
viale della stazione. Sosta davanti ad una residenza signorile in mezzo ad altre di pari bellezza. Ville in stile liberty o mussoliniano. Un classico, come in molte località toccate dalla ferrovia. Vi abitava il dott.Gaetano Piccolo e in visita si trovava il futuro genero, Giuseppe
Buffardeci. Fu fatto salire anche il giovane, malgrado il pianto della fidanzata.
Missione compiuta per il Raffaeli, che, di ritorno, vide la Saladini di corsa ad inseguire con
il fidanzato. “Lasciate la donna, ha tre figli”. Fu accontentata. Sgomenta la Luisa Boldrini
corse a casa a prendere qualcosa per il marito rimasto prigioniero, una giacca e un po’ di
tabacco. Tra le due donne non ci furono i ringraziamenti che la Saladini si attendeva. Anzi:
“Vi siete meravigliata perché avevano preso anche me, allora sapevate!”.
Figuriamoci la reazione successiva, quando la Boldrini conobbe l’epilogo. Insulti e minacce assieme al figlio Roberto contro la maestra-spia. Mazzarra (un operaio di anni 43 ) e
Buffardeci erano stati consegnati ai tedeschi, che la sera stessa del 2 settembre 1944 li impiccarono con altri sette. Luogo del supplizio, il Ponte Felisio, in territorio di Solarolo. Contro
i martiri nessun’accusa. Rappresaglia e basta.
Il 29-11-45 Maria Cristina Saladini fu chiamata in giudizio in stato d’arresto, fermata di ritorno dal nord. Accuse: correità nella cattura e minacce contro i partigiani in altre occasioni.
Principale teste la vedova, che fra altro ricordò che le Brigate Nere entravano spesso a
casa della Saladini. N’era certa, essendo vicina di casa. L’imputata sapeva o no dello scopo
della visita di Raffaeli? Aveva concorso a dare almeno un nominativo? Questi i dilemmi.
Lei, in dibattimento, negò tutto, tranne la sua raccomandazione di liberare la donna.
I Giurati non le credettero e la condannarono ad anni dieci, ridotti ad anni sei, perché
l’azione fu compiuta in esecuzione d’ordini. Le furono concesse anche le attenuanti generiche: incensurata ed “educata in clima fascista”. A scuola e in famiglia?
Nella ricorrenza dei due anni dall’eccidio, arrivò l’amnistia.
Tra il Natale e il Capodanno del 1945 si svolse l’ultima tornata di processi di quell’anno.
Un nuovo Presidente, il cav. uff. dott. Alberto Spizuoco, che passerà il resto della vita a
Ravenna.Giurati: Giovanni Vaccari, Guglielmo Masetti, Eugenio Buttini e Gino Gatta, futuro
Sindaco.
Un caso a sé. La sfortuna di chiamarsi Maltoni
A Faenza nel 1922 era nata Afra Maltoni. Un cognome impegnativo e fortunato. Chissà
quanti complimenti a scuola e nella vita, chissà quante domande sulla possibile parentela
con la più famosa delle maestre d’Italia, la Rosa Maltoni, la mamma per eccellenza, che aveva
dato i natali a Benito. Ma nell’estate del 1944 caddero certezze e privilegi. La ragazza fu por-
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tata nella sede del fascio faentino, a Villa S. Prospero, in stato d’arresto. Era agosto. Il giorno dopo fu rilasciata. Era accaduto che, finita la guerra, una donna, certa Fausta Facchini,
che al tempo era sfollata in una casa nei pressi della sede delle B.N., si recasse al CLN, per
dichiarare quanto sapeva. E doveva conoscerne molte di cose, poiché nella calura estiva era
usa sedersi sull’uscio. Un giorno aveva visto arrivare Afra in bicicletta e si era fermata a parlare con tre brigatisti, Mario Bandini, Nello Cassani e Francesco Cattani. La spiata della
Facchini giunse alle orecchie della sospettata, sicché si ebbero numerose scenate in pubblico. La situazione era imbarazzante: la Maltoni, il cui il fratello era un noto antifascista (e lei
per questo era stata fermata dai brigatisti neri), passava da vittima a complice. La cosa finì lì.
Poi, dall’interrogatorio di un fascista finito in carcere, Francesco Schiumarini, scaturì una
conferma terribile. La cattura e l’uccisione del patriota Bruno Bandini, sorpreso in casa,
erano il frutto di una delazione. Colpevole la Maltoni. La fonte era indiretta e portava ai citati Cattani e Cassani. I conti tornavano e il CLN dovette ricredersi. L’accusa di spionaggio, con
tragiche conseguenze, portò la Nostra in carcere (20-10-45), in compagnia dei suoi vecchi
persecutori. Ella, che non aveva bastonato la sua accusatrice solo perché era incinta, a fine
anno comparve davanti alla Corte di Assise di Ravenna. Si difese disperatamente e rammentò del suo arresto, il 12 agosto 1944, avvenuto per rappresaglia in seguito all’uccisione di un
fascista, tale Domenico Sartoni. Sostenne di non avere mai conosciuto né di nome, né di
vista il povero Bandini e ricordò che al tempo della sua cattura era sfollata a Modigliana presso la famiglia Alfi. Un affronto: lei antifascista come tutta la famiglia. In aula, lo Schiumarini
corresse in parte la fonte dell’accusa, ma non sostanzialmente.
Per il Collegio fu sufficiente, tanto più che la prima accusatrice, la Facchini, apparve una
pettegola con molta confusione sulle date. In vero, le si chiedeva troppo.
Inevitabile l’assoluzione “per non avere commesso il fatto”.
Che dire? Due mesi di carcere per l’antifascista Afra Maltoni, in compagnia di ex fasciste
in divisa, a parlare ancora una volta del suo equivoco cognome. Gino Gatta, il capo comunista, nonché Giudice popolare, credette a lei o al prestigio della famiglia? Tre erano i Maltoni
in politica, il più autorevole Vincenzo, componente della prima Giunta Comunale di Faenza,
morto prima di questo processo. Non capiterà più che brigatisti neri chiamino in causa con
accuse di correità “delatrici” di parte avversa. Fu un caso a sé.
Reduci di guerra e nuovi coscritti
Quando si pensa al 1943-45 la mente corre ai giovani, digiuni di guerra, che chiamati alle
armi dovettero scegliere. Ma dopo l’8 settembre ‘43 dovettero scegliere anche le migliaia di
soldati che tornavano dai Balcani, dalla Grecia, dalla Russia, dalla Francia. Molti di loro non
fecero neppure in tempo a raggiungere casa, perché i tedeschi li deviarono verso i campi di
prigionia della Germania. Furono in molti, e solo pochi preferirono le sofferenze e i pericoli in terra lontana, piuttosto che combattere per Mussolini. Gli altri, gli sbandati dell’8 settembre, trascorsero poche settimane in famiglia, convinti che tutto fosse finito. Ma così non
era. Non parliamo di chi era tornato dall’Africa, Orientale o Libica, perché quasi tutti i combattenti di quei fronti erano finiti prigionieri degli alleati.
Vediamo alcune storie di reduci che nel luglio 1945 finirono in Corte di Assise.
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Bottighelli Oddo di S. Pietro in Vincoli, nato nel 1915 da Attilio e Andrini Virginia. Da civile faceva il muratore. Da soldato era stato in Albania nella Divisione “Puglie”. Internato in
Germania, aveva lavorato in una miniera di ferro. La propaganda della Repubblica Sociale lo
convinse a rientrare in Italia. E così si ritrovò in divisa da SS italiana a Vercelli, poi a Cantù
come infermiere ed infine all’ospedale militare di Verona. Al suo attivo almeno un rastrellamento di partigiani nella zona di Borgosesia. Fu catturato dai partigiani e la fece franca.
Da allora operò solo nella Todt. Le sue eventuali responsabilità andavano approfondite,
ma ciò non era di competenza territoriale di Ravenna (3-7-45). Che se la vedesse la Corte di
Vercelli.
Un reduce di casa era invece Andrea Ravaglia (di Agostino e Casadio Giuseppa) un imolese, classe 1908. Di casa, perché durante la guerra era rimasto in Sardegna, come
Maresciallo dell’aviazione. Con l’armistizio i tedeschi l’avevano spedito in Germania, da
dove, complice l’appendicite, ripartì per Ravenna. Un fortunato, che volle festeggiare il suo
rimpatrio presentandosi alla GNR. Volontario, addetto, a suo dire, all’autodrappello per la
fornitura di viveri. Questo nel marzo del 1944. Spericolato come tutti gli avieri o furbastro
come molti marescialli, a settembre ritenne opportuno tagliare la corda, inseguito da accuse di malefatte nel suo servizio e nella vita familiare, delle quali si tace. Vestito da tedesco,
non trovò impacci nella fuga. Ma in molti si ricordarono di lui, dopo il 25 aprile. Tra questi
il più efficiente degli inquisitori, la Guardia scelta Piermattei, che non dimenticò la partecipazione del Ravaglia ai rastrellamenti. In vero, ne emerse soltanto uno, fra l’altro mancato.
Siamo a S. Stefano, poco a sud di Ravenna. Tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1944
era stato ucciso il locale Segretario politico del Fascio, Bruno Damassa e dal capoluogo partirono in una decina per pareggiare il conto. Erano le 22 del 12 giugno. Il Ravaglia faceva
parte del gruppo. Non per rappresaglia, ma per accompagnare a casa il figliolo del
Segretario. Che scorta! Il Caffè Drei, nonostante il coprifuoco, era ancora aperto e vi sostarono i militi, minacciosi più nel dire che nel fare. “Segnalateci le case degli antifascisti e degli
antitedeschi, che vogliamo farne un mucchio di cenere”, rivolti agli avventori. E il Ravaglia:
“Vorrei avere in mano questi ribelli! Se i ribelli cadessero in mano a me finirebbero di fare i
ribelli!”. Quasi profetico l’imputato, che al ritorno si beccò due pallottole, una per mano.
Tutto qui. Rappresaglia minacciata. Gli diedero 15 anni, senza attenuanti generiche.
La Corte (12-7-45) parlò dei dati obiettivi e “subiettivi”. Troppo! Forse non era un galantuomo e quasi certamente passava per un pessimo marito. La Cassazione rimediò.
Al contrario, ottimo padre era Caon Ermenegildo (fu Napoleone e De Bardi Albina), classe 1906, nativo di S Giorgio in Bosco (Padova). Già Guardia di Finanza, per mantenere
meglio gli otto figli era entrato nella GNR. Abituato da tempo a scrutare il mare in cerca di
contrabbandieri, fu messo nei Battaglioni costieri per segnalare l’arrivo di navi nemiche, in
vista di un possibile sbarco alleato. Poveretto! Prima a Porto S. Giorgio, poi a Porto Corsini
e Fiumi Uniti. Dopo il settembre 1944, al Lido di Venezia ed infine a Jesolo. Lavorava per i
tedeschi, è vero. Ma rimase sempre disoccupato, avendo il compito di avvisare telefonicamente la presenza di navi ostili. Il 27 aprile del 1945 era ancora lì.
La Corte (17-7-45) lo rispedì subito in famiglia. Nessun reato.
Come si sa il sogno degli italiani è stato a lungo quello di fare gli uscieri. Professione
rivendicata da moltissimi imputati di collaborazionismo, per sminuire le accuse. “Ero custode del magazzino”, “custode della sede”, “guardiano degli autocarri”, giuravano in coro.
Disse così anche Giorgioni Ubaldo (fu Elviro e di Bezzi Maria), di Ravenna, classe 1915.
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Forse mentì o forse era stato declassato. Lui, che nella vita civile faceva l’impiegato, si era
ritrovato da brigatista nero nel ruolo di Piantone della federazione fascista. Con l’avvicinarsi
del fronte era partito per il nord, a vivere fino in fondo l’avventura repubblichina. A piantonare qualche sede del regime?
Non la pensavano così i vicini di casa, che spesso lo avevano visto rientrare a notte avanzata carico d’armi, di sicuro dopo scorribande coi fascisti o coi tedeschi. Poco importa. Di
parere contrario anche quanti lo avevano udito minacciare propositi di morte e di rappresaglia. Non mancavano cinismo e vanterie, come quella di avere ucciso un vecchio ed un bambino che cantavano Bandiera Rossa, dopo che una bomba gettata in un capanno aveva provocato due morti e diversi feriti. “Bisognava bruciare tutti coloro che abitavano in zona”
avrebbe urlato. Non è chiaro dove il Giorgioni abitasse in quel periodo o dove avesse la sede
operativa. Tutti gli elementi a disposizione portano a Mezzano. Da lì sarebbe partito una
notte del giugno del 1944 per fare una visita assieme ai camerati tedeschi nella vicina
Ammonite, dove abitava Lucio Baracchini. La perquisizione diede frutti: un fucile da caccia,
800 cartucce, 20 Kg di munizioni (!), una motocicletta “Gilera”, altre cose e soldi nascosti
sotto il materasso. Il Baracchini non fu fucilato e per sfortuna dell’imputato comparve al processo. Delazione e rapina, le accuse.
Il Nostro, non potendo smentire la sua presenza, negò di essere entrato in una seconda
stanza dove altre diecimila lire erano sparite dalla tasca interna di una giacca. Stranamente i
tedeschi avevano restituito il primo malloppo, ma del secondo neanche l’ombra.
I Giurati (17 luglio 1945) non se la sentirono di esprimere la certezza suo destino, ma non
ebbero dubbi nel negare la supposta attività di semplice piantone del Giorgioni.
Quindi, 20 anni di reclusione. In apparenza, pena eccessiva. Giusta, se quelle sue parole
non erano state frutto di vanteria. La Cassazione rinviò il tutto alla Corte di Assise di
Bologna. L’esito nel capitolo finale.
Meno chiacchierone Renato Notturni (fu Aldo e Rosetti Anna), di Ravenna, classe 1920.
Cementista nella vita civile, marconista in Albania. Dopo l’armistizio i tedeschi lo avevano
portato in Germania. Chiese di tornare in patria per la morte del padre, mitragliato.
Lo accontentarono con l’impegno di arruolarsi nella Repubblica di Salò. Correva l’agosto
del 1944 e il Nostro mantenne i patti. Dapprima nel “Battaglione S. Marco” sulle Alpi, poi un
po’ di Flak, infine sergente nella Guardia Nazionale, destinato il 9 settembre ad una roccaforte rossa, presidio di Alfonsine. Irrequieto, ripiegò coi camerati a Pescantina Veronese, ma
non vi rimase a lungo, a differenza di quasi tutti i fascisti romagnoli. Di nuovo vicino a casa,
responsabile con 11 uomini del presidio di Bagnacavallo. In dicembre lo troviamo in una
zona più calda, a Lavezzola. Il fronte era alle porte ed il Nostro fu spedito a Candiana, altro
presidio dei fascisti ravennati in terra padovana. Vi sostò solo 20 giorni ed eccolo riapparire
in Romagna a mantenere l’ordine pubblico niente meno che a Longastrino, tra acque e partigiani. Era il febbraio 1945 e i fascisti più spavaldi da quasi sei mesi si erano sistemati nel
Veneto con i loro cari. Ma il celibe Notturni fu lasciato ad assaporare l’urto nemico fin quasi
alla fine. In aprile era ancora lì. A suo dire, non combatté a fianco dei tedeschi. Ad essere
generosi, gli si può anche credere, perché fece in tempo a raggiungere i camerati a
Candiana, da dove tornò a casa con le sue gambe.
Accuse di fatti specifici non emersero, ma non doveva essere casuale la sua presenza a
Lavezzola, sede del Comando tedesco, e a Longastrino, rifugio dei gerarchi ravennati. Si tralasci pure Alfonsine. Non era colpa sua se dette località erano infestate dai banditi badoglia-
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ni o comunisti. Infatti, nella più tranquilla Bagnacavallo aveva trovato anche il tempo di fare
del bene alla popolazione (sue parole).
La Corte (17-7-45) gli promise dieci anni di reclusione per collaborazionismo, ma subito
gli scontò un anno e otto mesi, visto che tutte le peripezie erano scaturite dal mitragliamento del padre. La Cassazione farà il resto, annullando senza rinvio.
Il Palazzone
Non è il nome di una residenza più o meno antica, più o meno fatiscente, tipica della
valle padana. Si tratta invece di una località segnata nelle cartine nel comune di Fusignano,
verso nord, al confine con i territori di Lugo e Alfonsine. Anche oggi non è facile da trovare.
Bisogna chiedere più volte. Si rischia di girarvi attorno o di entrarvi dentro senza accorgersene. L’unica cosa certa è che il paesaggio sa di passato. Canali, vegetazione varia, laghetti
non artificiali, strade strette per le auto e stradoni di campagna interni alle aziende, larghissimi a testimoniare le vecchie e vaste proprietà terriere, rustici di ogni tipo e di varia grandezza. Luoghi ideali per i partigiani indigeni che nel dibattito su guerra di montagna o di pianura optarono per la seconda. Era facile nascondersi, controllare il territorio, sfamare gli
uomini, difendersi da eventuali sortite.
La cosa non era sfuggita né ai tedeschi, né ai fascisti. Troppe azioni di sabotaggio e di
disturbo nelle aree circostanti. Bisognava intervenire, ma le forze in loco non erano sufficienti per un rastrellamento adeguato. Occorreva inoltre provvedere con tempestività ed
oculatezza a bloccare le possibili vie di fuga. I fascisti del posto studiarono la toponomastica, spedirono informatori ad aggirarsi con le scuse più diverse, persino una ragazza (la Luigia
Tamburini) in cerca di radicchi. Alcuni di costoro dovettero giustificare i loro movimenti
sospetti proprio ai patrioti, che controllavano il traffico sugli arginelli e sui bianchi percorsi.
Eccesso di sicurezza? Nell’aprile del 1944 (esattamente il 23) scattò l’operazione pulizia,
gestita militarmente da una decina di tedeschi. Sotto di loro centinaia di uomini in divisa,
alpini, guardie di PS, militi della GNR, veterani e giovani, trasportati con ogni mezzo, macchine, autocarri, corriere. Partirono da Lugo, Alfonsine, Conselice e Ravenna. Si svuotarono
le caserme, ma certo non si disse nulla della destinazione.
Caddero sette partigiani, alcuni dopo torture, e due (quattro, in alcune ricostruzioni)
furono fucilati successivamente. Ad un ferito furono bruciati i piedi. Altri particolari impressionanti furono narrati da vari testi, tra cui Ulisse Ballotta (fratello di Alfredo, uno dei primi
ad essere falciato, in località “Fiumazzo”). I nomi degli altri uccisi non sono riportati in questa sentenza, ma se ne parlerà in altre. Sull’eccidio, infatti, non si terrà un unico processone, improponibile date le diverse situazioni, le multiformi attività degli imputati, di cui alcuni detenuti, altri ricercati in tutta Italia, qualcuno forse ucciso.
Alla sbarra il 10 luglio 1945, da solo, comparve Giuseppe Calderoni di Ravenna, classe
1924. Si era arruolato volontario da poco più di un mese, dopo essere fuggito dalla caserma
di Vercelli. “Per non andare in Germania” disse. Rimase in Italia, a Mezzano, Bassano del
Grappa, S. Venanzio di Galliera (sotto i tedeschi), a Savigno di Bologna, a Modena e di nuovo
a Bassano e a Trento fino al maggio 1945. Luoghi dove non mancarono pesanti rastrellamenti condotti dai nazisti.
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Calderoni dovette rispondere solo di quello del Palazzone. E, come diranno molti imputati d’analoghi fatti, era rimasto defilato, al margine, in una casa di frontiera. Qualcuno addirittura a qualche chilometro. Nulla egli aveva fatto o visto, tranne a strage avvenuta. Appena
aveva scorto un ferito portato nel suo rustico!
La Corte (Presidente Mastrobuono, PM Baroncini, giurati: Bertoni Angelo di Faenza,
Brusa Giuseppe di Bagnacavallo, Ferreri Silvio di Lugo e Leonardi Aclo di Lugo) lo condannò a 18 anni di reclusione. La Cassazione cancellò tutto, per amnistia.
Un cippo ricorda la tragedia di quel giorno del 1944. Non distante si trova l’unico sito
bene indicato dalla segnaletica, la “Marchesa”, un agriturismo con cavalli. Il Palazzone? Oltre
alla località, una casa portava questo nome, distrutta nello stesso giorno per rappresaglia. Si
deve notare che non sempre i numeri dei caduti ritornano, non perché essi fossero stati
ingigantiti dalla fantasia popolare o dai sopravvissuti, ma perché i cippi stessi possono ingenerare equivoci. Talora è colpa dei verbalizzanti le testimonianze, talora dei Presidenti nella
fase di stesura delle sentenze.
Per mettere un po’ d’ordine. Il cippo del Palazzone (Fusignano) riporta sette nomi, con
relative fotografie: Argelli Giulio, Ballardini Giuseppe, Faccani Severino, Faccani Giovanni,
Ferri Giovanni, Fiorentini Bruno, Martelli Francesco, Zalambani Ettore.
Quest’ultimo, in vero, fu portato a Lugo e poi a Ravenna, dove fu fucilato nei pressi del
cimitero. Accanto a lui, uno slavo dal nome salgariano, Reper Janez, catturato nel medesimo
rastrellamento e Aurelio Tarroni, di Alfonsine, il capo partigiano, medaglia d’oro.
I rastrellatori gli avevano trovato addosso dei documenti recanti i timbri della “Brigata
Garibaldi”. Per fare parlare il Tarroni, già ferito ad una spalla, i nazifascisti lo calarono in un
pozzo, poi lo appesero ad una finestra e sotto accesero un fuoco. Inutilmente, non una parola, come da testimonianza di Antonio Montanari, un partigiano sfuggito miracolosamente.
All’elenco va aggiunto il citato Ballotta, ricordato in un cippo, posto in località “Fiumazzo”
di Alfonsine. Quindi, le vittime furono dieci, undici, secondo i cronisti del tempo. Molte le
abitazioni saccheggiate e incendiate. La curiosità, infine, corre ai nomi dei maggiori responsabili del rastrellamento e dell’eccidio. Il Capo Provincia Bogazzi, il Tenente Colonnello
Anzalone, responsabile delle operazioni sul campo, il Questore Arturo Neri, che aveva concorso a pianificare la “pulizia” e spedito un nucleo di agenti della P.S. (accasermati in via
Mariani), il Primo Seniore Ercole Santucci, il Capitano Attilio Benedetti di Faenza, il
Maresciallo Stefano Di Russo, che, su una Fiat “1100”, in compagnia del Questore (Neri) si
era recato qualche giorno prima a Fusignano per studiare il territorio. Tutti assieme avevano deciso che sul posto bisognava portare e impiegare anche cannoncini e mitragliatrici,
nascosti nei camion e nelle corriere, come avvenne.
Ai sopra citati, si devono aggiungere Ruggero Sciottola, Salvatore Papa e Walter Andreotti,
che si era divertito a giocare a tiro al bersaglio contro i corpi dei partigiani, da vivi e da morti.
Avremo altre occasioni per ritornare sull’episodio.
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Il figlio del barbiere
Nelle conversazioni di piazza, a Ravenna, il nome di Morigi, legato al fascismo, richiama
automaticamente il gerarca del regime, il campione olimpico di pistola a Los Angeles (1932),
l’eroe che nel 1927 aveva centrato con un colpo a considerevole distanza l’attentatore solitario di Ettore Muti. Leggenda ormai distrutta dal saggio di Carnoli-Cavassini, che, carte alla
mano, dimostra la tesi dello scontro tra due ras per il controllo della città. Scontro, di cui la
vittima, Pietro Massaroli di Piangipane, era stata strumento o alibi. Verità storica a parte,
l’unico Morigi meritevole di un ricordo resta quello, Renzo, immortalato da centinaia di foto
di cerimonie e di adunate. Un figlio illustre della Romagna, pupillo del più famoso, cantato
dalla stampa sportiva e d’informazione, definito dai giornali californiani “la mitragliatrice
umana”. Con la caduta del fascismo, il campione, nonché federale di Ravenna per cinque
anni e vice Segretario Nazionale del Partito dal 1933 al 1935, restò ai margini, forse prese la
tessera del PFR, ma non desiderò comandare. Dimostrò mira ancora una volta. In scena
entrarono allora altri Morigi, Lino e Sergio i più noti, protagonisti nel 1943-45, senza essere
capi. Non erano parenti del più illustre, ma conobbero anch’essi la notorietà, conquistata
con tragiche gesta. Di Lino parleremo più avanti.
Di Sergio i vecchi dicevano soltanto “il figlio del barbiere” (Pirì) e qualcuno era passato
sotto le sue mani quando aiutava il padre come garzone. Ragazzo sveglio ed un po’ testa
calda, come molti. Fece pure carriera, nel suo piccolo. Dapprima fattorino e poi impiegato
privato, con la passione per l’ozio e il vizio, secondo i suoi detrattori. Era nato a Ravenna nel
1917 da Pietro e Giuliani Ada. Dei suoi entusiasmi politici giovanili nulla si sa. L’unica fama
era quella di essere un adolescente discolo e violento. Nel novembre del 1941 era finito
sotto processo con l’accusa di rapina aggravata in danno di un’amica. Si difese con abilità e
convinse a metà i giudici. Poi fu soldato, come tutti, nelle guerre fasciste e per lui l’8 settembre ebbe una doppia valenza, trovandosi agli arresti per diserzione. Disertore, non renitente. Ci voleva coraggio per una simile scelta e senza l’armistizio forse sarebbe stato condannato a morte come traditore della patria. Della Repubblica di Salò non ne volle sapere e, per
spavalderia e coerenza, fu tra i primissimi partigiani di Romagna. A settembre era già armato sulle montagne faentine, attivissimo nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Per ben quattro mesi si distinse in azioni di combattimento. Poi di lui si persero le tracce. Impaurito
come molti giovani? In fuga dai rastrellamenti e alla ricerca di un rifugio sicuro? In crisi?
Catturato? A primavera avanzata apparve in quel di Lugo, a prendere contatto con alcuni dirigenti del locale Comitato di Liberazione, il rag.Giovanni Poggiolini ed Emilio Savorani. Era il
mese di maggio. Aveva bisogno di aiutare certo De Maria, ricercato dai fascisti per distribuzione di materiale di propaganda ostile, desideroso di andare in una grande città. La collaborazione fu pronta e i due furono indirizzati a Milano dal rag. Beretta. Il povero Beretta fu
percosso ed arrestato, e i due infiltrati, a conoscenza della sua attività segreta a sostegno
della Resistenza, s’insediarono nel suo ufficio, fingendosi impiegati. Fu un disastro per i
patrioti milanesi, che solevano convenire in quel recapito per le riunioni del Partito
Repubblicano e del Comitato di Liberazione Nazionale. Si noti, nazionale. Per poco non
cadde nella trappola persino Ferruccio Parri. Un capolavoro per Sergio Morigi, passato dall’altra parte e alla grande. Con queste premesse avrebbe potuto continuare nel settore,
entrando negli Uffici Politici Investigativi d’altre province, specializzandosi nel doppio gioco.
Ma così non volle e scelse di rientrare dove era conosciuto per strada, nella sua Ravenna,
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pur sapendo che il suo tradimento non sarebbe sfuggito agli ex compagni. Da sempre non
gli piaceva il fronte ed entrò nelle squadre d’azione e poi nelle Brigate Nere, di stanza alla
“Sacca” (oggi Liceo Scientifico), non distante dalle Carceri di Porta Aurea. Non aveva la tempra di un capo, e d’altra parte il suo recente passato di partigiano non lo poteva agevolare
nella scalata alle gerarchie del Partito. Si conquistò però la simpatia, ricambiata, di alcuni
fascisti da sempre, picchiatori, già squadristi, tristemente noti alla popolazione con i nomi di
Cattiveria e Scciantén (che schianta). Vivevano in comune ed in comune agivano a tutte le
ore. La Sacca si trasformò così anche in luogo di detenzione e d’interrogatori. La sua fu
un’estate intensa, d’arresti mirati e di massa, di soprusi, di perquisizioni, di pestaggi, di torture, d’uccisioni. Da giugno al novembre del 1944.
Forse il Morigi andò, a fine settembre, al nord, come moltissimi camerati. Di certo era in
città il 3 novembre, per le ultime vendette. Lavoro incessante il suo, sempre in prima fila, ed
una triste fama lo accompagnerà dopo la liberazione di Ravenna. Poi, si trasferì a Verona,
dove si susseguirono atrocità contro la popolazione riconducibili alle gesta della “Brigata
Ravenna”, da noi nota come “Ettore Muti”. Nessun’accusa specifica però nei suoi confronti
da parte dei capi partigiani della zona, anche perché il Morigi non godeva d’alcuna notorietà. Lassù rimase stabile per cinque mesi, mentre quaggiù, dopo il 4 dicembre 1944, racconti vari continuavano a portare alla luce fatti terribili.
Naturale, pertanto, che a guerra finita qualcuno si muovesse verso il veronese per avere
sue notizie. A cercarlo agenti di PS e partigiani, comandati dal citato Piermattei. Il 3 giugno
gli investigatori giunsero a Cerea, nella bassa veronese, dove appresero che il Nostro si era
sposato e trasferito a Mantova. I famigliari della moglie non riuscirono a nascondere il suo
domicilio. Morigi fu arrestato nella stessa notte e condotto subito a Ravenna. Fu un evento
in cui si mescolarono rabbia e gioia. Contro di lui già si erano accumulate testimonianze di
parenti delle sue vittime, d’arrestati, anche di camerati detenuti. Questi forse per scagionarsi, credendolo al sicuro.
Il giorno della verità venne un giovedì, il 19 luglio 1945. Se per gli altri processi l’interesse pubblico era stato limitato, in questo caso esplose. 60 testimoni, aula affollata di donne
in lutto, altoparlanti per consentire alla piazza (quella del Mercato, oggi Kennedy) di seguire ogni momento.
Presiedeva il dott. Peveri; Giudici popolari: Luigi Linari di Faenza, Silvio Ferrieri di Lugo,
i ravennati Ivan Miserocchi e Arturo Minghelli.
Diciassette le imputazioni, di cui 4 emerse in udienza:
1) Il 21 giugno del 1944, di notte, da brigatisti, qualificatisi agenti di PS, furono prelevati
dalle loro case tre antifascisti, uno di questi, Leonardo Zirardini, un sessantenne commerciante di via Cavour, socialista perseguitato durante il ventennio. (La fede politica e il cognome richiamano una delle figure più belle e note del socialismo italiano, ravennate anch’egli,
Gaetano Zirardini, tra i fondatori del Partito a Genova, dirigente sindacale e politico a livello nazionale, più volte deputato e a Ferrara nei giorni dell’occupazione della città da parte
di Italo Balbo). Con Leonardo, in auto, Giulio Lolli (classe 1891) e il giovane Pietro
Gaudenzi. All’altezza del Bosco Baronio, in uscita dalla città, i tre furono fatti scendere, Non
ebbero dubbi sulle intenzioni. Nacque una colluttazione; solo il Lolli riuscì a fuggire.
Zirardini e Gaudenzi giacquero a terra colpiti da raffiche. Il secondo si salverà miracolosamente e al processo sarà tra i testimoni.
2) Il 23 dello stesso mese, due giorni dopo, furono sparati colpi d’arma da fuoco contro
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l'agente Piermattei, senza raggiungerlo.
3) Il 20 luglio una squadra mista, di tedeschi e fascisti, a notte fatta, bussò violentemente
alla porta della canonica della Chiesa di S. Marco. Si sospettava che vi trovassero rifugio persone ricercate. Don Maurizio Montanari si beccò un calcio all’addome. L’unico ospite riuscì
a fuggire, inseguito da spari. Era un prete anch’egli, don Mario Benini.
4) Il 28 luglio, in seguito all’uccisione del fascista Primo Tabanelli, il citato Scciantén, furono prelevati casualmente tre avventori di un Caffè e trucidati all’alba sulla pubblica via,
davanti alla casa del Tabanelli (via Belvedere).
5) Il mese d’agosto iniziò con operazioni di minor peso. Una puntata a Mezzano, presso
l’abitazione di Giuseppe Bonaria, al fine di sottrargli una “Guzzi”, sotto minaccia d’arresto.
6) A Voltana nella prima decade d’agosto. Tedeschi e fascisti operarono un rastrellamento.
Cinque uomini furono fucilati e due donne furono portate in carcere, in ostaggio finché non
si fossero presentati i rispettivi fratello e marito.
7) Il 24 agosto ad Imola arresto arbitrario di due donne e due uomini.
8) Il 25 agosto a Ravenna, dopo una settimana di passione, di centinaia di arresti, di torture e terrore, l’eccidio di Ponte degli Allocchi: 10 fucilati e due impiccati. Fu una vendetta per
l’uccisione del tristemente noto Cattiveria, Leonida Bedeschi.
9) 28 agosto: impiccagione a Savarna di Giuseppe Fiammenghi.
10) Di nuovo a Mezzano il 2 settembre: prelevato il farmacista Nino Zattoni, poi eliminato
sull’argine sinistro dei Fiumi Uniti.
11) Il 21 settembre, arresto arbitrario di Zoli Achille e Aldo.
12) Il 28 settembre: uccisione premeditata di Zoli Mario.
13) Ad ottobre, scorreria nell’abitazione del Prof. Angelo Prati. Furto di denaro e merce
varia.
14) Il 3 novembre uccisione, nei pressi di Porta Nuova, di Mario Montanari in fuga e scalzo.
15) Verso la fine dell’anno, data imprecisata, sequestro aggravato in danno di Rosa Bonini.
In Ravenna.
E’ da precisare che la numerazione non corrisponde a quella dei capi di imputazione e
che ad essa si deve aggiungere la delazione devastante di Lugo e Milano. Contro il Morigi
puntarono il dito vittime, sopravvissuti, parenti, passanti ed alcuni camerati, tra cui Primo
Poletti, Alvaro Savorini e Aldo Bruni. L’imputato si difese, cercando di negare o di minimizzare le sue responsabilità, anche con alterigia, secondo alcuni cronisti. Mai conosciuto il rag.
Poggiolini di Lugo; ma la perizia calligrafica di una lettera deponeva in senso opposto. Di
Cattiveria era “amico per gioco”; la mattina presto del 25 agosto (Ponte degli Allocchi) cercava Andreani (il vero Comandante dei fascisti ravennati) perché all’alba era stato fermato
dai tedeschi; ad Umberto Ricci (ivi impiccato) aveva dato qualche schiaffo; era presente
all’eccidio come guardia al ponte. Altri parlarono di trenta persone da lui arrestate (furono
400 in tutto) e percosse; al Ponte degli Allocchi avrebbe inseguito con un altro milite e freddato il prof. Montanari che aveva tentato la fuga, avrebbe messo il cappio al collo di Ricci e
dato il calcio allo sgabello e, come se non bastasse, avrebbe preso posto in mezzo al plotone d’esecuzione. Secondo lui: aveva menato il prete di S. Marco, ma per evitare più gravi
soluzioni da parte dei nazisti; il giorno della rappresaglia per l’uccisione di Scciantén era a
Montaletto a proteggere alcune trebbiatrici: Ammise il furto della “Guzzi”; prima negò la
presenza a Voltana e poi concesse di avere fatto da mangiare ai tedeschi, gli unici esecutori
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dei cinque fucilati; solo presente all’uccisione di Zirardini; il farmacista di Mezzano lui lo
consegnò alla Federazione; c’era nel tentativo di cattura del Piermattei, ma non sparò; quando fu falciato Mario Montanari a Porta Nuova lui era andato a prendergli impermeabile e
scarpe per proteggerlo dal freddo e dalla pioggia. Quel poco che aveva fatto lo aveva fatto
per ordini superiori. Una difesa debole, mista di menzogne, che nel dibattimento venne
contraddetta da madri, sorelle e fidanzate delle vittime. In un caso dimostrò anche sarcasmo, allorché Edoarda Montanari testimoniò di averlo visto rientrare con il mitra fumante
dopo le fucilazioni di Voltana: “Mettetela in gabbia al posto mio, non sa che il mitra non
fuma!”. La figlia di Aristodemo Sangiorgi (Ponte degli Allocchi), percossa dal Morigi e condotta con la sorella e i fratelli Brini in camion a Ravenna, ricordava una sua frase: “Morto il
padre, le sue figlie le alleverò io. Ne ho ucciso trecento; trecento più nove, fanno trecentonove”. In aula il Nostro sbottò: “Chiacchiere di donne”. I foschi momenti del recente passato risuonarono nelle parole di molti altri testi, che lo accusavano esplicitamente.
Gianna Righini, la fidanzata dello Zattoni: “Ci arrivò la voce che là c’era un corpo crivellato, con la bocca piena di sangue”. La madre di Lina Vacchi: “Sono ancora matta, sono ancora matta”. La madre di Giordano Vallicelli: “Mi promisero che sarebbe tornato a casa la sera
dell’arresto, ma lo rividi solo al Ponte degli Allocchi”. Luigi Bonini, che aveva figlie e figli
ricercati dalla B.N.: “Mi spararono su un piede ed aggiunsero: Se fra dieci giorni non li troveremo, uccideremo te, tua moglie e, se avete il gatto, anche il gatto”.
Per ultimi testimoniarono i funzionari di PS La Sala e Piermattei, nel ruolo anche di parte
lesa. La parola passò al PM, avv. Renato Tropea. Le nefandezze e le brutalità di Morigi erano
emerse chiaramente; bisognava ricostruire la patria liberandosi di questi “residui del fascismo”; le Brigate Nere di Ravenna costituivano “un’onta per l’antica e nobile città”; anche un
profano di legge sa che solo una è la sentenza possibile. Prima di concludere il PM gli rinfacciò anche di avere fatto morire la madre di crepacuore. Pena richiesta: morte per fucilazione alla schiena.
Arduo il compito del difensore d’ufficio, l’avv. Borghi, un uomo di prestigio, presidente
del Comitato per l’Epurazione in provincia di Forlì. Aprì l’arringa con un’espressione tombale: “Se il mio dire avesse il dono di far assolvere l’imputato, morirei dal dolore e dal rimorso”! Si rivolse poi alle parti lese ad evidenziare come un giovane poteva bruciarsi la vita in
appena quattro mesi. Non una gran difesa, come si vede, conclusa con una frase equivoca.
Il carcere a vita forse sarebbe stato respinto persino dall’imputato stesso.
La Corte si ritirò per 50 minuti, mentre in aula piangevano le donne ed anche i partigiani. Per alcune imputazioni (omicidio Zoli Mario, sequestro di Zoli Achille e del figlio Aldo,
omicidio Fiammenghi, tentato omicidio Piermattei) essa si orientò per l’insufficienza di
prove, poiché il tempo trascorso tra gli arresti da lui operati e le eliminazioni non rendevano evidente la sua partecipazione a queste ultime. Per il resto: collaborazionismo con il tedesco e correità in omicidio continuato.
Pertanto: condanna a morte con fucilazione alla schiena. Nel dispositivo si ordinava inoltre che la sentenza fosse affissa nel Comune di Ravenna e pubblicata sul giornale
“Democrazia”, il periodico del CLN. Ciò in data 20 luglio 1945. Dopo cinque giorni la sentenza fu depositata. Il 14 agosto la Corte di Cassazione respinse il ricorso. All’alba del 12
ottobre, un venerdì, alle ore sei, nel recinto del Tiro a Segno Nazionale, via Dall’Aggio (più
correttamente, D’Allaggio) di Ravenna, avveniva l’esecuzione tramite un plotone di partigia-
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ni, stante il rifiuto delle forze di polizia.
Nel dopoguerra resterà un evento quasi unico e ciononostante in città il nome di Morigi
richiamerà non Sergio, ma Renzo per anni di casa nel luogo dell’esecuzione. Qualcuno per
ignoranza fonderà i due personaggi, in una dimensione da tragedia greca.
Invece, il ras di un ventennio vivrà tranquillo a Bologna fino al 1962, mentre cadrà l’oblio
sull’ex partigiano divenuto feroce brigatista nero, il figlio del barbiere.
P. S. A proposito dell’infiltrazione riuscita di Lugo e Milano, lo studio di Sergio Gnani (Da
movimento armato a partito politico) offre elementi di conoscenza più precisi, parzialmente difformi da quanto emerso dalla sentenza. Il colpo fu inferto esclusivamente alla componente repubblicana, con la cattura a Milano di Sandro Beretta, Umberto Pagani, Gastone
Tiberi, Gino Gualtierotti, Mario Razzini, Balilla Brunacci e tale Pizzuti, maggiore dell’esercito. L’accusa: ricostituzione del PRI. Tutti furono associati alle Carceri di Ravenna, dove incontrarono il filone lughese, Giulio Savorani, Giovanni e Luigi Poggiolini e Vittorio Zanzi.
Passarono poi al Carcere di Forlì, da dove furono “inaspettatamente” liberati
Una giornata di riposo
Dopo le forti emozioni del processo Morigi, le udienze ripresero in tono minore con
quattro detenuti accusati di reati secondari. Autorevoli invece i giurati, con Gino Gatta,
Gulminelli Aurelio, Minguzzi Jules e Morigi Antonio.
Il primo imputato era Focaccia Effrem, di Leonida e Saccomandi Maria, di S. Pietro in
Vincoli, nato nel gennaio del 1927. Uno dei pochi studenti, più o meno costretto a seguire
il padre fascista al nord nell’ottobre del 1944. Non era compito dei giudici accertare come la
colonia ravennate nordista fosse riuscita ad organizzare la vita dei famigliari in quei mesi. Nel
caso specifico se il giovane avesse frequentato gli studi. Quel che sappiamo è che le vacanze scolastiche del 1945 Effrem le iniziò in carcere a Ravenna, accusato di avere collaborato
coi tedeschi. Era l’agosto del 1944 e il Nostro se ne stava bel bello al Caffè di S. Pietro in
Vincoli, quando arrivarono due ufficiali dell’Esercito Repubblicano che gli chiesero, o gli
ordinarono, di accompagnarli alla casa di Ulisse Bezzi e Umberto Casadei. Costoro finirono
deportati in Germania e certamente non dimenticarono.
Il Focaccia si difese bene, sostenendo di non avere conosciuto le intenzioni dei repubblichini e di non avere mai preso la tessera del partito, né partecipato ad alcuna organizzazione fascista o ad azioni di rastrellamento. La Corte gli credette, tanto più che un teste ricordava il suo smarrimento al momento degli arresti.
Poco tempo richiese anche la causa contro Aldo Novelli, nato a Marina di Ravenna nel
maggio del 1913 da Giovanni e Casotti Teresa. Nella vita faceva l’imbianchino e nel gennaio
del 1944 si era arruolato nella GNR. Da allora si era adoperato per ingaggiare operai italiani
in opere di fortificazione per i tedeschi. Insufficienza di prove.
Insufficienza di prove anche per Sgobba Frediano, classe 1925, di Ravenna, figlio di
Francesco e di Carlotta Giacomoni, impiegato. Vita intensa la sua. A 18 anni era già di ritorno dalla Dalmazia (MILMART: Milizia Marittima Artiglieria). Poi, adesione al PFR e alla GNR,
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in azioni di guerra nel Battaglione “Otello Boldrini” e in reparti tedeschi della Flak, quindi
nella “Divisione Etna”; ad ottobre 1944 addestramenti a Bassano del Grappa. Di nuovo in
zona operativa a S. Venanzio di Galliera, in una batteria tedesca a Savigno, sugli Appennini,
nella seconda linea del fronte. Sempre a difendere i cieli in mezzo ai tedeschi, dapprima a
Casalecchio e poi a Samoggia. Nelle ultimissime ore del conflitto era finito a Rovereto.
Ancora più organico alle truppe germaniche era stato Pietro Brunoni, di Giuseppe e di
Geltrude Bertozzi, nativo di Riolo Bagni, classe 1921. Dal maggio 1943 nella Milizia Volontaria.
L’8 settembre subito coi tedeschi, che molto dovevano apprezzare le sue doti di meccanico.
Fu aggregato ai paracadutisti e si specializzò in corsi tenuti in Germania e Austria. Come
operaio specializzato lavorò anche in una fabbrica d’armi, sempre in Austria, da dove fuggì
nel marzo del 1945. Perché arrestarlo?
Il caso aveva voluto che a fianco dei paracadutisti egli rimanesse gravemente ferito da
schegge. Da qui una convalescenza di ben 98 giorni. Niente di più bello che trascorrere
l’estate del 1944 senza obblighi e a gustare i piaceri e i sapori paesani. No, lui preferiva trascorrere il tempo libero presso la Brigata Nera di Riolo, in abiti borghesi. Ed un giorno, l’8
agosto, per provare nuove emozioni volle salire su un camion diretto a Cuffiano. Obiettivo
Giuseppe Casadio, che fu arrestato. Sulla via del ritorno, però, il prigioniero riuscì a fuggire,
fatto segno a colpi di mitra. Poco male. I fascisti fecero dietro front e la casa del Casadio
venne saccheggiata e derubata di sigarette, bicicletta e due quintali di grano. I fascisti ormai
erano lì e ci presero gusto, puntando all’abitazione di Francesco Cavina, dove trovarono soltanto la spaventata figlia Caterina. E via denaro, gioielli, indumenti, sigarette ecc. Ogni volta
la scusa era buona, cercavano i maschi, tra cui Vittorio Cavina, e terrorizzavano le donne,
colpendo il patrimonio. Si innervosirono anche ed arrestarono le sorelle Cavina, Ancilla di
anni 20 e Cecilia di 21. Avrebbero preso anche la minore se i tedeschi presenti non avessero accolto le suppliche della madre. Le poverette furono spedite a Bologna in stato d’arresto, con destinazione Germania. Si salvarono dal viaggio per le cattive condizioni di salute.
La gita di quell’8 agosto costò cara al Brunoni. Accuse di sequestro di persona (le due
Cavina e Malvina Vespignani), saccheggio e rapina.
Condanna a 15 anni di reclusione e a 7000 lire di multa. Sfortunato il Brunoni anche nei
confronti di molti camerati. Infatti la Cassazione (1946) non poté fare molto, non potendosi applicare l’amnistia in presenza di rapina. Gli scontò solo cinque anni, altri cinque glieli
abbonò la Corte di Assise di Bologna nel 1948. Nell’anno successivo provvide il Ministro di
Grazia e Giustizia con la concessione della libertà condizionale. A sanare il tutto arrivò da
Bologna la riabilitazione (1961).
Come sopra
Abbastanza leggera anche la seduta del 26 luglio, con il medesimo presidente e con altri
giurati: Gardini Vincenzo, Ferrieri Silvio, Bubani Terzo e Leonardi Aclo. Quest’ultimo era di
Faenza e il suo nome compare spesso storpiato, Aldo, Aolo, Aclo ed Eclo. Noi propendiamo
per Eclo, perché così si chiamava una delle figure più importanti della resistenza, in contatto radiofonico con gli alleati attraverso “Radio Zella”, poi intercettata casualmente dai
Tedeschi. Il padrone di casa, Pietro Fabbri, cadrà il 3 agosto 1944.
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Lo studente Querzani Giovanni di Pietro (vedi Querzani Pietro) e Giovanna Ancarani, era
nato a Brisighella nel 1924. Si diceva che avesse partecipato a rastrellamenti e alla cattura di
piloti americani e del giovane renitente Adamo Scarpa. Forse. Di certo era rimasto nel bolognese nella Compagnia “Bir el Gobi”, da dove era fuggito il 18 aprile 1945 per raggiungere i
genitori a Milano. Il suo destino resta ignoto, poiché la causa Querzani fu rinviata alla Corte
di Assise di Bologna per incompetenza territoriale. Com’era giusto.
Della stessa classe era Pisani Carlo di Giuseppe e fu Rosa Mariani, nato a S. Pietro in
Vincoli. Era stato arrestato sulla via di casa a Selvapiana, di ritorno dal nord. Non aveva grandi colpe. Dapprima nella GNR e poi, essendo operaio, i tedeschi lo avevano scelto. Solito itinerario con la Flak, a Molinella, S. Venanzio, Cento e Guarda Ferrarese. Sistemava e nascondeva i cannoni. A rigore di logica il suo caso non doveva essere di competenza di Ravenna,
ma i Giurati fecero uno strappo e lo mandarono libero, trattandosi di un semplice gregario.
Del 1914 era invece il meccanico Cicetti Pasquale, di Gaetano e di Verdini Adele. In vero,
non si capisce come mai fosse in stato d’arresto a Ravenna e come mai fosse giudicato in
sede. Non era originario del posto, essendo nato in Svizzera a Barr. Qui nessuno lo conosceva e qui neppure aveva operato. Nei momenti cruciali si trovava come “Guardia Confinaria”
a Fiume. Lasciato il Corpo, era passato nientemeno che alle SS tedesche con compiti di polizia. Dei suoi misfatti nulla è dato sapere, perché il Nostro interrogato dal Piermattei, forse
picchiato, aveva ammesso solo l’appartenenza al detto Corpo, cosa che poi smentì in aula.
Il reato di collaborazionismo con il tedesco era indiscutibile e a giudizio della Corte meritava la condanna ad anni dieci. Probabilmente diverso sarebbe stato l’esito se il Cicetti fosse
caduto in mano ai partigiani istriani, sloveni, croati e italiani. Nel 1946 per lui arrivarono
l’amnistia e la libertà.
Stessa accusa per il giovane Sergio Fasoli, di Angelo ed Emilia Poggiali, classe 1924.
Ravennate, impiegato. Vissuto in un ambiente di forti convinzioni fasciste si era iscritto al
PFR fin dall’ottobre 1943 e si era arruolato nella GNR. Per breve tempo operò a Ravenna, poi
fu spedito a Vergato e Bologna. Ripiegò al nord solo all’ultimo momento, dopo essere stato
protagonista di diversi rastrellamenti (e duri come si sa) in provincia di Bologna e di
Modena, a fianco dei tedeschi. Lui stesso ne ammise quattro, pur con funzioni, non verificabili, di ordine pubblico. Quindi, colpevole e meritevole di dieci anni di reclusione, ridotti ad
otto e mesi quattro. Attenuante concessa per l’atmosfera politica respirata in famiglia.
Dopo un anno, declaratoria d’amnistia.
Con il Fasoli si concludeva un mese d’attività della Corte di Assise, un mese con imputati quasi tutti di città o del circondario, vecchi squadristi rimasti in attività e giovani partiti per
evitare la Germania o per continuare il lavoro dei padri. Un’unica condanna a morte.
Il venditore di formaggi
“Ah, quello che vendeva i formaggi al Mercato Coperto!”. Così tra le donne che a gruppetti si avviavano verso piazza nella mattina del 2 agosto, un giovedì. Gli uomini ne sapevano di più. L’appuntamento era in piazza, quella centrale, a pochi passi dal citato Mercato.
Ben presto Piazza del Popolo e l’attigua Piazza XX settembre (dell’Aquila) si riempirono per
ascoltare in diretta le fasi del processo più atteso, ancora più di quello di Morigi (le fonti non
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concordano sul numero dei luoghi collegati). Non si trattava di giudicare un boss del mercato nero, attività alla quale l’imputato mai avrebbe fatto ricorso. La sua fama, infatti, era
d’uomo onesto, giudizio confermato anche dai partigiani di Lonigo ( Vicenza) e dagli alleati, che molto si meravigliarono quando la polizia ravennate (PS e partigiani) presentò il mandato di cattura del Giudice Istruttore. “Deve essere un equivoco - obiettarono - pensate che,
arrestato ad Orgiano dal Comandante Loris, si è prodigato per chiudere con pignoleria i
conti della sua gestione del vettovagliamento dei fascisti, consegnando tutto al Sindaco
Pasqualotto”. E il “tutto” comprendeva diversi quadrupedi, veicoli vari e molti sacchetti, da
35 a 40, contenenti ciascuno cinque chili d’argento. Una vera fortuna, che solo un galantuomo poteva restituire, come ebbe a dire il ricercato Antonio Capanna al momento dell’arrivo
dei poliziotti ravennati. Nulla da obiettare!
Antonio Capanna, detto Nino, era nato a Ravenna nel 1901, da Rinaldo e da Casadio Rosa,
già morti nel 1945. Naturalmente egli non aveva obblighi di leva, ma era stato tra i primi a
presentarsi dopo l’8 settembre, forse per recuperare una lunga ed involontaria lontananza
dal potere. Vediamo. Nel primo dopoguerra aveva militato nelle file socialiste e poi (secondo una biografia del 1945) aveva aderito al Partito Comunista, ma nel 1920 era già nel Fascio.
Le date non sono precise, poiché il Partito Comunista d’Italia, come si sa, non era ancora
nato in quel periodo. Forse si vuole sottolineare la sua adesione alla componente di sinistra
del socialismo italiano. Diventò subito un picchiatore, non per idealismo, a detta dei detrattori, ma per attuare alcune vendette personali, com’egli stesso avrebbe confessato a qualcuno. Infatti, appena iscritto al Fascio di combattimento di città, diede fuoco al Circolo Aurora
e prese a bastonare soprattutto gli ex compagni socialisti a lui ben noti. Da allora spadroneggiò per le vie del centro in cerca di nemici e si racconta che nel 1922 con il segnale convenuto “A noi!” malmenò a sangue un giovinetto che usciva dal cinema Italia, in via Cairoli.
Insomma un tipico squadrista, brutale, secondo alcuni soprattutto con i mingherlini. Il
Capanna non divenne un capo, ma fu sempre presente ricevendo i riconoscimenti canonici, Sciarpa Littorio, Marcia su Roma, anche se il primo non viene esplicitamente indicato.
Deve trattarsi di una pura dimenticanza. Se la meritava la sciarpa, visto che gli piaceva di
tanto in tanto sollecitare “la zocca in piazza” per tutti, donne e bambini compresi, fedele in
questo all’antico auspicio rivoluzionario, mai desueto.
In attesa della “zocca”, nelle grandi occasioni manganellava in compagnia chiunque
incontrasse per le strade del centro. Gli piaceva essere riconosciuto dalle sue vittime (cittadine) e forse disdegnava sporcarsi le mani con i rurali. Bastonatura generale anche dopo
l’uccisione a Roma, da parte di un esaltato, del deputato fascista Armando Casalini, il 12 settembre 1924. Non trascurava neppure la pistola che estraeva nel pieno delle discussioni,
anche con i suoi. La stagione felice, come per molti squadristi, non durò l’intero ventennio,
nonostante avesse trovato il tempo di partire nel 1923 come Legionario per la Libia.
Liti intestine, rifiuto della stabilità mussoliniana, bisogno di purghe permanenti, disgusto
per i nuovi profittatori? Nel nostro caso non si sa. Certo è che nel 1930 Capanna fu espulso
dal partito dopo uno scontro con il ras Renzo Morigi. Che facesse parte del gruppo antagonista di Ettore Muti, che però viveva lontano? Mistero. Di sicuro gli avversari erano gli stessi, i vari Calvetti, Rambelli, Fregnani e Morigi stesso, i veri padroni della città, un centro di
potere cui nulla sfuggiva. Logica mafiosa e botte a chi disturbava (così si esprime anche il
Prefetto in relazioni riservate inviate a Mussolini). Tutti ladri e disonesti, secondo il Nostro.
Poi capitò il fattaccio, in data 22 novembre 1931. I fratelli Cuman, noti fascisti della
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“Squadraccia”, uno dei quali era caduto in disgrazia presso la Federazione, furono freddati
in una stradina del centro, in via Zirardini. Le indagini puntarono sui fratelli Capanna, che
furono condotti in processo a Bologna. Antonio se la cavò con l’insufficienza di prove, il fratello Aldo si beccò 20 anni di reclusione. A tutt’oggi la vicenda non è stata chiarita fino in
fondo. Le fonti lontane divergono. Forse Antonio Capanna godeva di qualche protezione, se
si considera che nel dicembre del 1932, abbandonato dal proprio avvocato, Giommi, si fece
avanti da Cremona il mito degli squadristi di tutta Italia, l’avvocato Roberto Farinacci, per
offrirgli il patrocinio. La cosa non era facile da gestire, malgrado la stampa avesse ovattato la
vicenda, e il Podestà di Ravenna si vide costretto a licenziare il Capanna, che nel 1926, per
meriti squadristi, era stato assunto come Ispettore dell’Ufficio Imposte di Consumo.
Umiliato ma non vinto, alla prima occasione volle dimostrare ai fascisti in pantofole che
lui era sempre quello delle origini, pronto a correre dove la patria era in pericolo. Volontario
in Africa Orientale e in Somalia nel 1935-36 e l’anno dopo in Spagna contro i comunisti,
nonostante fosse invalido di guerra (in quale?). Tutti titoli che gli valsero, dopo un decennio
di purga, il reintegro nel partito, nel febbraio del 1940. Si era mossa Roma, che obbligò
Ravenna a concedergli la tanto agognata licenza di venditore di formaggi presso il Mercato
Coperto. L’uomo che tanto aveva fatto poteva godersi la guerra in pace. Ma gli affari, coi
tempi che correvano, non davano soddisfazione. Con le restrizioni e i bollini, i latticini furono i primi a sparire dalle mense. Il Capanna avrebbe potuto recuperare con un po’ di mercato nero, ma la moglie neanche ci provò a suggerirglielo. Troppo onesto o troppo “minchione”. Le vere delusioni non gli venivano però dalle scarse vendite, ma dai discorsi delle
casalinghe sempre più esplicite nel condannare il conflitto e il Duce.
Arrivò infine il giorno della rivincita su tutto. Vent’anni sembravano cancellati in un baleno. Niente più monarchia, spariti i gerarchi che tanto lo avevano umiliato. Restavano solo i
fascisti puri come lui. L’8 settembre apparve come una benedizione. Lasciò la moglie in bottega e divenne un capo, riconosciuto dalla gente. Nel neo squadrismo, per forza fisica ed
esperienza, non poteva che essere un Comandante delle Brigate Nere. Passava giorno e
notte tra la Sacca, la Federazione ed un piccolo alloggio vicino al carcere, da dove entrava e
usciva a piacimento. L’uomo, che tutti conosceva, si scoprì anche indagatore.
Dotato di gran memoria, unita a spirito vendicativo, nulla aveva dimenticato, compresi i
discorsi disfattisti uditi al Mercato.
E quel giovedì d’agosto del 1945 fu chiamato a rispondere delle sue gesta:
1) in correità con altri avere cagionato la morte di Sternini Nello, Mordenti Luigi e Vinieri
Giovanni, catturandoli e consegnandoli ai tedeschi che li uccisero. Agosto 1944;
2) stessa accusa per l’eliminazione di Zirardini (Bosco Baronio). 21 giugno 1944;
3) analogamente nel caso del Rag. Mario Montanari. 3 novembre 1944;
4) arbitrario arresto di Zanotti Giovanni. 3 novembre 1944;
5) responsabile della morte di Miccoli Stefano, consegnato ai tedeschi. Agosto 1944;
6) uccisione dopo sevizie di Suzzi Walter. Luglio 1944;
7) arresto arbitrario dei famigliari di Walter, Sintomi Emma (la madre) e Suzzi Mario e
Guido. 13-1-1944:
8) eccidio di Ponte degli Allocchi. 25 agosto 1944:
9) perquisizione a mano armata dell’abitazione di don Montanari Maurizio. 20 luglio 1944;
10) uccisione di Mascalzoni Lino, consegnato ai tedeschi. Agosto 1944;
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11) arresto arbitrario di Mascalzoni Sante. 16-8-44;
12) asportazione, senza permesso, di merci dai magazzini di proprietà di Zaccherini
Secondo e Bandini Ugo. Luglio-agosto 1944;
A queste contestazioni il PM ne aggiunse altre in aula:
13) privazione della libertà personale di Vassura Manlio. 21-8-44;
14) come sopra, senza riuscirvi, nei confronti di Penazzi Giovanni e Libero. 22-8-44;
15) uccisione dei fratelli Chiarini. Massalombarda. Anno 1944;
16) eccidio di Villanova di Bagnacavallo. 19-7-44;
17) eliminazione di Montanari Almo, consegnato ai tedeschi. Gambellara. Anno 1944.
Alcune storie sono già note altre no. Vediamole, seguendo un ordine cronologico.
Il 23 giugno ‘44 il colono Almo Montanari, d’anni 20, vide arrivare nella sua Gambellara
(sud di Ravenna) una motocicletta e un camioncino di Brigate Nere. Renitente, corse subito in un rifugio. Scoperto, fu falciato. Ad Oliviero, il fratello del giovane, parve (parve) di
riconoscere il Capanna in piedi nell’atto di agitare il portafoglio di Almo. Certo, invece, se ne
disse Prati Dino, che ben conosceva il Capanna.
Il 16 luglio ‘44, in località Tomba, alcuni militi fascisti vigilavano che la trebbiatura procedesse regolarmente, stante le parole d’ordine contrarie dei partigiani. Ad un tratto apparvero degli uomini che disarmarono i militi e ne uccisero uno, certo Boschi. Da Ravenna partì
un’automobile per raggiungere il luogo dell’agguato, con a bordo Capanna. Per strada i fascisti incrociarono casualmente un giovane in bicicletta con un sacco in spalla, che subito tentò
di fuggire lasciando il bottino, due mitra e due moschetti. Si chiamava Walter Suzzi. Finì in
Federazione (Piazza Caduti) davanti al Console Guidi, presente Capanna. Per le torture arrivarono poi quelli dell’Ufficio Politico Investigativo della GNR. Si susseguirono sevizie per
giorni, con urla strazianti udite anche dal padre e dai fratelli arrestati e condotti in un locale attiguo. Arrestata persino la madre, Emma Sintoni. Alla “Tomba” finirono gli incubi di
Walter e i famigliari furono rilasciati dopo qualche giorno.
Il 19 luglio ‘44, il prof. Gustavo De Lauretis era appena rientrato dal mare (Igea o Gatteo)
per visitare alcuni pazienti. Non simpatizzava per i fascisti, ma non svolgeva alcuna attività
politica, a differenza del suocero, il dott.Giovanni Mazzotti. Fu condotto in Federazione e
poi, in pieno giorno, caricato a forza in automobile da un certo Siboni, l’usciere. Nessun
gesto del Capanna, tranquillamente seduto in auto. Direzione strada Reale e poi a sinistra
per Villanova di Bagnacavallo. Un camioncino seguiva. Nel paese sul Lamone altri arresti, il
meccanico Guglielmo Guerrini (anni 50) e l’operaio Apollinare Zoli (anni 62). Rapida fucilazione dei tre sul muro esterno del Villanova. Tutto alla luce del sole.
A Ravenna la signora Ernesta Gaudenzi Randi aveva visto la scena davanti alla
Federazione; a Villanova la moglie del Guerrini, Giuseppina Lorenzi, appena saputo dell’arresto era corsa in strada. Guardò l’auto, ma non vide il marito. Ricorderà invece il volto dell’uomo robusto e il dottore. Infine riconobbe il suo uomo sul camioncino in mezzo a giovani fascisti. C’era o non c’era il Capanna? Ad aiutare i giudici provvide uno dei partecipanti
all’eccidio, il milite Troncossi Carlo, imputato per lo stesso episodio. Questi dapprima aveva
fatto il nome di Tabanelli (Scciantén), ma poi si era corretto indicando il Capanna. Certa
dunque la sua presenza, dubbio se avesse sparato.
20 luglio ‘44. Della visita notturna alla canonica di S. Marco e delle botte al parroco don
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Montanari ad opera del Morigi già si è detto. Nella circostanza il Capanna avrebbe agito a fin
di bene salvando la vita al prete.
23 luglio ‘44. Un bombardamento aveva divelto i portoni di un magazzino di via Tombesi
Dall’Ova, di proprietà di Zaccherini Secondo e Roncuzzi Domenico, nel quale erano custodite anche cinque motociclette di Ugo Bandini. Piombarono militi della GNR e Brigatisti
neri, che prelevarono gomme, auto, moto ed altro. Qualcosa sparì, ma il grosso fu portato
in Federazione, non molto distante, e passato poi al direttore delle Corporazioni per la vendita. Un’operazione ufficiale, riconducibile allo spirito della Repubblica Sociale. Non si trattava di merce abusiva e forse sarebbe stato più corretto un intervento della Questura.
Ma non sottilizziamo. Una qualche competenza in materia era riconosciuta per legge al
Partito. E il Capanna? Egli aveva condotto le operazioni. Era il responsabile, ma non poteva
rispondere degli abusi della GNR. “E se il suo amico Giacomino (Andreani) lo avesse ascoltato, avrebbe provveduto per la restituzione delle gomme”.
Una rapina a metà, quindi, e con motivazioni sociali. I padroni della merce sequestrata
ricevettero persino 200 mila lire, il 50% del valore. Per quei tempi non era andata così male.
Il Nostro forse apparirà un prepotente, ma di sicuro non un profittatore. E dispiace un poco
trovare nella denuncia una frase ed un fatto a lui attribuiti: “Quel mobile lo prendo io, perché mi piace”. Da non credere!
11 agosto 1944.Siamo di nuovo ai tempi della trebbiatura, più lenta e difficile in quell’anno. Località Borgo Marabina. All’improvviso scoppia una bomba. Da lì a poco arrivano i tedeschi ed alcuni militi, in auto, tra cui Andreani, Capanna e Sutter. Sull’aia avvengono i primi
interrogatori ad opera dell’Andreani. Prima i lavoratori addetti e poi tre facchini che lavoravano a circa 500 metri dal luogo dell’esplosione. Nulla emerge e ciononostante i tre facchini, Vinieri, Sternini e Mordenti finiscono in carcere su indicazione del Sutter. Questi, in vero,
aveva motivi di rancore personale, perché nell’agosto del 1943 (prima della Repubblica
Sociale) gli stessi lo avevano denunciato per possesso di una bomba. Una vendetta quindi,
cui il Capanna si oppone. Sembra che il Nostro fosse anche amico del Mordenti, ma non lo
dimostrò allorché ne incrociò la moglie, Alda Molducci, desiderosa d’avere notizie e speranze. Sprezzante la risposta, data in via Cavour: “Io non mi ricordo dei comunisti!”. Per i tre
finì male: segretamente fucilati dai tedeschi a Filetto il 23 agosto 1944. I loro corpi saranno
trovati otto mesi dopo. Un colpo tremendo per i parenti, convinti che i tre fossero stati
deportati in Germania.
Dopo l’uccisione di Cattiveria, 18 agosto, si scatenò la caccia all’uomo, non all’esecutore subito catturato dai tedeschi, ma ad ogni ravennate sospettato in qualche modo d’antifascismo. Furono circa 400 a finire prima in Federazione, poi in carcere. Una cifra enorme, se
si pensa che la già piccola Ravenna era allora spopolata a seguito dei bombardamenti.
Pertanto, per raggiungere il numero i fascisti dovettero pescare anche nel “forese”, nei luoghi di sfollamento. Nel “bottino” di Capanna cadde il rag. Manlio Bassura, preso a Mezzano.
Non gli andò male: il 29 agosto fu rilasciato. Destino diverso per Stefano Miccoli, bloccato
per strada da Silvio Gamberini e dal Capanna stesso. Il Miccoli non doveva essere di certo
un cospiratore e men che meno un partigiano, a spasso nella calura estiva e dopo un simile evento. Non finirà il 25 agosto al Ponte degli Allocchi, ma il giorno dopo con altri cinque
a Camerlona, ad opera dei tedeschi. Perché? Ordini del Federale, si difese il Nostro.
Ma implacabile fu la vedova, Maria Ghiselli, che ricostruì così la cattura: suo marito era
davanti alle Poste, quando notò che il duo Capanna-Gamberini lo sbirciava. Cambiò strada,
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ma in via D’Azeglio fu raggiunto dal solo Capanna, mosso non da sospetti politici, ma da
odio personale per uno sgarbo inferto al suo orgoglio, poiché non era stato accettato come
socio in una Società di Divertimento, presieduta dal Miccoli stesso. Una vendetta crudele di
cui il Capanna doveva essere capace, se si prende per buona la frase della vittima predestinata, rivolta alla moglie dopo l’uccisione di Cattiveria: “Dei due era meglio (uccidere)
Capanna che è più sanguinario”.
Nella retata, come si vede, si cadeva anche per caso e non sempre il Capanna agiva in
base ad elenchi preparati. Gli bastava uno sguardo, incrociare un volto apparentemente ostile o diffidente, ricordare una frase o un atteggiamento poco ortodosso, ed erano guai per i
malcapitati. Buon testimone poteva essere Leo Fenati, che il 19 agosto (non passava giorno)
fu caricato in auto dal Capanna. Tappa obbligata in Federazione e poi in un luogo imprevisto, il Circolo Ravennate, e lì sevizie. Sempre lui, e sempre lui ad incontrare mogli e madri
in cerca di notizie. Nel caso specifico negò di conoscerlo, ma, guarda caso, a sera il Fenati
ritornò a casa.
Preordinata, invece, l’irruzione notturna delle B.N. nella Chiesa di S.Giovanni Battista per
catturarvi renitenti nascosti. Nessun risultato. Ma grande fu lo spavento per i due Penazzi,
Giovanni e Libero, che dalle travi del soffitto poterono seguire ogni movimento di Capanna
e camerati. Era il 22 agosto.
E veniamo al giorno dell’eccidio, il 25 agosto. Era presente il Nostro? Che ruolo ebbe?
Nessuno, secondo l’imputato. In vero, era a conoscenza della decisione del Capo Provincia
e del Federale di compiere una rappresaglia, ma non vi partecipò. Lui, quella notte, aveva
dormito in Federazione, era stato svegliato alle 4 (perché così presto?) e con altri tre era passato dalla “Sacca”. Lì c’era Andreani con altri otto o dieci militi. Poi seguì il gruppo a distanza e nei pressi di Porta Aurea svoltò nel suo piccolo rifugio per le pulizie personali, uscendone ad esecuzioni terminate. Che pulizie! A smentirlo, purtroppo per lui, l’agente di custodia delle Carceri, Caricato, di servizio quel giorno, che riconobbe in Andreani e Capanna i
due che erano venuti a prelevare le dodici vittime. Credibile, date le loro funzioni. Non era
passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva fatto visita alle carceri, come confermò il suo
camerata Silvio Gamberini, sicuro di averlo notato il 23 agosto.
Il vacillante alibi fu poi completamente smantellato dal camerata Aldo Bruni, presente ad
ogni fase dell’eccidio. Nessun dubbio, il Capanna era rimasto accanto ad Andreani per tutto
il tempo. Quasi certamente non aveva sparato, ma certamente uno dei morituri, Domenico
De Janni, doveva al Capanna il suo tragico destino. Per vendetta, contro il fratello Luciano
(teste Di Janni Maria).
Ritorna spesso il termine vendetta nella ricostruzione dei fatti e della personalità dell’imputato. Nel lontano passato contro i compagni socialisti, poi contro i colleghi squadristi e i
gerarchi poco riconoscenti, infine, durante la Repubblica di Salò, contro i profittatori del
regime defilati e quanti lo evitavano per disistima. Disposto a tutto pur di lavare un’onta, ma
sempre integerrimo di fronte al denaro. Responsabile di diversi misfatti, ma apparentemente assente nei momenti cruciali. Più incline alla violenza di strada, quella delle origini, piuttosto che a quella al chiuso, in uffici e a base di sevizie. Per esempio, nel febbraio-marzo del
1944 un giorno, all’incrocio tra via Cairoli e via Romolo Gessi, stava passando il ciclista
Massimo Laghi, ed ecco che da un gruppo si staccò il Nostro. Con un pugno lo scaraventò
giù dalla bicicletta e con un altro contro il muro. Poi, la minaccia finale: “Al primo fatto, sarai
ucciso”. Un messaggio per l’intera città.
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Comprensibile, quindi, il clima di sollievo quando si seppe che il Nostro era andato a
Ferrara, a fine settembre, e poi a Nogara Veronese in compagnia dei fascisti locali. Aveva
respirato anche il rag. Mario Montanari, per due volte denunciato alla Federazione e al
Comando tedesco. Costui doveva essere un personaggio, se a suo favore erano intervenuti
sia l’autorevole Roldano Testoni, sia il Questore Neri. Nulla da fare: la furia contro di lui non
si era fermata ed una sera raffiche di mitra avevano raggiunto la sua abitazione nei pressi di
Porta Nuova (tra gli assalitori, il Cattiveria). Saggiamente, allora, il bersaglio mancato si era
eclissato in quel di Mezzano, da dove, partite le Brigate Nere assieme al Capanna, a fine ottobre aveva deciso di far ritorno a Ravenna, nascondendosi presso il Cav. Zanotti. Ma alle cinque e mezzo del 3 novembre un’automobile si fermò davanti alla casa-rifugio. Scesero
Andreani, Spero e Capanna (teste Elio Guberti). Vide tutto anche Venere Contessi, già in fila
davanti alla Macelleria Cimatti. Poco dopo, per strada, colpi alla testa, alle braccia e al petto
misero fine al terrore del Montanari. Di nuovo, il Capanna non aveva sparato.
Ravenna liberata rivide Capanna sei mesi dopo, in catene e ne udì la voce diffusa nelle
Piazze del centro, in un rito liberatorio e in parte vendicativo, vissuto ancora più intensamente per la sua strenua e battagliera difesa, nonostante le accuse dei parenti delle vittime,
confermate da altri sgherri fascisti. Furono necessari confronti, drammatici e violenti. Tra lui
e il già condannato Sergio Morigi si arrivò agli insulti e persino allo scontro fisico.
Successivamente nell’epica da bar e da piazza si discuterà del reale vincitore di quello scontro, e non di altro. In relazione a molti episodi, l’imputato si attestò sulla negativa assoluta;
quanto ad altri, o ammise un’iniziale partecipazione o indicò obiettivi diversi da quelli raggiunti o contestatigli. In particolare, affermò di nulla sapere dell’uccisione di Montanari
Almo, dei fatti di Villanova, dell’uccisione dei fratelli Chiarini, dell’omicidio di Mascalzoni
Lino. Aggiunse di avere saputo solo dopo della morte di Zirardini, di non avere avuto alcun
ruolo sulla fine di Mario Montanari e giustificò la sua presenza in casa Zanotti, con Andreani
e Calvetti, solo per accertare la veridicità dell’ammanco di legna da parte del suo collega
Arcieri (questione già trattata nella causa Finotelli). Ammise la presenza alla Marabina, ma
solo per le indagini sullo scoppio della bomba; analogamente, per la merce dello Zaccherini,
solo sorveglianza sulla destinazione del tutto; ammise di essere entrato nella Chiesa di S.
Giovanni, ma senza conoscerne la motivazione, di avere arrestato il Miccoli, ma solo per
ordini superiori, così come per la visita alla canonica di S. Marco, di avere arrestato Suzzi
Walter e madre e non altro. Quanto alle botte nei confronti di Laghi, Fenati e Gardini (Nello),
pure fantasie. Anzi, il Gardini lo vide soltanto nell’ufficio del Console Guidi. Dell’eccidio del
Ponte degli Allocchi, già si è detto. L’unica sua colpa il collaborazionismo, scaturito dalle convinte idee fasciste, di una vita.
Lavoro arduo per la Corte, che decise di prendere in considerazione soltanto le dichiarazioni “uniformi, costanti e circostanziate e non contraddette da altri elementi di causa”. Per
esempio, nel caso Zirardini ad accusarlo era esclusivamente Sergio Morigi, come per altri
delitti (omicidio Chiarini). Un vero nemico il Morigi, quasi desideroso di portarselo dietro
nella condanna a morte. Animoso anche il camerata Bruni, che talora riferiva notizie sapute
da altri (il B.N. Cicognani Olmo).
Forse il Capanna aveva previsto un simile comportamento dei suoi camerati, persone
poco raccomandabili, portati per le rapine, tant’è che al momento dell’arresto collettivo in
quel di Lonigo aveva esclamato: “Se quando saremo a Ravenna mi farete del male, io vi rovino tutti”.
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Rimasero, invece, altre accuse, tra cui la più pesante di tutte, l’eccidio del Ponte degli
Allocchi. La Corte gli riconobbe anche una certa sensibilità (consiglio di non prelevare i tre
facchini, intervento a favore di don Montanari, di Senni, Galli, Gardini e altri, tra cui il dott.
Massimo Bellinazzi in quel di Orgiano). Ma torniamo un po’ indietro.
L’escussione dei testi era durata dal giovedì al sabato, fino alle 11,30. A pochi metri dal
Tribunale si svolgeva il Mercato, più frequentato del solito, e nella piazza centrale le transazioni avevano lasciato il passo alla curiosità più grande, l’arringa della Pubblica Accusa, che
della folla avrebbe dovuto interpretare l’animo, com’era avvenuto una settimana prima con
Sergio Morigi. Il parallelismo con quest’ultimo era d’obbligo. Era peggiore il giovane, dal
passato partigiano, o il vecchio squadrista, dal corpo tozzo, la testa rasata e gli occhi chiari?
Non ebbe dubbi il PM, avvocato Renato Tropea, per il quale uguale era la gravità dei crimini
commessi, anche se uno era un semplice milite e l’altro un ufficiale. Per i caporioni fascisti
era giunto il momento della giustizia. Solo pochi erano sfuggiti, raggiunti dalla “furia punitrice della folla”.
Tropea, nel trattare la figura d’Umberto Ricci (impiccato al Ponte degli Allocchi), introdusse un tema delicatissimo (che tornerà negli anni successivi), e cioè se l’uccisore di
Cattiveria, sottoposto a sevizie d’ogni tipo, comprese iniezioni particolari, avesse ceduto,
rivelando nomi e luoghi (vedi manifesto a fine libro). Altra infamia e falsità dei suoi carnefici, sentenziò. Nel dire del Tropea riemerse anche il lontano duplice omicidio dei fratelli
Cuman: condanna del fratello, insufficienza di prove per lui, è vero, ma i ravennati “videro
in Capanna l’istigatore del delitto”. Tralasciamo la parte retorica, allora non sentita come
tale, e andiamo alle prevedibili conclusioni. La Giustizia non doveva conoscere pietà, ma
doveva essere “ferma, diritta come il taglio della sua spada, inflessibile, intransigente”.
Morte! Morte mediante fucilazione alla schiena. Morte rispose la folla, in aula e in piazza.
A morte, ripeté il difensore, avv. Giangrande di Faenza. “A morte, se riterrete che le prove
siano quelle che il PM ha ritenuto”.
Aggiunse: “Chiedo giustizia, non pietà ed avanzo il dubbio”.
E la Corte, composta da Peveri (presidente) e dai Giudici popolari, dott. Brusa Giuseppe,
Zaccaria Silvano, Venturi Virgilio e Vaccari Giovanni (cancelliere Jantosca), non ebbe dubbi.
A morte! “Viva l’Italia” urlò il Capanna, un grido interpretato dai Cronisti come un augurio
al paese, dopo le sofferenze inflitte.
A fine agosto, la Cassazione di Milano respinse il ricorso. Nell’attesa dell’esito il Capanna
fu visitato dall’avvocato Cilla, estensore di un opuscolo allegato a “Democrazia”.
Ebbene, in tale circostanza il morituro avrebbe dichiarato. “Accetterei la mia sorte più
soddisfatto se fossi sicuro che i famigerati Luciano Rambelli, Renzo Morigi, Frignani e C.(sta
per compagni o per Calvetti?) saranno anch’essi raggiunti dalla Giustizia”. L’ultimo pensiero
per i veri padroni di un ventennio, amici e poi nemici, autentici malfattori per lui, odiati,
forse, fino oltre la morte, che giungerà due giorni prima di Natale, alle ore 7.
Il nome e la fine del Capanna vinceranno il tempo nella memoria dei ravennati, specie tra
i frequentatori del Mercato Coperto, di passaggio o fermi di fronte al banco dei formaggi,
che la vedova mai abbandonò, neppure nei giorni più difficili.
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Dopo la catarsi
La storica giornata del 4 agosto aveva trattenuto in città anche coloro che di sabato erano
soliti raggiungere il mare (soliti da pochi mesi, dopo un lungo digiuno durato ben cinque
anni, un po' meno secondo i più informati). L’indomani, domenica, nell’inesauribile corteo
di biciclette che costeggiava il Candiano non si parlava di altro. Degli orribili misfatti e della
condanna a morte. Giusta per tutti. Ogni tanto la fila s’ingrossava, quasi a formare un gruppo. In mezzo, gli eroi di giornata, i pochissimi testimoni oculari, veri o presunti, che potevano narrare i particolari ignoti a quanti avevano riempito le piazze: la faccia dell’imputato,
le mani e gli sfoghi dei parenti delle vittime. La scena si ripeté sulla spiaggia assolata, sotto
le rare tende a forma di vela, e nella pineta tra panni stesi e scarse vivande. Per tanti la meritata punizione rappresentava un fatto liberatorio, quasi definitivo, una certezza ulteriore che
l’incubo del tragico e recente passato era ormai alle spalle. Diffusa era anche la convinzione
che solo in tal modo il cammino della ricostruzione e della rinascita non avrebbe incontrato intoppi. Non tutti, ovviamente, si poterono esprimere sul senso politico della sentenza,
ma a tutti quel giorno furono concesse massima fantasia e assoluta libertà nel dire o nel
ricordare, senza rischi di smentite ufficiali, o autorevoli, tramite la stampa quotidiana locale,
ancora assente. Un vantaggio, destinato a finire.
Nella Ravenna deserta era rimasto invece Peveri, il Presidente, che si era preso due settimane di riposo, se non di ferie. Al suo posto, martedì 7, troviamo Enrico Mastrobuono e una
giuria parzialmente nuova, composta da Morigi Antonio, Linari Luigi, Maresi Luigi e
Montanari Rino. All’attenzione, dopo le vette raggiunte, profili minori, imputati di seconda e
terza fila, vecchi senza storia e giovani volontari con irrilevanti imputazioni, ravennati e faentini, siciliani e napoletani portati dal destino in Romagna e finiti a Porta Aurea, in carcere.
Da Piazza Armerina proveniva Lorenzo Zitelli, fu Antonio e di Rosa Zitelli, classe 1897.
Un vecchio, per quei tempi, un meridionale, che si trovava a Ravenna nel settembre del
1943, immigrato o di stanza in qualche distaccamento. Nulla si sa del suo passato. Fascista
delle origini o del ventennio? Consta invece che nell’aprile del 1944 risultava aggregato alla
“Compagnia della Morte”. Nel mese successivo si trovava a Vercelli, da dove fu spedito in
Germania per addestrarsi. Vi rimase a lungo, segno che i tedeschi non disperavano ancora
sull’esito del conflitto, fino al dicembre, quando la sua Divisione, “Italia”, fu rispedita in
patria, tra le poche destinate a contrastare il nemico, a coprire il fronte toscano dal marzo
1945. Alla fine, quindi. Nullo in questo frangente il suo apporto, poiché, colpito da ernia
inguinale, rimase a Casalecchio di Parma a guardia dei baraccamenti. La Corte non volle
approfondire. Nessun reato.
Di Napoli era originario un altro anziano, Giacomo Pasca, nato nel 1900, del fu Vincenzo
e di Maria Pirazzoli, un sangue misto quindi, nato nel 1900. Iscrittosi al Fascio in un secondo tempo (1926), lo troviamo stanziale nelle nostre terre, prima ancora che gli alleati sbarcassero in Sicilia. Aveva il compito di avvistare navi nemiche in Adriatico ed aveva sede alla
Foce del Bevano (a nord di Cervia). Una vita tranquilla, non interrotta con l’arrivo dei tedeschi, che subito lo aggregarono per utilizzarlo in una mansione simile, nella difesa contraerea a Mussolente ( Vicenza), a Rovereto e, negli ultimi giorni, a Ravazzone di Trento. Un semplice gregario, incolpevole.
Ravennati doc erano, invece, altri due imputati di giornata, un ufficiale ed un giovanissimo.
Il primo, già Capitano della GNR, si chiamava Renzo Vitali, fu Luigi e di Benelli Elisa, clas-
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se 1911. Uno dei pochi che aveva preferito combattere il nemico interno lontano da casa.
A Grosseto, in azioni di rastrellamento e con responsabilità d’ordine pubblico, e precisamente ad Arcidosso, aggregato alla 98a Legione della MVSN (la “Milizia”). In ritirata si era poi
ritrovato a Firenze, Bologna, Castel S. Pietro (BO) e a Vicenza, per ricongiungersi con i
camerati della sua terra.
La Corte, visto che nessun’accusa proveniva dalla provincia, dovette sciogliere un dubbio.
Se spedire il prigioniero e gli incartamenti a Vicenza, dove eventualmente si era concluso il
suo reato di collaborazionismo continuato, o a Grosseto, dove si era registrato l’addebito
più pesante, concorso in omicidio. Optò per il Tribunale toscano.
Il giovanotto, invece, Edio Casadei, di Pompeo e di Rosa Francia, non si era mai distaccato dai camerati ravennati. Nel Fascio dai primi d’agosto del 1944, dopo una settimana già
nella B.N., per impedire, secondo lui, che il padre antifascista avesse “rogne”. Da fine settembre, in Veneto. Da qui, nelle sue parole stravaganti, una fuga a Milano nel marzo 1945,
non per combattere con i più fanatici, ma per dedicarsi alla professione di rappresentante
di commercio. Attività appena abbozzata, se si pensa che il suo arresto era avvenuto ad
Orgiano, il quartiere generale della B.N. di Ravenna. Alla fine di tutto, aveva solo 18 anni.
In città, neo iscritto e da poco in divisa, a soli diciassette anni aveva bruciato le tappe.
Piantone di Federazione (quanti piantoni!) ed in grado di dire una buona parola a favore di
qualche sospettato (testi Borsi, Barbiani e Gallina), capace addirittura di farsi sentire dai
tedeschi, essendo persino riuscito a recuperare un cavallo sottratto da un “crucco”.
Ma, sfortunatamente per lui, si trovava alla “Sacca” durante la settimana di passione, dopo
l’uccisione di Cattiveria. Un giorno, il 19 agosto, arrivò Andreani con i suoi accoliti, seguiti
da un torpedone della Questura. Tutti su. In giro, per vie e sobborghi a perquisire, ad inseguire e ad arrestare. Capeggiava la sua squadra Ubaldo Cappelli, affiancato da Sergio Morigi.
Con lui anche Buda, Forgelloni (?) ed altri tre militi.
Due gli episodi contestati. Uno finito bene per la potenziale vittima, Rosolino Ravaioli,
che riuscì a fuggire. L’altro, terminato con la cattura di Giulio Lolli, lo stesso che si era salvato con la fuga al Bosco Baronio. Questi non terminerà al Ponte degli Allocchi, ma alla
Camerlona, fucilato dai tedeschi dopo otto giorni di detenzione (26-8-44).
La verde età e le buone azioni giovarono al nostro Edio, condannato a scontare 6 anni e
otto mesi al posto dei dodici anni, previsti nel caso specifico, data la presenza di più di cinque persone al momento della cattura del Lolli. Scontata l’amnistia.
Misteriose e non confermate resteranno le simpatie antifasciste del padre.
L’attenuante della giovane età non poteva valere per l’ultimo detenuto di giornata, addirittura di leva al tempo della deflagrazione europea, la prima. Un lombardo, nato a Marudo
di Milano, residente a Faenza. Classe 1894. Si chiamava Giovanni Boggi, fu Giuseppe e fu
Vilipendi Flaminia. Per l’età avrebbe potuto, al massimo, per convinzione o interesse, aderire
al PFR. E così aveva scelto nel novembre del 1943, accettando d’essere utile nell’U.N.P.A,
impegnato nella protezione antiaerea. Ma poi nel settembre del 1944 aveva spiccato il salto,
indossando la divisa della Brigata Nera. Si noti in settembre, pochi mesi prima della
Liberazione di Faenza. Un salto in qualità. Per l’idea o per soldi? O per entrambi? Vediamo.
Durante la guerra, con il coprifuoco, gli sfollamenti, il mercato nero, le rappresaglie e i
bombardamenti, la vita doveva sembrare quasi normale. Questa era la volontà politica di
Mussolini, cui i tedeschi non si erano opposti. Le restrizioni si applicavano esclusivamente
ai ristoranti e agli alberghi di lusso. I cinema, invece, dovevano funzionare e così dicasi per
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i teatri. Unico vincolo: gli spettacoli dovevano terminare al tramonto. Scelta oculata che
offriva anche la possibilità d’improvvise retate durante le rappresentazioni o all’uscita.
Qualcosa di simile capitò nel maggio ‘44 a Faenza. Improvvisamente le uscite del centralissimo Teatro Masini furono bloccate dai militi, mentre altri entravano in sala. Non per controllo documenti, ma alla ricerca di un volto ben conosciuto, quello del dott. Morelli. A sorvegliare anche il Nostro, pur non essendosi ancora arruolato nelle Camicie Nere. Come mai?
Per caso, dirà il Boggi, chiamato da un certo Boschi (lo stesso ucciso alla Marabina di
Ravenna?) e ignaro dello scopo dell’azione.
Altra casualità a settembre. Era per strada e non sapeva come raggiungere Granarolo,
quando vide passare un camion di brigatisti di Faenza, al comando di Raffaele Raffaeli. Il passaggio non gli fu negato. Diversa però risulterà la destinazione: Mulino di S. Stefano.
In cerca di farina imboscata? Non proprio, visto che dal mulino sparirono 12 biciclette e
50 quintali di rame, passati ai tedeschi. E lui? A custodire il mezzo. Per puro accidente egli
era presente anche in occasione della cattura di certo Petronici, con conseguente incendio
di un capanno di fieno e furto di una bicicletta. Una scusa migliore trovò per una delle operazioni condotte in grande stile e passate alla storia. Presenti truppe tedesche e tutti i fascisti di Faenza. In caserma, a Villa S. Prospero, fu lasciato solo il cuciniere, per il ristoro delle
previste fatiche. Fatiche vere, dovendosi controllare capillarmente una vasta area, comprendente Pergola, Pideura, Tebano e Marzeno. Lo stile era quello classico: partenza all’alba e
controllo militare e poliziesco d’ogni casolare e albero. Azione necessaria per l’avvicinarsi
del fronte. Bisognava ripulire il territorio dai nemici interni. In data 6 ottobre.
E lo stanco Boggi? Non reggendo il ritmo, era arrivato in ritardo all’appuntamento mattiniero e, avendo trovato la Villa S. Prospero deserta, si era affannato con ogni mezzo per raggiungere i camerati in azione da ore. Arriverà sul posto giusto alle quattro pomeridiane,
presso casa Galot. Mosso da disciplina o per paura di punizioni? Nulla di tutto questo.
A detta dell’imputato, esclusivamente per evitare la cattura di un suo parente e il saccheggio della casa. Obiettivi entrambi centrati, com’ebbe a confermare il nipote salvato, Serafino
Ghetti. Per il resto, si riposò e forse si rifocillò, mentre gli altri rapinavano in giro e bruciavano abitazioni e stalle. Tranquillo fu il ritorno in sede a Faenza, dove soltanto l’indomani
venne a sapere che quattro persone erano state fucilate. Non credibile a detta di certo
Santandrea, catturato assieme ad altre cento persone, tra cui il fratello, ucciso sul posto,
distante appena 50 metri dalla casa Galot. Il detto teste aggiunse inoltre che durante la sua
carcerazione a Villa S. Prospero aveva intravisto la possibilità di fuga, bloccatagli dal Boggi,
nonostante la vecchia amicizia.
Neanche la Corte concesse indulgenze e lo condannò ad anni 20 di reclusione. Pena eccessiva, visto che nessuna attenuante gli fu concessa. Neppure quella per avere il nostro lombardo-romagnolo accolto la preghiera del parroco, rivoltagli tramite sua moglie: di non vendicarsi per l’uccisione di un suo figliolo. Che tempi! Forse per questo (nessuna attenuante) la
Cassazione rinvierà il processo alla Corte di Assise di Ferrara.
Due giorni dopo, il giovedì 9 agosto, una nuova seduta, quasi in fotocopia della precedente, con la sostituzione di due giurati, Pirro Bartolazzi e Vincenzo Gardini al posto di
Morigi e Montanari. Una giornata di normale amministrazione, con un reduce della Grande
Guerra e tre giovanissimi, due dei quali nati addirittura nel 1928, appena sedicenni all’epoca dei fatti.
Il vecchio si chiamava Artidoro Casadei, fu Luigi e fu Maria Tumidei, nato sul finire del
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1894, come il Boggi, e come il Boggi aveva prestato servizio nella protezione dai bombardamenti, inviato fin dal 1941 alla piazza di Torino e poi ad Ancona, due centri destinati ad essere particolarmente martoriati dalle squadriglie alleate. Catturato dai Tedeschi all’indomani
dell’armistizio era stato spedito in Germania, proprio lui che si era iscritto al Fascio fin dal
1923 e subito premiato con il posto di custode presso il cimitero di S. Pietro in Vincoli. Nel
1936 era entrato nella Milizia e con la guerra era stato spedito nelle Marche, a vigilare sulle
strade e sui porti. Da prigioniero, quindi, non ebbe dubbi e ben presto s’iscrisse al Fascio
Repubblicano in terra tedesca. Poté così rientrare in Italia, in un battaglione in formazione
a Como. Rivide Ravenna solo dopo la Liberazione, allorché l’agente di P. S. Lupini lo fermò.
Nel frattempo, si era mosso sempre tra la Lombardia e il Piemonte, di servizio a Lecco, Rivoli,
Pinerolo ed Oggione, tutte località d’imponenti rastrellamenti. Anche lui adibito solo a funzioni di piantone. Un esercito di piantoni! Gatta ci cova, per la Corte, anche se contro il
nostro Artidoro nulla di grave era emerso. In caso diverso, sarebbe stata obbligatoria l’incompetenza territoriale. Pertanto, l’imputato uscì di prigione, accompagnato però dall’insufficienza di prove. Il repubblichino Artidoro riprese a seppellire le salme dei repubblicani
mazziniani di S. Pietro in Vincoli?
Se il campagnolo Casadei era passato dall’Adriatico alle zone lacustri e collinari, il marinante Alfredo Ghirardelli (di Michele e di Brundu Pierina) dalla nativa Porto Corsini era sfollato da civile in Polesine, con la famiglia, a Ceneselli lungo il Po, e poi in divisa da Camicia
Nera a Candiana (PD) ultima spiaggia dei fascisti romagnoli e toscani, in servizio d’ordine
pubblico, come recitava il nome della triste compagnia, O.P., incubo estivo delle genti polesane, allontanata da Adria persino su sollecitazione dei gerarchi locali, tra cui il Podestà
Antonio Bellinetti.
Quali le colpe del nostro marinante, di sangue sardo-polesano? Una su tutte. Avere vestito la Camicia Nera, presentandosi volontario al Comando tedesco di Ceneselli. Avrebbe
potuto spassarsela nelle golene del fiume tra nuotate e cattura di storioni, considerando che
aveva visto la luce solo nell’ottobre del 1928. Forse sciagurato il padre, che non gli aveva
impedito di arruolarsi appena sedicenne; condannabili certo coloro che lo avevano accolto.
La dovette pensare così anche la Corte, che assolse per insufficienza di prove il Ghirardelli,
partito da Marina come e tabach (ragazzo) e rimasto toso o bocia in terra veneta.
Più vecchio di un mese il successivo imputato (settembre 1928) e meno fortunato. Si chiamava Sebastiano Spada, di Luigi e di Ferdinanda Magrini. Era sceso dalle montagne (come da
noi chiamano le colline di Casola Valsenio) per raggiungere Faenza ancora quindicenne nell’aprile del 1944. Lo accolse la GNR, che lo spedì per tre mesi a Ravenna.
Da qui, comune destino, fu inviato al 16° Battaglione “Otello Boldrini” di stanza a
Bologna. La tappa successiva sarebbe stata, come da copione, la Flak tedesca, molto impegnata nell’area bolognese. Sebastiano, in vista della vendemmia, avvertì la nostalgia di casa e,
detto fatto, ad agosto (ancora quindicenne) fu visto aggirarsi sotto i portici faentini in una
fiammante divisa della Brigata Nera, con la quale condivise i destini fino al 27 aprile del 1945.
Condivise naturalmente anche le azioni ordinate dall’attivo e pericoloso Raffaeli, il “famigerato” Comandante.
Ed ecco che il Nostro si trovò ad ottobre in mezzo al poderoso rastrellamento di Tebano,
Marzeno, ecc. (già descritto nella causa Boggi del 7 agosto 1945). Unica incertezza, derivata
dalle sue stesse ammissioni, se, in quel giorno di 10 mesi prima, lo Spada avesse condotto i
camion dei rastrellatori e dei rastrellati (precoce anche nella guida!) o si fosse mantenuto
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nelle sue funzioni di aiutante meccanico, cioè disoccupato. Pesante fu la punizione. Dieci
anni di reclusione, ridotti per la giovane età a sei e otto mesi.
L’amnistia gli era dovuta (luglio 1946). Libero per la prima vendemmia, da uomo.
Più vecchio di due anni e già diciottenne al momento dei fatti era il ravennate Renzo
Zaccaria, del 1926, figlio di Enrico e di Ada Antonelli. Precoce anche lui, che a diciassette
anni si era fatto sedurre dai compagni ed era corso ad iscriversi nell’ottobre del 1943 al
Partito, con la speranza di vestire alla militare. Come Guardia Repubblicana, dapprima sulle
colline bolognesi a Vergato e poi a Bologna. Molto focoso o poco esperto di automezzi, a
differenza del faentino Spada, a dicembre precipitò malamente da un camion. Caduta rovinosa, tanto da richiedere quattro mesi di Rizzoli (un autore di questa fatica, là ricoverato
nello stesso periodo, non ha memoria di lui). Mezzo zoppo, fu adibito a magazziniere sotto
i fascisti repubblichini, e ad ottobre fu passato ai tedeschi della Flak, che poco dopo, per la
lentezza dei movimenti, non lo ritennero adatto per correre da una batteria all’altra.
E così fini la guerra, da piantone della caserma della GNR di Bologna. Giusta l’ “escarcerazione”, per prove insufficienti di collaborazionismo con l’invasore tedesco.
L’area di Faenza
Una città unica in Romagna. Sede vescovile che molto ha dato alla Curia di Roma, rallegrata da numerosi conventi e scuole religiose. Più pia ed aristocratica del capoluogo e d’ogni
altro centro. Terra di preti, politicamente “bianca”. Il fascismo, per passare, non aveva dovuto sconfiggervi, come dappertutto, la presenza socialista e repubblicana, ma soltanto quella
rossa (anarchico-socialista) e quella “gialla” dei popolari di don Sturzo. Profondamente
diversa la realtà prefascista, relativamente quella del regime, con il coinvolgimento della
nobiltà. La forza della sua Diocesi si faceva sentire senza significativi ostacoli su per le montagne, verso Firenze e il forlivese, e declinava un poco verso valle, lungo il fiume Lamone,
con l’eccezione di Bagnacavallo. Vissuta quasi accerchiata dopo l’Unità d’Italia, tra Imola e
Forlì, aveva finito con l’accentuare le proprie caratteristiche distintive. Non è che vi mancassero i forti contrasti, tra preti e mangiapreti, ma il prestigio del suo Pastore risulterà sempre
dominante, al massimo grado durante la guerra, a differenza di Ravenna, ma anche nel
dopoguerra, quando si verificherà un evento eccezionale: la collaborazione degli alleati e del
CLN con mons. Battaglia, nella doppia veste di capo spirituale e politico e con l’investitura
a Sindaco per un mese e poi ad Assessore di mons. Baldassarri nella prima Giunta del dopoguerra. Forse non è un caso che le migliori menti religiose di Faenza e Brisighella abbiano
finito con l’affermarsi anche in Vaticano. Basti pensare ai fratelli Cicognani, entrambi premiati con la porpora cardinalizia. Dato l’ambiente, era inevitabile che forti personalità emergessero anche sul fronte opposto. Un nome per tutti, quello di Pietro Nenni, che nel collegio
locale aveva frequentato Mussolini, al tempo dei furori socialisti ed anticlericali. Con questi
connotati, fortemente ideologici, non deve sorprendere che i ras fascisti locali, senza retroterra culturali ed ideali, non abbiano quasi nome. Forse sarà una sintesi sbrigativa e superficiale, ma non può essere accidentale che dalla vicina Imola provenisse Grandi e dal forlivese Arpinati (ex sindacalista rivoluzionario), il Duce e Bombacci (ex comunista, con Mussolini
a Salò), da Ravenna Ettore Muti e Renzo Morigi (d’antiche simpatie repubblicane). Con pos-
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sibilità di smentita si può affermare che ad alimentare lo squadrismo e il fascismo delle origini abbiano concorso in prevalenza uomini provenienti da esperienze laiche, repubblicane,
socialiste, comuniste, anarchiche, talora liberali, a scapito di quelli con matrice popolare o
clericale, con l’eccezione del primo Segretario politico del Fascio, Pietro Zama, che proprio
dalle file cattoliche proveniva. In vero, nel maggio del 1924, prima del delitto Matteotti, egli
aveva già abbandonato gli squadristi e il partito fascista. L’affermazione di cui sopra vale
almeno per i capi, tranne che non si voglia indagare sui primi finanziatori del fascismo, dalle
vaste proprietà terriere e dai palazzi aviti in città. Diverso il discorso dopo il 1922, allorché
la Monarchia e la Chiesa sceglieranno la soluzione autoritaria. Saltato ogni argine, non si
conteranno più i prelati di regime, i possidenti, nobili o borghesi, in orbace, o i contadini,
un tempo solo casa e parrocchia, agitantisi nelle adunate.
Eppure, mai si potrà dire che Faenza fosse una città del tutto acquisita al regime. A dire
no, gli oppositori di sempre, intellettuali ed operai, e le coscienze religiose ostili alla logica
militare e al clima totalizzante. Qualcosa di simile era avvenuto anche durante la Grande
Guerra. Con la Repubblica di Salò gli orizzonti mutarono profondamente e ben presto scemarono le disponibilità a sostenere lo sforzo tedesco. Faenza, inoltre, assunse una funzione
strategica rilevante. Crocevia obbligato tra Bologna e il mare, tra Ravenna e le montagne,
verso la Toscana. Confluenza di valli, con un retroterra ideale per nascondersi e colpire,
snodo stradale e ferroviario solo apparentemente periferico. Naturale, quindi, che vi convenissero ingenti forze tedesche e decise squadre fasciste, in stretto rapporto con le truppe
delle realtà limitrofe, operanti nelle colline forlivesi ed imolesi e nelle basse ravennati e bolognesi, in una osmosi che non conosceva confini comunali, di provincia e talvolta regionali,
soprattutto in occasione degli imponenti e ripetuti rastrellamenti. Della funzione strategica
della città e del suo territorio erano consapevoli pure i partigiani delle basse ravennati che
dapprima salirono sopra Faenza e, dopo le pesanti sconfitte, decisero di muoversi nelle vicine campagne lughesi e di agire saltuariamente per le vie del centro, sempre più spopolato,
senza interrompere però i legami con la resistenza operante nelle colline di Casola Valsenio,
Riolo, Modigliana (FO) ed Imola. Alle stesse conclusioni arrivarono gli alleati, che bersagliarono incessantemente ponti e strade, ferrovie e caserme. Crollarono così anche chiese e
palazzi, torri e magazzini, ospedali e scuole. Pesante il tributo di vite umane. Analoga sorte
toccò ai centri limitrofi di Solarolo, Riolo, Cotignola, Castelbolognese. In Romagna solo
Rimini ebbe destino peggiore.
Nella Faenza martoriata dai bombardamenti e dalle persecuzioni nazifasciste mai vennero meno l’impegno caritatevole, la solidarietà e la presenza autorevole della Chiesa e del suo
Vescovo, nei tentativi, talora vani, di impedire rappresaglie, arresti, deportazioni in
Germania, torture ed eccidi. Di nuovo, senza riscontro a Ravenna e Forlì. Pertanto, non deve
produrre meraviglia se chi aveva acquisito autorità morale sotto i nazifascisti la poté spendere, ascoltata, con gli inglesi e con il CLN, onde impedire gli inevitabili eccessi partigiani
del dopoguerra o le indesiderate accelerazioni della storia, ossia il prevalere dei socialcomunisti. E le conseguenze politiche ben presto si videro.
Ma questo non è l’orizzonte di questo libro. A noi interessa registrare che dalla Curia
faentina partirono missive in molteplici direzioni, molte note, tese a frenare la sete di giustizia o di vendetta, alla luce del Vangelo e non solo. Si può pensare pure, senza averne precisa documentazione, che analoghi appelli o raccomandazioni siano pervenute alla Corte di
Assise, nel tentativo di attenuare certe responsabilità. Scoperte queste destinate ai fortuna-
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ti studiosi che dopo 70 anni potranno accedere agli archivi oggi interdetti. Peccato che nelle
sentenze ravennati manchi un qualche accenno a simili perorazioni o testimonianze scritte,
a differenza di quanto fece il giudice di Torino che le introdusse nel dispositivo della più stupefacente delle sentenze, quella contro il Capo Provincia di Ravenna, Bergamo, Torino, ecc.
(causa Grazioli).
Ritornando a Faenza e dintorni, numerosi furono i fatti di sangue e le violenze contro
patrioti, partigiani, semplici cittadini. Per mesi si susseguirono agguati notturni e arresti,
prove di forza contro gli sbandati e i combattenti in arme, cattura di centinaia d’uomini e
donne, parenti o vicini di qualche sospettato. Frequenti anche i saccheggi, le distruzioni di
case e stalle, le rapine, gli incendi, le deportazioni, le stragi ad opera in genere delle Brigare
Nere, spesso in collaborazione con i tedeschi. La morte violenta non risparmiò nessuno, colpendo donne, vecchi, ragazzini, ospitali contadini, generosi possidenti, parroci simpatizzanti per i renitenti e per i partigiani. Furono giorni e mesi di sangue, a volte anonimo, tra dirupi e boscaglie, e di paure, senza neppure la soddisfazione morale per i partigiani superstiti
di entrare in Faenza a fianco degli alleati. Uno schiaffo ingiusto ed inspiegabile. Per di più la
città semidistrutta visse, a differenza di Ravenna e di Forlì, una lunga liberazione, una liberazione a metà, con moltissimi sfollati non autorizzati dagli alleati al rientro per esigenze belliche, con i tedeschi attestati a pochi chilometri, in grado di colpirla anch’essi con spezzoni
e bombardamenti, come la vicina Imola che dovrà attendere fino alla fine della guerra per
festeggiare la cacciata dei nazifascisti.
Da ultimo, neppure la possibilità di rivedere in faccia i persecutori di oltre un anno, latitanti o detenuti a Ravenna, processati nel distante e meno colpito capoluogo, difficile da raggiungere anche per i testi residenti in città, quasi impossibile per gli abitanti di Casola, Riolo,
ecc. In compenso, alcuni fascisti erano stati arrestati nei rispettivi paesi o in zone limitrofe
dai Carabinieri o dai partigiani locali e interrogati con il ricorso a qualche doloroso e furente confronto con le vittime, prima di essere tradotti a Ravenna o Forlì.
Per concludere, negata persino la possibilità di seguire le cause tramite i giornali.
Pertanto, a lungo rimase un unico collegamento con la storia recente, rappresentato dai
pochi giurati legati a Faenza e dai resoconti dei testimoni.
P.S. Tra le vittime del Ventennio va annoverato Arturo Cenni (classe 1893), morto prima
della nascita del secondo fascismo, quello di Salò. Era un fascista convinto e non resse alla
caduta di Mussolini. E così, il 28 luglio del 1943, all’interno della caserma della Milizia di
Faenza, si tolse la vita. Parzialmente diversa la versione popolare: il Cenni si sarebbe suicidato,
dopo avere ucciso un giovane antifascista che manifestava nei pressi della caserma stessa.
Nulla di simile a Ravenna, dove i camerati abbandonarono in massa la Caserma Garibaldi.
Alcune storie di Faenza e dintorni
Se le Brigate Nere di Ravenna furono impegnate in prevalenza nell’estate del 1944, quelle di Faenza e di Forlì non ebbero sosta neppure nell’inverno 1943-44, periodo in cui, come
detto, renitenti e partigiani avevano guadagnato gli Appennini. Una vita dura per i fuggiaschi: trovare cibo e rifugi, celarsi ed agire. Per fortuna la popolazione collaborava, parroci
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compresi, e l’aiuto andava ai ragazzi del posto (parenti, amici), ma anche ai forestieri (cittadini o contadini di pianura). A gravare sulla modesta economia si erano poi aggiunti gli sfollati, tra i quali talora si nascondeva qualche spia. Non era facile sfamarli tutti. Con il passare
del tempo i rapporti si fecero anche conflittuali, sia per gli oneri eccessivi, sia per le pretese delle bande partigiane. Subentrarono paure e diffidenze, soprattutto per timore di rappresaglie e distruzioni, che periodicamente si abbattevano sulla popolazione senza preavviso. Fascisti e tedeschi arrivavano all’alba in forze, bloccavano strade e ponticelli e cominciavano a salire. Ogni tanto si udiva qualche colpo e si scorgeva il fumo di case e stalle bruciate. Di chi? Dopo qualche ora, a fondo valle si riempivano i camion di merci animali e uomini, giovani e qualche vecchio. Anche donne. Saluti disperati e pianti. Tornata la pace, il coro
tirava il bilancio. Quanti n’avevano ucciso? Chi? Chi avevano preso? Dove li avranno portati?
Il dopo diventava ancora più difficile per gli sbandati, visti da qualcuno come i responsabili dei disastri ed invitati a cambiare aria. I persecutori erano ormai lontani, anonimi i più,
identificabili soltanto alcuni perché di stanza nel vicino presidio della GNR o accasermati
con le Brigate Nere. Altri erano fascistoni di vecchia data, altri ancora si vedevano per la
prima volta nei giorni successivi, durante le peregrinazioni nei vari uffici in cerca dei propri
cari. Esperienze varie, che confluiranno poi nei verbali di denuncia o nelle testimonianze
contro i protagonisti dei rastrellamenti.
Più semplice di tutti si presentò il caso di Leonildo Cavallari, fu Giuseppe e di Lucia
Cortecchia, classe 1913. Era nato a Casola Valsenio, lì viveva con moglie e figli, lì si era arruolato nella GNR, rimanendo poi nel locale presidio dall’ottobre del 1943 al luglio dell’anno
successivo. Una qualche esperienza in formazioni di partito in armi se l’era fatta nel lontano
1932 con la divisa della Milizia Confinaria. Logico quindi che partecipasse ai rastrellamenti
dei ribelli, voluti dai capi e dai tedeschi. Ed eccolo nel febbraio ‘44 sul Monte Faggiola (oltre
Casola, sul crinale toscano). Bottino: due partigiani catturati e due uccisi.
Ad aprile altra operazione, nei boschi attorno a S. Sofia (FO) assieme alle SS tedesche. Poi,
in data non precisata, fu impegnato vicino a casa, a Pozzo di Casola e nella località di Trario.
Più proficua la prima perlustrazione che aveva portato alla cattura di due partigiani, che con
stile ottocentesco si muovevano a cavallo. Gli animali vennero poi venduti e ad ogni componente della squadra arrivarono ben 500 lire. Una forma di cottimo da tempi di guerra.
Più significativa per le sorti del conflitto risultò invece quella di Trario: venti i partigiani
arrestati. Il collaborazionismo era palese, nonostante l’imputato avesse cercato di dimezzare
le colpe, ammettendo solo la presenza al Monte Faggiola e a S. Sofia, ma in posizione defilata, come guardiano degli automezzi, data un’infermità fisica. Ci vogliono gambe e braccia
buone per arrampicarsi. Valeva di più per i partigiani, ma non era irrilevante neppure per gli
inseguitori.
A ciò la Corte (21-8-45) non sembrò interessata e affibbiò dodici anni al reo confesso a
metà. Più sensibile la Cassazione che annullò tutto e spedì Leonildo alla Corte di Assise di
Bologna, per mancanza di motivazione. Noi avremmo concesso le attenuanti specifiche, poiché il Nostro nel luglio 1944 si era sbandato, rischiando a sua volta di essere rastrellato.
Una qualche analogia si riscontra nel percorso compiuto da Carlo Casadio, di un anno più
giovane. Nato a Brisighella nel 1914, era rimasto in zona, in divisa da GNR, accanto ai genitori, Antonio e Carolina Arcangeli, alla moglie e ai figli. Forse una scelta di comodo, in ufficio e nella speranza di fare carriera. Già Maresciallo di Marina nel gennaio 1944 lo troviamo
a Faenza presso l’Ufficio Matricola, a spedire cartoline precetto e a controllare le mancate
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risposte. Riconosciuto capace, venne spedito a Firenze alla Scuola Centrale dei Carabinieri,
di cui la GNR si era dichiarata abusivamente erede, impadronendosi delle sedi e delle funzioni. Due mesi a Firenze e poi, per meriti, il grado di Maresciallo, con destinazione al presidio di Fognano, a pochi chilometri dalla sua Brisighella. Ben presto intuì l’esito della partita e a settembre non rientrò più nella nuova sede di Granarolo Faentino. Uccel di bosco e
di pianura fino alla fine, tra Brisighella e Lugo, dove fu scovato dai partigiani. Toccò ai veri
Carabinieri di Brisighella, ritornati in possesso della caserma e del ruolo, indagare sul
Casadio. Saltarono fuori alcuni episodi compromettenti.
A Cavina, piccola località sotto Fognano, il 24 settembre ‘44 vi era stato un rastrellamento operato dai tedeschi e dai fascisti. Nel fuggi fuggi generale, il dott. Pietro Montanari, là
sfollato venne ferito da arma da fuoco. Rifugiatosi in una casa per curarsi alla meglio, era
stato raggiunto da ufficiali tedeschi, seguiti poco dopo dai repubblichini agli ordini del
Casadio. Spettò a questi ultimi arrestarlo e consegnarlo di nuovo ai nazisti, che alcuni giorni dopo lo liberarono.
Precedentemente, il 25 aprile 1944, era precipitato un aereo alleato. Mario Cavallari,
assieme ad un amico, subito era accorso, ma i due ebbero la sfortuna di imbattersi in una
pattuglia comandata dal Nostro, che li minacciò, li percosse e li costrinse a cooperare nella
ricerca degli aviatori. Ad accusarlo anche Stefano Melandri, allora detenuto nella caserma di
Brisighella per possesso di radio trasmittente. Il Casadio gli avrebbe consigliato una dichiarazione equivoca: “Lasciata (la radio) da partigiani sconosciuti”. Versione non utilizzata.
Di detti fatti, l’imputato smentì solo l’affare dei paracadutisti.
Alla luce di quanto sopra, la Corte avrebbe dovuto seguire la medesima condotta tenuta
con Leonildo Cavallari, condannandolo per collaborazionismo, tanto più che il Casadio era
un graduato.
Ma decise diversamente, riconoscendogli in parte di avere operato nell’esercizio delle
sue funzioni. Una novità, assoluzione per insufficienza di prove (23-8-45), se si considera che
il malandato Cavallari aveva disertato a luglio, mentre il Nostro aveva atteso la fine di settembre. O forse una simile indulgenza ha una spiegazione, risibile per noi, ma non per i giurati
che avevano vissuto le angherie di un’epoca, tra le quali la più irritante era il sequestro dei
mezzi di locomozione come le biciclette. Ebbene, il Casadio n’aveva fatto restituire ben due,
requisite dai tedeschi, una al medico Angelo (?) e l’altra ad un prete, don Vincenzo Cimatti.
Della zona di Fognano era un giovane impiegato avventizio, Angelo Piancastelli, di
Giovanni e Giuseppina Vigani, classe 1923. Doveva avere capacità e forti convinzioni politiche, se si considera che riceveva 300 lire al mese per gestire la locale Organizzazione
Nazionale Balilla. La carica però gli aveva dato alla testa. Infatti, fin dal 1941 costui era solito, entrando nei Caffè, obbligare i clienti, impegnati nel maraffone, ad alzarsi in piedi ogni
volta che la radio trasmetteva i Bollettini di Guerra. Restando fedele a se stesso, aveva poi
fondato il Fascio repubblicano del paese, a dispetto delle diffidenze degli anziani. Investito
della parte, collaborò con le SS di Faenza nella ricerca dei nemici, in un caso portando alla
cattura di Giuseppe Savorani, e in un altro assistendo alla fucilazione di cinque politici catturati, costrettovi, a suo dire. Amareggiato o in cerca di più forti emozioni, un giorno partì
per la Germania al fine di aiutare lo sforzo bellico lavorando in una fabbrica di cannoni e di
carri armati. Secondo lui, per non entrare nelle Brigate Nere.
La Corte, quel giorno in vena di bontà (23-8-45), fece propria la tesi del vice Podestà del
tempo, che aveva notato, durante la fredda esecuzione dei cinque oppositori, il giovane
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Angelo che stava per svenire. Insufficienza di prove.
Di tutt’altro spirito si dimostrò la Corte una settimana dopo. Presiedeva sempre Peveri e
al suo fianco sedevano Minghelli Arturo, Bartoletti Bartolo, Minguzzi Emilio e Dradi Mario.
Alla sbarra un repubblichino di Casola Valsenio, che mai aveva operato nelle colline romagnole. Si chiamava Luigi Galliani, fu Cesare e di Caroli Carmelina, classe 1911. Nella vita civile faceva il bracciante ed era duro mantenere moglie e figli. La guerra lo aveva portato verso
i confini orientali dell’Italia, in Istria, in divisa di Milite Confinario. Con l’armistizio il suo
Distaccamento si era arreso ai partigiani in territorio iugoslavo, ma lui aveva preferito raggiungere Fiume e mettersi coi Tedeschi, coi quali aveva collaborato fino alla disfatta. Sempre
a vigilare i treni, secondo l’imputato. Forse mentiva, ma non era compito dei giurati verificarlo, data l’incompetenza territoriale. Era successo, però, che il Nostro, rientrato al paese
in visita ai parenti nel Natale del 1943, trovandosi in “baracca” con alcuni militi della GNR di
stanza a Casola, aveva prestato il suo mitra e vana era risultata la richiesta di averlo indietro.
Tutto qui. La lontana collaborazione con le truppe tedesche era indiscutibile, ma l’episodio
di Casola era del tutto insignificante. Che fare? Dieci anni, ridotti a cinque e mesi sei, per l’attenuante del cameratismo alla base del mitra prestato.
E dire che il Nostro l’aveva scampata bella, coi partigiani titini e con le truppe germaniche, al rientro in sede senza l’arma di ordinanza! La Cassazione provvederà con un piccolo
schiaffo alla Corte. Niente amnistia, niente rinvio ad altro Tribunale, ma annullamento perché “il fatto non costituisce reato”. Non era certo facile giudicare uomini passati attraverso
esperienze simili, talora paradossali.
Molte difficoltà si aggiungevano: le versioni contrastanti dei testi, lo spirito di vendetta
della gente, gli opportunismi assolutori, le carte bruciate, i pentimenti, le conversioni, le
ritrattazioni, le pressioni di Roma per processi rapidi, lo stato di detenzione di quasi tutti gli
imputati, le scadenze ravvicinate imposte al lavoro delle Corti di Assise Straordinarie.
E, come se non bastasse, capitavano storie incredibili, quasi grottesche. Una di queste.
Antonio Bettini, di Primo e Poggi Caterina, nativo di Brisighella, classe 1919, sotto le armi
in Africa Orientale, faceva il muratore ed era celibe. Catturato dagli inglesi, era stato spedito
in Khenia. Come tutti i compatrioti prigionieri di guerra avrebbe dovuto tornare nel 194546, ma i britannici con lui fecero un’eccezione, spedendolo anticipatamente in Italia, libero
ed infermo. Glaucoma? Forse. Dopo l’8 settembre, se fosse rimasto nella sua Brisighella, nessuno lo avrebbe disturbato. Ma il Nostro aveva il fuoco dentro e, già uomo, si arruolò nella
Guardia Giovanile Repubblicana. Non contento, passò alla più terribile “Compagnia della
Morte” e non passava giorno che nelle osterie del paese non raccontasse a tutti le ultime
avventure. Rastrellamenti feroci, plotoni d’esecuzione, uccisione di diversi partigiani.
Nefandezze vere o vanterie? La Corte, guardandolo attentamente, concluse per la seconda
ipotesi. Com’era possibile che un fucilatore fosse cieco totalmente da un occhio e quasi
cieco dall’altro? N’andava di mezzo la dignità del plotone o la certezza dell’esito. Pertanto:
insufficienza di prove (18-9-45). La Cassazione volle andare oltre: “non avere commesso il
fatto”.
Nessuno rilevò il suo allucinante curriculum. Addestratore di reclute a Verona, Oriago,
Lovato, nella Divisione “Etna”: un cieco che insegna a sparare e a lanciare bombe a mano.
No, la Repubblica di Salò non poteva essere in simile stato! Siamo nel surreale. Ed allora?
Vanterie o beffa?
Di ben altra tempra ed altro fisico doveva essere Mario Soncini, fu Sante e fu Schiavi
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Modesta, classe 1911. Un operaio forte, originario del Delta del Po. Nativo di Porto Tolle, si
era trasferito nella vicina Mesola. Se fosse stato più vecchio si sarebbe messo in mostra come
squadrista. Ebbe comunque le sue occasioni. Volontario nel “Battaglione M”, dapprima in
Africa, poi nella guerra di Spagna e da ultimo nella campagna di Russia. Non stanco di combattere, alla prima occasione si arruolò per sconfiggere i nemici interni. Operò su più fronti, con le violente Brigate Nere di Ferrara, con quelle spietate di Faenza e, sul finire, con le
irriducibili, confluite in Piemonte, a Vercelli. La fece sempre franca, tant’è che fu arrestato in
quel di Mesola solo a guerra finita, accanto alla moglie.
Pesanti le imputazioni per le azioni compiute nel faentino. Caccia all’uomo, in correità
con altri, a Modigliana, Cella e Tebano. Ovunque conclusasi con cattura di renitenti e ribelli, con l’incendio di case, il sequestro di bestiame. In quel di Pergola, 5 ottobre 1944, si era
superato ogni limite, con la fucilazione dei padri di Gaddoni Maria e di Santandrea Urbano
e dei fratelli di Alboni Rosina. Una carneficina, in cui perse la vita anche la madre di un certo
Alpi, bruciata viva sotto le macerie della propria casa. Oltre ai morti, file di giovani da spedire in Germania. Operazione cui avevano concorso la logica tedesca e la rabbia fascista.
In processo il Soncini pensò di salvarsi con la classica giustificazione e cioè di avere agito
a distanza, aggiungendo un alibi nuovo. Presente soltanto come infermiere. La Corte non gli
credette e neppure attese i resoconti sulle sue imprese ferraresi e piemontesi. Quanto appurato poteva bastare.
Condanna ad anni 15 (20-9-45). Dopo 10 mesi arriverà da Roma il giorno dell’ingiustizia,
con la chiusura definitiva del caso. Niente rinvio. Amnistia.
Ne aveva fatto di guerra anche Angelo Cimatti, fu Antonio e fu Conti Filomena, ma non
da volontario. Era nato a Faenza nel 1910. Si guadagnava il pane come bracciante, mantenendo a fatica moglie e figli. La guerra se l’era portato dapprima in Libia e poi in Croazia. Paure,
stenti e morte. Non gli parve vero che la Repubblica di Salò gli offrisse di starsene fuori dei
pericoli, a casa sua, pagato e con un incarico molto ambito in tempo di restrizioni alimentari, con gioia dei famigliari. Da cuciniere della Guardia Repubblicana mangiava bene lui e dava
soddisfazione ai figlioli. C’era però il rischio di essere coinvolto in qualche nefandezza, ma,
com’è risultato nel caso delle B. N. di Villa S. Prospero, l’unico milite autorizzato a restare in
sede durante i rastrellamenti era proprio il cuoco. Una vita, quindi, relativamente comoda la
sua. Resta pertanto incomprensibile come, un giorno, il Cimatti si sia fatto coinvolgere a
girare assieme a due tedeschi e a minacciare a mano armata certo Vincenzo Tamburini. Fu
un caso isolato. Dappoi, mai si allontanerà dalle cucine, né a Granarolo Faentino, né a Lugo.
Infine, fattosi saggio, abbandonò ogni apparente vantaggio e si diede alla macchia, aspettando la Liberazione come i partigiani.
A Ravenna, in data 21 settembre 1945, l’accusatore non si presentò e alla Corte non
dispiacque. Insufficienza di prove.
Di certo il Cimatti doveva avere conosciuto Stefano Zoli, più vecchio di lui di tre anni.
Anche lui faentino, privo dei genitori (Luigi e Teresa), sposato con prole e appartenente alla
GNR. All’epoca prestava servizio con una certa responsabilità presso la caserma di
Cotignola, che dipendeva da Faenza. Operaio un po’ manesco anche in tempi di pace, si era
guadagnato una condanna per lesioni. Secondo l’accusa, durante il periodo repubblichino
aveva continuato a menare e si era specializzato in operazioni investigative. A Solarolo si era
avventato armato di una chiave inglese contro la testa di un sovversivo e, come poliziotto,
aveva identificato certo Renzo Berdondini, poi ucciso. Personaggio tuttofare, che alternava
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pestaggi d’avversari e cattura di figure in vista, non sottraendosi neppure ai rastrellamenti.
A suo carico, addirittura l’arresto del Colonnello Negrini, dei Settembrini padre e figlio, e di
un Bedeschi, proposti per la fucilazione, poi sospesa. Sicuramente capace, fu utilizzato
anche per un’operazione delicata nella campagna ferrarese, volta alla cattura dell’ex ministro
fascista Rossoni. Con la ritirata non era andato al nord, ma aveva preferito restare al di qua
del Po, a Copparo, Lavezzola, Tresigallo. A Ferrara, infine, fu raggiunto dai partigiani di
Cotignola, che tra i pochi edifici in piedi del loro paese avevano trovato la caserma della
GNR, alias dei Carabinieri. Vuota però o semivuota, essendo spariti la branda, il letto e il
materasso. Colpa del Nostro che li aveva prelevati senza diritto, portandosi appresso anche
la bicicletta d’ordinanza.
In giudizio Zoli non si difese male. Mai pedinato il Berdondini, mai consigliato al Caroli
di frequentare il partigiano Sergio Casadio (altra accusa). Ammise solo la cattura di Alvaro
Badiali, sotto minaccia tedesca. Quanto al maltolto, la bicicletta gli era servita per raggiungere in fuga Lavezzola e il necessario per dormire l’aveva donato ad una povera donna di
Cotignola.
La Corte non trovò elementi sufficienti per una condanna e ritenne, a ragione, che la caccia all’uomo Rossoni, fallita, non poteva rientrare nella logica del collaborazionismo.
Assoluzione piena invece per Giuseppe Poleri, di Giovanni e di Cardelli Maria, di Riolo
Bagni, classe 1906. Non aveva indossato nessuna divisa del Fascio Repubblicano, ma aveva
continuato a portare la sua, di vigile urbano del paese collinare. Inoltre, nella bufera aveva
cercato di starsene fuori. Nonostante ciò, due giovani sbandati lo denunciarono con l’accusa di avere favorito il loro arresto con il conseguente loro impiego nella Todt (aprile 1944).
Conclusione: il fatto non sussiste (27-9-45).
Non costituiva reato, invece, il comportamento di certo Tonelli, impiegato, nato a Faenza
nel 1918. In guerra era stato sergente d’artiglieria e successivamente era stato costretto con
minacce ad entrare nella GNR di Faenza, “Legione VI”. In ritirata, a Brescia e Peschiera.
Nessun’accusa specifica, nonostante la PS lo avesse arrestato nel giugno del 1945.
Il giorno in cui fu liberato (28-9-45) fu festa grande per la moglie e i figli, ancora di più
per la madre Narcisa Tessieri e per il padre che, durante i massacri della prima guerra mondiale, aveva scelto per lui un nome, bellissimo come pochi altri, simbolo del riscatto della
plebe, Germinal, come l’eroe di Zola.
Nello stesso giorno fu liberato anche De Caro Vincenzo, nativo di Pontigliano, residente
a Bologna, coniugato. Classe del 1896, aveva combattuto dal 1940 al 1943 vicino a casa,
impegnato nella 12a Legione Contraerea di Bologna. Poi, senza obbligo alcuno, invece di
tornare al mestiere di sarto riuscì ad intrufolarsi nel Comando Generale della Milizia, con
compiti non chiariti, neppure in quel di Riolo Bagni e poi di Brescia. Altro non si sa.
Il 28 settembre del 1945, oltre ai due imputati di cui sopra, ne comparvero altri dieci in
cause distinte, compresa una donna, la citata Liliana Spada. Per lo più processi semplici, conclusisi con molte assoluzioni, anche a fronte di gravi imputazioni. Vediamone alcune, sempre legate al territorio di Faenza.
Mario Montuschi, di Pietro e di Moretti Domenica, nato a Brisighella nel 1921, raccontò
una storia abbastanza contraddittoria, creduta in parte. Gli piaceva fare l’operaio e si era
iscritto al Partito Fascista Repubblicano di Fognano, dove risiedeva, per potere entrare nella
Milizia ferroviaria. Raggiunto lo scopo, durante una licenza si trovò a Casola Valsenio, dove
fu trattenuto a disposizione del locale presidio e costretto in Camicia Nera. Il caso volle che
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il suo reparto partecipasse al rastrellamento di S. Stefano di Gognano. E il caso volle pure,
secondo il Montuschi, che allora egli si fosse allontanato per quattro giorni, ritornando ad
operazione conclusa. Poi era finito al nord. Contro di lui solo indizi.
Esito opposto ebbero altri due processi di giornata. Alla sbarra due forlivesi, giovani
entrambi, con qualche analogia nei comportamenti, più portati alle razzie che alla lotta contro i ribelli; anzi, il fascino di quest’ultima per loro stava esclusivamente nella possibilità di
mettere le mani sulla roba altrui.
Uno era Domeniconi Bruno (come il figlio del Duce), di Cesena, del fu Leopoldo e di
Branzani Emilia, classe 1923. Abitava a Faenza e si guadagnava da vivere come meccanico. Il
denaro non gli bastava mai e perciò integrava mettendo a frutto le sue capacità manuali fuori
orario. Bravo a rubare, meno a scappare. Stesso destino anche come militare. Disertore, catturato e condannato, ad arricchire la sua fedina penale, che già registrava furto ed appropriazione indebita. Bruno era originale in tutto. Era scappato quando i coetanei si presentavano
sotto le armi, viceversa si era messo in divisa da Brigata Nera quando gli altri salivano in
montagna. Pronta la giustificazione: “Ero andato in Villa S. Prospero a trovare un amico e lì
mi avevano costretto a stare con i fascisti”. Ingenuo o bugiardo? Inoltre, nulla di male aveva
compiuto, poiché vi lavorò solo 40 giorni, ovviamente come meccanico, prima di prendere
il largo di nuovo. Peccato che in quel periodo la Brigata Nera di Faenza, agli ordini di Raffaeli,
fosse solita partecipare ad imponenti rastrellamenti, dai quali era esentato esclusivamente il
cuoco. L’accusa però era generica, come pure quella di avere agito come informatore.
I giudici gli credettero, nonostante le testimonianze di tale Lino Verità e di un suo camerata, Guerrino Nati, che in aula ritrattò. Il Guerrino, quel giorno, nel giro di poche ore, passò
da testimone ad imputato per faccende sue.
Figlio di Giuseppe e di Mammini Maria, era nato nella splendida Terra del Sole nel 1920.
Piuttosto che lavorare in campagna aveva preferito scendere in città, a Faenza, dove l’edilizia tirava. Abituato a muoversi sui tetti, come Domeniconi aveva cercato di integrare il salario, visitando le case già costruite. Ma, ahimè, era stato scoperto e condannato. Con queste
predisposizioni, non gli dovette parer vero che in divisa da GNR avrebbe potuto girare liberamente durante il coprifuoco, visitare negozi ed abitazioni di oppositori, entrare in case
rimaste aperte durante le incursioni aeree o sventrate. Troppo bello, per pensare di sottrarsi alle più impegnative operazioni di rastrellamento e di cattura dei ribelli e degli sbandati.
Tant’è che coi camerati di Faenza, in appoggio ai tedeschi, partecipò ai rastrellamenti di
Monte Fortino, S. Lucia e Pietramora. Lo fece volentieri, anche perché il quadrato delle operazioni comprendeva la sua Terra del Sole. Peccato che tra i cento prigionieri ci fosse un vecchio di 78 anni, tale Domenico (?), eliminato per strada perché ritardava la marcia! Peccato
che le razzie fossero collettive! Meglio agire da solo per le vie di Faenza. Una volta era entrato nella casa di certo Donati in occasione di un bombardamento. Ma fu scoperto mentre cercava di asportare gioielli. Al processo si difese sostenendo che cercava delle valvole, negò di
avere asportato 25 bottiglie di vino da un negozio di via Garibaldi di Faenza, ammise il
rastrellamento, durante il quale aveva salvato due partigiani (ovviamente non identificabili).
Una vita intensa e diversa dal solito quella di Nati. Tra un rastrellamento e l’altro era riuscito a provocare incidenti persino coi tedeschi, che non avevano indugiato a spedirlo in
Germania per alcuni mesi, da deportato. Ma nel luglio del 1944, il Guerrino si ritrovò in divisa tra le sue colline, ad osservare la direzione delle bombe. I giudici di Ravenna si orientarono per i dieci anni di reclusione. Ne scontò dieci, ma di mesi, per il provvidenziale inter-
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vento della Cassazione. Amnistia.
Dalla vallata del Lamone, nell’entroterra faentino, generazioni di giovani, stanchi di una
vita grama, a coltivare campi avari e a tagliare alberi, erano scese giù, verso la pianura romagnola o avevano scavalcato il Passo in direzione della Toscana. Il fenomeno, lento ma costante, non si era interrotto neppure durante il fascismo, nonostante le leggi tese ad impedire
l’urbanesimo. Tra i montanari vi era stato anche chi aveva fatto il gran balzo, oltre le Alpi,
verso la Germania, soprattutto nel periodo giolittiano. Tra questi, Marcello Bubani e la
moglie Romana Mongardi, approdati ad inizio secolo nella lontana Prussia, dove avevano
dato alla luce nel 1903 un maschio, Felice. Lo scoppio della prima guerra mondiale aveva
reso impossibile la presenza dei nostri connazionali in quelle terre. Da qui il ritorno della
famiglia nella cara Brisighella, dove l’erede si era sposato, rassegnandosi a vivere alla giornata come bracciante. L’alleanza dei fascismi europei finì poi con l’offrire al Bubani una qualche occasione d’impiego in più, dato il suo bilinguismo. Con Salò s’iscrisse subito al Partito
fascista e si ritrovò nella GNR di Faenza. Non più giovane, fu destinato, a suo dire, al controllo del mercato nero all’uscita della stazione. In un’occasione diresse il recupero di benzina,
celata presso la ditta “Delle Fabbriche Lodovico”. Le accuse contro di lui erano diverse: servizio d’ordine pubblico e perquisizioni domiciliari per fine politico. D’altra parte non era credibile che a Fognano, raggiunta nel maggio del 1944, le sue mansioni fossero rimaste le
medesime. Finirà la guerra fascista al nord, a Pescantina.
L’11 ottobre 1945, i giudici ebbero dubbi sulle specifiche responsabilità del romagnoloprussiano, in stato di detenzione, ma solo certezze sulla sua scarsa moralità.
Destino della merce o altro? Nello stesso giorno la Corte volle portare in giudizio altri
fascisti, uniti insieme non da comuni responsabilità, ma dalla stessa provenienza geografica,
l’antico borgo di Brisighella. Tutti detenuti, dal più vecchio del 1892 al più giovane del 1926.
Il primo chiamato a rispondere fu Antonio Ercolani, di Augusto e di Ghiarzoni Artemisia,
del 1912, nato a Brisighella. Nel suo curriculum militare l’appartenenza alla Regia
Aeronautica, con il grado di Maresciallo. Con l’armistizio era rimasto dalla parte dell’Asse e,
prima di partire per Padova, aveva organizzato il fascio repubblicano del paese.
Secondo i suoi nemici, la sua attività era stata molteplice anche in loco. Propaganda per
iscrizioni al partito, partecipazione a fatti d’arme e sobillazione a compiere rappresaglie contro i renitenti. Troppo vaghi i riscontri. Assoluzione piena.
La giornata stava prendendo una buona piega per gli imputati di Brisighella. Naturale
quindi la speranza del successivo compaesano, nonché camerata, Ronchi Pier Carlo, di
Giulio e di Fabbri Giuseppina, tanto più che il detenuto non aveva ancora 18 anni al momento dei fatti, essendo nato nel dicembre del 1926, appena 17 nel dicembre del 1943, allorché
aveva aderito al Fascio repubblicano. Dopo un mese era già in divisa da Guardia
Repubblicana di stanza in Faenza. Focoso e giovane, passò quindi nelle Brigate Nere e ai
primi d’agosto fu spedito in terra di frontiera, a Fognano, luogo di residenza e di lavoro,
come operaio. Con l’avvicinarsi del fronte, seguì il destino del suo Battaglione, prima ad
Arzignano di Vicenza e poi a Busto Arsizio, dove fu catturato dai partigiani e trattenuto per
un mese. A Fognano il giovane conosceva quasi tutti e la cosa era reciproca. Molti, infatti, lo
ricordavano tra i partecipanti a due rastrellamenti. Uno nel paese stesso, dopo pochi giorni
dal suo arrivo (ai primi d’agosto), l’altro a S. Stefano, il 24 settembre, poco prima della partenza per il nord. In entrambi, saccheggi, violenze e cattura d’ostaggi, di cui cinque consegnati ai tedeschi per essere fucilati nel Carcere di Forlì.
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Il Nostro negò la partecipazione alla seconda operazione, alla quale si era sottratto, a suo
dire, con una scusa. Ammise il primo episodio, il più grave nell’esito. Presente sì, ma in un
posto di blocco, dove doveva impedire l’accesso al pubblico. Quanto all’eccidio dei catturati, l’aveva appreso l’indomani.
L’11 ottobre del 1946, esattamente un anno dopo il processo, il Ronchi uscirà di prigione, amnistiato, dopo una condanna ad anni 4, mesi 5 e giorni 10. Pena ridottagli dai dieci
anni previsti, per la giovane età e per avere ubbidito ad ordini.
Se la giovinezza aveva aiutato solo in parte, la vecchiaia non fece di più per l’ultimo imputato di Brisighella, Querzani Pietro (padre di Giovanni, processato in data 26-7-45), di Enrico
e di Laghi Giovanna, nato lassù nel lontano 1892.
A ragione, secondo noi, poiché il Nostro era addirittura un ufficiale superiore
dell’Esercito Repubblicano. E ciò, a norma di legge, sarebbe stato sufficiente per la condanna. Ma la Corte di Ravenna non si accontentava e voleva sempre verificare i comportamenti
e i fatti specifici. Il Querzani era un capo vero. Non c’erano dubbi. Aveva comandato un battaglione di addestramento ed era stato inflessibile contro coloro che abbandonavano il
Corpo, non accontentandosi di normali punizioni, ma denunciandoli per diserzione. Non si
trattava di semplici minacce, da rivedere al momento del rientro dei ricercati, come normalmente avveniva anche con il consenso delle massime autorità politiche e militari del regime
di Salò. (Mussolini e Graziani incoraggiarono più volte il perdono nei confronti degli sbandati o dei ribelli disposti a lasciare i nascondigli). Querzani, no. Voleva un esempio duro perfino con quei soldati che, in licenza, tardavano qualche giorno a lasciare le morose o i lavori dei campi.
Siamo a Ravenna città, nel mese di marzo del 1944. L’andazzo doveva terminare e il
Comandante fece arrestare tre giovani rientrati con tre giorni di ritardo. Poteva bastare un
po’ di gattabuia o il divieto di futuri permessi. Mica si era in zona di guerra. No, Querzani
pretese il Tribunale Militare con l’accusa di diserzione e non lasciò nulla d’intentato per raggiungere lo scopo, la condanna a morte. E così, Baldassarri, Zauli e Tasselli il 24 marzo finirono fucilati presso il cimitero di Ravenna, davanti a molte reclute e al soddisfatto
Comandante. Straziante fu la morte, come registrò il Vescovo Ausiliario nel suo Diario e
come narreranno per anni i ravennati presenti. Non contento, il fanatico mandò a prendere
da casa un certo Lega, ammalato sul serio e, da ultimo, cosa gravissima nella logica militare,
s’impossessò abusivamente della bandiera del 6° Reggimento Bersaglieri. Che dire? Un ufficiale superiore che convoca un tribunale illegittimo allo scopo di infliggere la pena capitale
(eseguita) contro tre poveri diavoli, pigri ma non oppositori!
Condanna ad anni dieci. Riconosciuta l’attenuante per avere aiutato in altra occasione
due antifascisti. Altra attenuante, apprezzata con grand’enfasi: avere conseguito la Medaglia
di Bronzo nella prima guerra mondiale sul fronte del Montello (19-20 giugno 1918). Da qui,
la riduzione a cinque anni. Avrà gioco facile la Cassazione. Uno scandalo, vissuto come tale
da tutti i ravennati.
Di nuovo nel faentino
Non era facile individuare le colpe, misurare gli odi, distinguere i periodi. A norma di
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legge si dovevano giudicare le responsabilità del periodo di Salò e tralasciare quelle del ventennio fascista. Ma nella coscienza della popolazione la cesura non trovava posto. Non era
possibile che nel momento della verità, della giustizia o della resa dei conti, i veri colpevoli
la facessero franca. Come si potevano dimenticare la furia distruttrice dello squadrismo e le
prepotenze successive? In fondo, si chiedeva di punire i giovani al posto degli adulti, i figli
al posto dei padri. I primi potevano avere qualche giustificazione. Non avevano conosciuto
altro che il fascismo, a scuola, per le strade, in famiglia. Poi erano arrivate la guerra ideologica, la chiamata obbligatoria, la divisa da portare tra i borghi conosciuti. Attorno, bombardamenti e privazioni. Nessun alibi invece per i “vecchi”, fanatici sempre, che nulla di positivo avevano trasmesso ai propri figli, specie se maschi. Tomi Afro era uno di questi fascistoni da sempre e in nome del Duce aveva fatto generare alla moglie Anna Malpassi ben 9 figli.
Natalino era il primogenito, e nella sua Riolo non aveva respirato altro che l’atmosfera di
casa. Ed ecco che nell’anniversario della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1943, a soli diciassette anni, si presentò volontario nella Milizia antiaerea del paese. Le giornate erano lunghe e,
per fortuna, spesso inattive. Dal cielo non veniva nessuno, mentre sulle cime attorno si
nascondeva il vero nemico, il partigiano. E quando partivano le spedizioni per stanarlo, tutti
partivano. Natalino non si tirò mai indietro, né in direzione di Marzeno, né verso Tebano, né
a S. Casciano di Brisighella, né a Cortecchia di Faggiola. In uno morirono tre patrioti, in un
altro due e uno rimase ferito. Non si contarono i prigionieri. Comandava il Tenente
Querziani Achille. E Natalino? Quasi sempre di guardia a qualche ponte, una volta a quello
di Marignano? La Corte (16-10-45) gli credette in parte. Collaborazionista sì, ma a metà.
Cinque anni invece di dieci. Tra le attenuanti: la figura del padre, dal quale per molti mesi si
era staccato, solo fisicamente, per approdare alla terra veneta, dove i partigiani di Treviso
l’avevano catturato in divisa da Brigata Nera. Nell’estate 1946 il Nostro uscirà di prigione,
amnistiato, e nel 1981 da Bologna arriverà la completa riabilitazione. Una storia simile era
quella di Romano Lanzoni di Casola Valsenio. Il padre Gino (già defunto nel 1945) lo aveva
educato ai miti del tempo e alla madre, Blandina Alvisi, non restò che raccoglierne i frutti,
vedere il figliolo in gabbia a Ravenna, ancora smarrito per le gravi accuse. Romano aveva solo
dodici anni e mezzo quando era scoppiata la guerra, non ancora sedici quando era stato
accolto nel novembre 1943 nella Guardia Nazionale, non ancora diciassette quando era passato nell’agosto del 1944 alle B.N. di Faenza, non ancora 18 quando verrà condannato a tre
anni e nove mesi di carcere. Alle spalle una serie di cattivi maestri, tra cui il feroce Raffaeli.
Con i camerati e i tedeschi era salito sulle montagne (Marzeno) alla ricerca dei patrioti ed
era arrivato fino alle marine di Cervia, per perquisire tutte le case della Pineta (marzo 1944).
Del primo bottino, in uomini, già si è detto; nel secondo solo armi, tutti fucili da caccia.
Infine la prova delle prove per un uomo: assistere ad una fucilazione, quella del patriota
Pasquale Asteriti, detto Pacò, arrestato e seviziato perché ritenuto responsabile dell’uccisione del milite Andrea Boggi. Siamo a Faenza nell’ottobre del 1944. Esattamente un anno
dopo (16-10-45) il giovanissimo imputato Lanzoni negò la sua presenza. Ricordava bene il
morituro, ma soltanto perché la sera antecedente il supplizio era rimasto di guardia alla
cella. Quel giorno del 1945, ad infondere coraggio al ragazzino, c’era un vegliardo di Riolo,
nato quando a Roma comandava ancora Pio IX. Si chiamava Giuseppe Bandini (nato nel
1867) e fin da bambino aveva sentito raccontare della fuga di Garibaldi dalla Romagna, diretto verso la Toscana. Ad aiutarlo erano stati i montanari del posto e persino un prete, don
Verità di Modigliana. Dopo quasi un secolo la prospettiva sembra capovolta: secondo l’accu-
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sa, il Nostro, invece di aiutare un pilota alleato, colpito in azione di guerra, corre dai fascisti
e ne favorisce la cattura (maggio 1944), denunciando anche Antonio Pratini che aveva cercato di salvarlo ospitandolo in casa. Una grave spiata, che porta il poveretto a Bologna dove
viene condannato alla pena capitale, evitata in extremis fingendosi matto. Il vecchio, a
Ravenna, si difese affermando che erano accorse circa cento persone e che lui aveva dato
buone referenze sul Pratini.
La Corte gli diede fiducia, argomentando che forse i tedeschi avevano seguito la traiettoria del paracadute. Giocò anche la fama dell’imputato, d’uomo dabbene. Assolto per non
avere commesso il fatto.
Indizi a parte, a favore del quasi ottantenne, detenuto, forse pesò il suo curriculum, assolutamente raro.
Era certamente stato un fanatico mussoliniano, ma non aveva torto capello ad alcuno e
mai si era arricchito. Anzi, per le sue idee era arrivato a dilapidare un intero patrimonio.
Meritevole di una qualche indulgenza poteva essere anche l’ultimo imputato di quel 16
ottobre 1945, detenuto dall’agosto. Si chiamava Fabio Zambelli, di Domenico e di Castellari
Gentila, nato nel settembre del 1924 a Faenza. Nel febbraio del 1944 non aveva scelto le
B.N., né la GNR, ma aveva collaborato nella Milizia Ferroviaria. Nessun misfatto. Anzi, quando i Comandi decisero di spedirlo a Suzzara, preferì disertare. Perseguitato a sua volta, aveva
aiutato vari conoscenti e portava ancora i segni di una ferita infertagli dai tedeschi. Una vittima quindi? Non la pensavano così tre giovani, colleghi nella milizia, che nel gennaio del
1945 furono arrestati dai tedeschi. Il Nostro era stato chiamato (1-2-45) per dare informazioni e per i confronti di rito. Di Dante Poletti disse che non era partigiano, ma comunista; di
Mario Muccinelli che aveva abbandonato il Corpo assieme a lui, per sottrarsi alla cattura dei
repubblichini, feroci perché si era lasciato disarmare dai partigiani. Disastrosa infine la
dichiarazione su Collina Pietro: “No, non è partigiano, ma si reputa comunista!” I tedeschi
lo ringraziarono con un “Bravo!”. Il Collina non lo aveva scordato, anche se lo Zambelli, per
senso di colpa, gli aveva regalato un vecchio cappotto. L’imputato riconoscerà l’imperdonabile errore e i Giudici gli diedero tutte le attenuanti possibili.
Cinque anni al posto dei dieci previsti. Nel luglio del 1946, finalmente libero, il Nostro
correrà di nuovo a scusarsi.
Quanto era difficile essere giovani in quei mesi! Meglio essere anziani. Una verità valida
anche a guerra finita, specie per gli imputati di collaborazionismo. I primi, in divisa, avevano seminato sangue ed avevano rischiato il proprio. I secondi, in borghese, avevano aiutato
nel limite del possibile l’avventura nazifascista con altri mezzi, solitamente le spiate. Talora i
giovani avevano ucciso e talora se n’erano vantati per piacere alle ragazze. Gli esperti, invece, sapevano che non era buona cosa vantarsi neppure delle conquiste amorose.
Le differenze di stile emergeranno anche in giudizio, con le relative conseguenze. Questo
si ricava dagli ultimi processi di ottobre, con imputati dell’area in esame. Nello Benericetti
di Brisighella a 22 anni aveva già perso il padre Luigi e la madre, Beatrice Doni.
Stanco di fare il bracciante, nel 1944 gli era parso ancora più faticoso salire da sbandato
sulle montagne. Meglio la divisa delle Brigate Nere. Buon stipendio, pasti sufficienti ed un
po’ di potere sui pochi uomini rimasti in giro e sulle molte “giovinotte” che non andavano
di fretta per le contrade di San Cassiano e Fognano. A queste raccontava d’imprese eroiche
personali, la cattura di un partigiano, consegnato ai tedeschi, l’uccisione di un altro con le
proprie mani. Tutte “sbruffonate”, un anno dopo. Ma era certo che a Ponte Marignano di
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Brisighella erano stati uccisi cinque patrioti ed altri cinque nella zona di S. Stefano.
A dire di Nello, nel primo caso aveva appena udito i colpi in lontananza, poiché era di
guardia ad un posto di blocco, nel secondo solo bugie per impressionare alcune fanciulle,
che mai rivide dopo il trasferimento a Lavezzola, Comacchio e al nord.
La Corte (25-10-45) accettò la versione e dimezzò la pena. Cinque anni. Nel luglio successivo, il Nostro era fuori, a raccontarla alle ragazze di qualche altra città.
Ugo Marcucci di Faenza, invece, aveva 40 anni nel 1944. Un giorno, come di solito, stava
passeggiando con certo Carlo Archi nei pressi di casa sua. Arrivati ad un ponticello, notarono un individuo d’età imprecisata dal fare sospetto. Subito corsero al telefono per segnalarlo a chi di dovere per gli accertamenti del caso, come recita, con linguaggio burocratico, la
denuncia. Poiché il Marcucci era iscritto al Fascio, un’automobile prontamente accorse.
Dell’esito delle ricerche egli dirà di non avere avuto notizia. Strano. Non soddisfare una
curiosità naturale, per la quale bastava un altro colpo di telefono. Comunque, si trattava di
un aviatore inglese.
Il Marcucci, arrestato per collaborazionismo, perfezionerà il suo racconto con un tocco
magistrale. In quel periodo era tutto un susseguirsi di furti di pollame! Gli andò buona.
Assolto con formula piena.
Ravenna sud
Senza voler anticipare bilanci definitivi, si può costatare come l’area del comune a sud del
capoluogo, quella che guarda verso Forlì e Cesena, compaia poco nelle carte processuali.
Pochi gli imputati, rari i fatti di sangue e quasi sempre con protagonisti provenienti da
Ravenna e Forlì. Potrebbe spiegarsi con una minore presenza bracciantile ed un’antica e consolidata forza repubblicana; o, per introdurre un’ipotesi polemica, si potrebbe pensare che
nel dopoguerra più rapida che altrove sia emersa la volontà di chiudere il capitolo su un passato imbarazzante, che abbracciava l’arco di un ventennio, segnato da uno squadrismo
aggressivo e da un fascismo di Salò più accorto.
Sui crimini di questa zona e sulle relative udienze proviamo a passare in rassegna il trimestre dall’agosto all’ottobre del 1945.
Il 21-8-45, il primo a comparire in stato di detenzione fu un giovane, della classe del 1925,
figlio d’arte, nel nome e negli insegnamenti ricevuti dal padre Luciano, non contrastati dalla
madre, Agnese Bendandi. Il suo nome Benito Giani di S. Pietro in Vincoli. Era accusato di
avere partecipato ad azioni di guerra con il tedesco, nonché ad operazioni di rastrellamento. Ma nessuno della sua terra si presentò contro di lui e l’unico accusatore rimase il funzionario di polizia, più volte incontrato, l’Agente scelto Piermattei.
Alla Corte non restò che l’assoluzione con formula piena. Tutta colpa del fanatismo del
padre, fervente fascista, se il giovane si era arruolato volontario nelle B.N., alle quali bene e
spesso aveva tentato di sottrarsi con ripetute fughe.
Nello stesso giorno comparve anche la Luisa Valentini di S. Zaccaria, di cui già si è detto,
colpevole soprattutto di quotidiane frequentazioni delle chiome germaniche. Bisognerà
attendere la fine di settembre per trovare un altro “sudista”. Un “vecchio”, residente a S.
Stefano, coniugato, un muratore, aveva messo su la sede del locale Fascio repubblicano. Si
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trattava di Guberti Corso, fu Giulio e di Sbaraglia Adele, nato a Ravenna nel 1903. Verso la
metà d’aprile del 1944 i partigiani avevano dato fuoco ad alcune baracche della Todt.
Prontamente i due referenti fascisti del paese, il Nostro e Bruno Damassa, chiamati con
urgenza o spontaneamente accorsi, avevano goduto dell’onore di conferire per un colloquio
riservato con un Maggiore dell’Esercito Tedesco, tale Blod. I due non si presentarono a mani
vuote e consegnarono all’irato ufficiale un foglio con un elenco di nominativi di possibili
autori o di generici oppositori del nazifascismo. Che valutasse liberamente l’alleato tedesco.
A pagarne le spese furono Mario Paganelli e Bruno Bondi (quanti Bruno, ma non tutti in
omaggio al figlio del Duce), poi rilasciati per l’intervento provvidenziale di tale Gino
Silvagni. “Menzogne - obiettò il Guberti - mai andato dal Maggiore”. Il socio, il possibile
coimputato, Damassa, non poté né confermare, né smentire, poiché ucciso dopo il citato
incontro, in data 9 giugno del 1944. Non capita spesso che le sentenze riportino con precisione i giorni dell’uccisione dei repubblichini. Un’ipotesi sul Damassa: che fosse il padre di
Giovanni Damassa di Bruno, di anni 17, processato il 10 luglio 1945? Ed allora, com’era nata
l’accusa? Di sicuro non era opera dell’ufficiale tedesco. Qualcuno aveva visto il foglio che
passava di mano ed aveva origliato dalla porta semichiusa. Rispondeva al nome di Silvagni,
il sopraddetto salvatore dei due arrestati, della cui attività passata si tace. In giudizio, segnato da un paradosso di segno contrario, il Nostro si salvò per le testimonianze favorevoli di
Orano Angelini e di altri, che, patrioti o partigiani, raccontarono di aiuti ricevuti dall’imputato per proteggere addirittura l’organizzatore della zona, Adriano Antonelli.
Felici i giurati, un po’ meno Corso, condannato ugualmente ad anni cinque, mesi sei e
giorni venti, nonostante l’esito della spiata fosse stato riassorbito.
Strano destino quello dei nomi, per non dire di quello dei cognomi. Un Guberti, originario di Ravenna, residente a S. Stefano; un altro Guberti (Mario) che compie lo stesso cammino. Il già conosciuto costretto a spiegare il nome Corso e le sue valenze ideologiche o le
rivendicazioni nazionalistiche del padre; il nuovo imputato dal nome semplice, Mario, ma
con l’onere di giustificare il babbo, investito dal clima della Triplice Alleanza con i nomi di
Guglielmo e Giuseppe, poi divenuti insulti.
Parliamo pure di Mario Guberti, partorito da Rosa Albonetti nell’aprile del 1907. Si sa che
aveva tre figli da mantenere con il modesto salario da bracciante.
Si tace pure dei suoi precedenti politici. Risulta invece con certezza che nel novembre
del 1943 aveva aderito al PFR, per poi passare nella Guardia Nazionale, mosso più dalla fede
che dal bisogno e desideroso di allontanarsi da casa. Per il numero dei figli e per l’età forse
avrebbe potuto ottenere l’esonero o almeno restare in zona.
Invece no, combatté contro i partigiani in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto. Fu a
Vercelli, sul Lago d’Iseo, al Tagliamento e finì la sua campagna a Fondo, dove si arrese al CLN
locale. Misfatti ovunque da parte del suo reparto, specie nelle Valli del Pasubio, come da
denuncia dei Carabinieri del posto.
Il Mario si difese con forza. “Ero un semplice meccanico, addetto all’officina e al servizio
postale della Legione”. Credibile o meno, l’imputato, in stato di carcerazione, avrebbe dovuto difendersi davanti ad una diversa Corte di Assise, tanto più che nei quattro mesi in cui era
rimasto nel ravennate nulla di grave era successo. Dalla sua anche la testimonianza di un
certo Miserocchi (un ravennate?) che giurava di averlo visto a Vercelli attorno ai motori.
Ed allora? Ad accusarlo una prova cartacea, destinata ad un compaesano, certo Nino
Missiroli. Una rarità, poiché i fascisti in fuga e i congiunti rimasti a casa da tempo si erano
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premurati di bruciare e di distruggere tutto ciò che poteva comprometterli. Nel caso specifico non era stato possibile. A S. Stefano, il 31 marzo 1944, era pervenuta da Vercelli una missiva abbastanza significativa, spedita dal Nostro ed indirizzata proprio al Missiroli. In essa si
rivivevano drammatici eventi paesani e si mandavano minacciosi avvertimenti: basta con i
vandalismi, basta con gli incendi dei pagliai dei repubblichini, basta con le bombe a casa del
Segretario politico (il citato Guberti Corso) o a quella di un filofascista (il citato Damassa, in
seguito ucciso?). Altrimenti! “Se ritorno in paese faccio piazza pulita, mandandovi senza
alcun rimorso all’altro mondo”. La lettera si concludeva con un invito ad avvisare “i vostri
amici”. E a luglio, dopo l’incendio delle baracche della Todt e l’uccisione del numero due
del fascismo locale, un congiunto di Nino veniva prelevato di notte e lasciato morto in via
Canale di S. Bartolo. Si chiamava Aristide Missiroli (di anni 54), noto per i suoi antichi sentimenti antifascisti.
Senza certezze, ma con un po’ di logica si sarebbe potuto ravvisare un legame stretto tra
le parole e i fatti. Ma la Corte non se la sentì. Insufficienza di prove.
La vicenda del vecchio Aristide Missiroli è presente anche nella causa contro Laghi
Oriano, di Aristide e di Carpi Alda, classe 1927. Un bracciante, residente pure lui a S. Stefano,
uno dei pochi giovani delle Ville Unite ad avere scelto Salò. A 17 anni si era iscritto al Partito
(maggio 1944) e poi aveva combattuto nella Flak, a Mezzano, Bologna, Francolino di Ferrara.
A S. Vito al Tagliamento era finito in ospedale per ferite.
In paese il Nostro era solito frequentare la casa del Missiroli ed un giorno, dopo avere
visitato la salma dell’assassinato, non lo si era più visto. Era indicativo per Armandino
Missiroli, figlio della vittima, ma insufficiente per i Giurati per accettare l’accusa di “avere
denunciato alle autorità repubblichine Missiroli Aristide” (2-10-45).
Dopo due delusioni, i curiosi e i parenti delle vittime delle Ville Unite ebbero una qualche soddisfazione in quella giornata d’ottobre, con Primo Poletti, di Antonio e di Babini
Maria Annunziata. Era un ragazzo, ma del “99”. Non proveniva dall’area agreste a sud di
Ravenna, ma era un cittadino da sempre ed apparteneva alle Brigate Nere urbane, tra le più
terribili e screditate, sempre pronte a portare soccorso o a sostituirsi ai gruppi locali, meno
organizzati e meno determinati nella logica di morte. Salivano in camion, di giorno e di
notte, e per i ribelli o gli antifascisti a riposo di S. Zaccaria, S. Stefano, S. Pietro in Vincoli,
ecc. giungevano le disgrazie. Nel “forese” spesso non erano riconoscibili e la paura faceva il
resto. Poletti era sempre in prima fila, malgrado l’età, la famiglia con prole, un posto in
Comune come applicato. Non è chiaro se come burocrate si unisse alle spedizioni a tempo
perso o se avesse ottenuto l’aspettativa! Sicuramente convinto dell’idea, desideroso di dare
il meglio di sé fino alla fine, al nord, malgrado qualche problema fisico. E fu proprio un’anchilosi all’arto inferiore a tradirlo. Uno zoppo era stato visto nel Caffè Roma di Cervia, teatro di una strage; uno zoppo armato di mitra nelle campagne di Gambellara ad inseguire ed
uccidere Almo Montanari (anni 20); uno zoppo nell’auto che portò tre morituri in via
Belvedere di Ravenna; uno zoppo al Ponte degli Allocchi; uno zoppo, infine, a Filetto in una
casa sospetta ad arrestare due donne, Wanda Dradi e Renata Rivalta, in assenza dei maschi.
I fatti: il 23 giugno 1944 un gruppo di sette o otto ravennati era sceso a Gambellara per
un rastrellamento di renitenti. Fuggi fuggi per i campi in cerca dei nascondigli, ma ad Almo
la cosa non riuscì, raggiunto in vicolo Amadori da colpi d’arma da fuoco, sparati da Guido
Bacchetta. Va da sé che il Nostro non arrivò per primo sulla preda, alla quale furono sottratte anche 2.603 lire (testi: Maria Ravaioli e Ada Montanari). A Cervia giunse in macchina a stra-
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ge compiuta. Puntuale, invece, e per primo a Filetto, nella visita domiciliare presso le donne.
L’imputato si difese, assegnando a se stesso il ruolo di guardiano delle macchine, ed
escluse la presenza al Ponte degli Allocchi, perché da luglio a settembre in trasferta nel
municipio di Alfonsine.
La Corte gli riconobbe la responsabilità in tre imputazioni su cinque e lo ritenne meritevole della fucilazione alla schiena. Ma, poiché egli non aveva materialmente ucciso, presentava una buona fedina penale e cattive condizioni fisiche, si orientò per i 30 anni di carcere.
La Cassazione, nel dicembre del 1946, non se la sentì di cassare il tutto con l’amnistia e
destinò il ragionier Primo Poletti alla Corte di Perugia per un nuovo processo. Sede scomoda per le sue gambe. Un quesito ultimo e spontaneo: ritornerà il nostro uomo a salire la scomoda scalinata del Municipio?
Se il Poletti era un idealista convinto, criminale ma sempre idealista, uno sguardo benevolo, per motivi opposti, meritava Fulvio Piadelli di S Pietro in Campiano, 33 anni, con famiglia a carico e con un magro salario, un povero bracciante. Morto il padre Pietro, la madre
Luigia Giuliani l’aveva incoraggiato a trovarsi un lavoretto sicuro e pagato bene anche in
tempo di guerra. Dapprima solo Partito, poi GNR ed infine Brigate Nere. Fu a Ravenna, a
Savignano sul Rubicone, a Bussolengo di Verona e Orgiano (la meta ultima di moltissimi
ravennati). Determinante per il passaggio dalla 81a Legione della GNR alle Brigate Nere la
diaria: 100 lire al giorno al posto di 30 (da qualche parte sta scritto che le spettanze erano
identiche).
I Giudici capirono, tanto più che a Ravenna l’avevano visto solo all’Aeroporto Militare.
Assoluzione piena (11-10-45).
Nello stesso Aeroporto aveva prestato servizio per cinque mesi anche Vasi Nobel (notare), di Talbo (!) e di Licinia Pascoli. Classe 1908. Nativo di Ravenna, ma residente nel più
importante centro della campagna ravennate, S. Pietro in Vincoli. Capita spesso di incontrare imputati originari del capoluogo ma domiciliati nel forese.
Conseguenze della spinta rurale impressa dal Fascismo? Parti, allora rari, in ospedale? Le
carte, ovviamente, non lo possono dire. Per Nobel forse ha inciso la ricerca della tranquillità e della sicurezza là dove possedeva tornature. Benestante e male in arnese, era stato riformato a metà ed in piena guerra era stato mandato nella comoda Faenza, dove il 9 settembre
del 1943 (un giorno dopo l’armistizio) i tedeschi lo prelevarono e lo spedirono in Germania.
Là aderì alla Repubblica sociale e così poté rivedere casa, inquadrato nelle SS italiane, a sua
insaputa naturalmente. Dopo Classe di Ravenna, fu a Pinerolo ed in altre località del
Piemonte e della Lombardia (Como). Con la Liberazione raccontò tutto o quasi ai
Carabinieri che, sulla base delle sue stesse dichiarazioni, lo associarono alle vicine Carceri di
Ravenna. Fu quella terribile sigla (SS) a togliere loro ogni dubbio, anche se Nobel portava
con sé un congedo per minorità fisica, rilasciato però in extremis, il 20 aprile 1945.
I Giurati furono sportivi. Non si poteva condannare uno che, così messo, aveva fatto da
guardia a ponti, acquedotti, linee ferroviarie, che poi erano diventati “buoni”. Lasciamo stare
le SS (23-10-45).
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P.S. Ritorniamo ai Guberti. Un Giulio Guberti (anni 43), omonimo del padre di Corso, fu
ucciso proprio a S.Stefano il 20 maggio del 1945. Per i reduci di Salò era soltanto un “volontario”, impiegato nella protezione antiaerea. Tragico destino anche per altri due Guberti,
Amedeo, di anni 21, e Arrigo, di anni 32, uccisi a S. Pietro in Vincoli.il 9 maggio 1945. Il primo
era stato un milite della GNR, nel Battaglione “Romagna”, il secondo, sergente nel medesimo reparto.
Tra il Lamone e il Reno
A nord di Ravenna “trovano pace” i due fiumi, entrambi forzati: il Lamone in epoche
recenti, uno dei rarissimi casi di fiume senza foce a mare e senza essere un affluente, e il
Reno, per tema d’alluvione, sottoposto da sempre ad acrobazie idrauliche. Entrambi davano vita ad un paesaggio insolito, desolante e splendido, che mescolava valli, pinete e dune.
Un mondo impraticabile ai più, paradiso di solitari e di cercatori di volatili, di pesci, di
canna, di tartufi, di legna, ecc. Numerabili gli edifici in muratura, variabili e a rischio i molti
in materiali poveri, visitabili saltuariamente, capanni e “padelloni”. Precari i ponticelli, lenti
i “passi” e di fortuna. Un’area esplorabile solo a piedi e in barca. Luoghi allora inabitabili,
ricovero solo di guardiani obbligati e di disperati, paradiso di zanzare e di malaria.
Non tutto è andato perduto e qualche squarcio si propone ancora al viaggiatore veloce
della Romea. L’antico viandante, pellegrino per Roma o malvivente, si muoveva su un viottolo bianco, ancora visibile, interrotto da numerosi corsi d’acqua. L’area impervia, nonostante le difficoltà, divenne un luogo ideale per i renitenti e per i partigiani, più per sfuggire che
per nuocere ai nazifascisti, i quali comunque si erano insediati in punti strategici per controllare e per evitare sorprese, la più temuta delle quali uno sbarco nemico. Di qui, fortini,
mine e cavalli di frisia. Ai confini estremi sorgevano (sorgono) le due località abitate di
Casalborsetti e di S. Alberto. Nei dintorni di quest’ultima, sempre all’interno del Comune di
Ravenna, verso la Reale (Statale 16), i borghi di Mandriole, Conventello, Torri, Savarna (antichi feudi dei Rasponi) e poi il centro più significativo politicamente, Mezzano. Ad ovest della
Statale, in destra e in sinistra del Lamone, dentro e fuori dei confini comunali, Santerno,
Piangipane e Villanova di Bagnacavallo. Non sono indicazioni geografiche per una gita fuori
porta, ma per delimitare uno spazio ribelle nei secoli e di forti scontri sociali e politici. Lo
sapevano i Carabinieri, dislocati ovunque, malgrado il numero ridotto di abitanti. Lo aveva
imparato a proprie spese chi era rimasto attivo antifascista durante il Ventennio.
Lo avevano appreso in fretta anche i tedeschi. Lo davano per scontato i repubblichini,
insediatisi nei vari presidi, soccorsi all’occasione dai camerati di città o della vicina Alfonsine,
la peggiore di tutte agli occhi dei governanti di Salò. Date tali premesse, è naturale che gli
odi fossero profondi e non temessero il passare dei decenni. Provate voi a dimenticare le
botte, i ferimenti, le umiliazioni, i morti, i processi politici, il carcere, il confino di polizia, la
sorveglianza quotidiana, per non parlare degli incendi della Case del Popolo, con successivo insediamento del Partito Fascista, o la rapina del lavoro di intere generazioni, nella lotta
contro la natura o contro i padroni, con il sequestro di un patrimonio ingente come le aziende agricole delle cooperative. Echi lontani, non ancora spenti… Figuriamoci nel 1943 o
dopo la Liberazione.
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La suddetta area in Tribunale
Non era ancora concluso il mese d’agosto del 1945, quando Primo Gennari, fu Giuseppe
e di Maria Marangoni, fu portato al Palazzo di Giustizia in stato di detenzione.
Era appena finita la guerra (9 maggio), quando il Nostro tranquillamente da S. Biagio di
Argenta stava dirigendosi verso Ravenna, per visita a parenti. Sul confine di provincia, al
Ponte di Bastia sul Reno, fu fermato dalla Polizia partigiana per controllo identità. Sulla base
del suo racconto finirà in Questura. Anni 31, ammogliato con figlio, colono, nato ad Argenta.
Aveva sempre operato nel ferrarese, ma un giorno della primavera del 1944 aveva attraversato quel ponte per una spedizione punitiva nel ravennate, in soccorso ai fascisti locali.
Era successo così anche nel primo dopoguerra, quando i fascisti estensi di Balbo si erano
incontrati a Lugo con quelli provenienti da Bologna, agli ordini di Grandi. Incendiata
Ravenna, era toccato poi all’intera Romagna, rossa e repubblicana, subire ogni forma d’angheria e distruzione, colpevole di non essersi ancora arresa e di non subire il fascino dell’illustre conterraneo. Contraddittoria la figura del Gennari e limitate le accuse, nonostante le
funzioni svolte e i punti chiave in cui aveva operato. A Ferrara nella Polizia Investigativa e in
una strana organizzazione politica-paramilitare, “I Leoni di Ferrara”. A Ravenna, invece, solo
una notte in quel di Santerno assieme a dodici camerati, giunti in camion da fuori per aiutare i repubblichini presenti a catturare renitenti e partigiani. Era primavera e da poco
tempo il Nostro (dal marzo 1944) aveva aderito alla Milizia, perché ricercato da mesi.
Quindi, per quel che appare, non siamo di fronte ad un milite per convinzione. L’ultima divisa, quella dell’Esercito, l’aveva portata a Roma fino ai giorni dell’armistizio. Poi si era nascosto o era rimasto sulla sua terra a lavorare. Tardiva la sua adesione ai destini di Salò, breve
pure la permanenza. Ad agosto, a suo dire, si era già allontanato per non aderire alle Brigate
Nere e già al tempo della mietitura aveva preferito la Todt.
Il rastrellamento di Santerno era comunque avvenuto, anche se infruttuoso e senza violenze. Inoltre, il Gennari era rimasto inattivo per tutto il tempo lungo l’argine del fiume, il
Lamone, possibile via di fuga dei ricercati.
Bastò alla Corte per dargli una condanna ad anni otto e mesi quattro, nonostante le attenuanti riconosciute. Troppo, seppure a norma di legge. Più sorprendente la Cassazione, abituata a regalare amnistie, che invece di chiudere definitivamente il caso scelse di spedire il
Gennari alla Corte d’Assise di Bologna.
Uno svincolo sfortunato
Ci sono dei luoghi segnati dalla storia. Uno di questi è in confine di paludi, di fiumi, di
valli e di boscaglia. Parliamo di Mandriole (da non confondere con il Passo che dalla
Romagna porta verso l’Eremo di Camaldoli), una località sul Reno verso la Romea antica,
strada bianca e stretta, interrotta da numerosi “passi”. Il più famoso quello di Primaro, sul
Reno grande, conosciuto anche come Cà Longa (da sempre locanda). Poco distante si era
aggirato in fuga Garibaldi, inseguito dagli austriaci, e poco distante era morta la sua compagna, Anita, in attesa di un altro figlio. Uno spazio ideale per ribelli e malviventi, dov’era naturale che nel biennio 1943-44 si dirigessero renitenti, sbandati, partigiani ed evasi.
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Tra questi ultimi, verso la fine di settembre del 1943, cinque slavi, che erano fuggiti da un
campo di concentramento di Livorno subito dopo l’armistizio. Prigionieri di guerra o ostaggi croati, rinchiusi a scopo precauzionale durante la vittoriosa spedizione mussoliniana nei
Balcani e l’avviata pulizia etnica. I cinque avevano percorso un cammino inverso a quello di
Garibaldi. L’Eroe dall’Adriatico al Tirreno; gli slavi dal Tirreno a Mandriole. Nello sbandamento generale di quei giorni non era stato difficile superare gli Appennini, ma con l’arrivo
dei tedeschi e dei fascisti collaborazionisti gli spostamenti si erano complicati. Ebbene, i
Nostri erano arrivati quasi a destinazione ed aspettavano l’occasione per l’ultimo salto verso
la Costa istriana. Bastava una barca che li portasse di là partendo da Porto Garibaldi o da
Casal Borsetti. Nel frattempo gravitavano attorno all’unico luogo frequentato, Cà Longa di
Passo del Primaro, osteria con ristorante ed alloggio, e con fermata della corriera per
Ravenna. Tra i clienti abituali, cacciatori, “fiocinini” delle valli di Comacchio e i pochi abitanti dei dintorni ci si poteva sentire sicuri, perché Ravenna era lontana e in caso di pericolo la
fuga sarebbe stata agevole. Ma un giorno di quel settembre arrivò dal capoluogo una macchina di fascisti, che catturarono i cinque evasi e li trasferirono presso la Federazione di
Piazza Littoria. Una spiata. Da parte di chi? Il più volte citato agente scelto della Questura,
Piermattei, in servizio prima della Liberazione e dopo, non ebbe dubbi. Aveva assistito personalmente all’indomani della cattura, presso la fermata della corriera, ad uno sfogo di certo
Saporetti, “spaccista” di Cà Longa, che sbraitava contro Renato Ambrosini, nativo di Mercato
Saraceno, residente a Mandriole, figlio di Aristide e di Maria Ricci, classe 1922. Accuse di tradimento e di slealtà.
Imputazioni credibili, secondo la voce popolare del tempo, tanto più che l’Ambrosini, il
forlivese, era iscritto al Partito repubblichino e di lì a poco avrebbe vestito la divisa della
GNR. Troppo poco per la Corte (21-9-45). Assoluzione per insufficienza di prove. A favore
del detenuto giocò anche il suo curriculum, successivo a quel fatto. L’Ambrosini, infatti, assegnato alla piazza di Parma, era stato arrestato dai tedeschi nel luglio del 1944 ed internato
in Germania fino alla fine della guerra.
Del destino dei cinque, quasi certamente tragico, non si discuterà più in nessun processo.
Da Savarna a Mezzano. Tra botte e spiate
Entrambe località di tradizione rivoluzionaria, più interna e nascosta la prima, più nota
ed esposta la seconda. Esse conobbero uno squadrismo violento, d’importazione. Poi, man
mano che il regime andava affermandosi, s’imposero all’attenzione anche fascisti indigeni,
spariti però al primo schianto (25 luglio), senza desiderio di riapparire dopo l’arrivo dei
tedeschi. Non mancò qualche eccezione. Due di queste in Tribunale il 27-9-45, Peveri
Presidente.
Paolo Fabbri era un muratore, nato a Savarna nel 1915. I genitori, Raffaele e Filomena
Vincenzo, erano morti ed il Nostro, nonostante gli impegni militari, aveva trovato il tempo
per mettere su famiglia, con prole. Più fascista che monarchico, aveva preferito la Milizia
all’Esercito fin dal 1935, divenendo sergente della stessa nel settembre del 1943 (prima o
dopo l’armistizio?). Nel frattempo, dopo la caduta del Governo Mussolini, era stato bastonato da certo Mario Caravita di S. Alberto. Successivamente, in divisa, ai primi del 1944, egli
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aveva fermato e minacciato Caravita di vendetta. Precisa volontà o casualità? Fatto sta che in
seguito il suo nemico fu arrestato. Prima imputazione. Anche Domenico Masotti e Almeo
Vistoli, internati in Germania, puntavano il dito contro di lui, accusandolo di delazione, salvo
riconoscergli il pentimento successivo agli arresti. Da ultimo, il Fabbri veniva indicato tra i
partecipanti in territorio ferrarese al tentativo di cattura del già citato ex ministro fascista
Rossoni. Quanto alla carriera, dal settembre 1944 era passato con le Brigate Nere, con le
quali aveva toccato le note tappe venete, fino alla sua cattura in quel di Lonigo.
La Corte così concluse: non provato il rapporto di causa ed effetto nell’affare Caravita;
dubbia l’accusa di collaborazionismo nel caso Rossoni.
Condannabile per il resto a dieci anni di reclusione. Amnistia un anno dopo.
Destino in parte simile quello di Giuseppe Babini, classe 1898, fu Guido e fu Argelli Paola,
vedovo con prole, contadino. Era nato a Ravenna, ma abitava a Mezzano, in via Ammonite,
che porta all’omonimo paese e a Santerno. Pure lui, dopo il 25 luglio, era stato picchiato da
cinque persone per i suoi trascorsi fascisti. Picchiato con violenza. Chiamato dai Carabinieri
aveva dovuto fare qualche nome, e tra questi quello di Domenico Marescotti (in parte illeggibile), con il quale si era poi riconciliato. E’ bene tutto ciò che finisce bene. Più amara era
risultata un’altra “menata”. A Mezzano, nel giugno del 1943 (si noti giugno) alcune persone
stavano dando sfogo ai propri sentimenti politici, cantando “Bandiera Rossa”. Il Nostro le
aveva sorprese e denunciate al Fascio del paese. E giù botte (denuncia di Luigi Randi).
Insomma, il Babini aveva la spiata facile, come altre accuse sembravano indicare: avere fatto
i nomi ad un ufficiale tedesco d’alcune persone che avrebbero sparato contro un camion
carico di truppa; avere offerto la propria casa a militi fascisti per un agguato a partigiani
nascosti su due camion. A suo favore non giocarono neppure altri fattori. Iscrizione al PFR
su pressione del noto Cattiveria e conclusione della carriera repubblichina sulla “piazza” di
Verona in qualità d’informatore. Pesanti gli addebiti. Ma i Giudici popolari non pervennero
ad alcuna certezza.
Rapida invece la conclusione della pratica Ercolani Giacomo. Era un giovane studente,
nato a Ravenna nel 1926, chiamato alle armi nel giugno del 1944. Figlio di Bruno e di Cesira
Stefani. Era accusato, in stato di detenzione, di partecipazione a rastrellamenti in quel di
Mezzano e altrove, in divisa della Guardia Nazionale Repubblicana.
Mah! L’unica cosa certa era la sua presenza nel presidio di Mezzano, come in quello di
Francolino ed Oderzo, presso la Scuola Ufficiali, da dove aveva fatto rientro a casa con un
lasciapassare partigiano. Assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
Dopo un mese fu la volta di un altro Ercolani, anch’egli di Ravenna. Non c’entrava niente con l’area di Mezzano-Savarna, ma abbiamo ritenuto di collocarlo qui, perché quasi certamente parente del sopraddetto Giacomo. Questi si chiamava Giuseppe, classe 1904, figlio
di Italia Tasselli e del fu Giacomo. Uno zio, forse, del citato studente che portava il nome del
nonno. Giuseppe da giovane aveva prestato servizio nella Milizia, uscendone con il grado di
Sottufficiale in Servizio Permanente Effettivo.
Di qui il naturale passaggio nella GNR, presso la “81a Legione” di Ravenna. Nonostante
le mostrine, il suo dovere si era esaurito in ufficio a gestire l’amministrazione. Ed analogamente era avvenuto con la fuga al nord, a Bussolengo. Tutto qui. Insufficienza di prove.
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I fratelli Siboni
Se la politica divide, mettendo talora consanguinei su rive opposte, altre volte la politica
unisce e cementa i rapporti familiari. Tali fenomeni si sono verificati anche in Romagna, al
tempo dello squadrismo, durante il regime e sul finire della guerra.
Con gli Ercolani abbiamo visto il passaggio delle consegne tra zio e nipote, con i Siboni
vedremo una militanza di due fratelli tra i fascisti.
Anselmo e Cesare i loro nomi, figli di Teodorico e di Amalia Maria Veronesi. Erano nati
nell’ultimo decennio dell’Ottocento a Ravenna, il primo nel 1893, il secondo tre anni dopo.
Pare naturale che, con simili nomi, i Siboni non si potessero tenere in disparte nei momenti cruciali della storia ravennate e dopo la prima guerra mondiale scelsero e si schierarono
in prima fila contro i “rossi”. Entrambi a menare le mani e a incendiare, fino a guadagnare i
dovuti riconoscimenti, di Squadrista Anselmo, detto Bagliò per fare dimenticare il troppo
mite nome affibbiatogli dalla madre, e di Fascia Littorio Cesare, che non aveva bisogno di
nessun soprannome. Inoltre, come premio aggiuntivo, Anselmo fu sistemato in Municipio
come capomesso, mentre il più eroico fratello preferì guadagnarsi il pane come meccanico,
entrando successivamente nella Milizia. I due si goderono poi l’epoca mussoliniana.
Con la rafforzata alleanza romano-germanica, Cesare di Teodorico assunse ben presto un
ruolo strategico con competenze tecnico-organizzative, cooperando con i tedeschi a
costruire fortificazioni, ad organizzare il lavoro paramilitare e a raccogliere adesioni con la
distribuzione di materiale di propaganda e cartoline precetto. Attivo a Ravenna e a Faenza.
Data l’età, il meglio che poteva offrire. Ad Anselmo, detto Bagliò, forse meno dinamico e più
portato per il lavoro impiegatizio, rallegrato dalla divisa, non restò che passare dal Comune
alla Federazione, in qualità di piantone. Un brigatista nero che seguirà i camerati a Nogara e
finirà prigioniero dei partigiani di Lonigo. Un subalterno che riuscì, però, a guadagnarsi gravi
accuse. Avere privato della libertà Umberto Maltagliati. In Ravenna il 4 agosto. Avere spinto
con brutalità in auto il dott. De Lauretis, destinato alla fucilazione in Villanova di
Bagnacavallo (19-7-44). A testimoniare un collega di lavoro, il vigile urbano Urbano
Cavadossi (?), e la passante Jone Gaudenzi. In aula, gli arrivò un’ultima imputazione: avere
fatto salire a forza in Federazione Ivo Calderoni, alla cui madre, Maria, che chiedeva la restituzione della bicicletta del figliolo avrebbe detto, seduto ad un tavolo in mezzo a due mitra:
“Andate da Badoglio. Meglio dimenticare vostro figlio”. E Ivo finirà impiccato a Savarna.
Il Nostro ammise solo il fatto Maltagliati, su ordine di Andreani. I due fratelli comparvero nello stesso giorno, 28-9-45, in processi distinti. Cesare fu assolto perché il fatto non costituiva reato. Anselmo si beccò 20 anni e la Cassazione lo aiutò a metà, rinviando il caso a
Bologna, per un nuovo esame.
Per i curiosi la solita domanda. Riuscirà il cinquantenne Bagliò a vestire nuovamente la
divisa di Capomesso del Comune?
Traversara e Villanova
La due località, site a breve distanza, in sinistra del Lamone, ad ottobre portarono a giudizio due fascisti, rei di avere servito Salò.
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Silvio Geminiani, di Francesco e di Zaira Cortesi, nato a Bagnacavallo nel 1906 e residente a Traversara. Antonio Ramilli, di Carlo e di NN, nato a Cesena nel 1898 e domiciliato a
Bertinoro. Il primo, coniugato, operaio, fu arrestato per le sue stesse dichiarazioni. Aveva
prestato servizio presso il Comando Provinciale di Ravenna della GNR, alle dipendenze del
Comando Tedesco, e, precedentemente, fino all’8 settembre del 1943, nella Milizia a Cuneo,
a Ferrara, in Sardegna, in Iugoslavia, in Slovenia e a Centocelle.
Poi si era presentato alla Caserma Garibaldi del capoluogo ed aveva operato a
Bagnacavallo, Lugo, Fusignano, Lavezzola. Ferito in un bombardamento il 7 aprile del 1945,
fu ricoverato all’ospedale di Ferrara e, rimesso in sesto, concluse la sua vicenda bellica a
Conselice e Conegliano. Tutte zone delicate, teatro di rastrellamenti e di rappresaglie,
all’estero come in patria. Ma nulla di specifico emerse. Assolto.
Il secondo, sposato con prole, operaio, si mosse meno. Nella GNR, nel “Battaglione
Muti”, trascorse sette mesi a Villanova, fino al giugno del 1944.
Poi, per la vigilanza alle trebbiatrici, fu spedito a Bagnara di Romagna. Punto e basta.
Assolto.
La Capitale
La Ravenna del passato non era granché. Una piccola città a capo di un vasto comune agricolo, con una classe dirigente legata più alla terra che al porto e alle poche industrie. Da sempre meno popolosa e meno importante di Ferrara, con il Fascismo era stata superata anche
dalla vicina Forlì, pupilla del Duce, che vi aveva trasferito anche strutture militari, compreso
il Distretto. Geograficamente periferica, Ravenna era meta più di turisti che di mercanti.
Persino gli uomini delle campagne rinunciavano volentieri al suo mercato settimanale, pur
di non perdere quello di Lugo. Come capoluogo, sede d’uffici e di burocrati.
Solo la sua millenaria Diocesi emergeva oltre i confini. Non si può dimenticare, però, la
grandissima importanza del movimento cooperativo, una vera potenza economica, nata dall’intraprendenza del Partito Socialista. I fascisti non lo distrussero, ma se ne impadronirono,
collocandovi a capo i ras locali. Da qui il salto verso le massime cariche nazionali del regime. Tra le conseguenze: per la prima volta Ravenna poté dirsi capoluogo di provincia.
Dopo il settembre del 1943 la città si era andata progressivamente spopolando, specie a
seguito dei bombardamenti e dei Bandi di chiamata alle armi. Di giorno gli sfollati vi convergevano e di sera case e strade restavano pressoché deserte, ancor prima del coprifuoco.
Era facile, perciò, controllarvi la circolazione e al limite della follia compiervi azioni partigiane. Tardiva ed episodica quindi la presenza dei GAP.
Dall’altra parte, invece, caserme e soldati tedeschi erano sistemati un po’ ovunque, un
Distretto militare (dimezzato), la Caserma Gorizia, quella Garibaldi, la Balbo, la Questura, i
Carabinieri pur ridimensionati, la Polizia ausiliaria, le B.N. alla Sacca, in Federazione, nei presidi rionali, ecc. Come se non bastasse, c’erano persino gli Alpini con compiti di polizia, e
spie antiche e collaudate accanto ad altre improvvisate.
Non si esagera di certo nel considerare Ravenna, bombe alleate a parte, una città ideale
e sicura per i militi nazifascisti, preoccupati solo quando il dovere li spingeva fuori dalle
mura. La storia non narra di tedeschi uccisi. Indenni anche i capi in camicia nera. Piombo
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unicamente per qualche spavaldo ex squadrista che si era sistemato oltre le porte cittadine.
In una situazione del genere meraviglia non poco la sproporzione tra i danni subiti dai fascisti e la durezza della repressione.
Buda Sante
Detto Mariolin di Siriot, fu Giovanni e di Nanni Alba Rosa, nativo di Ravenna, classe 1912.
Il Buda apparteneva a quella schiera di fascisti, più o meno convinti, dalle modeste capacità, che durante il regime non erano riusciti ad affermarsi. Anzi, egli era andato incontro a
guai e non certo per le sue posizioni politiche o ideali. Disonesto e violento, si era iscritto
al Partito a 19 anni e l’anno dopo era stato assunto alla “Callegari” come operaio, dove rimase fino al 1939. L’anno appresso, a guerra iniziata, si era arruolato nella Milizia, da dove era
stato espulso con disonore, con conseguente radiazione anche dal Partito Fascista.
Nonostante i cinque figli aveva cercato nuovamente l’avventura, trovandola da volontario
nella Marina, dal 1941 al 1943.
Bruciato politicamente e con la fedina sporca (furto e lesioni volontarie), trovò ospitalità e lavoro nel rinato Fascismo repubblicano, come telefonista presso la Federazione di
Ravenna. Ben presto arrivò la divisa della GNR e dal luglio del 1944 quella, più ambita, delle
Brigate Nere. Non gliela tolse più nessuno, fino all’aprile del 1945, quando fu catturato dai
partigiani nei dintorni di Lonigo.
Non fu un capo, ma un esecutore, che fece sempre quanto gli veniva ordinato. Su di lui
piovvero molte accuse, alcune frutto delle denunce dei camerati (Bruni e Poletti), poi ritrattate dagli stessi in dibattimento. Vediamole:
1) uccisione nel luglio 1944 di Zoli, Melandri, Corniola;
2) asportazione di merci dai Magazzini Zaccherini e Bandini, fine luglio;
3) eccidio del Ponte degli Allocchi, 25 agosto 1944;
4) furto di biciclette a Graziani Augusto e Vallicelli Giordano, tra i fucilati di quel giorno;
5) cattura di Giuseppe Fiammneghi e sua consegna ai tedeschi per l’eliminazione, agosto;
6) correità nella morte del Montanari Mario, 3 novembre;
7) cattura e consegna ai tedeschi di Lolli Giulio, poi ucciso;
8) tentativo di cattura, non riuscito, di Roberto Ravaioli;
9) collaborazione con i tedeschi in atti di angherie, stragi, ecc.
Non tutto fu dimostrato. Assente nel caso 1). Alla Sacca, ma non al Ponte nel caso 3)
secondo la testimonianza del morituro Capanna. Di fatto, aveva partecipato alla cattura di
diversi oppositori, poi bastonati o uccisi.
La Corte sentenziò, in data 6-9-45: meritevole della condanna a morte, tramutata in 30
anni di reclusione per il costante ruolo subalterno.
La Cassazione, da parte sua, non se la sentì di mandarlo libero ed amnistiato, e spedì il
fascicolo alla Corte di Assise di Forlì.
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Ravennati in funzioni varie. Teatranti e seduttori
Lo sforzo della Repubblica di Salò non si esauriva di certo nelle numerose azioni di polizia o di repressione. Come in qualsiasi Stato, bisognava garantire i servizi, combattere la propaganda altrui, proteggere i beni e le persone, garantire i rifornimenti alimentari e ogni altra
necessità. Alcuni degli incaricati di questi compiti finirono in Tribunale. Tra loro, gente del
posto, meridionali capitati qui nei frangenti bellici o impiegati da tempo negli uffici.
Un ravennate doc era Ciro Baroncelli, fu Gaetano e di Urbini Luisa. Nato nel lontano
1882, non si era mai allontanato dall’Esercito, raggiungendo il grado di Tenente Colonnello.
Nulla si dice delle sue campagne militari, passate e recenti. Peccato. Dalla sentenza esce un
profilo impietoso di un uomo di scarso valore, anche se forse non gli mancavano alcune
doti. Più conferenziere che stratega, dopo l’8 settembre si era sistemato in città a dirigere
l’Ufficio Propaganda del Comitato Provinciale Militare. Dormiva in famiglia e di giorno si
spostava nelle varie località della Romagna a far sentire il suo eloquio e a riassumere la situazione politica e militare, dimostrando sempre che gli anglo-americani si trovavano in gravi
difficoltà, quasi sempre bloccati, per sfortuna sempre più a nord. Elegante nel dire, non lo
era da meno nel vestire. Anche perché di tanto in tanto doveva fare bella figura con le sorelle Celotti, la cui casa soleva frequentare con qualche velleità d’amatore. E giù a narrare successi a non finire, un rastrellamento a Cervia ed una fucilazione dimostrativa.
Convincente di certo, se la Maria Celotti aveva ceduto al suo fascino, fidanzandosi.
Spaccone con le femmine, il Nostro diventava arrogante con gli uomini, specie se di
grado inferiore o senza divisa. Di qui uno schiaffo ad un giovane poco affascinato dalle sue
parole nel Teatro Alighieri di Ravenna (giovane non più rintracciato) ed una minaccia ai
Carabinieri d’Imola, colpevoli di portare ancora le stellette monarchiche. Uomo di mondo,
dove non sfondava con la dialettica si aiutava anche con premi in natura, denaro, sigarette
ed altro. Sempre per riempire i vuoti dell’Esercito, del resto inattivo. Un tenace propagandista, non si sa se più o meno fortunato di altri. Non si sa neppure come reagisse alle sconfitte delle sue battaglie oratorie, sui fronti di Alfonsine, Ravenna ed Imola.
La Corte, in parte sorpresa dalle caratteristiche del Tenente Colonnello ed in parte irritata e con un qualche spirito moralistico, volle affibbiargli “solo” (si noti, solo) dieci anni per
la scarsa efficacia dei suoi discorsi, dovuta alla poca serietà (11-9-45). Cassò le vanterie,
buone per fanciulle ingenue. Dopo un anno il Baroncelli tornò in libertà, soccorso dalla
Cassazione, che però, forse, non riuscì a sottrarlo alle furie della moglie. Bel personaggio il
Nostro, tipico esemplare di quella “Italietta”, così cara ai registi del dopoguerra. Una figura
adatta all’estro di un Sordi o di un De Sica.
Se a giudicare Ciro (condottiero almeno nel nome) fosse stato il Vescovo ausiliare del
tempo si sarebbero aperte per lui sicuramente le porte dell’Inferno. Secondo il Prelato il
Colonnello dei Bersaglieri era soltanto “un donnaiolo, pazzoide e profittatore”. Forse Ciro
aveva barato persino sul grado, togliendo Tenente.
Era successo che il 22 giugno del 1944 a Brisighella suonasse l’allarme aereo. Fuggi fuggi
nei rifugi. In uno esplose la voce di don Pio Lega: “Tutta colpa di quei due, il pazzoide
Mussolini e il criminale Hitler!”. Cessato il pericolo, due presenti, madre e figlia, si recarono
dai fascisti locali, ma il prete scappò in tempo a Ravenna, in Duomo, sotto l’alta protezione
dello zio, l’Arcivescovo. La cosa non finì lì. A tuonare più forte il baldanzoso Ciro: “Ve n’é a
sufficienza per una fucilazione!”, “don Pio sia mandato davanti al Tribunale Militare!”.
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La questione sembrava seria, se è vero che si susseguì un balletto d’incontri, tra don
Brandolini, don Macori (Cappellano della GNR), il bersagliere Baroncelli, mons. Rossini,
l’Arcivescovo e il Capo Provincia Grazioli. Sembra una favola. Il più esilarante dei colloqui fu
quello tra l’integerrimo Ciro e il timoroso Zio, che si intesero abbastanza nonostante la
comune e forte sordità. Corse anche corrispondenza assidua, conclusasi con una lettera del
Grazioli in cui garantiva che l’incidente non avrebbe avuto seguito, poiché “tutte le denunce passano per le mie mani”.
Non ripeterà tale frase al suo processo di Torino, dove sia Lega che Rossini correranno a
testimoniare che la salvezza di don Pio era tutto merito del Grazioli, “un galantuomo”. Ma il
prete di Brisighella non si fidò e ci volle il terribile bombardamento del 25 agosto 1944 per
farlo uscire dal Duomo, diretto alle sue vallate (un gran fifone, secondo il Rossini).
Immaginiamo un finale in Curia con brindisi e preci di ringraziamento, quando si saprà
che l’eroico Bersagliere si era inguaiato persino con i repubblichini: aveva tratto profitto
dalla consegna di carburante; aveva venduto sigarette destinate ai soldati, per la bella cifra
di 15.000 lire. Ma il Baroncelli non fu né fucilato, né messo in prigione, né degradato, fu semplicemente invitato ad andare in congedo. C’era una terza accusa che lo riabilita ai nostri
occhi, ma non a quelli severi di mons. Rossini.
A voi il giudizio finale. Ciro era uso servirsi del Cappellano Militare, don Macori (lo ritroveremo in Piazza S. Francesco il 24 agosto 1944, cerimonia Muti), per raggiungere con lettere amorose l’amica di turno, facendogli credere che erano dirette ad un parente!
Che simpatico!
Un vero attore era invece Achille Montanari, nativo di Cesena e residente a Ravenna, classe 1910, figlio di Egidio e di Antonia Righi. Un fascista che durante il regime non aveva preso
posto in prima fila. A dispetto del nome e dei pettoruti gerarchi non puntava sulla forza, ma
sul consenso spontaneo, raggiungibile non con discorsi altisonanti, ma con il coinvolgimento creativo nelle attività del tempo libero. Viaggi, gite fuori porta, tornei di vario genere, un
po’ di teatro, balli agresti. Il Dopolavoro provinciale di Ravenna lo accolse a tempo pieno.
Purtroppo la guerra arrivò anche per lui, ma con meno lacerazioni. Spedito a Bologna, il
sogno di tutti i romagnoli, accrebbe la propria versatilità, poco disturbata dai gradi di sergente maggiore del 6° Centro Automobilistico.
Nessun dramma con l’8 settembre, e pochi giorni dopo il Nostro riprese servizio nel
Dopolavoro, ad organizzare spettacoli di fortuna per la popolazione civile. Pressato o convinto a novembre s’iscrisse al Partito Fascista Repubblicano, ma rimase a lavorare nel suo
campo fino alla primavera del 1944. Ad aprile il salto, nella GNR e con il nuovo grado di
Sottotenente. Che bello! Nessun impegno nella lotta contro i ribelli. Gli si chiese soltanto di
dare sfogo alla sua vera natura, di teatrante, organizzatore di spettacoli d’arte varia per i militi. Aveva in mano il morale delle truppe. Impegno arduo nelle vicine Lavezzola e Longastrino
e disperato nelle lontane Pescantina e Candiana. Fece ridere e fece carriera e quando a maggio ritornò allegramente a Ravenna fu arrestato con i gradi di Tenente. Ufficiale subalterno
sentenziò la Corte (30-10-45). Nessuna colpa per chi aveva allietato gli sconfitti. Per i curiosi, un futuro tutto da scoprire.
Esito positivo anche per due “anziani”, con un passato tra Romagna, Croazia e Germania.
Parliamo di Armando Contessi e di Giacomo Foschini, entrambi nati a Bagnacavallo e
residenti a Ravenna. Più noto in città il secondo, perché dipendente comunale in veste di
Vigile Urbano, posto solitamente riservato agli eroi dello squadrismo. Classe 1898, figlio di
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Eugenio e di Luigia Tamburini, il Foschini, appartenente alla Milizia, era stato spedito in
Croazia. Dopo l’8 settembre lo troviamo in divisa della GNR a Ravenna, Lugo, Lavezzola e
Ferrara (luoghi caldi). Delle funzioni svolte nulla si dice, come anche per quanto riguarda il
successivo passaggio alla Brigate Nere, con le quali operò a Ferrara, nel veronese e da ultimo a Bologna. Di certo si sa che nel capoluogo emiliano fu di grande aiuto ai fascisti colpiti dalle azioni dei partigiani di città, come infermiere a tempo pieno. Insofferente o convinto della disfatta, un giorno scappò, dandosi alla macchia, ma ben presto fu catturato dai
tedeschi e dai fascisti della “Divisione Italia”. Buon per lui che non fu fucilato e non fu
declassato a facchino per i trasporti automobilistici teutonici. Altra fuga a pochi giorni dalla
Liberazione, ma questa volta non rimase nascosto e scelse di presentarsi al Comando dei
partigiani di Pavia, presso i quali riscoprì la sua attitudine a soccorrere i feriti, in questo caso
della Brigata Tomatis (?). Vi rimase un mese e mezzo e si guadagnò la stima dei ribelli, tant’è che, quando la Brigata smobilitò, ai primi di giugno, gli fu concesso il premio previsto, di
lire mille. Attestato e lasciapassare non gli garantirono però l’impunità ed appena giunto in
città fu arrestato.
La Corte a fine ottobre lo licenzierà in fretta.
Stessa sorte per il Contessi, fu Armando e di Donati Clotilde, classe 1901. Imputato e
detenuto. Ignote le accuse, ma strana la biografia. In guerra fu Maresciallo delle Camicie
Nere nell’81° Battaglione, tristemente famoso, operante nel Montenegro.
Poi, per sua fortuna, aderì alla Repubblica Sociale, evitando così di finire in Germania,
dove sarebbe certamente morto per le cattive condizioni fisiche. Una sciatica alla gamba sinistra e forti dolori reumatici. E così, a suo dire, trascorse l’intero tragico periodo della guerra antipartigiana in numerosi ospedali, lontani e sotto controllo tedesco, a Podgoritza, a
Brod, a Zagabria, a Salisburgo.
Che trattamento! Più o meno guarito, lo ritroviamo a Verona e Brescia, dove ebbe la sventura di cadere in mano ai partigiani. Sentenza scontata, in data 30 ottobre 1945. Nessun reato.
Torniamo ai fascisti di città
Chi frequentava la piazza di Ravenna negli anni ‘50 ricorderà che a sostenere le ragioni
degli ex fascisti c’era un Nardi (Paolo), un giovane, residente in via di Roma, oggi uno stimato studioso di storia medievale. La mente è corsa a lui, quando nel libro “Nero Ravenna”
abbiamo incontrato un Nardi Vincenzo, un personaggio autorevolissimo del fascismo delle
origini, un sindacalista nero, poi sconfitto dal gruppo di potere Frignani-Calvetti-RambelliMorigi, prediletto dagli agrari ravennati e dalla locale Massoneria. I vincenti regoleranno poi
tramite la “Squadraccia” i conti con il gruppo Muti. Metodi violenti tra fascisti, di tipo mafioso, come scrivevano i Questori e i Prefetti del tempo, con il fine di spartirsi prebende e
appalti.
La mente è ritornata a lui, quando abbiamo incontrato nelle sentenze il nome di un altro
Nardi, Luigi, figlio di Giovanni e di Ballestrazzi Emilia, meccanico, classe 1925, detenuto,
accusato di tentato omicidio e di privazione della libertà, cugino del giovane di piazza e
nipote del più famoso Vincenzo. I conti tornano. E, come lo squadrista Vincenzo era andato in urto con i camerati del primo dopoguerra, anche il Nostro non terminò l’esperienza
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repubblichina come l’aveva iniziata.
Iscritto al PFR dall’ottobre del 1943, poi nella Milizia, nella GNR, in una batteria antiaerea
a Vercelli. In licenza a Ravenna, non si fece più vedere in Piemonte. In crisi o nascosto?
Pentitosi, o costretto, lascerà Ravenna assieme ai nazifascisti per dirigersi al nord, dapprima
a Verona e poi a Treviso. Di nuovo in dissenso, diserterà, ma verrà catturato e finirà in carcere a Padova. Liberato, forse dai partigiani, si aggregherà alle loro formazioni per alcuni
giorni, quelli dell’odio e delle vendette, secondo una certa pubblicistica.
Quale il suo ruolo? A Ravenna, il 10 maggio 1945, il Nardi verrà arrestato nonostante gli
ultimi meriti, tra gli antifascisti. Ad accusarlo Valentino Vicchi, che il 30 gennaio 1944 era
stato da lui minacciato con una pistola e condotto in prigione, e Luigi Salti che il 31 agosto
dello stesso anno si trovava in un’osteria di città, quando era entrata una ronda fascista di
cinque militi, tra cui il Nardi, e lui, noto come antifascista e conosciuto dal Nardi, era stato
prelevato. Durante il tragitto, temendo il peggio, il Salti aveva dato un pugno ad uno ed era
riuscito a fuggire nell’oscurità. Ma il giorno dopo, il fuggiasco dovette presentarsi in ospedale con una pallottola nella coscia. Altro non si dice.
La Corte condannò il Nardi a sedici anni (21-9-45) e la Cassazione dichiarerà estinto il reato.
Voci, da controllare, narrano di un Nardi fascista che raggiungerà la terra argentina.
Di tutt’altra intensità la storia di Vincenzo (padre di Paolo). Era nato in Sicilia, a Marineo
di Palermo, nel 1895. Volontario nella Ia Guerra mondiale, vi perse un occhio. Durante l’occupazione di Ravenna da parte degli squadristi di Balbo e Grandi egli era Segretario del
Sindacato fascista e in tale veste partecipò in Municipio alle famose “trattative” capestro con
il PRI, iniziate con: “O vi staccate dall’Alleanza del Lavoro o vi bruciamo la Casa del Popolo”.
Data 28 luglio 1922. Presenti per il partito repubblicano e per le organizzazioni economiche collegate Fortunato Buzzi (Sindaco), l’on. Giuseppe Gaudenzi (Sindaco di Forlì), l’on.
avv. Ubaldo Comandini, l’on. Gino Macrelli, l’avv. Vincenzo Masotti, il prof. Oddone Fantini,
il rag. Mosè Taroni, Ennio Melandri, l’ing. Eugenio Baroncelli, Pietro Bondi, Chiarissimo
Calderoni. Da parte fascista: l’on. Dino Grandi, Attilio Teruzzi, il rag. Celso Calvetti (futuro
Podestà), il dott. Giuseppe Frignani (Federale) e il citato Vincenzo Nardi (Balbo scrive Naldi).
Dopo tre mesi il Nardi è alla Marcia su Roma. Con il Fascismo imperante, come accennato, Vincenzo, assieme all’amico Pellegrino Chigi e a tanti altri, tutti legati a Muti, soccomberà nella lotta per il potere su Ravenna. Da dottore in Agraria, sarà solo vice Presidente
dell’Associazione Agricola e Consigliere delle Corporazioni. Alcuni “mutiani” le buscarono,
altri furono premiati con posti di prestigio, ma lontano dalla città, e così il Chigi sarà
Ambasciatore al Cairo e il Nostini, Prefetto di Lucca, Console a Madrid e contemporaneamente agente dell’OVRA. Vincenzo resterà in Romagna, ma dal 1935 con residenza a Forlì.
Una foto del 1939 (manca il mese) lo mostra all’Aeroporto di Ravenna “La Spreta”, accanto
ad Attilio Monti (il più fortunato nei secoli tra i seguaci di Muti), al Podestà Calvetti, al
Federale Rambelli e all’ “Eroe”. Allora Muti era Segretario Nazionale del PFR (ottobre 1939 giugno1940) e quindi il fedele camerata Vincenzo era lì come Federale di Forlì. Una bella
rivincita! Nonostante l’età e l’infermità, in nome dell’antico “combattentismo” Vincenzo riuscirà a vivere di nuovo sui campi di battaglia, dal 1942 al ‘45. Dove? Non sappiamo. Morirà a
Ravenna nel 1987, a 92 anni.
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“Un bucalon” in gita?
Se Salti era noto per le sue idee ostili al regime, Antonio Angiolini godeva invece di una
fama opposta. Fascista convinto, eroe della prima guerra mondiale con due decorazioni.
Tutti lo conoscevano perché gestiva un negozio e perché durante il secondo conflitto si
accalorava nelle discussioni. Non era più un giovanotto e, nonostante non avesse obblighi
di leva, visto che era nato nel 1893, sotto Salò volle dare il suo contributo. Grande o piccolo, non si sa. Neppure si sa se in zona o fuori, considerato che nelle imputazioni si dice “In
territorio di Ravenna”, mentre in narrativa si parla d’altre località. Vediamo. Iscritto al PFR,
poi in divisa della GNR, indi con le Brigate Nere a Ferrara, Nogara, Orgiano, Bergamo. Un
cammino classico per i fascisti ravennati. Più furbo di altri, dopo la guerra si era fermato a
Ferrara, ma verso la fine di giugno era stato scoperto. Accusato di vari rastrellamenti e particolarmente di quello al Monte Orfano. Dove si trova? Indecifrabile (forse Novara). Per scoprirlo, basterebbe sapere dove si trovano cave di granito. Sì, perché il Nostro si difese tentando di declassare il rastrellamento in questione ad una gita in compagnia, alla scoperta
delle famose cave. Tant’è che nessuno fu catturato. Come a dire che ogni spedizione infruttuosa potrebbe risultare a posteriori una gita collettiva o magari una visita a parenti.
La Corte, non sapendo scegliere tra verità e vanterie, dicerie e deboli testimonianze,
tagliò il male a metà (27-9-45). Anni cinque all’Angiolini, invece dei dieci previsti. Merito
soprattutto delle decorazioni di guerra. Poi, amnistia.
A gambe!
Se Nardi proveniva da una famiglia di capi e Angiolini dal ceto dei bottegai, Mario
Vernocchi era un poveraccio. Figlio di Egisto e di Lavinia Calandrini, classe 1916, nato a
Longiano e residente a Ravenna, Mario doveva mantenere moglie e prole con l’incerto reddito dei braccianti. Entrò nel PFR, sperando in una qualche sicurezza, e nel maggio 1944, a
seguito del Bando Mussolini, si presentò alle armi con la speranza di entrare nella Pubblica
Sicurezza. Una prima delusione: lo spedirono a Faenza, con lo scopo di utilizzarlo nei rastrellamenti. Si sentì tradito e se la diede a gambe. Finita la guerra, una nuova sorpresa. Arresto
per collaborazione con i tedeschi.
La Corte (28-9-45) non volle amareggiarlo una terza volta e lo mandò assolto perché il fatto
non sussisteva. In vero, l’aspirante poliziotto aveva trovato il tempo e il modo per commettere alcuni furti, uno dei quali a danno di un certo Fabbri, alleggerito di un paio di gemelli.
L’U.P.I.
A differenza dell’Angiolini, poliziotto mancato, aveva raggiunto lo scopo Giovanni
Savorini, nato e residente a Ravenna, figlio di Antonio e di Maria Paglierani, classe 1908.
Coniugato, manteneva moglie e i tre figli con lo stipendio di impiegato in una ditta privata.
Fascista convinto, con la guerra era entrato nella Milizia, divenendovi caporale. Passò poi
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nella GNR, come tutti quelli della Milizia, con il privilegio di restare sempre a Ravenna, assegnato all’Ufficio Politico Investigativo (UPI). Un incarico delicato che comportava attività
investigativa e spionistica. Naturale quindi che vedesse passare sotto i suoi occhi decine di
prigionieri destinati ai pestaggi. Lui però non menava, da esperto dattilografo verbalizzava
soltanto. Continuò in tale attività dopo il 21 ottobre 1944 presso il Comando di Padova, fino
a quando si sbandò. Un po’ smarrito andò in cerca del fratello Alvaro, Maresciallo della GNR
a Bussolengo, e fu catturato a Bologna soltanto nel giugno del 1945. Nessuno in vero l’accusava di fatti specifici e fu portato in Tribunale per le sue stesse dichiarazioni e per la testimonianza di un altro fascista ravennate, Alberto Rosignoli.
Dilemma per la Corte (9-10-45): spia o dattilografo? Soluzione a favore dell’imputato:
assolto perché il fatto non costituiva reato.
Meno comprensiva fu la Corte due mesi dopo, quando comparve il fratello Alvaro, titolare dello stesso ufficio, in qualità di Capo. Se Giovanni batteva a macchina, lui batteva testimoni e sospetti. Più giovane di un anno del fratello, Alvaro, ex barbiere, con precedenti
penali per ferite, era diventato sottufficiale della Milizia, per poi prendere il volo nella GNR.
Molteplici e pesanti le accuse. In genere, sevizie prima della morte per fucilazione o altro.
Si beccherà 30 anni di reclusione. Ne parleremo più avanti.
Nello stesso ufficio, sotto Alvaro, aveva lavorato anche Alberto Rosignoli, il denunciante
di Giovanni. Classe 1915, un ravennate, figlio di Giacomo e di Maria Randi, defunta. Era accusato di avere usato metodi violenti nel suo lavoro. Ma non comparve a processo nessuna vittima. Figura a tutt’oggi misteriosa. Lui, in stato di detenzione, che denuncia i colleghi camerati, senza essere raggiunto da nessuna imputazione specifica. Un caporal-maggiore della
GNR che a fine guerra si troverà sul Lago di Como, mentre gli altri ravennati cercavano rifugio nel Veneto. Era certo che il Nostro aveva prestato servizio dapprima come meccanico
nella rimessa della Federazione, per poi divenire piantone e protocollista della GNR. O forse
il Rosignoli si era prestato a fare il doppiogioco sotto i nazifascisti, per poi collaborare solo
con gli antifascisti a guerra finita? Fatto sta che venne assolto (18-9-45).
Se il quadro processuale sugli appartenenti dell’U.P.I. di Ravenna si esaurisse qui, si
potrebbe concludere che detto ufficio fosse stato scavalcato da altri corpi investigativi. Non
accadde così nelle altre province, dove la cattura di molti partigiani avvenne tramite azioni
di infiltrazione e di spionaggio, gestite talora con notevoli capacità professionali. Non accadde così neppure a Ravenna, nonostante la concorrenza e la vocazione persecutoria dei fascisti in Camicia Nera. L’UPI agiva come una polizia segreta alle dipendenze della Guardia
Nazionale Repubblicana, spesso collocato in sedi prestigiose, lontane dalle caserme dei militi e dei comandi. Accoglieva uomini di tutte le età e dalle molteplici provenienze geografiche e professionali. Senza averne l’esclusiva, continuava a gestire quanto nel passato regime
era appartenuto alla Polizia politica, ai Carabinieri e all’Ovra.
Tra i primi ad essere assunti a Ravenna nell’autunno del 1943 un meridionale di Reggio
Calabria, classe 1900, tale Alfredo Cotronei, di Letterio e di Filerno Caterina. Si era presentato per sbarcare il lunario, come dirà. Nessun riferimento nelle carte a sue precedenti occupazioni o alle vicende belliche. Di sicuro fu ufficiale effettivo della Milizia Volontaria. Fatto
sta che il Comando provinciale della GNR lo assegnò al noto ufficio, con il compito di riferire sui principali avvenimenti quotidiani, sulle reazioni della gente e sui comportamenti politici. Non un questurino qualunque, da strada, ma il responsabile, il Capo, fino al passaggio
delle consegne al citato Alvaro Savorini.
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Con simile ruolo era inevitabile che gli piovessero addosso numerose imputazioni, talora in riferimento a fatti avvenuti quando il Nostro era già passato a Ferrara (primi di luglio
del 1944) con una responsabilità minore, come addetto all’Ufficio Censure, corrispondenza
ed altro. Toccherà alla Questura di Ravenna elencare gli addebiti contro Cotronei, in stato di
detenzione. Sarebbe stato lui, in Santo Stefano, a catturare Dino Ravaioli, colpevole di soccorso ad un pilota inglese. Cattura conclusasi con fucilazione dopo sevizie da parte dell’imputato. Sempre lui ad interrogare Walter Suzzi, poi fucilato. Lui a mettere le mani su tre renitenti di Roncalceci, a promuovere le inchieste contro Giulio Lolli e il figlio Colombo, entrambi assassinati, ad arrestare il Comandante della Capitaneria di Porto (nome illeggibile), poi
deportato in Germania, ad indagare sul Capitano Noncalcesi (?) per attività antifascista. Non
era poco. L’imputato si difese abbastanza bene. Solo esecutore d’ordini. E, comunque, in
relazione ai fatti addebitatigli diede versioni diverse, in parte credibili: interrogò il Ravaioli
già in stato d’arresto. Per il medesimo episodio rilasciò Domenico Savigni (?). Mai sentito
nominare Suzzi.
Quanto ai Lolli, consigliò soltanto la signora Nestuci, moglie e madre, d’essere cauta nella
corrispondenza e di attenersi ai fatti di famiglia. In dibattimento, si presentarono anche due
da lui arrestati e trattati bene, tali Ivo e Valentino Vicchi.
La Corte non infierì, mancando ogni colpa nel caso Suzzi, catturato ed ucciso nella seconda decade di luglio, periodo in cui il Nostro si trovava già a Ferrara.
14 anni di reclusione (4-9-45)
La Cassazione liquiderà il tutto con l’amnistia. Nel 1961 giungerà la riabilitazione con sentenza della Corte di Appello di Bologna (forse, ad uso pensionistico, per la ricostruzione
della carriera e, forse, per il riconoscimento del lavoro svolto come capo dell’UPI).
Se questo era il trattamento riservato a molti componenti dell’Ufficio Politico
Investigativo di Ravenna, centro operativo di prima grandezza nell’individuazione e nella
cattura degli oppositori, ancora più benevoli bisognava essere nei confronti di chi aveva servito la Repubblica di Salò e i tedeschi nei vari uffici, funzionali allo sforzo bellico, ma meno
determinanti nella lotta armata.
E così avvenne per Eugenio Grotti di Sebastiano (manca il nome della madre), un ravennate, nato nel 1893, detenuto. Un vecchio, con un passato di tutto rispetto per la causa fascista. Tant’è che era stato assunto come impiegato comunale. La carente biografia non consente di saperne di più sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra ravennate. Quel che
risulta è che, quando nel 1937 entrò nella Milizia, portava il grado di ufficiale del vecchio
esercito, quello monarchico. Automaticamente, con la tessera in tasca del PFR, divenne
Tenente della GNR e spedito in una delle zone più calde della penisola, a Genova, dove però
non fu utilizzato (pare) sulle colline in azioni di rastrellamento, ma rimase a terra, a sbrigare pratiche, su questioni disciplinari o di organizzazione del lavoro. Un semplice impiegato,
quindi, e come tale passò poi a Verona (la vera capitale della Repubblica di Salò) ed infine a
Trento. La Corte non volle approfondire. Assoluzione (23-10-45), con restituzione di lire cinquemila, sequestrate. Perse il posto?
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Sempre a Porta Aurea
Un giornata buona per gli imputati. Lo potrà raccontare anche Ricci Cassio, figlio di
Ercole (manca di nuovo il nome della madre. Colpa del Cancelliere?). Un ravennate nato
verso la fine del 1924. A 19 anni era già in divisa della GNR, con compiti di sorveglianza esterna alle Carceri di Ravenna. Lavoro troppo sedentario, per cui Cassio, figlio di Ercole, scelse
il massimo rischio, entrando nella flottiglia della Decima Mas. Destinazione La Spezia. Là,
nessuna impresa eroica, a suo dire, perché a disposizione dei superiori come automobilista
e motociclista. A fine guerra guadagnò Ravenna rapidamente e, per evitare rischi, si presentò spontaneamente in Questura, pur paventando un suo ingresso nel carcere a lui ben noto.
Assolto.
Libertà
Libertà per un Tenente e per un milite. E ci sperava anche il Capitano della GNR, Zelo
Massimo Molducci, di Paolo e di Grisilde Bartolotti, classe 1910. Grave però era l’accusa: collaborazione con il tedesco a Lavezzola e Longastrino. Nella vita si guadagnava il pane insegnando disegno, ma era attratto dalle armi e dalle avventure in terre lontane, l’Africa
Orientale e la Libia, sempre con la divisa della Milizia. Sotto Salò fu assegnato all’ “81a
Legione” di stanza a Ravenna come responsabile dell’Ufficio Matricola. Fin qui nulla di male.
Ma non era facile dimostrare che, nei suoi spostamenti dopo il 29 ottobre 1944 (i giorni della
fuga da Ravenna), fosse rimasto in mezzo alle scartoffie tra il Veneto e la zona di Alfonsine,
In seguito, a Pescantina, Fusignano, Lavezzola, Candiana, Longastrino e di nuovo a Candiana,
dove fu catturato dai partigiani. Ma spettava alla Pubblica Accusa dimostrare il contrario.
Assoluzione piena. Era coerente la Corte, anche in presenza di giurati diversi. La semplice appartenenza alle forze armate della Repubblica di Salò non poteva costituire reato.
Libertà quindi per altri due ravennati, che nella GNR avevano conseguito le mostrine di
Sottotenenti: Guidetti Emidio e Ranuzzi Paolo. Il primo era figlio di Eugenio e di Ghirardelli
Rosina, classe 1914, il secondo di Dino e di Servadei Assunta, classe 1924.
Un nobile in campagna
Da secoli la lussureggiante campagna ad ovest della città era la meta preferita per le
vacanze estive dei nobili. Pochi chilometri e si piombava in un’atmosfera riposante, in ville
o meglio in palazzi, ancora più maestosi di quelli temporaneamente lasciati. Da sempre, in
questa zona, tra Godo e Russi, approdavano anche i seminaristi a riposare, lontani dalle tentazioni dei borghi ravennati. Là studiavano anche i rampolli di nobili affidati alle cure dei
sacerdoti.
In un simile paradiso agreste, comodo quanto mai, era naturale che si sistemassero, più
o meno senza interruzione alcuna, i privilegiati desiderosi di allontanarsi dall’inferno di
Ravenna bombardata. Improprio sarebbe definirli sfollati. La qualità dell’ambiente non era
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sfuggita neppure agli ufficiali tedeschi e persino gli aviatori alleati colpiti ne erano attratti per
l’atterraggio.
Veniamo alla nostra storia. Davanti al palazzo di Teodorico abitava allora la famiglia
Malagola (Conti, secondo la voce popolare), che durante l’occupazione si era trasferita a
Godo di Ravenna nei propri possedimenti. Meglio risiedervi che vederseli requisire dai
comandi germanici. Ma i vani erano numerosi e protetti, cosicché, nell’estate del 1944, alti
ufficiali tedeschi e il Prefetto Grazioli decisero di traslocarvi, almeno per la notte.
Il capofamiglia si chiamava Giacomo Anziani Malagola, ammogliato con prole, nato,
secondo un’antica vocazione romagnola, a Firenze nel 1914, da Francesco Giuseppe (nato
negli anni della Triplice Alleanza, deceduto) e da Buzzichelli Carolina. Scherzi della storia:
Giacomo era venuto alla luce il 14 maggio, dieci giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia
contro l’Imperatore Cecco Beppe. Una lezione da tenere presente per quanti amano affibbiare ai figli nomi politicamente impegnativi.
Nell’agosto del 1944 il Nostro, oltre a gestire l’azienda, doveva districarsi tra professionisti sfollati, più o meno invitati da lui, e tedeschi che si recavano quotidianamente presso le
sue Boarie in cerca di cibo. Uno di questi era l’ufficiale Trelau, che era solito spedire un
subalterno al podere “Tre Orfani” per la provvista di latte. Era capitato però che dal cielo
fosse arrivato un pilota inglese che si era sistemato nei paraggi. Il padrone lo aveva saputo
ed in bicicletta era corso a dare sfoggio del suo inglese, ricevendo risposta in italiano: “Tu
padrone, tu buono. Vero?”. Non era la prima volta che capitava. Già in precedenza un altro
pilota, certo Birbie, si era celato dal suo colono Rubboli, ricevendone assistenza anche
durante una perquisizione. Ma in quell’agosto le cose si complicarono. Altri due sfollati, il
dott. Milillo e padre, gli avevano riferito che la cosa non era sfuggita e che un ragazzo di sedici anni era stato visto dirigersi rapidamente verso Godo. Per riferire? Che fare?
Il nobile Malagola non ebbe dubbi e nella stessa giornata (7 agosto) corse al Comando
Germanico a denunciare il fatto, nel timore di essere accusato di occultamento di un nemico
o di favoreggiamento della fuga. Non ebbe guai, a differenza del fiducioso pilota, catturato.
A guerra finita, dopo i raccolti e dopo ferragosto, Malagola fu arrestato a sua volta con
l’imputazione di delazione al tedesco. E dopo un mese (20-9-45) il processo. Nel frattempo
si era aggiunta un’altra faccenda, quasi banale. Il 3 dicembre 1944, alla vigilia della
Liberazione, il Nostro aveva accompagnato i tedeschi a casa dei fratelli Tullio e Angelo
Corazza a requisire un barroccio ed un asino, destinati al trasporto di un commilitone ucciso. Il maltolto era stato restituito, ma i due fratelli non avevano dimenticato.
La Corte, in omaggio al ceto distinto, volle sperimentare un’inedita forma d’assoluzione.
Avere agito in stato di necessità.
Tanti anni dopo, di fronte al palazzo di Teodorico, sventoleranno le bandiere del
Movimento Sociale, che in una Ravenna ingrata vi aveva collocata la sede provinciale, ospitata, in stato di necessità!
Ravenna e il mare
Per i turisti Ravenna è una civiltà che guarda al mare, per gli economisti il più importante porto dell’Adriatico, prima di Venezia e di Trieste. I locali sanno invece che nessuno di
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loro conoscenza è mai stato imbarcato su navi mercantili e che i pescatori di mare, pochi,
vivono tutti a Porto Corsini e a fatica parlano il dialetto romagnolo. Indubitabile invece la
vocazione dei ravennati alla pesca in fiume o in valle, quasi sempre per diporto. Oggi e ieri.
In tempo di guerra non si esclude che vi arrivassero cartoline precetto per i richiamati di
marina. Certo è che rare sono le biografie di fascisti o di partigiani con riferimento alla vita
di mare. In foto ingiallite si vedono schiere di giovani squadristi, ormai padroni della piazza,
in gita a Marina per scorpacciate di brodetto. Ma la nostra storia, imbarcazioni a parte, non
può saltare le località a mare, Porto Corsini, Marina di Ravenna e Punta Marina, fortificate
come non mai in vista di uno sbarco alleato. E, in assenza di episodi specifici, di violenze e
rappresaglie (i 4 partigiani caduti morirono nella battaglia delle Valli), non resta che narrare
vicende legate anche solo marginalmente ai luoghi indicati.
Per esempio: Ugo Cassani, di Francesco e di Patergnani Erodiade Onorina, classe 1899,
abitava a Marina, dove faceva il commerciante. Era originario di Bagnacavallo. Neanche a
farlo apposta, durante la guerra aveva prestato servizio in artiglieria come sergente maggiore. Dopo l’8 settembre tentò due volte di collaborare con i tedeschi, a malincuore per timore di più gravi conseguenze, secondo la sua versione. Dapprima nella Milizia, che ben presto se ne liberò. Poi, furbescamente, s’iscrisse al Partito Fascista Repubblicano e, per non trascurare famiglia e affari, accettò la carica, scoperta, di Segretario politico del Fascio di
Marina. Dall’aprile del 1944 al due luglio, quando si trasferì a Ravenna, per poi approdare ad
Ariano Polesine, come meccanico in un’officina. A guerra finita, saputo che lo cercavano si
presentò in Questura e fu associato a Porta Aurea, per appartenenza alla GNR e alla Brigata
Nera. Nessun fatto specifico contro di lui. Anzi, non mancarono le benemerenze, raccontate dai compaesani di Marina.
Assolto in data 28 agosto 1945, a stagione balneare conclusa.
Nello stesso giorno comparve un altro detenuto di Porto Corsini, Raimondo Giannelli, di
Felice e di Angelina Trombini (come il capo partigiano locale), classe 1913. Originario di
città, viveva con moglie e prole a Marina, dove si guadagnava il pane come operaio. Con la
guerra fu assegnato alla Marina ed ebbe fortuna a ritornarsene a casa. Poi, con l’arrivo dei
tedeschi gli fu facile dimostrare le competenze manuali e si sistemò con la Todt. Lavorava
tanto e guadagnava poco, ed allora, guardandosi attorno, s’accorse, nel febbraio del 1944,
che nella GNR i compensi erano maggiori. Fu subito sergente. Qui ebbe inizio la sua carriera di ex marinaio, fino ad agosto presso l’Aeroporto di Ravenna, poi di guardia alla stazione
di Savignano sul Rubicone e da ultimo a vigilare la caserma della Milizia della località “Tre
Ponti” (cara al celebre Stecchetti).
Si ritirò con i camerati a Ceneselli, sul Po, in Alto Polesine, e poi nell’ultimo “albergo”, in
quel di Candiana, fino alla cattura da parte dei partigiani, che gli offrirono un lasciapassare
per Ravenna, con l’obbligo di presentarsi al Comitato di Liberazione.
Così avvenne e così si trovò imputato in stato di detenzione. Con rapidità la Corte lo
spedì ai suoi cari.
Nessuna difficoltà anche per un vero marinaio, almeno durante la guerra, certo Arcangelo
Quero, fu Giuseppe e fu Rosita Rocca, nato nel 1918. Non era ravennate, non aveva niente
a che fare con la realtà locale, eppure si trovò nei guai. Il 24 aprile si era sbandato a
Malcontenta di Venezia, dove, con la divisa della Marina Repubblicana, aveva trascorso i giorni a sorvegliare una polveriera. Fortunato, aveva recuperato una bicicletta per raggiungere
la lontana Taranto.
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Eroico, ma l’8 maggio la buona sorte s’interruppe, quando al passaggio da Lugo suscitò
sospetti e finì in prigione. Che brutta estate!
Poté riprendere il viaggio solo dopo il 4 settembre.
Le Ferrovie
La storia del Fascismo delle origini ci dice di bastonature e purghe nei confronti d’operai, braccianti, professionisti. Ma nessuna categoria di lavoratori patì tanto come quella dei
ferrovieri. Trasferiti lontano i pochi fortunati, licenziati in massa i più. Cenni di tale rappresaglia si trovano in molti studi di carattere locale. Non conosciamo purtroppo saggi specifici sull’argomento, certamente usciti ad opera del sindacato di categoria.
Durante il regime la fascistizzazione delle ferrovie fu completa e radicale e pochi spazi
ebbero i dubbiosi. Espulsi i socialisti e i comunisti, i nuovi assunti, spesso scelti tra i bastonatori, si ritrovarono a svolgere una doppia mansione: far giungere i treni in orario e denunciare ogni comportamento sospetto, di colleghi o di passeggeri. Ma gli eventi della guerra,
con le stazioni distrutte, binari divelti, ponti pericolanti, convogli lacerati, tolsero molte illusioni.
La situazione peggiorò con l’arrivo dei tedeschi e l’accresciuta militarizzazione del Corpo.
Sparirono il carbone, i pezzi di ricambio, i passeggeri e l’autonomia. Tutto il potere al Genio
Ferroviario Tedesco. Crebbero invece i bombardamenti alleati, i sabotaggi dei patrioti e gli
sfoghi dei trasportati. Rari divennero i convogli per passeggeri, sostituiti da altri per il trasporto delle truppe e d’ogni tipo di merce, destinata alla Germania o allo sforzo bellico nazifascista. I primi viaggiavano di giorno, i secondi di notte. E di notte si verificavano anche gli
attentati, le manomissioni dei binari e le deflagrazioni dei ponti. Alle stazioni ci pensavano i
bombardieri, che per quella di Ravenna non ebbero problemi nell’individuare il bersaglio.
Dove finiva l’acqua del Candiano cominciava la stazione. A sbagliarla si colpiva il porto e viceversa. Debole, secondo la voce popolare, la reazione della contraerea. A difendere l’intero
sistema ferroviario, che come sempre faceva perno su Bologna, provvedevano, come detto,
i tedeschi, che decidevano fra l’altro orari, precedenze, soste, direzioni. A vigilare invece su
utenti e ferrovieri, con una speciale polizia, toccava ai fascisti della Milizia Ferroviaria.
Uno di questi era Mario Busni, di Gambettola (FO), di Luigi e fu Ramilli Luigia, classe
1909. Durante il regime era dipendente dell’Amministrazione Ferrovie di Stato, come assistente ai lavori. Con lo scoppio della guerra si era ritrovato in fanteria con il grado di
Sottotenente. Poi, con il nazifascismo di Salò, aveva fatto carriera, come moltissimi, divenendo Tenente della Milizia Ferroviaria, grazie anche ai meriti acquisiti nel dicembre del 1943,
allorché era divenuto Segretario del Fascio di Gambettola. Dapprima in servizio al dipartimento di Bologna e dal gennaio 1944 a Ravenna, come capo del nucleo di Polizia, in divisa
della GNR. Dopo il settembre ripiegò al nord, a S. Martino d’Adige e alla fine presso
l’Ispettorato di Brescia, dove fu fermato dai partigiani. Da ultimo, raggiunse Forlì, per il definitivo arresto. Busni era un capo e nel suo lavoro, secondo l’accusa, aveva dimostrato uno
zelo fanatico, nel parlare e nel servire i tedeschi con continui rapporti sulla disciplina e sullo
spirito di collaborazione dei vari dipendenti, un tempo colleghi. Si agitava molto.
Un giorno “redarguì aspramente” il ferroviere Pietro Zeppi, accusandolo di tenere una
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lista dei ferrovieri fascisti da fucilare. Non doveva crederci neanche lui, visto che il colpevole non subì conseguenze. Bastava impaurirlo.
Più parole che fatti. Un’altra volta aveva minacciato di schiaffi e di deportazione in
Germania Pietro Ricci. Non stava mai fermo il Nostro. A luglio fu visto stracciare volantini
antifascisti in quel di Piangipane (sfollato?), località fuori dalle linee ferroviarie. Fin qui nulla
di particolarmente grave. Ma in alcuni casi alle parole seguirono i fatti, come quando se la
prese con il Capotecnico Luigi Mantero, che si era permesso di esprimere dubbi sull’efficacia delle armi tedesche, la “V.1” e la “V. 2”.
Semplici sorrisi ironici con i compagni di lavoro. Arrivarono accuse di disfattismo e le
solite rampogne, accompagnate dalla minaccia d’arresto, che giunse solo dopo qualche
mese, con successiva deportazione per dieci mesi in Germania. Colpa del Busni? E’ probabile, se si pensa che il Capo Milizia Ferroviaria soleva spedire rapporti informativi contro gli
ex colleghi, servendosi persino d’informazioni pervenute tramite lettere anonime. Di qui
una sua denuncia contro Liverani Egidio e il figlio Renzo nell’aprile del 1944, con conseguente arresto e deferimento al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che trovò infondate le prove. Il fanatico e servile Busni raggiunse il massimo in un rapporto dell’agosto.
Oggetto: la posizione dei dipendenti di Ravenna. Su 80 ferrovieri, 34 erano costantemente
assenti per malattia o per altri motivi. Altri non davano nessun contributo alla causa e neppure al normale servizio, facendo solo atto di presenza, e per questi si proponeva la sospensione degli stipendi. Tutto scritto e documentato, nome per nome. Rapporto certamente
recuperato, che si concludeva con una richiesta d’intervento da parte del Comando Genio
Germanico e relativa Polizia, per reprimere ogni abuso, “nello spirito della collaborazione tra
il Reich e la GNR”.
Nessun dubbio per la Corte (28-8-45). 14 anni di reclusione. L’anno dopo, la Cassazione
accolse la richiesta di amnistia, e non è fuori luogo pensare che il Nostro sia stato reintegrato rapidamente nell’Amministrazione delle Ferrovie, forse in luoghi lontani dal Dipartimento
di Bologna. A breve, dopo il 1948, ritornerà la stagione delle liste di proscrizione per i ferrovieri ritenuti sovversivi, licenziati o spediti in sedi disagiate ed innocue.
Ritorniamo ai collaborazionisti della Repubblica di Salò impegnati nel ramo trasporti.
Siamo a Lugo, importante svincolo ferroviario in direzione di Bologna, Ferrara e Ravenna.
A comandare era Luigi Palma, originario di Tito (Potenza), del fu Raffaele e Filomena
Vincenzo, classe 1894, coniugato con prole. Un uomo, autoritario e coraggioso, che durante la prima guerra si era guadagnato ben tre onorificenze, di cui una d’argento. Capostazione
a Lugo, iscritto al PFR e Maggiore della Milizia Ferroviaria. Nel luglio del 1945 viene arrestato su denuncia di sette uomini, quasi tutti dipendenti da lui al momento dei fatti (Guerrini
Silvano, Cantagalli Giuseppe, Minrolini (?) Paolo, Bacchini Diego, Liverani Pietro, Scardovi
Mario e Calignini Aldo).
Questi gli addebiti:
1) avere costretto diversi ferrovieri ad iscriversi al Fascio repubblicano;
2) avere impedito alla popolazione di svuotare i magazzini ferroviari della farina destinata
ai tedeschi;
3) aver fatto processare un ufficiale cecoslovacco per un brindisi antitedesco;
4) avere fatto catturare quattro persone che erano scappate da un treno diretto in Germania;
5) avere impedito ad alcuni parenti il saluto ai propri cari, renitenti alla leva e chiusi nei
convogli per la terra germanica.
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Un collaboratore con l’invasore, quindi. Era successo nel febbraio del 1944 che il Nostro
fosse invitato al Caffè della stazione da alcuni ufficiali cecoslovacchi, aggregati ai tedeschi.
Diversi i brindisi. In uno si gridò: “Viva il Re, viva Badoglio, abbasso Hitler, abbasso
Mussolini!”. E il Palma in risposta: “Morte al Re, evviva Hitler, evviva Mussolini”. La cosa non
fini lì; seguì una telefonata al Comando tedesco, e quindi un’inchiesta contro il gruppo.
Immaginabili le punizioni. L’imputato ammise soltanto “A morte il Re”, esclamazione quasi
obbligata, poiché nei pressi stava seduto il Comandante della Milizia Ferroviaria con lo
sguardo torvo. Quanto al treno con i 25 carri di farina, disse, sconsolato, che non era in
grado di farli sparire. E gli sbandati fuggiti e catturati? Risalirono spontaneamente, a suo dire,
su un treno successivo! E lo sgarbo verso i parenti? Se il fatto è avvenuto, la colpa è sicuramente di quel milite fanatico che risponde al nome di Giuseppe Bellosi. E la coercizione
verso i colleghi? Uno dei denuncianti non era alle sue dipendenze.
La Corte, impressionata dal suo curriculum, a norma del Codice Militare di Guerra, art.
26, dimezzò la pena. Cinque anni, invece dei dieci previsti, in data 25-9-45. Tra le carte non
risulta altro. Dimenticanza? Amnistiato o morto?
Lugo, il cuore della Romagna
Così definita, a torto o a ragione. Una delle poche città frequentate dai forestieri del passato, che vi confluivano di mercoledì per il più importante mercato di bestiame nel raggio
di centinaia di chilometri. Un centro di forti tradizioni politiche e d’aspri scontri, tra liberali
e rossi, tra verdi e rossi, tra gialli e rossi, tra bianchi e rossi, tra neri e rossi. Sempre i rossi
nel mezzo. Non perché fossero i più litigiosi, ma perché protagonisti delle lotte bracciantili
e imbevuti d’ideologie antagonistiche, repubblicane, pacifiste, egalitarie. Epiche le dispute
sotto il Pavaglione, come quella volta che un socialista rimase ucciso, accoltellato, poiché
aveva osato definire Mazzini “un prete”. Finiva spesso a botte, ma ciò non dava luogo a rappresaglie organizzate. Con lo squadrismo ci fu un salto di qualità. Spedizioni punitive ad
opera d’esterni, pilotate dai locali e benedette dai carabinieri. Scorse tanto sangue, molto
più che nel capoluogo. Repressione dura anche durante il regime fascista, durante il quale
s’inneggiò all’eroe dei cieli, Francesco Baracca, morto in guerra, ma assurto a precursore del
Fascismo, come confermavano i parenti in orbace. Il che fa pensare che gli antifascisti adulti non avessero condiviso quel mito. Solo quello di Rossini univa tutti, il più grande dei
lughesi, nato a Pesaro, solo perché il padre aveva dovuto lasciare la città per dissapori con
le autorità dello Stato Pontificio, secondo la voce popolare del passato. La politica anche qui!
Con queste radici, diffusa fu l’ostilità della gente contro i nazifascisti, tenace la lotta armata e senza tregua. Altrettanto determinata l’azione dei repubblichini, che nell’area mostrarono il volto più feroce: l’oppressione è durata più a lungo che nelle altre località romagnole.
Non si forza certo la storia, affermando che era inevitabile, all’appuntamento con la
Liberazione, l’emergere di pezzi di passato, vicino e lontano, di esplosioni di collera, di vendette, di desideri di punire quanti venivano considerati artefici, complici, finanziatori di tutte
le ignominie. Un fenomeno che ha riscontro in provincia solo ad Alfonsine, Fusignano,
Conselice, Massalombarda, anch’esse vessate da rastrellamenti, deportazioni, eccidi e bombardamenti, durati 4 mesi in più rispetto a Faenza e Ravenna.
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Vediamo alcune vicende dei persecutori, finiti in Tribunale, fortunatamente, secondo
molti, vittime o componenti del coro di dolore.
Squadrista prima e dopo
Alla sbarra il 18-10-1945 Emiliani Oreste, fu Angelo e fu Ragazzini Virginia, classe 1894. Un
lughese, da decenni popolare sulla piazza, temuto ed odiato. Medaglia d’Argento nella grande guerra. Fascista da sempre, Squadrista, Marcia su Roma, Sciarpa Littorio. Poi nel Fascio
repubblicano e dal dicembre del 1943 nella GNR, con i gradi di Maresciallo, fino alla fine e
sempre in zona, a dispetto di certo Floriano Montanari che gli aveva mandato a dire che
avrebbe fatto meglio (gli conveniva) riparare al nord come gli altri fascisti. Coraggioso il
Floriano, suo vicino di casa, che assieme al fratello Giovanni, non perdeva occasione di criticarlo in pubblico e sul lavoro (come aveva riferito il figlio Edgardo). Tre gli scontri verbali
con minacce di morte. Finì che i due fratelli furono rastrellati dai tedeschi.
Esiti più tragici per gli Orsini, padre, figlio e nipote, alla cui cattura aveva partecipato
l’Emiliani: impiccagione da parte dei nazisti. Un equivoco, secondo il Nostro. Un giorno,
mentre si trovava al Caffè Pompeo di Lugo, entrò certo Zioletta (o Ziroletta) della Brigata
Nera, che lo invitò ad accompagnarlo fino a Villa S. Martino. Vi rimase una decina di minuti, all’incrocio della strada provinciale per Bagnara, e poi, seccato, se ne andò senza sapere
il motivo dell’invito. Seppe in seguito del contestuale arresto della famiglia Orsini.
Di casualità in casualità, un’altra volta gli capitò di incontrare Ferruzzi, il Segretario del
Fascio di Lugo: “Tutto bene in via Corridoni?” (che linguaggio sibillino!). Al che egli rispose
che gli sembrava esserci un certo movimento (di partigiani). E il 20 marzo 1944, verso le 18,
tale Camanzi (o Camerani) Francesco fu arrestato dai repubblichini e tradotto in carcere per
24 ore. Passarono alcuni giorni. Il Camanzi tutto solo stava attraversando il Pavaglione,
deserto. Iniziò un pedinamento di tre militi, tra cui l’Emiliani, pronti a sparargli alle spalle.
Si salvò perché dal silenzio assoluto emerse una donna. In un’altra occasione, in trasferta a
Faenza, al Nostro capitò di fermare un individuo. Un normale controllo. Sennonché si trattava di un inglese, che egli dovette consegnare al Comando. Al processo l’Emiliani ritrattò
tutto, frutto di coartazione con botte da parte dei partigiani che lo avevano catturato nel
luglio del 1945. Ne sarebbe uscito con una costola rotta.
I Giurati (presidente Spizuoco) non lo esclusero, ma, date la specificità dei racconti e le
conferme dei testi, si orientarono per la colpevolezza dell’imputato, condannandolo ad anni
tredici e mesi quattro, stante l’attenuante della Medaglia d’Argento.
Per la Cassazione fu decisiva la costola e pertanto nuovo processo a Forlì.
“Camerata ferroviere”
Nello stesso giorno, i medesimi Giurati si trovarono a valutare le strane avventure di un
imputato particolarmente sfortunato. Lopez Paolo il suo nome, figlio di Giulio e di Stefanini
Eleonora, classe 1925. Un bolognese, in servizio a Lugo. Un impiegato ferroviario, ben feli-
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ce di non dovere combattere per i fascisti, per i quali non provava nessuna simpatia.
Sennonché ebbe la sventura di essere adocchiato dal Capostazione, il citato Palma, fanatico
ed ossessionato dal nemico interno. Un giorno comparvero dei manifestini sui muri della
stazione e il Palma se la prese con il Lopez, sicuramente colpevole o a conoscenza degli
autori, e minacciò un rapporto al Compartimento di Bologna per chiederne il licenziamento. Al sospettato non restò che l’iscrizione al PFR. In un’altra occasione, il Nostro, impaurito
più che mai, dovendo espletare il proprio servizio senza inconvenienti, corse alla Casa del
Fascio per ottenere dal Segretario un permesso di circolazione oltre il coprifuoco, che era
stato anticipato. Era il 20 maggio (o marzo) del 1944. In risposta: “Camerata ferroviere, visto
che sei qui, abbiamo bisogno di alcune ore di guardia”. Si trattava di prigionieri di giornata,
da poco arrestati. Tra loro, certo Giuseppe Ricci, che non scorderà l’insolito nome.
L’apparenza purtroppo era contro il Lopez, detenuto dal luglio 1945. Un ferroviere, con
il distintivo del Partito, che svolge funzioni di guardiano in una prigione di partito!
Al processo, il Nostro confessò gli episodi e per sua fortuna non mancarono i testi che
ricordarono le sue simpatie antifasciste e i contatti con esponenti partigiani, nonché il fare
bonario e umano durante quella maledetta guardia. Assoluzione piena.
Da autista negli eccidi
Non poteva sperare in tanto Ridolfi Giulio, nato a Ravenna nel 1915, operante a Lugo
nella GNR. Morto il padre Carlo, vivente la madre Elvira Pardi. Contro di lui una donna, quella Sandrina Valenti che aveva seguito i fascisti al nord, accanto all’amante Ricciputi, e che a
guerra finita aveva ricordato episodi e conversazioni compromettenti. Tra cui, una lite tra
l’imputato e tale Dino Vanzani, avvenuta a Bussolengo, sui fatti del Palazzone di Fusignano
e una confessione coincidente con quella del suo uomo. Colse nel segno la Valenti, poiché
al Ridolfi non rimase che un debole tentativo, volto ad attenuare la propria responsabilità.
Come autista di un camion avrebbe girato per i vari presidi a raccogliere militi da portare a
Lugo, destinati poi al rastrellamento in questione. Sempre come autista in un altro tragico
evento. Quando il 19 settembre del 1944 i nazifascisti assassinarono i maschi di casa
Bartolotti, Adolfo, Lino, Silvio e Olindo, accusati di avere sparato contro un camion tedesco,
il Nostro arrivò subito dopo per completare il misfatto di fronte ai famigliari disperati ed
umiliati. Via tutte le masserizie. Malvagità e stupidità dopo l’orrenda strage.
Insistettero su questo i Giurati, concedendogli, tra le attenuanti, l’incompetenza (mai
vista prima) e il ruolo subalterno avuto agli ordini del Capitano Ferretti. Otto anni e quattro
mesi (18-10-45). Amnistia nell’agosto del 1946.
Un Triunviro
Competente ed autorevole era invece Lega Luigi di Lugo. Classe 1903, del fu Antonio e
di Alba Mingarelli. Era impiegato presso il Sindacato lavoratori agricoli, ufficio importante
per l’occupazione stagionale dei braccianti e per il controllo del versamento dei contributi,
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meno per la difesa dei diritti. Un personaggio sulla piazza, quindi, noto a tutti, forse anche
stimato, tant’è che, quando la Repubblica di Salò giocò la carta socialistoide, fu nominato
Triunviro del Fascio di Lugo. Un ruolo politico il suo, non militare, anche se ciò non gli impedì di essere accusato dell’arresto di tale Agenore Costa, rastrellato assieme ad altri in seguito all’uccisione di un fascista. Per questo, il Lega fu accusato ed arrestato. La cosa appare
quasi inverosimile, tranne che la vittima non abbia dato due versioni, una al CLN di Lugo ed
un’altra al processo. Fatto sta che in aula l’Agenore discolpò il Triunviro e dirottò la colpa
verso suo fratello, Tommaso (o Tonino), e tale Valicelli.
In più, risultò che il Luigi si era adoperato per un dipendente della Congregazione di
Carità e per i fratelli Lippareci, nonché per Edmondo Pattuelli, al quale aveva evitato una
denuncia al Tribunale Speciale. Pertanto, nessun crimine specifico, se non l’appartenenza al
Direttorio fascista. Ma ciò non costituiva reato. Assoluzione (8 novembre 1945).
Demetrio il ritardatario
Non era reato neppure, come detto, avere un passato da vero squadrista, con tanto di
diploma di Marcia su Roma. Ma i sospetti di collaborazionismo facilmente raggiungevano i
fascistoni di un tempo, specie se essi si erano mescolati in qualche modo con i repubblichini.
Era il caso di Antonellini Demetrio Luigi, di Leopoldo e di madre ignota, nato a Lugo nel
1896. Fu accusato di vari rastrellamenti, di cui uno sull’Appennino Romagnolo, uno sulla
sponda occidentale del fiume Santerno, con diversi uccisi. Milite operativo della GNR e brigatista nero, che in un’occasione avrebbe fornito ai tedeschi un elenco di antifascisti, poi catturati, di S. Agata sul Santerno. Siamo nella primavera del 1944. Un giorno a S. Agata arrivò
da Faenza un camion con un ufficiale della Milizia con lo scopo di caricare più uomini possibile, utili per l’indomani. Operazione: cattura sbandati e partigiani delle colline. Il
Demetrio salì, ma poi, data l’età, ottenne di ritornare a casa per la notte. Non era una scusa,
tant’è che all’alba si alzò per prendere il treno, onde arrivare in tempo per la spedizione. Ma
quando arrivò gli altri erano già partiti. Che fare? Mica poteva prendere un altro treno per il
rastrellamento! Se ne tornò a S. Agata. Secondo episodio. Impiccagione dei 4 fratelli
Bartolotti di Ca’ Lugo. Il Demetrio vi giunse con il suo Comandante ad eccidio avvenuto, per
un sopralluogo. Terzo episodio. 5 agosto 1944. Un attentato al ponte sul Santerno in danno
delle truppe tedesche.
Nella caserma dell’Antonellini arrivò un sottufficiale che ordinò ai camerati di accompagnarlo nelle case degli antifascisti locali, dei quali aveva un elenco. Un certo Baldini lo seguì,
dopo avere incaricato il Nostro di avvisare i ricercati. Così avvenne. Soltanto tale Tampieri fu
trovato in casa, poiché abitava a soli 90 metri dalla caserma. Quanti equivoci!
Orbene, non si poteva condannare uno per un fatto mai avvenuto, per i ritardi accumulati o per una spiata di segno opposto, pro partigiani. Assoluzione piena? No, per i trascorsi
squadristi, no, perché le testimonianze erano tutte di parte repubblichina. E i partigiani avvisati erano fantasmi?
Insufficienza di prove, in data 20 novembre 1945 (Presidente Spizuoco).
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Dal Campo di prigionia di Coltano
Dopo una settimana tornò il dott. Peveri, per giudicare un imputato in carcere a Ravenna
da soli 15 giorni. Nessun favoritismo. L’imputato, infatti, proveniva dal campo di concentramento di Coltano (Pisa), gestito dagli alleati, sotto accusa sulla stampa per le gravi condizioni igieniche in cui versava e dovute in parte al numero eccessivo di prigionieri. Bisognava
sfoltire, liberando o spedendo i reclusi alle rispettive province, per rispondere eventualmente in giudizio. Uno di questi era Cavallazzi Angelo, di Francesco e di Capra Maria, nato a Lugo
nel 1924. Di professione meccanico. Nella GNR dal maggio del 1944, implicato nel rastrellamento del Palazzone e in uno a Lavezzola, con morti ammazzati in entrambi i casi. Il Nostro
non poté negare la partecipazione ai fatti e si nascose, con poca originalità, dietro la collaudata giustificazione: semplice assistente autista (privo di patente?) e come tale di guardia ai
camion, mentre i camerati scorrazzavano nelle campagne.
La Corte gli concesse qualche attenuante e lo condannò ad anni sette e mesi sei. Amnistia
scontata e puntuale. Rapidissima invece la riabilitazione da parte della Corte di Appello di
Bologna, avvenuta già nel 1952. Normalmente le riabilitazioni arriveranno negli anni ‘60.
Da Ca’ Lugo
Spia mancata a sua volta spiata. Poteva succedere anche questo in quei tempi. Bisognava
guardarsi dal frequentare persone compromesse agli occhi dei partigiani e della gente. In vero,
i repubblichini detenevano il potere ufficiale e reale e si servivano d’ogni mezzo, compresi i
delatori, per fiaccare i patrioti che nel lughese costituivano un vero contropotere, aiutato da
una rete d’informatori assai attenta ai movimenti dei camerati in divisa ed anche alle loro frequentazioni civili.
Babini Giuseppe di Cà Lugo era uno di questi civili. Classe 1917, figlio di Achille e di
Venusta Bartolotti. Un colono che abitava in una zona a forte presenza partigiana, dove si
erano verificate dure rappresaglie. Non aveva obblighi di leva con Salò perché dopo nove
giorni era stato riformato. Forse, però, aveva cercato di rendersi utile ugualmente, con il riferire ai capi quanto vedeva o udiva. La pensarono così cinque patrioti che nel dopoguerra lo
denunciarono, determinandone l’arresto.
Già da prima lo ritenevano un informatore, tant’è che lo avevano sottoposto a vigilanza,
ed un giorno lo videro conversare con il Segretario del Fascio locale, Giuseppe Giordani. In
altra occasione tre partigiani, di ritorno da un’operazione contro mezzi tedeschi, incrociarono suo fratello e, guarda caso, seguirono due rastrellamenti con tre fucilati. Di più. Una sera
i militi piombarono con violenza nell’abitazione di Guido Liparesi. E perché prendersela con
il Nostro? Semplice. Qualcuno lo aveva notato mentre depositava la bicicletta presso la famiglia Minganti per unirsi ai fascisti. E cos’era andato a fare al Comando tedesco? Insomma,
spia o non spia, gli spostamenti del Babini erano stati seguiti attentamente.
A Ravenna, in data 4 dicembre 1945, venne il momento delle giustificazioni. Ammise solo
i rapporti d’amicizia con alcuni fascisti. Nessuna spiata.
Quanto alla notte della spedizione punitiva ai Liparesi, egli confermò solo il deposito
della bicicletta, a causa del coprifuoco. Però, stranamente, essendo a piedi, non scelse la via
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dei campi, ma rimase sulla strada, e neppure cercò di nascondersi al passaggio di un camioncino e di due macchine. Non si unì a loro, anzi fu identificato e rilasciato. Vero? E dai tedeschi era andato solo per impedire che la sua casa fosse fatta saltare. Da ultimo, aggiunse che
era a conoscenza del rifugio dei partigiani, ma aveva taciuto.
La Giuria era incerta. Non era facile collegare eccidi ed altro a soffiate, con nome e cognome dei responsabili, specie in una zona dove la repressione era costante, quotidiana. Molti
casi, ma tutti di “aspro e difficile accertamento”. Insufficienza di prove.
Un caso da ricordare
Meno dubbi con un altro lughese, Capineri Severino, di Celso e di Dorina Baccarani, classe 1920. Nella vita faceva il verniciatore. Iscritto al PFR fin dal novembre del 1943, aveva operato nelle Brigate Nere di Lugo, poi era passato a Bologna e Modena. Catturato dagli alleati,
era stato internato nel campo di concentramento di Bresso (Milano).
Pesanti le accuse. Eccidio del Palazzone, uccisione dei fratelli Bartolotti a Cà Lugo, rastrellamento di Giovecca (Lugo), eccidi di Voltana, cattura di Giuseppe Ricci (Umberto nel
testo), rapina in danno di Ricci Bartoloni Alfredo (Goffredo nel testo). Al dibattimento si
aggiunse anche la requisizione di un camioncino in danno di Mario Verni. L’imputato negò
tutto, tranne i reati minori e cioè i due furti.
Vediamo fatti, date, prove, testimonianze e tesi difensive.
1) 20 marzo 1944, cattura di Ricci. Nessuna prova.
2) 5 settembre 1944. Campanile di Lugo. Il Ricci Bartoloni era a casa, quando si presentarono
tre della B.N., tra cui il Nostro. Mitra puntato, ordine di seguirli. Vado a vestirmi, in risposta. E
via per la finestra. Breve inseguimento, vano, e ritorno nella camera del fuggiasco. Sparirono
un orologio “Longines”, una macchina fotografica “Leyca”, lire 1300 e documenti vari.
Nessuna obiezione della difesa.
3) settembre 1944. Sequestro camioncino. Conferma da parte di tale Aurelio Golfari. Difesa:
ordini del Dott. Ferruzzi, Segretario del Fascio di Lugo.
4) 15 settembre 1944. Mattina. Casa Bartolotti di Cà Lugo. Donne e uomini erano intenti ai
lavori nell’aia, quando giunsero tedeschi e fascisti in forze. Quattro maschi, padre e figli, furono condotti in casa. Botte e sevizie, con l’accusa che dalla loro proprietà erano partiti dei colpi
d’arma da fuoco. Torture terribili. Un figliolo fu poi trovato con le mani trapassate da chiodi.
Dopo di che, i quattro furono portati presso un vicino ponte. Tre impiccati ed un fucilato. Alle
11,30 tutto era terminato.
Raccontarono i fatti una famigliare, Luisa Bartolotti, fuggita, ed un ragazzo presente,
Gilberto Randi. Nella casa e a bloccare il ponte c’era uno con gli occhiali, il Capineri. Nella
stessa direzione la testimonianza della nota Sandrina Valenti, amante del Ricciputi, raccolta
dal vice Brigadiere della PS di Lugo, Mario Biancontessa.
La difesa sostenne che il Capineri quella mattina si era recato a Ravenna, ma un altro
Bartolotti, Guido, dichiarò di averlo visto sulle otto e trenta in compagnia delle B.N. a Lugo.
5) Per i fatti del Palazzone, di Voltana e di Giovecca testimoniarono la Valenti e il camerata Aurelio Ravaioli, sotto processo per i medesimi reati. Non furono considerate prove.
Per la Corte le risultanze furono ritenute sufficienti per richiamare l’articolo 51 del Codice
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Penale di Guerra, che prevedeva la condanna a morte, ma in considerazione del ruolo subalterno del Capineri optò per 24 anni di reclusione (4-12-45).
Questa volta, però, la Cassazione non risulterà salvifica. Verso la fine del 1946 respinse il
ricorso e condonò un terzo della pena. Sulla stessa linea la Corte di Appello di Bologna che
nel luglio del 1948 abbonò un altro terzo e nel febbraio del 1950 un altro anno. Il che significa: 24 meno otto, meno otto, meno uno: 7 anni. Uscita prevista alla fine del 1952.
Uno studente ed un analfabeta
Reggi Edgardo era uno studente nel dicembre del 1943, quando s’iscrisse al Partito
Fascista Repubblicano. Aveva appena sedici anni, essendo nato nel 1927 da Giulio (fascista
convinto e squadrista) e da Cecchina Tarlazzi. Diciassette quando nell’aprile del 1944 andò
in Germania, dove rimase otto mesi nella “Divisione Italia”, per poi seguire i tedeschi fino
alla fine della guerra, a combattere i partigiani e gli alleati in Garfagnana, sulla Linea Gotica.
Le scuole di Lugo non l’avrebbero più visto, poiché il giovane al momento della cattura
aveva residenza a Castelletto di Bressanone. Non avrebbe neppure avuto guai, nonostante il
curriculum militare, se la Polizia partigiana di Lugo non avesse lavorato in modo sistematico e se il già citato Agenore Costa non fosse stato dotato di una memoria di ferro. Infatti,
quando questi fu catturato nel marzo del 1944 in una retata, dopo l’uccisione di un fascista,
e condotto dalle 17 alle 22 presso la sede del Fascio di Lugo, prima del trasferimento in carcere, “fotografò” tutti i sorveglianti in arme e ne memorizzò i nomi. Nessun dubbio: lo studente era tra i guardiani. Non sbagliò, visto che il Reggi ammise la presenza.
Ma non era in servizio. Per la Corte fu sufficiente. Controllare armati prigionieri politici
costituiva collaborazione. Anni dieci, ridotti a tre, mesi otto, giorni dieci, date le attenuanti
(giovane età, ordini ricevuti, educazione in clima fascista). La Cassazione fu di diverso avviso ancora prima della legge sull’amnistia. Diverso probabilmente sarebbe stato il suo destino processuale se avesse dovuto rispondere, assieme ai tedeschi, delle repressioni e delle
stragi avvenute in Garfagnana. Ma questa è un’altra storia, ancora da scrivere.
Da ultimo, c’è da dubitare che il Reggi, abbandonati gli studi per due anni, sia ritornato
sui banchi di scuola di Lugo. Due anni persi, anche se la vita militare in cambio gli aveva consentito di imparare le lingue (come in futuro diranno i manifesti pro arruolamento). Per lui
quella tedesca.
Bilingue era anche Brighi Augusto, fu Rinaldo e fu Sandoli Rosa, originario di Cesenatico,
un vecchio, classe 1888. Bilingue, ma analfabeta, che forse aveva imparato il tedesco all’inizio del secolo, quando molti italiani emigravano più o meno stagionalmente. Di mestiere
faceva il garzone agricolo. Scarso reddito e poche soddisfazioni, per cui, con l’arrivo dei
nazisti, il Nostro intravide un’occasione unica di guadagno e di prestigio. Divenne così interprete, assistente di cucina e, a tempo perso, spia. Anche garzone agricolo, se poteva servire
a denunciare imboscamenti di merci. Si compiacque del suo ruolo, tanto che più volte si
lamentò della scarsa mercede ricevuta dai crucchi e minacciò di cambiare padrone e di mettersi a disposizione dei fascisti.
Ingenuo o chiacchierone, aveva nel frattempo attirato l’attenzione del controspionaggio
partigiano o di un generico rapinatore. Accadde così che la sera del 5 marzo del 1945 fosse
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raggiunto da numerosi colpi d’arma da fuoco alla testa. Si ritrovò, trasportato dai tedeschi,
all’ospedale di Massalombarda, ferito gravemente e senza le 9951 lire che aveva in tasca.
Riconoscenti per i servigi, i teutonici lo accompagnarono in seguito nei nosocomi di
Medicina, Faenza, Quinto e S. Carlo di Verona. Quasi fosse uno dei loro.
Inevitabile che dopo la Liberazione si presentassero numerosi testi, vittime di soprusi
tedeschi e fascisti, ad indicarlo come responsabile di delazione. Purtroppo le carte processuali sono insolitamente avare sui luoghi dei suoi crimini (si dice, genericamente, in provincia di Ravenna), ma, poiché il Brighi fu denunciato dalla Polizia partigiana di Lugo e trasportato quasi in fin di vita a Massalombarda, si può concludere che egli avesse operato in quest’ultima zona.
Era successo che a casa di certo Bartolomeo Testi erano arrivati i tedeschi a sequestrare
60 quintali di zucchero. Merito suo, come il Nostro aveva raccontato ad un altro interprete,
Mario Martelli. Il Testi era stato arrestato dopo il citato agguato notturno del 5 marzo come
probabile sparatore, anche se il Brighi in quell’occasione lo aveva escluso dai sospetti.
Ancora, la spia-chiacchierona aveva riferito a tale Berto Liguerri (?) che, su ordine del
maggiore Santucci, si era sistemato come garzone presso la famiglia Cassani, al fine di farne
arrestare il figliolo, se avesse venduto clandestinamente una scrofa all’oste Andrea Zanotti,
presso il quale il Brighi era solito consumare i pasti e pernottare (!). Analoga bravata ai danni
di un contadino. In dibattimento, la Rosa Cassani aggiunse che il Maresciallo dei Carabinieri
l‘aveva preavvisata sui veri compiti dell’imputato, stipendiato dai nazifascisti.
La Corte concluse che la pena congrua doveva essere di dieci anni di reclusione, ridotta
a quattro, in considerazione dell’età, della totale mancanza di cultura, dello scarso “senno
morale” e delle fragili facoltà mentali (6-12-45). Il seminfermo mentale uscirà dopo otto mesi
per amnistia.
L’area più pericolosa: Alfonsine, Conselice, Fusignano, Lugo, Massalombarda
Per raccontarne la storia, dalle lontane lotte contadine agli scontri con gli squadristi, dalle
organizzazioni “sovversive” sotto Mussolini alla Resistenza armata, non basterebbero molte
pagine. Fu un cammino duro, segnato da conquiste salariali e sociali, da vittorie elettorali e
sconfitte drammatiche, da umiliazioni cocenti, da perdite in vite umane e materiali. Decisiva,
sempre, la diffusa solidarietà. Il Regime mai potrà dire di avere conquistato questi territori
e le loro popolazioni. Un discorso parzialmente diverso meriterebbe Massalombarda, meno
oppressa dall’ “Agraria” e dove già si era affermata l’agro-industria. Più simili, invece, le zone
basse del comune di Lugo, del resto confinanti o integrate con quelle dei territori sopra citati. Un’identità che, in parte, veniva da lontano, da quando le campagne e le case tra il Reno
e il Senio, talora fino al Lamone, portavano le insegne dei nobili di Ferrara. La zona, infatti,
con qualche variazione di confine, rimase fino alla fine del Ducato Estense, incorporata nella
provincia di Ferrara. La vicina Ravenna non ebbe mai titolo, neppure sotto lo Stato Pontificio.
Bisognerà attendere il Regno dei Savoia per vedere la Romagna ferrarese (così era chiamata) passare sotto i “bizantini”. Anche durante il fascismo, delle origini o al potere, e specialmente a Lugo, forti rimasero i legami dei “neri” con i camerati di Ferrara. Non a caso si ricorse più volte a Balbo, quando gli squadristi del luogo non riuscivano a fiaccare del tutto la
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resistenza dei “rossi”. Non è neppure un caso che il giornale più letto fosse “Il Corriere
Padano”, di proprietà di Balbo, e che molti funzionari del Partito fascista e dello Stato avessero casa all’ombra del Castello Estense. Accadrà pure con la Repubblica Sociale. Di segno
opposto i legami della sinistra, che guardava a Ravenna, la cui influenza arrivava fino a Filo
d’Argenta, agevolata prima dalla comune esperienza cooperativistica e poi dai collegamenti
organizzativi nel periodo fascista, consolidatisi con la lotta partigiana. Il passato e il presente di questa realtà non erano sfuggiti ai gerarchi repubblichini del capoluogo e neppure a
quelli locali. Altissimo il numero dei renitenti, ostilità esplicita della popolazione, controllo
solo parziale del territorio, sabotaggi quotidiani, attentati, uccisioni di militi. Inoltre, il consenso era venuto meno anche da parte dei vecchi benefattori e i poveracci, che aderivano
alle B.N., preferivano altre destinazioni. Diventò inevitabile rafforzare i presidi, là collocati,
con Camicie Nere esterne, più motivate o più irresponsabili. In tal modo, vi confluì una
manovalanza più sanguinaria che altrove, pronta alle devastazioni e agli omicidi, aiutata dai
tedeschi ivi particolarmente attivi e violenti. E le conseguenze si videro.
Date queste premesse, è evidente che coloro che erano rimasti sempre in zona durante
la lotta partigiana avevano rischiato molto di più, poiché era più facile conoscerne le abitudini e tendere loro agguati. E con la Liberazione (arrivata 4 mesi dopo Ravenna, non va mai
dimenticato), in molti ricorderanno le presenze e le gesta. Numerosi i testimoni in Corte
d’Assise, forse non tutti in buona fede. Comprensibile date le immani sofferenze patite. Vari
gli equivoci: confusioni di nomi, di date, di situazioni, di sentito dire. Va da sé che forti proteste scattarono a fronte d’alcune assoluzioni o di condanne ritenute offensive. I volti potevano essere anonimi, ma le divise no. Tutti i repubblichini dovevano pagare non per un fatto
specifico, ma per una serie ventennale di soprusi e di lacerazioni: l’olio di ricino, il sangue e
le distruzioni degli anni venti-ventidue, gli arresti, il confino, il carcere, le botte e i morti degli
anni successivi, le guerre lontane e vicine con il loro carico di violenze subite ed inflitte, le
umiliazioni quotidiane, le conversioni, i tradimenti, le miserie umane, l’alleanza con i nazisti,
la caccia ai giovani di leva e alle loro famiglie, le razzie, le demolizioni e le rappresaglie dei
tedeschi, le deportazioni in Germania di patrioti e di ebrei (da Lugo un numero imprecisato
nella giornata del 21 giugno 1944), il controllo banditesco del territorio, le torture e le fucilazioni, segrete e pubbliche, le paure dei bombardamenti e dei rastrellamenti, la cancellazione
degli abitati, i campi non coltivabili, i rifugi sotto terra e le malattie conseguenti, i morti da
bombe alleate e da granate tedesche e, da ultimo, i corpi dilaniati dalle mine tedesche. Questi
i connotati di una vita durata un quarto di secolo senza soluzione di continuità, qui più che
altrove. Un incubo, interrottosi solo nei 40 giorni successivi al 25 luglio 1943.
Per una parte della popolazione poteva bastare. E se, in altre località della provincia c’era
chi pensava che quella del Tribunale di Ravenna fosse l’unica giustizia possibile, in quest’area forte era la tentazione di far ricorso alla giustizia diretta, del resto iniziata già all’indomani della Liberazione. E le conseguenze si videro. Furono portati lutti nelle case d’uomini
dalle evidenti responsabilità, come dalle colpe limitate. Talora pagarono anche degli innocenti. Il numero delle vittime non è mai stato quantificato. C’è chi parla di circa duecento
persone uccise in tutta la provincia, di cui i due terzi in questo triangolo. I colpevoli, e non,
furono arrestati, processati e spesso condannati, senza beneficiare dell’amnistia e di quelle
attenuanti che la legge prevedeva, ampiamente concesse invece ai repubblichini.
Gli ex partigiani finirono così con l’entrare (dopo il 1948) nelle stesse celle da cui uscivano quotidianamente gli ex brigatisti neri, compresi quelli raggiunti da condanne capitali.
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Un capitolo di storia giudiziaria conclusosi verso la metà degli anni sessanta.
Vicenda tragica, che ciclicamente richiama l’attenzione di politici e di studiosi, portati in
genere ad isolare le vendette dalle cause scatenanti e/o a ridurre i misfatti del fascismo al
periodo repubblichino. Dalla parte opposta, invece, in nome della lotta di Liberazione si preferisce talora ridimensionare il fenomeno nel timore di un’ingiusta equiparazione dei morti.
Così i primi, tralasciando i valori che animavano i partigiani, conquista delle libertà negate
nel 1922 e cacciata dei tedeschi, si focalizzano sulla “guerra civile”: espressione poco gradita o esclusa dai secondi. Indubbiamente fu anche guerra civile, in cui l’odio accumulato in
25 anni di oppressione non poteva esaurirsi nelle radiose giornate dell’aprile ‘45. Se fu guerra civile, durò un quarto di secolo e non i venti mesi di Salò.
Ma il tema in questione non è l’oggetto di questa ricerca. Ritorniamo ai processi.
Un caso minore
Nel dopoguerra, ovviamente, non corsero pericoli quei repubblichini forestieri che erano
rimasti in zona per brevissimo tempo, senza macchiarsi di gravi delitti, e poi erano stati spediti in province lontane. Accadde, quindi, come già documentato, che essi, pur avendo partecipato a rastrellamenti e ad altro, avessero la possibilità di farla franca, in tutti i sensi.
In questo schema rientrava, forse, un giovane muratore di Ravenna, Vicari Costante, di
Primo e di Montanari Francesca, classe 1924. Egli non perse un giorno di guerra antipartigiana, dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1945. In divisa della GNR fu a Ravenna, Alfonsine,
S. Pietro in Vincoli, Gambellara. Poi, come aiutante del Capitano Cartarocchie (?), a Brescia,
Milano, Como e Chioggia. Ebbene, si troverà implicato solo in perquisizioni ed arresti avvenuti ad Alfonsine in seguito all’uccisione di un fascista, per cui diversi uomini trascorsero
due mesi in carcere.
Finì bene per tutti ed ancora meglio per Vicari, imputato di collaborazionismo e assolto
per insufficienza di prove. Decisiva a suo favore la testimonianza di un patriota locale, Paolo
Marchetti, che, arrestato per avere picchiato un fascista, aveva goduto del suo interessamento ai fini della liberazione. Semplice attività di polizia, sentenzierà la Corte (4-9-45).
Una storia particolare
Quante storie simili, quasi da venire a noia. In parte dipende dalla lettura delle sentenze,
rivolte all’essenziale e che poco concedono alle specificità delle singole avventure. Eppure,
se si potessero ricostruire i vari contesti, i rapporti tra camerati, la casualità delle scelte, si
scoprirebbero drammi e contraddizioni, slanci e paure indicibili. Accontentiamoci.
Ne avrebbe avute da raccontare Drei Alfredo, nato a Ravenna nel 1911, da Domenico e
da Teresa Baraga (o Braga). Si era guadagnato da vivere come portuale e talora aveva arrotondato con sotterfugi, beccandosi alcune condanne per furto e ricettazione. E non stava
mai zitto, neppure sulle questioni politiche, il che lo aveva reso un confinato politico. Con
l’arrivo dei tedeschi non scelse la montagna e rimase al suo posto. Ma allora non era con-
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cesso, o di qua o di là. E il Drei, temendo ulteriori guai politici, nel marzo 1944 prese la tessera del Fascismo repubblicano. Non bastò e così ad aprile si ritrovò nella Compagnia della
Morte di Ravenna. Breve fu il soggiorno, neanche un mese. Poi in Germania ad addestrarsi
per la guerra vera. Fu una naia vera, piuttosto lunga, dati i tempi. A dicembre, infine, in
Garfagnana nella “Divisione Italia”, in prima linea a fronteggiare gli alleati. Furono quattro
mesi duri, sotto i bombardamenti e gli agguati partigiani, e il 9 aprile 1945 rimase ferito.
Breve la convalescenza in un ospedale nei pressi di Milano. Una provvidenziale licenza gli
consentì di prendere la strada di casa. Ma quelli non erano giorni facili per nessuno, figuriamoci per uno, conosciuto in città, partito per la Germania volontariamente. Il passato non
contava, anzi! Specialmente se con esso si era rotto per passare dall’altra parte. Il 2 maggio
fu fermato dai partigiani locali e dopo 40 giorni fu associato alle carceri. S’indagò sulla breve
parentesi ravennate e saltò fuori che il Nostro aveva partecipato alla cattura di una donna,
sospettata di distruzione di manifesti antifascisti, tale Adegonda Tampieri, e a varie perquisizioni domiciliari, tra cui una nell’abitazione di un’altra donna, Lina Rossi, alla ricerca di un
partigiano. Non solo: fu visto in quel di Lugo in servizio d’ordine pubblico. E, da ultimo,
accusa pesantissima: complicità nell’uccisione dei fratelli Chiarini di Massalombarda in data
19 maggio 1944. Per sua fortuna, al processo il Drei riuscì a dimostrare che quel giorno si
trovava già in Germania.
Viste le attenuanti, generiche ovviamente, dati i precedenti poco raccomandabili, se la
cavò con la reclusione a sei anni e otto mesi. Dulcis in fundo, la condanna previde anche la
confisca definitiva a favore dell’Erario della somma che aveva con sé al momento del fermo,
lire 18.725. Nelle carte non vi è traccia di amnistia. Errore o diverso destino?
In piena estate
Si parla di quella del 1945. Era il mese di luglio e la vita economica e politica era più intensa che mai. Nei comuni a nord di Ravenna, dove la guerra aveva colpito più duramente e a
lungo, non era certamente esaurita la caccia ai fascisti. E come poteva? I più compromessi si
erano dati alla latitanza, o erano morti, o si trovavano in carcere. Era naturale quindi che chi
non aveva colpe se ne stesse tranquillamente in paese, più o meno tollerato a seconda delle
passate simpatie.
Uno di questi, non più giovane, classe 1893, si guadagnava da vivere come meccanico a
Conselice. Si chiamava Grandi Alfeo, fu Pietro e fu Bianca Brazzetti. Era favorevole alla sinistra, anche se una figlia portava il lutto per la perdita del marito, Davide Ricci, un repubblichino ucciso dai partigiani il 2 aprile del 1944. Con il genero, quel giorno, era stato ucciso
anche il Segretario politico del Fascio locale, Alfredo Graldi. Naturale la reazione dei fascisti,
alla caccia per campi e strade fin dall’indomani. Operazione, però, piuttosto strana, condotta prevalentemente in auto. Una andò in via Predola, una seconda nel centro di Conselice,
una terza in via Coronella. Su quest’ultima c’erano un certo Livio e Mario Ricci, fratello di
Davide. All’invito di unirsi a loro per la vendetta, il Grandi non poté sottrarsi. I tre videro un
uomo che correva e gli spararono più volte, ad ogni apparizione. Lo mancarono. Il fuggiasco, un partigiano di nome Dario Negrini, non dimenticherà la paura e in pieno luglio riuscirà a sapere che anche il suocero del Ricci aveva sparato. Non lo poté smentire il Nostro,
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che si giustificò dicendo di avere usato una pistola che si trovava sull’auto. Alla Corte (20-945) non interessò saperne di più. Andava escluso ogni movente politico, quasi a dire che
tutti si sarebbero comportati nello stesso modo. Una semplice questione privata, non di
competenza, non sussistendo l’elemento soggettivo della collaborazione con il tedesco.
Le carte ritornino al PM e il meccanico ritorni a riparare le biciclette.
Per un po’ di sigarette
Per rappresentare le difficoltà del vivere quotidiano in tempo di guerra, bombardamenti
e rastrellamenti a parte, solitamente si parla della carenza di generi alimentari, di legname,
di pezzi di ricambio, di biciclette, sovente sequestrate. Ma per gli uomini un problema altrettanto drammatico era il fumo. Poche, costose e razionate le sigarette. Erano affari per i non
fumatori, poiché forte era la tentazione allo scambio con generi di prima necessità.
Privilegiati, ovviamente, erano i fascisti in divisa, invidiati ed odiati anche per questo, come
riferivano persino i Podestà o i Commissari prefettizi. Spesso disperati i partigiani alla macchia, affamati di mitra e di tabacco. Succedeva a volte che seguendo le strade del commercio di sigarette si arrivasse a qualche imboscato. Come erano belli i giorni dei fronti in terre
lontane, quando i nostri soldati andavano orgogliosi, a ragione in questo caso, di fumare
meglio dell’alleato tedesco e anche degli inglesi! Quasi inevitabile che l’argomento entrasse
in qualche processo. Lo poté raccontare il detenuto Di Serio Vito, di ignoto e di Marianna,
nato a Matera, ma residente a Ravenna, dove si guadagnava da vivere come custode, per
meriti di regime.
Classe 1901, coniugato con prole. Volontario della Milizia, con essa in Africa Orientale e
poi in Libia dal 1940 al 1942, tra i pochi fortunati a non cadere prigioniero degli inglesi.
Comune ad altri il suo curriculum sotto Salò: dall’aprile del 1944 nella GNR, destinato
prima alla Tenenza di Alfonsine e poi a quella di Cervia (in sostituzione o in collaborazione
con i Carabinieri). Infine il salto nella Brigate Nere, a Ravenna, Nogara, Orgiano, con arresto
a Lonigo. Un anno intero con i camerati ravennati. Dato il mestiere, spia era in tempo di
pace e spia divenne con i repubblichini, almeno questo era il pensiero degli accusatori.
Delatore sia per i tedeschi, sia per la federazione fascista, con conseguenti rastrellamenti.
Imputazioni credibili. Ma l’unica colpa provata fu un’altra. Era successo ad Alfonsine che il
contropotere resistenziale avesse trovato in caserma un collaboratore, il vice brigadiere
Riccardo Stracca, il cui compito era quello di manipolare le carte per consentire un maggiore afflusso di tabacco, da distribuire ai partigiani nascosti. In un caso, sul buono scrisse 18 al
posto di 3, diciotto Kg. di sigarette AOI (Africa Orientale Italiana), una marca quasi disfattista, che ricordava a tutti che le colonie se n’erano andate in fumo, in tutti sensi. Di Serio lo
scoprì. In seguito la refurtiva recuperata sarà distribuita ai militi, dietro pagamento, a suo
dire. Sfugge però un dettaglio. Non si capisce se il Nostro avesse agito di concerto con i
superiori o se avesse cercato di fare il furbo. Fatto sta che intervennero il Sottotenente
Cappelletti e il Tenente medico Montanari a mettere le cose a posto, con scorno degli antifascisti e festa per le Camicie Nere. Ignoto il destino dello Stracca, quasi certamente all’origine della successiva denuncia.
Non dimostrata la più grave accusa (di delazione), solo congetture, la Corte non vide
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traccia di collaborazionismo nel fatto appurato, di natura privata, benché la merce fosse
destinata ai rivoltosi. Insufficienza di prove per gli altri capi d’imputazione (25-9-45).
Da Cervia ad Alfonsine
Non era la stessa cosa vivere a Cervia, con stipendio da impiegato o combattere per la
causa nazifascista ad Alfonsine. Incomparabili pure la vita paramilitare nell’Opera Nazionale
Balilla e la caccia ai banditi in uno dei luoghi più pericolosi della provincia, dove, nonostante la rassicurante copertura tedesca, le ore trascorrevano nell’insicurezza e nella paura.
Fu proprio questa l’esperienza del giovane Antonelli Antonio, fu Romeo e di Monica
Lucchi, un cervese, classe 1924, celibe. Dapprima in artiglieria, poi dal luglio nelle Brigate
Nere, alle dipendenze del Segretario del fascio di Alfonsine. Di giorno a studiare strategie e
a mettere in atto operazioni di contenimento e di lotta ai ribelli, di notte ad eseguire rastrellamenti o a riposare con un occhio sempre aperto. Le caserme nazifasciste soffrivano di
sovraffollamento e di conseguenza i rinforzi dovevano trovare sistemazione altrove, presso
case private. Nessuno però era in grado di garantire la sicurezza dei militi, pur numerosi ed
armatissimi. Al Nostro, assieme a diversi camerati, era capitato come rifugio un’abitazione a
500 metri dal paese. Luogo in apparenza tranquillo, anche se non si poteva giurare che i
ruoli tra “guardie e ladri” non si potessero invertire. Accadde così che la notte del 1 settembre ‘44 i repubblichini fossero svegliati da deflagrazioni. Sembrava un bombardamento.
Invece si trattava di bombe a mano, gettate tra i letti. E la sorveglianza? Numerosi risultarono i feriti, compreso il Nostro, che dovette subire un’operazione ad un occhio. Guarito e
forse desideroso di vendetta, l’Antonelli rimase in divisa fino alla fine, arrendendosi solo a
Novara, agli alleati. Destinazione un campo di concentramento del Sud, mai raggiunto, poiché il giovane riuscì, in quel di Mantova, a darsela a gambe. Gioia breve, perché ai primi di
giugno fu arrestato a Cervia. I compagni di Alfonsine non avevano dimenticato.
La Corte non se la sentì di condannare uno che risultava vittima nell’unico episodio
dimostrato. Il fatto non sussiste (28-9-45). Antonelli non poté che ringraziare, tanto più se,
negli otto mesi successivi all’incidente, si era rifatto, pareggiando i conti.
La vendetta del calzolaio
Risuolava scarpe ad Alfonsine, suo paese natale, il ventiseienne Ancarani Natale, di
Eugenio e di Giovanna Mingozzi. Lo conoscevano tutti e perciò, quando fu chiamato alle
armi nella GNR, chiese di essere impiegato fuori di casa, magari in un paese vicino. Fu accontentato in parte, con la collocazione nei presidi di Ravenna e di Fusignano. Nel settembre
del 1944 cambiò aria e compiti, lavorando nel ferrarese a costruire fortificazioni sul Po sotto
i tedeschi. Fece bene perché di lì a poco l’asse Fusignano-Alfonsine vivrà una delle fasi più
cruente e tragiche dell’intera Campagna d’Italia. Per mesi fuoco dal cielo e da terra, pericoli ovunque e per tutti. L’inferno si concluse pochi giorni prima della Liberazione dell’intera
Valle Padana, lasciando solo macerie, perfino nelle case coloniche. Rasi al suolo i due cen-
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tri. Ma, mentre si susseguivano gli ultimi funerali e le commemorazioni dei caduti nella lotta
antifascista, già si pensava alla ricostruzione.
A Fusignano, presente una folta delegazione di Alfonsine, il 5 maggio 1945 il ricordo andò
ad Adriano Zoli (classe 1923), ucciso esattamente un anno prima, nel pomeriggio, alla
Rossetta, località intermedia tra i due borghi. E, quasi per caso, nella stessa giornata fu catturato il nostro calzolaio, ritenuto responsabile dell’omicidio.
Che cosa era successo? Il 5 maggio del 1944 nella sede del Fascio di Alfonsine era stata
allestita la camera ardente per Leonardo Ancarani, zio di Natale, fascista, ucciso in località
Marina. Natale, presente, dopo le condoglianze alla famiglia se n’era andato senza partecipare alle esequie e senza profferire parola alcuna, men che meno di vendetta, come dirà.
Poche ore dopo, un furgoncino con cinque uomini a bordo, tutti in borghese, entrò nel
cortile di una casa di contadini, nella frazione di Rossetta, abitata dalla famiglia di Guido Zoli.
Erano circa le 16, 30. Mitra alla mano, i cinque, chiesto fuggevolmente del capofamiglia, si
diressero verso un capanno d’erba palustre, collocato a poca distanza. In esso erano soliti
nascondersi tre giovani, Armando Ravaioli con Silvio e Adriano Zoli, due cugini. Non erano
combattenti partigiani, ma semplici renitenti alla leva. I tre giovani, vistisi braccati, uscirono
rapidamente dalla parte posteriore che dava verso la campagna, fatti oggetto da colpi di
mitra sparati da due inseguitori, Antonio Pavirani e l’Ancarani stesso. Due si fermarono poco
dopo con le braccia alzate, il terzo, Adriano, proseguì nella fuga disperata fino a raggiungere un fosso. Salvo? No, poiché i due fascisti stavano proseguendo proprio nella sua direzione. Fu inevitabile uscire dal provvisorio nascondiglio, in segno di resa e diretto verso i compagni. Giunto a 40 metri, egli fu freddato dall’Ancarani. Il padrone di casa e gli altri finirono
in carcere a Ravenna, da cui Guido uscì dopo qualche giorno per tornare alla Rossetta e i
due compagni del morto con destinazione Germania. Al processo, il Nostro negherà tutto,
tranne il servizio e i lavori a Po. I giudici saranno di parere contrario, confortati in questo da
molteplici testimonianze: i due sopravvissuti, una donna, Teresa Leopardi, che aveva visto
passare il furgoncino diretto ad Alfonsine con l’Ancarani a bordo, Antonio Melandri anche
lui sul luogo del misfatto, cui erano stati chiesti i documenti, ed infine Cesare Zoli, padre
della vittima, che aveva assistito all’intera tragica sequenza. Nessuno sarebbe potuto cadere
in equivoci, data la notorietà del calzolaio, nipote di Leonardo, l’odiato caporione, seppellito da poche ore.
Durissima la condanna ed inaspettata, nonostante in narrativa esista un accenno allo spirito di vendetta scaturito per l’uccisione dello zio. Morte con fucilazione alla schiena per chi
aveva reso “cadavere” il giovane Adriano, malgrado la resa.
L’estratto della sentenza (23-10-45) verrà affisso nei comuni di Bagnacavallo, Alfonsine e
Fusignano, nonché sui giornali “Romagna proletaria” e “Democrazia”. Punizione sicuramente severa, se si pensa ad altri fascisti, imputati di numerosi reati più gravi e ripetuti, e senza
attenuanti. In questo caso, la giuria forse fu condizionata dall’ambiente, che chiedeva vendetta. Occhio per occhio. E così fu. Nessuna attenuante.
Sbagliarono i giurati (Peveri, Ancarani Aurelio, Bartolazzi Pirro, Pirazzini Cesare, Morigi
Antonio), dirà la Cassazione, che il 3 dicembre dello stesso anno annullerà la sentenza, non
per il merito, ma limitatamente alla mancata motivazione del rifiuto delle attenuanti generiche. Rinvio alla Corte di Assise straordinaria di Ferrara. Poi, da quel che si capisce il nuovo
processo si concluse con una condanna ad anni trenta di reclusione, ridotti a 24 da una
nuova pronuncia (in Appello?) di Ravenna o di Bologna. Sta di fatto che a gennaio del 1950
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si fecero i conti definitivi, riepilogando i benefici derivanti dalle leggi del 1946 e del 1948. 24
anni, meno un terzo, meno un altro terzo, uguale otto. Il che significa che il 5 maggio del
1953 il calzolaio di Alfonsine ritornerà libero.
Massalombarda, 19 maggio 1944
Talora i fascisti colpivano in modo preordinato, secondo una logica politica o militare,
altre volte per ordine tedesco, talora d’impulso, con rabbia e animati da spirito vendicativo.
Il massimo di furore di solito esplodeva quando qualcuno dei militi veniva offeso nel
parentado (capitava facilmente che intere famiglie fossero in camicia nera). Dente per dente
pure se a cadere era un commilitone amico o un capo. In questi casi, poche valutazioni sull’opportunità o meno di agire, sui tempi, sugli obiettivi da scegliere. Se a disposizione non
si trovavano prigionieri, si correva presso le abitazioni di antifascisti noti (“troppo tollerati”),
e si agiva con rapida crudeltà. Poco importava che le vittime predestinate fossero del tutto
estranee alle offese subite.
Bisognava sfogarsi in giornata, anche per non demoralizzare i camerati più convinti. Se
le forze erano insufficienti si ricorreva al soccorso esterno. Poi, si sarebbe reso il favore.
Versare sangue in compagnia rafforzava i legami di solidarietà e di complicità, un collante
ideale per evitare diserzioni. Siamo nel maggio del 1944, a Massalombarda. Ore 12, 30 del
giorno 19. Il Segretario del Fascio, Dal Pozzo, viene ucciso dai partigiani. Nella sede del partito si crea agitazione. Tutti chiedono vendetta, dai dirigenti agli impiegati. Il capo ora è
Mario Randi, già vice di Dal Pozzo. Per prima cosa ordina alla popolazione di non uscire di
casa e manda un messaggero a Lugo. Poi, alle 13, 30, chiama a sé un certo Mondini e il giovanissimo Luciano Falconi, non ancora diciassettenne. E via a casa dei fratelli Dalle Vacche,
Ettore e Leo. La solita perquisizione, infruttuosa. Alle16, 30 arrivano da Lugo i rinforzi richiesti, con a capo Vistoli. Misure più spicce e risultati concreti. Saccheggio e incendio dell’abitazione. I due fratelli sono costretti ad uscire dal nascondiglio. Ettore viene freddato e Leo
ferito gravemente. Morirà dopo due giorni all’ospedale.
Non contenti i lughesi, ispirati dai locali, puntano verso lo stabilimento di proprietà di
Arturo Chiarini. Un finanziatore dei partigiani? Morte anche per lui.
Chi era il Falconi, quale il suo ruolo? Era uno studente, figlio di un fascista convinto ed
ex squadrista, di nome Aurelio, e d’Ada Dall’Osso, nato nell’ottobre del 1927. A sedici anni
il salto: lascia la scuola e s’iscrive, nel novembre del 1943, alle organizzazioni giovanili fasciste. Il padre, impegnato in Piemonte, approva e il giovane è assunto dal partito di
Massalombarda in qualità di fattorino. A luglio si stanca del paese e con la madre raggiunge
il padre a Mondovì, arruolato nelle SS italiane.
Per il Nostro saranno dieci mesi di lotta antiguerriglia nelle valli e nelle basse piemontesi, a Portignano (?), e a Novara nei bersaglieri. Nei giorni della disfatta si trova a Lecco, dove
i partigiani lo arrestano. Nulla ovviamente sanno di lui e per la giovane età ben presto lo liberano. Ci penserà la Questura di Ravenna a riportarlo, a luglio, in carcere. Il 30 ottobre 1945
(un giorno prima del compleanno), il processo.
Contro di lui l’accusa di correità nei delitti di cui sopra. Lui non aveva partecipato materialmente alle rappresaglie compiute dai lughesi, ma era stato visto (teste Margherita
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Ventura) nei paraggi, in entrambi i casi.
Colpevole. Anni dieci, ridotti a sei per la giovane età. Troppi. Amnistia obbligata. Che n’è
stato del padre? Di quali crimini si macchiarono in Piemonte i reparti in cui operò il giovane Luciano?
Le tentò tutte, ma…
Che Luigi Franti fosse fascista da sempre non c’erano dubbi. Iscritto dal 1936, nella
Milizia dal 1938. L’armistizio lo aveva sorpreso in Slovenia ed egli non era riuscito a sfuggire
alla consueta alternativa posta dai tedeschi. Scelse l’Italia a costo di combattere per una
causa che ormai considerava persa. Una breve licenza e poi in divisa della GNR vicino a casa,
a Cotignola. Lui era di Massalombarda, nato nel 1914 da Augusto e da Teresa Rubbi. Di guerra n’aveva fatta tanta e se proprio doveva continuare a farla, tanto valeva fingere di combattere nei luoghi natii. E così, quando fu mandato a Venezia, scattò la molla giusta. Prima la
fuga, poi in ospedale e da ultimo, nel settembre del 1944, la diserzione verso la Toscana più
prossima alla Romagna, nel fiorentino, già liberato dagli alleati. In pace, finalmente. Ma,
dopo 13 mesi, nell’ottobre del 1945 fu arrestato con l’accusa di collaborazionismo e di partecipazione ad un omicidio. Era successo che al tempo del servizio a Venezia ottenesse una
licenza. Una breve licenza, solo 24 ore. E il Nostro, a costo di passarle tutte in viaggio, aveva
puntato verso Massalombarda, ove giunse il 31 maggio ‘44. Ma abbracci e baci furono tosto
interrotti da un perentorio ordine del Capo delle Brigate Nere locali: all’alba dell’indomani
presentarsi alla Casa del Fascio per un’operazione urgente, che richiedeva molto personale.
Non si accettarono scuse. Ah, se fosse rimasto in Laguna! E, alle cinque del mattino del 1°
giugno (nelle carte, 1 maggio), partenza per Conselice. Giunto sul luogo dell’appuntamento, il Franti chiese al comandante delle operazioni, il Colonnello Santucci, di essere esonerato. “Taci, lavativo”, fu la risposta. Inutile anche il tentativo di ottenere un incarico defilato,
lontano dal rastrellamento, magari ad un posto di blocco. Gli toccò la guardia ad un ponte,
distante circa un chilometro dal cimitero. A fine giornata furono catturati alcuni uomini,
subito spediti al Carcere di Ravenna. Ma non mancò il morto, un giovane fucilato presso il
locale cimitero, colpevole di detenere una pistola. Si chiamava Luigi Brini (classe 1919).
La responsabilità del Nostro era modesta, ma la partecipazione ad un’azione complessa
di polizia richiedeva necessariamente diverse mansioni per raggiungere gli scopi. Attenuanti
sì, ma nessuna innocenza. Cinque anni invece di dieci, visto anche la sua successiva diserzione. Sentenza in data 20-11-45, cancellata dopo 9 mesi dalla Cassazione.
Che brutta licenza!
Da Arsiè ad Arsiè, via Lavezzola
Il regime, nel suo tentativo di monopolizzare la formazione della gioventù, si era mosso
a largo raggio, dalla scuola al tempo libero, dallo sport alla cultura, alle esercitazioni paramilitari. Obiettivo: ottenere uomini con totale fiducia verso il Duce e pronti a combattere per
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una patria sempre più forte e temuta.
Dall’Agnola Rino, di Giovanni e di Agnese Delle Caldognetto, era un ragazzo bellunese,
nato ad Arsiè sul finire del 1927, uno studente, aggregato nel 1943 ad un Collegio della
Gioventù Italiana Littoria, sito a Faenza, città dove pure il Duce aveva studiato in collegio.
Che onore! Il direttore doveva essere sicuramente un fanatico, che, come alcuni presidi italico-romani, soleva invitare i ragazzi ad abbandonare i banchi per scegliere le trincee. Così,
a sedici anni, nel gennaio del 1944, Rino fu convinto ad arruolarsi nella GNR. In servizio a
Cervia, Lavezzola, Bologna, infine nella contraerea a S. Venanzio di Galliera (luogo strategico fino agli ultimi giorni di guerra).
Nello sbandamento finale raggiunse la terra di origine e si sistemò ad Agordo, accolto da
uno zio. Finalmente una vacanza, dopo due anni di naia.
Purtroppo per lui, di breve durata. Successe infatti che un certo Eugenio Rolfo (non meglio
definito) lo denunciò al Commissariato di PS di Agordo per un fatto accaduto a Lavezzola nella
primavera del 1944. Da qui l’arresto il 7 luglio 1945 e il processo il 27 novembre.
Le cose erano andate esattamente così, viste le concordi testimonianze.
Ore 20, 30, strada delle fornaci, giorno 14 aprile. Due militi in divisa ed armati procedevano lentamente (non si capisce se a piedi), quando sopraggiunsero da dietro altri due giovani in bicicletta.
Alt! Il coprifuoco era scattato da un pezzo ed era vietato circolare in bicicletta. Il controllo documenti spettava ad Enrico Monti, il più vecchio dei fascisti. Accanto a lui il Nostro.
I due fermati, che viaggiavano in maniera sospetta, veloci e distanziati di una ventina di
metri, si chiamavano Edmondo Landi e Giuseppe Gandolfi. Il primo trasportava volantini
antifascisti, il secondo fungeva da copertura. I due militi se ne presero uno a testa.
Al bellunese toccò il Gandolfi, che, vistosi perso, estrasse una pistola e gli sparò.
Ferito al ventre, il Dall’Agnola cadde nel fosso.
Pallottole anche per l’altro milite, quasi impotente. Poi, come in un western, dal fosso
partirono tre colpi di moschetto che lasciarono il Gandolfi “cadavere”.
Coraggiosa la Corte in tale dibattimento. Insufficienza di prove per il reato di collaborazionismo, forse evidente, ed assoluzione piena per l’omicidio, con il riconoscimento della
legittima difesa.
Giusta e naturale, direte voi. Comunque, sentenza inusitata.
Vestito da donna… 2 giugno1944
Perché il diciannovenne Francesco Rubbi puntava verso Canalazzo di Conselice in abiti femminili? Per sfuggire ai fascisti o per altri motivi? Opposte le ipotesi e molti gli interrogativi.
Era pomeriggio e il travestimento non ingannò i repubblichini, che portarono il giovane
alla Caserma Garibaldi di Ravenna, da qui a Forlì, poi a Bologna, infine in Germania.
Facciamo un passo indietro. Il Rubbi, classe 1925, muratore di Conselice, nel dicembre
del 1943 era stato chiamato alle armi e non si era sottratto, ma poco dopo, prima di Natale,
aveva preso il largo. Allora non tutti i renitenti e i partigiani avevano preso la strada delle
montagne forlivesi e faentine; specie nelle basse a nord di Ravenna, tra il Senio, il Santerno
e il Reno, si costruivano rifugi sotto terra e sotto le stalle e quando si poteva si agiva.
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Il Nostro si associò ai ribelli di Lavezzola, comandati da Francesco Ancarani. Tra i colpi
messi a segno, l’uccisione del Segretario del Fascio di Conselice, Alfredo Graldi, avvenuta il
2 aprile del 1944, con successivo brindisi a casa della Sofia Silvestrini. Esattamente due mesi
dopo avviene la cattura del Rubbi sotto mentite spoglie, proprio nella stessa giornata in cui,
al mattino, i rapporti del Rubbi con i partigiani locali si erano incrinati (diffidenze, stanchezza?), fino ad ottenere addirittura il permesso di sganciarsi dal gruppo.
Il 10 giugno ‘44, a Ravenna, sveglia in piena notte alla Caserma Garibaldi di via di Roma
rastrellamento in vista. Ore due partenza di camion di militi della GNR. Ad attenderli a
Lavezzola raparti tedeschi. Molte case vengono setacciate, in particolar modo quelle della
citata Silvestrini, di Alfredo Melandri e di Clemente Ancarani, i cui figli erano alla macchia in
armi. Tutti rifugi noti al Rubbi, perché vi aveva soggiornato. Sapevano ogni cosa gli inquisitori, fatti e conversazioni, comprese le date e la lettura di un Bollettino della “Brigata
Garibaldi”.
L’operazione si concluse con il trasferimento di alcuni (Renzi Dino, Melandri Alfredo e
Ancarani Primo) alla caserma di Ravenna, dove, stranamente, apparve nel cortile il Rubbi, in
borghese, ma armato di pistola e di cinturone. Tradimento? Per i catturati nessun dubbio,
tanto più che lungo il viaggio i militi si erano lamentati che per colpa del “loro amico
Francesco” avevano dovuto fare una levataccia. Convinto della delazione anche Giulio
Giovanardi, nella cui casa un ufficiale, rivolgendosi ad altri giovani catturati, si era espresso
in questi termini: “Credevate che Francesco fosse dei vostri… ci siete caduti… è un vero
milite… vi ha preso bene in trappola”.
I giovani, Gustavo Filippi, Gaspare Cresimanno, Gino Ricci e Mario Pratesi, non potranno mai testimoniare, perché nello stesso giorno (10-6-44) furono fucilati a Giovecca.
Delazione dimostrata per la Polizia Ausiliaria di Lavezzola ed anche per i Carabinieri che
il 23 ottobre 1945 arrestarono il Rubbi da pochi giorni ritornato dalla Germania.
La Corte, in data 18-12-45, rimase convinta a metà. Certa la spiata ai danni di chi lo aveva
ospitato, nessuna relazione con la cattura dei quattro fucilati.
Condanna ad anni dieci per Rubbi Francesco di Aristide e d’Ida Gambetti. Pena ridotta di
un sesto, con una motivazione a dir poco irrazionale e cioè che il Nostro non aveva spifferato volontariamente! Pertanto, otto anni e mesi quattro. Dopo 11 mesi la Cassazione provvederà per il restante.
Nessuna risposta venne al dubbio iniziale, ma in coerenza si dovrebbe pensare che, per
i giudici, il “travisamento” al femminile del muratore di Conselice non fosse frutto di un
accordo con i repubblichini.
Il dottor Ellero da Modigliana (Forlì)
Aveva cambiato pelle il medico condotto di Modigliana?
A diciannove anni, ancora studente, aderente al Fascio del paese, sotto la direzione di un
laureato, Giuseppe Liverani (?), e componente di una squadra d’azione, denominata “La
Disperata”, che scorrazzò dal 1920 in poi per le colline e per i borghi a sistemare i rossi come
meritavano. Fu vera gloria la sua? Nella logica mussoliniana si direbbe di sì, visto che egli per
decenni visiterà i pazienti, mettendo in bella mostra sulla giacca i distintivi di Squadrista,
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Fascia Littorio, Marcia su Roma. Meriti sul campo o frutto di raccomandazioni? A suo dire
solo entrature politiche, ma non si poté nascondere che per alcuni anni egli fu anche
Segretario del Fascio locale e, come se non bastasse, Ispettore nazionale del Partito. Mai nessuna violenza però! Non la pensavano così alcuni paesani, pestati a più riprese da Ellero
Mercatali, ante e post laurea.
Il Luigi Fabbrini, per ben tre volte, nel 1923, nel 1924, nel 1926. Nella punizione del 1924,
venne coinvolta persino la di lui sorella, Annunziata, salvata in extremis dal Maresciallo dei
Carabinieri.
Analogamente poteva raccontare Pietro Gramantieri, “lustrato” il 1 maggio del 1924. E, a
cercare delle vittime di un lontano passato, se ne sarebbero trovate altre, visto che il Nostro,
prima delle ricette, ad alcuni antipatici era solito elargire schiaffi.
Ma la Corte di Ravenna non era mossa da curiosità storico-giudiziarie, nonostante i fatti
ricadessero nei rigori della legge, alla luce del Codice Zanardelli. Dov’erano le querele, dove
i certificati medici delle vittime? Ma, diciamo noi, ci sarebbe voluto un bel coraggio a chiederli ai colleghi del futuro medico o a lui stesso! Fatto sta che il povero Fabbrini dovette
decidere di essere guarito sempre entro i dieci giorni (onde evitare il procedimento d’ufficio), malgrado gli assalitori fossero stati sempre in cinque. Pugni da due giorni cadauno!
Quasi una carezza.
Veramente lodevole quel giorno (6-11-45) il cosiddetto “Tribunale del Popolo”, che, sorvolando sulle violenze squadriste, encomiò il fare del Mercatali che nel 1932, dopo avere
invitato certo Italo Samorè (?), appena rientrato dal Confino di Polizia, ad iscrivere figli e
nipoti all’Opera Balilla, nulla gli fece a fronte di un orgoglioso rifiuto. Un merito, frutto di un
mancato crimine! Ci arrendiamo!
Tralasciamo pure il “primo fascismo”, quello del ventennio, e veniamo al “secondo fascismo”, quello di Salò. Per questo arrivò l’imputazione di collaborazionismo.
Ma quale collaborazionismo? E con chi? Caso mai il nostro medico collaborò solo con i
partigiani e i vecchi antifascisti. E’ vero che era a capo dei repubblichini di Modigliana, ma
subito aveva convocato ad una riunione gli oppositori per concordare il reciproco rifiuto
della violenza. L’uomo ormai aveva una posizione solida e forse, scommettendo sulla vittoria degli alleati, voleva far dimenticare il passato. Non era colpa sua se altri camerati, assieme ai tedeschi, avevano seminato terrore in paese e nei dintorni, verso Faenza, Tredozio, il
Trebbio.
Fatto sta che il Nostro, restando al suo posto, si attivò a più riprese per soccorrere quanti cadevano in disgrazia. Chiedetelo a don Gino Savelli, catturato dai fascisti nella primavera
del 1944. Chiedetelo a Giulio Santandrea e compagni, arrestati il 22 giugno dello stesso
anno e condotti alla Rocca delle Caminate. In vero, la risposta, ammesso l’esito positivo dei
suoi interventi, l’avrebbero dovuta dare i sequestratori, ma ai giurati di Ravenna le sue parole potevano bastare.
Prescritto il passato da squadrista, tanto più che il Fabbrini aveva perdonato, nessun
addebito per quello da repubblichino. Assolto. Poco mancò che da Ravenna partisse una
richiesta al CLN di Forlì per una qualche onorificenza, né è da escludere una sua partecipazione da protagonista alla ricostruzione dell’amata Modigliana, al tempo dei Papi terra di
Ravenna. A costo di passare per prevenuti, buttiamo là una quasi certezza, che nessuno
abbia avuto il coraggio di mettere in dubbio la legittimità dell’incarico di medico condotto.
“Meriti personali, non conseguenti alla fattiva collaborazione alle gesta de “La Disperata”.
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Al secolo, Mercatali Ellero, di Biagio e di Colomba Monti, nato a Modigliana (FO) l’11 giugno 1901. Detenuto ingiustamente dal 2 luglio al 6 novembre del 1945.
Con tessera da partigiano
Nell’infuocato dopoguerra la giustizia poteva apparire impietosa. Non si facevano sconti
a nessuno. Dovendo, volenti o nolenti, saltare i crimini del ventennio, con rarissime eccezioni, sotto la lente restavano i comportamenti dei diciotto mesi di Salò, specialmente quelli manifestati nelle zone di residenza. Bastava poco e nessuno era disposto a soprassedere,
neppure di fronte ad attestati resistenziali, guadagnati altrove. C’era anche molta fretta, fretta di chiudere i conti (la legge lo imponeva), di chiudere le istruttorie, di celebrare i processi. Molti fascisti ne trassero beneficio, poiché i singoli tribunali funzionavano a scompartimenti stagni, privi di telefono o quasi, senza auto a disposizione, con poca carta, ecc.
Scommettere sui treni era rischioso, meglio affidarsi alle poste. In molti paesi non si era
ancora ricostituita l’Arma dei Carabinieri e le vecchie caserme erano inagibili.
Molte competenze d’indagine giudiziaria erano andate disperse e si suppliva con frettolose procedure assegnate alla Polizia ausiliaria, composta da partigiani, spesso giovanissimi
ed inesperti. A complicare le cose, talora a facilitarle, le numerose denunce, più e meno circostanziate, ma spesso inficiate da motivi terzi, prive di riscontri, raccolte dalla voce pubblica. Succedeva così che si venisse arrestati per fatti di scarso valore accaduti in zona e si passasse del tutto indenni per omicidi ed eccidi perpetrati più a nord. Diamo per scontato che
ad iniziare l’iter processuale o a dissolverlo concorressero anche logiche politiche, legami di
parentado e, perché no, il radicato costume italico delle raccomandazioni, o i veti inglesi.
Credeva di essere al sicuro Zoli Otello, nato a Barisano di Forlì nel 1922, figlio di Mario e di
Ida Briganti. Era ritornato a Ravenna a maggio, proveniente dalla Lombardia, accompagnato da tanto di lasciapassare e di patentino da partigiano, regolarmente rilasciato a Busto
Arsizio. Un garibaldino, incorporato in una Brigata, presentato da certo Giuseppe Conieri
(?), al quale il Nostro aveva dato un mitra, delle pistole e utili informazioni. Entrambi a sparare nei giorni dell’insurrezione. Ma cosa ci faceva lontano da casa, visto che l’ultima volta
era stato visto a Ravenna con la divisa della GNR? Come mai aveva fatto il corso di allievo
ufficiale in città, prima di proseguirlo altrove (a Fontanellato)? A ciò lo Zoli, purtroppo, poté
rispondere solo in stato di detenzione. Ad accusarlo un ex amico, Giovanni Perelli, antifascista, da lui minacciato alla fine del 1943 e percosso da altri, in sua presenza.
A Busto il Nostro era andato a trovare la famiglia sfollata e da lì, di tanto in tanto, soleva
recarsi a Brescia presso il centro raccolta ufficiali. A disposizione, sembra di capire, visto che
certe competenze (era geometra) poco servivano nella lotta antiguerriglia.
Al processo fu un coro di testimoni a favore: certo Veber Ferruzzi, coetaneo, come coetaneo era il denunciante Perelli, che attenuò l’accusa, ricordando che egli gli aveva tolto il
saluto, quando lo aveva notato in divisa.
Da qui il litigio tra i due. Giunse a Ravenna a testimoniare anche il partigiano citato.
Assoluzione piena (4-9-45), dopo 100 giorni di carcere.
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“Guardia del Duce”
Tra i cultori di vita militare, in divisa o in borghese, le ricorrenti dispute vertono sui gradi
e sulle gerarchie dei Corpi. Sotto Salò il vecchio ordine era stato sconvolto. Sparita la Marina,
passata agli inglesi, quasi teorica l’Aviazione, l’Esercito tenuto lontano dal fronte.
Molti ufficiali lasciati a casa, per non dovere pagare inutili stipendi. In auge, invece, la
Milizia, ribattezzata Guardia Nazionale Repubblicana, con compiti di polizia. Dopo il luglio
1944, sorpasso delle Brigate Nere, il partito militarizzato, con migliori retribuzioni. Si contavano, inoltre, le SS italiane, rastrellatori a tempo pieno, la “Decima Mas” di Borghese, formazione scelta ed autonoma, votata a nefandezze ed eroismi, schierata in prima linea nei giorni della disfatta, ed una serie infinita di polizie improvvisate, con licenza di tutto, vere compagnie di ventura, composte da figuri di varie età, votate al sacrificio degli altri, che gestivano persino carceri proprie, talora in urto con i Podestà e i questori. Non era facile orientarsi, neppure da parte dei Capi Provincia (i prefetti), i veri responsabili del territorio di fronte
al Duce. Chi controllava, per esempio, la “Guardia del Duce”, corpo scelto che veniva dal
ventennio, rimasto orgogliosamente in vita nei giorni di Salò? Nessun onore poteva superare quello di proteggere la vita del Duce, dapprima a Roma, e poi alla Rocca delle Caminate,
infine a Gargnano di Brescia. Nessun cambiamento di nome e di funzione tra il primo e il
secondo fascismo, anche se a Salò a sorvegliare Mussolini provvidero soprattutto i tedeschi,
in modo così stringente da renderlo quasi un prigioniero di lusso. Uno della Guardia del
Duce era stato Aldo Gelosi, nativo di Forlì, classe 1908, figlio di Pasquale e di Emilia Berucci,
coniugato, combattente in Africa Orientale, cantoniere. Egli poteva vantarsene, per il servizio prestato a Palazzo Venezia, alla Rocca delle Caminate e da ultimo a Gargnano.
Uno dei pochi. Quante volte aveva visto da vicino il Duce! Nella buona e nell’avversa fortuna. Sempre volontario lui, e passato attraverso una dura selezione. Era un fanatico, che
vedeva pericoli e nemici ovunque. E, poiché l’Uomo da proteggere se ne stava sul Lago di
Garda al sicuro, il Nostro, assieme ad altri camerati, si era sistemato alla Rocca, da dove partiva a perlustrare la Romagna per catturare badogliani-comunisti da trasferire nel Carcere di
Meldola o alla Rocca stessa, adibita ormai a sala di tortura. Se ne accorsero gli antifascisti di
Forlì, di Ravenna, di Cotignola, sottoposti a “ferocità”.
Guerrino Garavini di Forlì fu uno di questi, ai primi d’aprile del 1944 percosso a calci e
pugni a Meldola, solo perché, quando il Nostro era stato Segretario politico di (?), egli si era
rifiutato di partecipare alle adunate da lui indette.
Più grave una seconda imputazione: avere cagionato la morte per impiccagione di
Ferdinando Dell’Amore e d’altri tre in quel di Ravenna, in data 29 agosto 1944.
Accusa questa che in processo cadde. Per il resto, condanna ad anni sedici (18-9-45).
L’anno dopo per il detenuto Gelosi giungerà la libertà definitiva.
Sempre in fuga
Non si capisce perché ogni occasione fosse buona per fuggire dal suo paese, Civitella di
Romagna. Lì era nato nel 1890, lì si era sposato ed aveva avuto figli e vi gestiva un avviato
negozio di generi diversi, un bazar come allora si diceva. Eppure per Lorenzoni Antonio, di
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Paolo e Francesca Cappelli, dal paese ogni tanto bisognava allontanarsi o non rientrarvi.
Era successo nel settembre del 1944 e a fine maggio del 1945. Le sue guerre, ammesso
che le avesse fatte, erano lontane e così dicasi per eventuali violenze squadriste. Ma nonostante l’età, dopo essersi iscritto nel 1943 al Partito Fascista Repubblicano, era entrato nelle
Brigate Nere di Forlì. Con esse era ripiegato al nord (a proposito, si usa il termine ripiegare
anche per singoli individui), per timore di rappresaglia, dirà, dapprima in una località
sull’Oglio e poi in provincia di Vicenza, a Thiene. Si trovò bene, se sentì bisogno di portarsi
tutta la famiglia; del resto non mancavano neppure le mogli degli altri camerati di Forlì.
Forse non aveva necessità di denaro, ma volle ugualmente rendersi utile alla Brigata Nera in
qualità di spaccalegna fino al 29 aprile del 1945 (notare la data, oltre ogni limite).
Sulla via del ritorno non si mosse con troppa fretta verso casa. Nemmeno la curiosità di
rivedere lo stato del negozio lo fece accelerare. Dopo un mese, nessuno lo aveva ancora
visto a Civitella, normalmente raggiungibile. Sempre con la famiglia, il Nostro si fermò a
Forlì, a decidere se prendere la strada per Predappio o quella per Meldola. Nel dilemma riparò di nuovo a nord, questa volta a Ravenna, e per evitare sorprese si presentò in Questura.
Brutte voci giungevano dal borgo natio! Ravenna fu costretta ad attivarsi e, quando arrivarono le informazioni dei Carabinieri di Civitella, aprì un fascicolo a suo carico.Un fascicolo quasi inconsistente: propaganda per il nazifascismo, stretti legami con i caporioni locali,
tra cui la nota spia Romeo Cingolani. La Corte non ebbe dubbi (28-9-45). Incompetenza territoriale. Se la sbrigasse il Tribunale di Forlì.
L’ebanista da Forlì
Aveva solo 18 anni nel 1943, quando si presentò volontario nella GNR. Subito fu addestrato a Lugo e poi a Ravenna. Parliamo di Ravaioli Guido, nato a Forlì nel 1925, da
Domenico e da Annunziata Servadei, ebanista. Abile e addestrato, egli fu mandato in posti
caldi, a Casola Valsenio e Longastrino, dove frequenti furono i rastrellamenti. Prestava servizio come caporale nella Compagnia Ordine Pubblico, tragicamente famosa in molte zone
come O.P. Con questa, fino alla fine, a Pescantina e a Padova, dove cadde in mano ai partigiani, che gli fornirono un lasciapassare per Forlì. Ma a Lavezzola sfortunatamente incrociò
un posto di blocco della Polizia ausiliaria partigiana. La Questura di Ravenna ne confermò
l’arresto e lo denunciò per collaborazionismo, in ciò sostenuta dalle informazioni giunte da
quella di Forlì.
Fatti specifici non si trovarono, per cui divenne inevitabile l’assoluzione, per insufficienza di prove per la Corte di Ravenna (11-9-45), piena per la Cassazione.
La sentenza in sé riveste una certa rilevanza, proprio per l’evidente censura giunta da
Roma, ineccepibile dal punto di vista giuridico: come è possibile scegliere la forma dubitativa in assenza del più vago degli indizi? Ma d’altra parte è pensabile che un caporale dell’O.P.
sia rimasto estraneo a tutte le operazioni condotte dal Corpo in Romagna e nel Veneto?
Dal punto di vista storico-morale, diciamo pure fattuale, sarebbe assurdo pensarlo.
Un volontario, addestrato per mesi, impiegato in aree calde nella lotta antipartigiana, con
compiti di polizia speciale (perquisizioni, interrogatori a sangue, rastrellamenti) e con uomini alle sue dipendenze. Mah!
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Barbiano di Cotignola. In cerca di donne
Raramente nei processi, anzi quasi mai, si parla di violenze sessuali. Pudore nel denunciare o fenomeno assente? Si propende per la seconda ipotesi, anche se nella narrativa orale
il tema ricorre.
Siamo nei giorni di Carnevale del 1945 a Barbiano, una frazione con struttura urbana in
comune di Cotignola. Nelle zone vicine si brinda con gli alleati, qui comandano ancora i
tedeschi, certi ormai della sconfitta definitiva. Il paese è semidistrutto e c’è poco da festeggiare per tutti. I crucchi, ligi al dovere, continuano a raccogliere informazioni sui ribelli e di
tanto in tanto piombano in qualche casa per sorprendere qualche partigiano, vinto dal
richiamo del calore e degli affetti domestici. Non sono stati pochi i casi in cui i patrioti sono
caduti nella trappole tese in occasione delle visite ai parenti, alle fidanzate, ai pargoli appena nati, ai morenti. Spesso con la complicità di qualche vicina, sempre bene informata.
8 febbraio ore 15. Quattro tedeschi entrano di forza nella casa di Muccinelli in cerca di
partigiani. Con loro Eolo Cimatti, classe 1920, ebanista. Nessuna persona sospetta è presente. Allora si danneggiano i mobili. Ad assistere un povero ragazzo di nome Celestino, Giulia
Muccinelli, l’azdora, e la figlia, Carolina Bassi. Ad un tratto, i soldati, apparentemente delusi, pretendono di controllare le stanze del piano superiore ed esigono che ad accompagnarli sia la ragazza. Di sopra, uno di loro, il più giovane, cambia obiettivo e cerca di abbracciare
la Giulia, che, urlante, riesce a sottrarsi e a ridiscendere. Il tentativo di violenza sessuale
cessa lì. Ma a quel punto il branco si scatena con botte a tutti gli astanti, compreso il ragazzino, presente per caso, che alla prima occasione fugge. E Eolo? Non era né esecutore, né
ispiratore, né osservatore. Entra in scena solo alla fine, chiamato dai militi per le medicazioni necessarie, soprattutto al cuoio capelluto della madre (come sosterrà il Nostro). Rapida
la smentita delle donne che attribuiranno il soccorso ad una vicina, certa Giovanna
Troncossi. Da qui l’accusa di collaborazionismo, per essersi prestato a fare da guida.
Volontariamente secondo le donne, in considerazione di un antipatico litigio, avvenuto nel
1943, tra l’imputato e il fidanzato della Giulia.
I giurati (9-11-45) furono di diverso avviso e così Eolo Cimatti, (fu Fortunato e di Maria
Sangiorgi, nato a Cotignola), fu assolto perché il fatto non costituiva reato.
Libero? No, perché il Nostro, in quei giorni d’autunno del 1945, era l’unico fascista, tra le
centinaia in carcere, detenuto per altra causa, non meglio precisata
Solarolo. Caccia all’uomo in piazza
Il fatto avvenne sicuramente a Solarolo, in centro; si tace l’ora, quasi certamente prima
del coprifuoco, e la data è illeggibile, 24 o 29 settembre 1944 (quest’ultima nel cippo).
Anche la dinamica è controversa, comprensibile perché in gioco sono anni di carcere.
Due repubblichini delle Guardia Nazionale, di ronda o casualmente in giro, incrociano
due giovani. L’età li rende sospetti tra tanta gente che affolla la piazza. “Prego documenti”.
Tutto regolare o così appare. “Potete andare”. Poi un qualche dubbio dei poliziotti su uno
dei due. “Vieni con noi alla caserma della GNR” si ordina invertendo il passo. Ma questa volta
i due si danno alla fuga, tagliando la piazza in mezzo a diverse persone.
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Gli inseguitori puntano su uno solo, quello all’origine del sospetto. Uno urla: “Spara!
Spara! E’ un partigiano”. E l’altro di corsa spara alcuni colpi. Inutilmente. Continuano le
imprecazioni e gli inviti ad uccidere. Forse il fuggiasco si sente già in salvo, ma una sentinella tedesca sente tutto e con calma lo fredda. Il poveretto si chiamava Angelo Capucci, d’anni 23, effettivamente un partigiano. L’uccisore rimarrà senza nome, non cosi i due fascisti,
riconosciuti da tutti. Lo sparatore era un certo Babini, vice caposquadra, l’altro, Vincenzo
Zannoni, già scopino comunale a Faenza, allora milite della GNR, poi promosso nella Brigate
Nere. Nello stesso mese di settembre Vincenzo Zannoni nota un giovane, Secondo
Almerighi, in conversazione con una donna, certa Bruna Patrini (?). Spericolati questi partigiani! E, neanche a farlo apposta, si ripete la scena, con qualche variante. Il sospettato si
accorge di essere adocchiato, inforca la bicicletta e via, inseguito dalle pallottole e dalla frase
canonica: “Sparate è un partigiano”. Ma, in tale occasione, nessun tedesco è all’orizzonte e
il fuggitivo salva la pellaccia, con scorno dello Zannoni. Parola della citata ragazza, interrotta nel pieno della conversazione. L’imputato si difese, prima negando tutto e poi ammettendo solo il primo episodio, il più grave, aggiungendo però che ad urlare e a sparare era stata
un’altra pattuglia, che precedeva.
La Corte non gli credette e il 6 novembre 1945 andò a sentenza contro Vincenzo
Zannoni, nato a Solarolo nel settembre del 1903, dal fu Filippo e da Carola Liverani, detenuto dal settembre dello stesso anno. Fu un verdetto a sorpresa. L’imputato, coniugato con
prole, analfabeta, con precedenti per furto, fu ritenuto meritevole della pena massima prevista dal Codice di Guerra e cioè la condanna a morte, per il fanatismo, lo zelo massimo e la
totale assenza di rispetto per la dignità delle persone. A nostro avviso, sentenza non equa,
non avendo egli ucciso personalmente nessuno.
Forse la Corte avvertì la sproporzione, anche se non la richiamò nel dispositivo finale, nel
quale si concedono invece altre attenuanti (semplice milite e analfabeta). Pertanto, condanna ad anni 27 (ancora troppo). Lo scopino non ebbe fortuna neppure con la Cassazione che
respinse il ricorso. I benefici arriveranno solo dall’applicazione di altre leggi, con provvedimenti del Tribunale di Ravenna (condono di anni nove), e della Corte d’Appello di Bologna
(un altro anno).
Infine, con Decreto Ministeriale del 1951, lo Zannoni verrà scarcerato, con la residua sanzione della libertà vigilata fino al 31 maggio del 1953. In tutto, quindi, sei anni di carcere.
Troppo, in confronto ai camerati con maggiori responsabilità.
Un calzolaio in veste di barbiere
I giovani maschi, come si sa, hanno la vanteria facile, sia in tempo di pace, sia in tempo
di guerra, con le donne e con gli altri uomini. Allora capitava che si parlasse con spavalderia
di azioni compiute, perfino di faticosi e prolungati rastrellamenti su per le montagne. Non
si pensava sicuramente che in seguito certe frasi, di verità o di vanterie, si potessero ritorcere contro chi le aveva pronunciate.
Uno di questi era un giovane calzolaio, classe 1922, nativo di Faenza, di nome Oberdan,
di cognome Pezzi, figlio di Giuseppe e della fu Maria Vanni. A ventun anni aveva dovuto
lasciare la bottega in cui lavorava sotto padrone, la calzoleria di Angelo Ricci. Vi era affezio-
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nato ed ogni tanto, in divisa da GNR o in borghese, vi tornava a fare due chiacchiere. E giù
a raccontare gesta, apparentemente credibili, dati i tempi.
Il sequestro arbitrario di un motofurgoncino e una spedizione impegnativa sulle montagne d’Imola. Una vera faticaccia, durata due giorni e due notti. Una volta, conversando con
la Afra Maltoni (già incontrata, di famiglia antifascista, arrestata dai repubblichini e poi sotto
processo per spionaggio a favore degli stessi) se n’era uscito con una frasaccia, dopo l’uccisione di un Tenente: “Se ne ammazzano uno dei nostri, n’ammazziamo venti. E saremo sempre vincitori”.
Contro di lui anche le dichiarazioni del camerata Guerrino Nati. Di qui l’arresto del Pezzi
e il processo, con diverse imputazioni, tra cui la partecipazione a ben cinque rastrellamenti.
Si metteva male, ma in soccorso giunsero alcune testimonianze. Umano si era dimostrato nel maggio del 1944, offrendo caffè ed acqua ad alcuni prigionieri; il suo ex padrone si
disse convinto che le sue fossero state parole al vento e che il giovane fosse incapace di fare
del male; il Nati ritrattò e il furgoncino risultò solo “fermato”. Il Pezzi, da parte sua, negò
tutto, ammettendo solo che una volta, su ordine di un graduato, aveva tosato un individuo,
trovato privo di documenti.
La Corte (8-11-45), forse convinta dal giurato faentino, il prof. Bruno Nediani, in tale occasione fu benevola. Esclusi i rastrellamenti e le sparate verbali, restava solo la tosatura, sicuramente un illecito. Ma chi poteva sostenere che avesse una motivazione politica? Tesi ardita, nata probabilmente dalla diffusione, dopo la liberazione, della tosatura, intesa come il
massimo dello sfregio per una donna. Nessuno ricorda simile costume rivolto contro maschi
fascisti.
Assoluzione per insufficienza di prove. Per completezza di informazione non va scordato
il vero ed unico gesto eroico di Oberdan, che nell’autunno del 1944 aveva mollato i repubblichini per salire a sua volta in montagna, lassù sul Samoggia, dove un anno prima tedeschi
e fascisti avevano pesantemente colpito i primi resistenti di Romagna.
Santa Lucia o Santa Sofia?
Era di Castelbolognese, prestò servizio nelle Brigate Nere di Solarolo ed Imola, partecipò a rastrellamenti ad Imola stessa e nel faentino, a S. Lucia e Pietramora, come si evince dal
capo di imputazione, anche se in narrativa sparisce la prima Santa ed appare S. Sofia, distante un paio di vallate. Errore dello scrivano, irrilevante ai fini processuali.
Si parla di Troni Orlando, di Sincero e di Clelia Viciguerra, nato nel 1922, detenuto dall’agosto del 1945, a giudizio l’8 novembre 1945. Prima di entrare nella GNR nel dicembre del
1943, a ventun anni, si guadagnava da vivere come commesso in un negozio di Faenza. A
novembre del 1944, con l’approssimarsi del fronte, era passato nelle Brigate Nere, per cui si
deve ritenere che il Troni avesse partecipato ad azioni antipartigiane, sia in divisa grigio
verde, sia in camicia nera. Comunque a fianco dei tedeschi. Ad accusarlo il solito Guerrino
Nati, il camerata faentino, che molti n’aveva inguaiati con le sue testimonianze, tutte ritrattate in Tribunale, perché coartate. Ad aiutare i giudici ci pensò l’imputato, con l’ammettere
due azioni, una ad Imola, assieme ai nazisti, non per catturare od uccidere ribelli, ma per
rastrellare civili da adibire a lavori in città, ed una seconda, a seguito dell’uccisione di un
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fascista. A Pietramora, a S. Lucia o a S. Sofia? Ovunque fosse, fu grave quest’ultima ammissione. Contro di lui anche l’accusa di avere commesso violenza contro antifascisti (si noti il
termine) e precisamente di avere ferito certo Cimatti per contrasto politico. Però, era accaduto prima dell’8 settembre, nell’aprile del 1943, e l’incidente si era concluso felicemente
con la riconciliazione in un Caffè.
Violento il Nostro, ma anche generoso, come dimostrarono alcuni testi. Una volta aveva
avvisato don Stefano Belli, affinché tenesse chiuso il Circolo Cattolico, onde evitare un danneggiamento programmato. In che data? In altra occasione, sotto Salò, aveva suggerito alla
signora Castellini di nascondere il figlio, minacciato dai camerati della GNR.
Attenuanti significative, che consentirono alla Corte di infliggergli solo tre anni e sette
mesi, al posto dei dieci, previsti per legge a fronte di uno o più rastrellamenti.
Quello di Santa Lucia o di Santa Sofia? Non si dice. Alla Cassazione il quesito non interessò. Amnistia nel luglio 1946, dopo 11 mesi di carcere.
“Se non cominciamo a prendere…”
La vita dei repubblichini, specie se giovani e scapoli, poteva essere abbastanza comoda.
Più denaro, più potere, poco lavoro, gite fuori porta, diverse sedi (in montagna, in pianura, in città, al mare). Relativa la disciplina, qualche pericolo, specie se restavano isolati o
volevano strafare in zone considerate ad alto rischio. Le faticacce però potevano arrivare
all’improvviso, soprattutto quando ad ordinarle erano gli alleati tedeschi. Alzatacce all’alba
o in piena notte, sotto la pioggia, la neve, con la nebbia e il freddo, sotto la calura, a perlustrare, a marciare in formazione per terreni impervi, a sfondare porte, a pestare merde, talora a correre. Senza soste, con il rischio, in caso di insuccesso, di sentirsi accusare d’incompetenza, complicità con il nemico, disfattismo: “i soliti italiani…Traditori”. I veterani lo avevano sperimentato, le reclute erano avvisate.
Valerio Lombardi era una recluta. Figlio di Giuseppe e di Clara Cornazzani, nato nel 1926
a Faenza. Nel dicembre del 1943 senza obblighi militari, aveva deciso di lasciare le fatiche
poco remunerate di cordaio per mettersi in divisa, a Faenza fino all’aprile del 1944. Di qui
nella calda Conselice, una terra d’agguati, fino a luglio. Poi di nuovo in collina, a Casola
Valsenio, fino al 24 settembre, da cui si partì in tempo per sottrarsi alle cannonate inglesi.
Infine, il periodo più lungo, tra le marine e le calli chioggiote, ad attendere l’arrivo dei partigiani dalla parlata romagnola, inquadrati nella “Gordini” e nella “Brigata Cremona”. Il 25
aprile si liberò della divisa e non cadde prigioniero. Ma dopo oltre due mesi i Carabinieri e
la Polizia partigiana di Faenza lo andarono a trovare.
Pesanti le accuse. Partecipazione attiva a numerosi rastrellamenti, a Pieve Cesato,
Pietramora, Santa Lucia, Ponte della Corvellina, Monte Faggiola, S. Sofia e soprattutto a quello di Formellino, dove i repubblichini avevano catturato diversi ostaggi da consegnare ai
tedeschi. Erano le 20 del 2 settembre del 1944, uomini e donne si affrettavano verso i rifugi
per trascorrervi al sicuro la notte. Strada del Formellino. Un camion di fascisti della GNR
sopraggiunge. Due uomini ed una bicicletta vengono caricati. Uno è trascinato dal Lombardi
per i capelli e colpito alla testa con un mitra, tale Adriano Dall’Osso, amico d’infanzia del persecutore e, fra l’altro, da poco uscito dal manicomio.
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L’altro è Primo Tampieri. Pianti e suppliche delle donne sono vani. I militi hanno fretta.
Uno protesta per i modi e l’altro (il Lombardi secondo i testi) in risposta: “Se non cominciamo a prendere, non prendiamo nessuno”. Il giorno dopo, Primo Tampieri è impiccato, ad
opera dei nazisti, accanto ad altri otto, come rappresaglia per l’uccisione di un tedesco. Il
Dall’Osso si salva perché il padre (Maurizio) presenta in extremis il certificato medico del
manicomio. Concordi le testimonianze avverse, di Leopoldo e Virginia Tampieri, di Maria
Savelli, di Maurizio Dall’Osso e del camerata Guerrino Nati.
Al processo (13-11-45) l’imputato non si districò male. In alcuni casi, non erano veri e
propri rastrellamenti, ma semplici puntate in collina a prelevare viveri; a Pieve Cesato doveva requisire una bicicletta, ma fallì e fu disarmato. Quanto all’episodio incriminato si trovava allora a 30 Km e cioè a Casola Valsenio. E poi, sullo stesso argomento era stato interrogato ai primi di giugno a suon di botte e, di fronte alla sua negativa, era stato rilasciato.
Ergo… E mica si può dare ascolto ad uno che andava su e giù dal manicomio.
La Corte, in questo caso, insistette molto sulla frase incriminata, detta o non detta dal
Lombardi, come prova che i fascisti erano a conoscenza della finalità ultima delle catture
notturne: la vendetta dei nazisti. Collaborazione grave, quindi, complicità nell’eccidio, punibile a norma di legge con la morte per fucilazione. Ma poiché il delitto non era scaturito da
una sua iniziativa, la pena fu tramutata in quella d’anni 24 di reclusione.
La stesura della sentenza lascia qualche margine di dubbio o d’equivoco e la Cassazione
annullò il provvedimento, rinviando la causa a Bologna. In data 4-12-46.
Ignoti, per ora, l’esito del nuovo processo e il destino del giovane cordaio di Faenza.
Sarto e portaferiti
Nella vita civile faceva il sarto a Brisighella, in guerra il portaferiti. Sotto Salò, niente di
tutto questo. Nonostante l’età, a 37 anni volle fare una nuova esperienza, politico-militare, e
fu nominato fiduciario del Partito Fascista Repubblicano di Marzeno, località ripetutamente
presente in queste storie, abbastanza prossima a Faenza, dove il sarto si era trasferito.
Là, secondo l’accusa, Masoni Fernando, di Carlo e di Maria Padovani, nato a Brisighella
nel 1907, avrebbe svolto attività spionistica, fatto catturare due piloti alleati e partecipato ad
una fucilazione presso il locale cimitero.
Solo indizi e nessuna prova. L’unica cosa certa, confermata dall’imputato, una corsa nella
direzione dell’atterraggio, motivata unicamente dal desiderio di prestare soccorso nel caso
di bisogno. Non per niente aveva trascorso anni in mansioni da portaferiti! E, comunque,
altri militi della GNR lo avevano preceduto. Poco efficiente la Repubblica di Salò: si serviva
di un sarto di Brisighella per condurre politicamente la sede di Marzeno (rifiutata dagli abitanti del luogo?), invece di servirsi della sua specializzazione di portaferiti, tanto utile a
Faenza periodicamente bombardata.
Insufficienza di prove, in data 13-11-45.
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L’entusiasmo dei giovanissimi
Con tante scritte inneggianti alla guerra, all’eroismo, a lasciare l’aratro per la spada, era
inevitabile che schiere di ragazzi scegliessero di abbandonare anche i mestieri al chiuso, le
officine e le botteghe. Meglio i lustrini delle divise e la vita all’aria aperta che imparare l’arte sotto padrone. Se è consentita una provvisoria statistica, si constata che le reclute volontarie, apprendisti o garzoni, provenivano spesso dalle città e dal settore artigianale, raramente dalle famiglie legate alla terra.
Molti avevano appena sedici anni e spesso rimasero in divisa fino alla fine della guerra,
subendo o accettando volentieri qualsiasi destinazione e talora qualsiasi incarico. Il fascino
dell’avventura faceva aggio sui pesi della naia, tra l’altro meno pesanti che in tempo di pace.
Casadio Giuseppe era nato il 18 ottobre del 1927 a Faenza. Non aveva conosciuto il padre
e la madre, Maria, ben presto lo aveva avviato al lavoro come lucidatore del legno. La sua fu
una lunga esperienza di caserma e di operazioni di polizia e di rastrellamento, in Romagna,
in Lombardia, in Toscana, in Piemonte, in Emilia e di nuovo in Lombardia. Vi trovò coetanei
e forse qualche figura paterna. Nel febbraio del 1944 nella GNR di Faenza in servizio di guardia, poi nel “Battaglione Bir el Gobi” sul Lago di Garda, a Firenze, a Valle di Lugo, a Milano,
Novara, Vercelli, Bologna, Pianoro ed ancora a Milano nei giorni dell’insurrezione.
Un curriculum da medaglie, se i fascisti avessero vinto. Così non fu e il ragazzo cercò
onori con la parte avversa e, mentre Mussolini fuggiva verso la Svizzera, egli si associò ai giovani con il fazzoletto rosso, presentandosi al Comitato di Liberazione. Altre esperienze cruciali e talora tragiche sulle opposte sponde. Rimase due mesi nelle fila della Resistenza, ma
quando ritornò a casa fu associato alle carceri.
Egli quasi non ricordava i lontani giorni romagnoli: una perquisizione a Faenza in
Contrada Samoggia in cerca di partigiani, un’analoga operazione in Valle di Lugo con la cattura di quattro ribelli, consegnati ai tedeschi e dal destino ignoto.
Pena prevista dieci anni, ridotta ad anni 4, mesi 5, giorni 10, date le attenuanti dell’età e
della funzione subordinata (in data 13-11-45). Amnistia.
Il Casadio non si capacitò: “Ero addetto alle armi pesanti!”.
La transumanza
I carri bestiame ferroviari servivano ai nazisti per stiparvi uomini da deportare in
Germania; i camion, invece, per la fase iniziale, la cattura. E così, ai cavalli e ai buoi requisiti, non restava che il procedere in branco lungo percorsi alternativi, poco trafficati, lontani
dalle città e relativamente più protetti da mitragliamenti e da bombardamenti.
Uno splendido libro ha studiato questa transumanza moderna dalle Marche verso nord,
via Romagna, Ferrara, Po, Padova, Verona, Friuli. Protagonisti sono gli animali, comprimari
gli uomini: i tedeschi, pochi, armati, eretti sui carri e, a piedi a condurre il bestiame, gli italiani, anch’essi razziati, costretti a due o tre giorni di cammino, fino al cambio con altra gente
obbligata. Talora non mancava il compenso in denaro, integrato da qualche extra, specialmente la vendita di nascosto a mercanti attratti da tanto ben di Dio. Pagavano poco gli accaparratori, nonostante i lauti profitti previsti. Alcuni vaccari si pagarono a stento una cena al
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ristorante in cambio di un bell’esemplare.
A tali traffici in qualche caso non si sottraevano neppure i vigilantes teutonici, altre volte
spietati contro gli illeciti commerci. Tra gli “obbligati” c’era chi cercava di approfittare d’ogni
disattenzione per fuggire verso casa e, non di rado, sulla via del ritorno incontrava i legittimi proprietari, che a distanza seguivano le scie di polvere, nella speranza…Per altri scopi,
le lunghe marce d’uomini e bestie attiravano l’attenzione di partigiani ed affamati.
Naturalmente la Romagna non era solo terra di passaggio. Anche qui, una struttura tedesca era adibita alla requisizione di bestiame e si alimentava della collaborazione di spioni
repubblichini, compensati o no, che avevano il compito di individuare le stalle di campagna
e le cascine di collina. I militi fascisti nostrani offrivano la copertura logistica per individuare i siti ideali, davano indicazioni o provvedevano direttamente ad ogni necessità manifestata dai nazisti, ripagati talora con qualche grosso capo di bestiame per la gioia delle caserme.
I contadini, da parte loro, non dormivano mai, e per salvare il proprio patrimonio animale avevano inventato dei rifugi a prova di bomba e di perquisizione. Più nascosti di quelli
riservati ai figlioli renitenti o ai compagni partigiani. Pericolosi potevano essere i mediatori
di un tempo, arbitri del mercato nero, più inclini, però, a servire i grossisti e gli speculatori
di città. Ma per gli occupanti, il contributo più apprezzato era quello d’altri informatori, a
conoscenza del territorio e delle abitudini, disponibili a riferire ogni sospetto. Un lavoro
sporco, che poteva essere ammantato di motivazioni ideali.
A Faenza risiedeva un certo Luigi Mazzoli, del fu Agostino e della fu Siega Zenolo Maria,
nato nel lontano 1883 a Maniago (Pordenone). Di lassù era sceso a valle portandosi appresso uno dei mestieri tipici, quello d’arrotino. Si lavorava tanto, tranne d’inverno, e l’età non
disturbava. Vie di città, case sparse, in pianura e sulle colline faentine e forlivesi. Quella era
la sua zona. Non esisteva aia che lui non avesse visitata. I tedeschi pensarono a lui, o egli
stesso si presentò in qualità d’interprete, visto che a Maniago, o in altra circostanza, aveva
appreso la lingua dei padroni del momento.
Lo denunciarono a guerra finita alcuni contadini faentini (Cesare Rava, Luigi Bertini,
Tommaso Succi, Giovanni Casseri e certo Montuschi), depredati del bestiame da una pattuglia tedesca, un ufficiale e due militari, accompagnati dal Mazzoli, che non solo traduceva,
ma interferiva nella scelta dei capi da razziare, fin’anche a prevalere sui crucchi.
In un caso, i coloni furono costretti a condurre a piedi i loro nove capi fino a Budrio e,
di fronte alle loro rimostranze, i tedeschi li lasciarono andare (loro, ben s’intende), mentre
l’ex arrotino insisteva che continuassero almeno fino a Poggio Renatico. Danno, lire 66.000,
nonostante le assicurazioni d’indennizzo da parte del Mazzoli.
L’imputato si difese sostenendo che la sua presenza non era per niente volontaria, ma
frutto di un rastrellamento a S. Cassiano di Faenza avvenuto nel novembre del 1944
I giurati di Ravenna (27-11-45) non ritennero di condannarlo come responsabile delle
soffiate sulle stalle da visitare, ma per l’assistenza data durante le operazioni di prelievo, per
niente passiva.
Altro che semplice interprete. Da qui, sei anni e otto mesi, invece dei dieci. Amnistia.
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Postino o raccoglitore di “tacchine”?
Si chiamava così in Romagna il “pizzo”, un’elargizione non dovuta, un dono a volte spontaneo, talora il prezzo della corruzione. Forse il nome non è esatto, perché il pizzo presuppone minacce, riscossione violenta, gravi conseguenze se non pagato. Ma non è poi del
tutto estraneo al termine mafioso, se è vero che a Ravenna durante il ventennio operava “la
Squadraccia”, protetta dai gerarchi, che taglieggiava singole persone ed attività economiche.
Per il resto il termine campagnolo esprimeva sia la regalia dovuta per contratto al padrone
del fondo, sia il pedaggio, pattuito o meno, per ottenere un privilegio o il giusto. Il termine
non è del tutto desueto.
Tale divagazione si presta ad introdurre un nuovo personaggio, che nella vita aveva conosciuto la civiltà contadina, operando prima da mediatore e poi da postino. Un postino vero,
non un taglieggiatore. Era un “ragazzo del ‘99”, l’ultima classe che aveva raggiunto i campi di
battaglia nella Grande Guerra, in tempo per restare mutilato ad un braccio. Nativo di
Conselice, del fu Leopoldo e di Rosalba Battilani. Il suo nome Olindo Sangiorgi. Dopo anni
passati a stimare pollame e bestie da tiro e da latte, un sogno si era realizzato per l’invalido, il
posto pubblico come dipendente delle Poste, a pochi chilometri da Faenza, a Reda. E come in
un ritorno ciclico della storia, Olindo trascorse gli anni della seconda guerra mondiale a recapitare le cartoline precetto, con pochi problemi all’inizio, infiniti dopo l’8 settembre.
Nessuno le voleva ritirare e nessuno era disposto a motivare il rifiuto sul modulo.
Avvenne così che un camion della GNR partisse da Faenza per rifare il giro presso i recalcitranti, con a bordo il nostro postino, esperto dei luoghi. Questa volta Giovanni Babini,
Domenico Bandini, Mario Bergami, Romeo Pausini, Mario Ortelli, Primo Dassetti (?) e
Domenico Cornacchia, o i loro famigliari, non poterono sottrarsi. Partire bisognava. Ma i
contadini non erano disposti a sacrificare i figli maschi, così utili, per la guerra, sempre ingiusta, e, questa, anche sbagliata e persa. Quindi, prima di spedirli in montagna o nasconderli
in qualche rifugio, tentarono l’ultima carta, la “tacchina”, da consegnare al postino, la cui
casa era frequentata da un graduato della GNR, un certo Benelli, interessato alle grazie della
di lui figliola. La cosa funzionò. Al Babini l’esonero costò lire 1.000 e due capponi, al Pausini
lire 500, al Masetti lire 250, al Cornacchia due galline. Incerta la ripartizione. Che dire? Gli
indagatori di Faenza non ebbero dubbi: collaborazionismo, con l’aggravante di avere messo
su un’organizzazione a delinquere per spillare denaro. A loro avviso, il tutto era stato preordinato, cartoline e richiesta di tangenti. Arresto del postino, il 6 ottobre 1945.
La Corte di Ravenna, incuriosita per la novità dell’imputazione, lasciò cadere la tesi delle
finte cartoline, visto che altri coscritti si erano presentati e che le regalie erano state offerte
solo da chi chiedeva l’esonero. Un benefattore? Quasi, tanto più che il Nostro era intervenuto con efficacia ad impedire il prelievo della moglie di certo Moretti.
Assoluzione del ragazzo del ‘99, perché il fatto non costituiva reato (29-11-45).
Falchi e colombe a Faenza
I processi, da soli, non consentono di ricostruire la storia della Repubblica di Salò in
Romagna. Vi sono aree scoperte, periodi mancanti, personalità dimenticate. Sfocato è l’in-
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treccio tra le diverse autorità. Si tace spesso sui Podestà, sui Questori, sui Vescovi, sull’amministrazione della giustizia normale. I tedeschi non hanno nome; gli industriali e gli agrari
appaiono inesistenti; i responsabili dell’Esercito sembrano delle macchiette in missione.
Carente è pure la documentazione specifica di parte fascista, relativa ai fatti di sangue, non
del tutto distrutta, ma allora non conosciuta o non disponibile. Basti pensare ai quotidiani
rapporti che dalle province partivano alla volta di Gargnano, Brescia, Verona, sedi del
Governo repubblicano. Assai carenti le carte anche sulle relazioni tra i gerarchi locali e i protagonisti centrali, Ricci, Graziani, Pavolini, per non parlare di Mussolini.
Interrogativi che rinviano ad altri: fare o non fare le rappresaglie, fino a che punto subire i nazisti o tollerare il prevalere di fascisti fanatici e sanguinari? Chi decideva in loco l’utilizzo delle risorse e le conseguenti razzie? Poco su questo si è scritto, persino dagli studiosi
con orizzonti più ampi. Per esempio, sappiamo molto sul confronto interno al movimento
partigiano sulle scelte cruciali (lotta di montagna o di pianura, boicottaggio dei raccolti, rapporti con gli alleati, liberazione di Ravenna), quasi niente sulla parte avversa. Da ciò l’impressione che la dominazione germanico-italica sia stata un unicum, senza smagliature e senza
periodizzazioni. Ad alzare il sipario ci aiuta, parzialmente, la biografia di un faentino, con una
qualche autorità.
Rava Domenico il suo nome, di Francesco e di Giuseppina Amadei, nato a Faenza nel
1910. Perito agrario nella vita, ufficiale della Milizia in servizio permanente dal 1942.
Nella GNR cittadina sotto Salò, con il grado di Centurione, un capo, presente alle decisioni più importanti. Dopo il 25 maggio 1944 passa a Cervia. Del dopo nulla emerge. La sua
storia, però, illumina un periodo meno drammatico, quello iniziale, ma denso di contrasti
politici, nonché militari, tra i repubblichini (e non solo) di Faenza.
Qui, nel settembre-ottobre 1943, lo scontro tra le parti avverse non ha ancora provocato
vittime (le poche solo nelle ore dopo il 25 luglio, tra cui un giovane, Clemente Ghirlandi,
ucciso nell’assedio della Legione fascista “Manfreda” di Corso Mazzini, n.72). Gli avversari
del nuovo stato di cose non sono ancora definiti banditi. Tra il Comandante, il Seniore
Bacchetti, e il delegato del Comando antifascista, il dott. Angelo Morelli, si apre una trattativa per un accordo teso ad evitare spargimenti di sangue in città e dintorni.
Il patto viene firmato. Ma la cosa non è gradita né in alto, né in loco. In breve tempo si
registrano sostituzioni e trasferimenti. Il Bacchetti è spedito a Bologna, il Segretario del
Fascio repubblicano, Albonetti, deve passare la mano al Raffaeli (che lascerà il segno). Al
posto della colomba Bacchetti subentra un personaggio squallido, dedito all’alcol, il seniore Fattori, fra l’altro succube del vice, il Rava, un falco. La svolta è immediata. Il 4 novembre
un anziano antifascista, Ermenegildo Fagnocchi (detto Gildo d’Puiana) viene ucciso, nonostante l’avvertimento partito un’ora prima dall’interno dei fascisti, da certo Montevechi e
giunto al dott. Morelli. La tregua è rotta per sempre, ad opera del duo Rava-Raffaeli, i duri.
Di qui la denuncia nell’agosto del 1945 da parte del delegato antifascista di allora, il
Morelli appunto. Arresto del Rava con l’accusa di avere dato il via ad una scia di sangue,
diretto un’aggressione contro partigiani, svolto spietata attività di persecuzione.
L’imputato non accettò la ricostruzione del fatto di cui sopra, né le accuse conseguenti.
Egli aveva dato il suo consenso all’accordo di pace e al momento della svolta non era in
grado di muoversi, perché ricoverato in ospedale. Ferito ad una gamba, e in modo strano.
Era il 22 ottobre. Dal Comandante era stato spedito con altri due militi ad ispezionare
Porta Montanara. Da un camion con targa della Milizia, invece di arrivare collaborazione,
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arrivarono colpi di arma da fuoco. Da parte sua, colpi in risposta. Chi era stato? Partigiani o
camerati? Mistero. Da qualche parte dovrebbe risultare. Sicuramente, una certa idea il
Nostro l’avrà avuta, pur non riferibile in processo.
Il Rava però disse dell’altro, banale e ad un tempo significativo.
Il camerata Montevecchi (quello del colloquio con il Morelli) non era attendibile, perché
allora era mosso da rancore nei suoi confronti, poiché gli era stata contestata la qualifica di
sergente, con cancellazione dei relativi assegni. E ciò con il Rava in veste d’amministratore.
A conferma un altro camerata, detenuto per collaborazionismo, certo Giuseppe Naldoni. E
chi dice che il Bacchetti fosse una colomba?
I giurati, esperti di mondo, nel timore di premiare invidie e risentimenti poco nobili,
assolsero per insufficienza di prove (6-12-45). Forse non erano incompatibili le due verità,
almeno dal punto di vista della ricostruzione storica.
Agli studiosi il compito di ricominciare da capo.
La Brigata Nera di Faenza
Quando Schiumarini Francesco, nel maggio 1944, rientrò dalla deportazione in
Germania, il fascismo faentino aveva ormai un solo volto, quello aggressivo e violento. Tanto
nella GNR che nel Partito Fascista Repubblicano.
Lo Schiumarini, del fu Luigi e di Maria Mazzini, era nato nel 1910 a Rocca S.Casciano.
Poche le soddisfazioni alle spalle. Una vita da bracciante, un po’ irregolare, con ricorrenti
guai con la polizia e con la Legge. Condanne per mendacità, contravvenzione al foglio di via
e furto. A 34 anni anche per lui arrivò la grande occasione, offerta dagli emissari della
Repubblica di Salò che percorrevano in lungo e in largo i campi di prigionia tedeschi alla
ricerca di volontari per combattere in patria i badogliani-comunisti. Ed eccolo a Faenza nel
PFR e poi nelle B.N., con compiti di polizia e con un ottimo e regolare salario. Era contenta
anche la moglie, finalmente. Fu la più bella estate della sua esistenza.
La più terribile per Faenza e dintorni. Egli scoprì persino il gusto del lavoro, contrariamente a quanto scritto durante il ventennio nei verbali dei carabinieri. Attivo, sempre o
quasi sempre, presente ad ogni spedizione, ad ogni saccheggio. Arrestava, picchiava, seviziava, fucilava, derubava. Fu lui, secondo l’accusa, a privare della libertà personale uomini e
donne (Elsa Ciani, Primo Donati, Ada Gentilini, Pina e Adriano Argnani, Amelia Raffaeli,
Antonio e Angelo Linguerri, questi ultimi impiccati a Ponte Felisio). Partecipò il 10 agosto al
rastrellamento di Marzeno e Rivalta (40 arresti e cinque fucilati), a quello di Pergola e
Marzeno del 1° settembre (con tentato omicidio di Giuseppe Caroli), a quelli di S. Lucia,
Montefortino, Pietramora, Terra del Sole, Castrocaro dei primi di settembre (catturate 200
persone), a quello di S. Biagio, Pergola, Pideura e Cetrano (incendi e cattura di molte persone, di cui 4 uccise). Sempre lui ad arrestare cinque renitenti a S. Mamante, a maltrattare
Marcella Cicognani, a fucilare cinque partigiani catturati in località Chiesa di Cavina; presente a Castel Raniero, ad una spedizione punitiva in danno di Antonio Bedronici, al saccheggio al Mulino S. Stefano, alla rapina di trattori in danno di Paolo Zannoni, Giovanni
Gulmanelli e Domenico Pausini e a “cose varie” contro Luigi Argnani, ecc.
Questo nel faentino e nel forlivese, fino all’ottobre del 1944, e di sicuro lo Schiumarini
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non avrà cambiato stile negli altri sette mesi di guerra passati al nord.
Tra le imputazioni specifiche: omicidio di un sacerdote a Castiglione d’Ossola. Lui stesso,
se avesse tenuto un diario, anche volendo non sarebbe stato in grado di ricostruire una stagione così intensa di misfatti.
Dopo la Liberazione, passò l’intera estate del 1945 in mano agli alleati, prigioniero nel
campo di concentramento di Coltano. A disposizione degli inquirenti ravennati dal 5 ottobre, nel Carcere di Porta Aurea, dove doveva essere forte l’eco dell’esecuzione di Sergio
Morigi, avvenuta il giorno innanzi. Rassegnato o costretto, il Nostro confessò quasi tutto,
con qualche distinguo grottesco. All’eccidio di Rivalta, come componente del plotone d’esecuzione, si era messo d’accordo con il camerata Corelli per fingere la fucilazione della
donna, Verità Annunziata! Purtroppo per lui l’Annunziata, sopravvissuta, in aula lo smentì. In
un rastrellamento italo-germanico era di guardia ad un automezzo. Per quanto riguarda la
cattura del partigiano Dino Bandini, fucilato a Castel Raniero, aveva semplicemente riferito
ciò che aveva saputo dagli altri. Infine, poco o nulla riuscì a dire a propria discolpa sulle
asportazioni di biciclette, cibarie, frumento e rottami di rame, di proprietà di Luigi Argnani,
ed analogamente sulle 25.000 lire pretese per la liberazione di Adriano Argnani e della
madre Amelia Raffaeli. A suo vantaggio, invece, andò il dibattimento sull’uccisione del sacerdote ai confini con la Svizzera.
La Corte, in data 13-12-45, non ebbe nessun dubbio che lo Schiumarini meritasse la pena
di morte, ma, trattandosi di un semplice esecutore d’ordini, anche se zelante, optò per i 30
anni di carcere.
Parecchia delusione tra i faentini e gli abitanti delle vallate circostanti. A dire il vero, in
casi di minore gravità (vedi Ancarani di Alfonsine) più pesanti erano stati i verdetti.
Questa volta, però, il cammino giudiziario risulterà meno assolutorio. La Cassazione condonerà dieci anni nel dicembre del 1946, la Corte di Appello di Bologna altri dieci nel 1948
ed un’altra Corte (non precisata) un ulteriore anno nel 1950.
Conti alla mano, l’ex bracciante rivedrà la libertà nel 1954.
Un ex Guardacaccia di Ravenna
Era sempre stato un posto molto ambito. Chi lavorava in Pineta poteva disporre d’alloggio, di provviste di legname e di quanto offriva il bosco, oltre allo stipendio. Controllava i
prelievi autorizzati dal Comune e, senza strafare, gli era consentito integrare il salario con
qualche regalia. Il posto solitamente era assegnato, dapprima a chi aveva meriti di guerra e
poi agli ex squadristi. Nella Ravenna degli anni Trenta l’ambito incarico aveva persino dato
luogo ad un duplice omicidio (novembre ‘31), quello dei fratelli Cuman (Elia e Alfredo),
lungo il muro di cinta del Palazzo Pasolini, in via Zirardini. Imponenti furono i funerali dei
Cuman, fascisti autorevoli, come fascista era l’assassino, Aldo Capanna, poi condannato, fratello di Antonio, assolto per insufficienza di prove. All’origine del fatto: dissidi personali,
beghe contabili e desiderio di subentrare nel posto di guardacaccia.
Maioli Achille, detto Banagré, fu Graziano e fu Teodolinda Gambi, nato a Ravenna nel
1899, anche lui un “ragazzo del ‘99”, il sogno lo aveva coronato, ma poi aveva scelto di coltivare la terra nei pressi della città. Ben presto era divenuto uno di quei contadini abituati a
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frequentare la piazza e a seguire la politica. Fu premiato con la nomina a segretario del
Fascio repubblicano rionale di Fiume Abbandonato. Capitò così che l’8 aprile del 1944, mentre stava lavorando nei campi, vedesse arrivare, armato di pistola, il noto fascista Remo
Camerani, all’inseguimento di tre giovani. A richiesta egli si associò nella caccia, che si concluse in malo modo per i tre fuggiaschi. Presente alla cattura un altro agricoltore, Antonio
Pucci, al quale i tre avevano chiesto la strada per Faenza onde evitare i nazifascisti. “Lasciateli
liberi” apostrofò. “Possono essere i ladri che stanotte hanno rubato una cavalla” fu risposto.
Strani ladri, che, invece di essere condotti in Questura, furono portati alla caserma della
GNR di via Garibaldi, riservata a renitenti o a patrioti. Sconosciuti i loro nomi e il loro destino. Uccisi? L’imputato ribadì la sua convinzione che si trattasse di malandrini, mai avrebbe
collaborato se avesse immaginato la natura politica dell’inseguimento.
La Corte (8-11-45) credette al Pucci e condannò il Maioli, in base alle attenuanti generiche, ad otto anni e mesi quattro.
La Cassazione gli diede speranza, rinviando alla Corte di Assise di Bologna.
Esito nel capitolo “Fuori Sacco”.
Animosità d’antica data o testimonianza credibile?
Ritorna l’affare del pilota caduto a S. Stefano, nei pressi di Ravenna.
E’ il 30 dicembre 1943. L’aereo è al suolo semidistrutto, l’aviatore è in cattive condizioni.
Il primo ad intervenire è Oscar, che conduce il ferito in una cascina sicura, quella di
Damassa. Numerose persone, mosse dalla curiosità, accorrono in entrambi i luoghi. Nel frattempo corre voce che stiano arrivando i tedeschi. Dino Ravaioli agisce con rapidità e sposta
l’aviatore in campagna, in luogo più sicuro. In fretta giungono anche i Carabinieri, che trovano il nascondiglio e consegnano il prigioniero ai tedeschi. La dinamica, però, non è passata inosservata. Si riunisce un Tribunale Straordinario per colpire chi ha offerto soccorso.
Dino Ravaioli viene fucilato la notte del 7 gennaio 1944, di fronte al muro del cimitero di
Ravenna.
Finita la guerra, il fratello del Ravaioli, Dante, racconterà le sue certezze. Il colpevole, a
suo avviso, era Federico Papa, che avrebbe detto “gli sparo” e soprattutto avrebbe deviato i
Carabinieri, orientati in direzione sbagliata, verso il nascondiglio del fratello.
Al processo furono chiamati diversi testi, presenti in quel giorno di fine dicembre, ma i
ricordi apparvero discordanti.
Primo Montanari aiutò l’imputato e incolpò genericamente altri.
La Corte (29-11-45) ebbe dubbi, tanto più che tra le due famiglie coinvolte correva
un’acredine antica. E poi, per quale motivo un modesto manovale delle ferrovie, con sette
figli a carico, non iscritto al PFR, all’età di 48 anni, avrebbe dovuto compiere un atto così
deplorevole? Come se lo stesso interrogativo non potesse valere all’incontrario: perché il
fratello di Dino Ravaioli avrebbe dovuto accusare il Papa?
Insufficienza di prove.
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Cariche fantasma
Nel Ventennio solo il mito del Duce doveva emergere e, nelle province, i vari ras non
potevano coltivare il proprio. Mussolini stesso controllava che i giornali locali non uscissero
dallo schema imposto, magari con elogi eccessivi al Federale, raramente citato con nome e
cognome. Le ovazioni non dovevano essere mai alla sua persona ma alle citazioni del Capo.
Del resto, dopo una fase iniziale convulsa, il regime si era assestato, assegnando ai
Prefetti la massima autorità e il massimo potere, cui ogni altro era subordinato. Con la
Repubblica di Salò le gerarchie non erano mutate ed era cresciuto il ruolo del Capo
Provincia (il Prefetto), responsabile in parte anche della situazione militare. Il Segretario del
Partito talora veniva anche dopo il Comandante della GNR. Diversità si riscontavano in questo caso tra provincia e provincia, tra un prima e un dopo. Dipendeva anche dalla forza del
movimento partigiano e dall’approssimarsi del fronte. Variazioni significative si ebbero con
la militarizzazione del partito e cioè con le Brigate Nere.
Inoltre, non sempre i capoluoghi erano in grado di controllare le realtà periferiche.
In qualche provincia a gestire il partito era un Triunvirato, composto dal Federale e da
altri due, scelti non per funzioni, ma per prestigio. Naturalmente, quasi ovunque erano sparite le figure del primo fascismo, fenomeno già avviato con lo scoppio della guerra ed accentuatosi con le diserzioni dei vecchi capi. Le cronache giornalistiche non aiutavano molto a
capire chi ricopriva i vari incarichi, anche per motivi di sicurezza, per non indicare possibili
bersagli. Talune ricerche hanno pure evidenziato un fuggi fuggi dalla cariche comunali. Era
difficile trovare gente disposta a fare i Podestà o i Commissari prefettizi. Troppi problemi,
troppi pericoli, nessuna certezza del futuro. Da ultimo, a determinare in loco le gerarchie
sul campo non sempre erano le autorità centrali, sistemate tra Brescia e Verona, ma i
Comandi tedeschi. Questa premessa per introdurre la figura di un politico ravennate di
primo piano, giovane, arrestato nel maggio 1945 con le seguenti accuse: ex Federale, fondatore del Fascio Repubblicano di Ravenna e poi della Brigata Nera. A corollario: intensa propaganda e partecipazione a rastrellamenti.
Si parla di Eugenio Cicognani, fu Aldo e di Domenica Strocchi, nato a Ravenna nel 1916,
impiegato, detenuto dal maggio 1945, in calce alla sentenza, dal giugno in narrativa. Non è
l’unica incertezza della sentenza, non apparendo neppure chiaro se il Cicognani avesse ricoperto, o meno, la carica di vice Federale del Fascio Repubblicano.
Ci pensò l’imputato a svelare i ruoli ricoperti (forse con qualche dimenticanza) e lo fece
con piglio politico. Credeva che il fascismo fosse lo strumento più adeguato agli interessi
della Nazione. Da qui l’adesione al PFR, con l’incarico di responsabile dell’Ufficio
Inquadramento per raccogliere le adesioni (capo dell’organizzazione, normalmente vicesegretario ). Per breve periodo, fu anche Commissario Straordinario dell’Opera Nazionale
Balilla, componente della Commissione per gli illeciti arricchimenti dei fascisti (come ritorsione contro gli ex gerarchi defilati), e, da ultimo, Commissario Prefettizio di Fusignano,
dalla primavera all’autunno del 1944. Nello specifico, il Cicognani negò la propaganda filotedesca (!), i rastrellamenti, l’appartenenza sia alla GNR che alle Brigate Nere.
Di per sé gli uffici ricoperti non erano censurabili a norma di legge. E allora? Il Segretario
Comunale di Fusignano, Cesare Bedeschi, aveva riferito una conversazione udita una sera
tra il Cicognani e il responsabile politico del Fascio locale, Vecchi. Il primo sollecitava
un’azione fascista contro gli sbandati e il secondo, in modo lapidario: “Ci vuole altro!”
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Ci voleva altro anche per ricavarne un’accusa di collaborazionismo o di partecipazione a
rastrellamenti, considerazione non sfuggita allo scaltro Cicognani, che non escluse di avere
detto la frase incriminata, poiché gli avevano ammazzato il messo comunale. Uno strano
processo, con solo testimoni a difesa, compreso l’iniziale accusatore, il Bedeschi, che si mise
a tessere le lodi dell’ex Commissario. Una volta aveva sostenuto che erano migliori i ribelli
dei fascisti, dopo che alcuni militi si erano impadroniti delle sigarette destinate alla popolazione. Inoltre, si era prodigato a favore di perseguitati politici e di altri “non simpatizzanti”
per il nuovo regime. Poco mancò che in quel 4 dicembre del 1945 il Cicognani uscisse in
trionfo. Assoluzione piena.
Un rammarico finale, a fini storici: aveva o non aveva ricoperto la carica di vice Federale?
Dal Lussemburgo a Ravenna
Un’insolita figura di imputato. Mariani Dino, classe 1921, nato a Isola del Piano (Pesaro),
si trovava nel Lussemburgo a studiare nel 1942 (figlio di emigrante?). Cittadino italiano,
dovette rimpatriare per il servizio militare. Come tutti, dopo l’8 settembre si sbandò. Soldi
non n’aveva, vivere bisognava, in attesa di ritornare lassù in famiglia.
In Lussemburgo comandavano i nazisti, stessa cosa in Italia, per cui, non volendo rispondere alla chiamata alle armi di Graziani, scelse di sfruttare la conoscenza della lingua tedesca e si presentò volontariamente ai reparti tedeschi che lo impiegarono in servizi civili.
Tutto qui. I suoi guai, arresto nel giugno 1945, derivarono da quell’avverbio. Volontariamente.
La Giuria (Peveri, Dradi Dario, Linari Luigi, Bubani Terzo e Minguzzi Silvio) rapidamente
rimandò lo studente in Lussemburgo, dalla madre, Zenita Magrini, vedova di Elio Mariani
(sentenza 11-12-45).
Tra il Ronco e il Montone
Roncalceci sorge tra i due fiumi, in mezzo ad una campagna ridente. Nella passata civiltà
contadina il paese gravitava sulla vicina S. Pietro in Vincoli e su Russi.
E’ il 29 luglio 1944, un tedesco resta ferito e degli autori nessuna traccia. Rapide consultazioni presso il presidio Germanico, poi un ufficiale, accompagnato da Dino Bertini, segretario del Fascio di Ghibullo e Roncalceci, e da un interprete, raggiunge la casa di un capetto locale, Nello Valenti, meccanico, iscritto al PFR e componente delle Brigate Nere. Vuole
20 nomi di persone da arrestare. Poi si vedrà. Non sono poche, ma per il Valenti non è un
problema, a costo di ricorrere a nominativi femminili.
30 luglio, all’alba. Alcuni automezzi si muovano con determinazione, su uno il Valenti, in
veste di guida, premiato per l’occasione con una fiammante divisa tedesca. Gli ostaggi,
(Fabbri Adelaide e la figlia Paola, Olivieri Armando, Rusticali Mentana, Ghidini Nando, Ghiari
Agostino, Brandolini Lorenzo ed altri) sono condotti nelle Carceri di Forlì. Di questi, almeno cinque tra cui due donne, esclusa l’Adelaide, finiscono in Germania, gli altri a casa.
Quanti testimoni al processo! Al Valenti non restò che confessare.
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Contro di lui pendeva una seconda accusa. La partecipazione, come guardia, all’eccidio
di Ponte degli Allocchi. Così voleva la voce pubblica, raccolta dal teste Lino Amici. Era credibile, data la sua appartenenza alle B.N., ma i giudici volevano prove. E le prove, caso mai,
erano di segno contrario, stante il dire di un brigatista, Natale Mariani, che quel tragico 25
agosto aveva il compito di tenere la contabilità dei presenti. No, non risultava.
12 anni di reclusione, senza alcuna attenuante, in data 11-12-45. Il 2 luglio del 1946,
Valenti Nello, di Paolo e di Artemisia Orselli, nato a Ravenna nel 1913, ritornerà libero, amnistiato.
A fare il meccanico? Forse. Di sicuro non tra il Ronco e il Montone.
Cuore di mamma
La signora Teresa Cavassa abitava a Ravenna, in via Bastione.
Un giorno indeterminato del 1944, incerto anche il mese nella mente di Teresa (prima
aprile, poi poco prima della fuga dei fascisti dalla città, ottobre?), alle 13, una macchina di
repubblichini si ferma davanti a casa sua. Sono otto o dieci, in borghese, e perquisiscono
l’abitazione in cerca del figlio, Giuseppe Mamini. Non lo trovano. Fuori, la donna vede in
compagnia del gruppo un signore che conosceva perché custode dell’ospedale civile.
Il giorno dopo, casualmente, ha l’occasione di notare lo stesso personaggio in un’automobile, che le vicine giurano appartenere alla Federazione fascista. Non dovevano essere
molte le auto in circolazione.
L’uomo in questione rispondeva al nome di Spadoni Mario, fu Giacomo e di Giulia
Paganelli, classe 1909, nativo di Forlì. Il posto al nosocomio cittadino risaliva al 1936, come
ricompensa per la ferita riportata dall’Africa Orientale, mentre dava il suo contributo alla fondazione dell’Impero, nell’ “81° Battaglione Camicie Nere”. Volontario? Fu accusato di delazione, su iniziativa della Delegazione Provinciale dell’Alto Commissariato per l’Epurazione,
e il 14 settembre finì in carcere.
A sua discolpa, lo Spadoni ricordò che, abitando in via Donatello, quello era il tragitto
quotidiano per andare al lavoro. Ore 13? E’ possibile, coincidendo con la pausa pranzo. La
Corte concesse anche una seconda possibilità: naturale curiosità (la sua) di chi vede un crocchio insolito. Esagerò poi, con l’ammetterne persino una terza: un passaggio casuale in auto.
Con chi? Meglio dire che a parlare per la Cavassa era stato il cuore di mamma.
A beneficio dell’imputato anche le opinioni dei colleghi, concordi nel dichiarare che lo
Spadoni mai si era espresso a favore della sedicente repubblica di Salò.
Assoluzione piena (13-12-45). Se non fosse stato un pubblico dipendente, il Nostro non
avrebbe attirato l’attenzione dell’Alto Commissariato e, cosa non irrilevante, non si sarebbe
fatto tre mesi di prigione. Un’ultima considerazione. Come mai non fu chiamato a deporre
il ricercato Giuseppe Mamini? Avremmo almeno saputo se la perquisizione era avvenuta ad
aprile o ad ottobre.
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Nero da sempre
Il 18 dicembre del 1945, udienza con due processi.
La curiosità era al di sopra della norma, data la presenza di un personaggio di prima grandezza, più per la notorietà che per le imputazioni. L’uomo, Felice Camerani, meritava una
simile attenzione, sia per il curriculum, sia per le accuse specifiche. Molti vecchi ravennati
lo conoscevano per averle buscate, quelli di mezza età per averlo visto sempre in mezzo ai
capi, i più giovani per averlo evitato durante la Repubblica di Salò. Se fosse stato processato per la continuità nei crimini, avrebbe meritato la pena massima.
Ma questa non era tra le competenze delle Corti Straordinarie, post Liberazione.
Il Camerani, temuto da tutte le generazioni, era però relativamente giovane, di soli 35
anni nel 1943. Ma già a 13 anni aveva cominciato a picchiare e ad incendiare. Non lo dicevano gli avversari, ma le sue onorificenze, legittime si crede. Squadrista, Sciarpa Littorio,
Marcia su Roma. Nella Ravenna del Ventennio mica tutti potevano portare simili distintivi!
Guadagni più consistenti erano venuti sul piano economico, con un incarico di potere nell’area del Porto, come ormeggiatore, in posizione di quasi monopolio a rimorchiare navi in
entrata e in uscita dal Candiano. Al fascismo aveva dato e dal fascismo aveva ricevuto.
Dopo l’8 settembre, iscrizione al PFR, arruolamento nella GNR, per poi passare alle B.N.,
più simili nello stile a quello delle squadracce del 1921-22-23-24. Da Ravenna andò al nord
per nuove gesta (gli si farebbe torto a dubitarne). Infine la resa agli alleati e il campo di concentramento di Coltano. Scontata l’imputazione di collaborazionismo con il tedesco. Nello
specifico, correità nell’omicidio di tre cittadini (Zoli, Melandri, Corniola, di cui già in altre
cause), catturati al ritorno dal lavoro e fermatisi casualmente in osteria. Trucidati in modo
barbaro il 21 luglio del 1944 (in via Belvedere), come rappresaglia per l’uccisione di uno dei
peggiori brigatisti (Scciantén). Sempre in luglio, complicità nella cattura di Edmondo Toschi,
poi fucilato al Ponte degli Allocchi. Da ultimo, partecipazione all’eccidio medesimo.
Altri capi d’accusa scaturirono dalle parole dell’imputato stesso.
Ammise che nella primavera del 1944 aveva partecipato a perquisizioni domiciliari in quel
di Marzeno (uno di quelli già narrati?) alla ricerca d’armi appartenute al disciolto Esercito e
ciò, si noti la finezza, in collaborazione con agenti di Pubblica Sicurezza. Un’altra volta aveva
perlustrato la Pineta di S. Vitale alla ricerca di due camerati scomparsi.
Quanto agli addebiti più gravi, il Camerani dovette difendersi dalle accuse provenienti
dall’interno delle B.N. e dalle sue iniziali dichiarazioni. Il Poletti Primo, già condannato,
aveva raccontato che il Nostro, mentre si trovava a S. Pietro in Vincoli di guardia alle trebbiatrici, una notte fu richiamato in Federazione a Ravenna, assieme alla squadra, per procedere alla fucilazione dei tre di cui sopra. Versione accusatoria, non più confermata. Per la Corte
la confessione del camerata non era valida neppure come indizio, perché indiretta!
Altro colpo da parte di Bruni Aldo, tra gli imputati di due giorni dopo, che, avendo dovuto tenere l’elenco dei partecipanti all’eccidio del Ponte degli Allocchi ed impedire che qualcuno passasse oltre il Torrione, non aveva dubbi sulla presenza del Camerani, cui non rimase che una debole giustificazione: presente, ma a distanza dal capestro. Indefinibile, da ultimo, la linea difensiva sull’episodio della cattura del Toschi. Egli aveva chiesto a certo
Matteucci di non riferirgli il recapito del ricercato, onde rendere spontaneo il prosieguo
della ricerca stessa! Come a dire più emozionante e con qualche possibilità per il topo di
sfuggire al gatto.
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Poi, con altri tre aveva continuato la caccia, raggiungendo lo scopo. Comunque, in ciascuna operazione, aveva ubbidito agli ordini del Comandante della B.N., l’Andreani.
Conclusione: dodici anni di reclusione. Giuria (Peveri, Pirazzini Cesare, Masetti
Guglielmo, Morosi Candido, Bartoletti Bartolo).
Tanto rumore per nulla. Quasi una giornata, per giudicare una delle figure più in vista
della città, con un’intera esistenza all’insegna della violenza e del crimine, quasi senza soluzione di continuità, conclusasi con un verdetto benevolo. Probabilmente avrà inciso l’oratoria degli avvocati difensori, sicuramente principi del foro, date le notevoli disponibilità dell’imputato. Nel luglio successivo, ad appena 38 anni, Felice potrà riassaporare la brezza del
Candiano, a bordo di uno dei suoi rimorchiatori.
Amnistiato.
Un trio male assortito
Era raro che la Corte di Ravenna, a differenza della consorella di Forlì, processasse più di
un imputato alla volta. Successe il 20 dicembre 1945, con tre detenuti alla sbarra, un giovane di Cervia e due uomini maturi di Ravenna, il cui primo incontro era nato in circostanze
drammatiche. Diverse anche le biografie politiche. Vediamo le loro storie.
Cappelletti Domenico, classe 1925, figlio di Michele Pietro e di Geltrude Gattamorta,
faceva il meccanico a Cervia e da giovanissimo, imperante il fascismo, si era schierato con gli
oppositori, ricavandone il Confino di Polizia. La sua più festosa giornata era stata il 25 luglio
del 1943, per due belle notizie: la caduta di Mussolini e la propria liberazione. Dopo l’8 settembre fu tra i primi a scegliere la lotta armata contro i nazifascisti e a dicembre, a seguito
di un conflitto a fuoco con i fascisti, fu arrestato. Riuscì ad evadere e, questa volta, salì in
montagna, puntando verso la sorgente del fiume cervese, il Savio. In formazioni partigiane,
a S. Sofia. Un duro inverno, ma ancora più aspra la primavera, quando i tedeschi organizzarono imponenti operazioni di rastrellamento, conclusisi con molti caduti, feriti, catturati.
Sbandamento generale tra i ribelli, reso più evidente dal disperato invito al “si salvi chi può”.
Era il mese d’aprile del 1944. Il giovane pensò così, come suggerisce l’istinto delle lepri, di
ritornare alla tana di partenza, trovando rifugio a Cervia presso i parenti della madre, i
Gattamorta.
Il 30 aprile una pattuglia di Alpini mise fine alla sua libertà. Consegnato alla Guardia
Nazionale di Ravenna, a disposizione dell’Ufficio Politico Investigativo, per Domenico ebbe
inizio un doloroso calvario, terminato a luglio con la deportazione in Germania.
Di Ravenna era Savorini Alvaro, di Antonio e di Maria Pagliarini, classe 1909. Non doveva
amare la vita comoda e ben presto lasciò la bottega di barbiere per entrare nella Milizia in
servizio effettivo. Di poi nella Guardia Nazionale Repubblicana, Maresciallo, nominato Capo
dell’Ufficio Investigativo, proprio lui che aveva subito una condanna per furto.
L’altro ravennate era Bruni Aldo, nato nel 1914 da Mariano e da Lucia Minghelli. Durante
il fascismo, non ebbe grandi occasioni e campava facendo il fornaio. Con il secondo fascismo fu tra i primi ad accorrere nel Partito e a sistemarsi alla Caserma Garibaldi, dove collaborava con il Savorini. Investigatore, quasi sempre in borghese. Dinamico e convinto, con lo
sviluppo del movimento partigiano, lasciò la GNR per passare alle Brigate Nere. Crebbero
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così potere e stipendio e, quando, a fine settembre del 1944, l’intero apparato poliziesco e
militare si sposterà al nord, il Bruni era già diventato una delle figure più in vista della città.
A Ravenna avviene l’incontro tra i tre, con il Savorini che vuole dal giovane Cappelletti informazioni sui partigiani e soprattutto su chi l’aveva agevolato nella fuga. Pochi preliminari,
sevizie con il fuoco tra le cosce, per ben tre volte, con la precauzione di salvare il volto (si
vedrà più avanti perché). Alla fine, saltano fuori due nomi, un certo Piron di Vecchiazzano
(oltre Forlì) e Domenico Ravaioli di Castrocaro.
Il 3 maggio 1944 una macchina con quattro persone, i tre imputati di questo processo e
Orchideo Mazzotti (definito nelle carte come “un certo”, di contro tristemente noto in
Ravenna) si ferma davanti all’abitazione del Ravaioli. Perquisizione ed arresto, con trasferimento alle Carceri di Forlì, per le inevitabili torture. Bottino: lire 500 e 50 Kg di carne (destinata ai partigiani?). Il giorno dopo tocca al Piron, identificato per Domenico Flamigni, un
vecchio di 81 anni. Qui scatta la trappola. Gli si fa credere che si tratti di ribelli che vogliono
salire in montagna. La presenza del Cappelletti è una garanzia e il Savorini esibisce pure una
tessera del Partito Comunista (un trucco ingenuo ma fruttuoso). La fiducia acquisita porta
ad una terza persona, Luciano Caselli, e da qui alla famiglia Fantini, dove si prendono gli
accordi per nascondere l’automobile con cui salire in montagna. Tutto procede al meglio.
Ma il quartetto ravennate ha un’ultima esigenza, ritirare un carico di munizioni. “Andiamo e
torniamo subito”. L’auto riparte con a bordo anche il Caselli, che dopo breve tragitto decide di scendere. Aveva mangiato la foglia? La parola è mantenuta. Alle 19 la comitiva ritorna
da Forlì, accompagnata da una trentina di militi di un Battaglione veronese, al comando di
un sottufficiale. La furia si abbatte sull’abitazione dei Fantini. Si scoprono armi. Vengono
arrestati i fratelli Primo, Aldo e Carlo, detto Sergio. Via anche biciclette e denaro (5.300 lire
ed altre 867). Caricati sul camion anche Evo Ravaioli (poi deportato in Germania), Francesco
Corbari e Francesco Donati.
Prima di ripartire per il Carcere di Forlì, un’ultima incombenza. Interrogare i fratelli
Fantini, Primo e Sergio, per appurare il responsabile della detenzione delle armi. Sergio scagiona Primo e viene immediatamente fucilato dal sottufficiale e da un milite. Il corpo, lasciato in mezzo alla strada, è affidato dal Maresciallo dei Carabinieri, accorso per i rilievi del caso,
alla guardia di Gaspare Ciani, Domenico Lombardi e Francesco Paganelli. Ma anche per loro
il destino porta alle prigioni di Forlì! Solo il Donati non vi arriverà, perché finirà all’ospedale
per le ferite riportate in un tentativo disperato di gettarsi dal camion. E, come in una storia
infinita, anche lui riceverà, dopo cinque o sei giorni, la visita di Savorini, Bruni e Mazzotti
(ormai inutile la presenza del Cappelletti), curiosi di sapere chi gli aveva offerto la bicicletta al
tempo di una precedente fuga da un altro ospedale, quello di Ravenna. Un aiuto gli promise
il Bruni: “Se non parli, ti apro le ferite con le mie mani e poi t’impicco con le tue budella!”.
La storia meritava un’estesa narrazione, come modello di una brillante operazione di
polizia, ma anche per le conseguenze dolorose derivate al giovane cervese, il Cappelletti,
dapprima deportato in Germania, poi arrestato dopo la Liberazione ed infine in gabbia assieme ai suoi torturatori, con l’imputazione di delazione. Ben altri i misfatti attribuiti al
Savorini, condensati in oltre due pagine. 1)Avere interrogato con i soliti metodi Suzzi Valter
e famiglia, Ricci Umberto, Zoli Francesco, Ravaioli Dino, Graziani Augusto, Lolli Colombo e
Giulio (tutti fucilati); 2) aver catturato varie persone tra cui Biondelli Rolando a Torre di
Marzeno, 12-5-44; 3) aver partecipato al rastrellamento di Piangipane, a fianco dei tedeschi,
conclusosi con sette fucilazioni sul posto (22 giugno 1944); 4) aver privato della libertà Turci
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Umberto, Cecchi Angelo e Gardelli Guido, in località Fossatone, il 19 aprile del 1944; 4)
essersi impossessato nella località di cui sopra di beni appartenenti al Turci, prelevati dal
capanno-abitazione, di 700 cartucce da caccia, 2 quintali di vino, molta legna, ecc.; 5) avere
privato della libertà personale Babini Sauro, poi ucciso a Roncalceci, marzo 1944; 6) come
sopra, nei confronti di Rivalta Renata, Dradi Vanda e Poggiali Franco, a Filetto, 4 agosto 1944;
7) avere prelevato arbitrariamente una “Guzzi 500” di proprietà di Gherardi Felice, a Fosso
Ghiaia, 8 settembre 1944; 8) avere partecipato a razzie e rastrellamenti in provincia di
Ravenna, Forlì ed altrove.
Tutti reati commessi con responsabilità di graduato, condotti sempre con violenza, spesso con fini di lucro e in collaborazione con i nazisti.
Altrettanto corposo il fascicolo riguardante il Bruni. Si va dal rastrellamento di partigiani
e di renitenti alla leva nelle località di Classe, Porto Corsini, Cervia, Alfonsine, Ghibullo,
Roncalceci, agli atti di violenza e di terrore per deprimere lo spirito pubblico. Dalla partecipazione all’eccidio del Ponte degli Allocchi (25-8-44) alla cattura di Ravaioli Dino (fucilato
nel gennaio 1944). Dall’eccidio di Cervia (20-3-44) alla retata con omicidio di Vecchiazzano
(4-5-44), ai fatti del Fossatone (19-4-44). Il Savorini, nei primi interrogatori di polizia, si era
difeso sostenendo che mai si era allontanato dall’ufficio, dove i sospettati venivano trattati
correttamente. Poi, aveva ceduto un poco, affermando che le trasferte in varie località erano
decise dall’alto e finendo con l’elencare più o meno i luoghi di cui sopra. Mai una violenza.
Anzi, a Vecchiazzano era intervenuto per impedire che il sottufficiale veronese procedesse
alla fucilazione anche del secondo fratello Fantini, cioè di Primo (accadde veramente).
Diversa la linea del Bruni, subordinato dapprima al Savorini nella GNR e poi all’Andreani
e ad altri nelle Brigate Nere. Limitò il proprio ruolo e contemporaneamente aiutò gli inquirenti a ricostruire vari misfatti, con i relativi partecipanti. Gli era congeniale il lavoro, perché
la mattina del 25 agosto 1944 era proprio lui a tenere la contabilità dei brigatisti neri in servizio durante le impiccagioni e le fucilazioni.
Un collaboratore di giustizia.
Il più scombussolato dei tre era il Cappelletti di Cervia, odiato dai testimoni antifascisti
di Vecchiazzano e costretto ad un’insopportabile compagnia. Venne in suo soccorso l’organizzatore della Squadra partigiana di Cervia, Giovanni Fusconi, che ricordò che se avesse
voluto tradire i suoi compagni nessuno di loro si sarebbe salvato.
La Corte (Peveri, Pirazzini, Morosi, Giannetti e Bubani) assolse il Cappelletti, per avere
agito in stato di costrizione. Ritenne il Savorini meritevole della pena di morte, con la diminuente per gli interventi a favore di alcuni perseguitati.
Quindi, 30 anni di reclusione. Pena dimezzata per il Bruni. 15 anni. Nel novembre del
1946 la Suprema Cassazione annullerà la sentenza, rinviando alla Corte di Assise di Firenze,
limitatamente al Bruni per quanto riguarda l’eventuale amnistia. Nessun altro riferimento,
agli atti, sull’esito del nuovo processo.
Fascisti di una volta
Non tutti i fascisti della prima ora si erano presentati spontaneamente alla chiamata di
Salò. Alcuni perché espulsi dal Partito nel ventennio, altri perché consideravano quella sta-
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gione sepolta, altri per scarsa fiducia sull’esito della guerra, o per condizioni di salute, o per
delusioni, o perché ormai sistemati. Essi, in vero, non avevano obblighi di leva ed avrebbero potuto semplicemente assistere agli eventi. E così accadde per un certo periodo. Poi, per
il moltiplicarsi delle diserzioni e per i fallimenti del reclutamento obbligatorio per i giovani,
il regime pensò anche a loro, con promesse, minacce e lettere più o meno minatorie.
Uno di questi era Armando Falerni, di Ignoti, nato a Codifiume, classe 1890. Era stato
squadrista e nell’aprile del 1944 ricevette una cartolina precetto, per presentarsi alla Milizia
(GNR), dove fu premiato con il grado di sergente, senza neppure una visita medica. In
Romagna, il Falerni operò dapprima a Ravenna, per 20 giorni, poi a Ghibullo, S. Pietro in
Vincoli, Cervia. In quest’ultima località, per sua stessa ammissione, partecipò ad un rastrellamento su ordine tedesco, nell’agosto 1944. Doveva scovare uomini nascosti nella zona di
Savio, da consegnare alla Todt. L’impresa fu un fallimento, poiché egli, assieme ai tre militi a
disposizione, ritardò l’operazione di circa un’ora, dando così modo a tutti di uscire di casa.
Credibile, anche perché successivamente, in autunno, lo ritroveremo declassato a
Lavezzola, dipendente del Comando tedesco, con mansioni di piantone e d’addetto al
governo dei cavalli. E dopo? In Veneto. A ricongiungersi con i repubblichini? Non si dice.
In stato di detenzione, il Falerni fu condannato a 15 anni di carcere (12-7-45). Nel luglio
di un anno dopo uscirà per amnistia.
Un fascista di una volta era anche un imputato che comparve a giudizio l’11 ottobre 1945,
in stato di detenzione da fine aprile. Si chiamava Caselli Augusto, di Antonio e di Mezzadri
Maria, nato a Parma nel lontano 1898. N’aveva delle storie da raccontare, ma quasi tutte relative a fatti lontani, cioè alle violenze compiute nel parmense contro i socialisti e le loro sedi.
Per questo si era vantato a lungo delle onorificenze ricevute, “Squadrista, Marcia su Roma e
Sciarpa Littorio”. Lontane nel tempo e nello spazio, visto che nel 1935, nonostante fosse
coniugato, partì come volontario per l’Africa Orientale come caporale dell’81° Battaglione
delle Camicie Nere. Ma alla Questura di Ravenna quegli eventi non interessavano. Gli agenti volevano invece sapere del suo operato dopo l’8 settembre 1943. In parte, avrebbe dovuto essere noto, visto che il Caselli per un certo periodo aveva prestato servizio d’ordine pubblico, proprio presso la Questura di Ravenna. Come mai a Ravenna? Semplice: come molti
squadristi, era stato assunto in qualità di custode presso una ditta che operava sul porto,
dove risultava domiciliato al momento della cattura, in via Alaggio n.31. Il Caselli aggiunse
altri dati: l’iscrizione immediata al PFR e l’arruolamento nella GNR, con compiti minori:
aggregare guardie da destinare al controllo del lavoro coatto e distribuire cartoline precetto
per addetti alle riparazioni stradali e alle fortificazioni.
Un unico addebito specifico: la collaborazione con i tedeschi in lavori svolti nel ferrarese, a Masi Torello. Assoluzione inevitabile perché il fatto non costituiva reato.
Nella stessa giornata d’ottobre comparve un altro immigrato, un altro anziano, già pensionato malgrado non avesse ancora 50 anni. Si trattava di un calabrese, nato a Radicana di
Reggio Calabria nel 1896, senza meriti squadristi. Gerace Antonio il suo nome. Prima di
lasciare il lavoro, era stato tanti anni nella Guardia di Finanza, da cui era stato congedato con
il grado di Maresciallo maggiore. Ormai privo dei genitori, Giuseppe e Barillaro Concetta,
aveva preferito restare con la famiglia in Romagna e si era sistemato a Solarolo.
Nell’aprile del 1944, per integrare la pensione o forse per convinzioni politiche, ritornò
in attività, aderendo alla GNR. Nulla si sapeva d’eventuali operazioni condotte in provincia
di Ravenna, certo era invece il suo apporto alla campagna antipartigiana nell’area di Treviso,
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a Codogné, dove il Caselli aveva svolto indagini di polizia ed aveva combattuto nel
Battaglione “Romagna”, dall’ottobre del 1944 all’aprile del 1945. Mesi dolorosi per i ribelli,
durante i quali i fascisti romagnoli si distinsero. Niente di specifico, però, fu attribuito all’imputato (almeno per episodi accaduti in zona), per cui l’ex finanziere fu assolto perché il fatto
non costituiva reato.
Ragazzi allo sbando
Brogin Sante era capitato per caso in Romagna. Era un veneto, nato a S. Urbano di Padova
nel 1927, da Giacomo e da Cagliari Vittoria. La sua era una famiglia povera, che aveva sperato di trovare fortuna oltre mare, in Libia, dove, carica di figli oltre che di speranze, era approdata nel 1940. Vi giunse invece la guerra, che comportò il rientro in patria di migliaia di coloni. Per il ragazzino si aprirono così le porte del Collegio Libico, situato a Riolo. Sante sarebbe diventato un buon falegname, sennonché la scuola fu chiusa nel 1943. Senza tetto e senza
l’aiuto dei genitori, per fortuna superò le difficoltà del vivere trovando ospitalità presso varie
famiglie. Un giorno, ebbe la sventura di incontrare per strada l’ex direttore del Collegio, che
lo consigliò di risolvere ogni problema arruolandosi nella GNR. Aveva solo 16 anni. Da quel
giorno, con la divisa grigio-verde e poi con quella nera della Brigata, partecipò a rastrellamenti nel bolognese (Sasso Marconi e Budrio), nel faentino, nel vicentino e da ultimo nel
novarese, dove fu catturato dai partigiani verso la fine di aprile del 1945. Consegnato agli
alleati, Sante riprese la via del Sud, con probabile destinazione sulle coste africane.
Ma a Palermo il ragazzo fuggì dal treno. Sarebbe potuto andare nel padovano, in cerca di
qualche famigliare, ma, ormai privo di radici, preferì raggiungere con un amico Casola
Valsenio. Forse non passò inosservato, ma fu lui a decidere di consegnarsi al Comitato di
Liberazione e a raccontare le sue peripezie. Quali le ammissioni? Portare ordini per la trebbiatura, dopo gli scontri armati prestare soccorso ai feriti e dare sepoltura ai caduti.
La Giuria, mossa da buoni sentimenti, non volle approfondire, nonostante il rastrellamento di Budrio fosse durato ben tre giorni, e concesse allo sventurato ragazzo il beneficio
dell’insufficienza di prove (23-8-45).
Ancora più giovane era un altro imputato di giornata, Baroni Alfredo di Ravenna (di
Germano Antonio e fu Ravaglia Elena), essendo nato nel 1929. Senza madre e di condizioni
miserevoli, ad appena 15 anni corse alla GNR, nel febbraio del 1944. Alfredo fu addestrato
ed assegnato, dal mese d’agosto, alle batterie antiaeree tedesche, la Flak. E con tali mansioni rimase fino alla fine della guerra, che lo colse a Bolzano. Presentatosi spontaneamente al
CLN di Ravenna, fu assolto perché il fatto non costituiva reato.
Diverso il destino di un altro giovane, più vecchio dei due sopraindicati e con un curriculum più impegnativo. Si chiamava Del Grande Giuliano (di Primo e Ferretti Amedea), nato
a Meldola sul finire del 1925. Se nel 1943 l’avessero lasciato dove si trovava, Giuliano non
avrebbe portato alcuna divisa. Ma i repubblichini, affamati d’uomini, avevano pensato di liberare i riformatori, le carceri per minorenni e, più tardi, anche i penitenziari per gli adulti.
Pertanto, il giovane, che si trovava agli arresti presso il “Beccaria” di Milano, fu spedito nel
novembre del 1943 (non ancora diciottenne) alla Milizia Volontaria di Ravenna. Da detenuto
a poliziotto, in poche ore. Da allora, girò mezza Italia del nord, in divisa italiana ed in divisa
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tedesca. Le tappe: Conselice, Ravenna, Mezzano, Bologna, Bassano del Grappa ed ancora
Bologna, Vergato. Luoghi passati alla storia, per l’intensità degli scontri con i ribelli ed anche
per la guerra tradizionale. Il giovane, infatti, fu impegnato pure in prima linea contro gli alleati, nella Flak. Uno dei pochi. La sua vicenda si esaurì a Trento, quando si arrese con il suo
reparto. Arrestato di ritorno dal nord, fu giudicato il 4 settembre 1945, da detenuto.
Giuliano avrebbe potuto raccontare numerose vicende, sicuramente d’interesse per gli
studiosi, ma la Giuria si accontentò dei riferimenti al rastrellamento di Fusignano del marzo
1944 (quello del Palazzone è del 23 aprile). Lui era in compagnia dei tedeschi, impegnati
negli scontri con i partigiani. Dalla casa, dove era stato assegnato per la vigilanza, si udivano
gli spari. Poi, silenzio. Fece in tempo a vedere il ritorno dei nazisti che accompagnavano
quattro giovani, eliminati sotto i suoi occhi.
Il collaborazionismo con l’invasore risultava evidente e Del Grande fu ritenuto meritevole d’anni dieci di detenzione. Pena ridotta a 6 anni e 8 mesi, stante l’attenuante di avere agito
in ottemperanza ad ordini (4-9-45).
Una vita di collegio (non da recluso) anche quella di un altro giovanissimo di Lugo, Testa
Remo, fu Cesare e fu Capuzzi Carolina, nato nel dicembre del 1927. In Collegio, come lui, i
suoi quattro fratelli. Per le precarie condizioni economiche, la madre, ancora viva sotto Salò,
l’aveva mandato dai Salesiani, dove aveva imparato l’arte del tipografo. Poi, la donna, convinta fascista ed iscritta da subito al PFR, spinse il figliolo, nel gennaio del 1944, ad arruolarsi nella GNR. Remo aveva appena compiuto i sedici anni. Seguì l’addestramento presso le
SS di Cremona, con successiva destinazione Pinerolo e poi Cantù. In Piemonte partecipò ad
un rastrellamento che portò alla cattura di cinque partigiani, consegnati ad altro reparto,
d’ignoto destino. Insoddisfatto della vita di caserma e deluso dei metodi nazifascisti, nel
gennaio del 1945 abbandonò la divisa, ma fu catturato dai tedeschi e deportato in Germania,
impiegato in opere di fortificazione a Monaco di Baviera e poi sul Brennero. Prima della fine
della guerra, altra fuga, da Venezia.
Il collaborazionismo scaturiva dalle stesse parole di Remo, detenuto dal maggio 1945, ma
la sua condanna non poteva essere quella consueta, di dieci anni. Molte erano le attenuanti, l’età, la condizione di subalterno comandato, le ripetute fughe. I giurati (9-10-45) ne tennero conto, forse valutarono pure la triste condizione dell’intera famiglia. Due fratelli ancora ricoverati in un Collegio di Conselice, il terzo, spedito a Brescia a curarsi la tubercolosi, il
quarto, ritornato a casa con l’attestato di combattente a fianco degli alleati. Per tutto ciò, la
pena fu ridotta ad anni 3. Amnistia nel luglio del 1946, dopo un anno di prigione.
Era del 1927 anche Fellini Aldo Sebastiano, di Decimo e di Agostini Clarice, nato a Diegaro
di Cesena. A sedici anni, nel dicembre del 1943, aveva deciso di lasciare il lavoro d’operaio e
si era presentato alla Milizia, ma i fascisti avevano preferito passarlo ai tedeschi, sempre in
cerca di giovani con capacità manuali da addestrare per le batterie antiaeree. Dopo il solito
addestramento, fu impiegato nei punti caldi, di Molinella, S.Venanzio, Cento e Guarda Veneta,
sul Po. Sulla via di casa, a Lavezzola fu arrestato il 7 maggio 1945.
A norma di legge, la competenza sarebbe stata di Bologna o di Ferrara, ma la Corte di
Ravenna non volle prolungargli la detenzione e il 2 ottobre 1945 lo mandò libero, perché il
fatto non costituiva reato.
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Una gaffe dell’accusa
Altro abbandono della propria attività, non dovuta ad obblighi particolari. Domenico era
un giovane colono, classe 1926. Nel dicembre del 1943 aveva abbandonato, dopo i lavori
campestri, stalla e famiglia per cercare l’avventura.
Da forlivese, avrebbe dovuto raggiungere il vicino capoluogo, ma aveva preferito dirigersi verso Ravenna. I fascisti locali lo avevano assegnato al presidio di Mezzano, poi, come
molti altri giovanissimi, aveva attirato l’attenzione dei tedeschi, bisognosi di reclute italiane
da esporre ai bombardamenti alleati. Addestramento e poi in servizio, dapprima a Bologna
e Bassano del Grappa, poi, a liberazione avvenuta di quasi tutta la Romagna, a S. Venanzio e
a Guarda Ferrarese, sul Po. Un percorso militare, ricorrente: sotto le bombe nemiche e a fianco dei crucchi. Identico a quello del commilitone di Cesena. Sotto il grande fiume aveva vissuto le ultime ore di guerra.
Questa la storia di Fabbri Domenico, di Oreste e di Matteucci Giulia, di Pieve di Quinta
(FO). Contro di lui, detenuto dal 4 maggio 1945, le solite accuse, cui si aggiungeva un fatto
specifico: avere fatto saltare un ponte sul Po. Ciò era impossibile, poiché i ponti sul fiume
erano stati distrutti tutti nell’estate del 1944 da bombardieri angloamericani. Lo confermavano le centinaia (migliaia, secondo altri) di tedeschi allo sbando, privi anche d’imbarcazioni, annegati nelle acque del Po nel disperato tentativo di raggiungere la sponda veneta. Non
si potevano distruggere ponti inesistenti.
L’equivoco, o meglio la gaffe, fu colta al volo dalla Corte, che fece propria la tesi dell’imputato. Non di un manufatto, si trattava, ma della batteria antiaerea del Fabbri stesso!
Assoluzione piena (23-10-45).
Le due tessere
Durante il ventennio, senza la tessera del Partito Nazionale Fascista non era consentito
lavorare nel pubblico impiego. Con la Repubblica di Salò tale norma non fu riproposta, non
per tolleranza, ma per opportunità politica, per non discriminare dipendenti utili al funzionamento della macchina statale e sperando in libere adesioni. Illuminanti a questo proposito,
le reiterate e pubbliche insolenze, ispirate da Pavolini, contro gli “opportunisti del passato”.
Ovviamente, i criteri applicati potevano differire da provincia a provincia, ad arbitrio delle
gerarchie locali del nuovo partito, il PFR.
Di questo poteva essere buon testimone Candiani Renato (fu Angelo e fu Randi Vittoria),
nato a Ravenna nel 1892. Questa la sua storia. Nel settembre del 1943 si trovava ad Apuanie
Massa (Massa Carrara), in servizio presso le Poste come cassiere provinciale. Iscritto al vecchio partito, avrebbe fatto volentieri a meno della nuova tessera del fascismo repubblicano.
Ma i gerarchi del posto, in possesso dei passati elenchi, non volevano transigere. Niente tessera, niente lavoro. E così, il Candiani, per convenienza (parole sue), si adeguò. Ben presto,
però, si trovò militarizzato e, nel gennaio del 1944, spedito a La Spezia presso il Comando
Militare, con il grado di Capitano. Un ufficiale Postale, senza altri obblighi. Stipendio buono,
vita tranquilla (bombardamenti a parte) e quotidiani rapporti con colleghi in divisa più
importanti di lui.
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In aprile, al ritorno a Ravenna, fu arrestato per collaborazionismo. Un’esagerazione,
secondo la Corte. Mica costituiva reato l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano, tanto più
in assenza d’alcun illecito e d’intelligenza con il nemico tedesco. Lo stupito Candiani, in carcere da tre mesi, si difese alludendo a servigi resi ai partigiani.
Non ce n’era bisogno. Assoluzione con formula piena (30-8-45).
Non risulta che a Ravenna valesse il ricatto imposto dai fascisti toscani: niente tessera del
PFR, niente posto.
Con un altro ravennate, arrestato ai primi di maggio del 1945, la Corte fu rapidissima.
Poco o nulla a verbale. Si dice soltanto che Brunelli Giuseppe, fu Eugenio e fu Valentini
Elvira, classe 1903, si era iscritto nel PFR e poi si era arruolato in una “formazione della sedicente repubblica sociale” (GNR o B.N.), operante in Emilia e in Veneto. Dove esattamente?
Nessuna curiosità ed assoluzione automatica, in data 13-9-45.
Identico provvedimento nei confronti di un figlio dello squadrismo, nato nel 1921, quando padre e zio si erano messi in mostra nelle operazioni punitive a Ravenna e dintorni, specialità successivamente coltivata anche nello scontro tra bande fasciste.
Il giovane si chiamava Corbelli Dante (nome caro ai fascisti, come ricorda l’indimenticata spedizione di bolognesi, ferraresi e ravennati nella ricorrenza della morte del Poeta, settembre 1921), nato nel maggio del 1921 da Guido e da Giuliani Maria, detenuto dal 6-5-45.
Fu assolto (18-9-45) perché il fatto non costituiva reato, a norma di legge, nonostante avesse combattuto a fianco dei tedeschi come ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana.
Più dolorosa e tragica la vicenda dello zio Mario, fuggito al nord ed ucciso dai partigiani
in quel di Codevigo. Sul fiume Brenta sarebbe dovuto perire anche il padre Guido (da giovanissimo a Fiume con Ettore Muti) miracolosamente sopravvissuto alla fucilazione e divenuto testimone e narratore di piazza dell’evento. Dante, come già detto, si unirà in matrimonio con Angelina Bonaldo, l’ottima impiegata del Partito Nazionale Fascista, poi Repubblicano.
“Mi manca uno di Ravenna”
Così si sarebbe espresso l’imputato, secondo il partigiano Jader Miserocchi. Alla sbarra,
da detenuto, il 13 settembre 1945, era comparso il muratore Molducci Athos (di Marino e di
Casadei Italina), nato nel 1924 a Ravenna.
Ammesso che la frase fosse vera (negata dal Molducci), trovava fondamento nel fatto che,
dopo tanti rastrellamenti in giro per la Romagna, conclusisi con la cattura di centinaia di partigiani, non era mai riuscito a mettere le mani su un concittadino. Eppure, nel suo lungo
peregrinare dalle montagne forlivesi alle basse ravennati, ne aveva avute delle occasioni.
Niente da fare. Un suo cruccio, quasi fosse uno sberleffo dei cosiddetti ribelli di città.
Il ravennate Molducci si era arruolato nel febbraio del 1944 presso la GNR di Forlì, dove
allora era più forte la necessità militare di braccare i numerosi partigiani e renitenti, nascosti sui monti, tra cui moltissimi ravennati. Di sicuro, partecipò al rastrellamento di S. Sofia.
A luglio, su richiesta, fu trasferito nella sua provincia, divenuta teatro di crescenti iniziative partigiane. Fu a Fusignano, Longastrino e Mandriole, poi a Piacentina di Verona ed infine
a Padova, dove si arrese. Indubbio collaborazionismo per la Corte ed indubbia scelta personale. Anni dieci, ridotti a 5, mesi 6, giorni 20, alla luce delle attenuanti.
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Amnistia nel luglio 1946.
Più benevola la Giuria (tra cui Gino Gatta, detto Zalet) che dopo cinque giorni trattò un
caso simile. Si trattava di un altro ravennate, che con la divisa della Guardia Nazionale aveva
preso parte a numerosi rastrellamenti, non indicati, a fianco della Brigata Nera e delle forze
armate tedesche. Il fortunato si chiamava Tazzari Francesco, di Rinaldo e di Babini Gemma,
nato nel 1925. Fu assolto (18-9-45), dopo 4 mesi di carcerazione preventiva, perché il fatto
non costituiva reato.
Un giocatore di Fusignano
In Romagna, quando si diceva è un giocatore, non si correva pericolo di cadere in equivoci, neppure tra le donne, che da sempre lo ponevano tra i mariti da evitare, al secondo
posto dopo l’ubriacone. Il protagonista della seduta del 20 settembre 1945 era proprio un
giocatore d’azzardo. Il suo nome: Gasperoni Giovanni, fu Giovanni e di Longanesi Trinità,
nato a Fusignano nel 1914. Era sposato e la sua consorte aveva avuto più volte occasione di
lamentarsi per il terribile vizio, amaramente confermato anche in sede processuale da una
condanna. Le bische, che durante la guerra erano sopravvissute a fatica, erano sparite del
tutto, o quasi, con la Repubblica Sociale. Di qui, l’inattività completa del nostro uomo, che
viveva con le rendite delle campagne. Un agricoltore, un fortunato in mezzo alle migliaia di
braccianti e ai molti fittavoli e mezzadri. Pertanto, mosso anche dall’istinto di classe e per
nulla impressionato dai proclami socialistoidi di Mussolini, nell’aprile del 1944 decise di
scommettere sulla vittoria dell’Asse. La posta era ardita, ma il Gasperoni era abituato a
rischiare e a perdere. S’iscrisse al PFR e subito dopo fu visto a spasso per le sue contrade
con la divisa della GNR. Le avventure non si fecero attendere. Nello stesso mese, il 23, si verificarono i fatti del Palazzone, con otto fucilati. Lui era presente, come esperto dei luoghi, a
sorpresa, secondo le sue dichiarazioni. Non cercò neppure di nascondere ai compaesani la
sua partecipazione e, da spavaldo come molti padroni, commise l’errore di informare
Giovanna Mari che i suoi due figli erano stati uccisi. Ma forse capì l’azzardo commesso e dal
quel giorno operò lontano dal paese, a S. Pietro in Vincoli, a Ravenna e infine a Brescia.
A guerra finita, avrebbe potuto restare in giro per l’Italia, non mancandogli le disponibilità economiche, ma dopo un mese di purgatorio volle giocare la scommessa di ritornare a
casa, a rischio della vita, forse per verificare i danni provocati al suo patrimonio dagli ultimi
giorni di guerra. Un gesto da spericolato, nato da sicura sottovalutazione delle sue responsabilità per i fatti del Palazzone e dal ricordo di ben più cruenti disfide, vissute altrove. La
ruota gli girò a sfavore e fu arrestato in giugno dai Carabinieri del posto.
Al processo il Gasperoni cercò di minimizzare, “comandato dai tedeschi”, ma la Corte
non lo ritenne credibile, tanto più che dopo Fusignano, nonostante avesse famiglia, aveva
scelto di restare con la GNR, in Romagna e in Lombardia.
Fu condannato ad anni 12, senza attenuanti per quella vecchia questione del gioco d’azzardo. Ma la partita non era finita a Ravenna. Nell’aprile del 1946, infatti, la Cassazione annullerà la sentenza, per mancanza di motivazioni, e spedirà gli incartamenti a Bologna per un
nuovo dibattimento. Dopo due mesi arriverà il Decreto d’amnistia e per Gasperoni la libertà.
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“Piccolo e dal naso storto”
Piccolo e dal naso storto, cui si aggiungeva “personaggio insignificante”. Questi i connotati per indicare un altro di Fusignano, anch’egli presente al Palazzone. Trattasi di Bartoletti
Innocente, fu Domenico e fu Antonellini Luisa, nato nel lontano 1893. Quasi certamente di
condizioni miserevoli, si era iscritto al Fascio solo nel 1926. Dopo l’8 settembre volle invece
essere tra i primi di Fusignano ad aderire al Partito Fascista Repubblicano e ad arruolarsi
nella GNR. Fu arrestato di ritorno dal nord, l’11 luglio 1945, con due imputazioni: partecipazione al rastrellamento del Palazzone e responsabilità diretta nella deportazione in
Germania di un compaesano, Aldo Ballardini, da lui accusato di adesione al movimento partigiano. Contro il Bartoletti, due i testi, e uno indiretto. Aldo Fiorentini dichiarò di averlo
visto al Palazzone armato di mitra, in compagnia d’altri due militi, davanti alla casa
Zalambani, nella zona d’operazioni congiunte tra fascisti e tedeschi. Una testimonianza quasi
inutile, se è vero che il rastrellamento era avvenuto in grande stile, con la partecipazione di
quasi tutti gli uomini in arme di Ravenna. Sarebbe stato stolto escludere i locali, gli unici
esperti dei luoghi.
Per il secondo episodio, testimoniò una donna, la moglie del deportato, Elda Minardi.
La donna, per riavere il marito, si era rivolta in alto (ad un personaggio non citato), che
si premurò di contattare il Maresciallo tedesco. In risposta: “Se dipendesse da me, sarebbe
possibile, ma un fascista piccolo e dal naso storto ha detto: Sta bene dentro”.
Forse il Bartoletti era l’unico con quelle caratteristiche, ma il valore probante di un colloquio riferito non pare convincente. Anche la Corte ebbe lo stesso dubbio, pensando che il
tedesco forse aveva voluto mostrarsi generoso a spese degli altri. Ma, d’altronde, perché non
incolpare genericamente i repubblichini, senza offrire indicazioni così precise contro un
individuo noto? Problema comunque secondario ai fini della pena, poiché la pena minima
prevista per il collaborazionismo scaturiva senza equivoci dall’altra imputazione. Pertanto,
“Sta bene dentro” sentenziò la Corte (18-10-45). Anni dieci, ridotti a 5, mesi 6, giorni 20.
Tante attenuanti, visto che tutti avevano definito l’imputato un uomo “insignificante”.
Amnistia nel luglio del 1946, dopo un anno di carcere.
Contabile, sempre
Era quello il suo mestiere nella vita civile, svolto anche sotto Salò, nonostante l’iscrizione al PFR risalente all’ottobre del 1943. Parliamo di Marani Natale, fu Luigi e di Casadio
Domenica Rosa, nato a Ravenna nel 1909, coniugato con prole. Ma il 7 agosto del 1944, con
la trasformazione del Partito in banda armata, il Marani si ritrovò con la divisa della B.N.,
assegnato, date le competenze, alla contabilità del materiale, sequestrato e no. Talora aspettava la merce in caserma, alla Sacca, talora partecipava sul posto al prelievo, come in due
requisizioni, una a Mezzano, l’altra a Santerno, a fine agosto. Se il suo apporto fosse finito lì,
sicuramente non si sarebbe trovato in tribunale. Ma all’alba del 25 agosto fu chiamato ad
assistere alla più tragica giornata del capoluogo. Puntuale, come sempre, fu tra i primi al
Ponte degli Allocchi. Non sparò e non commise violenze, visto che il suo compito fu esclusivamente quello di tenere la contabilità delle Camicie Nere presenti.
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Deve essere stato un dramma, tant’è che a fine mese lasciò i camerati (con il consenso?)
e sfollò con la famiglia ad Alfonsine. Scelta non ideale, per i reiterati bombardamenti e, dopo
un’ultima incursione, egli raggiunse Ferrara. Era stato in divisa solo un mese, nel periodo
solitamente dedicato alle ferie, ma a fine giugno del 1945 fu condotto in carcere con varie
accuse, emerse parzialmente in dibattimento, perquisizioni, arresti e persecuzioni d’antifascisti. La più grave: correità nell’eccidio di Ponte degli Allocchi.
La Corte (4-10-45) ritenne congrua una pena di 18 anni, ridotta a 10, per le attenuanti
generiche e per il riconoscimento di una partecipazione comandata.
Eccesso di severità? Forse, visto il periodo limitato d’attività e, soprattutto, considerato
che l’imputato sarà il principale teste d’accusa nei molti processi relativi all’eccidio.
Di fronte a tanti imputati che negheranno la loro presenza in quella mattina d’agosto, i
Giurati crederanno alla parola del contabile, il Marani appunto, sprovvisto dei relativi registri, ma di buona memoria.
La Cassazione, a fine luglio del 1946, non avrà problemi a mandarlo libero, per amnistia.
Un imbianchino custode ed accompagnatore
Se Marani raccontò della giornata cruciale, altri avrebbero potuto raccontare del clima
che precedette l’eccidio e cioè quello imposto a Ravenna, dopo l’uccisione di Cattiveria
(18-8-44), con centinaia di perquisizioni, di fermi, di arresti, di interrogatori minacciosi e di
torture, in cui furono impiegate, con diverse funzioni, tutte le forze a disposizione dei gerarchi, comprese quelle di Pubblica Sicurezza. In prima fila, la Brigata Nera.
Uno degli esecutori, che negò tutto, era un imbianchino di Ravenna, non più giovane,
essendo nato nel 1903, tale Casadio Luigi, fu Ferdinando e di Casadio Virginia.
Convinto mussoliniano, fu tra i primi ad iscriversi al risorto partito fascista e nel luglio del
1944 fece il salto entrando volontariamente nella Brigata Nera. Ad ottobre seguì i camerati
al nord, dapprima a Ferrara, poi nel Veneto, a Nogara ed Orgiano, due delle sedi scelte dai
romagnoli in ripiegamento. A liberazione avvenuta, fu associato alle Carceri di Ravenna con
le seguenti imputazioni:
1) avere partecipato alla strage di Cervia (Bar Roma);
2) avere catturato Marino Pascoli ed Elviro Galli.
La prima accusa non trovava riscontro in altri procedimenti giudiziari, poiché la Corte di
Assise Speciale aveva appurato che i ravennati arrivarono ad eccidio avvenuto, in ritardo.
Quanto alla seconda, essa si basava sulla testimonianza di un sopravvissuto, il Galli. Egli
testimoniò che il giorno 20 d’agosto stava rientrando dal lavoro a fianco di Michele Pascoli.
Ad un tratto furono bloccati dalle Brigate Nere. Per il Pascoli, impegnato nella Resistenza,
non ci fu scampo, e dopo cinque giorni finirà fucilato al Ponte degli Allocchi. Il Galli, invece,
tentò di ritornare sui suoi passi, ma un fascista, da lui conosciuto, lo seguì e gli sequestrò i
documenti d’identificazione. Ricostruzione avallata anche da un altro teste, tale Enzo Zoli,
che vide la scena, riconoscendo anch’egli l’identità del fascista, Luigi Casadio.
L’imputato doveva essere popolare in città, sia per il mestiere, sia perché per mesi aveva
passeggiato sempre accanto al Federale, l’ing. Montanari.
Opposta, non del tutto, la versione dell’imputato, in stato di detenzione.
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Egli aveva svolto solo mansioni minori e mai era stato coinvolto in rastrellamenti, perché
altri erano i suoi compiti, custodire e vigilare in armi la casa del Federale ed accompagnarlo
di tanto in tanto in Prefettura, non più di cinque o sei volte.
La Corte (20-9-45) non gli credette e lo condannò a 12 anni di reclusione.
Dopo 9 mesi, l’amnistia.
Un faentino tra Cotignola e Solarolo
Se fosse stato per lui, come per moltissimi coloni, la guerra l’avrebbero fatta gli altri, quelli di città, i fanatici e i disoccupati. Ma Mussolini mica poteva fare le guerre senza i contadini e così Tambini Emilio, di Ercole e di Emiliani Angela, di Faenza, classe 1900, si era ritrovato al fronte. Con l’8 settembre, moltissimi conoscenti avevano raggiunto disperatamente
case e famiglie, mentre lui era stato deportato in Germania. Non era fortunato.
Un giorno, però, gli si era presentata l’occasione propizia. Con una firma poteva ritornare a Faenza e Tambini firmò. Non lo destinarono proprio a casa sua, ma non era il caso di
chiedere troppo. Lo nominarono persino Caporalmaggiore della GNR presso il presidio di
Cotignola, con sistemazione presso la caserma dei Carabinieri. Non avrebbe potuto pretendere di più: vicino a Faenza, un discreto stipendio e nessun obbligo di portare la divisa.
Girava sempre in borghese, ma non per agire in segreto. Tutti lo conoscevano. Non prendeva decisioni personali ed era ben contento di dovere ubbidire al Maresciallo Azzeri (?).
Peccato che, a sua volta, il superiore prendesse ordini dai tedeschi. Nel complesso, il
Tambini trascorse mesi di vita sedentaria, senza mai partecipare a rastrellamenti o ad interrogatori di prigionieri politici. Una sola volta fu inviato, controvoglia, a Solarolo. Quando gli
alleati raggiunsero Rimini, non gli dispiacque che il conflitto volgesse al termine. Almeno
sarebbero cessati i bombardamenti. Purtroppo non immaginava che il suo presidio avrebbe
dovuto fare i bagagli per ignota destinazione, al nord. Ordine del 27 ottobre 1944. La cosa
non gli quadrava e per 20 giorni si guardò bene dal raggiungere il Comando tappa.
Ma, dopo un bilanciamento delle paure, scelse di ubbidire, tanto più che i gerarchi gli
vennero incontro, proponendogli di restare in zona, dapprima a Lugo e poi a Lavezzola.
Errore quello di accettare. Subito arrivò l’inferno, il fronte, con bombardamenti quotidiani, colpi di mortaio, agguati alle spalle. Ma almeno si era al capitolo finale, pensava il
Tambini. Niente da fare. Faenza veniva liberata e lui sventuratamente restava dall’altra parte
del fronte, a Lavezzola, piena di ribelli e di nazisti, con il Comando. Basta! Non fece più conti
sulla durata o meno della guerra, e all’antivigilia di Natale si rese uccel di bosco. Rientrare a
Faenza era quasi impossibile, poiché gli alleati, per esigenze belliche ed altre considerazioni, non consentivano neppure agli sfollati di fare ritorno. Tambini passò quindi 4 mesi alla
macchia o quasi, presso varie famiglie. Di là o di qua dal fronte? Non sta scritto. Scottatosi
più volte, il Nostro decise infine di aspettare la dichiarazione ufficiale della resa nazista e il 2
maggio 1945 riabbracciò i suoi cari. Ad attenderlo nuovi guai, l’arresto e numerose accuse:
1) avere proceduto alla cattura di elementi antifascisti, essersi adoperato per quella del
patriota Ciro Dal Monte nel luglio del 1944 (in territorio di Cotignola),
2) avere privato della libertà, per fine fascista, Ennio Monari, Andrea e Riccardo Settembrini,
a Solarolo, nell’agosto del 1944,
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3) essersi impadronito, nell’ottobre ‘44, di vari oggetti, asportandoli dalla caserma dei
Carabinieri di Cotignola.
L’imputato escluse l’affare Dal Monte ed ammise parzialmente il resto. Una notte, la
caserma fu circondata dai tedeschi che parlarono con il Maresciallo, il quale gli ordinò di
seguire quattro di loro alla ricerca del Monari. Così avvenne e il poveretto fu deportato in
Germania. Analogamente per i Settembrini, trovati con il suo aiuto, sotto minaccia di una
pistola tedesca, condotti al Palazzo Sforza. Insieme ad altri, furono portati in una diversa
località per essere fucilati, salvati poi da un contrordine.
Quanto agli arredi della caserma (poca roba, un letto, una bicicletta e poco altro), li aveva
collocati in un’abitazione che aveva in affitto, per sottrarli ai latrocini conseguenti l’abbandono.
Cosa vera, tant’è che il nuovo Maresciallo li aveva trovati proprio là.
Il collaborazionismo appariva chiaro e la Corte (28-8-45), pur dovendo partire dalla pena
minima, stabilita in dieci anni, riconobbe al Tambini tutte le attenuanti possibili.
Pena: anni 5, mesi 6, giorni 20. Dopo un anno esatto, l’amnistia.
Due cadaveri, due imputati
Nell’agro di Brisighella, in località Moronico, il 10 settembre 1944 la squadraccia di
Faenza, agli ordini di Raffaeli, aveva assassinato brutalmente due ribelli faentini fuggiti sui
monti, il calzolaio Teodosio Ferri, d’anni 23, e il bracciante Lorenzo Poggi, d’anni 26.
Alle 17 dello stesso giorno il Comandante aveva fatto visita al parroco, don Bagnolari (?),
per chiedere di autorizzarne la sepoltura. Qualcuno, sfollato in parrocchia, tale Domenico
Maltoni, d’anni 68, aveva visto la scena e a fine guerra riferì. Tra i presenti, un certo “Brasi “,
nome di battaglia di Venturi Carlo (di Domenico e di Poggiali Maria), operaio, nato in
Germania, a Lonesbaden, nel 1914, pochi mesi prima dello scoppio della Grande Guerra.
L’altro, detto “Maletti”, il vecchio dapprima lo aveva riconosciuto in un certo Piancastelli e poi
nell’imputato, Versari Aurelio (fu Domenico e di Mercatali Adalgisa), nato a Portico di
Romagna nel 1908, muratore. Entrambi iscritti al PFR, poi nella GNR; infine nella B.N.
Al processo, gli imputati, detenuti dal maggio 1945, negarono in modo deciso la loro partecipazione al duplice omicidio.
Più convincente il Versari. “Quel giorno di settembre - disse - mi trovavo a S.Pietro in
Vincoli in attività di spionaggio”. Tesi accolta dalla Corte, anche perché il vecchio Maltoni era
un po’ confuso sui nomi e non sembrava attendibile “per facoltà mentali”. Del resto, il parroco aveva escluso che il Maltoni fosse presente ai fatti ed era saltata fuori la vera identità
del cosiddetto “Maletti”, individuata in tale Lorenzo Ballanti.
Più delicata la posizione del Venturi. Contro di lui, il teste Francesco Cimatti, che ricordava una conversazione avvenuta durante la trebbiatura. Queste le parole dell’imputato: “Al
cimitero (quello di Rivalta) la Brigata Nera ha ucciso cinque persone innocenti, a Moronico
noi n’abbiamo fucilate solo due che erano colpevoli”. Frase attendibile, ma non era automatica la correità.
Ma anche altre erano le accuse contro il Venturi: cattura di renitenti, perquisizione a casa
di tale Pelloni, con sequestro d’armi, rastrellamenti in giro, nella zona di S. Cassiano, a S.
Sofia, a Tebano, a Riolo Bagni, sul monte Faggiola e a Casola Valsenio, dove prelevò le scar-
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pe ad uno dei due partigiani catturati. Infine, un altro rastrellamento in Piemonte, a
Castiglione di Domodossola. Per sua sfortuna, in dibattimento il Venturi ammise tutte le
operazioni, ad esclusione di quella di S. Cassiano.
Conclusione, in data 23-10-45: assoluzione per il Versari e condanna a 15 anni di reclusione per il Venturi, originario della terra tedesca. Discutibile amnistia nel luglio del 1946.
Mister 2%
A Massalombarda i fascisti delle Brigate Nere non si sentivano sicuri e così, nell’agosto del
1944, chiesero aiuto a Ravenna, in Prefettura, per avere una sistemazione comune, protetta,
in pieno centro, di fronte al Municipio. Lì sorgeva un edificio prestigioso, il Palazzo Armandi,
di proprietà dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci e fratelli. Pronta la risposta da parte di
Emilio Grazioli, Capo Provincia. Si requisisca l’intero edificio, si caccino gli occupanti, proprietari e sfollati. Ordine in data 10 agosto 1944. Rapida l’esecuzione, in poche ore, e gli spaventati repubblichini di Massalombarda trovarono alloggi adeguati, signorili, alcuni splendidi. Vi rimasero fino al 26 ottobre, quando presero la strada del nord. Lo stesso giorno i legittimi proprietari corsero per verificare lo stato dell’edificio e il destino degli arredi e d’altro.
Spettacolo desolante: restavano solo i muri e qualche mobile fracassato.
Poi, arriveranno anche le bombe e, infine, la speculazione edilizia.
Il 18 ottobre 1945, fu chiamato a rispondere uno dei “manigoldi”, tale Errani Andrea, di
Giulio e di Mondini Veridiana, nato a Massalombarda nel 1920, detenuto dal 30 agosto 1945.
Non era l’unico ad avere approfittato di quel tesoro. A lui si attribuiva un reato specifico,
prolungato nel tempo: sottrazione di prodotti chimici e d’anticrittogamici dai magazzini del
Palazzo. Valore, quasi un milione.
In verità l’Errani aveva svolto compiti di mediazione, tra i brigatisti e gli acquirenti, più o
meno ignari della provenienza della merce. Ai compratori raccontava che i prodotti appartenevano ad un agricoltore della vicina Medicina, preoccupato dei bombardamenti. Il prezzo doveva essere molto vantaggioso e, dati i tempi, ogni scrupolo fu messo da parte. La maggior parte fu acquistata dal direttore della SIAMA, tale Ugo Paganini, altra dal dottor Filippo
Rangoni.
L’Errani, come anticipato, non si teneva le ingenti somme raccolte, ma le portava ai brigatisti, al sicuro nel citato Palazzo. E a lui? Il 2%, come compenso per la mediazione. Una
bella cifra egualmente, in parte sudata, visto che spesso egli provvedeva direttamente alla
consegna, incurante dei pericoli, adattandosi a fare il carrettiere assieme a Silvio Cavallazzi.
Dov’era il collaborazionismo? La Corte non ravvide “offesa alla fedeltà e alla difesa militare dello Stato” (strana ed equivoca formula) e si dichiarò incompetente, rinviando il fascicolo al PM per i procedimenti del caso. Errani era soltanto un ladro.
Ignoto il destino giudiziario dell’Errani, molto probabilmente rimasto in carcere più a
lungo dei camerati alloggiati nel Palazzo Armandi, responsabili di altri e più gravi delitti;
quasi certo che i ricettatori non subiranno guai.
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Il farmacista di Ravenna
Poche erano le farmacie di città negli ‘40. Una delle più note, sita ancora oggi nei medesimi locali, si trovava in Piazza dell’Aquila, era di proprietà della famiglia Vitali.
Il titolare si chiamava Vitali Tullo, fu Luigi, nato nel lontano 1898, nel secondo dopoguerra di nuvo fascista dichiarato ed attivo finanziatore del Movimento Sociale. Coerente ed
esposto fino alla morte, a differenza di molti altri notabili, di comune sentire, che incontrava quotidianamente al Caffè Italia, sotto il Municipio. Detenuto dal 10 maggio 1945, di ritorno dal nord, il farmacista fu processato il 13 novembre dello stesso anno. Agli atti gli si rimproverava di essersi iscritto da subito al Partito Fascista Repubblicano, di avere aderito alla
GNR, in continuità con una lunga militanza nella Milizia Volontaria, di cui era diventato
Seniore, e di avere spadroneggiato in Prefettura e in Questura sotto la Repubblica di Salò,
invitando a fare piazza pulita dei pavidi e dei traditori. Accuse non gravi, sulle quali, comunque, il Vitali aveva da eccepire parzialmente. Era vero che aveva aderito al nuovo partito fin
dal 18 ottobre 1943, ma era falso che fosse entrato anche nella Guardia Repubblicana, tant’è che nessuno poteva affermare di averlo visto in divisa. Certo, aveva amicizie altolocate,
che frequentava di tanto in tanto in Piazza Emanuele o che andava a trovare in ufficio, tra cui
il Questore di allora, Guido Guidi. Mai nessuna minaccia aveva proferita.
Da Ravenna si era allontanato il 26 agosto 1944, e non nei mesi successivi al seguito delle
B.N., come qualcuno aveva sostenuto. Ricordava bene la data, perché la partenza era avvenuta proprio su invito del Questore. Si sistemò sul Lago d’Iseo, incontrandovi un fratello, e
là rimase fino alla liberazione. Inoltre, era falso che lui avesse istigato il Prefetto e il Questore
“a mettere al muro il personale dipendente” poco convinto delle nuove frontiere fasciste.
Di questo lo accusava un teste, dal nome illeggibile, che al processo aggiunse un altro
fatto specifico, minore, ma indicativo. Senza alcuna autorità, il Vitali avrebbe rimproverato
di ostruzionismo un milite (o un funzionario), che non voleva trasportare al nord un ufficiale della GNR.
Per la Corte, che l’imputato fosse un attivo politicante in cerca di reclute per il fascismo
repubblicano, poteva concedersi, anche se non dimostrato a sufficienza in dibattimento
(per i ravennati era ovvio). Quanto alle altre accuse, fece propria la linea difensiva, permettendosi pure un apprezzamento negativo nei confronti della testimonianza avversa, “non del
tutto disinteressata”, e “alla ricerca di benemerenze per far dimenticare i suoi trascorsi
repubblichini”.
Scontata l’assoluzione del farmacista di piazza, nonché Seniore della Milizia.
Vita quotidiana nei rifugi
In genere, la gente ricorda la guerra oltre che per le dolorose perdite umane, per le
ristrettezze alimentari, per i controlli all’uscita dai cinema, per le paure dei bombardamenti, per le ferite inferte alla città, per il coprifuoco, per le corse a raggiungere il più vicino rifugio. Su ciò poco si sa per quanto riguarda Ravenna. Quanti fossero i rifugi, la loro dislocazione, la capienza, i servizi, gli accadimenti. Le frecce che li indicavano, indelebili, sono
sopravvissute per decenni, qualcuna era visibile fino a qualche tempo fa. Di ciò che accade-
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va nei rifugi le generazioni successive, in attesa del contributo degli studiosi, hanno dovuto
accontentarsi delle ricostruzioni epiche dei belli di piazza, i Cecé e i Caletti, senza doveri
militari, ma pronti alle battaglie dei sessi, quasi equivalenti, nei loro racconti, alle lotte dei
ribelli. “La prima donna vista in sottoveste”. Altri pensieri nella mente degli uomini seri e
delle donne ammodo, nonostante l’obbligata promiscuità.
C’erano rifugi di tutti tipi, pubblici e privati, per i religiosi e per i fedeli, nelle cantine, alla
base delle torri e dei campanili, di fortuna e a prova di bomba, arieggiati o meno, con o
senza scarichi. Uno, forse ancora negli occhi di molti ravennati, beneficiava dello stile teutonico, robusto e spazioso, un vero bunker, chiamato “il tubolare”, collocato nel retro del
palazzo delle Poste, a disposizione della Prefettura e della Questura. Ci avventuriamo a pensare che gli spazi fossero separati, dovendo ospitare le massime autorità e quasi certamente anche i documenti riservati degli archivi.
La scena della nostra storia si svolge proprio in questo manufatto, raggiungibile dalla traversa di via Gordini, uno spazio, secondo gli intellettuali della notte, ideale per una futura
piazza, obbligata ad essere splendida, dovendo recuperare la bruttezza di cortili e il retro di
abitazioni, ex cinema, negozi e palazzi pubblici. E’ il 4 luglio del 1944, di mattino. Scatta l’allarme aereo. Il più lesto ad arrivare, di passaggio nei pressi o fifone, è certo Pietro Lega. Ma
il rifugio è chiuso e il custode se la prende comoda. Al che il Lega la butta in politica e sbotta: “Hanno pensato a costruire i rifugi solo dopo che la guerra è finita. Se ne interessano
poco della carne da cannone!”. Gli astanti tacciono o annuiscono.
A rimettere le cose a posto ci pensa allora Alberto Mazzetti, ufficiale della Milizia, che
insulta l’incauto, accusandolo di antifascismo e di disfattismo e bastonandolo, aiutato in questo da un altro ufficiale, Attilio Girolimoni. A placare gli animi ci prova il Maresciallo Trucillo,
che riesce a fatica a separare i contendenti. La confusione cresce e si trasferisce all’aperto.
Si dimentica il pericolo delle bombe e si produce turbamento persino al Capo Provincia
Grazioli e al Questore Neri che accorrono.
Il Grazioli ordina ai due giustizieri un rapporto e l’arresto immediato del bastonato.
Per il Lega un mese nel Carcere di Ravenna (senza rifugio?), poi trasferta in quello di Forlì,
visita medica negativa, per sua fortuna, e niente deportazione in Germania. Il poveretto
dovrà attendere gli ultimi cannoneggiamenti alleati che annunciano la liberazione della consorella romagnola. All’aria aperta, finalmente, il 4 ottobre, dopo tre mesi esatti di detenzione, come avrebbe potuto stabilire una qualche sentenza, per quanto arbitraria. Riapparirà a
Ravenna, dopo altri 60 giorni da rifugiato, per assistere alle sfilate di partigiani, polacchi e
canadesi. Dopo S. Stefano, a Palazzo Rasponi, sede del Tribunale, giunge per il Lega il giorno della rivincita.
“Imputato si alzi”, che bella soddisfazione! Dopo tante paure, senza copertura aerea e
sognando questo momento ad ogni ora. C’è poco da ridere.
L’imputato Mazzetti, in stato di detenzione, diede però una diversa versione. Il 4 luglio si
era arrabbiato e aveva fatto uscire il Lega dal rifugio, perché aveva osato sostenere che gli
inglesi avevano bombardato solo obiettivi militari, lasciando indenne la città. Una sola eccezione, allorché un pilota alleato era stato colpito. Un affronto per chi come lui aveva avuto
la casa colpita. Nessun pestaggio e, se fosse dipeso da lui, nessuna denuncia.
La Corte non sapeva a chi credere, quanto alle parole dette. Nessun dubbio sul resto.
La loquela dell’incauto Lega sarà stata irritante, ma insulti, botte e tre mesi di prigione
senza processo…
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Ne uscì una sentenza poco equilibrata.
Mazzetti Alberto, fu Salvatore e di Mariannina Rasponi, classe 1898, fu condannato a cinque anni di reclusione al posto dei dieci previsti dalla legge per collaborazionismo. Verdetto
ingiusto: se fosse stato vivo il nonno materno, un Rasponi, rampollo della stirpe più potente (e prepotente) della città, proprietaria di quasi tutti i palazzi del centro, compreso quello
del Tribunale, come minimo sarebbe stato gettato il guanto di sfida a Spizuoco, il Presidente,
o al giurato con il baffetto più irritante, il bello e focoso Gino Gatta, futuro Sindaco. Non ci
si meravigli per l’iperbole: il Colonnello Alessandro Serafini di Ravenna, nel 1967, sfiderà a
duello il giudice di Bologna che stava processando il figliolo, Massimo, arrestato per una
manifestazione a favore dei Vietcong.
Lo schiaffo formale arrivò comunque alla Corte di Ravenna con la pronuncia della
Cassazione: nessuna amnistia, nessun rinvio ad altra sede, ma assoluzione “perché il fatto
non è previsto come reato”. Roma, in data 29 settembre 1946. Come si fa a condannare uno
redigendo una sentenza con toni ridanciani ed evidenziando che forse l’unica responsabilità andava attribuita al Capo Provincia, il famoso Grazioli?
A chiusura: Alberto, che si fece il triplo di prigione del Lega, è sicuramente l’unico
Rasponi ad avere, nei secoli, subito un’ingiustizia
Un riso sardonico
Si ha proprio l’impressione che i giudici di Ravenna abbiano scelto per il 27 dicembre
1945 cause insolite, poco impegnative. All’origine del primo e del secondo processo un
alterco. I fatti.
L’armistizio dell’8 settembre era stato annunciato da appena due giorni. Soldati, sbandati e in borghese, cercavano di raggiungere con tutti i mezzi i luoghi d’origine; il futuro era
incerto, ma per tutti non poteva essere peggiore del passato. Nei Caffè di città i baldanzosi,
che per anni avevano tenuto banco sulle travolgenti avanzate dell’Asse, si erano fatti più
quieti e in cuor loro speravano in una pronta occupazione tedesca, del resto già visibile. Essa
avrebbe riportato in auge i fascisti locali, muti o in difficoltà dal 25 luglio. Le cose sarebbero
cambiate, anzi sarebbero ritornate quelle di prima, con gli antifascisti silenziosi o timorosi di
qualche visita degli squadristi di fegato.
Siamo nel Borgo S. Rocco di Ravenna, un piccolo mondo, completo, racchiuso da un
gioco di porte. E’ il 10 settembre 1943. La giornata è calda ed alcuni clienti del Caffè
Branzanti sostano sulla porta in conversazione. A tenere banco è un uomo maturo, di circa
50 anni, fascista convinto, un certo Amedeo, in mezzo ad alcuni amici. Ad un tratto vede passare un terzetto e rapido esce con un commento: “Ora che hanno fatto i milioni si danno
l’aria da comunisti, facendo mostra della cravatta rossa”. Il garbino è contrario e la frase non
viene percepita. I tre, Orazio Giusti, Giovanni Brandolini e Galliano Sintoni, proseguono
tranquillamente. Ma, alla prima occasione (non si capisce se subito o dopo qualche tempo),
un certo Rosolino Ravaioli riferisce loro la frasaccia (ai ravennati piace riferire i commenti
altrui, specie se di natura politica, e in grado di produrre chiarimenti rumorosi). Così avviene. Amedeo dapprima nega e poi con “riso sardonico” ribadisce il concetto, beccandosi un
ceffone dal Sintoni. La cosa non finisce lì.
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Dopo qualche giorno il Brandolini viene chiamato dalla Federazione fascista (forse non
ancora repubblicana) a dare spiegazioni e poi congedato. Insoddisfatto ed incoraggiato dal
nuovo corso politico, Amedeo non demorde. Minaccia di rappresaglie gli antagonisti, provoca il Ravaioli, il latore della frase, ed ancora più perentorio si mostra nei confronti del
Sintoni: “Vedrai!”. Del tempo trascorre. Molto.
Il 18 giugno del 1944, di notte, la Brigata Nera, a cui l’anziano provocatore aveva aderito,
visita le abitazioni dei tre dalla cravatta rossa per arrestarli, senza fortuna però poiché tutti
alla macchia. La storia era finita bene, dati i tempi, ma per i 4 denuncianti la delazione di
Amedeo non poteva restare impunita. Arresto il 21 ottobre 1945 di Amedeo Randi, fu
Giovanni e di Virginia Bustacchini, classe 1895, con l’accusa di delazione.
La colpa era verosimile. Ma il lungo intervallo tra l’alterco con schiaffo finale e la mancata retata non dava certezze sul rapporto di causa ed effetto. Da qui, insufficienza di prove
per Amedeo, fascista della prima ora e della seconda, dalla professione non indicata.
A casa in moto “Gilera”
Per molti romagnoli prima veniva (viene) la motocicletta, meglio al maschile, il “motore”,
per eccellenza, poi la casa. Un’autentica passione, cui corrispondeva anche il valore venale,
spesso doppio di quello dell’abitazione. Rubarla rappresentava un affronto e un danno
incommensurabili.
Durante la guerra era naturale che i proprietari rinunciassero ad usarla, sia perché il carburante era introvabile, sia perché il pericolo di ritornare a piedi era ad ogni incrocio. Il
motore piaceva anche ai nazisti e per un brigatista valeva più di tante imprese guerresche.
Giovanni Battista Melandri di Godo n’era consapevole e aveva deciso di nascondere il suo
gioiello, una bella Gilera. Ma un uccellino…
Il 6 maggio 1944, il Melandri riceve la visita di 4 militi armati di mitragliatori, addirittura
agli ordini di un Maggiore della Guardia Nazionale, dell’ “XI Reggimento Alpini”. La moto
non si trova; partono minacce e alla fine essa appare. Ma, per fortuna, la Gilera non parte
(sabotaggio?). Scampato pericolo, per poco. “Domani torniamo e la tenga pronta!”.
L’ordine non lascia scappatoie. L’indomani, infatti, la squadra, con l’aggiunta del Tenente
Bacher, ritorna in camion. Il proprietario, intimidito, è obbligato a seguire la sua moto alla
caserma dei Carabinieri di Godo (requisita anch’essa dai fascisti). Lì si consuma uno strano
contratto, compilato dal Tenente: il motore è requisito, ma viene rilasciato un assegno di lire
8.000. Giusto o poco, si vedrà. Nella compravendita imposta il Battaglione risulta essere l’acquirente. Da quel giorno, il Melandri non vedrà più il suo motore, poiché il Maggiore Santini
morirà in estate, colpito da mitragliamento alleato, e il Bacher, su licenza o meno, raggiungerà il suo paese con l’approssimarsi del fronte. Lungo la costa Adriatica fino a S. Benedetto
del Tronto, veloce come un bolide, a cavalcioni della Gilera. Là, in data imprecisata e con
vaghe modalità, il mezzo sarà requisito dai Carabinieri, quelli veri.
Dunque, l’estorsione era evidente. Di chi la responsabilità? Morto il Santini, fu chiamato
in causa Giulio Bacher, di Guglielmo e di Giulia Urbani, nato a Roma nel 1912, detenuto dal
27-11-45. Il Tenente precisò: a lui l’iniziale operazione era parsa regolare, il valore sul libretto di circolazione ammontava a 7.800 lire, il Melandri non aveva protestato, e, infine l’atto
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era stato compilato in un luogo deputato al rispetto della legge, la caserma dei Carabinieri
di Godo. Difesa ineccepibile, se a Ravenna non fosse arrivata da S. Benedetto del Tronto
anche la stima dei locali carabinieri. Una Gilera da 140.000 lire.
Conclusione: tutta la colpa era del defunto Maggiore, il Tenente va assolto per non avere
commesso il fatto. Bacher potrà festeggiare l’anno nuovo a casa propria. Non è certo che
anche il motore di Melandri abbia goduto del medesimo destino.
L’anno giudiziario del 1945 finì lì. Quattro le sentenze di quel giorno, le tre abbastanza
pittoresche e l’ultima, con imputata una faentina, Afra Maltoni, di cui si è già detto.
Il declino del CLN e la lotta politica
Il proliferare delle testate giornalistiche dava ogni giorno di più la possibilità di sapere
quanto accadeva presso la Corte di Assise, Straordinaria di Ravenna. Si commentavano le
sentenze, con segni di giubilo ogni volta che il cosiddetto “Tribunale del Popolo” se ne usciva con pene significative, si protestava in caso contrario, talora dando per scontato che nulla
di più c’era da attendersi da una Magistratura che era stata supina per 20 anni, anche se la
stampa tendeva a scoraggiare simili reazioni. Capitava pure che gli Avvocati difensori generassero mugugni e proteste durante l’esercizio della loro professione o che alcuni testi, con
attestato di partigiano, fossero oggetto di resoconti ironici da parte dei cronisti (Leone Cilla)
in caso di dichiarazioni favorevoli agli imputati, come era successo ad Orano Angelini, sentito nella causa contro Corso Guberti. Nell’insieme però si può dire esistesse una certa sintonia tra opinione pubblica e carta stampata. Si volevano giustizia e il castigo dei repubblichini e dei fascisti tutti. Così, pur in carenza di spazio, regolarmente apparivano informazioni d’arresti in giro per l’Italia di questo o quel gerarca o sicario.
Qualche titolo: “Arresto di un pericoloso fascista”, si trattava solo di Riccardo Raffaeli, catturato a Terni, fratello del criminale Raffaele, il ras di Faenza; “Trent’anni ad Alvaro Savorini”,
il Capo dell’Ufficio Politico Investigativo, torturatore e regista delle infiltrazioni tra le fila partigiane. Titoli inequivocabili, ma ben lontani da quelli dei primi dibattimenti: “Belve alla sbarra”.
Del resto anche le parole si consumavano. Più misurato per ovvie considerazioni il taglio
dei giornali della Curia Vescovile di Ravenna, “L’Argine” e di quella di Faenza, “Il Piccolo”, tesi
a favorire un clima di riconciliazione e a bandire ogni vendetta, anche se scaturita dalle aule
di giustizia, nel caso di condanne a morte.
La gioia per la riconquistata libertà di parola e di espressione del pensiero aveva modo di
sfogarsi in mille occasioni: comizi spesso interrotti, dibattiti di fuoco (contraddittori come
allora si chiamavano), conferenze con migliaia di ascoltatori, anche se proposte da forze
politiche minori, come il Partito d’Azione. Famosa rimase una prolusione del filosofo Guido
Calogero, seguita da vivaci polemiche giornalistiche. Si discuteva di tutto, con preferenza
per i massimi principi. Altri erano i canali per dare sfogo ai bisogni primari, la mancanza dei
servizi, il lavoro, la casa, la ricostruzione, le lotte contadine, ecc. Per queste esigenze o battaglie, come si riprese a dire, ci si rivolgeva ai partiti, al Sindacato, all’UDI, al CLN, alle Giunte
Popolari e al Sindaco. E se non bastava, specie sul tema dell’epurazione e di supposti privilegi, ci si rivolgeva ai giornali, ben lieti, a differenza di quanto accadeva nel passato regime,
di darne conto. A volte le proteste non avevano fondamento o mancavano di realismo, come
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la polemica sui servizi, acqua e luce, a disposizione dei prigionieri tedeschi concentrati a
Milano Marittima (120 mila, la punta più alta!!), mentre in città per molti erano un sogno.
Ovunque si alternavano aristocratiche spinte moralistiche e rancori plebei, in un gioco che
finiva con il trascinare nella mischia giornali e partiti. Il rischio, a portata di mano e di penna,
era che ogni occasione di confronto, in pubblico o sui giornali, degenerasse sulle responsabilità storiche di fronte al fascismo (e non solo) delle varie forze economiche, sociali e politiche, non esclusa la Chiesa, e su quelle personali, tasto dolente. La Chiesa da parte sua, non
si tirava certo indietro e partecipava attivamente all’agone, in vista di un assestamento politico moderato imperniato sulla Democrazia Cristiana, ancora troppo fragile e timida per reggere all’urto di tanti e forti partiti anticlericali, specie in Romagna. Bisognava seminare per
gli appuntamenti dell’anno dopo, forse le elezioni amministrative, poi le politiche, non
escluso il referendum istituzionale.
E i preti si buttarono nella mischia, da oratori, da giornalisti, da conferenzieri e da dibattenti dal palco o dal pubblico. Accadrà persino che un attempato socialista di Faenza (o delle
vallate circostanti), Silvio Mantellini, direttore de “Il Socialista” passasse a vie di fatto nei confronti del collega de “Il Piccolo”, don Walter Ferretti, condotto al Pronto Soccorso. La cosa
non dispiacque al periodico locale del Partito Repubblicano, “Il Lamone”, che di lì a qualche
tempo non saprà come giustificare un grave incidente avvenuto in occasione di una clandestina sortita di un coraggioso oratore monarchico. La Polizia non bastò e un’automobile privata, ritenuta a torto del seguito dell’oratore, fu violentemente circondata. Ne nacque una
rissa, conclusasi tragicamente con la morte, per errore, di Pietro Nanni. Come si vede, errerebbe chi pensasse agli estremismi del tempo attribuendoli unicamente al Partito
Comunista, al Partito d’Azione o agli Anarchici.
Il primo, in vero, non si sottraeva nelle varie sedi ai confronti verbali duri, privilegiando
però le rivendicazioni economiche e sociali, rafforzate da tesi ideologiche. A Faenza, con il
giornale “Bandiera Rossa”, a Ravenna, con “Romagna proletaria”. Erano tutti periodici dal
forte spirito antagonistico e con poca carta. Ben presto, perciò, il primo ed unico strumento d’informazione, l’organo del CLN Provinciale, “Democrazia”, apparve superato e non
sopravvivrà alle tensioni interne e alle spaccature delle elezioni amministrative. Non tarderà
molto che anche il CLN seguirà la stessa fine. Non che “Democrazia” pubblicasse articoli
amorfi, ma volendo rappresentare una tribuna per tutti i partiti, finì con l’apparire un caleidoscopio d’opinioni. Salvo i fuochi di Natale. Per completare il quadro delle testate occorre
ricordare la faentina “Azione Democratica” e le ravennati “La Lente” (Comunisti Libertari,
anarchici), “Idea Democratica” (Democrazia Cristiana), “Il Garibaldino” (ANPI), “La Voce di
Romagna” (non organo, ma referente del Partito Repubblicano) e “La Romagna Socialista”
(Federazione Socialista).Non vanno scordati ovviamente i giornali nazionali, che non lesinarono servizi sulla martoriata Romagna, come fece “Il Popolo” con un’intervista al Vescovo
Battaglia sulle devastazioni materiali e morali di Faenza. Un personaggio di prima grandezza il Battaglia, durante il periodo fascista e dopo; un uomo di coraggio e di principi, molto
apprezzato dal CLN locale e dagli alleati, la cui fama, a differenza di quella del collega di
Ravenna, mons. Rossini, era giunta fino alle orecchie di Pio XII, che volle riceverlo in visita
non formale. Ne seguirono aiuti tangibili per la Diocesi e la popolazione tutta. Le voci dei
partiti uscivano più o meno settimanalmente e raggiungevano capillarmente gli aderenti.
Infine, in terra di Romagna era ritornato l’antico quotidiano di Bologna, “Il Resto del
Carlino”, che a seguito dell’epurazione partigiana e alleata, aveva cambiato nome: “Il Giornale
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dell’Emilia”, non fazioso, alla ricerca di credibilità, antifascista e attento ai processi in Corte
d’Assise. Al di fuori della carta stampata, in genere senza fotografie, c’era solo il “Giornale
Luce”, proiettato nei cinema fin dall’ottobre 1945.
Anche i film risentivano del clima politico, come le recensioni stavano a dimostrare. Un
grande successo, ovviamente, ebbe “La Battaglia di Stalingrado”. Le sale cinematografiche
erano frequentatissime, anche se i luoghi di ritrovo preferiti restavano i saloni danzanti, legati spesso alle formazioni politiche. Un fenomeno questo, che, paradossalmente, andrà
accentuandosi con il trascorrere del tempo. Ogni partito aveva le proprie sedi, ritornate
sovente nei locali strappati negli anni ‘20 dal fascismo o collocate in strutture costruite dal
regime. Lì, dove possibile, si chiamavano al ballo i concittadini; con l’eccezione della
Democrazia Cristiana, sensibile alle censure moralistiche dei parroci. Un terribile segno dei
tempi: il cinema Moderno e il “Roma” facevano entrare gratis gli sminatori. Incubi a parte e
nonostante le ristrettezze di ogni genere (anche il tabacco spesso mancava), la vita ritornava appieno: a tempo di record i ravennati poterono assaporare concerti musicali, esibizioni
liriche (Tito Schipa ne “L’Elisir d’amore”) e, per Natale, ben cinque opere in cartellone al
Teatro Alighieri, salvatosi miracolosamente dai bombardamenti che avevano colpito via Diaz,
via Mariani, le Poste e la Cassa di Risparmio. A Forlì era andata molto peggio.
Si dibatteva pure sul recupero dei monumenti e sulla ripresa dell’attività delle istituzioni
culturali, la Classense, l’Accademia, la Casa Oriani (rivendicata da Faenza, rimasta priva della
Biblioteca), la Biblioteca Ponte, ecc. Spesso finiva in politica, specie sui temi dell’epurazione e delle nomine.
Meno polemiche, invece, intorno al problema del “nostro Porto”, alla ripresa dei trasporti automobilistici e alla ventilata Strada Romea per Ferrara-Rovigo-Venezia. Su quest’ultima,
molto attivo il Presidente della Deputazione provinciale, il socialista Bindo Giacomo Caletti,
l’uomo politico defenestrato dagli squadristi dalla carica di Presidente dell’Amministrazione
Provinciale e presente alla distruzione fascista del palazzo delle Cooperative accanto a Nullo
Baldini (commemorato a Ravenna da Pietro Nenni nel settembre del 1945).
Ricoprirà quel posto fino ad età avanzata ed avrà al suo fianco, in qualità di Assessore, il
compagno di partito Mantellini (quasi coetaneo e dalla figura ieratica), quello dell’incidente
con un prete di Faenza.
L’interesse della popolazione per le questioni amministrative restava però al secondo
posto rispetto alla politica. Ciò veniva da lontano, ma mai come nei giorni del lungo dopoguerra essa pervase la quotidianità. Il passato recente ancora palpitava e tutto ciò che gli era
connesso suscitava clamore e passione. Poteva essere il ritrovamento nel trevigiano di motori di idrovore razziati dai tedeschi nel maggio del 1944 o l’uscita di un Poemetto di Giannetto
Zanotti dal titolo, “Ponte dei Martiri”, o la pubblicazione del profilo delle B.N. ravennati,
inviato a Salò dall’ultimo Capo Provincia, Alberto Zaccherini, in data 14 dicembre 1944, o la
smentita di una professoressa, Giuseppina Bacchi Lega, di essere stata fiduciaria del Fascio
Femminile. L’altra metà del cielo attirava sempre l’interesse più o meno pettegolo dei
maschi. Si figuri quando la donna in carne ed ossa sembrava uscita dallo schermo.
Insuperabile la curiosità se essa ricordava le dive del cinema dei “telefoni bianchi”, splendide e fatali, dal fascino slavo o ungherese, a ribadire l’egemonia italiana sulle rive del
Danubio, della Sava o della Moldava. Nel cinema come nella realtà, fino all’ultimo sospiro.
Non era un caso che Muti fosse stato ucciso a Fregene (agosto 1943), mentre si trovava in
compagnia di un’attrice cecoslovacca. Anche il Capo Provincia Grazioli (Maggio 1944) era
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sbarcato a Ravenna accanto ad una bellissima bionda, dalle origini inconfondibili. Nulla di
clandestino però, poiché la donna, una slovena, era la legittima sposa. Pochi, dati i tempi,
avevano avuto la fortuna di poterla ammirare, ma l’eco aveva raggiunto i molti.
Capitò così che in periodo ferragostano (1945) per le vie del centro si aggirasse una
donna “Alta slanciata, dai biondi capelli all’impero che risalivano, luccicando ai raggi del sole,
sul suo volto perfetto e sul suo corpo bellissimo, inguainato da un lussuoso ed elegante
vestitino all’ultima moda”. Sì, era proprio lei, la moglie del Grazioli che ad un anno di distanza ritornava a rivedere “le vie distrutte dalla guerra fascista”, aggiungeva il commentatore
quasi pentito di tale panegirico. Ma qual era il vero motivo della visita a Ravenna? Forse il
desiderio di trovare qualche testimonianza a favore del marito, detenuto a Pisa, ancora in
attesa della sede processuale. Ravenna o Torino, Bergamo o Lubiana? Ipotesi credibile, tanto
più che nel borsellino della bionda si trovavano molte decine di migliaia di lire. Ma chi aveva
dato un nome alla diva che ovunque lasciava una scia di profumo e di beltà? Non i bulli di
piazza, che nell’estate del 1944 si trovavano al sicuro in luoghi più tranquilli, ma un certo
Carlo Salvadori, agente di P. S. prima e dopo la Liberazione. Questi, tutto preso dal proprio
dovere, aveva ritenuto il passeggiare della donna fonte di turbamento per l’ordine pubblico
e l’aveva arrestata senza tanti complimenti. A noi parrebbe un eccesso di zelo, nonostante il
cronista di cui sopra, pentito, commentasse auspicando una non rapida scarcerazione, come
in tanti altri casi. Per somma sventura il Grazioli andrà a processo a Torino e nessuno potrà
raccontare della donna “dai capelli all’impero”!
Epurazione. Era il tema più scottante, caratterizzato da ricorrenti accuse e da appassionate negazioni, da destituzioni e da reintegrazioni, più o meno ravvicinate. Tra i primi a ricevere le scuse sarà il prof. Ettore Bocchini, docente all’Accademia, allontanato dall’insegnamento e poi richiamato ai primi del 1946. Succedeva qualcosa di kafkiano: da una parte
l’Alto Commissario per l’Epurazione sollecitava i ravennati a non avere paura di denunciare
i profittatori del regime fascista, salvo poi riconoscere nella titubanza degli accusatori il timore di essere coinvolti per antichi piaceri ricevuti; dall’altra si chiedeva di mettere un freno
alle facili denigrazioni, specie da parte di chi non aveva le carte in regola. Contro i redivivi
dal dito puntato si ricorse persino alla letteratura, pubblicando nelle prime pagine locali un
caustico articolo di Vitaliano Brancati. Lo scrittore divideva gli italiani da lui conosciuti in due
tipi. Coloro che avevano trattato con disprezzo federali e ministri, ed avevano avuto il coraggio di gridare dal balcone “W la Francia”, quando Hitler entrava a Parigi, e coloro che si
erano inchinati davanti agli stessi personaggi, “scivolando lungo i muri come ombre dolcissime”. Caduto il fascismo, i primi, coraggiosi, hanno abbassato subito la voce e praticato la
tolleranza. I secondi, invece, sono diventati “ferocissimi” nel chiedere “provvedimenti esemplari”, comportandosi da teatranti, divenuti a fine spettacolo giovani e forti dopo avere recitato da vecchi e da gobbi.
Dell’esito del processo epurativo ormai si sa tutto, almeno a livello nazionale, abbastanza sulla “Città del Duce” (Forlì, non Roma), poco o niente su Ravenna. Non risultano, almeno a noi, studi specifici. E’ noto comunque che esso sarà ovunque fallimentare, non per
eccesso di denunce, ma per le prevalenti considerazioni politiche ed economiche, per non
parlare della confusione delle norme giuridiche. Le fabbriche dovevano funzionare e quindi non ci si poteva privare né dei tecnici, né dei padroni, anche se nati all’ombra del fascio,
figuriamoci degli altri, da sempre in posizione di comando, finanziatori del primo fascismo
e prosperati con il secondo ed anche con il terzo.
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Un esempio per tutti: ad Attilio Monti (titolare di una Società petrolifera, con depositi
lungo il Candiano, prestanome di Muti, secondo i più) l’Intendenza di Finanza, autonomamente, aveva sequestrato una lussuosa imbarcazione ormeggiata nel riminese, tutti i beni
posseduti a Ravenna e Bologna, la SAMI (Società Anonima Monti Attilio) ed ipotecato il
patrimonio complessivo per una cifra di 20 milioni di lire (come da carte rintracciate presso
il gabinetto del Prefetto). La pratica, iniziata nel marzo 1944 sotto la voce, “devoluzione allo
Stato dei beni di non giustificata provenienza”, si era interrotta nel luglio dello stesso anno
e fu ripresa all’indomani della liberazione di Ravenna, in data il 27 dicembre 1944 (a firma
Ninni, l’Intendente). Poi i provvedimenti saranno revocati. Del resto, personaggi più ricchi
e famosi, come Achille Lauro a Napoli, Agnelli e Valletta a Torino, Volpi a Venezia e molti
industriali di Milano, avevano superato felicemente analoghi imbarazzi.
Sul tema “patrimoni illeciti” ravennati, si era mosso prontamente anche il CLN (a firma
Biral), che il 21 dicembre 1944 aveva inviato al Prefetto una prima lista di “arricchiti sfruttando la loro posizione politica”: gli ingegneri Montanari (Federale del Fascio Repubblicano),
Poggiali (Ing. Capo Provincia) e Urbinati (ex Federale ed iscritto al PFR), i ragionieri Calvetti
(Consigliere Nazionale, Podestà e Presidente della Federazione delle Cooperative ), Guidi
(Console della Milizia e Questore), e Rambelli (Ex Federale e Presidente del Consorzio
Agrario, arricchito). Ancora, Michele Piazza (Presidente delle Cooperative della prov. di
Ravenna), il dott. Merighi (medico condotto, che aveva comprato beni dall’ex federale
Rambelli). La missiva del CLN auspicava pure una futura tappa, con la distribuzione agli indigenti di biancheria, mobili e indumenti dei sopraindicati. A stretto giro di posta (8-1-45) si
attivò il Prefetto Cipriani, che informò il Commissario Provinciale alleato (Kucera) sulla
situazione patrimoniale di Celso Calvetti (una casa di campagna con 18 ettari, una villa a
Porto Corsini (Marina) con 10 stanze, sita in viale Cristoforo Colombo e, a Ravenna, un casa
di recente costruzione in via Cerchio 47, a tre piani e con 9 stanze). Il Cipriani, in attesa delle
decisioni del Prefetto alleato, suggeriva la cessione di detti beni in uso provvisorio alla
Federazione delle Cooperative e all’Istituto Provinciale della Case Popolari. La documentazione relativa si ferma qui. Come si nota, allora la burocrazia non dormiva, tant’è che il Ninni
citato ragguagliò immediatamente (13-1-45) il Cipriani sulla consistenza dei beni in Comune
di Ravenna e sulle entrate del Col. Guido Guidi: in via Ravegnana, dal n.273 al 279, un vasto
magazzino e una casa composta da 24 vani (eredità paterna), una pensione di guerra, quale
Seniore della Milizia, di lire 13.354 (lorde annue) e due soprassoldi per medaglie al valore di
lire 1.195 e 1.050 (annui), somme incassate, dopo il settembre 1944, a Brescia. Non molto,
ma l’opinione pubblica suggeriva di scoprire il “discreto patrimonio” di gioielli e di denaro,
visto che il Guidi era solito ricevere laute ricompense per i favori elargiti. Esiti? Immaginabili.
Questo per la storia, ma allora il triste destino dell’epurazione non poteva essere immaginato, anche se la caduta del Governo Parri, durato neanche sei mesi, era in parte dovuta
proprio ai temi scottanti dell’epurazione, su cui il successore De Gasperi (10 dicembre
1945) assumerà orientamenti di segno contrario, più possibilisti e più “tolleranti”, nascosti
però al grande pubblico.
Per concludere, quattro furono le fasi dell’epurazione e del sequestro dei beni illeciti: la
prima iniziò con Badoglio, poi subentrò quella dei fascisti di Salò contro “i traditori, accusati di essersi arricchiti durante il ventennio per poi mollare la barca dopo l’8 settembre, indi
venne quella del dopoguerra, chiusa in breve tempo dagli inglesi, dai giudici della
Cassazione e da altri.
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Polemiche incrociate
Anticipando i tempi, si corre il rischio di guardare sotto una luce diversa i mesi a cavallo
tra il 1945 e il 1946, come se in essi si fosse recitata una rappresentazione senza sangue e
vitalità, ingenua ed illusoria, incapace di incidere sul costume e sul divenire politico della
città. Ravenna viveva invece di tensioni reali, di drammi d’ogni tipo e di tragedie. Basterebbe
leggere le relazioni del Prefetto sullo stato dell’ordine pubblico, furti (tra cui i timbri
dell’ANPI), rapine e vendette mortali contro ex fascisti, localizzate in alcune aree particolari
lungo la fascia dei fiumi Senio e Santerno, avvenute soprattutto nell’estate ‘45. Fatti, questi
ultimi, che non sempre trovavano posto sulla stampa, che in genere si accontentava di riferire in modo scarno del ritrovamento di corpi, senza indicarne con precisione il luogo o i
dati anagrafici delle vittime.
A Ravenna città, di contro, emergevano scontri giornalistici che investivano gli stessi protagonisti della nuova stagione politica, che talora si accusavano reciprocamente del dubbio
passato o della scarsa volontà di fare giustizia. In gioco, come ben s’intende, il consenso elettorale. Il più battagliero su questa linea fu il periodico “La Lente”, legato agli anarchici (gli
unici, in vero, senza ambizioni politiche), che scelse di porre quesiti provocatori sugli stessi capi della Resistenza: “Poteva Zaccagnini presiedere il CLN, dopo avere scritto su “La Santa
Milizia?”. Come se non bastasse a riscattare passate debolezze (o colpe) l’impegno militante
profuso sotto l’occupazione nazifascista, mettendo a repentaglio la propria vita e quella dei
famigliari. Una velata censura colpiva anche Boldrini, ritornato dalla Jugoslavia come ufficiale dell’Esercito, ma in precedenza con la divisa della Milizia. Al giornale, la cui anima era
Domenico Zavatero, componente fra l’altro della Commissione provinciale per l’Epurazione,
rispose, a difesa dell’uomo politico democristiano, “Democrazia”, dal settembre 1945 non più
diretto da Zaccagnini. Con minor garbo, l’organo del CLN era uscito con un articolo pungente contro “La Lente”, che serviva a vedere “i microbi” e perdeva di vista le cose fondamentali. Poi, la stoccata finale indirizzata al direttore del periodico anarchico, Manfredo Boschetti,
che si era scordato un proprio articolo di fondo apparso sempre su “La Santa Milizia”, in data
27 maggio 1944 (e non prima della guerra), in cui s’invitavano i giovani a scegliere le forze
dell’Asse.
Ma ad infuocare le polveri, ben al di là degli elzeviri, scese in campo uno dei personaggi
più in vista della provincia, Genunzio Guerrini, già Commissario Politico della “28a Brigata
Garibaldi”, che, indicato dal CLN alla carica di Questore senza ottenere il gradimento degli
alleati (4 dicembre1944), era divenuto invece Delegato Provinciale dell’Alto Commissario
per l’Epurazione. Il Guerrini detto Gianò, comunista, si era avventurato in una polemica con
un leader della Democrazia Cristiana, Luciano Cavalcoli (sarà per decenni Presidente della
Camera di Commercio) su quali forze e quali uomini potessero vantarsi di coerente antifascismo. Secca la risposta: “Fui arrestato dai tedeschi in compagnia di Lina D’Alema, mia ospite (sorella di un notissimo capo comunista, Giuseppe, che sarà a lungo un dirigente nazionale del Partito Comunista, padre di Massimo) e un ufficiale della Gestapo mi puntò una
pistola alla tempia”. Il Cavalcoli aggiungeva che, dopo un interrogatorio sfibrante durato due
ore, era stato condannato a morte come sospetto capo partigiano e per avere reagito duramente contro “un Maresciallo tedesco che rastrellava donne”. La diatriba fini lì, non positivamente per il Guerrini.
Di ben altro rilievo lo scontro che, a fine ottobre 1945, vide confrontarsi il Guerrini stes-
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so e il Procuratore del Regno, Angelo Maria Gasbarro. I fatti andarono più o meno così, dato
che le versioni contrapposte non consentono un’esatta ricostruzione. Un giorno si erano
presentati nell’ufficio di Gianò il Commissario di Polizia e un membro del CLN di Lugo a
informarlo di un mandato di cattura emesso contro 4 gappisti del posto, per “avere giustiziato durante la lotta clandestina una spia nazifascista”, su ordine del CLN. Il trio si trasferiva immediatamente a Palazzo Rasponi, sede del Tribunale. Il Guerrini, dopo alcune scaramucce iniziali con il Procuratore del Regno, avrebbe detto (quasi certo) che, se avesse saputo chi aveva emesso quel mandato illegittimo, lo avrebbe fatto arrestare (si sarebbe rivolto
in alto, secondo il Commissario Politico). Al che il Gasbarro: “E se fossi stato io?”. Replica:
“La denuncerei, e se possibile la farei arrestare”! Tutto questo si badi, mentre un funzionario era stato mandato ad accertarsi dell’esistenza del provvedimento incriminato.
Esplose uno scandalo. La Magistratura tutta si dichiarò solidale con Gasbarro ed indignata “per la gravità dell’inusitato episodio”. Idem gli avvocati cittadini. La stampa si buttò sull’argomento, con interviste e dichiarazioni. L’imbarazzo dei comunisti era evidente e se n’ebbe un riflesso anche in un comunicato del CLN, che non portava le firme della DC e del PRI.
In esso si riteneva “deplorevole l’episodio”, facilmente evitabile. Sarebbe bastato dire che
quella fattispecie di reato non era contemplata dalla Legge.
Il Guerrini non si fermò lì e, firmandosi Commissario Politico della “28a Brigata Gap”,
aggiunse altre rimostranze a quella all’origine dello scontro. Queste le denunciate colpe del
Procuratore: “avere sempre impedito con spirito poco democratico l’applicazione dei decreti per i crimini fascisti, non avere eseguito il sequestro di tre ditte collaborazioniste, avere
intralciato il ruolo della giustizia, come per Sergio Morigi (forse per avere appoggiato la sua
richiesta di grazia, tra l’altro, richiesta fuori dai termini previsti), non avere voluto considerare valide le confessioni dei fascisti stessi, ecc.”. Accuse gravissime, che tendevano a minare dalle fondamenta l’intero lavoro della Corte di Assise Speciale. Da ultimo, egli rinfacciava
al Gasbarro di essersi opposto al trasferimento della salma di Umberto Ricci (Napoleone)
come richiesto dalla madre, Teresa Ricci, “con la motivazione che contro di lui esisteva un
mandato di cattura… emesso dalla brigata nera”.
Il Procuratore del Regno, da parte sua, non era rimasto fermo e si era rivolto a Roma,
citando le sue benemerenze democratiche, mai iscritto al Partito fascista, e minacciando le
dimissioni dalla Magistratura. Pesantissimi i passaggi del suo scritto sull’antagonista: “Suo
dipendente (dell’Alto Commissario), muratore di professione come da lui detto, sfornito
delle più elementari nozioni di diritto. Lo diffidi per l’avvenire da illecite inframmettenze”.
Quanto all’affare della salma di Ricci, il Gasbarro ebbe a dichiarare alla stampa di avere semplicemente detto alla donna di rivolgersi al Comune di competenza. E’ da immaginarsi lo
stupore del nuovo Prefetto, Omodeo Salé, giunto proprio nel pieno del putiferio.
Come accennato, i democristiani e i repubblicani presero nettamente le parti del primo
magistrato della provincia e i partiti di sinistra (Partito d’Azione, PCI, PSIUP, Partito
Comunista Libertario, gli anarchici e l’ANPI) si schierarono con il Guerrini.
Alfine, lo sconcerto giunse al massimo quando a Ravenna arrivarono da Roma due telegrammi, spediti rispettivamente dal Ministro di Giustizia (Palmiro Togliatti) e dall’Alto
Commissario Nazionale per l’Epurazione, nonché vice Presidente del Consiglio (Pietro
Nenni), entrambi di pieno appoggio al Procuratore del Regno! Peggio di così non poteva
finire per lo scornato Gianò.
Il torto dell’incidente era sicuramente di Gianò, almeno per il metodo, pur non essendo
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soltanto un ex Commissario Politico di Brigata ad avere protestato con Il Procuratore, poiché il Guerrini rivestiva anche funzioni giudiziarie e di polizia in qualità di Delegato
Provinciale dell’Alto Commissariato per l’Epurazione. A noi, però, interessa più il merito del
contendere. Chi era questa spia uccisa, di cui si tace il nome? Erano veri i mandati di cattura contro gli esecutori o erano ventilati? Era successo che due quotidiani, “Il Giornale
dell’Emilia” e il “Popolo di Roma”, erano usciti con articoli (a metà d’agosto del 1945) sull’ordine pubblico nel territorio di Lugo. Tra i casi di giustizia sommaria grande risalto era
dato all’uccisione del parroco di S. Maria in Fabriago, don Ferruzzi (anche il Capo delle
Brigate Nere di Lugo si chiamava Ferruzzi e risiedeva nella medesima località. Parenti?). Ne
scaturirono polemiche e rivendicazioni, visto che il fatto era avvenuto il 3 aprile 1945, quando nella zona imperversavano ancora i repubblichini e i tedeschi. Quindi, a ragione o a torto,
andava considerato un fatto di guerra e come tale non punibile.
Così si esprimeva anche il Maggiore Comandante dei Carabinieri, Biagio Argenziano, in
un rapporto inviato alla Questura, a seguito delle denunce giornalistiche. In detta relazione
il Maggiore non mancava di evidenziare come l’area di S. Bernardino, S. Lorenzo, Giovecca
e Voltana fosse critica, per i numerosi delitti politici. Ciò derivava dall’assenza delle Caserme,
tutte rase al suolo, e dalle reazioni, spiegabili, al “terrore imposto dalle Brigate Nere e dai
tedeschi con ogni sorta di angherie e di soprusi”. L’ufficiale dei Carabinieri chiudeva riservandosi di comunicare ulteriori notizie su altri due casi di sacerdoti uccisi, don Giuseppe
Galassi e don Tito Galletti.
Neppure l’affare don Ferruzzi fu dimenticato; come molti casi di giustizia sommaria, legittimo o meno, amnistiato o meno, esso sarà riproposto all’attenzione del grande pubblico dai
giornali e dai rotocalchi nazionali, e a quella del Prefetto, tramite lettere ed esposti anonimi.
E così nel settembre del 1948, il Maggiore Argenziano dovette di nuovo comunicare in
alto. L’uccisione dell’Arciprete, anni 63, era avvenuto in località Podere Predola, in data 2
aprile 1945 (in altre fonti si dice il 3 o il 4). Le indagini sugli autori avevano dato esito negativo. Due le voci popolari e due le ipotesi. Una, abbastanza ardita per noi, indicava alcuni
componenti della Decima MAS furiosi contro il sacerdote di S. Maria in Fabriago per un suo
intervento, riuscito, presso il Comando tedesco, al fine di far cacciare alcune prostitute mantenute dai repubblichini. L’altra, più verosimile, che faceva colpa al prete dell’attività svolta
a favore della Todt ed anche del legame di parentela con il massimo gerarca fascista di Lugo,
il Ferruzzi, Capo delle Brigate Nere, suo nipote. La missiva anonima si accostava a quest’ultima ipotesi ed indicava 5 soprannomi di coloni abitanti nei dintorni. Esito negativo.
Per il momento, i Carabinieri sospenderanno il giudizio, per il momento…
Natale di fuoco
I tempi allora erano intensissimi: non si chiudeva un caso, che subito se ne apriva un
altro, senza guardare alle festività natalizie e all’atteso ritorno della stagione lirica, in programma all’Alighieri dal 25 dicembre al 1 gennaio, con “Cavalleria Rusticana”, “I Pagliacci”,
“Carmen”, “Rigoletto” e “Tosca”.
Neppure la criminalità comune conosceva soste, come del resto le sorprese. A metà
dicembre era stato recuperato un gran quantitativo di refurtiva, biciclette, biancheria, mac-
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chine da cucire, finimenti di cavallo, coperture per auto, gomme e denaro, frutto di rapine
a mano armata e furti. Alcuni responsabili, tra cui una prostituta, erano stati arrestati dalla
Polizia e dai Partigiani, di supporto nelle attività d’ordine pubblico. Normali delinquenti,
esclusi quelli di una banda composta da cinque malavitosi, di cui 4 ex partigiani, iscritti
all’ANPI (Corsi, Liberti, Marchi e Mughetti) subito arrestati ed espulsi dall’Associazione.
Nelle stesse ore, altra operazione congiunta tra Carabinieri, Polizia Partigiana e Guardia
di Finanza. Scena del delitto: le Saline di Cervia. Un gruppo d’individui, a bordo di un
camion ed armati di mitra, si apprestano ad asportare un grosso quantitativo di sale, nella
notte tra il 15 e il 16 dicembre. Alt da parte di due finanzieri. In risposta, i “contrabbandieri” sparano una raffica. Una guardia resta ferita. Arrivano in soccorso i Partigiani e i
Carabinieri. Altra sparatoria. Feriti un aggressore ed un partigiano. Poi, la cattura di tutti i
malviventi, provenienti da Bagnile di Cesena.
Alle ore 7 del 23 dicembre 1945, al Poligono, veniva giustiziato Antonio Capanna e poco
dopo era già possibile acquistare, presso le librerie “Lavagna” e “Tarantola”, un opuscolo che
ricostruiva tutte le fasi del processo.
Ce n’era abbastanza per chiudere l’anno in tranquillità, nella pace familiare o a Teatro.
Non la pensava così la “Delegazione Provinciale di Ravenna per le sanzioni contro il fascismo”, che, in quei giorni, emise un comunicato relativo all’organizzazione spionistica, la
“Capillare”, operante sotto il regime in tutto il comune di Ravenna, alle dipendenze del
Partito Fascista. In quel documento si dichiarava la volontà di denunciare gli aderenti di
detta organizzazione alle Competenti Commissioni Giudicatrici, a norma di Legge, di comunicare altresì i loro nominativi ai fini dell’esclusione dalle liste elettorali e, da ultimo, di rendere pubblico l’elenco degli iscritti e così avvenne. Il 29 dicembre i primi 84 nomi della lista,
pubblicati in ordine alfabetico, comparvero su “Democrazia”. Quanto all’identificazione dei
personaggi in questione non si consentiva nessun dubbio, data l’indicazione delle rispettive
località di residenza, delle vie e dei numeri civici. Un’autentica bomba, giunta in ogni angolo del vasto territorio comunale. Consensi, dissensi, meraviglia, conferme, attacchi, difese,
scandali veri o finti. Curiosità in tanti per i molti nominativi mancanti, dalla lettera C in poi,
rinviati ai numeri successivi del settimanale. E’ facile immaginare che negli intervalli della
“Carmen” o della “Tosca” non si parlasse né di romanze, né di tenori.
La cosa era d’estrema rilevanza. Poteva succedere che oltre 500 persone su una popolazione di 80.000 abitanti fossero additate come spie. Tremavano le famiglie, i partiti, le istituzioni. E pronta arrivò la risposta del Comitato di Liberazione Provinciale, con un ordine del
giorno di condanna dell’iniziativa, assunta senza preventive indagini riservate e personali. Se
le responsabilità sono individuali, si disse, non è consentito gettare sospetto e disonore su
quanti potrebbero essere stati inseriti nella “Capillare” senza il proprio consenso o anche
senza esserne venuti a conoscenza.
Va da sé che i restanti nomi non furono pubblicati.
Una posizione ineccepibile, ma, indipendentemente dal mescolamento di verità e menzogne, il danno era fatto. Ben presto gli accusatori, i componenti la Delegazione incaricata
delle sanzioni contro il fascismo, passeranno sui banchi riservati agli imputati. E, come a
volte capita, dovettero difendersi da accuse opposte, di avere fatto uscire l’elenco e contemporaneamente di avere saltato “intenzionalmente” molti nominativi. In vero, essi non si fecero impressionare dalla valanga di critiche e reagirono con veemenza: “Non era colpa loro se
il fascismo li aveva messi tutti in un fascio e non era colpa loro se la pubblicazione dei nomi
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aveva turbato diversamente i partiti”. Infine, in relazione alle mancate indagini e richieste di
ulteriore documentazione, la Delegazione affermava che la finalità non era lo scandalo, ma
impedire che i veri spioni potessero votare, secondo le norme di legge. O candidarsi,
aggiungiamo noi, visto che le amministrative erano alle porte.
Interrogativi: di chi era stata l’idea, con quale maggioranza era stata presa, come mai nessuno si era accorto che quasi un centinaio di nomi si trovava già in tipografia? Possibile che
le Segreterie dei partiti non ne avessero discusso prima? Si può credere ad un colpo di
mano? A 60 anni di distanza non sono ancora venute risposte plausibili. Si tenga presente
che per decenni molti ravennati ricorderanno quel periodo più per lo scoop de “La Lente”
che per i processi contro i brigatisti neri. Cosa c’entra “La Lente”? Tantissimo, perché
Zavattero, radicato nelle proprie convinzioni, completò l’elenco della Capillare, stampando
i restanti nominativi su un supplemento del suo giornale, che non poté andare a ruba per il
pronto sequestro da parte della Questura, sulla base di norme risalenti al passato regime.
Terrificante il titolo del supplemento in questione, “ALLA GOGNA”, appena attenuato dalla
chiusa: “Attenzione ai salvataggi!! Onestamente riporteremo precisazioni e prove di chiunque voglia dimostrare la propria innocenza. Onestamente ci scaglieremo contro chiunque
tentasse con inganno sviare la propria colpa”.
Ci sfugge se in altre province sia capitato qualcosa di simile.
La crisi del CLN era sempre più evidente. “Democrazia” da mesi non portava più la firma
del direttore Zaccagnini e non usciva più come organo ufficiale del Comitato stesso. Si moltiplicavano i manifesti e le lettere ai giornali, soltanto con le firme di alcuni partiti. Poi, venne
il febbraio 1946.
L’Arcivescovo di Ravenna, in accordo con tutti gli altri Vescovi e con il Papa, uscì con una
Pastorale, letta in tutte le Chiese, in cui si invitava a votare, nelle vicine elezioni amministrative, esclusivamente per i partiti contrari al divorzio, all’aborto, ecc. La rottura tra i partiti
laici e la DC diventò inevitabile. Le conseguenze ad aprile, allorché in città si formò una
Giunta presieduta da Gino Gatta (PCI), con vice Sindaco Cicognani (PRI) e con Assessori del
PSIUP e del Partito d’Azione. Il primo giornale del dopoguerra cesserà di vivere.
Dimenticavamo: nel Veglione di Capodanno, tenutosi nel Teatro Comunale di Cervia e
organizzato dall’ANPI locale, due bombe a mano furono lanciate in mezzo alle coppie danzanti. Due donne morirono!
I soldi per la fuga
Tra le lacune nelle notizie, sul periodo in questione, troviamo l’evacuazione delle forze
repubblichine o ritirata strategica, come si disse. Come avvenne la partenza, con quali mezzi,
in quanti, accompagnati da chi? Chi rimase fu autorizzato o no? Quante donne sui camion o
sui carri? Ausiliarie o mogli con figli e mobilia? Essendo avvenuta per tempo, diverse settimane prima della sconfitta o dello sfollamento tedesco, si deve ritenere che il passaggio al
nord si sia svolto con un certo ordine, turbato solamente dai pericoli provenienti dal cielo.
Le carovane delle Brigate Nere e della Guardia Nazionale avevano bisogno di ogni tipo di
provvista: generi alimentari, legname, carburante, armi e munizioni. Non bisognava pesare
troppo sulle caserme amiche, dislocate lungo il cammino o alla meta. E nei convogli dove-
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vano trovare posto anche cassoni con carte riservate, utili un domani. Altre, più compromettenti, erano finite nei falò. Né poteva mancare il denaro. E poi perché lasciarlo al nemico?
Esso serviva per pagare gli stipendi ai militi, compresa l’indennità trasloco, per le affittanze
di alloggi e uffici, per gli acquisti di abiti e divise. Per tutto. Dove prelevarlo? Ovunque si trovasse, che fosse o meno nelle precedenti disponibilità delle Federazioni, dei presidi, dei
Comandi.
Siamo a Lugo. E’ la mattina del 25 ottobre 1944 e un cliente, rimasto sconosciuto in nome
della privacy, si presenta presso la sede della Banca d’Italia per consegnare un’ingente
somma, ben 600.000 lire. Sono presenti il direttore Simonini, il cassiere Toninel e l’impiegata Giovanna Tassari. Nel pomeriggio il Toninel chiede (o decide) di assentarsi per incontrare il Segretario del Fascio, il dott. Ferruzzi. Poco dopo, un gruppo della Brigata Nera, comandato dal Ferruzzi stesso, entra a mano armata nell’istituto bancario e preleva l’intera giacenza, lire un milione e seicentomila. Una vera rapina a mano armata.
Il Toninel, dipendente della sede di Ferrara, si trova in missione a Lugo da qualche settimana. Sposato, con un figlio, egli non vede l’ora di rientrare nella sua città. Il fronte si sta
avvicinando e non vuole restare tagliato fuori. La medesima preoccupazione affligge i camerati. Il cassiere chiude le sue pendenze, consegna le chiavi al direttore, saluta la famiglia che
l’ha ospitato e comunica pure che nella notte sarebbe stato fucilata una persona ad opera
della B.N. (cosa avvenuta). Poi, nel timore di perdere la splendida occasione, sale in camion
con i rapinatori del pomeriggio, diretti al nord.
Non bisogna essere degli indovini per immaginare che il Toninel fosse all’origine del forzato prelevamento, per convinzioni politiche o per un semplice passaggio in camion, non
certo per un compenso in denaro. Qualsiasi tribunale in tempo di pace l’avrebbe arrestato
con l’accusa di complicità in rapina a mano armata. Dati i frangenti bellici, la Banca d’Italia
di Ferrara si comportò invece come se nulla fosse avvenuto e gli restituì immediatamente il
suo posto. Viceversa, a liberazione avvenuta, il Toninel fu spedito in carcere nel luglio del
1945, con l’imputazione di avere informato ed incitato i fascisti di Lugo al crimine.
A sua discolpa: il Nostro ricordò che era solito assentarsi nel pomeriggio, che non disse
di dovere andare alla sede del Partito, ma al Caffè detto del Fascio (vicino), che, se di sera
cenò con i camerati della B.N., fu casuale, poiché in quel locale mangiava tutte le sere. Da
ultimo, si associò ai “neri” solo per riabbracciare i suoi cari, senza rinvii.
La causa era abbastanza facile, ma i giurati (Peveri, Gardini, Bovoli, Nediani e Morigi) la
complicarono con una strana considerazione. Siccome era costume da parte della B.N. spogliare uffici postali e bancari prima di lasciare le città, il fatto del 25 ottobre sera si sarebbe
verificato comunque, indipendentemente dalla segnalazione del cassiere.
Insufficienza di prove. Così si inaugurava l’anno, in data 8 gennaio. Cambiamento di
clima? Si vedrà.
Lo stupito Toninel Carlo Arnoldo, di Placido e di NN (la madre!), nato a Faenza nel 1911,
residente in via Ghiara (?) n.7 a Ferrara, chiederà la consegna “con la massima sollecitudine”
della copia della sentenza il 25 dello stesso mese
Lesto, come lesto nella notte del 25 ottobre 1944.
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Bagnacavallo, un’isola di pace
La situazione politico-militare della bella cittadina non preoccupava molto né i tedeschi,
né i camerati provinciali. Preoccupazioni solo per la ribelle frazione lungo il Lamone,
Villanova. Pochi i ribelli e male organizzati, debole anche la presenza repubblichina in difficoltà a trovare uomini per i vari incarichi. A trovarli e a trattenerli.
Accadde che, nella primavera del 1944, la sezione del Fascio Repubblicano non riuscisse
a darsi un capo, per cui il Federale di Ravenna intervenne per nominare un Commissario
nella persona di Enrico Cortesi, impiegato. Egli era nato a Baricella (BO), nel 1899, dal fu
Antonio e da Maria Adelaide Zaccaria. Un ragazzo del ‘99. Questi nel suo operare, dal maggio all’ottobre del 1944, non si dimostrò però un fanatico, nonostante portasse la divisa della
B.N. cui si associò nel ripiegamento al nord.
Poco prima di partire, in un giorno di ottobre, un sergente tedesco, accompagnato da
militi della GNR, si presentò alla casa del dott. Giuseppe Sangiorgi per catturarlo. Non trovandolo, la squadra italo-germanica prelevò la moglie (Domenica Melandri) e la condusse in
caserma. Sulla porta, quasi in attesa, il Cortesi. Nessun dubbio per la Melandri. Qualche
tempo addietro, in un rastrellamento, gli attivi teutonici avevano catturato dieci persone,
alcune delle quali poi rilasciate. Altra imputazione per il Cortesi. Da ultimo, alla vigilia della
partenza egli aveva prelevato lire 200.000, depositate presso il Credito Romagnolo locale.
Ma, a detta dell’imputato, questi soldi appartenevano al Fascio di Bagnacavallo, l’ordine
era partito dal Segretario Federale di Ravenna e la somma era stata così distribuita: 89.000
lire per le spese di ripiegamento, 30.000 per le esigenze del locale fascio e il resto alla
Federazione. Tutto vero. Quanto ai 10 concittadini in mano ai tedeschi, egli si era dato da
fare per la loro liberazione, riuscendovi in parte. Infine, da lui non era partita nessuna segnalazione sul Sangiorgi.
Insufficienza di prove. Ravenna, 22 gennaio 1946.
Il caso e la morte. Villanova di Bagnacavallo
Quando il 21 luglio 1944 i fascisti di Ravenna partirono su un camion e su una “Balilla”
diretti a Villanova di Bagnacavallo, portavano un unico prigioniero, destinato a morte sicura. Forse non tutti gli occupanti conoscevano lo scopo della spedizione. Di certo, quelli della
“Balilla”. Lo intuiva la vittima predestinata, il prof. De Lauretis (di cui sopra). Nel frattempo,
lungo il Lamone, la giornata scorreva normalmente, al lavoro e nella case. Nessuna preoccupazione nel vecchio Apollinare e nel meccanico Guglielmo. I due mezzi arrivarono insieme e la macchina sapeva bene dove andare. I due inconsapevoli paesani furono catturati dai
fascisti dell’auto. Poi, un crepitio di mitra di fronte al cimitero. La spiata in loco era certa, ma
mai emergerà il colpevole, neppure il probabile. Non capitava spesso che i repubblichini cercassero le vittime per strada, con il rischio di fallire. Chissà quante volte, i famigliari dei due
avranno ricordato quelle ore! “Era rientrato da poco in casa… doveva andare”. Il caso così
volle. Sul camion della morte anche un giovane venticinquenne di Ravenna, meccanico pure
lui. Giovane e già vedovo con un figlio. Troncossi Carlo il suo nome. Aveva fatto la guerra in
Marina e dal settembre del 1943 al febbraio successivo era rimasto in disparte. Poi, forse
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spinto dal bisogno, si era iscritto al PFR, ottenendo un posto nella Milizia Ferroviaria (non
male per quei tempi). Ma il Troncossi non era fortunato e a giugno era stato licenziato, o
meglio congedato, per malattia. Daccapo senza soldi, aveva chiesto alla Federazione fascista
un aiuto. Fu esaudito con l’incarico di Usciere della Federazione stessa. Non era l’ideale, ma,
esclusi i bombardamenti, poteva dirsi una sistemazione tranquilla. Prese servizio il giorno 20
luglio 1944, proprio alla vigilia dell’eccidio. Un caso.
L’imputato si difese strenuamente. Il fascista Melandri gli aveva assicurato che si trattava
di una passeggiata; non conosceva lo scopo della spedizione, né la meta; il mitra glielo avevano dato sul camion; solo lui ed un meridionale erano rimasti sul mezzo, mentre i tre venivano trucidati nel fosso.
La Giuria (8-1-45) gli credette, tranne alla favola della gita in armi. In più il Nostro, in tutti
gli interrogatori, aveva sempre sostenuto la medesima versione, ricca di molti particolari
sulle varie responsabilità. Purtroppo per lui la pena prevista dalla legge era quella di 10 anni,
ridotta a cinque, mesi sei, giorni venti per le attenuanti. Tra queste, la più significativa dal
punto di vista morale, l’abbandono della B.N. il 22 luglio 1944, a 24 ore dalla tragedia!
Quanto al resto c’è da inorridire: per un uomo sfortunato e pacifico tre omicidi nello svolgersi della prima giornata di servizio. La fatalità.
A Troncossi Carlo, fu Alessandro e di Giannetta Bedeschi, classe 1919, provvederà la
Cassazione nel febbraio del 1947, dichiarando estinto il reato per amnistia.
Due anni interi di prigione, se si prende per buona la data dell’arresto, 8-2-45. Un caso
unico, poiché tutte le altre detenzioni iniziano successivamente alla Liberazione dell’Italia,
non a quella di Ravenna. Errore o altra fatalità?
Via Aguta
Con tante strade che cambiano nome ad ogni occasione, più o meno storica, questa fa
eccezione. E’ dedicata ad un Condottiero inglese, John Hackwood (Giovanni Acuto), che la
costruì a scopi militari nel XIV sec. Parte dalla Reale (la Statale 16) all’altezza di Glorie ed arriva a Bagnacavallo.
L’Aguta da generazioni è sentita come confine e parte integrante di Villanova ed entra
bene e spesso nelle conversazioni dei suoi abitanti: “tutti contadini, che non spendono una
lira”, “tutti gialli”, “nascondiglio di briganti”.
Nell’ottobre del 1944 successe che un certo Ghetti, originario di Ravenna e residente a
Villanova, ritornasse per una licenza in famiglia. La moglie, una Randi, era del posto e non
si capisce se avesse raggiunto i fratelli da sfollata. Stranamente, però, egli non fu accolto con
grandi effusioni. Anzi, tutti i parenti, specie il cognato Luigi, lo aggredirono verbalmente per
la sua scelta a favore dei fascisti. Non era nelle B.N., ma solamente nella Milizia Confinaria
(incorporata nella GNR) fin dal 1940. Fascista convinto, volontario nella guerra di Spagna
come Camicia Nera, era rimasto di quell’idea. Il Ghetti non si scompose e reagì. Nonostante
gli alleati fossero già in Romagna, era del parere che fosse giusto continuare una guerra
sacrosanta, destinata ad un capovolgimento delle sorti militari. “Presto saremo a Roma con
le nuove armi tedesche”. Era arrabbiato anche per motivi personali, essendo stato ferito dai
partigiani: “Voglio comprare un mitra, per uccidere un po’ di gente… tanto sono tutti comu-
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nisti”. Parole. Sì, ma alcune pericolose. Infatti, nella lite verbale, il Nostro aveva rivelato di
avere informato un tedesco che la via Aguta era una brutta zona, infestata dai comunisti.
Coerentemente, il milite assaporò fino in fondo la sconfitta. Fu catturato il 25 aprile dai
partigiani (dove?) e consegnato agli americani che lo internarono nel Campo di Coltano.
Rilasciato nell’ottobre, il Ghetti fece ritorno a casa, ma i Regi Carabinieri lo aspettavano
e gli diedero appena il tempo di gustarsi la festa del paese. Arrestato il 17-10-45.
Per La Corte: “Solo manifestazioni di sentimenti in ambito familiare”. Il fatto non costituiva reato (22-1-46).
Si può scommettere che il Ghetti Domenico, fu Achille e fu Calseroni Giuseppa, classe
1914, mai più abbia rivisto Villanova e neppure il cognato, al quale, dei nove mesi di carcere, ne doveva tre. Brutto paese Villanova! Peggio della via Aguta!
Dall’altra parte del fiume Lamone
Di là dal fiume, dirimpetto a Villanova, c’è Santerno, dai ritmi rurali anche oggi. Meno
esuberante e meno spendacciona, nascosta come per pudore agli sguardi forestieri, la località non si era sottratta agli appuntamenti con la storia. Violentissimi gli scontri nel primo
dopoguerra, periodiche le retate durante il regime, protagonista nella lotta partigiana.
Apparentemente fuori dalle vie di comunicazione, Santerno offrì rifugio persino ai capi provinciali della Resistenza. A differenza di Villanova, la popolazione viveva in prevalenza nelle
case sparse in campagna, coperte dalla vegetazione, talora invisibili. Nessuna strada importante, ma un reticolo di percorsi in tutte le direzioni, ricchezza sconosciuta in sinistra del
Lamone. Gli uni avevano la via Aguta e quella dei Cocchi, gli altri la Canala e la Palazza,
entrambe in direzione di Piangipane, il centro più ribelle ad ovest di Ravenna.
Una sera dei primi di marzo del 1944 uno sconosciuto procedeva in bicicletta per la via
Palazza, quando incrociò quattro militi. Alt! Lo sconosciuto non accelerò, ma scese dalla bicicletta con calma e sparò al capo pattuglia. E poi via, inseguito dalle pallottole, una delle quali
lo raggiunse ad un braccio (lesioni guarite in 20 giorni).
Il 1 maggio del 1944 un certo Innio (?) Fuschini stava andando a Ravenna in bicicletta. La
strada bianca della Canala era finita da un pezzo, quando, all’altezza del Borgo S. Biagio,
colpi di rivoltella partirono contro di lui. Un milite ed un agente lo fermarono e, cosa insolita, lo portarono in Questura, preferendola alla Caserma Garibaldi. Meglio. “Chi è?” La
domanda del funzionario.”Questo è quel Fuschini che il milite Biagio Allegri ha detto di arrestare”. La domenica successiva a Santerno arrivarono una trentina di fascisti per un rastrellamento, accompagnati da spari. I più compromessi, sempre in orecchio, fuggirono, altri,
inconsapevoli e tutti giovani, furono arrestati e condotti a Ravenna, non più in Questura.
Alla “Garibaldi” restarono tredici giorni.
Dei tre episodi fu incolpato l’esponente più in vista del Fascio repubblicano di Santerno,
il citato Allegri. Lui, a sparare allo sconosciuto e ai fuggitivi durante il rastrellamento. Tutti
presenti al processo i testimoni, Pasquale e Domenico Drei, Peppino Calderoni e Gennunzio
Guerrini, lo sconosciuto, nonché capo partigiano, nonché, per sfortuna dell’Allegri,
Questore aggiunto nel dopoguerra.(Troppa enfasi nella narrazione del gesto coraggioso da
parte di Guerrini detto Gianò)
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Pertanto, Biagio Allegri, fu Giuseppe e fu Giulia Gramantieri, nato a Ravenna nel 1905, bracciante, coniugato, nullatenente, nella Milizia dal 1928, fu condannato ad anni dodici (10-1-46).
Amnistiato a fine anno.
Una tragica partita a Russi
Strategica la posizione geografica di Russi, l’unico centro tra Ravenna e Faenza, collegato
a Forlì e in grado di controllare il Montone e il Lamone, la Faentina e la S.Vitale. Naturale che
i tedeschi vi collocassero servizi operativi, presidi di varia natura, comandi, nonché alloggi
per soldati ed ufficiali. Un luogo ideale per i militi fascisti, superprotetti, ad alto rischio per
gli antifascisti.
Tra questi ultimi c’era un industriale, proprietario di una ditta di laterizi, particolarmente
inviso. Ogni tanto la polizia, o meglio la GNR, gli faceva visita in modo minaccioso per un
motivo o per l’altro. Si chiamava Rambaldi Pietro Augusto, titolare dell’omonima ditta.
Ma un giorno i fascisti non lo trovarono, né al lavoro, né in casa. Si era eclissato, seguito
poco dopo dalla moglie. Nuovo sopralluogo nella villa abbandonata, con licenza di saccheggio. Perché la fuga? Per tema che su di lui si abbattesse la vendetta repubblichina per l’uccisione del vice Segretario politico del Fascio, certo Segatini, avvenuta il 31 luglio del 1944.
Dopo un mese esatto, il 31 agosto, fu ucciso anche un soldato tedesco. L’indomani fu una
giornata convulsa. Riunione urgentissima. Presenti un ufficiale tedesco, il Commissario
Prefettizio, nonché Segretario del Fascio, Monti, e un sottufficiale della GNR e Comandante
del presidio, Giuseppe Naldoni. Sul tavolo, esemplari di carte d’identità. Arresto immediato
di alcune persone, tra cui Casadio Menotti (di Godo, muratore, anni 24) e Giuseppe Morelli
(anni 47, operaio). Fucilare bisognava. Ma quanti e chi? Due o cinque? Soldati tedeschi e
militi andarono di nuovo in cerca di Rambaldi. Nulla da fare. In ditta trovarono un impiegato, Giuseppe Patrignani (anni 47), mutilato, Tenente Colonnello in pensione, e Artidoro
Bulgarelli (anni 56), ritenuto amministratore al posto del padrone. In caserma anche i due,
per rispondere sul rifugio del principale. Stesso destino per un elettricista di 51 anni,
Amedeo Grassi. Nuova riunione a sera con un partecipante in più, certo Cornacchia, indicato talora come superiore del Naldoni. I tedeschi insistono. Cinque da fucilare. I fascisti trattano per due, di cui operano la scelta, il Patrignani e il Grassi. Accordo raggiunto. Il tipografo prepara il manifesto con i due nomi. Ma il Comando tedesco di piazza di Ravenna non
ratifica: cinque non due!
La bozza del manifesto viene modificata e l’eccidio si compie il 4 settembre, nel luogo del
rinvenimento del soldato ucciso. Quanto al Rambaldi: si avvisi la B.N. di Faenza (forse era
fuggito in quella direzione) di fucilarlo in caso di cattura, assieme al figlio Nazareno, considerato partigiano.
La responsabilità dei tre italiani, Monti, Cornacchia e Naldoni, nella rappresaglia appariva evidente e di questo crimine fu accusato il Naldoni Giuseppe, fu Amanzio e fu Maria Suzzi,
nato a Brisighella nel 1910, detenuto dal luglio 1945.
Inoltre. Ad agosto era stato preso di mira un certo Costante Savini. “Porti la radio in caserma”. Il giorno dopo: “Porti anche la bicicletta”. Altrimenti, guai. La seconda volta il Savini
obbedì a metà, mandando il figliolo, che di ritorno ripeté l’ordine. Spaventato egli si nasco-
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se, ma per poco, poiché i fascisti portarono in prigione la figlia. Finalmente in caserma, a colloquio con il Naldoni e il Monti.
“Lei detiene della nafta. Versi subito 14.000 lire con assegni da mille”. Cosa fatta.
Tra le vittime anche Terzo Rondinelli, rapinato della bicicletta, Luigia Bacchi, di due teloni, Venerando Dalmonte del fucile, Antonio Dall’Osso, di due biciclette, Primo Babini, di due
radio e di varie merci, Carolina Casotti, della radio, Giacomo Bondi, del camion, ecc. Questa
era la regola. A volte su ordine della B.N., altre volte della Questura, spesso su invito tedesco, che valeva come dieci ordini. Il Naldoni non mancava mai. D’altra parte nella sua vita
aveva conosciuto solo le divise, nella Milizia dal 1933, di seguito nella GNR, poi nell’Arma
dei Carabinieri come vice Brigadiere (percorso di solito inverso), di nuovo nella GNR, addetto al presidio di Russi dal 9 luglio al 25 ottobre 1944. Quando arrivarono i canadesi, il Nostro,
da un mese e più, aveva già trasferito le sue competenze al nord.
L’uomo, però, non era né fanatico, né violento (a giudizio della Corte). A conferma, le
dichiarazioni del camerata Guerrino Tubertini e soprattutto alcuni episodi indicativi. Un
giorno era scoppiata una bomba presso una scuderia tedesca. Subito 25 ostaggi. Ebbene, il
Naldoni scrisse nel rapporto che l’attentato era diretto contro una trebbiatrice imballata. Da
ciò il rilascio degli ostaggi. Altro intervento positivo a Lugo, per la liberazione di cinque
uomini in mano ai tedeschi. Attivi i tedeschi! Una volta, il 21 ottobre, essi si presentarono a
casa di Francesco Spazzoli. “Venga con noi”. E lo Spazzoli, con la scusa di vestirsi, fuggì dalla
finestra. Allora i nazisti presero due figlie, portate poi alla caserma della GNR. Il Naldoni
provvide secondo giustizia.
La Corte si convinse anche che contro l’imputato il paese fosse prevenuto, addebitandogli un ruolo che non sempre avrebbe avuto. Risibile di certo l’addebito per una normale
frase rivolta a Pezzi Francesco, che non voleva arruolasi con la B.N.: “Guardate che la
Germania vince!”. A fine luglio e a Russi era una verità. Inoltre, in istruttoria non era emerso che dal 7 agosto 1944 egli non era più il responsabile del presidio, sostituito dal
Cornacchia. Solo vice quindi, ed obbligato ad obbedire.
Meriti e omissioni a parte, restava l’eccidio dei cinque, con i fascisti, Monti, Naldoni e
Cornacchia, a dirottare la scelta dei morituri su figure ritenute politicamente pericolose. Il
concorso era indubitabile, come sicuramente dolosa l‘estorsione delle 14.000 lire.
10 anni di reclusione, invece dei 15 previsti (sentenza, 10-1-46). Ai primi di novembre il
ritorno in famiglia per amnistia.
Considerazioni finali: nei confronti del Naldoni la Corte usò una logica piuttosto ardita.
Egli sarebbe stato un subordinato in occasione dei crimini e un responsabile, quasi un capo,
nei gesti di umanità. Inoltre, in relazione alla razzia nella villa del Rambaldi si confrontarono
due verità. Secondo la testimonianza di un camerata, al ritorno in caserma il Nostro avrebbe rimproverato i militi approfittatori; di contro stava la dichiarazione del custode che lo
aveva visto in azione. Si scelse la prima, senza ombra di dubbio.
Un cuciniere in movimento
Giovanni Faziani, fu Luigi e di Angela Cantagalli, nato a Brisighella nel 1911, si era dimenticato da un pezzo di essere un operaio. Nella Milizia durante il ventennio e poi nella GNR
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di Brisighella fino all’agosto del 1944. Da ultimo, nella B.N. di Faenza. Era un semplice cuoco
che avrebbe dovuto attendere il ritorno dei camerati, ma si ritrovò imprigionato con un
elenco di imputazioni: avere sparato contro Leopoldo Poggiali, tentato di catturare
Fortunato Tavazzani, minacciato Pietro Tavazzani, catturato Lino Scargani, Igino Mercuriali,
Armando Gagliani, avere partecipato al rastrellamento a S. Cassiano di Brisighella, a quello,
più vasto, nelle località di Zattaglia, S. Mamante, Vespignano, S. Stefano e Villa Vezzano.
Al processo ebbe contro sia alcuni camerati, sia alcune vittime. A favore, analoga ripartizione (una novità).
Nel marzo del 1944 i partigiani avevano assaltato il presidio della GNR di S. Cassiano.
Erano in 50 a difenderlo, ma non bastò. Arrivarono soccorsi da Faenza e addirittura da
Ravenna. Ma, secondo il Comandante di Brisighella, Maraschini Montanari (?), e il milite
assediato, Nello Benericetti, nessun aiuto venne dalla vicina Brisighella. Incredibile! Non per
la Corte. Nel rastrellamento dell’ottobre, quello vasto, fu protagonista la B.N. di Faenza,
dove il Faziani si era trasferito. Molte le persone catturate e condotte nella Villa S. Prospero.
Tra loro Gagliani e due Laghi, che testimoniarono di avere visto l’imputato solo alla meta, in
cucina. Al contrario, certo Luciano Parri di Zattaglia, testimoniò di avere saputo da uno della
B.N. che c’erano tutti quelli di Faenza. Tra il vedere e il venire a sapere la Corte non ebbe
dubbi. Verosimile che un cuoco fosse rimasto a fare il cuoco. A maggio, una notte il Poggiali
stava passando vicino al rilevato ferroviario. Udì un bisbiglio ed una voce: “Eccolo il merlo”.
Fuga del merlo Poggiali e pallottole andate a vuoto. La voce era del Faziani, senza possibilità di equivoci. Ma al processo il “merlo” non fu in grado di dire se il cacciatore lo avesse riconosciuto. Mai vista una domanda così stupefacente. Ergo, per la Corte non bastò. A giugno,
nel buio, Fortunato Tavazzani, un vecchio, si trovava per una stradella, carico di viveri per i
partigiani. Ad un tratto si accorse di essere pedinato dal Faziani. Ma quale pedinamento!
Anche i fascisti avevano incontri galanti: un’amica lo attendeva. In luglio, Pietro Tavazzani,
figlio di Fortunato, incontrò il Faziani che l’apostrofò: “So che tuo fratello è partigiano. Se
non riesco a prendere lui, prendo te e ti mando in Germania”. Verosimile, ma la frase fu riferita al padre solo un anno dopo. Quindi non vale.
Sempre nel 1944: siamo a gennaio. La caccia ai renitenti è quotidiana. Lino Mercuriali non
si era presentato alle armi e il Faziani lo andò a cercare a casa. Non trovandolo, prese il padre
e lo portò in caserma. Invitato o tradotto? Nuova benevolenza della Corte.
Da ultimo, il caso di Lino Scargani. Questi aveva ubbidito ai bandi, ma un giorno non era
rientrato da una licenza. Senza ordine di cattura, un gruppo di militi, con il Faziani, lo prelevarono a domicilio.
Il 15 gennaio del 1946 fu un gran giorno per il Nostro, detenuto da settembre.
Assoluzione per insufficienza di prove. Nessuno avrebbe scommesso sul cuoco, neanche lui.
Da Tredozio a Modigliana, a Baireuth
Fin da bambino Primo Tronconi aveva percorso in lungo e in largo i boschi tra Tredozio
e Modigliana. Era diventato un esperto riconosciuto ed un gran lavoratore. Poi, per mantenere la numerosa famiglia (sette figli), aveva scelto un’occupazione più stanziale e più remunerativa, quella di mugnaio. Restarono però le vecchie passioni, la caccia e il bracconaggio,
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da cui ricavò una condanna per appropriazione illecita. Fascista repubblicano dal dicembre
1943, non avendo obblighi di leva (classe 1895) non aveva ritenuto di presentarsi come
volontario. Rimasto vedovo, nel luglio del 1944 si era portato a Milano per lavoro e successivamente nella città di Wagner, a Baireuth. Ritornato a Modigliana nel luglio del 1945, lo
attendeva una denuncia del CLN locale.
Queste le accuse: avere guidato i fascisti alla ricerca di aviatori alleati nel maggio del 1944,
minacciato il 9 luglio l’antifascista Luigi Bavagli e compilato una lista di 28 nomi di patrioti,
consegnata alle autorità di Salò e al Comando tedesco.
Ammise solo il primo fatto: era stato per la sua competenza del territorio che un giorno
il Commissario del Fascio di Modigliana gli chiese di accompagnare dei militi inesperti. Ma
la spedizione risultò infruttuosa. Una notte il Bavagli stava riposando, quando sentì rumore
in strada. Erano 15 militi tra cui Primo, del quale riconobbe la voce: “Ora sei nelle nostre
mani, all’alba ti faremo quanto ti meriti”. All’alba non successe nulla, ma la minaccia c’era
stata. La Corte, con un metro proprio, escluse che con la paura si potesse distinguere e riconoscere una voce. Quanto alla famosa lista (teste Guido Giachini per sentito dire), essa sembrava scaturita dalla fantasia di uno che aveva contrasti di interesse con l’imputato. Gelosia
di mestiere anche da parte di un altro accusatore, certo Piazza, che aveva notato il Tronconi
in armi presso una macchina tedesca: credibile il fatto e verosimile il contrasto. I due, infatti, gestivano osterie concorrenti. Quanti mestieri per allevare sette figli! Probabilmente il
Tronconi avrà saputo che tra le sue colline si muoveva e si nascondeva la primula rossa di
Romagna, il Corbari. Ma egli non odiava i partigiani, come sembrerebbe, anzi, aveva persino
ospitato per un mese dei giovani desiderosi di aggregarsi alle formazioni ribelli. Un’altra
volta, in visita al fratello Ezio, che abitava a Croce di Dovadola, trovandovi altri giovani ardimentosi, diede loro consigli ed informazioni utili nella lotta armata (tutto vero).
La Corte (17-1-46) non sapeva come uscirne. Purtroppo la caccia agli aviatori era indiscutibile e la pena prevista era di dieci anni. Gli riconobbe però ben tre attenuanti. In conclusione: Primo Tronconi, di Guglielmo Ercole e fu Giuseppina Guidi (notare), nato a Tredozio
nel 1895, residente a Modigliana, detenuto dal 11-9-45, fu condannato a tre anni. Troppi. A
novembre dello stesso anno, probabilmente i compaesani lo rividero aggirarsi per i boschi,
in cerca di tartufi.
Perché fu processato a Ravenna e non a Forlì?
Da Forlì a Cervia
E’il 20 marzo 1944. Dalla Rocca delle Caminate partono un camioncino di militi ed una
macchina con cinque persone a bordo, tra cui il Comandante del presidio, Giacinto Magnati.
Direzione Ravenna. Obiettivo: la cattura (o il prelievo) del Maresciallo dei Carabinieri Orru,
un oppositore. La comitiva, però, non ha fretta, si ferma a Predappio per imbarcare un certo
Casalboni, e sceglie il percorso più lungo, passando per Cervia.
Ma nella località marina i due mezzi devono separarsi, perché l’automobile ha un guasto.
Nel buio bisogna trovare un meccanico. Casalboni ed un altro vanno in cerca. Trovano un
fascista pronto a dare le informazioni del caso. Contemporaneamente viene lanciata una
bomba a mano che uccide il loro interlocutore (in altra causa si parla di un colpo di pistola).
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Il Casalboni non ha esitazioni ed entra in un Caffè (sotto i portici di piazza, di proprietà
di Nello Succi), ritenuto un ritrovo di disfattisti e fa una strage: 4 morti (tra cui un cliente
fascista) e diversi feriti.
Poco dopo da Ravenna torna indietro il camioncino con i militi, preoccupati per il ritardo dell’automobile. Giungono anche molti fascisti ravennati. A notte inoltrata, i cinque, riparata l’auto, prendono la strada di casa. L’euforia è grande e a Carpinello, alle porte di Forlì,
si decide una sosta. Una visita all’abitazione di Vincenzo Sbaragli, che non vuole aprire
l‘uscio. Poco male, viene sfondata la porta del capannone. Scorre vino, fino a quando il
sonno non prende il sopravvento. Il riposo dei guerrieri. Tra camerati non ci sono segreti. Il
giovane Valter Ranieri e lo zio Aldo Gelosi raccontano al padrone di casa che per un fascista
hanno accoppato sette o otto persone in un Caffè e promettono una replica per il giorno
dei funerali (due, infatti, saranno le nuove vittime). Il Valter (classe 1925), in quei giorni,
usufruiva di una licenza di 30 giorni, a seguito di una frattura ad una caviglia, guadagnata ad
Udine dove prestava servizio di leva nell’Aeronautica. Un corpo ormai evanescente sotto
Salò. Se n’accorse anche il Nostro, che a maggio passò alla GNR, per vivere un’esperienza
unica, assieme ai fratelli Edmondo e Romano e allo zio materno. Tutti alla Rocca, poi, tutti a
Salò. Che onore! Uomini dello stesso sangue a presidio dei luoghi simbolo del Duce. E alla
Rocca non c’era requie: ogni ora ad arrestare e a torturare.
Ma ritorniamo al fatto specifico. L’imputato affermò che a marzo non era ancora nella
GNR, ma aveva preso servizio come autista nella ditta Renzo Poli di Forlì (Con la caviglia
rotta?) Ed inoltre, che cosa di più bello di una gita fuori orario in compagnia dei parenti?!
Contro di lui c’erano le dichiarazioni del Tenente Magnati (un figuro, nel forlivese e non
solo), in vero contraddittorie. Restava la testimonianza dello Sbaragli, certo del dialogo e
della presenza di uno zio con il nipote, i cui nomi aveva saputo da certo Luigi (cognome
illeggibile) che al processo negò la circostanza. Le cose si complicarono. Lo zio era fisso
(Aldo Gelosi), il nipote era variabile, Edmondo, Romano o Valter.
E così, Ranieri Valter, di Edgardo e di Jole Gelosi, nato a Roncadello di Forlì nel 1925,
detenuto dal 12-6-45, fu assolto per non avere partecipato al fatto (17-1-46).
Date le precedenti sentenze, avremmo scommesso almeno sull’insufficienza di prove.
Di equivoco in equivoco
In tempi tumultuosi e crudeli capitava di essere uccisi per una somiglianza fisica o per
omonimia. Da una parte e dall’altra. Un qualche rischio di scambio di persona c’era anche
dopo la Liberazione. Capitava, basta considerare obiettivo il giudizio di cui sopra.
Nell’agosto del 1944 furono catturati nel lughese tre componenti della famiglia Orsini,
padre, figlio e nipote, uccisi il 26 dello stesso mese a Savarna di Ravenna, assieme ad altri
due, Fiammnenghi e Calderoni. Tra gli esecutori della cattura un certo Bucci, all’anagrafe
Bruno Bucci, di Antonio e di Teresita Bacchini, originario di Russi, classe 1907, residente a
Lugo. Prima della guerra faceva il ragioniere a Lugo, e l’8 settembre lo aveva colto in
Slovenia, poi nella GNR di Cotignola, ed infine nella sede del Fascio della medesima cittadina. A coinvolgerlo nel crimine, in sede di polizia, due camerati, imputati in altra causa per lo
stesso episodio, Clemente Pirazzoli e Clemente Giacometti. I due erano stati chiari, ma al
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processo dissero di non conoscerlo neppure il rag. Bucci, e che per loro Bucci era un certo
Gubbioli, un imbianchino di Lugo, così soprannominato.
La buona fede dell’imputato sembrava evidente, perché nell’ottobre del 1945 più volte si
era presentato spontaneamente alla Questura di Ravenna, che, secondo lo stile burocratico,
un giorno lo spediva alla Squadra Mobile e il giorno successivo alla Squadra Politica, finché
non decisero di arrestarlo. Assoluzione piena (22-1-46). Un equivoco, costato 70 giorni di
prigione.
Incredibile
Nel dopoguerra, come s’è detto, partirono denunce di collaborazionismo con i tedeschi
di varia natura e di varia origine. Per sentito dire, per fatti forse mai avvenuti, per gelosie antiche, per rivalità, per frammenti di verità. Solo per alcune di esse il cammino procedeva.
Eppure qualcosa di strano sfuggiva ugualmente.
Un esempio. Un certo Luigi Casadio aveva accusato un fascista bolognese, di stanza a
Ravenna, di avere operato una perquisizione in casa sua e di avere sequestrato diversa
merce. Tutto vero, sennonché al processo l’accusante ammise con grande naturalezza che
le cose (effetti di biancheria e letti) non erano di sua proprietà, ma dell’amministrazione
militare! Altro che arbitrari sequestri, si trattava di un’azione legittima di Polizia Annonaria o
di Polizia Giudiziaria, gestita da un ex brigadiere dei Carabinieri.
L’imputato non poteva dirsi un uomo fortunato. Si chiamava Gualtiero Bizzini, fu Ugo e
fu Costanza Tomillani, nato nel 1893 a Bologna, ivi residente, ma impiegato a Ravenna, dove
si iscrisse al PFR e si arruolò nella GNR, coniugato con prole. A suo carico anche la colpa di
avere spiato e sparato a danno di tre partigiani, addirittura dopo la Liberazione. La cosa era
insolita, benché verosimile, sennonché a quel tempo il Bizzini si trovava già lontano da
Ravenna! Altra gaffe. Più attendibile, anche se un po’ forzata, un’altra imputazione.
Guglielmo Rambaldi di Ravenna abitava nel pressi della famiglia Bizzini. Un giorno, ottobre
1944, arrivarono i tedeschi che gli sequestrarono la radio e la portarono nella casa del
Nostro. Su indicazione dell’imputato, secondo il derubato.
La sentenza non si presentava facile. Per fortuna, in soccorso alla Pubblica Accusa, arrivarono le ammissioni del Bizzini stesso: un rastrellamento nel ferrarese per catturare l’ex
Ministro fascista Edmondo Rossoni (gennaio 1944) ed un altro a caccia di renitenti nella
zona di Mezzano, entrambi senza esito.
Il collaborazionismo era evidente. Condanna ad anni dieci. Ma, considerando che i
rastrellamenti erano risultati infruttuosi, che il Bizzini era invalido della grande guerra, con
pensione privilegiata, e che in fondo era un ex brigadiere (non nel dispositivo), la pena congrua fu ritenuta quella di anni 4, mesi 5 e giorni 10, in data 22 gennaio 1946. A settembre,
dopo 11 mesi di detenzione lo sfortunato Bizzini potrà ritornare a Bologna. Maledetta
Ravenna!
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Un autista di tutto rispetto
Era benestante il faentino Valeriano Rota, un imprenditore edile, abituato a viaggiare in
auto con amiconi e femmine. A 27 anni, forse stanco di esperienze comuni, aveva deciso di
aiutare la causa nazifascista. Lo avrebbe potuto fare nel campo delle fortificazioni o collaborando con i mezzi a sua disposizione nei soccorsi ai civili, colpiti nei beni dai bombardamenti. A Faenza ce n’era bisogno. Ma il giovane desiderava emozioni più forti. E, a fianco del
Raffaeli, n’ebbe ampia scelta. Sequestri di persone, prelievo di cadaveri, torture, uccisioni.
Mai fermo il Capo della Brigata Nera e lui sempre vicino, in posizione privilegiata, come autista personale. Si prendeva anche qualche svago amoroso, restando però sempre nell’ambiente, preferendo le impiegate del Fascio, che portava in giro per la campagna sui luoghi
dei misfatti.
“Vedi quella Villa, cara Angelina? E’ la Villa Grandi dei conti Ferniani. Li ho prelevati io una
notte di gennaio e li ho portati dai Carabinieri”. Ed ancora: “Stasera non voglio proseguire
oltre per questo viottolo, perché poco oltre a febbraio ho dovuto caricarvi un cadavere”. Era
quello di Pietro Violani. E via con le confidenze sugli incontri con il Federale e il Vescovo.
Tutto vero.
Ad agosto del 1944, il Rota, stanco di sangue o preoccupato del suo futuro, prese il largo
ed andò a vivere in collina e poi a Ferrara. Nel settembre del 1945 fu associato alle carceri
per rispondere di una serie lunghissima di crimini.
Interessante la storia dei conti Ferniani. E’ la notte del 22 gennaio 1944 e i padroni sono
a letto. Bussano con forza. “Aprite!”. I Ferniani non ubbidiscono e telefonano ai Carabinieri
di Faenza. Dall’altra parte del filo una voce, imperiosa ed inconfondibile per un difetto di
pronuncia, ordina di fare entrare i visitatori, onde evitare guai ai famigliari. Si tratta nientemeno che del Capo della B.N., che per la circostanza ha trasferito il suo ufficio.
La conferma poco dopo, con il sopraggiungere di un’automobile. A comandare gli armati di mitra il Raffaeli in persona, che ordina al Rota, l’autista, di condurre i Conti al Comando dei
Carabinieri. Di là al Carcere di Ravenna a disposizione del Tribunale provinciale Straordinario
Fascista, con l’imputazione di avere sovvenzionato alcuni partigiani di Tredozio.
Due mesi di prigione e poi proscioglimento in istruttoria.
Macabra, invece, per il Rota la storia del Violani. Per l’uccisione di un ufficiale della GNR
di Faenza, la sera del 9 febbraio 1944 c’è un incontro in sede B.N. con il Segretario Federale
e i fascisti di Ravenna. A fine riunione: prelevamento da casa del Violani, trovato poi crivellato. E il ruolo del Rota? Prendere da un viottolo il cadavere, caricarlo in auto e liberarsene.
Ma egli non voleva lordarsi ed allora chiese l’aiuto di due militi. Un breve tragitto con i piedi
del morto fuori dello sportello posteriore. Poi il lancio del corpo nel Canale Navigli, ad una
cinquantina di metri (teste Angelina Zoli). Più compromettenti altre testimonianze, raccolte
da Natale Valla nel Carcere di Venezia. A parlare quattro detenuti, i Solaroli e i Casadio, padri
e figli. “Siamo stati noi a prelevare il Violani (vivo), condotti sul posto da Raffaeli, Trerè e
Rota”. Ma la confessione dei quattro accusatori non troverà riscontro a Ravenna (giustiziati,
in uno studio su Venezia, analogo a questo).
L’auto del Rota era sempre in moto. Il 5 marzo, di notte, sortita a Pieve Cesato. Arresto di
Pietro Volpiano, ritenuto favoreggiatore dei partigiani, e d’Angelo Muccinelli, colpevole di
avere spaccato il busto di Mussolini nella locale sede del Fascio.
Trasferimento dei due al Comando tedesco di Forlì e poi in carcere, con l’imputato nel
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ruolo di guardia-autista-padrone-accompagnatore. Dopo due mesi, evasione dei due.
Il 25 marzo cattura a Formellino, presso le proprie abitazioni, dei cugini Grilli, Attilio e
Alfredo, renitenti. Malmenati dai militi e schiaffeggiati anche dal Rota a Villa S. Prospero.
Ma al processo uno dei due chiese a certa Pampani quale fosse il Nostro nella gabbia.
Testimonianza “indubbiata”.
Il 12 aprile siamo a Conselice. Due fascisti erano stati uccisi quel giorno e un tale Bruno
Savini ebbe la sventura di capitare in paese. Portato nella sede del Fascio di Massalombarda,
interrogato dal Raffaeli e dal Rota, poi tradotto tramite i Carabinieri a Faenza. Altre 48 ore di
carcere gli toccarono.
A Solarolo, il 16 giugno. Una giornata selvaggia: un milite raggiunge casa Monti in cerca
di Angelo, renitente. Il giovane non c’è. Arriva poco dopo con due amici. Tutti e tre in fila, a
piedi. Dopo un’ora si trova il corpo del fascista. Reazione repubblichina e tedesca: Montanari
Leonilde, la madre di Angelo, Domenico Monti, il padre, e il fratello Mario sono subito arrestati e ad alcuni sfollati viene affidato il messaggio: “Se vedete Angelo ditegli che se non si
presenta entro mezzanotte saranno fucilati i famigliari”. A quel punto da Faenza giungono
Rota e Raffaeli. Squadre italo-tedesche devastano casa Monti. Salta una cassetta di sicurezza
con oggetti di valore. Si fa mezzanotte, i tre in automobile sono portati davanti al palazzo di
don Bertelli. Si scende per la fucilazione (vera o finta?). Domenico fugge, fatto segno a spari.
Cambiamento di programma. Madre e figlio devono assistere all’incendio dei mobili gettati
dalla finestra. Nella casa spoglia Raffaeli e Rota interrogano Mario, un ragazzo, mentre altri
mangiano. Fuori un crepitio: Leonilde Montanari giace a terra.
Casola Valsenio, 28 giugno. E’ sera. La solita compagnia giunge da Faenza. Sortita presso
il dott.Vittorio Toschi, ritenuto sovvenzionatore dei partigiani, come i conti Ferniani. Diversa
la procedura. Pasto gratis in casa del sospettato per alcuni militi e, poi, fuoco con armi da
fuoco. Rota, fuori a prendere aria, chiede: “Com’è andata ?”. In risposta, dal Raffaeli.
“Quest’uomo l’ho ucciso io”. Questa la versione della solita Angelina, l’amica delle passeggiate romantiche.
Rivalta, 11 agosto. In pieno giorno. 40 persone sono rastrellate nella zona tra Marzeno e
Rivalta stessa, compreso il parroco, don Antonio Drei. Si decide la fucilazione di sedici persone, prete compreso, da eseguirsi nello stesso luogo in cui era stato trovato il corpo senza
vita del milite Domenico Sartoni. Poi, contrordine. Trasferimento a Villa S. Prospero, ma le
intenzioni non cambiano. L’arciprete di Marzeno (don Randi), preso e rilasciato, corre alla
sede della B.N. ad implorare. Cacciato con insulti e in malo modo, non demorde e coinvolge il Vescovo di Faenza, mons. Giuseppe Battaglia. Ma nessuna autorità risponde al telefono. I due Prelati ritornano a Villa S. Prospero. Seguono minacce di morte e devono desistere. Alle 19 ritentano e il Rota avvisa subito il Federale, l’ing. Montanari, in procinto di partire in automobile. Colloquio concitato tra Vescovo e Federale, mentre Raffaeli continua ad
inveire. Non più dodici le persone da fucilare, ma quattro o cinque. Nella notte l’epilogo. Al
cimitero di Rivalta cinque esecuzioni, tra cui l’Annunziata Verità, salvatasi miracolosamente
(storia già narrata). In istruttoria il milite Schiumarini (già condannato) aveva coinvolto il
Rota, presente a Rivalta di mattino con il Raffaeli e poi di pomeriggio, a riprenderlo.
Il medesimo teste aveva indicato il Rota tra i partecipanti al rastrellamento di settembre
nella zona di S. Lucia, Montefortino e Pietramora, con duecento catturati, spediti per lo più
in Germania. Ma al processo l’affermazione fu ritrattata, perché estorta.
Non era facile la posizione del Nostro, mezzo autista e mezzo braccio destro di Raffaeli,
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uno dei pochi in grado di consigliarlo e di rimproverarlo.
Questa la linea difensiva. Si era rifiutato di caricare il cadavere del Violani e si era allontanato a piedi, mentre le pallottole dei camerati (Babini) correvano verso di lui. Non era iscritto alla B.N. Frequentava il Segretario del Fascio per aiutare i partigiani. Quando condusse il
Muccinelli e il Volpiano a Forlì, si fermò per modificare il verbale (che potere!). A Solarolo
chiese di limitare la rappresaglia. Non conosceva i Grilli e nelle numerose occasioni in cui
era recato a Casola con Raffaeli nessun omicidio si era verificato. E il rastrellamento di
Marzeno e Rivalta? Era sfollato a Marzeno e casualmente aveva incontrato il Capo. Concluse
dicendo che la sua adesione alla Repubblica di Salò era stato frutto di mero opportunismo.
A suo favore i due sacerdoti sopravvissuti, convinti che la fucilazione dei sedici non ebbe
luogo per l’opera di mediazione dell’imputato. Una semplice opinione per i giudici.
Favorevole pure la testimonianza di Guerrino Farolfi, partigiano e coetaneo del Rota, dal
quale aveva ricevuto utili indicazioni. I due, però, erano anche amici.
Così delineato il quadro generale, la Corte (22-1-46) non credette al falso verbale, al rifiuto di caricare il cadavere, alle frequentazioni del Raffaeli al solo scopo di aiutare i partigiani,
alle troppe combinazioni. Collaborazionista sicuramente, responsabile, se non di violenze
materiali in prima persona, di molti misfatti, spesso impegnato a mitigare la ferocia del capo
(non era poi così arduo essere più moderati del Raffaeli!).
15 anni, ridotti a 10 per le attenuanti (moderazione, subalternità, abbandono dei camerati, aiuto al movimento partigiano). A tempo di record, ad ottobre il Rota sarà fuori.
Non male per l’imprenditore edile, più esattamente appaltatore pubblico.
A Ferrara riprenderà l’attività di famiglia Rota Valeriano, di Adolfo e di Francesca Savorini,
nato a Faenza nel 1916. A soli trent’anni.
Un bottaio di Lugo
Non era un uomo coerente Laghi Antonio, figlio di Raffaele e di Domenica (cognome
illeggibile), bottaio di Lugo, classe 1920. Con la caduta del fascismo (il 25 luglio 1943) era
corso alla sede del Fascio a prelevare e a distruggere i trofei del regime. Non era nuovo ad
imprese ladresche, essendosi già beccato una condanna per furto. Convinto di essersi compromesso politicamente, aderì quasi subito alla Repubblica di Salò. Dal novembre nella GNR
di Faenza, poi al presidio di Lavezzola, dal marzo all’agosto, fino all’ottobre a Conselice. Indi
al nord, dove cadde prigioniero degli alleati. Internato a Coltano, detenuto a Ravenna dall’ottobre 1945. La sua vocazione lo portò in prima fila nei saccheggi e non si tirò indietro
neppure di fronte agli omicidi. Si direbbe un uomo di scarse facoltà intellettive, che in istruttoria ammise colpe poi ritrattate, finendo con il riconoscere come propri altri misfatti, non
menzionati nel capo d’imputazione. Succinto il primo elenco, lunghissimo il secondo.
Uccisione di Sebastiano Camanzi; cattura di Diana Capra e Francesca Lazzari, la fornaia,
poi uccisa; colpi d’arma da fuoco contro Aderito Verdicchi; incendi vari, tra cui la casa di
Sante Fornasini; furto di maiali in danno di Enea Costa.
Arresto di dieci partigiani (non sa dove), cattura di 26 renitenti a Casola, poi portati a
Ravenna; rastrellamenti a Giovecca, a S. Sofia; appostamenti per catturare Silvio Pasi (un
capo partigiano); incendio dei mobili di Secondo Cassani.
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Sequestro di Adelmo Venturini, Ennio Bandini, Francesco Dalbuono, Mario Cassoli (?);
furti di biciclette, grano, maiali a Giovecca e Passogatto, ecc. Compreso un rastrellamento a
Pieve di Vergante.
La Corte, questa volta, in data 24 gennaio 1946 non volle approfondire più di tanto.
Rapinatore di sicuro, rastrellatore con gusto, omicida forse.
Meritevole di 18 anni di carcere, pena ridotta a 12, per la sua “stupidità”.
La Cassazione gli sconterà 5 anni, la Corte d’Appello di Bologna un terzo (30-7-48), determinando in anni tre la pena residua.
Da S. Agata
Si lavorava tanto a Faenza, per cui Reggi Giuseppe, detto Zanì, fu ben contento quando
la GNR lo spedì a S. Agata. Era il gennaio del 1944. Il presidio non richiedeva un particolare
impegno e le giornate trascorrevano tra ronde diurne e ufficio.
Succedeva, però, che quelli di Faenza, ogni tanto, chiedessero la collaborazione per operazioni in grande stile sulle colline. Capitò anche a primavera. Un camion venne a prelevare
alcuni militi, tra cui Zanì. Ma, una volta giunto a Faenza, egli non si dispiacque di constatare che i camerati erano già partiti per il rastrellamento, quello di S. Lucia. Dietrofront, di
nuovo a S. Agata. Scampata fatica, ma solo per quel giorno, poiché l’indomani dovette ripartire per S. Lucia, con il compito di portare i viveri alle squadre impegnate ed affaticate.
In altra occasione arrivò di pomeriggio, ad identificare i corpi degli Orsini, impiccati nel
mattino a Savarna. Stessa cosa per l’eccidio dei Bartolotti, sempre a fianco del suo
Comandante.
Doveva ubbidire il Nostro, ai fascisti e ai tedeschi. Questi ultimi, una volta, gli imposero
di catturare Aurelio Lanzoni e lui non si sottrasse. Analogamente con l’avv. Bolognese.
Nell’ottobre del 1944, il Reggi si trasferì a Pescantina di Verona, dove lo catturarono gli
alleati nei giorni della liberazione. Poi, il soggiorno forzato a Coltano.
A Ravenna, in stato di detenzione, l’imputato fu accusato di colpe più gravi, tra cui la partecipazione agli eccidi di cui sopra e ad un altro (località illeggibile) in cui i tedeschi fucilarono nove persone. In quest’ultimo caso sarebbe stato addirittura nel plotone d’esecuzione.
In dibattimento le sue responsabilità furono ridimensionate. Pertanto, il 24 gennaio 1946,
Giuseppe Reggi, fu Romildo e fu Adele Rotondi, classe 1904, muratore di Lugo, fu condannato ad anni 4, mesi 5, giorni 10. A novembre, amnistiato.
Dalla Questura alla Questura
Una storia diversa. Sante Mazzotti, di Venerando e di Elvira Faggioli, era nato nel 1919 a
Ravenna e vi risiedeva guadagnandosi da vivere come falegname. Ma nel maggio del 1944
non c’era lavoro, allora Sante si presentò in Questura per chiedere un impiego. Detto fatto,
gli diedero la divisa della Polizia Ausiliaria di Pubblica Sicurezza, agli ordini dell’uno o dell’altro Commissario: agente impegnato a requisire biciclette. Non tutte, ma solo quelle di quei
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ciclisti che circolavano senza permesso. Una funzione normale. Purtroppo questi mezzi dalla
Questura passavano regolarmente in mano ai tedeschi. Ma non su sua decisione!
Dovere d’ufficio. Anche quando accompagnò il Commissario Vigerano a Lugo, per arrestare nientemeno che un Baracca, il Conte Baracca (parente del leggendario pilota). Dal che
si può notare che, nei confronti dei nobili o di persone altolocate, i compiti di Polizia restavano assegnati alla PS o ai Carabinieri. Era successo, con qualche interferenza della B.N., a
Faenza in danno dei conti Ferniani, successe di nuovo con il Conte Baracca.
Se il Mazzotti fosse rimasto a Ravenna, forse non sarebbe comparso in giudizio (o forse
avrebbe esercitato funzioni di Polizia anche con l’arrivo degli alleati). Ma ad ottobre, quando
i fascisti andarono al nord, gli si offrì un’occasione vantaggiosa. Non il trasferimento alla
Questura di Novara, ma un considerevole aumento di stipendio con l’arruolamento nella
Brigata Nera. Solo per denaro? Anche lui finì a Coltano.
Nel novembre del 1945 la Questura di Ravenna ricevette informazioni da quella di
Novara. Saltò fuori che il Mazzotti aveva partecipato ad un rastrellamento, in località Ponte
Grande di Novara.
In giudizio si aprì una disputa filologica. Rastrellamento o una semplice puntata? Il Nostro
sostenne che quel giorno erano usciti per prelevare la salma di un camerata, ucciso in uno
scontro con i partigiani.
La Corte (24-1-46) non ravvisò responsabilità per i fatti avvenuti in Ravenna, sostenuta in
tale tesi dalla testimonianza del vice Questore, il Commissario Vincenzo Barile (un funzionario già collegato con la Resistenza).
Insufficienza di prove per l’episodio in terra di Piemonte.
Una curiosità più grande
Ci sono pezzi di verità sparsi in vari processi, frutto vuoi di testimonianze diverse vuoi di
una più scrupolosa narrazione da parte della Corte. Logica avrebbe voluto che in questo lavoro di ricostruzione fossero riunificati tutti gli imputati del medesimo crimine. Ma in tal modo
n’avrebbero patito i singoli protagonisti, alla sbarra anche per altre storie, nonché le figure
collaterali e il farsi della conoscenza. La sintesi avrebbe prevalso sull’analisi. Un esempio.
Quante volte abbiamo incontrato l’omicidio di Pietro Violani, avvenuto il 9 febbraio 1944?
Se si racconta della riunione preparatoria cambia il numero dei presenti o la loro autorevolezza. Talora citati per funzione, talora con nomi. Se si dice del momento della giornata, si
va dalla sera, alla notte, all’ora precisa. Si potrebbe continuare. Sul posto. Una o due macchine? Il corpo. Crivellato o 25 colpi? Il cadavere. Spostato da militi a piedi o caricato in auto?
Basta così.
Ma finora abbiamo visto solo gli imputati dell’esecuzione del delitto, non i capi che si
erano riuniti a Faenza, nella sede del Fascio, per decidere come rispondere all’uccisione dell’ufficiale della GNR, il Macola. I caporioni erano arrivati da Ravenna, ed erano ripartiti poco
prima che alcuni militi uscissero per la rappresaglia. Questi i loro nomi: il federale Negri, il
Comandante delle Squadre di azione Bellini, certo Manaresi, il Segretario del Fascio di
Massalombarda Giannetto Dal Pozzo. Con loro il padrone di casa, il Raffaeli. Delusione
anche questa volta: alla sbarra comparve un povero diavolo, un anziano scopino di Faenza,
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nullatenente, con precedenti per oltraggio e lesioni.
Si chiamava Trerè Alfredo, detto “Merlo”, fu Giuseppe e fu Rosa Casalini, nato a Faenza
nel lontano 1889, coniugato. Questi era arrivato in ritardo all’appuntamento con il primo
squadrismo, soltanto nel 1924 aveva ferito con arma Antonio Facchini e, l’anno dopo, bastonato come si deve Pietro Lega. Con Salò non volle commettere lo stesso errore e si buttò
subito nella mischia.
A fine 1943, cattura di Giovanni Rondelli e moglie, poi rilasciati. Tra lo sventurato e il
Trerè non correva buon sangue per motivi privati. Ed ecco il Nostro dichiarare ad alcuni
amici, prima dell’arresto: “Ecco un amico dei ribelli, presto o tardi arriveranno anche a lui”.
Nell’aprile del 1944, visita alla casa di Luigi Argnani, per punirlo dell’assenza del figlio.
Non una, ma più rapine, con il concorso di fascisti e tedeschi. Una volta sparirono 10 biciclette, due pecore, un maiale, del grasso e della benzina. Un’altra volta 90 quintali di frumento. La terza, la moglie ed un altro figlio dell’Argnani, poi restituiti in cambio del figlio ricercato e di lire 25.000, nelle mani del Raffaeli. Il Trerè non era così importante da esserci sempre. Una sola razzia.
Presente anche a Rivalta e Marzeno l’11 agosto del 1944. Fu lui ad aiutare Lino Verità, il
fratello della citata Annunziata, a salire sul camion. Immancabile l’indomani a Villa S.
Prospero, quando i cinque fucilandi lasciarono il covo fascista.
Abbiamo lasciato per ultimo l’affare Violani. Erano le 23,30. Un milite di ronda, Nello
Benericetti, venne avvertito di non impressionarsi se avesse udito colpi d’arma da fuoco.
Poi, il sequestro del Violani. Ma, per lo spavento e il buio, la moglie e la portinaia non riuscirono a riconoscere nessuno, neppure il Trerè che fu trasportato a due chilometri, in località Celle. Il resto è noto. Ma da dove esce che il Trerè fosse fra gli esecutori?
Il suo nome era emerso anche nella causa contro l’autista-imprenditore edile (il Rota) da
testimonianze provenienti dal Carcere di Venezia. I Solaroli, padre e figlio, e Casadio
Raimondo con figlio, avevano raccontato a Natale Valle (inviato dal CLN), con precisione,
ogni momento della serata. A casa di Marcucci Ugo alle 20,30 con Trerè, e poi al lavoro. Ma
i giudici di Ravenna non accolsero una testimonianza indiretta, tanto più che il Valle aveva
riportato il nome di “Alfonso” Trerè e non “Alfredo”. Ma perché non interrogare i Solaroli e
i Casadio? Semplice e tragico. Perché “giustiziati”. Stesso termine nel processo Rota.
E’ questa la curiosità più grande. Giustiziati da chi e dove? Tra le carte della Corte
Straordinaria di Venezia i loro nomi non compaiono. Mistero.
Torniamo al Trerè. Prescritti i reati relativi al 1924-25, da escludersi la presenza nell’omicidio Violani, responsabilità per gli altri addebiti. 11 anni di reclusione (29-1-46).
Misterioso anche il suo destino processuale. A marzo, la Corte d’Assise di Ravenna
respingerà il suo ricorso. Nessuna traccia successiva. Niente Cassazione?
Ponte degli Allocchi
Anche l’eccidio del 25 agosto 1944 a Ravenna rientra tra i temi che ritornano in molteplici cause, con la verità processuale, se non storica, raggiunta per settori, un pezzo alla volta,
e con inevitabile sacrificio della sintesi. Là si parla della cattura di molti ravennati, altrove
degli interrogatori, della scelta dei morituri, dello svolgersi della giornata (raduno alla Sacca,
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controllo delle strade, plotone di esecuzione, inseguimento di un fuggitivo, ecc).
Annebbiate fino ad allora le sequenze politiche che portarono alla rappresaglia, la gestione
propagandistica dell’evento (articoli e manifesti), indefinito il ruolo dei tedeschi.
La cosa non deve meravigliare. I supposti responsabili furono catturati in epoche diverse, alcuni trascorsero l’estate del 1945 nei campi di prigionia alleati, altri erano contesi da
altre Procure. Qualcuno era contumace, latitante o morto. Di certo i capi non erano a disposizione, e chissà se l’occasione si sarebbe presentata un domani. Bene, pertanto, fecero i giudici di Ravenna ad escludere una causa onnicomprensiva, con decine di imputati, assenti o
presenti, dal dubbio esito. Quindi, niente processone e procedere in modo rapsodico. Un
vantaggio c’è: la vita dei gregari balza in primo piano. Manca la sintesi, con una sentenza
ampia e dettagliata, opinabile forse, ma comoda per gli studiosi frettolosi. Non insistiamo
troppo. Perché rimproverare i giudici del 1945-46, quando, con tutta la calma possibile, in
60 anni nessuno ha prodotto neanche un opuscoletto sull’eccidio? A tutt’oggi resta irrisolto
come sono state scelte le vittime, chi erano, se patrioti o persone catturate per caso. Ne
sono nate interpretazioni personali, in genere orali, ricostruzioni difformi, leggende. Si dice
addirittura che tra i fucilati ci fosse uno che, non volendo pagare il bollo per le biciclette,
aveva preferito scontare il debito con giorni di carcere. Buon lavoro ai futuri ricercatori.
Ritorniamo alla Corte di Ravenna che tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1946
giudicò in processi distinti cinque imputati, detenuti chi dal maggio, chi dall’ottobre del
1945. Il primo ad essere chiamato fu Troncossi Sebastiano, fu Agostino e di Marina Scaioli,
nato a Ravenna nel 1910, coniugato con prole, “impossidente”, facchino di porto.
Come componente della B.N., quella notte era stato assegnato alla vigilanza esterna del
carcere, forse nel timore di qualche tentativo di liberazione. Alle 5 del mattino era ancora lì,
mentre gli altri camerati si erano portati sul luogo dell’eccidio, distante qualche centinaio di
metri. Poi, la scarica di mitraglia (sic). Al che egli si rifugiò nella tana del partito, la famosa
Sacca, dove all’ora di pranzo in molti si radunarono per commentare la giornata.
Giacomo Foschini lo vide provenire da Porta Aurea; Arturo Zanzi lo sentì partecipare alla
conversazione; Agostino Morelli lo mise nell’elenco dei presenti in servizio quel giorno (in
servizio o sul posto?). A tagliare la testa al toro, provvide Natale Marani, incaricato di prendere i nomi dei partecipanti all’eccidio. No, non c’era il Troncossi.
Quanto al resto: il Troncossi era un furente propagandista, secondo Nello Zampiga.
La Corte (29-1-46) non fu magnanima, nonostante riconoscesse la “lieve entità” del contributo del Troncossi. 4 anni, mesi 5, giorni 10. A settembre, la Cassazione eliminerà l’ingiustizia.
Stesso giorno, un secondo accusato. Silvano Ricci, di Domenico e di Zoli Domenica, detta
Maria, nato a Ravenna nel 1927. Un giovane, senza obblighi di leva, affascinato dalle Brigate
Nere. A 17 anni, poter girare in armi per le strade della città, decidere dove dormire, dove
mangiare, sempre con soldi in tasca. Imputato per l’eccidio, non risultava in nessun elenco
di servizio. Libero quindi? Piano, era incolpato anche della cattura di un supposto organizzatore partigiano, tale Tolmino Angelini, prelevato ed accompagnato in compagnia del
Brigatista Fergellini (?). Il Tolmino fu portato alla “tana”. E’ un vezzo delle ultime carte. Non
si capisce se si scrive “tana” per caricare di valenza negativa la sede dei fascisti o per trascrivere fedelmente il linguaggio degli imputati. Noi leggiamo “Sacca”. Il posto merita un inciso. (Si trovava in via Oberdan, dove oggi sorge il Liceo Scientifico. Era dapprima sede di un
Circolo ricreativo, poi del Regime, per le attività giovanili, gioco, sport e arte della guerra,
poi dei Salesiani (privati dei loro locali dalle bombe) e, da ultimo, degli Inglesi come ospe-
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dale militare. I più vecchi della città sanno di più: la Sacca, uno dei ritrovi privati, gestiti in
società, per l’azzardo, le mangiate e il ballo, ad uso della classe media, per distinguerlo dal
Circolo Cittadino, dei Signori, e da tanti altri per ogni ceto, dai nomi pittoreschi e rigorosamente dialettali).
Il Ricci aveva provveduto anche a portare una signora presso la Federazione, in stato di
fermo. Rispondeva al nome di Maddalena Virali, arrestata al posto del marito, certo Savini.
La Corte gli diede tutte le attenuanti possibili e lo condannò ad anni due, mesi undici e
giorni sedici (la più lieve incontrata finora). A novembre, fuori per amnistia.
Ai primi di febbraio fu la volta di un adulto. Mancusi Donato, fu Andrea e fu Maria
Carmela Simara, classe 1908, nato ad Avigliano (Potenza). Lavorava al Carcere di Ravenna
come agente di custodia. Non contento del ruolo, con Salò vide una possibilità in più e corse
alla GNR, che lo accontentò collocandolo nell’Ufficio Politico Investigativo.
Spettò a lui svolgere indagini per scoprire i responsabili di sabotaggi all’Aeroporto di
Ravenna, sempre a lui il compito di sorvegliare, per riferire, i colloqui tra i detenuti e i famigliari. L’imputato non negò simili addebiti, pur limitandone la portata. Forse lo fece per evitare la più grave accusa: Ponte degli Allocchi. Contro di lui, lo scrivano citato, Agostino
Morelli, dapprima sicuro della sua presenza, poi “titubante”, infine certo del contrario.
Da ultimo, il Mancusi era incolpato anche di propaganda intensa per convincere i perseguitati dal fascismo ad entrare nella Milizia repubblicana, alias Guardia Nazionale
Repubblicana.
Ebbe una sentenza equa. Assoluzione per insufficienza di prove. Non contento (novità
quasi assoluta) egli si rivolse ugualmente in Cassazione, che di mala voglia, nel febbraio del
1947, affrontò il caso sbrigativamente, respingendo il ricorso ed addebitandogli un sacco di
spese. Negata per sempre la possibilità di ritornare in carcere come agente? Bisognerebbe
saperne di più.
Giovanni Gamberini, a parte
Come si poteva inserire quest’imputato in un processone unico sul Ponte degli Allocchi?
Gli si sarebbe fatto torto due volte, sia perché detta colpa appare solo alla lettera h nell’elenco delle imputazioni, sia perché la sua attività di collaborazionista non conobbe soste.
Nulla si dice della professione e della condizione sociale, nulla del suo stato civile.
Moltissimo, invece, del suo operare criminoso, arricchito da ben tre rapporti della Questura,
il primo dei quali del 25 agosto 1945, esattamente a un anno di distanza dall’eccidio.
Parliamo di Giovanni Gamberini, di Alberto e di Emma Olivucci, nato e residente a
Ravenna, classe 1911. Sconosciuto il suo passato durante il primo fascismo, stranoto il suo
ruolo sotto Salò. Sulla breccia fin dall’8 settembre, divenne uno dei caporioni più in vista e
più fanatici della città, eccedendo in zelo e “malanimo”, in divisa da brigatista nero.
Rastrellamenti, sparatorie, catture, sevizie, omicidi. In servizio, in periferia e al centro, da
solo e in compagnia, dei camerati italiani e di quelli tedeschi. Presente a Mezzano, nella
Pineta di S.Vitale e per le vie cittadine. Alcune vittime comparvero in processo, altre no.
Nel febbraio del 1944 andò per catturare Luigi Basigli e gli sparò quando tentò di fuggire. Per intimidirlo, secondo il Nostro. Per accopparlo, a detta della vittima, con le pallottole
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che gli sfioravano il capo. Tant’è che si fermò.
Fu lui a perquisire la casa degli sfollati Rossetti Luigi e Guido, in cerca di volantini antifascisti. Lui a catturare Stefano Miccoli, poi fucilato. Lui a portare in un sacco il cadavere martoriato di Celso Strocchi, gettato per la via Canala (direzione Santerno, dove oggi sorge una
centrale elettrica). Lui ad uccidere al Bosco Baronio (21 giugno ‘44) Leonardo Zirardini, perseguitato già in epoca fascista, e a ferire nella stessa circostanza Pietro Gaudenzi. Come
sopra, per il sequestro e l’uccisione del farmacista di Mezzano, Nino Zattoni, scaraventato
sull’argine sinistro dei Fiumi Uniti. Sempre lui, a catturare, nel giorno di Pasqua del 1944,
Alfredo Marani, che, condotto a forza in Federazione, fu malmenato, minacciato di fucilazione e, in subordine, del taglio delle orecchie. Lui a sparare per primo sui tre prigionieri a
Villanova di Bagnacavallo, il 21 luglio del 1944.
Da ultimo, lui, uno dei concorrenti alla strage del Ponte.
Soffermiamoci su alcune imputazioni. Ad accusarlo del trasporto dello Strocchi era stato
Sergio Morigi, già giustiziato. Credibile? La Corte non sciolse il quesito e contemporaneamente avanzò il dubbio che il Gamberini avesse concorso all’omicidio.
Su Villanova si ritenne convincente la testimonianza particolareggiata di Carlo Troncossi
(già giudicato), nonostante Gino Ghirardelli e Ubaldo Giorgioni (militi anch’essi) avessero
tentato di farlo ritrattare, su mandato del Gamberini, secondo la Corte.
Una sorpresa finale. Solo “lievi addentellati” per quanto riguarda l’eccidio del Ponte degli
Allocchi. La logica lo voleva presente ed anche lo scrivano citato, Agostino Morelli, che come
di consueto rivide le sue certezze. Dalla sua, anche il Bruni e il Marani (già visti).
In conclusione. Come valutare le colpe dell’imputato? Se fosse stato giudicato nella precedente estate molto probabilmente sarebbe stato condannato a morte. Il 5 febbraio del
1946 la Corte (presidente Vicchi Giovanni) si orientò diversamente. Accumulò i vari reati,
meritevoli di oltre 50 anni di prigione, negò ogni attenuante e si fermò a 30 anni.
E dopo? La Corte di Assise di Ravenna dichiarerà inammissibile il ricorso in Cassazione
(marzo 1946). A luglio arriverà un condono di dieci anni, a norma della legge sull’amnistia.
Nel 1948, la Cassazione rigetterà il ricorso, accogliendolo solo per la parte relativa all’assoluzione per insufficienza di prove in merito ad alcuni addebiti. Sempre nel 1948, il condono di
un altro anno da parte della Corte d’Assise di Bologna, cui seguirà da parte dello stesso
Tribunale un’ulteriore riduzione di dieci anni. Solo alla fine del 1959, in conformità ad un altro
provvedimento d’amnistia, comunicato sempre da Bologna, il Gamberini ritornerà libero.
Quasi un record la sua detenzione.
N.B. Eccezionale anche nella sentenza la sobrietà dei riferimenti al personaggio. Abbiamo
provato a saperne di più. Vi è un Gamberini citato due volte nel libro di Carnoli-Cavassini,
ma sempre senza indicarne il nome. Appare in una foto, giovane in divisa. Ma siamo nel 1927
e il Nostro aveva solo 16 anni. Compare anche in un elenco della “Squadraccia” a fare baldoria nel 1929 (con Spero Bravetti e Capanna).
Il Nostro? Sembra di no. Dovrebbe trattarsi di Francesco Gamberini, uno squadrista,
ricordato da alcuni perché guidava una corriera che in suo onore venne battezzata
Chiccona. Di certo si chiamava Giovanni quel Gamberini che comparve dal Giudice
Istruttore di Ravenna il giorno di S. Silvestro del 1928 a testimoniare sulla sparatoria settembrina in piazza, che aveva coinvolto Muti (ferito), Morigi (giustiziere) e Massaroli (Lorenzo)
di Piangipane (sparatore e vittima).
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Un onore per uno di 17 anni, in mezzo ad altri testimoni carichi d’onori e d’anni. Questo
è sicuramente il nostro uomo, nato nel 1911. Abitava di fronte alla Chiesa di S. Agata, in via
Pellegrino Matteucci, 1 e campava (nel 1928) facendo l’assistente commerciale.
Bisogna rassegnarsi
Anche con il successivo imputato del 7 febbraio non troviamo gli elementi biografici, cui
eravamo abituati. Diamo senz’altro la colpa al nuovo Presidente, il cav. uff. Vicchi.
Di Scaioli Martino sappiamo l’essenziale, paternità, luogo e data di nascita, e basta.
Nessun cenno sul mestiere, sulle esperienze militari e politiche precedenti, sulla fuga da
Ravenna e relativa destinazione. Peccato!
Lo Scaioli era accusato di avere catturato e minacciato Giovanni Balella, insultato “il dolore” di Libera Fiammenghi, sorella di uno dei martiri del Ponte degli Allocchi, catturato
Giovanni Savelli, dal cui ufficio o negozio erano sparite alcune macchine fotografiche, una
da scrivere e materiale di cancelleria. Sempre inumano e prepotente, quando entrava nelle
case e quando trasportava i fermati in Federazione o in carcere. “Ti uccideremo per vendicare Cattiveria”, aveva detto al Balella (eravamo alla vigilia della strage). Opposta la versione dell’imputato: sarebbe stato il Balella a chiedere di essere accompagnato da lui perché
temeva le violenze degli altri. Di che cosa si lamenta? Chi aveva avvisato sua madre dell’arresto? “Io”.
Gravissima l’ultima imputazione. Partecipazione attiva all’eccidio. Lo Scaioli si era persino vantato con Arturo Zanzi che, senza di lui, i morti sarebbero stati solo 11. Si riferiva al tentativo disperato di fuga del prof. Montanari di fronte al patibolo. Un camerata lo aveva raggiunto e fulminato, dopo che una recinzione gli aveva bloccato la corsa verso la salvezza.
Analoga la versione di Sergio Morigi, già giustiziato. Di sicuro presente al misfatto, secondo
il più volte citato Agostino Morelli, che immancabilmente in aula rettificò.
Sorse un problema per la giuria, perché l’inseguimento e l’uccisione del professore
erano già stati attribuiti, nella sentenza di condanna a morte, a Morigi Sergio (qui erroneamente chiamato Renzo, un lapsus, frequente anche in studi seri. Renzo Morigi detto
Murigiò era stato medaglia d’oro alle Olimpiadi, il leader indiscusso del fascismo ravennate,
più di Muti).
Con questo equivoco, si arrivò alla condanna ad anni tredici. Troppi, per il modo con cui
furono stese le motivazioni, senza dimostrazioni stringenti, ma con abuso d’aggettivi ripetuti più volte “fazioso, inumano, prepotente”.
Un giochetto per la Cassazione, che a novembre dello stesso anno annullerà il tutto,
senza rinvio. Pardon, dimenticavamo quel poco: Scaioli Martino, fu Paolo e di Marianna
Malatesta, nato a Ravenna nel 1906, detenuto dal 19 maggio 1945.
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Un paradosso della legge
La legge puniva la collaborazione con il tedesco invasore e non considerava reato la semplice appartenenza alla GNR, al Partito Fascista Repubblicano e alle Brigate Nere. Come se
tali organizzazioni non avessero avuto la funzione essenziale di combattere in unione con i
nazisti.
La norma, ovviamente, era valida anche per quei fascisti che avevano contrastato per
oltre un anno il movimento partigiano. Uno di questi si chiamava Giovanni Boschi, di
Camillo e fu Angela Buzzi, nato a Ravenna nel 1902. Per l’età e per lo stato civile (coniugato
con tre figli), sarebbe potuto restare in ditta a svolgere attività di ufficio. Invece no, percorse per intero l’itinerario dei collaborazionisti, fino all’internamento a Coltano e alla detenzione a Ravenna.
Il Boschi fu accusato di avere partecipato all’uccisione di Walter Suzzi e alla cattura dei
suoi famigliari.
Walter era un colono, abitante poco fuori delle mura, che a vent’anni era considerato il
più coraggioso ed abile gappista di Ravenna. Non erano in molti e Walter era sempre in giro,
anche nel luglio 1944 impegnato nella battaglia del grano, ad impedire la trebbiatura a vantaggio dei tedeschi. Dopo i primi tempi, squadre di fascisti venivano mandate nelle aie, con
il compito di vigilare sulla trebbiatura. Un giorno Walter si accorse della presenza di brigatisti in una fattoria in località Tomba (zona Tre Ponti, verso S. Alberto). Invece di desistere,
tentò il colpo. Distrasse l’attenzione di due vigilanti, il noto Cattiveria e il Boschi, li disarmò
e poi sparò un colpo di pistola contro il nostro imputato, che rimase gravemente ferito. E
poi via con il bottino di armi. Sennonché Cattiveria, sempre motorizzato, raggiunse la vicina città a dare l’allarme. Il caso volle che i soccorritori incrociassero il gappista con una sporta. Fu l’anticipo della fine, che giunse il 18 luglio, dopo il prelievo forzato dei famigliari ed
infinite sevizie, proprio là dove era avvenuto il colpo.
Ma perché imputare il Boschi, rimasto svenuto e trasportato in ospedale? Assurdo, stante la norma che richiedeva fatti specifici di collaborazionismo.
Se ne accorsero il presidente Peveri e il giurato Gino Gatta, un capo di Suzzi, che mandarono assolto il Boschi, per non avere partecipato a fatti specifici e perché la semplice
appartenenza alla Guardia Nazionale Repubblicana e della Brigata Nera non costituiva reato
(31-1-46).
Come volevasi dimostrare.
Vicchi Giovanni, presidente
Abbiamo già detto del carattere succinto delle sue sentenze. Non era un caso, poiché
tutti i processi d’inizio febbraio sono racchiusi in poche paginette. Ma, ciò non consente di
mettere in dubbio il rigore e la serietà dei dibattimenti. A Lugo, tra i fascisti più facinorosi o
attivi (secondo la prospettiva) c’erano i fratelli Emaldi, Vincenzo, Ettore e Lino. Odiati naturalmente dalla popolazione, tanto che il primo era dovuto andare al nord per evitare le reazioni della gente. Emaldi Vincenzo, di Fedele e di Vittoria Federici, classe 1903, fu imputato
dell’eccidio della famiglia Bartolotti a Ca’ di Lugo (15-9-44), della fucilazione di Mario
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Martelli, Gino Bolognesi ed Ermenegildo Misironi, avvenuta nella zona di Conselice il 10
agosto 1944.
Nulla di sostanzioso per la Corte. Nel primo caso un teste (certo Lattuga) che accusa e
poi smentisce, avallando così l’alibi di Vincenzo (si incontra raramente il termine “alibi”,
nonostante la forte valenza difensiva).
Solo voci incontrollate ed incontrollabili per la seconda imputazione.
Causa finita? No, Vincenzo doveva rispondere anche del saccheggio della casa di Anacleto
Benedetti. Era il 29 marzo del 1944, forse di mattino, i militi bussarono in cerca di persona
sospetta, ma non fu aperto. Colpi di pistola contro il padrone. A quel punto i fascisti entrarono dalla finestra e senza cercare il disobbediente, né la persona sospetta, prelevarono lire
32.000 da un cassetto. Solo il Ricciputi (più volte ricordato come la fonte del sapere dell’amante, teste d’accusa in molti processi) diede dignità alla spedizione cercando nel solaio
il Benedetti, che, rapido, con un colpo di coltello lo ferì e, nel trambusto, riuscì a scappare.
Ma dopo un’ora, nuova visita di camerati, in numero maggiore, che, con più calma, asportarono tutto l’asportabile.
Ma c’era o non c’era l’Emaldi? Alcuni colleghi ed amici (Bruni Emma e Trerè Silvano) dissero di non averlo visto quella mattina (in caserma, al partito?). Ma l’azione banditesca mica
si era svolta in caserma! Un altro teste, il Lucchesi William, attribuì al derubato-ricercato
(Benedetti) una confidenza (smentita), secondo la quale l’imputato avrebbe partecipato
solo alla seconda ondata, la meno significativa dal punto di vista penale.
La Corte non riuscì a pensare ad un fuggiasco che, salvatosi per miracolo da una prima
azione, ritorna poco dopo sui suoi passi a registrare i danni, mettendo in pericolo la vita.
Condanna ad anni 6 e mesi 8 (Ravenna, 5-2-46), vista la tolleranza dimostrata verso
Renato Zanotti e Luigi Poggiali. Nessun cenno nelle carte ad eventuale ricorso, sicuramente
destinato al successo (lacuna non imputabile al Vicchi).
Il Giudice Vicchi aveva comunque fretta anche nel caso che vedeva in stato di detenzione Cenni Achille, di Guglielmo e di Luisa Cornacchia, classe 1915, nato a Faenza, ma al
momento domiciliato a Rogeno di Como. Non ci dice né in quale sede di partito erano stati
seviziati Grilli Attilio e Alfredo, fatto di cui il Nostro è imputato, accaduto il 25 marzo 1944,
né di fronte a quale ospedale era stata picchiata Rosa Bolognesi, in data 2 maggio dello stesso anno. Probabilmente non era necessario, visto che Attilio raccontò al processo che il
Cenni non era tra i bastonatori. E Alfredo?
Diversa la seconda storia. Di sicuro erano corsi schiaffi, ma un certificato medico dichiarava che la Rosa era guaribile in 40 giorni. Schiaffi o pugni? La donna stava uscendo da una
visita alla madre inferma e, al vedere uno della GNR, aveva inveito contro i fascisti e i nazisti,
responsabili di tante rovine. L’uomo, invece, stava entrando in ospedale con un ragazzo ferito e reagì con leggeri schiaffi (a suo dire). Il Vicchi (7-2-46) forse pensò che anche lui avrebbe reagito nello stesso modo e mandò assolto il Cenni per insufficienza di prove, supportato in ciò dal medico curante: “Un certificato un po’ compiacente”, quello rilasciato alla Rosa.
Si divertiva il neo Presidente, sicuramente un uomo di spirito, specie quando non era
corso sangue o le ferite si erano rimarginate. In tali casi giocava su ogni apparente contraddizione, accoglieva per buona una testimonianza a vantaggio del detenuto e cassava quelle di
segno contrario. Ne beneficiarono il ritmo narrativo, più agile, e la sorte di alcuni imputati.
Marconi Mario di Massalombarda, classe 1913, con il padre Cesare e il fratello Marcello si
distinse nella lotta antipartigiana, pronto a collaborare con i fascisti di Lugo, di Ferrara e di
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Gargnano sul Lago di Garda. I tre, a volte, andavano separati e questo fu un vantaggio per
l’esito del processo in questione, perché le vittime ricordavano il cognome, ma poi confondevano la statura dell’uno e dell’altro. Mario di taglia bassa e Marcello alta.
A fare confusione Antonio Dosi di Ferrara, arrestato dai repubblichini in quel di Ferrara
(aprile 1944). Stessa cosa per Franco Farina che avrebbe visto Mario entrare nel suo esercizio per un’ispezione, come sopra per Annunziata Pagani, cui risultava la sua partecipazione
ad uno dei rastrellamenti in Longastrino. Si metteva bene per il Nostro. Ma c’erano altri due
ostacoli impegnativi: il saccheggio delle case coloniche Bartolotti e Foletti avvenuto in ottobre, dopo la distruzione delle due famiglie, e il trattamento riservato a Mezzogori Ireneo a
Longastrino nell’agosto del 1944, bastonato a sangue perché antifascista e poi rivisitato in
ottobre per derubarlo di un camioncino “Fiat 501”. Con il padre ed altri militi della B.N. per
la vicenda Mezzogori.
Su questi ultimi episodi avevano indagato, su incarico partigiano, Giorgio Baffé, sopravvissuto ad un’altra strage, e Mario Ghiselli, che avevano concluso il lavoro, ravvisando la
responsabilità di Mario Marconi. Ma il giudice non gradiva simili procedure, specie se fragili nella citazione delle fonti, e respinse di fatto le conclusioni dei due.
Quanto ai misfatti d’ottobre, per lui valse solo la testimonianza di una donna o ragazza
(Nicolina Gualandi), che giurò che per l’intero mese d’ottobre il Marconi in questione aveva
soggiornato sul Lago di Garda, a Gargnano. Perfetto. Assoluzione per insufficienza di prove
per Mario Marconi, di Cesare e di Contavalli Elisa, nato e residente a Massalombarda, classe
1913, detenuto dal maggio 1945.
Ma botte e lesioni Ireneo le aveva subite in agosto! Nessun problema per Vicchi.
Vantaggi e svantaggi d’essere fratelli
Bisognava conoscerli da tempo per affermare con certezza che si trattava di Mario o di
Marcello. Il facile equivoco favoriva pure quei testimoni intenzionati a ritrattare. “So che la
gente parlava del figlio di Cesare”. Nulla del resto impediva, a distanza di tempo, di ribaltare le precedenti asserzioni, se alla sbarra compariva l’altro fratello. Più minata diventava la
linea difensiva, quando i fratelli, per connessione dei reati, comparivano assieme nel medesimo processo, specie se l’accusa era partita da confessioni rese in istruttoria. E’ il caso di
Ravaioli Alfredo e Aurelio, di Luigi e di Antonia Lolli, nato il primo a Zurigo nel 1912, il secondo a Fusignano nel 1909, residenti entrambi a Lugo, arrestati il 6 ottobre 1945.
Il più giovane, Alfredo, aveva accusato se stesso di fronte ad agenti di PS di alcuni delitti
gravi, coinvolgendo parzialmente il fratello. Riservò a sé l’uccisione della famiglia Bartolotti
a Ca’ Lugo, l’eccidio di sette civili a Voltana, i rastrellamenti a Giovecca e Ca’ Lugo, dove fu
catturato e ferito Mario Martelli, in seguito ucciso, la rapina di un motofurgoncino della ditta
Cepal di Lugo, l’uccisione di Carlo Landi (25 ottobre 1944). Ad Aurelio lasciò l’impiccagione
dei Bartolotti (12-9-44) e l’uccisione del Landi.
Al processo, Aurelio ammise solo il prelievo di bottiglie da portare al Fascio. Alfredo, da
parte sua, ritrattò le confessioni in quanto estorte. Forse, ma ricche di particolari che nessuno poteva sapere se non presente.
Contro di loro numerosi testimoni, tra cui parenti delle vittime. Guido Bartolotti giurò
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che il Ravaioli (quale?) gli aveva detto di essere stato di guardia con il mitra durante la soppressione dei suoi famigliari. Antonio Landi di avere udito Alfredo lamentarsi di avere ucciso poche persone. Contro anche Sandrina Valenti sul caso Landi, Giovanni Fontana sulla
rapina del camioncino. Da ultimo, Emma Ricci e il già citato Antonio Landi, che avevano assistito all’interrogatorio del Ravaioli (quale?), smentirono le pretese violenze degli agenti di
PS. Il termine “assistito” appare equivoco, legittimo se all’interno di un confronto, inaccettabile in caso diverso.
La Giuria ( Vicchi, Triossi, Leonardi, Morigi, Masetti), il 12 febbraio 1946, non ebbe dubbi
sulla colpevolezza di entrambi i fratelli. Collaborazione, “vasta, molteplice, crudele”. 15 anni
a ciascuno. Pena relativamente mite rispetto a casi analoghi, sicuramente sbilanciata nei confronti di Aurelio, gravato di meno accuse.
Quanto al dopo. Tra le carte a disposizione: un’ordinanza della Corte di Assise di Ravenna
che dichiara inammissibile il ricorso (2 maggio 1946) e una Declaratoria della Corte
d’Appello di Bologna che condona “ulteriormente” un anno (11-2-50). L’avverbio e la logica
ci dicono che nel mezzo ci stava almeno un altro provvedimento, di sicuro il condono di un
terzo della pena, come previsto dal provvedimento di amnistia del 1946.
Il che fa ritenere che i fratelli Ravaioli, Alfredo e Aurelio, siano usciti di prigione al più
tardi nel 1954.
Finalmente un po’ di date
Spesso si elencano i rastrellamenti e si scordano le date. Troppo note o dimenticanze?
La sentenza contro Dalmonte Giuseppe va in senso contrario. Egli era nato nel 1908 a
Casola Valsenio da Francesco e da Maria Contavalli (poesia dei cognomi, un Dalmonte che
scende al piano a sposare una Contavalli).
Vediamo i rastrellamenti a lui attribuiti.
1) al Monte Faggiola, seconda quindicina di febbraio del 1944
2) a S. Sofia nell’aprile
3) a Pozzo (Casola) sempre in aprile
4) a Trario nel maggio.
Nel linguaggio giudiziario sovente il termine “rastrellamento” perde forza, diventa generico, quasi sinonimo di operazione militare e basta, come se esso non fosse connotato da
una serie infinita di violenze e barbarie e non rappresentasse la prova evidente di collaborazione con il tedesco, mai assente in simili circostanze. Di contro, l’incendio e il saccheggio
di una singola casa, operati da piccoli gruppi, se comprovati, assumono una più grave valenza, suggerendo maggiori responsabilità degli autori. Così, in località Lama di Casola, in
danno dei fratelli Domenicali, Giuseppe e Mario, ritenuti partigiani attivi, la cui abitazione fu
visitata con rabbia dal Dalmonte e da altri il 26 agosto 1944.
Ancora più coinvolgente e drammatica nei verbali la descrizione di singoli episodi, conclusisi tragicamente, specie se la vittima appare come un tranquillo borghese, riparato in
campagna. Era il caso del dott.Vittorio Toschi, un N.H. (nobiluomo), che nell’estate del 1944
si trovava a S. Apollinare di Casola, a Romitorio. Nella sera del 27 giugno un camion arriva
da Faenza e si ferma alla caserma della GNR di Casola Valsenio. Una breve riunione con la
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presenza del Raffaeli e del Nostro. Poi si riparte per Romitorio. Prelievo della vittima destinata, coetanea dell’imputato, ed eliminazione della stessa a breve distanza da casa.
L’imputato respinse ogni addebito ed ammise solo l’appartenenza alla GNR, dall’ottobre
1943 all’agosto del 1944, nei presidi di Casola e di Massalombarda, e il passaggio successivo
alla B.N. di Faenza.
Inutilmente, visto che ad accusarlo erano per lo più ex commilitoni, compreso il
Comandante della stazione di Casola, Oliviero Negrini (notare “stazione” non presidio),
certo della riunione serale Leonildo Cavallari, partecipe delle spedizioni collinari. Troppi,
infine, i ricordi di brigatisti di Faenza e di Casola, concordi nell’affermare la sua collaborazione nell’omicidio Toschi. Chi l’aveva visto salire sul camion (Paolo Pasquali), chi scendere, chi
(Guido Gualandi) aveva conosciuto la verità da un fascista di Faenza, tale Angelo Giannelli.
La Giuria (12-2-46) concesse a Dalmonte (residente a Bologna) solo il dubbio sulla partecipazione materiale alla soppressione del dottore. 16 anni, senza attenuanti.
Sul futuro del condannato andare al capitolo conclusivo.
Mario Gordini
E’ un nome noto a Ravenna. I partigiani ne parlano come di un capo indiscusso, di qualità superiori, incarcerato nel ventennio per un tentativo di raggiungere le forze repubblicane in Spagna, tra i primi a cadere prigioniero dei tedeschi e dei fascisti di Forlì, fucilato il 14
gennaio 1944, medaglia d’oro. Il suo nome compare anche nelle insegne di un partito e nella
via centralissima. Su Gordini, invece, nessun cenno nelle carte processuali finora citate. Non
si sarebbe lamentato di certo del protrarsi del silenzio un campano, Maresciallo di P. S.,
dipendente della Questura di Ravenna durante la guerra, Trucillo Vincenzo, fu Antonio e di
De Chiara Orsola, nato a Salerno nel 1893, residente in città in via Matteotti n.176.
Trucillo fu arrestato il 13 settembre del 1945, imputato di avere offerto, di sua iniziativa,
informazioni a Comandi tedeschi sull’attività del patriota Mario Gordini, che portarono alla
sua cattura ed uccisione e alla cattura del padre Antonio. Trucillo respinse simili addebiti e,
anzi, raccontò di essere intervenuto per la liberazione di Antonio. Contro di lui Gordini
Alberto ed una certa Domenica Montanari, mossa da dissapori personali e capace di costruire sospetti senza fondamento. A favore un certo Pietro Lega e Giuseppe Camerani (dalle funzioni non ben definite), che rassicurarono la Corte sulle iniziative del Maresciallo a favore di
perseguitati politici.
La causa appare inspiegabile, almeno alla luce dei documenti richiamati in sentenza.
Com’era possibile arrestare un poliziotto senza motivazioni? Quale era stato il parere dei
superiori? A togliere ogni incertezza provvide addirittura il comm. Vincenzo Barile, vice
Questore: Trucillo non poteva avere accesso al fascicolo riguardante Gordini, in quanto
addetto alle pratiche amministrative.
Ergo, non aveva alcuna relazione con i tedeschi e i fascisti. Una logica stringente!
Assoluzione piena (14-2-46). Un’ulteriore notazione: nella sventura il Nostro fu fortunato
due volte, liberato da ogni accusa e l’unico detenuto ad uscire dal carcere prima del processo.
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Un ragazzo del ‘99 di S. Agata sul Santerno
Che gioia e che peso essere nati nel 1899, ragazzi per tutta la vita, costretti dall’imperante esaltazione e retorica a dimostrare eroismo in ogni frangente. Sirio Ragazzini di S. Agata
era uno di questi. Tra i più violenti squadristi del paese, Centurione, Marcia su Roma.
Il primo novembre del 1922, un giorno tra due date fatidiche, la Marcia sulla capitale e la
vittoria sugli austriaci, un certo Romeo Cortesi si era permesso di rivolgere osservazioni al
Ragazzini in merito alla recente bastonatura di Bitti Ricci. In risposta, colpi di pistola intimidatori e, quando l’impaurito Romeo si diede alla fuga, un intero caricatore scaricato contro
di lui. Per impaurirlo? Non si direbbe, visto che il Ragazzini fermò un fascista ch’era nei pressi e si fece prestare la rivoltella. Per uccidere…, se si pensa che a fine corsa il Romeo si
accorse di un buco nella giacca.
Carnevale del 1935. Il nostro eroe estrasse un nerbo di bue (anticipatore) e procurò
lesioni guaribili in 15 giorni a Baroncini Amedeo (Eugenio in rubrica). Agosto 1944. Il 5, a S.
Agata, erano stati commessi atti di sabotaggio contro le forze armate germaniche. Il
Comando tedesco aveva chiesto alle autorità italiane un elenco di nominativi da arrestare
come ostaggi, ricavandone però scarsa collaborazione. E allora il ragazzo del 99 cominciò ad
urlare che avrebbe provveduto lui a dare i nomi. “Eccoli”, e scrisse i nomi del Col. Aurelio
Lanzoni, di Giovanni Tampieri, di Ricci Garotti, di Angelo Siroli e dell’avv. Pernis Gesner,
quasi tutti condotti in prigione. Per sua sfortuna, costoro, uomini di una certa autorevolezza, sopravvivranno e testimonieranno contro di lui, l’avvocato andando di persona dal PM di
Bologna (per rogatoria?).
La Giuria (14-2-46) lo condannò per il tentato omicidio e per la delazione (insolito) e gli
condonò le nerbate per prescrizione. 11 anni, 4 mesi e la confisca dei beni (notare).
A settembre, Ragazzini Sirio, di Giovanni e di Marescotti Anna Francesca, classe ‘99, tornerà in libertà.
Arnaldo da Faenza
Pesavano le date e pesavano i nomi. Nella Romagna repubblicana, anarchica e socialista i
figli portavano i nomi dei ribelli, dei maestri e degli ideali (Riscossa, Spartaco, Libera,
Anarchia, Benito, ecc.). Sì, anche Benito, come si sa, viene da quella tradizione. Nella
Romagna fascista si erano imposti quelli del Duce e dei suoi famigliari, per convinzione politica o per le 100 lire in premio: Benito, ovviamente, Edda, Bruno, Arnaldo, ecc.
Anche più fortunati durante il regime coloro che orgogliosamente potevano affermare di
chiamarsi in quel modo già prima della Marcia su Roma.
Arnaldo Casella, fu Giovanni e di Laura Benini, nato a Faenza nel 1912, era uno di questi.
Forse non aveva le doti per essere un capo, ma la faziosità e lo spirito violento lo portarono
ugualmente in alto nella Brigata Nera faentina.
Impressionante l’elenco dei misfatti, a suo dire estorto dai Carabinieri, al quale lui stesso
in dibattimento aggiunse qualcosa. In elenco: fucilazione di Rivalta (5 civili), di Casale di
Fognano (5 ostaggi), di S. Stefano di Fognano (altri 5, Domenico Zauli, Paolo Conti,
Domenico Bellini, Silvio Mordini e Mario Giannelli). Poi si passa alle estorsioni. All’epoca
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questo reato aveva connotati originali. Una lettera più o meno ricattatoria sul passato, una
telefonata minacciosa, quasi mai anonima. Un invito perentorio a presentarsi presso la sede
del Partito o della Brigata Nera (il partito in armi). Non ci si poteva sottrarre e dal quanto
dipendevano la tranquillità e la sicurezza propria e dei congiunti. Peccato che le sentenze
siano così avare di particolari sul come avvenivano le estorsioni. Accontentiamoci.
20.000 lire in danno di Fantuzzi Ginanni Gabriele, 40.000 di Ferniani Rodolfo, 170.000 di
Lega Giacomo. Estorsioni anche a Saviotti Pompeo e Faccani Giovanni. Non mancano le
rapine, con o senza saccheggio, con o senza ricevuta, individuali o in gruppo. Via un’auto a
Liverani Tommaso, una radio a Caroli Luisa. Si aggiungano i rastrellamenti di luglio e settembre (1944) nella zona di Brisighella, la cattura di Antonio Bedronici e l’incendio della sua
casa, la fucilazione di Domenico Bellini, l’arbitraria perquisizione dell’abitazione del
dott.Giovanni Taroni.
A conclusione del verbale d’imputazione: “Parecchi altri rastrellamenti e fatti di sangue”.
Arnaldo da Faenza negò quasi tutto. Concesse solo di avere una volta invitato Lega e
Pasini a presentarsi al partito per una “spontanea offerta”, di avere preso la radio su ordine
superiore, di avere assistito all’estorsione della bicicletta del Lega, e, infine, di avere udito
dei colpi durante l’eccidio di Voltana. Voltana? Non è nel capo di imputazione. Errore nella
stesura della sentenza? Sembrerebbe di no, visto che il nome viene ripetuto. Il dubbio però
resta, tanto più che Voltana non rientrava nella zona del Casella e tra i testi compaiono i
nomi della Verità Annunziata e del camerata Schiumarini, legati entrambi all’eccidio di
Rivalta. Quanto all’estorsione della confessione, il Presidente Vicchi se la cavò così: “Non
potendo ammettere e non constando l’uso di violenza da parte dei Carabinieri”. Con altri
Corpi di Polizia forse sarebbe caduto il primo gerundio.
La sentenza, nonostante le lacune espositive, si presentava facile, per le numerose ed univoche testimonianze di parti lese e di persone degne. 20 anni e confisca dei beni (14-2-46).
Il fascicolo s’interrompe qui.
Due detenuti e due latitanti
Con il dott. Vicchi, nervosismo a parte per le carenze biografiche e per le contraddizioni
interne alle sentenze, si lavora meglio. Più spazio alla fantasia del lettore, freschezza di stile
e novità costanti, come dimostra la causa del 19-2-46, con quattro imputati.Tutti giovani,
tutti di Ravenna, alcuni con cognomi significativi: due latitanti e due detenuti. Accomunati
in un processo confuso, in cui è chiaro solo il nome della vittima, che però non compare in
nessuna lapide e in nessun libro. Sfuggono la dinamica dei fatti e il ruolo dei partecipanti.
Non aggiungiamo confusione e proviamo a ricostruire la storia.
Ravenna, novembre 1943. I fascisti hanno ripreso il potere da poche settimane. In giro si
vedono le divise degli Allievi Ufficiali della GNR e gli antifascisti escono solo di giorno per
evitare sorprese. Discreta la presenza tedesca. La città appare tranquilla.
La sera del 12 novembre tre o quattro camerati ed amici sono per strada (non si sa se
sono di servizio, né dove). Il superiore in grado è Esiapo Francia, con lui di certo Leopoldo
Bedeschi e Sergio Buzzi. Forse anche Antonio Marcello Cuman. Ad un tratto, non distante
da loro, scoppia una bomba, a mano s’immagina. La ronda prosegue ed incontra certo Jader
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Miserocchi, già noto o dal fare sospetto, ed Esiapo ordina al Bedeschi di condurlo alla
Caserma Garibaldi, con l’avvertenza di non malmenarlo. Di sicuro era comunista e la bomba
poteva essere sua. A questo punto inizia uno strano balletto. Miserocchi resta in cella. Esiapo
con Antonio Porisini ed altri militi partono per ricostruire a ritroso il cammino di Jader.
“Venivi dalla fidanzata? Bene”. Il gruppo corre a casa di lei (il cui nome si tace) e parla con i
padre, Luigi Bonini. Ma l’innominata fidanzata è andata dalla sorella (sposata?). Si riparte con
il futuro suocero con compiti di guida. Cammin facendo, in fila indiana o tre per tre (è
importante), parte un colpo che uccide Aldo Sintoni (mai citato prima, né dopo). Chi era,
dove si trovava? Mistero. Si sa solo che a sparare è stato uno dei militi. Esiapo, detenuto, si
protesta innocente, perché procedeva a lato del Bonini, che invece sostiene che i fascisti
erano tutti dietro di lui. Ma dov’era Sintoni? E come mai il Porisini non è tra gli imputati?
Bisogna fare il punto. I quattro furono accusati di correità nel sequestro del Miserocchi e
nell’uccisione di Sintoni. Ma Buzzi (detenuto) racconterà che lui era rimasto immobilizzato,
scosso (non ferito) in un ginocchio, per la caduta a seguito della bomba e nessuno, compreso il Miserocchi, lo riconoscerà. Nessun riconoscimento neppure del quarto, Cuman, latitante. Certezza, invece, sulle minacce a mano armata da parte del Francia in caserma.
La posizione più compromessa appariva quella del Francia, giovane forse non privo di
disponibilità economiche, che presentò due perizie, una del dott. Zoli di Ravenna e l’altra
del prof. Graziani di Imola, accertanti, ai primi del 1944, “uno stato di eccitabilità nervosa”.
E chi non era nervoso a quei tempi, specie se si era commessa qualche violenza imperdonabile? I certificati non dicevano molto, ma la difesa si aggrappò ad essi, aggiungendo che il
Francia, da pochi giorni maggiorenne, era privo della capacità di intendere e di volere. Ne
nacque una disputa giuridica. Solo i minorenni possono invocare simile incapacità, agli adulti è concessa l’infermità mentale, non richiesta dalla difesa e del resto non concedibile alla
luce dei referti.
Francia Esiapo detto Cipriano, di Agide Ettore e fu Maria Zannoni, nato il 9 settembre
1925 a Ravenna ed ivi residente, detenuto dal 27-6-45, fu ritenuto colpevole di collaborazionismo e del sequestro di Miserocchi ed assolto per insufficienza di prove dell’omicidio
Sintoni. Anni 10 di carcere. Rapida arriverà l’amnistia, poco dopo ferragosto. Insufficienza di
prove per Buzzi Sergio, di Agostino e di Antinesca Bissi, nato a Ravenna il 24 aprile 1925,
detenuto (senza data). Come sopra, per Cuman Antonio Marcello, fu Secondo e di Felicia
Muci, nato nel 1923 a Brindisi, residente a Ravenna, latitante. Restava la posizione di
Bedeschi Leopoldo, di Giuseppe e di Attilia Calderoni, nato a Ravenna nel 1923, latitante.
Latitante o impossibilitato a presenziare? Un certificato del Comune di Ravenna dell’8 febbraio 1946 (il processo si svolse il 19 dello stesso mese) lo dava per deceduto. Ma, colpevole la burocrazia o altro, il decesso era avvenuto due mesi prima, il 7 dicembre del 1945.
Morte per malattia, disgrazia o altro? Per lui, estinzione dell’azione penale per morte.
Prima di passare ad altri processi, vale la pena ritornare sul nome di Cuman, tra i più noti
del fascismo ravennate. Il vecchio Vittorio Cuman, di origini venete, era capitato a Ravenna
come dipendente delle Ferrovie, dopo essere passato in diverse città, nelle quali la moglie
Cecilia Scrivante gli aveva regalato ben 15 figli. Tra cui Elia Secondo nato a Feltre e Alfredo a
Verona. I due erano diventati l’anima e il bastone dello squadrismo ravennate ed erano rimasti in auge fino al 22 novembre del 1931, allorché in abiti eleganti e festivi furono raggiunti
da più colpi di pistola in via Zirardini. Era mezzogiorno. A sparare era stato un altro fascista
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Aldo Capanna (fratello di Antonio, giustiziato a Ravenna nel dicembre del 1945), in urto con
Alfredo (già finito in carcere, su denuncia dello sparatore, per 4 mesi, e poi assolto dal reato
di malversazione in danno del Comune, nella sua qualità di capoguardiano della pineta).
Una vecchia bega tra clan fascisti. Della sorte dell’assassino si sa di una prima condanna a 20
anni e dell’Appello in quel di Firenze. Senza riscontri, per il silenzio dei giornali del tempo
e poi a causa dell’alluvione del 1966!
La curiosità è stata suggerita dal nome e dalla paternità: Cuman Antonio Marcello, fu
Secondo. Figlio di Elia Secondo? Può essere, perché uno dei due Cuman aveva due figli il
giorno della morte.
Da S. Pietro in Vincoli a Carraie
Di tanto in tanto ritornava la questione del pilota caduto a sud di Ravenna, dei tentativi
di salvarlo, della sua cattura e dell’uccisione di Ravaioli Dino, il salvatore. Chi era stato il delatore? Mai scoperto, nonostante i numerosi incriminati.
Il 19 febbraio del 1946 fu la volta di Tassinari Bruno, fu Federico e fu Menghi Rosa, nato
nel 1896 a S. Pietro in Vincoli, residente in via Cella 329, fondatore del Fascio di Carraie, nella
cui casa si erano tenute riunioni italo-germaniche, e accusato di minacce ai partigiani e della
delazione fatale.
Le prove erano inesistenti e a portarlo in prigione nell’agosto del 1944 era bastata la
denuncia di un certo Casadio (dal nome indecifrabile, Zaccheo?).
Tutte accuse generiche e mancanti di elementi probatori. Sì, frequentava fascisti e tedeschi, perché a Carraie gestiva un pubblico esercizio. Quanto all’atterraggio del pilota, lui
quel giorno era lontano (come dichiararono alcuni testi). Si cercasse altrove il delatore.
A leggere il dispositivo della sentenza ci si attenderebbe, se non l’arresto del Casadio, raccoglitore di voci incontrollate, almeno l’assoluzione con formula piena, ma la Corte optò,
incoerentemente, per l’insufficienza di prove. Il giallo Ravaioli rimase tale.
Basta e avanza
Così scrisse più o meno il Presidente Vicchi, dopo avere passato in rassegna la caterva di
reati contestati a Bertoni Lino di Faenza. Non era il caso di accettare come buone le testimonianze accusatorie di due detenuti fascisti, il noto Schiumarini e Nati, rese, più o meno spontaneamente, in istruttoria e poi ritirate in aula. Bastava ed avanzava il resto. Non gli si può
dar torto, con danno però per la ricerca. Vediamo l’intero capo d’imputazione, frutto di due
rapporti della Questura.
L’8 agosto 1944 l’imputato entra al Mulino di S. Cristoforo per catturare Leo Argnani. Non
trovandolo, il Bertoni e i camerati, prendono le biciclette degli sfollati, 90 quintali di grano,
imprigionano mamma e sorella e incendiano il locale.
Il 12 agosto al cimitero di Rivalta. Il Bertoni è nel plotone di esecuzione.
Il 24 agosto un semplice furto di un camioncino Fiat 1100, targato 912 RA (sic), e di 12
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gomme di proprietà di Giuseppe Cicognani.
Il 6 ottobre 1944, rastrellamento nelle parrocchie di Tebano e Pergola. 4 fucilati e numerose case incendiate.
Il 5 marzo 1944, pestaggio presso Villa S. Prospero di Volpiano Pietro e Muccinelli Angelo.
Nel luglio del 1944, rapina del motocarro Fiat, 4225 Ra, di proprietà di Giovanni Golminelli.
Nell’agosto 1944, rapina di tre gomme di motofurgoncino ai danni di Antonio Ponti.
Il 19 settembre 1944, rapina di merci, depositate nel magazzino di un corriere, Giacomo
Caroli, del valore di oltre tre milioni.
Il 24 ottobre 1944, arresto arbitrario di Giovanni Castellari. A ciò andavano aggiunti i
seguenti misfatti, in parte inseriti nel secondo verbale della Questura e riconducibili alle
confessioni dello Schiumarini.
Rastrellamento di S. Biagio, con cattura di quattro renitenti consegnati ai tedeschi.
Il 1° settembre 1944, in quel di Marzeno, botte a Caroli Giuseppe e cognata e carcerazione della donna per tre giorni a Faenza.
Il 10 settembre 1944, nella zona di S. Lucia, Montefortino e Pietramora, a catturare 200
persone, spedite in Germania.
Nel settembre del 1944, membro del Tribunale Provvisorio, che emette sentenza di morte
contro sei partigiani, poi fucilati a Castel Raniero; partecipa anche al plotone di esecuzione.
Trasporto in autocarro di Bruno Bandini a Tebano, dove viene assassinato.
Nulla l’imputato ammise, tranne il prelievo delle gomme del Ponti (punto 7).
La Corte, sentiti i numerosi testimoni, parti lese e persone credibili, non sapendo come
evitare la condanna a morte, sommò le pene fino a 60 anni e poi tornò indietro fermandosi a 30, il massimo per chi evitava la fucilazione.
Ripetiamo il nome: Bertoni Lino, fu Giuseppe e fu Taroni Maria, nato a Faenza nel 1906,
ivi residente, detenuto dal 31 maggio 1945.
Il seguito è nella norma. Respinto il ricorso, condonati dieci anni nel luglio1946, un altro
anno nel 1950. Una novità invece nel marzo del 1952, quando il Ministero di Grazia e
Giustizia concederà la libertà vigilata fino al 31 maggio del 1954. Un provvedimento non
automatico.
Infine, nell’ottobre del 1961, la riabilitazione da parte della Corte d’Appello di Bologna.
Torniamo al mare, a Cervia
Le differenze tra le diverse aree saltano agli occhi. Gli imputati che hanno operato su per
le montagne, nelle città più grandi e lungo la fascia del Senio o del Santerno, in genere compaiono alla sbarra carichi d’episodi delittuosi, confermati dal dire di molti testimoni, e inseguiti dall’odio popolare. Viceversa dalla fascia pianeggiante a sud del capoluogo e dalle marine arrivano detenuti con limitate e deboli imputazioni, accusati di fatti, quand’anche gravi,
sfuggiti allo sguardo dei pochi e alla coscienza dei più. Cervia è una di queste realtà.
Il 15 luglio 1944 Ugo Montanari, partigiano, doveva consegnare una lettera riservata del
Comitato di Liberazione Provinciale a Ida Paganelli o al compagno Pio Gherardi. Ma non
avendoli trovati, venendo meno alle più elementari cautele della lotta clandestina, aveva affidato il plico alla signora Di Francia, vicina d’abitazione del Gherardi, sposata con un agente
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librario. Nella stessa giornata, in ora indefinita, una perquisizione dei Carabinieri del posto
aveva portato al recupero della missiva, che impartiva ordini alla Paganelli. La donna fu consegnata alla Brigata Nera di Ravenna (già visto), che la trattenne per otto giorni e otto notti
sottoponendola a terribili e vergognose torture, prima di spedirla per due mesi in carcere.
In altro punto si è parlato della sua detenzione, qui è centrale l’antefatto. Come mai si era
verificata la perquisizione? A seguito di pedinamento del Montanari, di precedenti sospetti
sul Gherardi, di una soffiata di un terzo inquilino, del tradimento della signora Di Francia?
Nel dopoguerra il CLN di Cervia svolse proprie indagini ed arrivò alle seguenti conclusioni.
A spifferare era stato l’agente librario, il signor Di Francia, che, rientrato a casa, dopo
poco era uscito in cerca del Segretario del Fascio, Elio Passini, portandosi appresso la lettera. Finta, pertanto, la visita indagatrice dei Carabinieri. Ipotesi credibile, non facile però da
comprovare. Ovviamente il Di Francia si oppose a tale versione dei fatti ed ammise soltanto
la sua iscrizione al Partito Fascista Repubblicano, in coerenza con la precedente militanza in
quello del ventennio, entrambi motivati da puro opportunismo, per vendere meglio i libri e
per sottrarsi alla chiamata alle armi.
Ad accusarlo la vittima della spiata, la Ida Paganelli, che, durante una pausa delle torture,
fingendosi svenuta, aveva udito il Console Guidi dare il merito della cattura proprio al Di
Francia. Si rese necessario il confronto tra la partigiana e l’ex gerarca, caratterizzato dalla
negativa di quest’ultimo. Mai pronunciata quella frase. Logica dichiarazione, vera o falsa che
fosse. Non poteva certo inguaiare la fonte! D’altronde, per la parte fascista era preferibile
una ricostruzione che in qualche modo finiva con il coinvolgere i Regi Carabinieri.
Sennonché un cervese, Mario Battistini, fu in grado di ricordare che quel pomeriggio di
luglio (che memoria!) aveva incontrato l’imputato che gli aveva chiesto l’indirizzo del
Segretario del Fascio, il Passini. Ma, per fortuna del Di Francia, seguì la testimonianza di Irno
Matteo, carabiniere del tempo, che era certo dell’arrivo della lettera in caserma prima di
mezzogiorno. Fortuna, per modo di dire, poiché il detto Carabiniere riferì una frase inequivocabile del Maresciallo, secondo la quale era stato proprio il Passini a portargliela.
Catastrofica l’aggiunta: la perquisizione era stata una messa in scena concordata per non
compromettere la preziosa fonte, il libraio. Nel fascicolo sono indicati altri nomi (Eligio
Bedeschi, Arrigo Ravagli e Carlo Saporetti), ma senza indicazioni ulteriori.
La condanna fu inevitabile. 10 anni di reclusione, ridotti a 8 per le attenuanti: lodevole
condotta successiva (teste dott. Giuseppe Neri) e conseguenze “relativamente non gravi”
del suo operato. Quest’ultima frase il Giudice Vicchi se la poteva risparmiare. Così Francesco
Di Francia, di Vincenzo e fu Maria Guaglianone, nato a Siderno nel 1908, detenuto dal 6-645, fu uno dei rarissimi spioni raggiunti dalla giustizia (21-2-46).
Amnistia il 23 agosto dello stesso anno. Al Di Francia non resterà che vendere libri in
un’altra provincia.
Di professione saccheggiatore
Mica poteva fare tutto lui. Di scarso ingegno, non era portato per la propaganda o per le
investigazioni politiche e neppure per le tattiche militari. Invece gli piaceva moltissimo cercare gli sbandati, i renitenti e i partigiani, non nel bosco, ma in eventuali rifugi casalinghi.
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E, se non li trovava subito o per niente, era ancora più contento, perché poteva sfogarsi,
distruggere e rapinare ciò che non era il caso di incendiare. Nella Brigata Nera di Riolo Bagni
e di Faenza ebbe modo di esprimersi. Parliamo di Cicognani Francesco, fu Giuseppe e fu
Ronchi Carmela, nato a Riolo nel 1902, detenuto dal 26-10-45. Purtroppo, il carattere succinto delle sentenze non consente di capire se le date degli arresti e dei trasferimenti in carcere coincidano con quelle delle catture da parte degli alleati (Campo di Coltano ecc.). Tale
difetto, nella causa in questione, ci lascia ignoranti del tutto anche sui giorni e i luoghi delle
gesta del Cicognani. Si compensa però con un lungo elenco di denuncianti, tutti, o quasi,
da lui derubati e, se del caso, catturati e malmenati.
1) minacce ai famigliari del renitente Rossini Domenico, danni alle cose, via denaro e
oggetti;
2) come sopra nella casa di Ciani Giovanni;
3) come sopra nella casa di Tronconi Egisto;
4) saccheggio dell’abitazione di Alfi Domenico;
5) dell’esercizio di Bertoni Battista;
6) spari contro Montevecchi Enrico, sfuggito alla cattura;
7) cattura di Gaglioni Armando;
8) cattura di Laghi Umberto, Antonio e Luigi, di Linguerri Alfredo, di Ceroni Pietro e di
Bertoni Battista.
L’elenco in sé non dice tutto. Vediamo qualche dettaglio. A casa di Cavina Guerrino e
Francesco arrivò, con altri brigatisti, il Cicognani. Via tutte le cibarie e lire 50.000, poi, incendio dell’abitazione, della stalla e del fienile, sfascio delle botti in cantina e asportazione di 14
animali bovini, 16 suini e 300 animali da cortile. Che fatica tra carico e scarico nel nuovo
domicilio. Non contenti, i fascisti arrestarono i padroni della fattoria e li costrinsero a scavare una fossa ove venne seppellito il cadavere di un disgraziato ucciso in precedenza. Durante
lo scavo frustate a Guerrino. Nella casa colonica dei Casadio, Carlo e Achille, distruzione di
tutto e rapina di tutto, animali e denaro compresi. Non contenti, arresto di Carlo e della
figlia, con maltrattamenti.
Il Cicognani non mancava mai, come quella volta che non sapendo cosa prelevare, l’infaticabile bruciò l’Archivio dei Regi Carabinieri di Riolo e, ancora, fu lui a catturare due ebrei,
Zamorani Emilio e Massimo, poi uccisi a Bologna.
L’imputato non si riconobbe in simili spedizioni, nonostante le vittime lo avessero riconosciuto per iscritto ed oralmente, e dalla sua mente debole tirò fuori solo due rastrellamenti, a Villa Vezzano e a Cuffiano.
La Corte (21-2-46) lo giudicò colpevole di quasi tutto, con qualche riserva sulla cattura
degli ebrei. Come si può notare, la questione ebraica sotto Salò non compare nei processi,
ma non perché in provincia di Ravenna non esistessero israeliti, schedati da anni preso i
Comuni e la Prefettura. La maggior parte di loro, cui si erano aggiunti fuggiaschi dai paesi in
mano germanica, fu rastrellata a fine dicembre del 1943, prelevati dalle loro abitazioni o da
case ospitali, e spediti in campi di concentramento, dapprima italiani e poi nazisti. Di questa operazione amministrativo-poliziesca si resero responsabili le Prefetture, le Questure, i
Carabinieri, i Vigili Urbani e i Podestà. Non approfondiamo.
Torniamo al nostro saccheggiatore. Perso per perso, la difesa tentò la carta della seminfermità mentale, non concessa però dai giurati ravennati. Nessuna attenuante, vista l’attività faziosa e “immensa”.
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Tuttavia il delinquente doveva soffrire di una strana malattia psichica. Basti pensare che
la pena aggiuntiva (quella di base fu di 15 anni di reclusione) prevedeva la confisca di tutte
le somme del Cicognani depositate presso la Banca Popolare di Riolo, meno lire 30.000, a
disposizione del condannato per spese ed onorari di difesa ed eventuali. Sempre sibillino il
Vicchi. Ci dice quale cifra resta e non da quanto si parte!
Chiamatelo matto il Cicognani! Del dopo non vi sono tracce nella sentenza. Solo un timbro sfocato con il termine “ricorso”.
Il dott. Sgarbi Lorenzo di Alfonsine
In vero, il medico era nato a Lugo e risiedeva in Lugo, ma entrò in Tribunale per un fatto
avvenuto ad Alfonsine, dove forse in tempo di guerra esercitava la professione. Bisogna
immaginare, perché le informazioni restano fuori della sentenza. Sì, entrò a Palazzo Rasponi
il 26 febbraio 1946, da libero, accompagnato dall’avvocato. Non in stato di detenzione, come
di regola. Come mai? L’imputazione non era banale ed altri erano stati associati alle carceri
per molto meno. Forse Alfonsine non aveva voluto rinunciare al dottore o forse i suoi abitanti si erano divisi in due partiti, colpevolisti e innocentisti. I primi si basavano su una
denuncia partita dall’ ex Brigadiere dei Carabinieri, Vincenzo Sardano; i secondi credevano
all’ex Tenente, Fortunato Cappelletti, e al sacerdote Luigi Liverani.
Questi i fatti. Una sera, presso la sede del Fascio locale, si era tenuta una riunione, coordinata dal Commissario del Partito, Camilli, che aveva concluso i lavori compilando un elenco di 40 persone da impiccare ai lampioni della piazza. Ciò, come rappresaglia al ferimento
di una Guardia Municipale. Così sta scritto. Più probabile che il proposito dovesse rappresentare la risposta italo-germanica al crescere esponenziale del movimento partigiano.
Il Brigadiere (il denunciante) sostenne che lo Sgarbi aveva contribuito alla stesura dei
nomi; il Tenente, presente all’incontro assieme al subalterno, in posizione critica sulla
minacciata impiccagione di massa, dichiarò di non essersi accorto di un apporto positivo del
dottore, che anzi era notoriamente ostile al Camilli (“ostilità antica”). Il prete, da parte sua,
ne accentuò il ruolo: contrario a qualsiasi impiccagione. Quindi, convegno e ordine del giorno erano certi, altrettanto certo che l’eccidio non si verificò, problematiche e contrastanti le
versioni sui ruoli svolti quella notte. A proposito, il Giudice Vicchi avrebbe dovuto concederci la conoscenza dell’anno, mese e giorno.
L’imputato ammise soltanto la sua iscrizione al Partito Fascista Repubblicano, nonostante la sua fede antifascista, precedente e successiva all’adesione a Salò, tant’è che aveva continuato ad aiutare i partigiani (nessuna smentita in sentenza).
Come giudicare allora la terribile denuncia del brigadiere del tempo?
Per la Corte solo vaghezze e genericità, frutto di un equivoco o meglio di antichi risentimenti tra i due, sorti per un incidente in epoca anteriore, di cui si tace.
A tanto poteva condurre il rancore? Sgarbi Lorenzo, fu Carlo e di Ida Montanari, nato a
Lugo nel 1898, fu assolto per non avere commesso il fatto.
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L’ultima divisa?
Chiedere coerenza alla medesima Corte è un esercizio vano. Nel caso del dottore si è
dato credito ad un rapporto di causa ed effetto tra un lontano dissapore e una vicina denuncia. Viceversa, nella successiva sentenza, della stessa giornata, la distanza nel tempo produce risultati opposti.
La Polizia partigiana di Mezzano e la Questura di Ravenna avevano provocato l’arresto di
Servidori Domenico, accusato di propaganda in favore del fascismo e, cosa grave, di avere
provocato la cattura di Lino Mascanzoni, poi ucciso a Camerlona, il 26 agosto 1944 (“giustiziato”, nel testo). Che fosse fascista da sempre non c’erano dubbi. A soli 14 anni, nel 1920,
si era iscritto ai Fasci, a 16 era già operativo da un pezzo. Sciarpa Littorio e Marcia su Roma.
Non aveva avuto dubbi neppure nel 1943, tra i primi ad aderire al PFR. Poi, aveva subito un
torto imperdonabile, uno schiaffo morale, capace di ridicolizzarlo di fronte agli altri camerati: gli era stata rubata la divisa. Quale? Quella da squadrista, quella del ventennio o quella
della GNR o della B.N. Non chiediamo troppo alle carte. Il fatto era avvenuto e il responsabile era stato individuato da lui in Lino Mascanzoni, come da denuncia presentata in
Federazione e come riferito al processo da Ermidio Zioni.
Ebbene, la Corte, in questo caso, scartò l’idea che l’iniziativa del Servidori fosse all’origine dell’eliminazione del supposto ladro di divisa (uno sgarro politico). La causalità non
poteva dirsi sicura, poiché tra i due eventi erano trascorsi alcuni mesi.
Pertanto, Servidori Domenico, fu Antonio e di Cavassini Ernesta, nato a Ravenna nel 1906
e residente a Valdagno (fuggito?), detenuto (senza data), fu assolto per insufficienza di
prove. Osservazioni a parte: sentenza giusta.
Compagni di scuola
Succedeva tra fratelli che si militasse in campi opposti, figuriamoci tra compagni di scuola! Anche se non mancarono episodi, nei quali taluni, incontrandosi in frangenti drammatici, fecero prevalere i sentimenti antichi di solidarietà. Un caso diverso è quello del rapporto
tra Morelli Enrico, fascista, e Giuseppe Farneti, partigiano.
Il primo era Sottotenente dell’Esercito Repubblicano e un giorno incontrò il compagno
di scuola (in divisa o in borghese?), il quale, dopo alcune pacche sulle spalle, portò il discorso sulla natura degli armamenti del Corpo. Senza battere ciglio, il Sottufficiale andò a rapporto dal Ten. Col. Polchi del Comando Provinciale, che provvide all’arresto del curiosone,
immediatamente trasferito nelle Carceri di Bologna. Se il Farneti fosse stato fucilato (cosa
non impossibile), quasi sicuramente l’episodio sarebbe rimasto nell’oscurità. Da notare che
nulla di segreto era stato rivelato, poiché il Morelli aveva mangiato la foglia ed aveva semplicemente esagerato i mezzi a disposizione del neonato esercito fascista.
Altra imputazione: avere invitato al Distretto di Ravenna i genitori di Sergio Pirini, disertore, con il pretesto di far loro firmare una dichiarazione, salvo poi trattenerli in ostaggio.
L’imputato si difese in modo maldestro, tentando di ridurre le sue responsabilità, con
l’asserire che il colloquio con il compagno di scuola lo aveva riferito soltanto al Tenente, non
al Tenente Colonnello, e, nel secondo caso, che aveva ubbidito ad ordini superiori (trovare
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a tutti i costi tre disertori). Quasi sincero, mirando all’assoluzione per mancanza di dolo.
Obiettivo non del tutto irrealistico. Sennonché la Corte, come irritata dal comportamento subdolo, insultante la buona fede dei famigliari del Pirini e traditore del cameratismo scolastico, si orientò per la condanna di Morelli Enrico, fu Alberto e di Cornelia Baldassarri, nato
nel 1920 a Ravenna ed ivi residente, ragioniere, detenuto dal 14-11-45. Anni 6 e mesi 8, visti
i buoni precedenti.
A luglio, l’amnistia.
Commissario Prefettizio a Conselice
Ad amministrare i Comuni, con la guerra era arrivata una nuova classe dirigente, meno
ricca, meno colta, con minore prestigio sociale. I Podestà di un ventennio, di estrazione borghese e agraria, non se la sentivano più e tutte le scuse erano buone per lasciare gli incarichi ricevuti dai Prefetti, per meriti squadristi o altro. Forse capivano che non era più il caso
di scommettere sul futuro politico del Regime. Il fenomeno si era accentuato con la
Repubblica di Salò, costretta a promuovere, nelle funzioni di Podestà o di Commissari
Prefettizi, figure di seconda o terza fila, compresa la manovalanza. Ciononostante, le dimissioni si susseguivano, per palese incapacità, per paura, costringendo così il Capo Provincia
a provvedere con modesti funzionari statali o con fegatosi fascisti, spediti in realtà sconosciute, a risolvere problemi ogni giorno più complicati e drammatici (case, trasporti, cibo,
salute, rappresaglie, lavori della Todt, ecc.).
Capitò così che a Conselice fosse insediato, nella carica di Commissario, Mario Borghesi,
una figura “losca e prepotente” di Russi. Vi rimase dal settembre al dicembre del 1944 e fece
in tempo a saccheggiare, a sequestrare, a bastonare, a compiere estorsioni. Nei mesi precedenti, come titoli per la promozione, si era distinto in sevizie ed uccisioni nella vicina Lugo.
Vediamo alcune accuse. A Domenico Tellarini sequestrò la macchina del valore di lire
150.000, poi gli promise 40.000 lire e alla fine scese a 20mila. A Domenico Salimbeni impose di consegnare il camion entro 24 ore, pena la fucilazione, e lo perseguitò perché dava
ospitalità alla madre di Guido Buscaroli, un patriota, che lui catturò e portò a Ravenna, dove
fu ucciso. Ancora saccheggio e percosse in danno di Pietro Bufferla, cattura l’8 aprile del
1944 di Baffé Vincenzo e Bruno, sottoposti entrambi a brutali maltrattamenti, terminati con
l’uccisione di Bruno. Da ultimo, era solito bastonare chi non voleva lavorare per conto dei
tedeschi, com’era capitato a Silvio Staffa.
Il Borghesi si riconobbe soltanto e parzialmente negli affari della macchina (pagata), del
camion, del trasporto del Buscaroli. Quanto allo Staffa, nessuna bastonatura, ma una diffida
a lasciare il paese, perché inviso alla popolazione.
Uditi molti testi, una quindicina, la Corte pervenne alla certezza delle responsabilità
(qualche dubbio sugli omicidi) e condannò il detenuto a 20 anni. Per Borghesi Mario, fu
Luigi e fu Neri Teresa, nato nel 1917 a Russi e ivi residente, nessuna attenuante, per la mancanza di scrupoli e l’insensibilità di fronte alle preghiere e ai dolori della vittime (5-3-46).
Nessun cenno a ricorsi, sconti di pene o amnistie.
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La caduta delle imputazioni
Bertoni Massimo, fu Dante e di Maria Tonelli, nato nel 1902 a Brisighella e residente a
Riolo Bagni, fu uno dei primi ad essere arrestato, il 30 aprile del 1945. Dovette attendere la
metà d’ottobre per sapere ufficialmente di che cosa era accusato e i primi di marzo del 1946
per potersi difendere in giudizio. Complessità delle imputazioni o debolezza degli indizi?
Nel suo caso sembrerebbe vera la seconda ipotesi. La rapina ai danni di Carolina Drei (e
forse anche cattura) non era opera sua, ma di un omonimo, secondo un certo Rondelli. Le
raffiche contro Enrico Montevecchi. Nessun teste. La cattura degli ebrei Zamorani, trasferiti
e uccisi a Forlì (a “Bologna” in altro processo): buio pesto, come per il passato. Insomma,
tre accuse e neanche una prova, forse neppure un indizio. E, cosa grave per questo lavoro,
né una data, né una località (compiti del Presidente).
Fu dimostrato, invece, che il Bertoni aveva partecipato al rastrellamento di Villa Vezzano,
in quel di Brisighella, in data 28 agosto 1944, durante il quale egli aveva asportato un camion
di biancheria dalla casa dei fratelli Rossini, con minaccia a mano armata contro una vecchia
zia. Crimine ripetuto il 16 ottobre. Stessa abitazione, stessa modalità. Merce diversa, mobili
e generi vari.
La Giuria, irritata per la superficialità della Questura, sbrigò la pratica con una condanna
abbastanza lieve, 6 anni e otto mesi (5-3-46). A settembre l’amnistia.
Un personaggio chiave
Ci sono degli imputati che, al di là dai ruoli ricoperti e degli esiti dei processi, sono utilissimi ai fini storici, perché consentono di ricapitolare gli eventi in parte già visti, di aggiungere episodi e di verificarne gli intrecci.
Tedesco Achille, di Armando e di Emma Bracchini, nato nel 1916 a Genova, si presta bene
allo scopo. Egli, in divisa della B.N., partecipò a moltissime operazioni tra Faenza e i comuni a monte, a rastrellamenti, con o senza i tedeschi, a catture di singoli cittadini o di gruppi,
a fucilazioni, a incendi, a rapine, ecc. Esperto, restò nel ramo in quel di Novara, fino alla fine.
Non è facile mettere ordine nei capi d’imputazione, elencati a raffica e senza respiro,
respiro e ordine che non si riscontrano neppure nell’esposizione dei fatti attribuitigli.
Nell’aprile del 1944, avrebbe preso parte al rastrellamento di Pergola, dove furono catturati Linguerri Antonio e Angelo, fucilati a Ponte Felisio, con rapina di due biciclette e lire
13.000 in danno dei medesimi; nel luglio a quello di Brisighella con truppe delle SS, a Monte
Romano contro i partigiani della 36a Brigata Garibaldi, a settembre a Vespignano, dove
venne catturato don Antonio Liverani, fucilato a Bologna il 16 novembre. Nel contesto di tali
operazioni o in luoghi limitrofi troviamo: il saccheggio delle abitazioni dei patrioti Liverani
Sesto e Melandri Stefano, l’estorsione di lire 20.000 in danno di Fantuzzi Ginanni Gabriele e
soprusi analoghi contro Giovanni Faccani e Pompeo Saviotti. Il Tedesco sarebbe stato anche
tra i fucilatori di Rivalta (cinque civili); il 5 agosto tra gli astanti in località Strada di Casale
(Fognano) alla fucilazione di cinque ostaggi, prelevati nelle carceri di Forlì dai tedeschi; nel
settembre, assieme alle SS, tra i partecipanti alla cattura, in S. Stefano di Fognano, di tre
patrioti (Zauli Domenico, Conti Paolo e Gonnelli Mario), subito trucidati, ad ottobre nella
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zona di Pergola e Tebano, con numerosi incendi, rapine e arresti (Guardagli (Giulio),
Casadio, Cavina, ecc.). Altre accuse sparse: nel settembre del 1944 rapina di 100.000 lire, di
un cavallo e di un calesse ai danni dell’avv. Carlo Focaccia, asportazione dalla Succursale
della Banca d’Italia del denaro depositato, cattura e saccheggio di Antonio Bedronici, solo
cattura di Cesare Paramucchi, rapina della radio di Luisa Caroli (che importanza questa
radio!), concorso alla cattura di Marx Emiliani, poi ucciso, alle ricerche con spari in danno
di Giuseppe Caroli, incendio della casa abitata da Anna Dapporto.
Chiudiamo con altri due rastrellamenti (la passione del Tedesco), quello di S. Sofia e, da
ultimo, quello di Castiglione di Novara, nel mese di febbraio del 1945.
Basta e avanza. Ma chi era il Tedesco? Non aveva gradi e non era un capo, ma per la sua
intraprendenza e cultura tendeva ad imporsi nelle varie situazioni. Fanatico di certo.
Esecutore capace, non privo di doti diplomatiche, veniva spedito dai vari Segretari di Partito,
di Brisighella e di Faenza, a convincere i benestanti sull’opportunità di partecipare alle questue, a privarsi delle automobili, delle radio ecc. Peccato che poi abbiano cambiato parere!
Dall’elenco, la Corte stralciò solo l’affare della Banca d’Italia (teste Paramucchi) e il delitto Emiliani (incerte le dichiarazioni della madre). Gli riconobbe qualche gesto umanitario,
per amicizia, verso i signori Ferniani e Nediani (un Nediani compare spesso tra i giurati),
senza concedergli però le attenuanti, data la lunga scia di misfatti, improntati spesso a brutalità e malvagità. Condanna ad anni 20 (5 marzo 1946).
Troppo o poco? La Cassazione neppure si pose il quesito. Volendo aiutare il Tedesco,
avrebbe potuto annullare la sentenza per qualche vizio di forma (scivoloso l’uso del verbo
“arguire”) e rinviare ad altra città per un nuovo processo. Troppo poco. Il 19 settembre corrente anno dichiarò estinto il reato e tutti a casa. Dobbiamo arguire che il sig. Tedesco non
fosse un povero diavolo.
Arcieri di Ravenna
Per i vecchi di città non ha bisogno di presentazione. Se lo ricordano, uno dei peggiori,
sempre accanto ad Andreani. Per qualcuno, più criminale del duo Morigi-Capanna, confronto obbligato quando si guarda a misfatti e pene.
Partiamo dalla fine dell’esperienza ravennate e, questa volta, non dal capo d’imputazione, ma dalla ricostruzione proposta dall’Arcieri stesso. Come narrato, la Brigata Nera aveva
abbandonato la città in mano ai tedeschi molto prima dell’arrivo degli alleati e dei partigiani, sistemandosi in Veneto, ma mantenendo in Emilia, a Ferrara, una base d’appoggio, da cui
ripartire per Ravenna, onde regolare alcuni conti aperti, per le ultime vendette.
Il caso Romeo Piccinini (già richiamato nel processo Buda) è il più emblematico e sconvolgente. Costui era stato un autorevole rappresentante del fascismo cittadino, mutilato di
guerra, squadrista violento, esaltato da Balbo per le “gloriose giornate” del luglio 1922,
conosciuto come “manina”; si diceva che avesse evirato un tale, accusato ingiustamente dal
fratello per una ferita. Convinto solo a metà della seconda avventura mussoliniana, negli ultimi tempi si era defilato.
Per ciò fu giudicato un traditore da eliminare. Il 3 novembre del 1944 fu prelevato, percosso nella sede repubblichina e caricato su una macchina. Direzione Ravenna-Ferrara. Una
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svolta in un viottolo. Il prigioniero fu fatto scendere e freddato.
Questa la linea difensiva dell’Arcieri: “Andreani ha dato l’ordine di arrestarlo e di ucciderlo, io ho condotto la macchina fino al luogo dell’uccisione. Altri hanno sparato”. Non c’è
male! I particolari emersero in giudizio da altri camerati: la vittima che implorava, che offriva prima 100.000 lire per avere salva la vita, arrivando poi a 400.000; la consegna
dell’Andreani rivolta all’Arcieri con le parole “Ti affido il Piccinini, trattalo come un padre!”.
Grottesco, infine, il dialogo tra i due in un Ristorante di Ferrara a missione compiuta, con
Andreani che appariva sorpreso dell’esito e dispiaciuto delle modalità e il giustiziere che gli
rinfacciava l’ordine impartito (testi Buda e Severi). Stessa logica nei confronti di un altro ex,
il maggiore Giovanni Zanotti, che a fine ottobre l’Arcieri non aveva trovato e allora gli aveva
bruciato la casa, per punirlo di uno sfratto ad una famiglia amica e sinistrata.
La linea difensiva non migliorò neppure in merito all’eccidio di Zoli, Melandri e Corniola
(31-7-44). “Ero di guardia ad una trebbiatrice a S. Pietro in Vincoli, quando fui richiamato per
caricare tre prigionieri. Ubbidii, ma poi, a causa di una foratura, vi fu un trasbordo che mi ha
impedito di assistere alla fucilazione”. Sfortunato il Nostro. Come quella volta che doveva
trasferire dal Carcere di Ravenna a quello di Forlì alcuni detenuti illustri. Uno, Mario Zotti,
lo aveva catturato lui, il 12 agosto 1944, a lui era toccato trasportarlo assieme a don Melandri
e al Colonnello Cecere. Un incarico delicato, ma di nuovo una foratura, e i tre avevano raggiunto Forlì con un camion guidato dall’Andreani stesso. Il Colonnello fu poi ucciso.
Uno così poteva mancare al Ponte degli Allocchi? Sì, “Mi sono alzato alle 7, 30 quel giorno, chiedetelo a mio cugino”. Peccato che Natale Marani lo registrasse tra i presenti e che
Bianca Olivieria in Zanotti (la moglie del maggiore) e la sua stessa madre lo avessero sentito dire: “Vado a letto presto, perché domani alle quattro devo servire la patria”. Di certo tra
i fucilandi c’erano due catturati da lui, Giordano Vallicelli e Augusto Graziani. Come pure fu
appurato, e ritenuto dalla Corte, “importantissimo”, il fatto che la bicicletta del prof.
Montanari, falciato a parte, fosse rinvenuta nel deposito sotto suo controllo.
Insomma la posizione processuale del Nostro non si presentava facile, anche perché tra
ex fascisti e patrioti si faceva a gara nel colpevolizzarlo. Camerani lo mise tra i rastrellatori
della Pineta di S.Vitale, Bassi Jader lo mise tra quelli che lo avevano arrestato, stessa cosa da
parte di Edmondo Toschi, l’agente Piermattei tra i tiratori durante il tentativo di catturarlo.
Da ultimo, fu accusato anche del sequestro e dell’omicidio del farmacista di Mezzano, il
dott. Nino Zattoni. In vero, quel giorno l’Arcieri era andato ad Alfonsine ai funerali di un
fascista ucciso dai partigiani. Calcolando i tempi e il tragitto (Statale 16), le due vicende potevano non escludersi, ma per la Corte era sufficiente così.
Arcieri Luigi, di Nicola e di Rosa Tambaresi, nato il 5-10-1919 a Ravenna e ivi residente,
detenuto dal 14 luglio 1945, era stato tra primi ad iscriversi al PFR. Era un esaltato, privo di
scrupoli, non a caso entrato da subito nel “Battaglione della Morte”, poi nella Polizia della
Federazione, infine nella Brigata Nera.
L’ergastolo, secondo i giurati, lo avrebbe meritato anche per una sola imputazione, l’omicidio premeditato del Piccinini, cui andavano aggiunte pene “gravissime” per gli altri reati.
Dalla somma uscì (5-3-46) la condanna a 30 anni, con l’attenuante di una promozione per
merito di guerra, ottenuta il 25 agosto del 1943 (strana logica ed ancora più strana la data).
L’Arcieri e i suoi avvocati avrebbero voluto qualche altra attenuante, che la Cassazione in
parte accolse nell’aprile del 1947 rinviando il processo alla Corte di Assise di Bologna, ma
solo per le mancate motivazioni. Bologna confermò i 30 anni.
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Alla fine, l’Arcieri fu aiutato solo dagli automatismi di legge. Sconto di dieci anni, nel 1946,
per la legge sull’amnistia ed altro sconto di dieci anni da parte della Cassazione, nel 1948.
1921 o 1922, in Lugo
Finora abbiamo incontrato storie relative al periodo 1943-45, basate sul reato di collaborazione con il tedesco invasore. Talora, però, nell’elenco dei misfatti rientravano anche episodi del ventennio, pestaggi, umiliazioni, omicidi, sempre difficili da colpire. In questi casi il
riferimento di legge era rappresentato dal Codice Penale del 1889, allora operante. Materia
complessa, perché a favore dei responsabili si erano susseguite assoluzioni di comodo e
amnistie. Inoltre, i medici per paura non sempre avevano certificato l’entità reale delle lesioni; i testimoni si erano diradati e la carte erano andate perdute per i mille accadimenti della
vita. Da ultimo la Corte di Assise, Sezione Speciale avrebbe potuto o dovuto dichiarare la
propria incompetenza o registrare l’avvenuta prescrizione dei reati.
Il caso in questione era sfuggito a molte delle situazioni sopra esposte.
Il 6 marzo del 1946 comparvero a processo in stato di detenzione due squadristi di Lugo,
accusati dell’omicidio di Randi Supremo (notare).
I loro nomi: Dirani Antonio, fu Luigi e di Anna Lollini, nato nel 1901 e Rastelli Ferdinando,
di Edoardo e di Candida Orselli, nato nel 1896.
Siamo nel 1921. Si tacciono ora, giorno e mese. Incredibile!. 4 fascisti si dirigono di corsa
verso la centrale via Cento, da dove provengono rumori di spari. Il quartetto è costituito dai
due imputati e da Contessi Giovanni e da Ballanti (senza nome). Il Contessi intima l’alt ad
una persona (il Randi) che gli va incontro: nasce una colluttazione. I due finiscono a terra.
La mano del Randi cerca di strappare la pistola impugnata dal Contessi. Ai contendenti si
aggiunge il Ballanti, che colpisce tre volte con il calcio della pistola la testa dell’isolato e già
ferito Randi, per poi finirlo a bruciapelo.
Ad avvalorare questa versione dei fatti, un teste oculare, Mario Lega, e due testi, uno protagonista del conflitto (precedente?), Rambaldo Callegati, e l’altro amico del Dirani, che gli
aveva manifestato la propria innocenza nel delitto. E i due imputati? Partecipi o spettatori?
La Corte si orientò per la seconda ipotesi ed assolse entrambi i detenuti (in carcere dal
dicembre) per insufficienza di prove. Se avesse scelto la prima, certamente la Cassazione
avrebbe reagito con sarcasmo: a parte il merito e la competenza o meno della Corte, come
si fa a discutere di un omicidio, tacendo il mese e il giorno? Per fortuna c’erano luogo, anno
e vittima. Esatti? Forse.
A Lugo esiste una lapide con su scritto “Randi Supremo - operaio lughese - assassinato
dai fascisti il 10 agosto del 1922”. Del 1922! Mah!
Nel volume della Provincia “La memoria della Resistenza”, detta iscrizione compare su
una casa di via Centro. Via Centro o Cento? Altro errore della Corte? No, se si sfogliano le
pagine gialle, si scopre che non esiste nessuna via Centro. Basta così.
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Rubboli di Ravenna, informatore dei fascisti o dei partigiani?
Per la Questura di Ravenna non sussistevano dubbi. Il Rubboli aveva favorito la cattura
del prof. Mario Montanari, aveva partecipato all’eccidio del Ponte degli Allocchi, uccidendo
di persona il Montanari. Il tema si ripropone. Il Rubboli si aggiunge ad altri tre o quattro,
incolpati a loro volta di essere stati gli inseguitori e gli esecutori dell’uccisione isolata del
professore. Ma una sentenza passata in giudicato aveva già sancito che a compiere il delitto
era stato Sergio Morigi.
Ma chi accusava il Rubboli? Il padre del Montanari testimoniò che aveva appreso dalla
voce pubblica che il Rubboli era una spia e che costui aveva confidato ad una persona non
identificata che il Montanari era pedinato dai fascisti. Ma sapere e spiare non sono sinonimi.
L’imputato appariva sconvolto dall’accusa. Lui che non si era iscritto al Partito Fascista
Repubblicano, lui che non era appartenuto a nessuna formazione militare fascista. Lui che
aveva informato Antonio Forestieri e padre che la Brigata Nera li cercava (una verità confermata). Un punto a favore della difesa, che però poteva significare anche l’opposto. Come
faceva il Rubboli a conoscere le operazioni segrete dei repubblichini? Contatti fuggevoli o
complicità?
La Corte accettò la tesi dell’imputato. Non era una spia al servizio dei fascisti. Quanto alla
partecipazione all’eccidio, accolse la parola del ragioniere dello stesso, il citato Natale
Marani.
Pertanto, Rubboli Giuseppe, di Paolo di Emilia Ghirardini, nato a Ravenna nel 1899, fu
assolto per non avere commesso il fatto (11 marzo 1946).
Dalla Valle del Santerno alla Valle del Senio
Era nato a Imola Dall’Osso Lino, e si era trasferito a Casola. Fascista nella storica città
ribelle, ai piedi delle colline, fascista nel nuovo Borgo, avamposto strategico nella lotta antipartigiana. A Casola aveva fondato il Partito Fascista Repubblicano, divenendone il
Segretario e il capo effettivo (non sempre le due cose coincidevano). Autorevole e dinamico era in grado di parlare alla pari con il capo di Faenza e gli ufficiali tedeschi, sempre più
preoccupati del diffondersi del “banditismo”.
Con loro, dai 40 anni in su, non perse occasione per coordinare le iniziative militar-poliziesche lungo i crinali, nelle vallate, nelle case sparse, nei centri abitati. Se bisognava sconfiggere i partigiani nulla doveva essere tralasciato. Dapprima con il costringere i suoi compaesani ad entrare nella GNR, poi con l’imprigionare i dubbiosi e gli ostili, con lo scovare gli
sbandati e i patrioti nelle cantine e nelle stalle, con il setacciare le montagne in cerca dei partigiani. Furono mesi intensi, in cui mai venne meno la collaborazione quotidiana e stretta
con i tedeschi, con puntate anche verso i monti toscani e l’alta Valle del Santerno, a lui nota
dagli anni giovanili.
Risultati: 11 febbraio 1944, rastrellamento a Cortecchia di Palazzuolo (tre partigiani uccisi); nel mese d’aprile a S. Sofia (molti partigiani morti o feriti); a Villa Vezzano, a Pozzo, a
Tebano, a Marzeno, a Rivalta, a S. Lucia, a Montefortino, a Pietramora, al Monte Trebbio.
Storie in parte già viste, contraddistinte da centinaia d’arresti, da deportazioni in Germania,
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vandalismi d’ogni tipo, incendi, decine di fucilazioni, arresti arbitrari, furti e rapine. Vittime
in parte note e in parte nuove: il dott.Toschi a Romitorio, i Rossini, i Ciani e i Tronconi a Villa
Vezzano, i Domenicali a Lama, i Cavina e i Ceroni a Tebano, i Casadio, i Ceroni, i Laghi, i
Bertozzi, i Linguerri, il dott. Taroni, gli Alpi, i Gagliani, ecc. Arresti anche di “generici” antifascisti, Filippo Pirazzoli e Giuseppe Pittano.
Non mancarono violenze contro le donne, come Angelina Lazzari, e, novità, l’ordine
impartito proprio da lui ai tedeschi di catturare il comunista Antonio Pizzo e il socialista
Guido Ricciardelli (luglio 1944). Capita raramente che nelle sentenze si rinvengano le appartenenze partitiche, di solito si giostra sui termini patrioti e partigiani, usati come sinonimi.
Al processo Dall’Osso ammise ben poco: l’iscrizione al partito da lui fondato, l’invio di un
certo Castaldi a Faenza per indicare il luogo dove era nascosto il dott.Toschi, un rastrellamento nella parte alta del comune e l’arresto del Generale Chiarotti (non contestato).
La Corte invece gli attribuì tutti i rastrellamenti, ad esclusione di quello di Tebano, con
relativi atti “briganteschi”, alcuni tentati omicidi nelle persone di Tronconi Egisto e
Montevecchi Enrico e la partecipazione in Casola alla riunione fatale per il dott.Toschi (testi
Samorè Giovanni, Calderoli Ernesto). La Giuria ( Vicchi, Bartolazzi, Bezzi, Triossi e
Giannetti) che da tempo non usava neppure di passaggio il termine “morte”, richiamò il
desueto art. 51 del Codice Penale Militare di Guerra (collaborazione vasta e continuata con
il nemico), che nel caso specifico obbligava alla pena di morte. Si spaventò la Corte e concluse diversamente (11-3-46).
Dall’Osso Lino, di Emilio e di Erminia Gualandi, nato nel 1903 ad Imola, residente a
Casola Valsenio, detenuto dal 3 settembre 1945, fu condannato a 30 anni di reclusione, visto
che aveva dimostrato solidarietà umana nei confronti di Alberto Zaccherini.
La Cassazione nel marzo 1947 respingerà il ricorso e condonerà 10 anni (un terzo), la
Corte di Assise di Bologna nel luglio del 1948 sconterà un altro terzo. La Corte di Appello di
Bologna nel gennaio del 1950 rifarà il processo, riducendo la condanna ad anni 24. 24 meno
2/3, uguale a 8.
Nel marzo del 1950, la medesima Corte ridurrà la pena di un altro anno. Ergo la pena da
espiarsi sarà di 7 anni, a partire, ovviamente dal 1945. Quindi, le porte del carcere avrebbero
dovuto aprirsi il 3 settembre del 1952. Ma, clemenza inesauribile, poco dopo il capodanno
del 1951 giungerà a Ravenna un Decreto Ministeriale concedente la libertà condizionale.
Boschi di Faenza. Al manicomio o al poligono di tiro?
Boschi Raffaele era un trentenne brigatista nero di Faenza, che accanto al Raffaeli n’aveva fatte di cotte e di crude, a Faenza, nei villaggi di collina e nelle case sparse. Naturale che
le vittime delle sue gesta volessero giustizia.
Ma, preliminarmente, andava risolta un’altra questione. Concedere o meno la perizia psichiatrica, richiesta dalla difesa. Gli addentellati, in vero, esistevano. Nel 1939, infatti, il Boschi
era stato riformato dal servizio militare per “psicosi epilettica” e nell’anno successivo era
stato ricoverato al Manicomio di Imola, uscendone in novembre, in prova. Ma ad accoglierlo non c’era un ambiente ideale, poiché la madre era stata, pure lei, ospite dell’ospedale
Psichiatrico di S. Maria della Scaletta nel 1931, affetta da psicosi presenile, uscendone dopo
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18 mesi, in esperimento. Esperimento riuscito, poiché la donna non aveva avuto più ricadute. Inoltre, il carattere ereditario della malattia mentale sembrava trovare conferma nel fatto
che anche il suo piccolo figliolo, Luciano (nato durante gli eventi trattati), soffriva di meningite costituzionale (pianti notturni, spasmi diffusi e irrequietezza).
La Corte non se la sentì di verificare se le condizioni mentali dei famigliari avessero
influenzato in modo determinante la personalità dell’imputato, tanto più che l’alienazione
della madre Ballardini Adele era cessata da un decennio e i disturbi nervosi del figliolo erano
comuni a molti bambini di quell’età. E soprattutto, perché indagare sulle possibili cause,
quando il Nostro dal novembre 1940 non aveva più manifestato crisi epilettiche o segni di
turbe mentali? Argomenti razionali e credibili, chiusi però da una considerazione a dir poco
“suicida” e cioè che la cuoca della Brigata Nera di Faenza (Elena Cosenzo) lo ricordava sano
e razionale. Una cuoca in una disputa scientifica!
Più efficaci e convincenti altre osservazioni sull’argomento: normale negli interrogatori e
normale anche nella ferocia collaborazionista. Conclusione: niente perizia. D’altra parte, i
confini tra follia e criminalità non sono certo di facile delimitazione.
Quanto al merito, lucido si dimostrò l’imputato, che ammise solo l’iscrizione al Partito, la
presenza dal luglio 1944 nella Brigata Nera di Faenza e il sequestro di una radio. Di più non
avrebbe potuto fare, perché non stava mai bene ed era relegato in cucina in Villa S.
Prospero. Lucido o smemorato, viste le numerose testimonianze di segno opposto, rilasciate da Sebastiani, Alessandrini, Grilli, Verità, Argnani, Bronzetti, Dall’Osso, Cicognani,
Tampieri, Corsi Dapporto, Caroli, Giustiniani, Valpiani, Cornacchia, Romagnoli, Villa?
In base ad esse, il Boschi era stato presente, attivo e feroce, a Pieve Cesato, al Ponte della
Castellina, a Formellino, a Pideura, a Pergola, a S. Lucia, a Montefortino, a Pietramora, a S.
Mamante. Ovunque una serie infinita di violenze, saccheggi, raffiche di mitra, fucilazioni,
impiccagioni.
La Corte non ebbe esitazioni. Concorso negli omicidi Casilini Carlo, Sangiorgi Luigi,
Savini Giuseppe, e Nanni Emilio, uccisione d’alcuni partigiani al Monte Faggiola, colpo di
grazia ad un partigiano rantolante, violenze e saccheggi vari (per inciso il Giudice Vicchi per
la terza volta scrive Voltana, riferendosi a Rivalta). S’integri il tutto nella collaborazione militare e permanente con i tedeschi e n’esce nuovamente il famoso art.51 del Codice di Guerra.
Pena di morte con degradazione, da pubblicarsi su “Il Giornale dell’Emilia” e “La Voce di
Romagna”. Aggiungasi la confisca dei beni (16-3-46). Dopo due mesi la Cassazione annullerà la sentenza, rinviando alla Corte di Bologna per un nuovo giudizio. Motivo: difettosa motivazione sul diniego della perizia. Ci avremmo giurato!
Altro non compare tra le carte. Pertanto non si sa se Boschi Raffaele di Emilio e di
Ballardini Adele, nato nel 1914 a Faenza ed ivi residente, detenuto dall’8 maggio 1945 (la fine
della guerra), sia finito in un manicomio criminale, in un penitenziario o libero alle soglie
degli anni ‘50.
Due verità opposte. La Neva e Frida
La sera del 7 agosto 1944 un Sottotenente di Artiglieria transita sulla strada provinciale
“Casolana”. Ad un tratto gli si parano davanti due partigiani che lo disarmano della pistola e
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lo lasciano andare con l’avvertimento e/o dietro promessa di non riferire a nessuno dell’accaduto. La mattina successiva (8 agosto) in località Cuffiano (frazione di Riolo Bagni) arriva
un camion di brigatisti neri alla ricerca dei due partigiani. La promessa, ovviamente, non è
stata mantenuta.
I due vengono individuati nei pressi di un esercizio pubblico della brigata (il Caffè della
brigata partigiana o di quella fascista?). Il pericolo è evidente. Bisogna tentare la fuga. Uno
(Nicola Cavina) ci riesce, pur colpito da una pallottola a una spalla. L’altro (Giuseppe
Casadio), meno lesto o meno fortunato, viene catturato, caricato sul camion a suon di botte.
Ma, poco dopo, giocando su una distrazione dei suoi persecutori, riesce a saltare dal camion
e a rifugiarsi nella boscaglia libero ed illeso, nonostante le raffiche. Le cose non finiscono lì.
Non è passato ancora mezzogiorno che da Riolo giungono rinforzi a Cuffiano. L’abitazione
del primo fuggitivo viene devastata, stesso trattamento a quella del secondo, con l’aggiunta
del sequestro del sorelle Ancilla e Cecilia (due nomi da ciclo cavalleresco).
Questa è la versione dell’accusa contro l’artigliere sleale, Ivo Verini, fu Marcello e fu
Eleonora Piancastelli, nato ad Ancona nel 1917, residente a Milano, detenuto dal 7 agosto
1945. Un forestiero all’apparenza, ma il cognome della madre, le conoscenze dei luoghi e
delle persone lo indicano come un figlio della terra riolese. A rafforzare l’impianto accusatorio, i racconti dei due partigiani e la testimonianza di una signora, Zaccherini Neva (un
nome da romanzo di Liala), che quella sera d’agosto stava passeggiando, nelle vicinanze di
Riolo, più o meno romanticamente. A lei Ivo aveva raccontato l’accaduto. Poco male, se la
Neva non fosse stata, in quella circostanza, a fianco di un Maggiore tedesco.
La Corte non gradì tale ricostruzione. Primo, perché due (Francesco Ghinassi e Luciano
Galli) dichiararono che il Verini era un antifascista; secondo, perché, dopo essersi arruolato
con i fascisti sotto minaccia di deportazione in Germania, aveva disertato rifugiandosi a
Riolo (un disertore armato, che per di più racconta ad un tedesco una compromettente
avventura!); terzo, perché i due partigiani al processo si erano dimostrati ostili, “troppo ostili”. Forse il Verini non era un collaborazionista, ma le obiezioni non paiono in contraddizione con il racconto del Cavina e del Casadio.
Ma ecco comparire un’altra donna, dal nome cinematografico, Frida Kimster, che al
tempo faceva l’interprete presso il Comando tedesco di Riolo. A suo dire il Verini fu obbligato a presentarsi, disse di non conoscere i nomi degli aggressori, si rifiutò di unirsi alla
Brigata Nera per un’azione di sopralluogo, sicché il Maresciallo tedesco lo spedì al Comando
della Brigata Nera accompagnato da un gendarme. La Frida, naturalmente, non era in grado
di sapere la natura del successivo interrogatorio. Questione fondamentale, invece, per comprendere la dinamica degli eventi dell’8 agosto .Ma irrilevante per la Giuria, visto che considerò le parole della bella Frida sufficienti a “sgretolare” l’accusa. Proprio, sgretolare!
Quindi, l’imputato avrebbe dovuto beneficiare dell’assoluzione con formula piena, ma
forse il Vicchi capì d’averla sparata grossa e optò per il verbo “indubbiare”, dacché l’imputato, quasi certamente, era stato costretto ad assistere ai fatti, sotto coercizione morale e fisica, italo-tedesca.
Se si voleva assolvere per insufficienza di prove, mica era necessario ridicolizzare i due
partigiani, narratori soltanto di ciò che avevano fatto, detto, visto e subito. Certo, non si
poteva escludere che anche il Verini fosse stato vittima di un duplice spavento, a distanza di
poche ore.
Due verità opposte (Ravenna 12-3-46). Per concludere, il Vicchi, Giudice simpatico ed
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estroverso, sarebbe dovuto ricorrere alla saggezza degli antichi cavalieri e capire l’ira dei due
guerrieri, senza farsi traviare da una sola donzella, Frida, a danno d’Ancilla, Cecilia e Neva.
Un faentino giovane e violento
A vent’anni pattugliava la strade di Faenza ed aveva il grilletto facile, anche se un po’
impreciso. Se c’era da salire in camion per catturare qualcuno, lui era pronto, se c’era da sparare ai fuggitivi non si tirava indietro. Andava a nozze se la spedizione era diretta in montagna per i rastrellamenti. Camion, automobili, motocarrozzette, militi della GNR e della
Brigata Nera, della Wehermacht e della S.S. Spari, camminate, inseguimenti, uomini uccisi,
feriti, prigionieri.
Ugo Steri un qualche merito se l’era guadagnato sul campo, perciò ricevette una specie
di promozione, divenendo responsabile del presidio di Marzeno, da subalterno in operazioni militari a Capo, con compiti politico-polizieschi. E giù botte, minacce e persecuzioni contro i paesani sospettati di simpatie antifasciste. Vediamo qualche episodio.
Il 7 novembre 1943 sparò un colpo di moschetto contro una cabina di un’autocisterna
nei pressi del Cavalcavia di Faenza. A bordo due antifascisti (Iride Raimondi e Giacomo che
non si erano fermati all’alt. Curiosità: antifascisti o partigiani? Per chi era il carburante?
Nello stesso mese partecipò alla cattura dei partigiani Edmondo e Carlo Cisanti, sparando
al primo un colpo andato a vuoto. Nell’aprile 1944 partecipò al più gigantesco e tragico dei
rastrellamenti, quello di S. Sofia, dove i partigiani persero 300 compagni tra morti e feriti.
Il 16 giugno diede il suo contributo ad un’operazione sporca nei pressi di Solarolo. Non
trovando il renitente Angelo Monti, i repubblichini tentarono di uccidere Domenico Monti,
ne uccisero la moglie, Leonilde Montanari, ne incendiarono i mobili, dopo avere prelevato
biancheria, indumenti e preziosi. L’11 agosto lo troviamo a catturare Annunziata Verità e
Pasquale Bedronici. Da ultimo, aveva contribuito a sottrarre il materiale bellico lanciato dagli
alleati e destinato ai partigiani e a rendere fruttuoso il rastrellamento di Pietramora,
Montefortino e Terra del Sole (cento deportati in Germania e morte di Domenico Valmori).
In Udienza l’imputato non smentì quasi nulla, quasi fossero tutti meriti. Del resto, precise e dirette erano le testimonianze delle vittime, anche sull’impresa brigantesca in casa
Monti, con l’uccisione della padrona di casa. Claudio Reali lo vide rientrare in casa subito
dopo la raffica.
Sentenza facile. Steri Ugo, di Lucio e di Antonia Pini, nato nel 1923 a Faenza ed ivi residente, detenuto dal 21 settembre 1945, fu condannato a 18 anni di reclusione (12-3-46).
Sul suo destino le carte sono incomplete. Un’ordinanza del 1946 dichiara inammissibile
il ricorso. Poi un vuoto fino all’8 febbraio del 1950, data in cui una Declaratoria della Corte
di Appello di Bologna “condona un altro anno”, determinando in cinque anni la pena espiabile. Logico pensare che lo Steri avesse già usufruito di due condoni, di un terzo della pena
ciascuno.
Dopo due mesi, un Decreto Ministeriale, l’11 aprile del 1950, autorizza la libertà provvisoria con scadenza al 18 settembre dello stesso anno.
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Il giovanilismo fascista
Durante il ventennio, giornalismo, letteratura, scuola e politica avevano esaltato il mito
della gioventù eroica e guerriera. Non si era mai abbastanza giovani per vivere pericolosamente in armi, per sacrificare la vita propria e degli altri. Si diventava uomini non con la maggiore età o quando si entrava nel lavoro, ma quando si scappava da casa per arruolarsi o per
aggregarsi a compagnie di ventura di animosi, pronti a tutto. Sul Piave, nelle campagne
romagnole, a Roma. A Ravenna il simbolo era stato Ettore Muti, la cui biografia reale o mistificata era stata proposta a migliaia di bambini e di ragazzini. E bene fece la Repubblica di Salò
a battezzare con il suo nome il risorgente fascismo vendicativo. Le conseguenze si videro
anche nelle storie personali di chi scelse la Resistenza e nei tribunali che giudicarono i collaborazionisti.
Francesco Pocaterra rientra tra questi ultimi. Era nato a Ravenna nell’agosto del 1928 e
nell’agosto di sedici anni dopo si trovò tra i protagonisti di ore storiche e cruente. E quello
non rappresentò neppure il suo battesimo, poiché alle spalle c’erano mesi in divisa della
GNR, con passaggio successivo alla B.N., più ricca di echi e di uomini dell’antico squadrismo
ravennate. Alla “Sacca”, più covo che caserma, i giovani squadristi di un tempo, i Cattiveria
e gli Scciantén, tenevano lezione ai neo brigatisti come padri.
Ma, dapprima il Pocaterra non rivide più Scciantén (ucciso) e, poi, il 18 agosto 1944 giunse alla “Sacca” la brutta notizia dell’uccisione di Cattiveria (Bedeschi Leonida). Allora egli fu
tra i primi a correre al Ponte degli Allocchi a pestare a sangue l’attentatore, preso sul posto,
e a trascinarlo fino alla “Sacca”. Poco mancò che Umberto Ricci arrivasse già morto. Il bastone della violenza era passato ormai di mano, dovette pensare il sedicenne Pocaterra, anche
se gli interrogatori e le torture del prigioniero furono affidati ad adulti. I suoi compiti però
non erano finiti. Bisognava catturare persone da tenere come ostaggi, per un’eventuale rappresaglia. E lui, da solo o al massimo con un altro, accompagnò alla “Sacca” con mitra puntato Edmondo Toschi e Tolmino Angelini. “Bravo - qualcuno gli disse - a te e a Zanzi (Arturo)
l’onore di sorvegliare quel bandito assassino, il Ricci”.
Poi, come si sa, Umberto Ricci, detto Napoleone, nonostante le sevizie subite, dopo
pochi giorni, riuscì ad evadere. Astuzia dei capi per pedinarlo, complicità o negligenza dei
guardiani, oppure abilità disperata? Questione mai chiarita del tutto. Il Pocaterra in ogni
modo al processo se ne attribuirà il merito. Il Ricci fu ripreso, incontrato per caso nella zona
del Fiume Abbandonato, si dice, da un brigatista che si era alternato nelle torture. Il resto è
noto, compresa la fucilazione del Toschi, catturato dal Nostro (teste il camerata Attilio
Zampiga). Tra le altre accuse: la partecipazione all’eccidio (cosa naturale e scontata) e l’arresto di Forestieri Antonio e padre (lo stesso personaggio che nella causa Rubboli Massimo
fu determinante per l’assoluzione).
Alla sbarra l’imputato negò tutto o tacque di fronte all’evidenza, aiutato in parte dalle
ritrattazioni dei camerati. La Corte (Presidente Spizuoco) lo ritenne meritevole d’anni sei e
mesi otto e lo condannò, per l’attenuante dell’età, ad anni quattro, mesi cinque e giorni
sei.(23- marzo 1946).
Per Pocaterra Francesco, di Arturo e di Luisa Ancarani, nato a Ravenna il 5 agosto 1928,
detenuto dal 30 novembre 1945, a luglio l’amnistia.
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Geminiani di Faenza. A morte!
Cominciamo dalla formula finale: “L’unica pena proporzionata all’importanza politicogiuridica dei fatti è quella della condanna a morte mediante fucilazione alla schiena”. Il destinatario era Geminiani Carlo, di Angelo e fu Borghi Giulia, nato e residente a Faenza, classe
1925. La Giuria era composta dal dott. Spizuoco, Bezzi, Bartoletti, Vaccari e Morigi.
Ma di quali misfatti poteva essersi reso colpevole il Geminiani per meritare il massimo
della pena? Di nessuno o quasi, secondo l’imputato. Nessun rastrellamento, nessun omicidio, nessuna operazione contro civili. Unica concessione, su un episodio neppure indicato
tra i capi d’imputazione. Un giorno, lui e il brigatista Cassani, stavano passando in motocicletta per Castel Raniero, quando furono fatti segno da colpi d’arma da fuoco, provenienti
da una casa. Subito catturarono due persone (non si dice se fossero i supposti sparatori),
che il collega voleva fucilare all’istante. Esito evitato per esclusivo merito suo; di più, riuscì
ad ottenerne il rilascio. Ben più corposo l’elenco degli addebiti: incendi, rapine, assassinii di
cittadini inermi. Il giovane Carlo non era mancato a nessuno dei rastrellamenti finora incontrati, non sottraendosi mai ai plotoni d’esecuzione, formati di solito da militi volontari, o mettendosi a disposizione o in prima fila quando i tedeschi gestivano in proprio le impiccagioni.
I nomi sono noti, Marzeno e Rivalta; S. Lucia, Monte Fortino e Pietramora (mentre i tedeschi operavano nei tenimenti di Castrocaro e di Terra del Sole) Pieve Cesato, Ponte della
Castellina, e Formellino, Pergola, Pideura e Tebano. Note anche le conseguenze: morti, feriti, deportati, fucilati, incendi di case e stalle, violenze su uomini e donne, rapine di cose e
d’animali, arresti indiscriminati.
Ma chi era e da dove veniva il giovane Carlo, diciannovenne al momento dei fatti e registrato come studente?
Per fortuna a scrivere la sentenza non c’è il Vicchi, così parco d’informazioni.
Il Geminiani a 15 anni (nel 1940) si era iscritto al Partito Nazionale Fascista, provenendo
dai Fasci giovanili, e nel novembre del 1943 era diventato impiegato nel Centro di preparazione al lavoro di Voltana (addestramento professionale e formazione politico-militare). Ciò
non gli bastò, o forse fu obbligato a scelte più adeguate ai tempi. Cercò allora di entrare nei
Carabinieri, ma la sua domanda fu respinta. Ed ecco la rivincita, con l’arruolamento nella
GNR (erede e antagonista dei Carabinieri) e l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano. Poi,
il 20 luglio del 1944, il passaggio nella Brigata Nera. In apparenza un curriculum tradizionale, con sbocco nell’organizzazione più pagata e sanguinaria. Non vale per il Geminiani, che
vi arrivò dopo diversi trasferimenti e una denuncia per diserzione. Raffaeli, il capo, non si
preoccupava del passato dei suoi uomini. Ma l’irrequieto studente-impiegato non trovò
quiete neppure a S. Prospero e nell’agosto dello stesso anno, per divergenze con un
Brigadiere-Capo, si associò ai tedeschi sul fronte di Pesaro. Poche settimane di guerra vera,
poi di nuovo con la B.N. nella lotta antiguerriglia a Brisighella, fino al giorno del ripiegamento al nord. Si ricordi sempre che i repubblichini non oltrepassarono il Po per riposarsi alle
Terme Euganee o sulle Dolomiti, e che lassù la repressione italo-tedesca non scherzava.
Ritorniamo in Romagna e al Geminiani. Sembra impossibile che, con tanti dissapori con
i superiori e tanti spostamenti di sede in sede e di corpo in corpo, egli abbia trovato modo
di non mancare a quasi nessuno degli appuntamenti con la morte.
Decine di testimoni giuravano di averlo visto mettere a ferro e fuoco le rispettive abitazioni e partecipare ad altre angherie. Prove certe per la Corte, perché coincidenti con i ver-
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bali firmati dallo Schiumarini, anche se poi ritrattati. Per esempio, come poteva sbagliare la
moglie di Carlo Caroli, costretta a seguirlo a Villa S. Prospero, senza neppure il tempo di
vestirsi? Stessa cosa da parte di coloni e sfollati, per nulla prevenuti, che con serenità lo indicavano come uno dei responsabili delle loro sciagure.
Dubbi, invece, su altre due accuse presentate dalla Questura:
1) Partecipazione al plotone d’esecuzione che avrebbe fucilato, nel settembre del 1944, cinque o sei partigiani al cimitero di Castel Raniero. Ma il Giudice Spizuoco non poteva di certo
accettare un crimine avvenuto in data indeterminata, con indizi generici e vittime senza
nome e dal numero indefinito.
2) Assassinio dei due Placci e saccheggio della loro casa.
La denuncia era partita da certa Fulvia Fiumi. La donna si trovava a S. Prospero il 19 ottobre 1944, per chiedere al Raffaeli la restituzione degli effetti personali del padre, trucidato a
Ponte Felisio. In quel momento arrivarono in camion Geminiani e Leone Fagnocchi, felici di
comunicare al capo che in una casa colonica avevano ammazzato due uomini e ferito un
terzo, come risposta a colpi sparati contro i tedeschi. Al che il Raffaeli li invitò a ritornare sul
posto per completare l’opera di rappresaglia, ottenendone un’immediata partenza.
Storia credibile e forse rivelatrice d’altri crimini, ma non riferibile agli omicidi Placci, forse
accaduti in luglio! Clamoroso un errore di tre mesi! Ma clamoroso anche il dubbio dei giudici sul mese della morte dei Placci (il padre Giovanni, classe 1878, e il figlio Vincenzo, classe 1921) avvenuta il 19 settembre 1944!
Di contro, stupore e raccapriccio di fronte al racconto di una donna (Fernanda Guardigli)
sfollata presso i fratelli Alboni, accusati dai fascisti di fornire cibo ai partigiani. Era il 6 ottobre. Nella loro abitazione entrarono i tedeschi. Fuori tutti! Nella casa accanto i repubblichini,
che ben presto si unirono ai nazisti. Uno dei due Alboni chiese alla donna, in previsione della
detenzione, un soprabito e una “tira” di pane (pezzo da un chilo). Poi, solo fumo e spavento, e quando la Fernanda rientrò nell’abitazione vide due cadaveri, uno dei quali era “squarciato in un fianco”. La teste non poté, ovviamente, dire chi avesse sparato, ma il Geminiani
era tra coloro che bruciavano, urlavano, entravano ed uscivano, con follia omicida.
Conclusione? Come in premessa (23-3-46).
Null’altro a fascicolo. Una sola certezza: il Geminiani non sarà fucilato.
Mazzotti di Ravenna. A morte!
Quale Mazzotti? Molti ravennati di piazza, quando sentono questo cognome, pensano ad
Orchideo, il quale verso la fine degli anni ‘50 teneva banco al Caffè Cairoli, vantandosi d’ogni
nefandezza, compresi i crimini commessi da altri. Un figuro, d’aspetto e nel dire, nonché nel
fare, fino alla morte. Qui si parla, invece, di Mazzotti Delmo (la stravaganza dei nomi può
trarre in inganno).
Questi, coniugato con prole, classe 1910, di Primo e di Rubboli Giovanna, si era insediato tra i primi nelle sedi fasciste, quando Morigi Sergio era ancora in montagna con i partigiani, quando altri camerati dovranno attendere la primavera e l’estate per cominciare ad uccidere. Lui, già dall’autunno del 1943, aveva cominciato ad indagare, a compilare elenchi di
nemici esterni ed interni, a torturare e ad uccidere. Gesta riferite con enfasi alle reclute del
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crimine, come si fosse trattato di campagne militari (in questo, un po’ simile ad Orchideo).
Una delle storie raccontate agli ultimi arrivati (compreso Sergio Morigi) si riferiva all’odissea di Celso Strocchi, classe 1913, gettato cadavere per la Strada Canala, su sua disposizione
nel mese di dicembre del 1943 (sempre vago il rientrante Giudice Vicchi, la data è il 12
dicembre 1943, erroneamente 12 novembre nell’Albo d’Oro dell’ANPI, correttamente nel
Cippo). Lui aveva potuto seguirne gli strazi infiniti, sottoposto com’era alle sue stesse mani,
seviziato in un’orgia collettiva, cui nessuno aveva voluto sottrarsi. Fu suo però il colpo di grazia in pieno volto. Toccò infine all’Arcieri mettere il corpo di Celso in un sacco e portarlo a
destinazione. Sul fatto: alla Polizia dirà che gli era partito un colpo accidentale; al PM che era
partito da altri, sempre accidentalmente.
Altra storia. Nella ricorrenza dei funerali di Ettore Muti, il Mazzotti era di pattuglia, in perlustrazione per evitare scritte o iniziative antifasciste. Era il mese di febbraio del 1944 (genericamente febbraio, bisogna rassegnarsi alla vaghezza del Presidente), esattamene il 16.
All’altezza del numero civico 51 (ricavato altrove) di via S. Mama l’incontro (casuale o voluto?) con due personaggi, noti oppositori, Menotti Cortesi e Bartolo Bartolotti. Alt! Breve
disputa, poi il Mazzotti personalmente ammazzò con il mitra il Cortesi e ferì ad un braccio
il Bartolotti (teste al processo).
Sul fatto: di nuovo doppia versione dell’imputato. Alla Polizia, che la soppressione dei
due era premeditata; al PM, che qualcuno aveva sparato sul Cortesi, mentre tutti gli altri, lui
pure, sparavano contro il Bartolotti. Che strano! A breve distanza, uno da solo fa centro, in
molti falliscono a metà.
Tra le altre accuse: la cattura nella prima decade di agosto degli operai Sternini, Vinieri e
Mordenti (poi uccisi, come già narrato), il rastrellamento di Piangipane (senza data), la cattura di Leonardo Zirardini, Pietro Gaudenzi e (Giulio) Lolli (il 21 giugno 1944, definita
impropriamente “rastrellamento” e con l’errata indicazione di due caduti, invece di uno,
come visto in numerose altre cause), l’arbitrario arresto di Silvio Galli e Michele Pascoli, in
data 20 agosto 1944 (il primo rilasciato per intermediazione, il secondo fucilato al Ponte
degli Allocchi), l’uccisione volontaria di Zoli, Melandri e Corniola (31 luglio 1944), l’arresto
arbitrario di Silvio Gamberini il 22 agosto del 1944, la ricerca di Mario Gordini (senza date,
caduto a Forlì il 14-1-1944), l’uccisione di Mario Montanari (il 3 novembre, presso Porta
Nuova) e, da ultimo, la partecipazione a tutte le fasi della cattura e dell’agonia di Umberto
Ricci, fino ad essere uno dei componenti il plotone di esecuzione del successivo eccidio,
all’alba del 25 agosto 1944 (teste Bruni Aldo).
Come si vede, finché il Mazzotti operò in Romagna, la sua esperienza criminale fu consumata quasi sempre (con l’unica eccezione della spedizione a Piangipane) tra le mura di
Ravenna, a braccare, interrogare, uccidere uomini che già conosceva, con alcuni dei quali
aveva avuto anche rapporti confidenziali.
La Corte, escludendo solo l’episodio Zoli, Melandri e Corniola, ritenne provate tutte le
imputazioni, alcune delle quali, omicidi premeditati, di per sé e separatamente comportavano l’ergastolo. Aggiungasi il collaborazionismo continuato, l’iniziativa personale e gli altri
misfatti.
Quindi la pena equa per Mazzotti Delmo, detenuto dal 4 ottobre1945, non poteva che
essere quella della fucilazione alla schiena, con confisca dei beni e pubblicazione della sentenza su “Il Giornale dell’Emilia” e “Democrazia” (Ravenna, 25 marzo 1946). Giuria: Vicchi,
Bezzi, Vaccari, Bartolazzi, e Bubani.
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Ma prima di arrivare a tanto, la Corte aveva dovuto superare numerose obiezioni della
difesa, alle quali era d’uopo rispondere in modo adeguato ed esteso onde evitare le furbesche, se non piratesche, intrusioni della Cassazione.
Vediamole. La difesa aveva chiesto la perizia psichiatrica (allegando un certificato matricolare del 1931, un certificato medico sulla salute della moglie e uno stato di famiglia) e, in
subordine, invocato le seguenti attenuanti: aiuto nei confronti di qualche prigioniero, la piccola parte avuta nei crimini e l’irresponsabilità o diminuzione di responsabilità, perché commessi in esecuzione di ordini superiori.
Ma il certificato del 1931 dichiarava soltanto che il Mazzotti era rivedibile per “postumi di
bronco polmonite basilare destra”, cui faceva seguito la riforma dell’anno successivo per
tifo. Nessun documento di epoca posteriore, a fronte invece di un comportamento normale di intendere e di volere. Assurdo infine addurre la salute della moglie a prova della propria follia.
I rarissimi interventi a favore della liberazione di taluno (caso Aurelio Bandini) non possono equilibrare una condotta gravissima, sempre facinorosa, improntata a malvagità e
“vuota di scrupoli”. Nessuna remora e nessun pentimento nel suo collaborazionismo.
Il Mazzotti non era solo un esecutore obbediente ad ordini superiori, comunque illegittimi e da respingere se producenti reati, ma spesso autonomo e fattivo.
La difesa produsse pure un foglio matricolare, dove si attestava l’ottima condotta militare. Quale? E certamente brevissima, stante gli esoneri. Di più, l’unica esperienza militare, se
tale si può definire, era stata quella degli ultimi anni in divisa da B.N., pessima da un punto
di vista morale e militare. Da incompetenti, diremmo proprio che questa volta il dott. Vicchi
ha lavorato con scrupolo e precisione. Ma…
Ma non fu di quest’avviso la Cassazione, che sentenziò in Roma, in data 10 luglio 1946.
Scarse le motivazioni sull’omicidio del rag. Mario Montanari e sull’eccidio del Ponte degli
Allocchi, scarse le motivazioni sull’esclusione delle attenuanti generiche, scarse sulla confisca dei beni: rinvio pertanto alla Corte di Assise di Ancona. Un vero schiaffo per Ravenna.
E la Suprema Corte non si fermò qui, ma volle sottrarre al nuovo destinatario anche i
reati più gravi, decidendo in proprio e per sempre che negli omicidi non si ravvisava la premeditazione. Ergo, annullamento senza rinvio per questa fattispecie, fondamentale per l’accusa e i giurati di Ravenna.
Da ultimo, il contentino, con il rigetto per il “resto” del ricorso del Mazzotti. Quale resto?
Il resto di niente. Mica poteva nobilitare la bronchite a follia! Un autentico capolavoro di perfida sottigliezza, al limite della complicità o, con termine più moderno, della provocazione!
Decade pertanto ogni curiosità sul nuovo processo, in Ancona.
A zonzo per le osterie e per il paese
Non erano sempre impegnati i partigiani, anche se le ansie e le fatiche non cessavano
neppure nei nascondigli. Non sempre lavoravano i repubblichini e lo svago era vero svago,
specie per i camerati dislocati in località poco pericolose.
Giani Luciano poteva dirsi fortunato per questo. Dopo un breve periodo trascorso a
Ravenna nella GNR, con tanti capi, tanti colleghi e poco potere, era stato collocato in peri-
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feria, nel “forese”, tra Ghibullo e S. Pietro in Vincoli, a fronteggiare i noti oppositori, più antifascisti che partigiani, e soprattutto a controllare gli infidi Carabinieri. Fanatico era da prima
della guerra e fanatico rimase sotto Salò. Volontario, essendo nato nel 1902, non marcava
visita in occasione dei rastrellamenti sotto regia tedesca, relativamente comodi in pianura al
confronto di quelli di montagna. Il meglio di sé lo dava in pieno giorno, libero dal servizio,
ma armato fino ai denti, allorché poteva pavoneggiarsi per la strada e specialmente in osteria, insultando e minacciando quanti riteneva comunisti e antifascisti. Lo stile non cambiava
neppure in caserma, a S. Pietro in Vincoli, dove nel marzo del 1944 si rivolse ai Regi
Carabinieri con queste parole: “Cosa aspettate a togliervi questa rozza divisa e a mettervi
quella della Milizia”. Uno sbruffone. Poca roba.
Qualche volta, però, faceva sul serio. Nel dicembre del 1943, in occasione del noto episodio dell’aviatore caduto e della cattura di Ravaioli Dino, seguita da fucilazione, fu lui ad
indicare ad un ufficiale tedesco l’abitazione del Ravaioli (cosa confessata in giudizio) e lui a
catturare i suoi due fratelli, Enea e Sesto. Fu lui a sparare una raffica di mitra contro Lino
Focacci, senza colpirlo, lui a sparare contro l’appuntato dei Regi Carabinieri, Innocente
Viola, mancandolo. Poca mira o semplice “spavalderia” (secondo il suo dire)? Il Nostro sapeva essere anche gentile, come quel giorno di luglio in cui incontrò Mario Righini. Un sorriso ed una garbata domanda, terminata con un’occhiata all’inseparabile mitra. “Quando viene
a casa tuo fratello, lo adopererò anche contro di lui”.
Il 26 marzo del 1946 in Tribunale si presentarono in molti (Focacci, Righini, Ravaioli
Sesto, Giordani Augusto, Trombetti Primo, Ventimiglia Armando), tutti ad illustrare le gesta
o i comportamenti di questo sbruffone di città, talora pericoloso.
Giani Luciano, di Michele e di Miccoli Virginia Rosa, nato e residente a Ravenna, classe
1901, detenuto dal 20-11-45, fu condannato a 14 anni di reclusione e alla confisca di un quarto dei beni. Pena eccessiva se veramente il Giani aveva sparato senza volere colpire.
Amnistia alla vigilia di Natale.
Dalla vicina e remota Comacchio
Come cambia il tempo! Comacchio, una volta, era irraggiungibile e nessuno n’era dispiaciuto. Terra di “albanesi”, dalla parlata incomprensibile, di miseria assoluta, dove quasi tutto
era di frodo, dalla pesca delle anguille alla caccia, al legnatico, agli scavi archeologici. Per
quanto esperti fossero i padri nell’arte d’arrangiarsi, la fame dei numerosi figlioli restava
inappagata, tra sudiciume, umidità e carenza d’acqua. Era durissima la vita, e ricordava quella di Ravenna di duemila anni prima: “Dove i morti galleggiano e i vivi muoiono di sete”. Se
nessuno di Ravenna o di Ferrara (il capoluogo) era attratto dalle sue bellezze turistiche, i
comacchiesi ricambiavano di cuore. In città vi finivano solo in manette o per la visita militare, che, spesso, per fortuna, finiva con il sentenziare “rivedibile o esonerato”, a causa della
malaria o della tbc. Ad un comacchiese andato per motivi diversi nel capoluogo di provincia
e per una volta sola, rimase per sempre il soprannome, il Ferrarese. Eroi, nel loro genere, i
comacchiesi, fino al punto da conquistare la superbia dei bizantini con la storia più epica
dell’ultimo mezzo secolo (prima metà anni ‘60), quando il mancato furto di un camion nel
Porto di Ravenna (a due passi dalla stazione) si trasformò nella più spettacolare delle cacce
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all’uomo, il comacchiese Ivo Calzolari, con il fuggiasco che per giorni visse nelle fognature,
beffandosi delle ingenti forze di polizia e della più sofisticata tecnologia del tempo. Sarà
forse per questo che oggi il Comune di Comacchio, in riconoscenza, vuole entrare nella provincia di Ravenna. Auspicio ricambiato.
Il lettore perdonerà la divagazione, un intervallo dopo tanto sangue e violenze.
Un certo Giuseppe Luciani (tipico cognome comacchiese), classe 1916, di Antonio e fu
Giulia Bonazza, era nato a Comacchio, ma risiedeva a Ravenna. Costretto a condividere la
storia del Fascismo romagnolo-ravennate, vi apportò comunque lo stile della sua terra.
Durante le feste natalizie del 1943 aveva recuperato e nascosto armi (recuperato o prelevato?) del disciolto Esercito (o dei repubblichini?): scoperto, dovette indossare la divisa
della GNR, in data 21 gennaio 1944. Poco male, perché nelle funzioni di poliziotto poté fare
come prima, preferendo operare nei paesaggi acquatici che gli ricordavano la sua
Comacchio. Nell’aprile del 1944, lo troviamo, infatti, al mercato di Porto Corsini, a razziare
bestiame assieme ai tedeschi (bestiame, non pesce); a luglio nella fattoria Baldi in S.Vitale
(verso il mare): sempre bestiame, sempre coi tedeschi.
Un’altra volta, con la divisa della B.N., compare a casa di Federico Bertondini, in cerca dei
resti di un aereo tedesco (tedesco! Forse l’unico in tutta la Romagna) e, intanto che è lì,
minaccia il padre, non trovando il figlio partigiano. In altra occasione perquisisce e minaccia
il patriota Valentino Vicchi. In vero, più che minacce le sue sono indicazioni di uno scampato pericolo. Spesso agisce da visitatore solitario, portatore di disposizioni più o meno veritiere. “Questa moto (di Guerrino Binzoni) deve essere requisita. Ordine del Comandante
della Legione!”. Stessa cosa per le lattine di benzina e d’olio, presenti nella casa di Emilia
Vitali. L’incarico veniva dal Colonnello Scalzi, che lo aveva ricevuto dal Federale Montanari,
ripiegato al nord. Non era vero.
La Corte, in data 26 marzo 1946, avrebbe potuto essere più generosa. Partì dal minimo
di legge, 10 anni, e si fermò ad otto, più la confisca di un quarto dei beni.
Per l’Immacolata, Luciani, più guappo che collaboratore, sarà libero, immerso nel lungo
dopoguerra, ricco di un’infinità di occasioni, tra mercato nero e residuati bellici, tedeschi e
alleati. Al lettore non irritato dalla premessa è dovuta una postilla: fu punito come un criminale di guerra.
Una proposta viene dal cuore: allorché anche Ravenna, sull’esempio di Parigi e di Napoli,
scoprirà il fascino del turismo fognario, dedichi almeno la circonvallazione buia del Porto al
Principe del sottosuolo, all’Eroe di Comacchio, quello degli anni ‘60, che, in processo, osò
persino volare, per raggiungere con un pugno il suo giudice naturale.
A ventaglio
L’enfasi dei Giudici di carriera! Nel passato recente la carriera dei magistrati dipendeva
(pressioni della Massoneria a parte) anche dalla qualità delle sentenze scritte: contenuto,
chiarezza, stile. Se con questi criteri si dovessero valutare quelle della Corte d’Assise di
Ravenna - Sezione Straordinaria, si potrebbe affermare quanto segue. Complete ed organiche, esposte con prosa severa, quelle di Peveri; convincenti e sobrie, con qualche accenno
pittorico, quelle di Spizuoco; sbrigative ed incomplete, quasi telegrafiche, talora ironiche,
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quelle di Vicchi. In tutte, l’enfasi, quasi obbligata in caso di condanna, e condita, di quando
in quando, di pistolotti politico-morali, non travalica quasi mai i limiti. Sorge pertanto meraviglia nello scoprire che proprio il Vicchi sia incorso, almeno una volta, in un eccesso.
Gianon, al secolo Genunzio, un capo partigiano, con importanti incarichi nel dopoguerra (Questore aggiunto), aveva fatto quasi un caso personale dell’episodio, già narrato, accaduto in via Palazza di Santerno, nel marzo del 1944. Spari notturni contro di lui fuggitivo, in
risposta ai suoi precedenti spari.
Abbiamo già incontrato, in veste d’imputato, il Capo Pattuglia Allegri.
Ora tocca ad Aurelio Padovani, di Giovanni e di Veronica Ricci, classe 1916, nato a
Ravenna ed ivi residente, appartenente alla GNR, detenuto dal giorno di S. Martino del 1945.
Egli, assieme ad altri militi, si era steso a terra, a ventaglio, per impedire la fuga a Gianon e
gli aveva sparato. Ma chi poteva dimostrare che avesse sparato anche lui? Né Gianon, né
Vicchi, e Vicchi non si apprestò a farlo. Ma allora, se questo era il reato contestato (tentato
omicidio), perché condannare il Padovani? 6 anni e 8 mesi di reclusione, più la confisca di
un sesto dei beni, nonostante due attenuanti riconosciute.
Solo enfasi, con un pizzico d’ironia, o un gesto di subalternità (o di compiacenza) nei
confronti del Questore aggiunto (nomina CLN) desideroso di valorizzare al massimo uno
scampato pericolo? L’unico? Interrogativo questo malizioso, sollecitato dal turbinoso futuro
del personaggio (depistaggio per l’affare Manzoni e rottura clamorosa con la sua storia).
Questa volta la Cassazione non avrebbe dovuto avere alcuna difficoltà a cogliere nella
prosa, inconsapevolmente o volutamente caricata, il senso della sentenza, per annullarla,
perché il fatto non costituiva reato o per insufficienza di prove. Invece no, volle smentirsi,
riconoscendo equo il giudizio e mandando libero il condannato solo per amnistia.
Diabolico!
Da Corte a Corte
Era Capitato raramente fino ad allora che a Ravenna si giudicassero dei latitanti, cosa frequente invece a Forlì. Non è agevole dare una spiegazione di ciò. La chiave, forse, va ricercata nelle diverse destinazioni scelte dai fascisti romagnoli al momento della ritirata al nord,
forse nei canali protettivi, più funzionanti per chi proveniva dalla terra del Duce, o in una
più estesa complicità locale, o in un minore coordinamento tra Carabinieri, Questura e
Polizia partigiana, o in ritardi e contrasti sorti all’interno dei Commissariati per le sanzioni
contro il fascismo, o nella natura del territorio, o forse nel caso. Un tema questo che potrebbe rappresentare il fulcro di una di ricerca a sé.
Chissà se simili interrogativi sono corsi nelle menti dei giurati di Ravenna allorché ricevettero le carte processuali su un forlivese, già comparso alla sbarra il 25 giugno dell’anno
precedente, proprio presso la Corte di Forlì.
Si chiamava Spinacci Bruno, fu Remo e di Delia Bernardini, nato nel 1925 a Forlimpopoli,
latitante, ricercato per collaborazionismo, partecipazione a rastrellamenti e uccisione volontaria di due partigiani in quel di Lugo. Altro non emerge, né il luogo preciso e la data dei
rastrellamenti, né le circostanze del duplice omicidio, né i nomi delle vittime.
E ciò, nonostante la comparsa al processo di diversi testimoni, tutti partigiani, Angelo
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Prati, Livio Vitali, Vincenzo Maggiori e Luciano Leoni, e tutti credibili. Lo Spinacci, in divisa
della GNR, aveva detto loro di avere ucciso un partigiano a Lugo e uno altrove. La situazione era imbarazzante. Malafede o equivoco?
Vero o falso che fosse, non si poteva condannare uno per una possibile vanteria. Così si
orientò la Corte di Ravenna, 2 aprile 1946, assolvendo per insufficienza di prove.
A tempo pieno
A cinquant’anni non si fanno le cose a metà. Se si è impegnati in una guerra al fianco dei
tedeschi, bisogna collaborare fino in fondo. Nella ricerca, per loro, del cibo e dei mezzi di
trasporto, nelle requisizioni, nei rastrellamenti necessari per logiche militari o per rappresaglie. Se la morte di un soldato tedesco deve valere più di quella di un fascista, così sia.
Questo doveva essere più o meno il sentire di Drei Francesco, fu Vincenzo e di Angela
Alvisi, nato a Riolo Bagni nel 1893, meccanico, detenuto dal 22 maggio 1945. Il suo modello umano era quello delle SS, cui si avvicinava soltanto il Capo delle B.N. di Faenza, Raffaeli.
Drei fu Segretario del Fascio di Riolo e Comandante della locale Brigata Nera, talora alternando gli incarichi, più spesso gestendoli assieme.
Una volta, era il 21 settembre del 1944, in seguito all’uccisione di un militare tedesco, si
mobilitò con tutti i militi a disposizione per rintracciare i colpevoli in località Scrodina
(Riolo). Ma gli uomini, preavvertiti, se l’erano svignata. Crebbe il furore ed allora arrestò
mogli, figlie, madri, tutte contadine (Ardea Dal Monte, Anna Zannoni, (?) Maria e il figlio
Matteo Corelli), tentò di uccidere la Dal Monte e schiaffeggiò la Giuseppina Donegaglia che
si rifiutava di rivelare il nome dell’uccisore del tedesco. Lo conosceva? Chissà! Replica il giorno successivo: incendi delle case e dei fienili, rapina di vestiti, mobili, bestiame, cibarie e
denaro.
Così, da esperto, il 6 ottobre si unì a Raffaeli in un’analoga razzia nelle case dei Casadio
e dei Cavina a Tebano di Faenza (già descritta) e, dopo 10 giorni, a Villa Vezzano, in comune di Brisighella. Arrestati Battista Bertozzi, Armando Gagliani, Zanzani Emilio e Massimo,
Laghi Umberto, Antonio e Luigi, Linguerri Alfredo, e spoliazione di diverse case.
Il fronte si stava avvicinando e la recrudescenza era ritenuta necessaria. Ma il Drei non
era rimasto con le mani in mano neppure durante i mesi precedenti. Percosse al partigiano
Luigi Sartori, cattura della fidanzata di un Passini e dell’intera famiglia di Angelo Mazzanti, la
cui moglie fu fucilata dalle SS per complicità con i partigiani; prelievo della famiglia del dott.
Molina, capo dei servizi logistici partigiani in zona; denuncia ai tedeschi di alcuni ribelli, poi
arrestati; sequestro di un’automobile e di cinque ruote di proprietà di Alberico Minerbi e di
un camioncino di Gustavo Sassi. Da ultimo, cattura del patriota Pietro Zanotti e distruzione
della caserma dei Carabinieri di Riolo.
I Rossini non li aveva trovati in casa e quindi distruzione dei mobili e furto di 58.000 lire.
Stessa cosa nella casa di Egisto Tronconi, dove alla madre furono sottratti orologi, braccialetti ed altro, rapina preceduta da raffiche di mitra ai fuggiaschi. E, intanto che c’era, visitò
anche la vicina abitazione di Giovanni Ciani, da cui asportò lire 4.500, scatole di … ed altri
oggetti. Al processo i fatti furono confermati e la personalità del Comandante emerse nei
particolari, nella ferocia e nelle frasi chiarificatrici. Al padre dei Laghi: “Uno sarà fucilato e gli
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altri due in Germania”. Ai prigionieri interrogati a Villa S. Prospero: “Così imparate ad avere
dei parenti comunisti”. Confermata anche la distruzione della caserma (teste Luigi Varano).
Infine fu di difficile valutazione la dichiarazione di Maddalena Cavina, certa di avere letto un
documento firmato dal Drei, che invitava ad eliminare suo padre perché uomo pericoloso.
A suo favore un unico episodio: la liberazione dal carcere del parroco di Ossaro (?), don
Fernando Montanari. Troppo poco perché la Corte concedesse le attenuanti, viste le pessime informazioni fornite dalla PS e la provata attività facinorosa e spietata dell’imputato.
Anni 20 di reclusione e confisca di un quarto dei beni (strano calcolo). Ravenna, 2 aprile
1946. Nessun cenno su ricorsi od altro.
Orchideo di Ravenna
Odiato fino alla fine dei suoi giorni dagli antichi avversari, disprezzato dai suoi, Orchideo
Mazzotti, detto Pignat (da non confondere con Delio Mazzotti, già visto), è stato tra i pochi
repubblichini di Ravenna a raccontare sulla piazza innumerevoli misfatti, senza tralasciarne
gli aspetti più raccapriccianti (le sevizie a Celso Strocchi, ad Umberto Ricci, ecc.). Nel suo
dire ritornava sempre il nome di una località, il Fossatone (in mezzo alla Pineta), descritto
come un avamposto contro il nemico, in cui egli aveva soggiornato a lungo, incurante dei
pericoli. Un coraggioso voleva apparire. L’uomo, nel volto, nel corpo, nei gesti, nel parlare,
suscitava e descriveva immagini di violenza e d’orrore, quasi a conferma delle teorie lombrosiane (grosso cranio, fronte e mascelle pronunciate, occhi infossati e freddi). Vanterie per
alcuni, di pessimo gusto, ma vanterie, per impressionare le nuove leve del fascismo e per
mandare avvertimenti ai vecchi camerati, divenuti distaccati uomini d’ordine e d’affari,
disturbati così dai messaggi ricattatori.
Opposto l’atteggiamento da imputato, il 2 aprile del 1946, quando in stato di detenzione
comparve davanti alla Corte (Pres. Vicchi, Maresi, Giannotti, Bartoletti, Bartolazzi). Quasi
nessun’ammissione in merito ai fatti contestati: solo l’iscrizione alla GNR, forzata; un unico
colpo di moschetto in alto, per intimorire un individuo che si era dato alla fuga (al
Fossatone); a Vecchiazzano (già visto) era rimasto fermo in auto. Si era mosso dalla zona valliva verso nord alle colline forlivesi.
A differenza d’altri camerati, Orchideo spaziò in molte direzioni. Un originale nel suo
campo. Come componente dell’Ufficio Investigativo (81a Legione) soleva avventurarsi
sull’Appennino Romagnolo fingendosi partigiano, per poi ritornarvi in forze; si univa agli
altri nei rastrellamenti in Pineta; gli piacevano i plotoni d’esecuzione e il terrore degli arrestati; entrava dovunque si torturasse, alla “Sacca”, al carcere, alla Caserma Garibaldi, alla sede
del Fascio, ecc. E, quando i camerati ripiegarono al nord, Orchideo restò in zona, aggregandosi a formazioni tedesche in operazioni di guerra e in rappresaglie. Vediamo meglio. Fu tra
gli ideatori e gli esecutori della trappola antipartigiana di Vecchiazzano di Forlì, conclusasi
con diversi arresti e l’uccisione a bruciapelo di Carlo Fantini, il 4 maggio 1944 (vedi il processo al cervese). A Primo, di fronte al cadavere del fratello, disse che l’avrebbe operato
d’appendicite a Forlì con un colpo di fucile. Partecipò, insieme alle SS, a molti rastrellamenti nella zona di Faenza e di S Sofia, dove la maggior parte degli arrestati venivano passati per
le armi (deposizione di Sergio Morigi).
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Fu al cimitero di Ravenna ai primi di gennaio del 1944, quando fu giustiziato Dino
Ravaioli per avere soccorso il famoso pilota, “giustiziato”, a seguito della sentenza del
Tribunale della Federazione Fascista. Calci in faccia al Dino Ravaioli morente, “che non voleva morire e gli si aggrappava alle gambe”. Parole sue, dette pochi giorni dopo la fucilazione,
allorché si presentò nella chiesa del cimitero: testimoni Livio Danesi e Aurelio Balella.
Quest’ultimo, forse becchino-custode, assistendo all’esumazione del Ravaioli vide le mani
ancora in atteggiamento di difesa, rattrappite, forse sepolto ancora vivo.
Fu tra i collaboratori, per scelta propria, del più macabro episodio avvenuto a Villanova
di Bagnacavallo: l’impiccagione di tre civili (un quarto sfuggì al cappio) ad opera dei tedeschi, a seguito dell’uccisione di un ufficiale. All’eccidio di Antonio Bandoli, Fausto Fantoni e
Matteo Morelli fu presente l’intero paese, testimone collettivo, a differenza della fucilazione
dei tre patrioti ad opera delle Brigate Nere, svoltasi senza testimoni. In quella giornata di
autunno (16 novembre 1944), su per la rampa, donne e uomini muti seguivano il tragico
rito. Per tutti, oggi, fu un crimine esclusivamente nazista, nonostante il dolente coro avesse
visto uomini in camicia nera, tra cui il più baldanzoso era Orchideo, con la corda in mano e
il martello (testi Bandoli Luigi ed Aurelio).
Fu ancora, nell’ottobre del 1944 a Villa Albero (dell’Albero), un mese prima della strage
di 56 civili, agli ordini di Andreani a perquisire la casa di Luigi Rosetti e ad arrestarne il figlio
Carlo e, in date imprecisate, a prelevare arbitrariamente il bestiame (60 pecore) e un barroccio di Mario Martini, a catturare Francesco Donati (minacciato di morte e seviziato), a consegnare alle SS Serafino Bagnoli e Aurelio Balella, da lui catturati, ad asportare una radio di
Riccardo Ori, a setacciare la Pineta S.Vitale in cerca dei partigiani che avevano fatto prigionieri due militi della B.N., a fucilare al Ponte degli Allocchi. Ma abbiamo dimenticato il
Fossatone. Un giorno egli partecipò all’arresto di Turci Umberto, Cocchi Angelo e Gardelli
Guido, convenuti per uno spuntino in valle e s’impadronì del capanno del Turci. Da lì partiva per riferire in Federazione a Ravenna sui movimenti sospetti dei partigiani e per prelevare bestiame in compagnia dei tedeschi. Lì collocò il suo quartier generale, per portarvi
donne sottratte al nemico, compresa una vedova, per sparare alle ombre, per aiutarvi qualche sfollato. L’uomo, ovviamente, non era amato, e un giorno un grappolo di bombe a mano
raggiunse il “suo” capanno. Da allora, si mise a sparare, senza preavviso, contro i disgraziati
che passavano di lì (Domenico Fanciullini, il 9 settembre del 1944) e a sequestrare ogni figura sospetta (Bagnoli e Balella).
La Corte rimase incerta solo sulla partecipazione all’eccidio del Ponte degli Allocchi.
La condanna meritata era quella che scaturiva dal Codice Penale di Guerra: la morte. Ma,
per i soccorsi prestati ad alcuni cittadini (Eugenio Poli ed Enrico Ghini), la pena per
Orchideo Mazzotti, di Armando e di Elettra Vancini, nato a Ravenna, classe 1915, detenuto
dal 3 ottobre del 1945, fu stabilita in anni 30 e la confisca della metà dei beni.
Nell’aprile del 1947, la Cassazione annullò la sentenza e rinviò Orchideo alla Corte di
Assise di Bologna. Nient’altro nelle carte ravennati. Il definitivo destino processuale in “Fuori
Sacco”. Tornato libero, il Mazzotti formerà una cooperativa di facchini, reclutati tra gli ex
repubblichini, utilizzata nelle azioni di crumiraggio contro le lotte bracciantili degli anni ‘50
ed assunta nella rete dei subappalti della Sarom. Un ritorno agli anni ‘20!
Dunque, Orchideo Mazzotti non appartiene a quella schiera di ex fascisti, che nel dopoguerra preferiranno restare in ombra, anzi, per oltre trent’anni si vanterà persino di crimini
non addebitatigli al processo, o non commessi, e si recherà di tanto in tanto anche a
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Villanova di Bagnacavallo, che lo aveva visto, unico tra gli italiani, protagonista dell’eccidio
tedesco.
Prima di lasciarlo definitivamente, vale la pena richiamare un insolito episodio che in
parte lo sfiora. Un giornalista de “La Voce di Romagna” nel luglio del 1945 aveva ottenuto il
permesso di visitare il carcere e, cosa sorprendente, di ascoltare alcuni interrogatori condotti dal magistrato inquirente. L’imputato del giorno era Primo Poletti, l’ex impiegato dell’anagrafe, arrestato al nord mentre beveva un caffè. Prima di lui era comparsa una donna, bella
giovane, dai grandi occhi neri, dal nome misterioso, Obreana (senza cognome).
Ovviamente, tutti a Ravenna la ricordavano, tanto più che la giovane, qualificata come staffetta delle B.N., era solita pavoneggiarsi in divisa, con cinturone e pistola, spesso in compagnia di Pignat, il suo amante. A pensarci: lui aveva lineamenti marcati, zigomi sporgenti,
capelli nerissimi ed un fare spavaldo, da “cattivo”, sì da suggerire il tipico personaggio messicano dei films western. Analogamente per Obreana, la donna del bandito.
Più burocratico il dire della Questura: trattasi di Tramonti Obrana, residente in via Natisone, 12.
Nessun seguito giudiziario.
Saccheggio della Saccheria Ravennate
Un fatto inedito. Finora la “Callegari” era entrata nei processi solo per l’impiccagione di
una sua operaia, la Lina Vacchi. Di questo nuovo reato (il saccheggio della Saccheria) fu
incriminato Arturo Zanzi, fu Francesco e fu Ravaglia Giulia Desolina, classe 1903, di Ravenna.
La colpa fu dimostrata, ma il Presidente non ha voluto lasciare traccia (luogo, data, modalità, quantità della refurtiva).
Tra le altre imputazioni: la cattura di Zoli Achille, Aldo e Mario e l’uccisione di quest’ultimo, la cattura di Di Janni Domenico (poi fucilato al Ponte degli Allocchi), l’uccisione di Zoli
Francesco, Melandri Ildo e Corniola Leonello, la cattura di Beniamino Rossini e di Forestieri
Antonio e Paolo, la rapina di una motocicletta di proprietà di Eva Maltoni, la partecipazione
all’eccidio del Ponte. Tutti i misfatti, compiuti in divisa della B.N., furono respinti dallo Zanzi,
tranne il furto della motocicletta.
Tra i testimoni anche un certo Eolo Minardi (forse per il saccheggio della Saccheria).
La Corte raggiunse la certezza della colpa per quasi tutte le imputazioni, ad esclusione
dell’eccidio e della fucilazione di Zoli, Melandri Corniola. La pena prevista, quella di anni 10
di reclusione, fu ridotta ad anni 6 e mesi 8 per la collaborazione dimostrata nei confronti dei
partigiani, ai quali aveva fornito armi e informazioni sui rastrellamenti previsti. Amnistia
scontata? No, la Cassazione concesse soltanto il condono di anni 5. Se lo Zanzi non avesse
aiutato la Resistenza, forse avrebbe beneficiato di un provvedimento più favorevole!
P. S. Da memorie di famiglia (di Dore, allora di appena dieci anni) risulta che in una Villa
Callegari, sita tra Santerno e Piangipane (Strada Palazza), fu consentito, anzi stimolato l’assalto, in cerca delle scarpe “imboscate”. Corale l’adesione dei passanti, con Dore che tornò
sconsolato con una sola scarpa. Da ricordare, cosa più importante, che in un’altra Villa
Callegari (poi Ferruzzi), quella del Borgo S. Biagio, l’unica nascosta da alberi, aveva sede il
Comando Germanico.
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Un giallo del Borgo S. Rocco
Non si saprà mai. Eravamo ai primi di maggio del 1944. Ravenna aveva dimenticato da
tempo la tradizione festosa delle giostre e si era abituata a convivere, se non con i bombardamenti, almeno con l’oscuramento e gli allarmi. Cessati i quali, come dopo un acquazzone, la gente usciva per godere gli ultimi scampoli della sera. Tre amici, Romolo Ricci,
Roldano Melandri e Alfredo Armuzzi, il giorno 3 del suddetto mese stavano dirigendosi
verso il Borgo S. Rocco, quando ad un tratto videro un personaggio poco raccomandabile.
Non era in divisa, forse non portava armi, ma era meglio non fidarsi. Qualcuno lo aveva
dipinto come un fautore dei nazifascisti. Si chiamava Gaetano Morelli. Meglio separarsi. Ma
le sorprese non erano finite. Davanti alla casa della famiglia Bonini, in via Bastioni, al numero civico 6, sostava un terzetto di militi armati. Un nuovo pericolo. La paura prese il sopravvento sulla finta indifferenza. Correre non si poteva, accelerare il passo neppure, ma la cosa
sembrò fatta: nessuna intimazione di alt…. Sennonché, ad un tratto, dal Morelli partì un terribile invito: “Sparate! Sparate!”. Ed una raffica di proiettili rispose. Colpi da più armi o da
un’unica arma? Due degli amici riuscirono a fuggire, il terzo, Romolo, cadde a terra ferito
mortalmente.
Dopo la liberazione della città o dell’intera Italia, si seppero i nomi della ronda fascista,
Antonio Plazzi, Sauro Fogli e un certo Sciottola, Capo Pattuglia, tutti arruolati nella GNR. Ma
chi aveva sparato e chi aveva ucciso? I sopravvissuti potevano avanzare solo delle ipotesi o
delle personali convinzioni, poiché gli spari erano partiti da dietro e perché in simili
momenti neppure il più freddo degli uomini può esprimere certezze.
C’era chi incolpava il Capo Pattuglia, chi il Plazzi, chi il Fogli e chi il Morelli stesso. Due
testimoni per quattro diversi colpevoli. E se avessero sparato tutti? E, cosa più probabile, la
responsabilità maggiore andava attribuita al Capo ronda, tranne che i tre non avessero ubbidito, per automatismo psicologico, ad un ordine esterno, quello del Morelli. E nei due casi,
nessuno era in grado di dire, almeno tra gli scampati alla morte, chi aveva mirato alla figura,
chi era stato più lesto o con più mira e chi aveva sparato in alto o di lato. Comunque fosse,
i reati commessi andavano dal concorso in omicidio al tentato omicidio.
Al processo, il 3 aprile del 1946, comparve soltanto il Fogli Sauro detto Luciano. Nessuna
notizia degli altri tre. L’imputato attribuì la colpa al Plazzi, pur ammettendo di avere sparato
anch’egli, per obbedire ad un’intimazione, non per fare centro.
I Giurati, in un gioco di dubbi, di probabilità e del loro contrario, si accostarono alla versione dell’imputato, convinti anche dal suo operato successivo: aiuto a bande partigiane e
partecipazione ad azioni contro i tedeschi (teste Gino Matteucci).
Pertanto Fogli Sauro, detto Luciano, di Vito e di Colomba Trombini, classe 1925, di
Ravenna, detenuto dal 27 giugno del 1945, fu assolto per insufficienza di prove.
Una sentenza indubbiamente benevola, in cui le attenuanti cancellarono la colpa.
Doppio processo
Molti fascisti, collaborazionisti o responsabili di crimini, l’hanno fatta franca perché non
individuati, fuggiti in tempo, raccomandati, ingiustamente assolti o salvati in extremis dalla
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Cassazione. Altri, meno fortunati, sono dovuti passare tra equivoci e paradossi senza fine,
segnati da interrogatori ripetuti, avanti e indietro dalle Carceri e dai Palazzi di Giustizia.
Tra gli sfortunati la palma andrebbe data a Giuseppe Babini, fu Guido e di Paola Argelli,
nato a Ravenna nel 1898 ed ivi residente.
Questi fu processato il 9 aprile del 1946 con l’imputazione di avere denunciato alla
Federazione Fascista Repubblicana ben cinque concittadini, Paolo e Romeo Marchetti,
Giovanni Barlati, Bruno Marani e Pasquale Servidei.
Una spia maldestra o a sua volta tradita. Cinque denunce, separate l’una dall’altra, non
potevano nascere certo da pregiudizi o da malevolenza privata.
Da qui il rapporto della Questura e l’arresto del Babini, in data non chiara.
A conferma del suo ruolo di spia era pervenuta una seconda dichiarazione ostile da parte
di certo Giacomo Chellini, al quale il Nostro, per vanità, aveva confessato di essere nientemeno che un agente segreto di polizia (qualifica suggestiva e misteriosa, incomparabile con
quella di spia e delatore). Un pessimo agente però, troppo chiacchierone.
La Corte sbrigò la pratica in breve tempo, non perché la colpevolezza fosse evidente o
dubbia, ma perché (follia!) il Babini era stato processato per la prima imputazione già il 27
settembre del 1945 ed era stato assolto dalla medesima Corte con sentenza passata in giudicato. Incredibile ma vero.
Ma, ad essere superficiali o generosi, a motivare il nuovo rito e la nuova detenzione restava la seconda imputazione.
Sennonché il teste Chellini dichiarò che il segreto gli era stato rivelato da uno, omonimo
del Nostro. Indicibile! E i confronti in istruttoria? Sia scarcerato immediatamente! A chi la
responsabilità di tale grottesca situazione? Introvabile, come in un processo kafkiano.
Pro memoria
Di tanto in tanto fa bene incontrare certi imputati, perché essi, indipendentemente dalla
colpevolezza, consentono di ripassare gli eventi che hanno fatto la storia di un determinato
territorio.
Ravaioli Ettore di Faenza è uno di questi, figlio di Oreste e di Livia Bertuzzi, classe 1922,
detenuto dal 3 agosto 1945 con le imputazioni che seguono:
1) luglio 1944, Rastrellamento di Brisighella, 200 persone prese, deportate in Germania;
2) agosto ‘44, Rivalta di Faenza, 5 civili fucilati;
3) 5 agosto ‘44, Strada Casale di Fognano, 5 fucilati, prelevati dal Carcere di Forlì;
4) settembre ‘44, Monte Romano, molti morti, feriti, prigionieri della “36a Brigata Garibaldi”;
5) settembre ‘44, Vespignano di Brisighella, cattura di molte persone;
6) settembre ‘44, S. Stefano di Fognano, fucilazione di Zauli, Conti, Bellini, Mordini e Gonnelli;
7) ottobre ‘44, Montecchio di Brisighella, cattura di don Lanzoni Antonio, fucilato a Bologna;
8) 6 ottobre ‘44, Parrocchia di Pergola, cattura di Alboni Lorenzo e Luigi, saccheggio delle case;
9) data non riportata, Rastrellamenti di Castelnuovo, S. Mamante, Monte Mario, Pietramora.
Presente a tutte queste operazioni il Ravaioli era accusato inoltre di altri fatti specifici.
Il saccheggio delle abitazioni dei patrioti Liverani Sesto e Melandri Stefano, l’estorsione
di lire 20.000 in danno di Fantuzzi Ginanni Gabriele, l’asportazione di un’automobile di pro-
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prietà di Liverani Tommaso, di una radio di Caroli Luisa (basta con questa radio!), le violenze e gli abusi in danno di Faccani Giovanni e Saviotti Pompeo e dei loro beni, l’uccisione di
Bellini Domenico.
Al processo l’imputato ammise solo l’arruolamento alla GNR e alle B.N.
Di diverso avviso la Corte (9-4-46), che lo ritenne responsabile di tutte le imputazioni, ad
esclusione di quelle più gravi, uccisione di ostaggi. Più ladro che assassino, come dimostravano anche i suoi precedenti penali, due condanne per furto. Pertanto lo condannò a 12
anni di reclusione e alla confisca di un quarto dei beni, i suoi. Nessuna attenuante, vista l’impietosa relazione delle forze di polizia. Nessuna carta sull’iter giudiziario successivo.
Da Ravenna a Domodossola
Nei processi di cui parliamo, i fatti di Romagna in genere emergono chiaramente all’attenzione, visti a distanza o sotto la lente, nel mutare degli imputati e dei testi, dei i ruoli e delle
complicità; o nel dilatarsi dei contorni, nel mutare del linguaggio usato e delle suggestioni.
Totalmente diversa l’attenzione sulle operazioni condotte al nord e ai relativi crimini. Poco o
niente si narra, come se la storia e la guerra si fossero fermate all’ottobre del 1944. Si dice a
malapena che i brigatisti sono ripiegati nel Veneto o in Piemonte, quasi si trattasse di un’emigrazione e non di un prolungamento della lotta antipartigiana al fianco dei tedeschi. Dal
silenzio esce raramente qualche cenno, un nome, una località. Bisogna approfittarne.
Collaro, un borgo in provincia di Novara, verso Domodossola, fu oggetto di una rappresaglia (quando, ad opera di chi, quante vittime?), durante la quale si era distinto un ravennate, certo Ricci Domenico, classe 1902. Era stato lui a depredare la casa del parroco, don
Carlo Toni, e a sparare contro il dott. Cavini Luigi, ferendolo.
Più di un anno prima, in Ravenna, egli aveva arrestato uno ( Valentino Vicchi), perché
aveva ascoltato la radio inglese.
Era il 30 gennaio del 1944, mese nel quale il Ricci avrebbe partecipato anche all’uccisione di Celso Strocchi (in vero, il 12 dicembre 1943) e, nel febbraio, a quella di Cortesi
Menotti, nonché al ferimento di Bartolotti Bartolo. Nel maggio lo troviamo a casa di Guido
Montanari a sequestrare un apparecchio radiofonico; nel luglio (inesatto, era agosto) ad
arrestare i due forestieri (citati), un tale Beniamino ed altre persone, come risposta all’uccisione di Cattiveria; nel luglio (esatto) a catturare due antifascisti, Livio Bruschi e tale
Righini, a seguito dell’uccisione di Scciantén; ad agosto a presenziare all’eccidio del Ponte
degli Allocchi, dopo avere ricercato ripetutamente il prof. Montanari e prelevato Di Janni
Domenico (entrambi uccisi). Il 29 giugno aveva trovato anche il tempo per fare una recluta
del Fascio, Pietro Cottignoli, costretto ad iscriversi con minacce, non prima di avergli rubato una pistola.
Al dibattimento l’imputato ammise solo le perquisizioni e gli arresti. Non sparò al Cortesi,
cosa vera perché a farlo era stato Mazzotti Delmo (come da condanna), era assente alla rappresaglia del Ponte degli Allocchi. In vero, il camerata Agostino dichiarò che il Nostro era
stato di guardia al Ponte la notte precedente (particolare mai emerso), mentre il povero
padre del prof. Montanari, alla disperata ricerca dei responsabili dell’uccisione del figlio,
dichiarava di aver sentito una “voce di donna riconosciuta”, secondo la quale il morituro si
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sarebbe raccomandato proprio al Ricci di salvargli la vita per riguardo a sua madre.
Neppure questa volta la Corte riconobbe gli sforzi del Montanari padre, ed escluse l’imputato dai partecipanti all’eccidio. Quindi: il Ricci Domenico, fu Francesco e di Olinda
Campanini, di Ravenna, nato nel 1902, detenuto dal 6 giugno 1945, uomo dagli istinti sanguinari, andava ritenuto colpevole di collaborazionismo, lesioni, sequestri di persona, violenze ed estorsione: per un totale d’anni 30 (trenta), con l’aggiunta del sequestro di un quarto dei beni (9 aprile 1946)
Una pena indubbiamente poco equilibrata, solitamente riservata ai responsabili di omicidi plurimi, destinata ad ingloriosa fine sotto le forche caudine della Cassazione, la quale non
si fece pregare nell’aprile dell’anno successivo ad annullare la sentenza, senza rinvio ad altra
sede. Uno squilibrio opposto.
Non era Gervasio
Era certo che si chiamava Gervasio Foschini, che era nato a Bagnacavallo nel 1916, che
dimorava a Faenza, che era detenuto dal 16 marzo del 1946 (a differenza degli altri fascisti,
reclusi dal 1945). Non si sa se fosse un repubblichino, se arruolato nella GNR o nelle Brigate
Nere. Poco altro si poteva dire su di lui. Ma la Questura, sulla base di testimonianze raccolte nella zona faentina, era pervenuta alla convinzione che Gervasio si fosse distinto, o quanto meno fatto riconoscere, in data 6 ottobre 1944 nel rastrellamento che aveva investito
Pideura, Pergola e Tebano.
In tre (Mario Gaddoni, Emma Corelli e Anna Alboni) avevano giurato che quel personaggio sconosciuto era proprio lui. Ma al processo dichiararono che si erano confusi. Non certo
per omonimia. Solo rassomiglianza con lo sconosciuto, che tale ritornò.
Per fortuna giunse un angelo salvatore, tale Angelo Placci, il quale rassicurò i giurati. Quel
giorno Gervasio si trovava altrove (finalmente un alibi!).
La sera del 10 aprile 1946 lo sfortunato Gervasio, dopo quasi un mese di carcere, riabbracciò i suoi.
Una questione di diritto
Cambia radicalmente la scena. Da un povero diavolo, dal nome sfortunato, si passa ad un
pezzo da novanta, un Tenente Colonnello, eroe di mille guerre; da un avvocaticchio di provincia ad un professorone di Università. “Non si discuta del fatto contestato, ma di diritto e
di competenze”. Secondo la difesa, infatti, la Corte di Ravenna non poteva giudicare un militare, che, trovandosi in servizio alla data dell’8 settembre 1943, doveva essere deferito al
Tribunale Militare di Guerra.
In subordine, la collaborazione con il tedesco va dimostrata e non può essere presunta
derivandola automaticamente dai ruoli ricoperti. L’imputato, Colonnello in alcuni passaggi,
era stato componente di un Tribunale Militare e non di un Tribunale Straordinario di Guerra,
ed in tale veste era obbligato ad obbedire, anche se l’ordine fosse stato illegittimo. Quindi,
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nessuna collaborazione.
Lasciamo per un attimo le sottigliezze giuridiche ed avviciniamoci ai fatti.
Tosi Lombardo, fu Giacinto e di Ferrari Azzarotti Elena, classe 1888, nato a Modena e residente a Ravenna, nei primi mesi del 1944 era addetto al Comando Militare Provinciale di
Ravenna. Un giorno di marzo, il 25, fu convocato dal Generale Bosconi, che gli comunicò la
nomina a componente del Tribunale Militare di Guerra, che doveva giudicare 14 giovani,
alcuni disertori, altri renitenti (storia già raccontata). Egli, ovviamente secondo i giurati,
“non poteva sottrarsi all’ingrato compito” e di conseguenza diventava irrilevante la sentenza emessa in quel tribunale: pene varie ad undici soldati e condanna a morte per tre ragazzi, Baldassarri, Zauli e Tasselli, colpevoli di essere rientrati con ritardo in caserma, costume
diffuso in quei giorni.
La Corte ( Vicchi, Nediani, Bartoletti, Triossi, Bartolazzi), in armonia con una precedente
sentenza, accolse per intero le tesi della difesa, tranne l’obiezione dell’incompetenza, e
dichiarò il Tosi incolpevole perché il fatto non costituiva reato e ne ordinò l’immediata scarcerazione (10-4-46). Neppure una parola di censura morale e neanche la curiosità di sapere
come aveva votato il Nostro in merito alle fucilazioni. Poco mancò che il Presidente si mettesse sull’attenti di fronte ad un “valoroso ufficiale”, superdecorato di guerra (teste il col.
Reposo), ingiustamente detenuto dal 27 agosto del 1945. Lezione numero uno: l’Esercito
non si tocca.
Una sentenza disarmante!
Faenza è in Romagna
Si dice e si scrive che, da Imola al mare, Faenza sia la meno romagnola delle città, più religiosa e misurata, meno godereccia e passionale. Connotati rivendicati con orgoglio aristocratico o affibbiati con popolaresca inverecondia. A leggere queste pagine, invece, sorge l’impressione che simili asserzioni affondino in luoghi comuni, privi di fondamento nella realtà,
almeno per quanto riguarda i riscontri giudiziari. Troppi gli esempi di segno contrario.
Uno di questi sta nelle carte processuali del 10 aprile del 1946, con imputati due fratelli,
Ghinassi Oreste ed Elio. Non tutto è narrato come si deve (date confuse o approssimative e
salti logici); altro, fondamentale per la comprensione, appare sfocato; altro ancora resta
fuori del tutto. Diventano così obbligate fonti esterne, giornali e brevi saggi. Usciamo subito dal generico.
La storia e le storie affondano nei primi anni del regime fascista, solitamente affrontati dalla
Corte con eccessivo distacco, da miopi, come se il ventennio appartenesse agli antenati.
Anno 1925 a Faenza. Mussolini aveva vinto. Gli avversari erano in ginocchio ovunque. Ma
gli squadristi, per non sentirsi superati, riempivano ancora gli spazi della società, con “repulisti” e lezioni “meritate”. Sfoggio di forza e di prepotenza sotto i portici, nelle osterie, al
campo sportivo, sul lavoro, al ballo, prima e dopo le cerimonie religiose. La Polizia lasciava
fare, cercando al massimo di limitarne gli eccessi; la Magistratura era più impotente che
complice. Gli oppositori tacevano, si nascondevano o si dedicavano ad altro, alcuni scoprendo la bellezza della vita familiare. Meno disposti alle rinunce erano ovviamente i giovani
ribelli, che, a rischio di botte e di umiliazioni, volevano fare politica o, quantomeno, stare in
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mezzo alla gente.
Giovanni Bertoni era tra questi, uno studente diciannovenne, antifascista e impegnato
nel Partito Comunista. La sua casa aveva subito due visite incendiarie e lui stesso era ormai
abbonato ai pestaggi, agli sberleffi, alle torture. Una volta era stato costretto a ritornare a
piedi, legato ad un carro, dalle Terme di Brisighella, con gli squadristi a canzonarlo: fatiche
e sofferenze morali rese ancora più pesanti da un difetto fisico. Bertoni, finito da ragazzino
sotto una ruota, era rimasto zoppo. Dal Liceo Classico era stato cacciato. Un altro giorno era
stato sequestrato, condotto nelle cantine del Circolo Iris e sottoposto alla prova della canna
sotto le unghie. Solo in una circostanza non ebbe la peggio.
Era il mese di marzo. Festa di San Lazzaro. In un Caffè di Borgo Durbecco entrò un fascista isolato, forte e sbruffone, un certo Premoli, che si presentò così: “Un caffè alla Mussolini.
Cerco comunisti da spaccargli la testa!”. Finì all’ospedale e fu arrestato un certo
Scarabocchio, compagno di Giovanni Bertoni.
Viene il 7 aprile. Il giovane Bertoni ha la sfortuna di incontrare le Camicie Nere faentine
per ben due volte nella stessa mattinata. Doppia lezione a suon di bastoni e di nerbo di bue.
Il furore ormai supera di gran lunga il dolore e, a pranzo, le parole consolatorie del padre
poco possono fare. Giovanni, lo Zoppo, con determinazione e freddezza è lapidario: “A me
non ne danno più!”.
L’indomani (non nel secondo semestre come scrive Vicchi), nel pomeriggio, Giovanni
incontra in piazza due compagni di fede, un certo Domenico Gallina (detto Minghinì) ed
un militare di Forlì. Sono le due (le cinque e trenta, secondo un’altra versione). Devono
separarsi. Il forlivese si avvia in bicicletta verso Corso Saffi. Ad un tratto, il militare, incrociando la “Squadraccia”, composta dai soliti fascisti, urta inavvertitamente Guglielmo Volterra (il
fascismo non è ancora antisemita) che lo apostrofa: “Imbecille, vai a piedi se non sai andare in bicicletta!”. Mentre la situazione sembra precipitare, arriva anche Bertoni con la bicicletta (dipinta a mano in rosso) di Gallina (fonti indirette, Giulio Alessandrini, Rosario Iride,
Sesto Liverani). Si profila un nuovo incubo, ma per Giovanni lo Zoppo quell’ 8 aprile deve
avere un altro esito. Egli estrae una pistola e spara tre volte, con precisione. Davanti alla
Chiesa dei Servi giacciono due morti, il Volterra e Giuseppe Ghinassi, ed un ferito grave, il
Conte Zauli Naldi Benvenuto, detto Nuto (anche i nobili si dilettavano con i soprusi).
Bertoni, in bicicletta, inizia la sua fuga senza fine: via Manfredi, via Torricelli… Per mesi
nulla si sa dell’ “assassino di tre (due) giovani fascisti, forti, generosi e buoni”, come scrive
il “Resto del Carlino”. Poi, dopo mesi di fermi di tutti gli zoppi di Faenza, da Berlino arriverà alla Polizia la rivendicazione del ferimento del gigante di Borgo Durbecco, il Premoli, a
firma Bertoni.
Gli Squadristi, furibondi, non potendo vendicarsi sullo sparatore di Borgo Saffi (condannato a Bologna a più di 20 anni), se la prendono con il proprietario dell’inconfondibile bicicletta, il Gallina, che viveva in modo quasi clandestino. I più attivi nella ricerca sono i fratelli Ghinassi, Oreste ed Elio, che convincono una “donnina” a stuzzicare il Gallina, il quale si
fa convincere. Ore 18, giorno imprecisato nella sentenza (in vero, l’11), mese d’ottobre
1925, appuntamento amoroso presso Porta Ravegnana. Giungono i fratelli con altri camerati, che prelevano l’ingenuo Gallina, lo portano in località Molino S. Rocco e lo tagliuzzano
con i coltelli. Si contarono cinquantadue pugnalate, secondo il verbale della Polizia, ventidue in altra fonte. Le 30 mancanti furono inferte all’obitorio, nonostante il medico di guardia si opponesse all’ingresso degli squadristi. Botte anche a lui e baffi bruciati al becchino
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con i fiammiferi. Gli abitanti di Faenza non avevano dubbi: i Ghinassi erano gli esecutori o i
mandanti dell’omicidio Gallina, per vendicare il fratello Giuseppe (cui fu dedicata una via).
Ma essi non furono neppure interrogati.
Un privilegio che si tramuterà in un danno. Infatti, se fossero stati processati nel 1926-27,
avrebbero trovato testi compiacenti a garantire gli alibi e giudici disposti a credere loro. Nel
caso peggiore, avrebbero beneficiato dell’amnistia del 1929, concessa per la Conciliazione,
o di quella per il decennale della Marcia su Roma.
Invece, saranno arrestati il 3 ottobre del 1945 e portati in giudizio sulla base del Codice
Penale del 1889. Imputati entrambi d’omicidio volontario (art.364) e d’incendio della casa
di Bertoni Angelo (il fratello di Giovanni), avvenuto il 12 dicembre del 1929 (art.300), il solo
Ghinassi Oreste di avere privato della libertà personale Bianchedi Giuseppe, Cornacchia
Domenico e Toni Umberto (art.146). In Faenza, anno 1925. Nessuna imputazione per gli
anni 1943-45.
La causa non si presentava facile. Non esistevano testimoni oculari del sequestro e dell’omicidio del Gallina. L’ora della morte non era certa. Di sicuro il corpo era ancora sulla strada (viaNaviglio) alle 23, morente, secondo Primo Turbanti, già cadavere per il referto medico (4 ferite mortali). Si ricordi che il Gallina era stato sequestrato poco dopo le 18.
L’opinione pubblica non poteva deporre e nulla si poteva chiedere ai pavidi funzionari del
tempo, ormai lontani. Fu giocoforza dare credito a Carlo Donati, che dichiarò di avere udito
i Ghinassi: “Abbiamo vendicato nostro fratello; uno lo abbiamo già messo nella fossa e non
sarà l’ultimo”. Il Donati aggiunse pure di avere ricevuto la confessione del Commissario di
P.S. del tempo: “Sono stati loro, ma non possiamo fare niente”.
A favore di Oreste parlò la suocera, che ricordava la sua visita alla figlia Luisa Venturi, allora morosa, durata dalle 14,30 alle 22,30. Credibile, dal punto di vista sociologico, poiché il
costume chiedeva alle madri la protezione della verginità delle figlie, meno se l’8 aprile del
1925 era capitato di lunedì, mercoledì, venerdì, giorni interdetti per visite alle fidanzate.
Testimonianza ovviamente sospetta dal punto di vista giudiziario, anche se essa poteva legittimare l’ipotesi di concorso morale nell’omicidio. Infine, controproducente si dimostrò il
dire del citato Turbanti (chiamato dalla difesa), che ricordava i fratelli fermi sulla strada, allorché egli ed alcuni fascisti erano corsi ad avvisare i Carabinieri. Nessuno dei due Ghinassi era
voluto andare, dicendo che i Carabinieri non erano necessari e che bastavano loro; ma non
si erano avvicinati alla salma neppure per curiosità.
Fu un fiasco anche la deposizione di Luigi Melandri sull’incendio del dicembre del 1929
(al padre del Bertoni furono uccisi anche tutti i cavalli). Volendo aiutare Elio, informò la
Corte che quel giorno assieme avevano fatto il viaggio Faenza-Cesenatico-Ravenna e ritorno.
Che memoria! O che sbadato! Poiché l’incendio fu appiccato due ore dopo le 18, ora dichiarata per il rientro.
Quanto ai tre arresti arbitrari, non era il caso di approfondire, dato che Oreste presiedeva ed ordinava, mentre i Carabinieri provvedevano a mettere le manette a coloro che erano
ritenuti indiziati.
Restavano quindi le comuni imputazioni di omicidio volontario e di incendio doloso. Per
il primo reato si poteva concedere l’attenuante della vendetta per l’uccisione del fratello,
nessuna attenuante invece per il secondo e nessuna attenuante aggiuntiva, prevista per i crimini commessi dal 1943 al 1945, ma esclusa dal Codice Penale del 1889, in vigore nel 1925.
Pertanto Ghinassi Oreste, fu Vincenzo e di Antonia Cestini, classe 1898, e Elio, classe
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1904, furono condannati ad anni 18, derivati da 18 per omicidio con lo sconto di un sesto e
da 6 per l’incendio. Conto non proprio esatto (10 aprile 1946). A proposito, l’8 aprile del
1925 era un giorno interdetto, un mercoledì.
La Cassazione non si accontenterà di rilevare l’errore di computo, ma annullerà per intero la sentenza, rinviando il tutto alla Corte di Assise di Bologna (27-3-47). Esito nel
capitolo”Fuori Sacco”.
Ma ad essere maliziosi si potrebbe puntare sull’assoluzione di entrambi i Ghinassi per
insufficienza di prove. Infatti, il clima politico del dopoguerra andava mutando di giorno in
giorno, come dimostra quanto segue. Avevamo lasciato il fuggiasco Bertoni a Berlino nel
1925. Dopo la Liberazione ritornò per breve periodo a Faenza, ma nessuno gli chiese spiegazioni sulla sparatoria di Corso Saffi e la Corte di Ravenna nel processo Ghinassi scrisse
“Sparò per non soccombere”. Dopo qualche anno una nuova visita, per assistere il padre
morente. Sosta interrotta rapidamente da una soffiata: “La polizia sta riesumando l’incartamento del 1925”.
Rimpatrierà nella sua terra d’adozione, l’Unione Sovietica, raggiunta la prima volta da
Berlino, dove si era laureato in ingegneria e sposato.
La faticosa ricostruzione storica di un’epoca potrebbe fermarsi qui, se…
Se non ci fosse dell’altro sul faentino Bertoni Giovanni, detto E’ Zop d’Badiét. Da Mosca,
l’ingegnere-poliglotta raggiunse nel 1936 la Spagna per partecipare alla guerra civile. Durante
la guerra mondiale fu paracadutato in Iugoslavia dalla parte di Tito, rompendosi la gamba
buona, ma guadagnandosi ugualmente i gradi di Colonnello. Divenuto ormai un politico professionista con vocazioni militari, nel dopoguerra si unì ai partigiani di Ho Chi Min nella lotta
di liberazione dai francesi, poi combatté contro Batista a fianco di Castro. Infine, trovò la
morte in Bolivia accanto al Che. Ottobre 1967. E’ Zop d’Badiét di Faenza aveva 61 anni.
Che ne pensate? Quello che abbiamo pensato noi: impossibile! Una “patacca”! Fidatevi:
è una storia verissima che poteva nascere solo nella più romagnola delle città, Faenza. Ma il
dubbio rimane. Ed ecco che cosa è risultato da una verifica con alcuni giovani saggi di
Faenza: non può essere che un uomo di 61 anni sia andato a combattere nella foresta boliviana, anche se il personaggio è entrato in vicende di primo piano, come la congiura in
Messico per uccidere Trostzki. Però! Inoltre, il Bertoni nel dopoguerra è stato protagonista
di uno scandalo politico internazionale. Fu assunto, sotto falso nome, nientemeno che al
Ministero degli Esteri. Poi, dopo alcuni anni, fu scoperto da un diplomatico italiano, che
l’aveva conosciuto a Mosca, e fu imbarcato di nascosto a Napoli su un cargo per Odessa. Un
uomo dei servizi segreti sovietici, sempre. Nel rapporto Mitrokin compare con una ventina
di nomi diversi e operativo in una decina di nazioni. Da ultimo, in Argentina, con la seconda moglie, fuggita dall’URSS, su ordine di Stalin, in compagnia di Trostzki. La sua segretaria!
Meglio fermarsi e rinviare ad una biografia specifica.
Tre siculi in terra di Romagna
L’8 settembre del 1943 cambiò la storia d’Italia, nel senso più pieno, giacché milioni di
uomini per la prima volta conobbero le sue valli, le sue genti, i suoi borghi, attraversandola
in lungo e in largo per raggiungere i paesi d’origine. Conobbero e si fecero conoscere, da
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nord a sud. La storia è nota. Quel che in parte sfugge è che il fenomeno andò avanti per mesi,
con deviazioni di percorso casuali, con ripensamenti, con scelte alternative. E non per tutti
valeva l’imperativo”Tutti a casa”. Qualcuno, forse, voleva ritardare il rientro nella terra lontana, atteso talora da guai familiari, da miserie e ingiustizie secolari; altri era curioso delle novità quotidiane e dei ritmi incessanti della politica; altri ancora poteva restare affascinato dalle
occasioni amorose in terra straniera. Sì, perché anche le sedentarie donne, sottratte da sempre agli sguardi forestieri, ebbero la possibilità di scoprire volti e caratteri di gente diversa.
Armellino Francesco l’8 settembre non era al fronte, ma di stanza a Faenza. Non era un
imboscato, perché la guerra l’aveva combattuta (e come!), riportando un congelamento di
II° grado dalla Russia (che stratega Mussolini! Mandava i siciliani al freddo e i veneti in Libia).
Aveva 25 anni e lo attendeva un lungo viaggio per raggiungere Marsala, il luogo italico più
distante dalla Romagna.
Avrebbe dovuto superare non poche difficoltà, andando incontro a città bombardate, agli
alleati e alla guerra al sud. Pochissimi mezzi di trasporto e piedi scarsi. Non potendo raggiungere la Sicilia o non volendo neppure provare, Francesco se ne restò a Faenza, dove si stava
bene, fuori dai pericoli e abbastanza comodi. Vi trovò anche il lavoro. Ma un giorno, uscendo da un cinema, fu bloccato dai fascisti. Arruolarsi nella GNR o partire per la Germania.
Scelta obbligata. Non se ne pentì, perché fu messo a fare il cuciniere. Mangiava bene, soldi
a disposizione e nessun turno di notte per strade insicure. Aveva anche due compagnoni,
siculi come lui. Uno di questi, Pietro Mangioni, stava ancora meglio, perché aveva trovato
una ragazza, una brava ragazza, agevolato dal fascino meridionale e forse dalla dispensa dell’amico. La relazione era seria, destinata al matrimonio, e la coppia non prendeva nessuna
precauzione. Lui era libero e in Sicilia aveva lasciato una discreta fortuna. La faentina rimase incinta. Ma l’Armellino, per invidia o per dispetto, non si comportò da uomo, né siculo,
né nordico, e rivelò alla giovane che il promesso sposo era già ammogliato con prole e per
nulla benestante, anzi. Liti a non finire tra i due, cui si era aggiunto un terzo corregionale,
Mario Vaccaro. Fu la fine della pacchia: l’Armellino fu trasferito in altre località del ravennate. Sempre in cucina? Non sembra, viste le accuse che lo portarono dapprima in carcere e
poi in Tribunale a Ravenna.
Questi i capi di imputazione: partecipazione al rastrellamento del Palazzone di Fusignano
(otto patrioti uccisi), in data 23 aprile 1944, durante il quale egli avrebbe sparato al cadavere
di un partigiano e rubato l’orologio ad un altro cadavere. In più, da incallito “quaraquaquà”,
aveva denunciato ai superiori il seduttore, da lui “tradito”, per contatti con i partigiani e per
averlo minacciato con una pistola. Che antipatico questo siculo! Così poco omertoso…
Al processo Gino Landi, un ex commilitone, romagnolo, passato poi con i partigiani, riferì
che alla macchia si era parlato dei fatti del Palazzone e delle colpe dell’imputato. Ma non era
in grado di dire di più. Sapeva però con certezza dell’odio fra i tre siculi e della sua origine.
Lo spiritoso Presidente (lo Spizuoco), forse più interessato alla storia amorosa, volle sentire la sedotta e abbandonata, che fu rintracciata a Faenza, la ragazza madre Giovanna
Bandini. “Tutto vero”.
Per procedere non restava che ascoltare gli altri due siculi, fascisti anch’essi, che però
erano irreperibili, pur essendo stati determinanti per l’arresto dell’Armellino. Uno, il
Mangioni, aveva denunciato l’episodio del Palazzone e l’altro, il Vaccaro, lo aveva confermato.
Armellino Francesco, di Filippo e di Armellino Angela (un matrimonio tra cugini), nato
nel 1918 a Marsala, detenuto dall’8 settembre del 1945 (di nuovo l’8 settembre), si protesta-
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va innocente e vittima di una vendetta. La cosa poteva reggere e i divertiti giurati si orientarono per l’insufficienza di prove (16-4-46). Sette mesi di carcere per il pettegolo potevano
essere sufficienti. Nella sua terra gli poteva andare peggio! E sorte sicuramente peggiore
sarebbe toccata al seduttore sposato.
Dalla Rocca delle Caminate al Lago di Garda
La storia si ripete. Fascisti che avevano operato nei santuari del Duce, sotto processo non
a Forlì o a Brescia, ma a Ravenna, visitata per un solo giorno del 1944.
Nel caso in questione l’imputato, Ranieri Edmondo, nel maggio del 1945 era stato arrestato dai partigiani di Forlì, che ricordavano i misfatti compiuti alla Rocca, dove operava la
Guardia scelta del Duce. Dagli interrogatori era trapelata una qualche responsabilità, per
arresti arbitrari. Poi era arrivata la testimonianza del camerata Remo Farneti, resa al Comitato
di villaggio di Malmissole (Fo), secondo la quale il Ranieri, un giorno, sarebbe rientrato a
Gargnano sul Garda, assieme a certo Denti, con i pantaloni sporchi di sangue e baldanzoso
per avere ucciso un partigiano. I forlivesi, infine, avevano accertato che il Ranieri faceva
parte della squadra scesa dalla Rocca e diretta a Ravenna, che a Cervia, la sera del 20 marzo
del 1944, aveva compiuto la strage del Caffè Roma (più volte richiamata).
L’imputato era giovanissimo nel 1943, quando, da iscritto ai Fasci, passò al nuovo partito
e poi nella GNR, nell’ “82° Battaglione”. Aveva solo 16 anni. Convinto del tradimento del Re
e forse attratto dalla grand’occasione, lo troviamo alla Rocca delle Caminate. Privilegio
appannaggio di molti Gelosi (il cognome della madre), padri, fratelli, figli e nipoti (come già
visto).
In breve, partenza dalla Rocca in dieci con due mezzi, agli ordini di Magnati, sosta di alcuni militi a Cervia per guai meccanici. Gli altri proseguirono per Ravenna dove il Comandante
Giunchi doveva conferire con un Tenente. A Cervia, nel frattempo, veniva ucciso un commilitone e per rappresaglia si fece strage nel Caffè Roma. I due gruppi si ricongiunsero alle 23
a Cervia. Ranieri Edmondo, di Edgardo e di Gelosi Iole, nato a Forlì nel 1927, era ritornato
ad eccidio avvenuto. La difesa era credibile, poiché effettivamente la Guardia del Duce si era
divisa, ma, a dare credito a tutti gli imputati del fattaccio, nessuno era rimasto nella località
balneare. L’ormai diciassettenne Edmondo, a Cervia, di sicuro aveva fatto in tempo a sparare (secondo l’accusa) ad un vecchio che non si era fermato, o, a suo dire, semplicemente a
fermarlo, per poi rilasciarlo perché ubriaco. Quanto all’episodio avvenuto sul Garda, il camerata Farneti al processo dichiarò che la confessione gli era stata estorta e che i pantaloni rossi
di sangue erano quelli del Denti! Strana ritrattazione, sufficiente però per la Corte, priva di
altre conferme da parte di Brescia.
Restavano gli arresti arbitrari nel forlivese. L’imputato non ebbe difficoltà ad ammettere
che di tanto in tanto, su ordine del caporal maggiore Mario Ziantoni, si recava a Forlì e
Meldola a prelevare dei prigionieri da trasferire alla Rocca (Enea Rusticali e Alteo Garoia).
La Corte (16-4-46) si accontentò di questo. Collaborazionismo. 10 anni di reclusione. Ma,
vista la giovane età e la minima importanza nel compimento del reato, bastavano anni 4,
mesi 5, giorni 10.
Amnistia prima di Natale.
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L’obiezione del Pubblico Ministero
Badiali Rodolfo non era stato secondo a nessuno. A Brisighella, Segretario del Fascio
Repubblicano, Comandante del presidio, Commissario prefettizio del Comune. Attivissimo
a malmenare, ad arrestare, ad estorcere, a rastrellare con o senza i tedeschi, ad assistere a
fucilazioni, a partecipare a plotoni di esecuzione, a requisire, a segnalare nominativi antinazisti, a comporre Tribunali Speciali.
Tutto documentato: vittime e località. Un Generale, un Colonnello, un direttore di banca,
coloni, sbandati, donne. Catturò il Generale di Brigata Antonio Liverani, il Colonnello
Saverio Cipriani e certi Eugenio Baldi e Luigi Vergagnini; dispose la cattura del direttore della
Banca d’Italia di Faenza, Cesare Saramucchi, dopo avere prelevato ingenti somme; percosse e tentò di uccidere Giuseppe Cardi; bastonò Francesco Cicognani; catturò Ada Gentilini;
diresse il rastrellamento di S. Mamante, Vespignano, Villa Vezzano e S. Stefano; concorse a
catturare cinque patrioti a Marzeno (fucilati); si adoperò per la cattura di Carlo Caroli;
sequestrò, come Podestà, l’automobile del dott. Giorgio Ghetti per girarla alle B.N.; assistette alla fucilazione di cinque ostaggi da parte dei tedeschi (non precisato il luogo); saccheggiò ed incendiò la casa colonica Placci; prelevò con la forza due auto del dott. Pietro Saviotti.
Questi i reati consumati in provincia di Ravenna, sufficienti per una condanna a morte o
all’ergastolo o a 30 anni.
Ma il Badiali si era distinto anche nella zona d’Imola, come componente di un Tribunale
Speciale che a Villa S. Prospero condannò a morte 6 patrioti e come partecipante al plotone di esecuzione che eseguì la sentenza in territorio imolese.
Fatti e prove raccolte dal PM, il quale al dibattimento se ne uscì con una richiesta sbalorditiva, chiedendo l’incompetenza territoriale della Corte di Ravenna. Richiesta legittima,
qualora l’azione criminosa si fosse conclusa altrove e soprattutto se i fatti più gravi e numerosi fossero avvenuti in altra provincia del Regno. A rigore di logica, visti i precedenti, la
Corte (presidente Spizuoco) avrebbe dovuto respingere un’obiezione di tal fatta, anche se
proveniente dall’accusa, ma…
Badiali Rodolfo, di Domenico e di Italia Cobianchi, nato a Faenza nel 1910, detenuto dal
5 ottobre 1945, quel giorno d’aprile del 1946 fu rispedito in carcere senza sentenza, in attesa di essere trasferito a Novara, dove egli aveva superato se stesso per varietà ed intensità di
crimini.
Possibile? Possibile.
Tre donne e un Casanova
La forma a volte diventa sostanza. Lo stesso episodio, con altri imputati, in mano alla
penna di un giudice nuovo, origina sensazioni diverse, quasi opposte, come se si trattasse
di una storia da scoprire, inedita.
Abbiamo già raccontato di un film in due tempi. Prima parte. Ravenna. Una sera del
novembre del 1943, il 12. Una ronda fascista, una bomba, l’arresto di un passante, l’interrogatorio in caserma. Seconda parte. La ronda in parte composta da altri. Visita ad una casa.
Prelievo di un accompagnatore. Direzione verso altra casa. Nel buio uno sparo. Ferito un
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uomo. Non si sa chi ha sparato. Noto il nome del ferito, poi morto. Ricordate il processo con
4 imputati: Francia, Bedeschi, Buzzi e Cuman? Dal resoconto di Vicchi non si capiva dove il
fatto e i due momenti fossero avvenuti. Misteriosa poi risultava la figura della vittima, Dino
Sintoni, e come fosse entrata nella storia. Quali relazioni avesse con gli altri protagonisti, il
Bonini, il Miserocchi, le due fidanzate, note per il cognome. Ritorniamoci sopra, anche perché abbiamo un nuovo imputato.
Un’esplosione al passaggio dei militi, senza conseguenze, porta alla cattura del primo
uomo incontrato, Jader Miserocchi. Interrogato e malmenato alla Caserma Garibaldi, Jader
giustifica la sua presenza in quella zona perché diretto alla casa della fidanzata. Ora sappiamo anche il nome, Barbara Bonini, figlia di Luigi. Subito esce una squadra per accertare l’alibi. Ma Barbara, dice il babbo, è andata dalla sorella sposata, che apprendiamo chiamarsi Ida.
I quattro fascisti, Porisini, Bezzi (portuale), Francia (allievo ufficiale) ed un altro allievo ufficiale, pretendono che Luigi Bonini li conduca dalla figlia sposata. Cammin facendo, con la
guida davanti, si odono degli spari, di incerta provenienza, ma, stranamente, nessuno dei
militi si scompone. Un uomo, solitario nella prima versione, in compagnia questa volta, cade
sanguinante. E’ Dino Sintoni che ai primi di gennaio del nuovo anno morirà. Dino stava passeggiando con la fidanzata, dal nome nordico, Rosamburga, dal cognome ormai familiare,
Bonini. Anche lei figlia di Luigi.
Ora abbiamo tre donne, le sorelle Bonini, ed un nuovo imputato, il quarto uomo:
Giovanni Casanova, d’anni 27 al momento dei fatti. Questi fin da bambino era solito giocare con Ida ed era rimasto, se non un amico, un buon conoscente. Immaginiamoci la reciproca sorpresa quando Ida, impaurita per gli spari, scese dal letto per aprire al padre, accompagnato dai 4 fascisti. Il Casanova, in istruttoria e al dibattimento, negò la sua presenza a tale
incontro, ma la donna ricordava anche una frase da lui rivolta al Porisini: “Vieni, che per questa sera abbiamo fatto abbastanza”. Una frase che ci stava. Ovviamente Ida non sapeva del
ferimento del moroso della sorella (a dire il vero da entrambe le narrazioni sembra che sia
stata colpita solo un’ombra). Il ferimento avvenne, l’apprendiamo solo ora, in via Zendrini
(traversa di via Fusconi, zona Macello e Acquedotto).
Il Casanova, però, aveva una carta segreta, un certificato dell’ospedale militare di
Bologna, rilasciato in data 3 dicembre 1945, pochi giorni dopo il suo arresto, quando però
egli era accusato soltanto di un altro reato, la partecipazione all’eccidio del Ponte degli
Allocchi. Tale documento attestava che il Nostro dal 12 novembre 1943 al 24 dello stesso
mese era ricoverato presso l’ospedale di Ravenna per una colica renale destra. Proprio “da
quel giorno”. Imbarazzo di tutti i giurati. Due testi, Bonini padre e figlia, accusano con assoluta certezza un uomo con un alibi di ferro.
Ma il paziente Spizuoco, conoscitore del mondo, argomentò che allora era possibile
tutto, entrare ed uscire dalle caserme, ottenere qualsiasi documento da parte dei fascisti e
anche rientrare di notte in corsia, dopo avere trascorso una serata in compagnia. Insomma,
il Presidente, di fronte al contenuto del certificato sentiva odore di bruciato, come di una
carta precostituita fittiziamente: o un ricovero falso o un certificato attestante il falso,
entrambi leciti sotto Salò.
Bisognava credere ai due Bonini, tanto più che il Casanova aveva richiesto il certificato a
Bologna due mesi prima di essere incolpato; ma perché procurarsi un alibi per un’accusa
inesistente?
Non è escluso, diciamo noi, che nella piccola Ravenna la voce circolasse da tempo.
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La Corte riconobbe la colpevolezza del Casanova nell’omicidio, anche se non era possibile dire chi dei quattro militi avesse sparato a quell’ombra che si aggirava in modo sospetto durante il coprifuoco.
Non dimentichiamo l’altra imputazione. Il Casanova era stato chiamato in causa dal
camerata Attilio Zampiga di fronte ai funzionari della Questura, come partecipante all’eccidio del Ponte degli Allocchi. Il teste non lo aveva visto con i propri occhi, ma ne aveva sentito parlare dai commilitoni. In successivi interrogatori, però, l’accusatore andò scolorendo
l’affermazione fino a ritrattarla. Aveva riferito male o recepito male? Affermazioni estorte, si
disse al processo. Ma il Casanova aveva un’alta carta, non certificata questa volta. Nell’agosto
del 1944 si sarebbe trovato ad Alba in provincia di Cuneo. E la Corte diede più credito alla
parola che agli scritti.
Pertanto Casanova Giovanni, fu Amilcare e di Maria Monti, nato a Ravenna nel 1916, fascista dal 1938 al 29 luglio del 1942 (notare), fascista repubblicano dopo l’8 settembre, arruolato
nella GNR e poi nelle B.N., ripiegato al nord, fu condannato a 15 anni di reclusione (17-4-46).
Pena eccessiva e sentenza priva di motivazioni in ordine alle mancate attenuanti, come
sicuramente avrebbe rilevato la Cassazione. Purtroppo resta ignoto il cammino giudiziario
successivo, anche se immaginabile.
Ultime curiosità. Come mai il Casanova si trovava ad Alba nell’agosto, dato che le B.N.
ravennati si allontaneranno dalla città soltanto nei mesi di settembre ed ottobre? Mica colà
si curavano le coliche renali! Come mai il suo nome, il quarto uomo, non era comparso nel
processo Francia, Cuman, ecc.? Come mai nell’Albo d’Oro dell’ANPI il Sintoni Dino, muratore, classe 1908, risulta caduto in combattimento?
Della Cava e Giacometti di Lugo
Entrambi della B.N. agli ordini del Segretario del Fascio di Lugo, il dott. Ferruzzi, uniti in
processo per correità in alcuni episodi di sangue.
Il Della Cava Giovanni, di Angelo e fu Barbara Callegati, nato e residente a Lugo, classe
1912, detenuto dal 2 maggio 1945, era imputato dei seguenti fatti. Eccidio della famiglia
Baffé e Foletti di Massalombarda, rastrellamento del Palazzone, eccidio della famiglia
Bartolotti, uccisione di Carlo Landi, estorsione di lire 200.000 in danno dei fratelli Baldrati
di Lugo. Egli riconobbe solo la presenza al Palazzone, impegnato ad allontanare le donne di
Fusignano che reclamavano i loro mariti, e di avere ricevuto dal Comando lire 21.000 (soldi
Baldrati) per sfollare al nord.
Contro: la nota Sandrina Valenti (ex amante del Ricciputi Angelo), sempre precisa anche
quando non gode la simpatia dei Giudici, lo collocò tra i rastrellatori del Palazzone;
Leopoldo Baldrati: “Fu lui” ad ordinargli di presentarsi al Partito (conoscendo lo scopo);
Anna Capucci ricordava i complimenti del Ferruzzi al Della Cava per l’abilità nello scoprire
il rifugio dei Baffè e Foletti; Mario Caravita, mentre si trovava dal maniscalco a circa 500 metri
dalla casa del Bartolotti, vide passare una “Topolino” con tre brigatisti armati di mitra, tra cui
il Della Cava, dopo 15 minuti udì degli spari e dopo un’ora seppe dell’impiccagione sopra il
Ponte di Ca’ di Lugo; Luigi Tanelli e Lando Valenti raccontarono che il Lando era stato ucciso dal Reggi alla presenza dell’imputato.
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Colpe provate per la Corte, anche se non fu dimostrato che il Della Cava avesse materialmente ucciso nelle “macabre” operazioni. Anni 20.
Più lungo il capo d’imputazione per Giacometti Clemente, di Luigi e di Domenica
Giansteni, nato a Lugo nel 1920, apparentemente detenuto.
Cattura e uccisione di Orsini Aristide e Luciano; come sopra per Gaudenzi, Zirardini e
Lolli (in Ravenna); rastrellamento a Voltana (con molte uccisioni); rapina alla Banca d’Italia
di Lugo (lire un milione e seicentomila); estorsione in danno di Pietro Stefanini (lire 200
mila); uccisione di Carlo Landi (26-10-44); eccidio famiglia Bartolotti; cattura di Giovanni
Montanari (anni 17, barbiere) successivamente ucciso; rastrellamento del Palazzone; uccisione di Isola Alfiero (anni 30, tipografo); violenze alla famiglia di Reggi Ilo e sequestro di
una radio; arbitrario sequestro di gomme per auto ai fratelli Minardi. Il Giacometti, a differenza dell’altro, ammise qualcosa di più: il rastrellamento di Voltana, l’arresto degli Orsini e
di altri tre e una perquisizione in danno di Minardi.
Contro: Guerrino Pirazzoli lo indicò tra i partecipanti al Palazzone; Gallignani Renzo,
Ricci Emma e Ravaioli Alfredo dissero che negli omicidi degli Orsini non era stato modesto
il suo ruolo. Un certo Guido dichiarò che il Giacometti stesso gli aveva confessato la sua partecipazione alla strage Bartolotti; Lippi Pompeo lo vide diritto sul camion che ritornava dal
rastrellamento di Lugo; i derubati, vivi, non ebbero dubbi. I famigliari dei trucidati non
esclusero che egli fosse stato tra gli aguzzini. Per le altre imputazioni ciò che emerse non era
molto convincente.
La Corte (23 aprile 1946, Presidente il Vicchi) fu più pesante con il Giacometti, “violento
e sanguinario”, collaboratore, correo in molti crimini, esecutore materiale in alcuni omicidi.
Anni 30.
Per entrambi il fascicolo termina qui.
Agostino detto Alieto
Per lui l’art. 51 del Codice penale militare di guerra. Ma di quali colpe era responsabile?
A detta di Alieto, di poco. Una volta, il 2 luglio 1944, era andato ad Alfonsine per un funerale di un camerata ucciso. Sulla via del ritorno si era fermato a Mezzano per rapire il farmacista Nino Zattoni (trovato morto poche ore dopo sull’argine sinistro dei Fiumi Uniti, senza
orologio). Non era stato lui ad ucciderlo, ma il Casalboni. L’unico suo gesto: avere venduto
l’orologio per lire 1.500. Ma di quali misfatti doveva esser accusato per ammetterne uno così
grave? A proposito, viene alla mente che per un altro fascista (Ancarani) il citato funerale
aveva rappresentato l’alibi per il medesimo episodio. In altra occasione, proseguiva Alieto,
aveva soltanto piantonato tre cadaveri in via Belvedere (dalle parti di via Fiume
Abbandonato). Erano quelli di Zoli, Melandri, Corniola, in data 31 luglio ‘44. Poi, la notte del
24 agosto l’aveva trascorsa all’aperto presso il Ponte degli Allocchi, di guardia. Qualche giorno prima aveva catturato il Di Janni (fucilato sul Ponte). Altri ribelli in giorni diversi: Zotti
Mario, Forestieri Mario e Paolo, Bonini Beniamino. Tutto qui.
Ma per la Questura di Ravenna Alieto era stato uno dei più pericolosi elementi del
“Battaglione della Morte”, “sempre in prima linea in quasi tutte le imprese delittuose, inumano, sanguinario, feroce contro tutti, giovani e vecchi, uomini e donne”. Responsabile,
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oltre che dei delitti di cui sopra, della cattura e dell’eliminazione del fascista dissidente,
Romeo Piccinini, avvenuta sulla strada per Ferrara, dell’uccisione del rag. Mario Montanari
(Porta Nuova), dell’uccisione di Zirardini e della tentata uccisione di Gaudenzi e Lolli (Bosco
Baronio), della cattura di Visini Alberto, delle ricerche del cav. Zanotti Giovanni, dell’uccisione di Montanari Carlo (a S. Bartolo) e del tentato omicidio della moglie Giannelli Anita, della
cattura di Ranieri Raniero, poi ucciso al Ponte degli Allocchi, della cattura di Angelini
Tolmino, di Dradi Vanda, di Rivalta Renata, e di altre due donne non precisate, delle ricerche di Bruschi Livio e Righini Florindo, della delazione in danno di Casali Aldo.
Al dibattimento alcuni di questi episodi furono confermati dai testi, altri caddero o non
furono a sufficienza provati. Gaudenzi dichiarò di avere equivocato, poiché aveva riconosciuto Alieto solo da una fotografia. La Giannelli era certa che a sparare era stato lui, mentre
di fronte al Giudice Istruttore era rimasta dubbiosa tra Alieto e Tabanelli. Dubbio apparve il
suo coinvolgimento nella vendetta contro il Piccinini. La Vicchi Elena confermò la cattura
del Di Janni. Tutti gli arrestati, ancora vivi, ribadirono le accuse. Indubbia, infine, risultò la
sua partecipazione agli altri crimini contro Montanari Mario e Carlo, Zattoni, e, se non all’uccisione materiale, alla loro cattura e alla condivisione dei fini.
Morelli Agostino, detto Alieto, di Francesco Luigi e di Strocchi Ida, nato nel 1913 a
Ravenna ed ivi residente, detenuto dal 4 ottobre 1945, fu condannato alla pena di morte
mediante fucilazione alla schiena. I beni andavano confiscati e l’estratto della sentenza pubblicato su “Il Giornale dell’Emilia” e su “La Voce di Romagna”. Ravenna, in data 23 aprile
1946. Giuria: Vicchi, Maresi, Bartoletti, Triossi, Bartolazzi.
Che dire? Quanto sopra riportato sembra più un estratto che una sentenza, e purtroppo
corrisponde al testo integrale. Una condanna a morte di poche pagine, senza passi delle
testimonianze, senza ricostruire i fatti, senza specificare frasi e comportamenti, senza drammatizzare, senza cercare di dimostrare il severissimo giudizio della Questura, senza riferirsi
al suo passato (partito, guerra, data d’iscrizione, tipo d’arruolamento, ruolo gerarchico, fuga
al nord, precedenti, stato civile, professione, formazione). Niente, neppure perché si negano le attenuanti.
Sconcertante, poco più di un telegramma per una condanna capitale, emessa in un periodo in cui al massimo s’infliggevano 30 anni, anche di fronte a barbari assassinii, continuati
nel tempo, materialmente eseguiti e compiuti dai responsabili primi del Partito, della Milizia,
della Brigata Nera. A dire il vero, ad una prima lettura del fascicolo e delle conclusioni in noi
era sorta meraviglia, poiché il nome di Morelli non era mai circolato a Ravenna come quello di un figuro, tra i peggiori, salvato dalle svolte del dopoguerra.
Lungi da noi la volontà di proporre una gerarchia assoluta e una classifica odiosa dei
“ceffi” ravennati, ma la parola “fucilazione” non può scaturire a sorpresa. Ma a parte questo,
la comune curiosità corre sicuramente al finale. Ovviamente, la condanna non è stata eseguita, con tanto o niuno stupore della popolazione.
Dopo oltre un anno, il 27 luglio del 1947, tardivo per quei tempi, la Cassazione deciderà
l’annullamento della sentenza e un nuovo esame della pratica Morelli presso la Corte di
Assise di Bologna. Motivo: difetto di motivazione. Dell’entità della pena? No. Della mancata
concessione delle attenuanti? No. “Sulla natura ed entità dell’opera di collaborazione”. Due
punti esclamativi!!
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Tre polesani
Finora abbiamo incontrato imputati quasi tutti romagnoli, qualche marchigiano, un po’
di emiliani, diversi meridionali (già in divisa, presenti da prima dell’8 settembre o non rientrati dopo l’armistizio). Nessun toscano e alcuni veneti. Un solo polesano ma residente a
Mesola. Se i repubblichini locali, dopo l’estate del 1944, fuggirono in massa oltre Po per continuare la caccia ai fuorilegge, non lo fecero certamente per ricambiare analoghi favori ricevuti nei mesi precedenti.
D’altra parte la lotta antipartigiana non fu meno cruenta nel Veneto, terra molto inquieta allora, al primo posto in Italia per numero di caduti. In più, si deve ricordare che molti
fascisti polesani preferirono operare oltre Adige, lasciando ai “pisani” le operazioni più sporche in loco.
Veniamo al processo con tre imputati della provincia di Rovigo, in data 24-4-46. Dal
numero delle pagine, ben 10, si capisce che Vicchi quel giorno non aveva di fronte personaggi qualsiasi. In lui non sempre prevaleva l’interesse per la gravità dei fatti, ma piuttosto
quello per la qualità sociale dei presunti colpevoli. Una logica che, nel caso in questione,
doveva essere anche all’origine dell’assegnazione della competenza a Ravenna, sottratta alla
Corte di Rovigo. Questi gli imputati: Tironi Sefte (notare), Dall’Oglio Giovanni e Zanotelli
Fortunato, detenuti (senza data). A muovere le acque era stata la Questura di Rovigo con più
rapporti, molto precisi. Il Tironi di Calto (lungo il Po), esponente ed ispettore della B.N.,
aveva dato disposizioni (il 10 ottobre 1944 con nota 245 e il 25 dello stesso mese con nota
319) ai raggruppamenti delle B.N. di Gavello, Pettorazza e Villanova Marchesana di partecipare ad azioni di rastrellamento. Si noti che il 15 ottobre si colloca la pubblica esecuzione, a
Villa Marzana, di 42 persone (quasi tutte catturate congiuntamente da repubblichini e da
tedeschi venuti da Verona) ad opera dei soli fascisti, e, a dicembre, il rastrellamento italotedesco di Stienta con 500 arresti. Inoltre, l’infaticabile Ispettore, il 16 novembre successivo,
aveva spedito al Comandante della B.N. di Villadose (sede provinciale, a pochi Km da
Rovigo, agli ordini dell’avv. Anteo Zamboni) una lamentela relativa alle deficienze dimostrate nei rastrellamenti di Padova e di Treviso, cui egli stesso aveva partecipato in qualità di
Comandante di Squadra. E ancora, il Tironi aveva provocato l’arresto di Cesarotto, Bertaggia
e Cominato, disertori della B.N. di Padova, costretto Renato Baratella ad arruolarsi nella B.N.
per uno sfregio ad un decreto dell’ex Prefetto Menna (toscano, Capo Provincia di Rovigo,
passato a Padova, colui che trattò la resa finale, latitante fino alla morte, riparato in Sud
America). Da ultimo, egli nel rodigino aveva effettuato un rastrellamento nella zona di Tre
Ponti, Ramodipalo, Villanova del Ghebbo e fatto arrestare, nei pressi di Lendinara, una
donna, Maria Brunello, asportandone la bicicletta. Tutti reati che avrebbero comportato,
presso il Tribunale di Rovigo, la condanna per collaborazionismo, senza l’attenuante di “ordini ricevuti”.
Il secondo imputato, il Dall’Oglio, era un professore, originario di Belluno, docente
all’Istituto Magistrale di Rovigo, poi preside, infine nominato, sotto Salò, Provveditore agli
Studi. Aveva tenuto conferenze, scritto articoli sul giornale repubblichino “Rinascita” (l’equivalente de “La Santa Milizia”), incitato in tutti i modi i suoi studenti e i giovani in generale
ad accorrere alla “guerra santa”. Non contento, controllava anche le lezioni dei docenti e
cercava di carpirne i segreti. Una volta era venuto in possesso di una lettera della professoressa Giuseppina Mancin Dal Fiume, insegnante presso l’Istituto Agrario di Trecenta, spedi-
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ta al padre, e, in data 18-11-1944, egli aveva provveduto a licenziarla per indegnità, non mancando di informarne il collega di Bologna. Come premio, il Dall’Oglio, tipica figura di preside, da Presidente dell’Istituto di Cultura Fascista era approdato alla Presidenza Centrale
dello stesso istituto.
Il terzo, Zanotelli di Crocetta di Badia (RO), era stato tra i fondatori del Partito Fascista
Repubblicano della provincia di Rovigo (ruolo raramente menzionato per quelli di Ravenna)
e Segretario politico del proprio paese. Nessuna accusa specifica contro di lui, tranne quella di avere nell’aprile del 1924 minacciato la famiglia Romani di Crocetta, malmenatone alcuni componenti ed incendiatone la casa.
La scrupolosa Questura di Rovigo aveva denunciato i tre anche per essere stati componenti di un Tribunale Straordinario, quello di Ravenna, dal 29 febbraio del 1944 al 30 maggio dello stesso anno. Quindi, in un periodo precedente rispetto all’attività svolta in Veneto.
E a questo proposito la legge stabiliva la competenza del Tribunale della provincia dove si
era conclusa l’attività criminosa o si erano verificati i fatti più gravi.
I tre polesani, per una strana scelta, rappresentavano l’intera Corte del Tribunale
Straordinario di Ravenna, con il Dall’Oglio presidente, il Tironi Giudice e lo Zanotelli pubblico accusatore. Tre camerati, tre amici, tre dottori.
Ma perché processarli a Ravenna, dato che il locale CLN o non aveva presentato denuncia o l’aveva ritirata? Misteri. Tanto più che al dibattimento, e forse in istruttoria, era emerso
che i tre avevano giudicato 57 persone, condannandone solo 4, rispettivamente a mesi 2, 3,
5, e giorni 30.
Brave persone? Si direbbe, visto che lo Zanotelli potrà dimostrare che il prof. Rossi di
Rovigo, un antifascista, lo aveva incoraggiato ad accettare l’incarico per fare del bene ai perseguitati politici. E a questo fine i tre avevano agito, rinviando i processi, trovando cavilli,
agendo in senso contrario alle leggi, punendo con pene irrisorie o assolvendo, come poterono dimostrare i conti Ferniani, il prof. Alberghi Sante, il prof. Buda Alberto, Cani Bruno,
Biasioli Dorina e tanti altri.
Tre benefattori, non c’è dubbio, tranne che non si voglia credere ad un gioco delle parti,
nel quale sarebbero intervenute altre autorità repubblichine.
Ma pur con tanto male evidente non si può dubitare del bene altrettanto evidente. Fu
così che la logica della Corte di Ravenna, più volte espressa, e cioè che una benemerenza
non cancellava le colpe, e neppure il pentimento, persino con la diserzione dai ranghi, questa volta fu rovesciata. L’umanità e la saggezza dimostrate a Ravenna annullavano sia i crimini precedenti, sia quelli successivi. Giustizia e rispetto verso le genti venete avrebbero dovuto portare tutt’al più all’assoluzione per i fatti accaduti in Ravenna, ma al rinvio ai tribunali
di competenza per gli altri addebiti. Non era il pensiero di Vicchi e dei giurati (Maresi,
Nediani, Bartoletti, Triossi): non si scrivono dieci pagine per niente.
Zanotelli dott. Fortunato, di Donato Gaetano e di Gobbi Teresita, nato a Crocetta e residente a Rovigo, classe 1906, fu prosciolto per le percosse e l’incendio del 1924, poiché già
assolto dalla Corte d’Appello di Venezia (anno1925).
Tironi dott. Sefte, di Pelopida (notare) e di Viola Pierina, nato a Calto ed ivi residente
(anche oggi a Calto compare un Tironi Pelopida), classe 1895, fu assolto dal reato di collaborazione perché il “fatto non sussiste”, quanto alla partecipazione al Tribunale
Straordinario, e per insufficienza di prove per gli altri addebiti (e i documenti firmati da lui
sui rastrellamenti?).
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Dall’Oglio Giovanni, fu Luigi e di De Carli Livia, nato a Belluno, residente a Rovigo, classe 1889, perché il collaborazionismo non sussiste. Cultura fascista: carta straccia; articoli:
idem; conferenze, provvedimenti punitivi: idem.
Non è un caso che il Dall’Oglio (mai epurato) sia ritornato a fare il Preside a Rovigo, educatore di educatori, mantenendo la stessa testa e con il dente avvelenato contro coloro che,
oltre a tradire la patria, gli avevano imposto sei mesi di carcere nella città di Dante. Che
schiaffo!
Due casi semplici
Il mese di maggio, così festoso un tempo e caro ai ravennati, si aprì con due imputati
minori, uno detenuto e l’altro latitante.
Il primo, in carcere dal 18 giugno 1945, si chiamava De Giovanni Sante, di Enrico e di
Foschini Laura, nato a Faenza ed ivi residente, classe 1912. Come appartenente alla GNR
avrebbe partecipato al rastrellamento di S. Cassiano, ove alcuni partigiani furono uccisi e
molti catturati (nessuna data). Ma il teste Bertocchi (senza nome) non lo aveva visto e credeva solo di ricordare (credeva di ricordare) che fosse fatto anche il suo nome. Altri testimoni parlarono di un Bandini, che ovviamente non poteva coincidere con il De Giovanni.
Ma su quali elementi concreti la PS di Faenza aveva provveduto ad arrestarlo? Pochi e
vaghi.
Assoluzione per insufficienza di prove (2-5-46).
Il latitante si chiamava Lega Romano Tomaso, fu Antonio e di Mingarelli Albina, nato a
Lugo, residente a Milano, classe 1902. La Questura lo aveva denunciato come componente
della GNR, fascista violento e sanguinario, che aveva partecipato alle spedizioni punitive di
Massa Lombarda, Lavezzola, Conselice, Ravenna ed Ancona. Inoltre, aveva contribuito alla
cattura di Costa Agenore (citatissimo), per atti ostili al fascismo. Ma quest’ultimo dichiarò
che gli aveva semplicemente chiesto di seguirlo alla sede del Fascio. Pittoresco il Vicchi,
quando vuole. E la Questura com’era pervenuta ad elencare tante località, così distanti l’una
dall’altra? Dalla sentenza non si capisce e neppure la Corte l’aveva compreso dalla lettura del
rapporto della Questura, generico e non corredato di elementi specifici di prova. Bene.
Assoluzione per insufficienza di prove.
Purtroppo le sentenze del noto Presidente, già succinte in caso di colpevolezza, risultano del tutto sibilline negli altri casi, come dimostra il nudo elenco delle località visitate dalle
spedizioni punitive, come se fossero delle stazioni ferroviarie. Fortunati i futuri ricercatori
se potranno consultare gli interi incartamenti.
Ci penso io
Margotti Angelo doveva avere alle spalle una storia di violenze e di latrocini. Per l’età
(classe 1865) doveva essere uno che non aveva perso l’appuntamento con lo squadrismo
degli anni Venti. Forse aveva fatto anche la Grande Guerra, senza conquistare medaglie.
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Un uomo forte ed imponente, capace di risolvere le discussioni con la forza, sano e destinato a morire in tarda età, se si pensa che è uno dei pochissimi tra i nati nell’Ottocento ad
avere ancora entrambi i genitori vivi, almeno nelle carte. Risultava originario di Ravenna, ma
forse i suoi provenivano da S. Alberto o forse in detta località il Margotti era vissuto durante il ventennio con la missione di mettere a posto i “rossi”. Tutte ipotesi, dovute purtroppo
alla solita avarizia narrativa. Comunque fosse, il Nostro, alla nascita del fascismo repubblicano, scelse per sé la zona nord di Ravenna, dal Lamone al Reno, ed impiantò il risorto partito fascista proprio a S. Alberto, dove non tirava buon’aria .
Nell’area organizzava i rastrellamenti alla caccia dei renitenti, ovviamente facendosi aiutare da rinforzi del capoluogo, entrava da solo nelle case refrattarie al regime, costringeva i
giovani maschi ad arruolarsi nella GNR, minacciava gli antifascisti, catturava coloro che non
rispondevano ai bandi e li portava personalmente (in auto, in bicicletta, a piedi?) al Distretto
Militare. Per questo era anche pagato, ma non si scordava mai di integrare, fedele ai suoi precedenti, con furti, abusi vari, appropriazioni.
Come poliziotto non aveva scrupoli a mostrarsi, stante la legittimità garantita dal
Governo di Salò; come ladro era invece più cauto, dimostrando di essere un suddito con un
certo “senso dello Stato”.
Il 13 maggio 1944 aveva perquisito a Mezzano la casa di Rolando Biondelli, arrestato per
renitenza e portato al Distretto, dopo un passaggio alla sede del partito. Verso la fine dello
stesso mese si era distinto nel rastrellamento di Conventello, Savarna e Mezzano ed aveva
costretto Renzo Cassani ad entrare nella Guardia Repubblicana. A luglio, tra il 22 e il 23, si
era spostato nella zona di Piangipane a minacciare a mano armata Gaetano Sintoni, perché
propagandista contro la trebbiatura. Il Margotti riconobbe soltanto il fatto di Biondelli.
Inequivocabili le testimonianze di segno opposto, tranne quelle relative ai furti, il suo vecchio ramo.
Margotti Angelo, di Domenico e di Mirandoli Dircea, nato a Ravenna ed ivi residente,
detenuto dal 28-5-45, fu condannato a 12 anni di reclusione e alla confisca dei beni.
Amnistia nel gennaio del 1947.
Non aspettò il 1944
Come finora è emerso la maggior parte degli imputati ha dovuto rispondere di reati commessi nel 1944, specialmente durante l’estate. E’ una costante, spiegabile con due dati generali: l’intensificazione in quei mesi della lotta partigiana nella convinzione della vicina liberazione e l’accresciuta repressione voluta dai tedeschi a protezione delle retrovie della Linea
Gotica.
Invece, l’anziano Bertoni Tomaso, di Faenza, si era distinto fin dal 1943.
Nel novembre (luogo e giorno?) si era reso complice del tentato omicidio di Iride
Raimondo e Pagani Giacomo, con spari perché non si erano fermati all’alt; nello stesso mese
aveva partecipato all’arresto di Cisanti Edmondo e Carlo, al tentativo di omicidio nella persona di Aronti Antonio, all’arresto del partigiano Emiliani Marx (il nome!), fucilato il 27
dicembre. Nei giorni dell’esecuzione non si era fermato ed aveva provveduto ad una perquisizione arbitraria e all’arresto di Rondinelli Giovanni e consorte.
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Attivissimo anche ai primi di gennaio del 1944. Arresto di Rossi Antonio e Livio, di
Marconi Giovanni e di Montanari Werter, consegnato, in onore al nome, alle SS, che lo tennero in ostaggio per 50 giorni a Bologna. A marzo, un salto di qualità: sevizie a Volpiano
Pietro e ai renitenti Grilli Alfredo ed Attilio. A maggio a Riolo Bagni ad arrestare Alvisi
Claudio. Nell’estate, infine, raccolse i frutti di stagione, partecipando ai rastrellamenti in
grande stile. Il 10 agosto a Marzeno (40 persone catturate e 5 fucilate a Rivalta), il 10 settembre nell’area Pietramora, Montefortino, S.Lucia (200 arresti). Poi, a fine settembre, per meriti acquisiti e per rispetto dell’età (classe 1894), fu nominato componente del Tribunale fascista che si riunì a Villa S. Prospero, che sentenziò la condanna a morte di sei partigiani, fucilati a Castel Raniero.
Una biografia di tutto rispetto, senza soluzione di continuità (mancano solo i riferimenti
al periodo successivo), che consentì di dire alla Questura che il Bertoni, assieme a Cattani
Francesco, Cassani Nello e Raffaeli Raffaele, era stato uno degli elementi più attivi della
Brigata Nera di Faenza, distinguendosi nell’opera di collaborazione con le forze armate tedesche. Altri episodi furono segnalati tra la denuncia e la sommaria istruttoria (non riportati).
Non si sa né dove, né quando l’imputato sia stato arrestato; è certo solo che l’11 luglio
1945 fu associato alle Carceri.
Le ammissioni del Bertoni: avere catturato Cisanti e i coniugi Rondinelli, avere fatto parte
della pattuglia che sparò all’Aronti, avere scortato il camion che trasportava le persone catturate a Marzeno. Nient’altro.
Contro di lui le testimonianze di molte vittime (una decina almeno) e di alcuni brigatisti
neri, compresa quella del noto Schiumarini (con relative ritrattazioni in aula), che precisò i
dettagli delle procedure relative al Tribunale di S. Prospero. Il Bertoni fu ritenuto colpevole
di tutti i crimini attribuitigli, ad esclusione della partecipazione al plotone di esecuzione di
Rivalta (la sopravvissuta Annunziata lo escluse)
Il 2 maggio 1946 la Corte, in nome di Sua Altezza Reale Umberto di Savoia. Principe di
Piemonte, Luogotenente Generale del Regno, condannò Bertoni Massimo, fu Giacinto e fu
Bucci Alda, di Faenza, classe 1894, a 30 anni di reclusione e alla confisca dei beni. Pena così
stabilita dopo la concessione dell’attenuante (buoni precedenti), altrimenti indicata nella
pena capitale.
Nessun cenno sull’iter processuale successivo.
Madre e figlio, di Lugo
Giorgina e Edgardo, i loro nomi, moglie e figlio di Oreste Emiliani, il grande assente al
processo, Squadrista, Marcia su Roma, Sciarpa Littorio, già condannato, nell’ottobre del
1945, dalla Corte di Ravenna a 13 anni di carcere. La donna d’anni 39 e il figlio di 16 sarebbero stati dei delatori in Lugo. Ma sullo sfondo aleggia la figura del capo famiglia, Oreste, da
molti ritenuto il vero responsabile, come ex Maresciallo della GNR. Chiariamo.
In data non precisata del 1944 Floriano Montanari e il Maresciallo Emiliani avevano litigato di brutto (la causa resta inespressa) e quest’ultimo aveva concluso il diverbio con la
minaccia di fargli fare la pelle. Dissidi tra famiglie, secondo la Corte, non senza risvolti politici però, vista la dichiarazione del Maresciallo e gli accadimenti successivi.
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Il 25 ottobre del 1944 la Brigata Nera di Lugo prelevò diverse persone, Montanari
Giovanni e Floriano, Berdondini Renzo, Dal Monte Giovanni, Folicaldi Giorgio, Landi Carlo,
Ballardini Luigi, Faccani Domenico e Tasselli Luigi. Per Montanari Ada, madre dei due fratelli, non c’erano dubbi: l’arresto era dovuto esclusivamente al Maresciallo. Non li vide più. Il
giorno dopo furono fucilati. Stessa sorte per altri della retata; ignota quella di alcuni. Solo il
Tasselli riuscì ad evadere.
E i due imputati? Spia la madre e spione il figliolo, perché non perdevano occasione sulla
pubblica via di commentare con gioia ogni colpo inferto agli antifascisti o di sollecitarlo,
secondo alcune testimonianze. E uno! Se ne uscì la Giorgina quando fu preso Alfio
Montanari (un altro figlio?), come riferirà il teste Giuseppe Graziani. La donna si era confessata anche con un’altra fascistona del tempo, Sandrina Valenti (l’amante del brigatista
Ricciputi): “In questa strada ci sarebbe un padre di famiglia che andrebbe impiccato con i
suoi due figli”. Si alludeva a Tazzari Andrea e ai figli Antonio e Alvaro. Il Graziani dirà pure
che persino un figlio della Giorgina, tale Guido (fratello di Edgardo), aveva riferito, in tempi
non sospetti, che la madre aveva commentato l’uccisione di Landi Carlo con la solita malvagia soddisfazione. E due! Il medesimo teste coinvolgerà anche Edgardo, il quale, con spirito
inquisitorio, un giorno lo aveva apostrofato, mostrandogli un manifesto clandestino: “Sei
stato tu a buttare questi volantini”. Che la Giorgina e Edgardo fossero dei convinti sostenitori della causa nazifascista, animati da odio esplosivo, pare indubitabile, come dimostrava
un ultimo sfogo della donna: “La via Corridoni è peggio della bovaria, bisognerebbe bruciarla da capo a fondo”. Che le vittime di quella e di altre strade avessero odiato i due Emiliani
(più il Maresciallo) era cosa naturale. Che, a guerra finita, li indicassero come persone
sospette, all’origine di tanti lutti, appare altrettanto naturale. Ma da qui a condannarli per
delazione il passo era lungo.
Bucchi Giorgina, fu Carlo e di Bolognesi Olimpia, nata a Lugo nel 1905, detenuta dal 14
giungo del 1945, e Emiliani Edgardo, di Oreste, e di Bucchi Giorgina, nato nel 1928, detenuto dal 19 giungo del 1945, furono assolti per insufficienza di prove (2-5-46). Di Oreste, il
capo famiglia, si parlerà ancora, dato l’insolito ed eccezionale destino giudiziario.
Un latitante di nome Tartaul
Non è un errore di battuta, né di interpretazione del manoscritto. Si chiamava proprio
così, con la elle finale. Tartaul Danilo, fu Stefano e di Carducci Villelmina, classe 1925.
Era nato a Ravenna e vi risiedeva. Per sfuggire ai bombardamenti era sfollato con la famiglia a Villanova di Bagnacavallo, ospite della casa Galot, da cui ogni sera di allontanava “per
rientrare all’alba”. A fine estate ‘44 era partito e, dopo qualche mese, anche la famiglia era
rientrata in città, o meglio a Marina di Ravenna, presso la casa di Villelmina.
Come latitante, ovviamente, non aveva dato nessun contributo alla formazione del suo
fascicolo personale. Aggiungasi il fatto che a presiedere la Corte era il Vicchi, e questa volta
troviamo una delle più brevi sentenze finora incontrate
Il Tartaul era accusato di avere partecipato come brigatista nero al rastrellamento del
Palazzone di Fusignano. Imputazione proveniente dalla dichiarazione di un camerata
(Gaetano Sciottola, che incontreremo più avanti). Questi aveva specificato il ruolo avuto dall’imputato: piantonamento con Carabinieri (se la memoria non inganna, è la prima volta che
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vengono chiamati in causa per quella strage) ed agenti di PS. Piantonamento delle prime
case di Fusignano. Altri fecero il lavoro sporco.
Il Tartaul, secondo il teste Oreste Minguzzi, non si sottrasse neppure a compiti più terribili e nel rastrellamento di Conselice (senza data), fu tra i militi che fucilarono un partigiano catturato (senza nome).
La Corte (3-5-46) sbrigativamente concluse. Ammettendo pure che si ritenga provata la
presenza del Tartaul solamente ai fatti del Palazzone (perché?), la pena conseguente doveva essere quella di anni12. Troppo per quell’unica colpa.
Con una sentenza di tal fatta la Cassazione sarebbe andata a nozze, probabilmente annullando o concedendo l’amnistia. Ma lo stato di latitanza non favoriva i condannati.
E pertanto, per il latitante Tartaul si dovrà attendere il 1954, allorché il Tribunale di
Ravenna dichiarerà la pena inflitta interamente condonata.
Ammesso che il giovane brigatista nero fosse ancora in vita. Purtroppo non era così, poiché un Danilo Tartaul compare tra i fascisti uccisi a Codevigo. Un ritardo nell’identificazione dei corpi o sordità della burocrazia? Forse le voci circolavano già al momento del processo: di qui il carattere lapidario della sentenza.
Un latitante più fortunato
Egidio Ravaioli, un faentino, era un coetaneo di Tartaul, rimasto fino alla fine nella
Guardia Nazionale Repubblicana. Anche lui godrà di una sentenza breve come un’inserzione pubblicitaria. Era accusato di avere sparato a due renitenti alla leva, Attilio e Alfredo Grilli,
e di averli successivamente sottoposti a sevizie nella sede del Fascio di Faenza (i fascisti talora usavano locali diversi da quelli del Corpo di appartenenza). Il Vicchi lascia nella penna il
luogo e la data della sparatoria e, cosa più significativa, la durata e le eventuali conseguenze
delle torture. Significativa, perché la Suprema Corte, dopo il Decreto di amnistia, si specializzerà in vergognose acrobazie giuridiche per svilire il reato di sevizie, arrivando persino a
sostenere che la violenza di gruppo su una donna non andava considerata “particolarmente grave”. Non anticipiamo.
Nel caso specifico i due Grilli esclusero che Egidio fosse tra gli sparatori, mentre non
ebbero esitazioni nel ricordarlo tra i volti e i nomi degli aguzzini.
La pena ravvisata giusta fu quella di anni 12 (in data 3-5-46). Ma, visti i buoni precedenti
e la “minima” parte avuta, con doppia attenuante si scese ad anni 4 e mesi 6.
Ravaioli Egidio, di Oreste e di Bertoni Livia, nato a Faenza nel 1925, latitante, dopo appena due mesi otterrà l’amnistia.
Un latitante di Casola
La settimana del latitante potrebbe dirsi quella degli inizi di maggio del 1946. Questa
volta l’onore di presiedere la Corte toccò al cav. Alberto Spizuoco, meno impegnato dei colleghi Peveri e Vicchi e forse anche per tale motivo più vivace ed originale nella stesura delle
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sentenze.
L’imputato era Marziari Achille, di Gogliardo e di Pedernoni Virginia, nato a Faenza ed ivi
residente, classe 1910. Per esperienze maturate in guerra (forse), per convinzioni politiche
e, perché no, per il pugnace nome, fu spedito a Casola Valsenio proprio nel periodo in cui
il nemico si avvicinava alla Toscana e gli alleati tedeschi chiedevano di liberare le retrovie dai
ribelli. Dal giugno al settembre 1944 vi comandò il locale presidio della GNR. In precedenza si era già distinto in operazioni militari contro i partigiani, che “infestavano” le montagne
della vallata, provenienti da ogni luogo. Ad accusarlo di questo fu un camerata di Casola, tale
Natalino Tomi, che aveva raccontato un episodio risalente al marzo. Una colonna di patrioti
stava attraversando un ponte (illeggibile il nome), quando i fascisti, in agguato, ingaggiarono un combattimento che si protrasse per circa 4 ore.
Alla fine, due morti ed un ferito tra i partigiani. Tre di loro caddero in mano ai tedeschi,
quelli di stanza a Marradi (il ponte nella valle del Lamone?), che erano stati chiamati in soccorso, secondo il teste Parri. Inoltre, nella sua veste di Comandante del presidio di Casola,
il Marziari, alla vigilia dello sgombero dei fascisti alla volta del nord, aveva provveduto a
requisire camion per caricare le masserizie. Strana missione quella dei fascisti nostrani: si
erano messi in arme, avevano creato il terrore tra la popolazione per difendere la patria dalle
“orde selvagge”, come venivano chiamate le truppe multirazziali sotto il comando inglese, e
poi, all’avvicinarsi dei neozelandesi, indiani, greci, polacchi, canadesi, ecc., presero il largo
per allontanarsi dagli stessi e continuare a terrorizzare altre popolazioni italiche. Capitò in
Romagna quello che era capitato nella “fascistissima” Toscana. Cosa più grave ancora per
Achille, che lasciò in mano ai soli tedeschi Casola e la vallata del Senio addirittura fino alla
primavera del 1945. I camion sequestrati appartenevano a Giovanni Montefiori e Pellegrino
Nannini, messi di fronte all’alternativa, consegna o distruzione. L’imprendibile Marziari,
ammesso che fosse vivo, non spedì nessuna memoria difensiva.
Ma La Corte di Ravenna (7-5-46) lavorò ugualmente con discernimento e con spirito
equanime. Di fronte al fatto più tragico rilevò che, stante la ritrattazione del Tomi (perché?),
non era possibile ricostruire la dinamica dell’episodio. In quale data, come si svolse, quali
conseguenze, quali i nomi delle vittime? Nulla di preciso. Ragionamento accettabile, con
qualche riserva. Meno gradevole la considerazione aggiuntiva, secondo la quale i tedeschi
non entravano in operazioni di guerra o di polizia perché chiamati, ma eventualmente erano
loro ad ordinarle e a stabilire le funzioni dei fascisti. Polemica la chiusa, ma poco convincente alla luce dei mille misfatti perpetrati lungo lo stivale.
L’imprevedibile Spizuoco trovò invece nell’affare dei due automezzi la prova perfetta del
collaborazionismo. Essi servivano per uomini e masserizie della caserma, servivano per mantenere, al nord, intatta l’efficienza bellica al servizio dei germanici. Ergo. Dieci anni di carcere. Nessun accenno alle attenuanti, da escludersi a fronte della latitanza. Ragionamento ineccepibile e, a norma di legge, pena conseguente, anche se eccessiva. Cinque anni per il
sequestro di ciascun camion, un po’ troppi.
Dopo due mesi, amnistia.
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In nome di Sua Maestà Umberto II, Re d’Italia
Quando il 14 maggio del 1946 la Corte di Assise - sezione speciale di Ravenna riprese i
lavori dopo una settimana di sosta e dopo l’intervallo con presidente Spizuoco, il Vicchi
stese la sua prima sentenza non più in nome del Principe di Piemonte, ma in nome del Re
Umberto II. Nessuno dei vecchi avvocati ha saputo dire se il giudice che ci tiene compagnia
ormai da mesi fosse di sentimenti monarchici o meno. Poco importa.
Oltre alla novità istituzionale, in attesa della scelta definitiva del 2 giugno, era nell’aria un
provvedimento di amnistia. Non si capiva ancora quale natura esso avrebbe avuto, di clemenza, di condono, di sanatoria parziale, in relazione alle condanne già emesse, o addirittura di una norma di perdono generalizzato con automatico blocco di tutte le cause in corso
o in istruttoria e lo svuotamento delle carceri. In ogni caso, esso avrebbe inciso a fondo nella
vita nazionale, con conseguenze non prevedibili. Certo è che la vittoria della Repubblica o
della Monarchia avrebbe pesato sul Decreto in fieri. Si dirà, a distanza di tempo, che le varie
spinte in una direzione o nell’altra s’intrecciavano anche con le opzioni elettorali degli ex
fascisti repubblicani (imputati o meno). Lasciamo la grande storia e ritorniamo in via
D’Azeglio. Da un po’ di mesi abbiamo notato una certa fretta nell’attività del Tribunale, attribuita da noi, forse superficialmente, alle caratteristiche dei Presidenti. Ma a pensarci bene
tale accelerazione poteva essere dovuta o a sempre più esplicite spinte per chiudere i conti
con il passato o, all’opposto, al bisogno di processare il massimo di imputati, prima che
calasse il sipario: che, almeno, i colpevoli si portassero dietro l’onta della condanna.
Nel nuovo clima il primo a comparire fu Melandri Giordano, fu Francesco e di madre
ignota, nato a Lugo ed ivi residente, classe 1924. Un orfano di entrambi i genitori, che si
aggiunge ai molti giovani delle classi 1920-26 privi spesso del padre. N’abbiamo incontrato
a decine.
A Prato della Mora (Faenza) il Melandri aveva partecipato alla cattura di sei persone e alla
confisca delle loro motociclette e di n.17 fucili da caccia (nessuna data).
A Marzeno di Faenza aveva contribuito al rastrellamento e al tentato omicidio di fuggiaschi, con violazioni di domicilio e asportazione di 13 barili (notare) pieni di biancheria (nessuna data e nessun cenno al ruolo svolto).
A Lugo, rastrellamento di una quarantina di persone (dove, quando, esiti?).
A Varano Melegari (provincia di Piacenza), rastrellamento di 150 partigiani (null’altro).
A Castelnuovo (in confine con l’imolese), rastrellamento di partigiani (quando?).
Con queste premesse, un capolavoro di colpevole indeterminatezza, il processo si basava quasi esclusivamente sulle confessioni dell’imputato, che al dibattimento ritrattò tutto, ad
esclusione dei fatti di Lugo. In udienza comparvero anche due testi, Giancarlo Bianconi e
Candida Savini, che non seppero dire se alle ruberie e alle violenze in danno del mugnaio
Savini Sante fosse presente anche il Nostro.
Scontata l’assoluzione per insufficienza di prove (14-5-46).
Resta un mistero. Come aveva potuto il Melandri accusarsi, in Questura, di reati sconosciuti fino ad allora, compiuti in località ignote o distanti da Lugo centinaia di chilometri?
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Il Capo Provincia
Una novità assoluta il 14 maggio 1946. Per la prima volta la ricostruzione dei fatti inizia
con l’esplicito riferimento al massimo responsabile della vita politica-militare. Il Capo
Provincia, come Mussolini aveva ribattezzato gli antichi Prefetti, comprendendo nella stessa
carica anche quella del Federale provinciale, era il rappresentante locale sia del governo che
del partito. I nomi dei Commissari prefettizi (gli antichi Podestà) e dei Commissari Federali
dei vari comuni uscivano dal suo ufficio. A lui erano subordinati tutti i poteri, a lui dovevano rispondere tutti i gerarchi e gli ufficiali, tutti i Corpi di polizia, di partito e dell’esercito.
Ebbene, dopo un anno di processi, mai si era parlato del Capo Provincia, quasi fosse una
figura di secondo piano, che nei frangenti bellici aveva abdicato in favore delle Brigate Nere,
della Guardia Nazionale Repubblicana, dei Carabinieri, delle varie Polizie, della Questura, dei
Federali, dei Comandi tedeschi, dei Tribunali Straordinari. Nulla di tutto questo. Dal Capo
Provincia partivano le direttive e al Capo Provincia arrivavano i rapporti su ogni episodio che
potesse avere una qualche rilevanza: rastrellamenti, esecuzioni, problemi annonari, bombardamenti, sfollamenti, opinione pubblica, renitenti, arruolamenti…. Non che i tedeschi
ubbidissero al Capo Provincia, anzi, ma l’interlocutore primo dei Comandi provinciali germanici altri non era che il detto personaggio. Con lui si faceva il punto sulla presenza dei
ribelli, sulla loro pericolosità, sui provvedimenti da prendere, sugli esempi da dare, sui manifesti da affiggere, sugli uomini necessari per la Todt. Ebbene, a leggere le sentenze sembra
che a decidere sequestri, fucilazioni ed altro fossero i capetti periferici, i Comandanti di presidio, i brigatisti folli. Inimmaginabile tutto questo! Certo, nei vari comuni vi era chi decideva il da farsi e il come, ma sulla base delle direttive ricevute. E a cose fatte bisognava informare il Capo.
Per essere più concreti. In una certa stanza si riunivano il Capo Provincia, il Commissario
Federale, il Comandante della GNR, un alto ufficiale tedesco e pochi altri, e a fine riunione
partivano le istruzioni, da comunicare ai militi (i nostri imputati), solo poco prima dell’azione, anche per evitare che le notizie filtrassero. Chi pensa che i grandi rastrellamenti, con
l’impegno anche di migliaia di uomini, fossero decisi diversamente è fuori strada.
Naturalmente i Capi Provincia riferivano giornalmente in alto, di solito con sei destinatari
diversi, e naturalmente dal Lago di Garda giungevano indicazioni, valutazioni, cambiamenti
di linea, eventuali destituzioni, rotazioni. Ovviamente tutto era soggetto a cambiamenti, a
correzioni. Gli uomini avevano diverse caratteristiche e non tutti i Capi Provincia potevano
essere adatti a gestire situazioni più o meno drammatiche. Essi, in genere, non venivano
dalla carriera prefettizia e dovevano la loro nomina esclusivamente a criteri di lealtà politica
verso il Governo di Salò. Ma anche tra loro poteva esserci, oltre ad una diversa sensibilità, la
sensazione che la guerra fosse ormai persa e che pertanto fosse meglio prepararsi una via
di uscita, non necessariamente di fuga.
Ma allora, perché tanta reticenza nei giudici? Non è facile rispondere.
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4 latitanti e 4 detenuti
Nell’aprile del 1944 il Capo Provincia di Ravenna era il dott. Bogazzi Franco, nominato il
25 ottobre 1943, in sostituzione del Prefetto Rapisarda Salvatore, collocato a disposizione a
due mesi dalla nomina (conferitagli dal Governo Badoglio). Il Bogazzi, toscano di Carrara,
veniva dal vecchio partito fascista, come componente del Consiglio nazionale. Resterà a
Ravenna fino al 12 maggio del 1944, giorno in cui passerà in una delle province più importanti della Repubblica di Salò, Verona. Classe 1908, un giovane.
Il Bogazzi, il 22 aprile, convocò nel suo ufficio di Piazza Vittorio Emanuele II (oggi, del
Popolo) le massime autorità della provincia, comprese quelle tedesche. Ordine del giorno:
la situazione politico-militare nell’area di Fusignano e Alfonsine. L’indomani centinaia di
armati piombarono nella zona del Palazzone, agli ordini del Ten. Col. Anzalone Ferdinando,
Comandante del gruppo dei Carabinieri. In loco anche Guardie Repubblicane, Alpini, Agenti
di PS e soldati tedeschi, diretti da un ufficiale. Quindi, l’intero apparato repressivo disponibile in provincia. Le conseguenze (8 trucidati, vari feriti ed arresti) non andavano addebitate, come nelle carte finora emerse, solo a singoli militi, più o meno violenti, quasi tutti giovani. Ma in un eventuale processone il numero uno nella lista doveva rispondere al nome di
Bogazzi, il Capo Provincia, il mandante.
Nessuna illusione. Neppure quel giorno, nonostante la premessa chiarissima, il Capo
Provincia risultò tra gli imputati. Non comparvero nemmeno i nomi del Questore, del
Federale, del Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana, del Comandante dei
Carabinieri, ecc.
Di contro, sotto accusa solo otto gregari, di cui 4 detenuti e 4 latitanti, quasi tutti sui
diciannove, vent’anni. I quattro alla sbarra si chiamavano: Bondoli Bruno, di Secondo e di
Benaglia Giulia, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 23 maggio del 1945; Nanni Guido, di
Domenico e di Paci Santa, nato a Ravenna nel 1925, detenuto dal 22 giugno 1945; Pirazzoli
Guido, di Umberto e fu Bezzi Castellini Iole, nato a Ravenna nel 1927, detenuto dal 23 maggio 1945; Ricci Silvio, fu Fedele e fu Cassani Giacoma, nato a Fusignano nel 1894, detenuto
dall’8 giungo 1945.
L’imputazione: in correità con altri avevano causato volontariamente la morte di
Ballardini Giuseppe (mugnaio, di anni 20), Argelli Giulio (bracciante, di anni 21), Faccani
Severino (Serafino agli atti, autista, di anni 37), Ferri Giovanni (bracciante, di anni 54),
Martelli Francesco (commesso, di anni 22), Fiorentini Bruno, Zalambani Ettore ed un altro
non identificato. Bondoli, Nanni e Pirazzoli erano anche accusati di aver fatto parte del plotone di esecuzione, composto da militi fascisti e da tedeschi e comandati da un ufficiale germanico. A sparare anche Andreotti Walter, di Plinio e di Bolognese Ersilia, nato nel 1924 a
Migliarino, latitante, Benedetti Attilio, di Giuseppe di Manzini Giulia, nato a Modena nel
1907, residente a Faenza, latitante e Gatti Edilio, di Mario e di Costantini Solidea (notare),
nato a Brindisi nel 1924, residente a Ravenna, latitante. Da ultimo, in contumacia pure
Bartolomeolli Ezio, fu Gioacchino e fu Tommasi Beatrice, di Fusignano, classe 1899.
Dei 4 presenti solo i più giovani, il Pirazzoli e il Bondoli, ammisero la partecipazione
all’eccidio del Palazzone. Sulla negativa il Nanni e il Ricci. L’allora diciassettenne il Pirazzoli,
aggiunse che l’Andreotti sparò con soddisfazione alla testa dei moribondi e degli uccisi, e
prese parte agli incendi e alle rapine (conferme dal teste Cattani Carlo). Il Pirazzoli chiamò
in causa anche il Capitano faentino della Milizia, il Benedetti, che dava ordini e disposizioni.
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Contro il Bartolomeolli e il Ricci parlarono Fiorentini Aldo e Ferri Radames, il quale ricordò
la perlustrazione del Ricci, nella stessa giornata, in cerca del padre (poi ucciso).
Le imputazioni non si esaurivano qui. Il Bondoli avrebbe preso parte anche al rastrellamento nella Pineta di Cervia (uccisi due patrioti), a quello di Rocca S. Casciano, dove avrebbe ucciso un vecchio non identificato, ad uno in Bologna (come da lui confessato al camerata Foschi Giuseppe).
Il Ricci si sarebbe distinto nella ricerca e nella cattura di partigiani (testi, Ferri Laura, Mari
Giovanna, e Filippi (?). Infine, il ragazzino Pirazzoli fu indicato tra i presenti al seguente episodio.
Era l’ultimo di gennaio del 1944. Ravenna non era ancora sottoposta ai bombardamenti.
Il coprifuoco era accettabile. Nel pomeriggio si andava al cinema e a teatro. La sera, gli uomini di stampo antico si consolavano in osteria, a bere e a giocare, con un unico sgradevole
intervallo, allorché arrivava la ronda.
Quella sera irruppero in cinque in un’osteria di via Girolamo Rossi, a identificare e a perquisire. L’avventore Luigi Salti, senza documenti, fece un passo indietro e fu costretto a
seguire i fascisti, che per strada, quasi per gioco, gli lasciarono un po’ di spazio e poi gli spararono diversi colpi di arma da fuoco, ferendolo alla coscia destra. L’identificazione del
Pirazzoli vacillò non poco al dibattimento.
Migliorò anche la posizione del Nanni, a favore del quale parlò la Stefania Nanni (consanguinea), che costruì l’alibi di Guido, incolpando della partecipazione al rastrellamento il fratello Gaetano, successivamente ucciso.
Conclusioni: tutti (tranne il Nanni) furono ritenuti colpevoli di collaborazionismo nei fatti
del Palazzone, l’Andreotti con l’aggravante dell’omicidio, il Bondoli scagionato dagli altri crimini. Queste le pene. Andreotti 30 anni, il Bondoli e il Ricci 20, il Benedetti e il Bartolomeolli
15, il Pirazzoli (per l’età) 8. Pena aggiuntiva per tutti, la confisca di un quarto dei beni.
Non abbiamo scordato il nome dell’ottavo imputato, Gatti Edilio, latitante, accusato
anch’egli dei fatti del Palazzone. Contro di lui nessuna pronuncia, in attesa d’accertamenti
sulla notizia portata dal Pubblico Ministero, cioè che l’imputato era deceduto. Sta per ucciso? Sembrerebbe di no, visto che il suo nome non compare nell’albo dei caduti della
Repubblica Sociale.
Dopo due mesi la Cassazione concederà l’amnistia a Pirazzoli, Bondoli, Ricci e
Bartolomeolli. Nell’aprile del 1947 sentenzierà che il Capitano Benedetti non aveva commesso il fatto (perché?). Nel 1962 da Bologna arriverà per il Pirazzoli anche la riabilitazione.
E il Capo Provincia? Non abbiate fretta. In attesa, va ricordato che il contributo degli agenti di Pubblica Sicurezza ai fatti del Palazzone fu giudicato del tutto irrilevante, perché arrivarono all’appuntamento in ritardo!
Ferretti di Conselice
Ferretti Aldo, fu Roberto e di Minzoni Ida, era nato nel 1920 a Conselice e qui risiedeva.
Ma quando la Polizia nel dopoguerra andò a cercarlo, il brigatista nero era assente, latitante.
Anche lui, il 28 ottobre del 1943 (nell’anniversario della Marcia su Roma), si era recato
all’abitazione di Fioravante Verlicchi per arrestarlo e lo aveva trovato assente. Non si scompose e si mise a saccheggiare la casa. Non contento, alla madre di Fioravante, che implora-
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va le fosse lasciata qualche cosa, si rivolse con minacce di morte. L’8 aprile del 1944, in località Montaletto, con altri camerati contribuì all’arresto di Vincenzo Baffé e del nipote Bruno,
renitente alla leva. Doveva essere soddisfatto che lo scopo della missione fosse stato raggiunto, ma Aldo si mise ad arraffare numerosi oggetti. Dopo di che i due prigionieri furono
condotti in caserma. Il giovane Bruno fu fatto sparire e di lui “si ignorava la sorte”, scrive la
sentenza. Frase equivoca, non chiarita nelle conclusioni. Sparito per sempre o trasferito
altrove? A scanso d’altri fraintendimenti si deve precisare subito che non si tratta dei Baffè
di Massalombarda, 10 dei quali furono trucidati il 17 ottobre del 1944. L’indomani, il 9 aprile, il Ferretti rivisitò la casa e vi arrestò anche il padre di Bruno, che dopo vari giorni fu liberato assieme al nonno. I fatti furono confermati dai protagonisti, il Verlicchi e Baffè Marcello
(il padre di Bruno?). Condanna (15-5-46) a 14 anni di reclusione, a tre anni di libertà vigilata e alla confisca di 1/4 dei beni. Del latitante Aldo Ferretti non si saprà mai nulla. Nel gennaio del 1954 il Tribunale di Ravenna dichiarerà interamente condonata la pena.
P.S. Un Aldo Ferretti, classe 1920, nato a Conselice, risulta “caduto in un agguato” a
Mestre, in data 4 ottobre 1944. Un ennesimo processo ad un morto! Ancora più paradossale se si considera che il territorio di Conselice era rimasto altri sette mesi sotto la RSI.
Un nastro nei capelli
Era nato all’inizio del secolo e a 43 anni scelse il fascismo di Salò. Si tratta di Torricelli
Sante, fu Giuseppe e fu Alberani Maddalena, detenuto dal 31-1-46. Abitava a Fusignano, ma
le sue gesta, non clamorose, spaziarono dalla collina alle basse, tra il Lamone e il Senio.
Interrogato dalla Polizia, confessò persino episodi di cui non era stato accusato, come un
rastrellamento in quel di Brisighella. Era un uomo inquieto e si sentiva sfortunato ad essere
stato destinato al presidio di Bagnacavallo, dove non succedeva quasi mai niente. Motivo per
cui tutte le occasioni erano buone per unirsi in operazioni di polizia fuori da quel comune.
Il 23 aprile ‘44 lo troviamo al Palazzone (sua terra). Però, a differenza di altri, non aveva
atteso la primavera per mettersi in mostra. Infatti, nel dicembre del 1943, con una squadra,
aveva fatto visita, con metodi violenti, all’abitazione di Aldo Ballardini; il 20 gennaio del 1944
aveva preso parte al sequestro del fucile da caccia di Carlo Negrelli; in data imprecisata ad
una perquisizione presso Elio Minardi. Nel complesso, normali atti ai fini della collaborazione con il tedesco. Nulla di nuovo.
Ma un episodio fu particolarmente rivelatore della mentalità e della tempra di certi
repubblichini o quanto meno di quella del Torricelli. Una storia quasi banale, forse di nessuna o scarsa rilevanza penale. Eravamo alla fine del dicembre del 1943, tra il Natale e il
Capodanno. Tutto scarseggiava e per i genitori non era facile dare qualche piccola soddisfazione ai figlioli. La Babini Santa ci provò con la figlia. Non con i viveri e non con un vestitino, ma con un tocco di grazia ai capelli. Due bei nastrini rossi. Un gesto innocente. Ma quel
rosso non piacque al Torricelli, che minacciò la madre a mano armata! L’imputato, interrogato dai Carabinieri, ammise quasi tutti gli addebiti. Vogliamo credere che quel “quasi”
escluda l’ultima storia. Condanna a 10 anni e la confisca di parte dei beni (15-5-46).
Non risulta altro.
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Latitante per così poco
Le scarne sentenze da una parte ci tolgono conoscenze utili, dall’altra ci suggeriscono le
ipotesi più disparate. Prendiamo il caso del latitante Pasi Adriano di Faenza.
Latitante o contumace? I termini parrebbero sinonimi. Non allora. Tra i latitanti c’era chi
era fuggito in Sud America, chi era morto al nord, in combattimento o in altro modo, prima
e dopo la liberazione, chi si era nascosto in zona in attesa della sentenza, chi aveva avuto
paura a presentarsi, chi era stato sconsigliato, chi era stato ucciso, chi aveva cambiato nome,
chi non aveva dato più notizie. Un’infinità di variabili, che i famigliari, volendo e potendo,
avrebbero potuto ridurre ad una sola. Il latitante-contumace era colui che si rivolgeva ad un
avvocato, che lo pagava, che gli forniva notizie, che spediva memoriali, che, di fronte ad una
condanna, presentava ricorso. Preziose informazioni, che purtroppo non compaiono nelle
sentenze, ricavabili invece nei fascicoli agli atti, non disponibili. Per completezza, si ricordi
che gli imputati per collaborazionismo non erano quasi mai a piede libero: o detenuti o latitanti. L’arresto obbligatorio scaturiva da norme finalizzate alla garanzia della pace sociale e
politica, altrimenti a rischio. Non da ultimo, per evitare vendette private o organizzate. Non
mancavano i casi di chi si costituiva, dopo essere stato dichiarato “introvabile”, per sentirsi
più sicuro.
Pasi Adriano, fu Ercole e di Felici Maria, nato nel 1909 a Faenza ed ivi residente, apparteneva alla categoria dei latitanti. Altro non si può dire.
Il solito Schiumarini lo aveva indicato tra i partecipanti ai fatti di Rivalta (11 agosto 1944)
e Cicognani Giuseppe ricordava benissimo che il 24 agosto del 1944 gli aveva asportato un
camioncino Fiat 1100 in quel di Solarolo. Al processo il primo ritrattò, il secondo confermò.
Come già si è visto, i crimini più gravi spesso sono indimostrabili (per morte delle vittime o ritrattazione dei camerati), mentre altri, come i sequestri di beni, commessi nella convinzione di una piena legittimità, non sfuggono all’evidenza processuale.
Il Pasi fu condannato ad anni 4 e mesi 6, per la diminuente della minore importanza.
Amnistia a luglio. Una latitanza ben ripagata.
“ Quando verremo fuori …”
Samorè Giuseppe di Brisighella in aula ammise poco: l’adesione al Fascio repubblicano,
alle Brigate Nere e la sua presenza quando il camerata Oberdan Casadei portò a Tommaso
Liverzani il foglio di requisizione dell’automobile. Tutto qui. Poco e neanche corrispondente al vero secondo il derubato, che li ricordava entrambi a spingere fuori la macchina.
Le imputazioni erano ben più numerose e pesanti e comportarono l’audizione di decine
di testi. Si andava dal saccheggio alle estorsioni, dai rastrellamenti alle uccisioni.
Eppure l’imputato ebbe reazioni scomposte ed arroganti solo nei confronti del povero
Liverzani. Minacce ad alta voce e poco prima che la Corte si ritirasse per la decisione finale.
“Quando verremo fuori la pagherete” fu l’infelice espressione.
Non presto, alla luce dei capi di imputazione:
1) partecipazione alla fucilazione di cinque ostaggi a Casale di Fognano;
2) ai rastrellamenti di Brisighella, Cavina, Vespignano, Monte Romano, Montecchio;
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3) alla fucilazione del parroco di Montecchio don Lanzoni;
4) alla fucilazione dei cinque di Rivalta;
5) alla cattura e alla fucilazione di Zauli Domenico, Conti Paolo, Bettini Domenico, Mordini
Silvio e Gonnelli Mario in S. Stefano di Fognano;
6) al saccheggio delle abitazioni di Liverani Sesto e Melandri Stefano;
7) ad un’estorsione di lire 20mila in danno di Fantuzzi Ginanni Gabriele;
8) alla cattura di Linguerri Antonio e Angelo, poi uccisi;
9) alla cattura di Tampieri Primo, rapinato e poi fucilato;
10) ad una rapina di varie derrate in danno di Argnani Adriana;
11) ai rastrellamenti di S Lucia, Montefortino, Pietramora;
12) all’uccisione di cinque o sei ostaggi in S. Prospero;
13) ai rastrellamenti di Pieve Cesato, Ponte Castellina e Forellino;
14) alla cattura di Argnani Adriana e Ruffilli Amedea;
15) all’uccisione di sei partigiani in Castel Raniero, ecc.
Al processo non tutte le accuse furono dimostrate e se ne aggiunsero altre. La Verità lo
escluse dai fucilatori di Rivalta. Saltò fuori che esisteva un altro Samoré. Ma Linguerri Luigi
e Tampieri Mario (consanguinei delle vittime), Finni Fulvio ed Enzo non ebbero incertezze
a riconoscerlo. Pesante fu anche la testimonianza di Pazzi Luciano in relazione a rastrellamenti e a saccheggi. Da ultimo, la Corte diede particolare rilievo al Comandante partigiano
dell’area, il citato Liverani Sesto, che, tramite il servizio informazioni operante nel 1944 (infiltrati e confessioni di militi catturati), era pervenuto alla certezza delle responsabilità del
Samorè nei vari rastrellamenti. Non era mai capitato prima che una testimonianza fosse
acquisita in forma simile.
Samorè Giuseppe, di Domenico e di Galassi Maria Luisa, nato nel 1924 a Brisighella, fu
ritenuto colpevole di molte imputazioni, ad esclusione delle fucilazioni. Nessuna attenuante per lui, vista “l’attività spiegata” in favore dei fascisti e del tedesco invasore, che fu “grave,
faziosa e pervicace”.
18 anni di reclusione e la confisca della metà dei beni (21-5-46).
Nel maggio del 1947, la Cassazione riterrà estinto il reato.
Libero a 23 anni, il Samorè avrà davanti un’intera vita per vendicarsi.
Una vita da carceriere
Era nato bene. Al tempo della vendemmia, nella ricorrenza di Porta Pia (o in tale data lo
avevano registrato), nel cuore della Sardegna, ad Escalaplano. Correva l’anno 1896. Le sue
fortune, però, finivano qui. Lo battezzarono con nome e cognome ben auguranti, Benigno
Amato, quasi un’ironia per un neonato lasciato in un fagotto sulla porta della Chiesa. Figlio
di ignoti, nella sventura, almeno gli risparmiarono gli appellativi infamanti e consueti dei trovatelli di quella terra, Vacca e Porcu.
Un’infanzia infelice in un brefotrofio, da quasi carcerato. Un po’ di scuola e poi la vita libera all’aria aperta in compagnia delle pecore. Tre anni di trincea in terra veneta ed infine il
fascismo. Il regime ad Amato piacque anche perché gli offrì più opportunità, lasciare la
pastorizia e l’isola, vestire in divisa. Come figlio di nessuno mai avrebbe potuto fare il cara-
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biniere, il poliziotto o il finanziere. La Guardia Carceraria sì. Meno soldi e meno prestigio,
ma un posto sicuro. Pagato per camminare lungo il muro di cinta o lungo i corridoi delle
carceri. Esperienze già vissute nell’infanzia. Da carceriere girò mezza Italia, si sposò ed ebbe
figli. Per anzianità fece anche carriera e con la guerra lo troviamo a Ravenna come Guardia
Scelta presso le Carceri Giudiziarie.
Da sempre con chi comandava, dopo l’8 settembre si mise con i fascisti repubblicani.
Non tutto procedeva come per il passato, con donne e vecchi portati in prigione al posto
dei figli renitenti. Zoccoli e piatti sbattuti contro le sbarre.
Nel febbraio del 1944 ricevette una visita importante, quella del vero capo del fascismo
ravennate, Andreani, portatore di un’offerta: la promozione a Capo Guardia, in sostituzione
del titolare, Alberto Marra, restio ad accogliere gli arrestati politici che non erano accompagnati dai Carabinieri o dai Poliziotti. Per Marra non bastavano gli ordini del Comandante
della Brigata Nera e della Federazione fascista.
Amato accettò le nuove regole e ben presto si abituò ad operare anche in senso inverso,
prelevando dal carcere chi doveva restarvi. Successe con Mario Zoli, da lui consegnato in
Federazione e poi fucilato dai tedeschi presso la recinzione della “petrolifera” di via Alaggio
(zona porto, futura Sarom) il 27 maggio del ‘44. Sempre impegnato, anche con il figlio.
Quando non lavorava da carceriere faceva il poliziotto, uscendo con la Brigata Nera a catturare oppositori e renitenti. Arrestò così Domenico Fiumana, Luciano Galli, Alberto Pezzi. Già
nel 1943 si era distinto nella caccia ad Aristide Savigni e Dino Ravaioli (il salvatore del pilota
inglese, poi ucciso).
Ad ottobre, nei giorni del trasloco al nord, superò se stesso. Con la famiglia e il figlio fascista si portò appresso i beni del carcere: brande, pagliericci, coperte, incartamenti, la cassa
con tutto il denaro e gli oggetti di proprietà dei detenuti. Il più originale dei carcerieri! Se
fosse stato un bevitore, avrebbe richiamato alla memoria quella guardia che, quando eccedeva, evadeva.
Al processo si giustificò. Consegnava uomini e cose senza conoscerne il destino, sempre
su ordine di Andreani, al quale era debitore della promozione. Fu smentito da molti testi che
ne sottolinearono la particolare acredine e faziosità. Ravaioli Sesto lo ricordava con il mitra
ad interrogare tutti sulla sorte del pilota, Zoli Aldo, allontanato con spinte allorché cercava
di avvicinarsi alla cella del fratello, Moldani Alda, impedita dal consegnare cibo al marito ed
autorizzata soltanto in cambio di lire 500, a titolo di deposito!
Nessuna attenuante per Amato Benigno di Escalaplano, detenuto dal 17 febbraio 1946.
Condanna a 15 anni di reclusione, più tre anni di libertà vigilata e la confisca di 1/4 dei
beni (22 maggio 1946). Una pena equilibrata anche con il solo Codice Penale (di pace).
La Cassazione, forse pensando ad un carcerato senza branda né pagliericcio, nel febbraio del 1947 lo rimanderà a casa. A fare il pastore nel nuorese?
La vendetta dello studente
Era nato a Ravenna nel giorno di Ferragosto del 1927, da Umberto e da Gattamorta
Malvina. Si chiamava Fusaroli Domenico. Gli anni della guerra li aveva trascorsi sui banchi di
scuola. Era in vacanza quando cadde Mussolini e quando risorse lasciò il Liceo Scientifico e
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i suoi insegnanti. Nell’ottobre del 1943, a sedici anni, si arruolò nella Guardia Repubblicana
e fu mandato lontano da casa. Un giorno, in licenza, incontrò due ex compagni di scuola,
Antonio Forestieri e Dante Bellettini, e si vantò di avere partecipato a rastrellamenti con la
cattura di ribelli e di avere denunciato in Federazione il comune insegnante, di idee pericolose, il prof. Mario Montanari (ucciso al Ponte degli Allocchi).
Interrogato in stato di libertà, Domenico aveva ammesso soltanto il colloquio con il
Forestieri, ma non il contenuto dello stesso. I giurati non gli credettero.
Gli concessero tutte le attenuanti possibili e si fermarono con la pena a tre anni di reclusione e alla confisca di 1/5 dei beni (22 maggio 1946)
Dopo otto mesi sarà amnistiato.
Gramigna di Riolo Bagni
Fu arrestato il 2 giugno del 1945, il giorno successivo al suo compleanno, e processato il
2 maggio del 1946. Si chiamava Gramigna Domenico, fu Giusto e di Marchetti Venusta, nato
a Riolo nel 1922.
A 22 anni nella Brigata Nera, a scorrazzare per le vallate e per i monti. Il 6 ottobre del 1944
partecipò al rastrellamento in parrocchia di Pergola e Tebano e si accanì particolarmente nei
confronti di Casadio Carlo e Cavina Francesco, saccheggiando ed incendiandone le case.
Dopo 10 giorni, replica a Villa Vezzano nel comune di Brisighella. La sventura colpì
Domenico Alpi, cui furono rapinati vari oggetti ed un maiale. A fronte delle testimonianze
dei diretti interessati, i dinieghi non servirono a nulla.
Vada per le attenuanti, ma si faccia 4 anni e 6 mesi di reclusione e risarcisca con 1/5 dei
beni. Nel gennaio successivo, l’amnistia.
Qualche novità
Siamo a pochi giorni dal referendum, in data 28 maggio. Il lavoro arretrato sembra non
finire mai. Da Roma giunge una nuova disposizione: accanto al Presidente, viene posta una
nuova figura, un magistrato di carriera, che da un lato riduce il peso dei giurati popolari
(nonostante il loro aumento a cinque) e dall’altra produce un’accelerazione nei processi.
Nel caso nostro il dott. Vicchi viene affiancato dal Consigliere Lallo. La novità si vede anche
dallo stile usato nella stesura delle sentenze.
In stato di detenzione compare Rustichelli Walter, di Alderigo e di Accorsi Ida, classe
1907. Non è un romagnolo e non aveva portato divise. Era nato nella Bassa reggiana, a Rio
Saliceto, e poi si era trasferito nella Bassa modenese, a S. Possidonio (il luogo della famosa
corriera fantasma).
Era capitato nella zona di Faenza per motivi di lavoro. Come agente di campagna, amministrava numerosi poderi verso Russi, a Ponte della Castellina. Nel gennaio del 1946 i Regi
Carabinieri di detta località lo avevano denunciato per alcuni episodi accaduti nel dicembre
del 1943. Protagonisti il Rustichelli ed alcuni Carabinieri del posto! Stranamente, però, era
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stato arrestato solo a fine aprile 1946. Viste le accuse, si poteva anche soprassedere.
L’11 dicembre 1943 l’agente di campagna aveva fatto cercare, tramite un carabiniere, un
suo colono che non si era presentato alla armi, tale Arturo Liverani. Ricerca vana. Trascorsi
20 giorni, il Rustichelli invitò a casa sua il fratello maggiore del Liverani, Vincenzo.
All’appuntamento anche due Carabinieri che arrestarono il consanguineo, senza obblighi di
leva. Fu giocoforza per Arturo iscriversi alla Todt per far liberare il fratello.
Un copione simile il 12 dicembre. Il Rustichelli si prestava, convinto o meno, ad aiutare
il regime e tra i doveri e gli obblighi c’era quello di tenere una contabilità speciale, aggiuntiva. Tanti fittavoli, tanti coloni, tanti maschi, tanti giovani con pendenze militari, tanti renitenti. E lui girava di fattoria in fattoria in cerca dei capifamiglia, cui sottoporre un biglietto
intestato al Fascio repubblicano, con su scritto “Dichiaro che non ho figli della classe…”.
Quel giorno era giunto da Tassinari Giovanni, il quale, per non affermare il falso, si rifiutò di
firmare. Tutto finì lì. Ma dopo due giorni ecco la visita del Maresciallo dei Carabinieri, con
minacce di arresto se il figlio e il nipote non si fossero presentati.
Gli “sbandati” salvarono il vecchio e si presentarono alla Todt.
Al processo l’imputato riconobbe parzialmente il primo fatto. I Carabinieri gli avevano
detto che avrebbero interrogato il Liverani, non che l’avrebbero tenuto come ostaggio. Per
il resto, mai presentato nessun foglietto da firmare.
Conclusione a sorpresa. I denuncianti (Liverani e Tassinari) si trasformarono in testimoni a difesa. Tutto un equivoco!
I coloni tornarono ai lavori dei campi, ad ubbidire al padrone vero, l’agente di campagna
andò nel modenese e i Regi Carabinieri a seguire gli ultimi giorni di campagna elettorale.
Tosi di Faenza
La curiosità femminile! Nell’ottobre del 1944 Domenica Montanari vide Domenico Tosi
che zoppicava vistosamente. Chiese in giro e venne sapere che si era rotto una gamba in un
inseguimento in località Villa Cavina, conclusosi con l’uccisione di Pasquale Astoritti. Nella
caccia anche Arnaldo Landi, che confermerà il fatto.
Iniziò male il processo contro Tosi Domenico, fu Enrico e di Silvestrini Adria, nato e residente a Faenza, classe 1913, detenuto dal 6 maggio del 1945.
Molte altre le accuse: rastrellamenti, incendi, saccheggi, furti. A Pergola, a Tebano, a
Formellino, a Rontana, a Marzeno, a S. Biagio. In danno di Casadio Carlo, di Alessandrini
Gino e Caroli Giovanni (nipote e zio, impiccati con altri sette a Ponte Felisio di Solarolo, in
data 2 settembre 1944), di Cavina Francesco, di Gentilini Ada, di Fiumi Ferruccio, della famiglia Placci, di Bedronici Antonio e figlia, ecc.
Il Tosi ammise l’iscrizione alle Brigate Nere (costrettovi), la presenza a Rontana e la visita al Bedronici, assieme al Comandante Cattani e ad un altro milite, al fine di rintracciare il
figlio, disertore della Brigata Nera. Non trovandolo, bruciarono il capannone presso cui la
famiglia Bedronici era sfollata ed arrestarono il padre.
Contro di lui testimoniarono madri e padri, sorelle e fratelli, vedove. Il suo nome anche
nelle confessioni del camerata Schiumarini Francesco.
La Corte (28-5-46) ritenne il Tosi meritevole della pena di morte, pena degradata ad anni
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30, più 4 anni di libertà vigilata e la confisca dei beni.
Nel giugno del 1947 la Cassazione annullerà la sentenza e rinvierà alla Corte d’Assise di
Bologna.
Geminiani di Massalombarda
Come molti repubblichini di Massalombarda, il Geminiani fu accusato di avere derubato
i fratelli Matteucci di macchine e generi agricoli, di mobili, quadri ed arazzi. Un danno di
oltre un milione. Era inevitabile che succedesse, poiché la Brigata Nera si era acquartierata
nel palazzo di Piazza Ettore Muti (già Camicie Nere), cacciandone i legittimi proprietari, i
Matteucci appunto. Su Geminiani Italo, di Pietro e di Franzaroli Maria, classe 1923, detenuto dal 28 agosto 1945, piovvero anche altre imputazioni, più gravi e specifiche: arresti arbitrari, sevizie durante gli interrogatori, un omicidio.
Il 1 marzo del 1944 prelevò il gestore di un Caffè di Massalombarda, tale Visani Marcello.
Presso la sede delle Brigate Nere: botte, accuse e domande. Gli si rimproverava di avere ucciso un fascista, ma soprattutto si voleva sapere dove si nascondeva Umberto Ricci (detto
Napoleone). A conclusione, il Visani fu portato come prigioniero nella caserma dei Carabinieri
e il Geminiani si rivolse al custode con queste parole: “Gli dia una buona coperta, perché questa è la sua ultima notte”. Le cose andarono diversamente e il Visani fu liberato il 19 dello stesso mese. Era appena ritornato a casa, ad osservare i lividi e le ferite, quando a sera ritornarono le Brigate Nere, che lo prelevarono a forza e lo portarono fin sotto il muro del Camposanto.
In data imprecisata il Geminiani torturò per due ore Pompeo Lanzoni con la sola curiosità di sapere dove si nascondeva il fratello Paride.
Il 25 agosto del 1944, forse per proseguire le indagini di Ravenna sui legami di Umberto
Ricci con gli oppositori di Massalombarda (paese di provenienza), fu, dal Geminiani ed altri
arrestata Lisa Verati.
Prima tappa, la sede della Brigata Nera locale. Si cominciò con gli schiaffi e poi la donna
fu sottoposta “ad ogni sorta di sevizie” (non precisate). Le rimproveravano di capeggiare il
movimento partigiano e volevano conoscere i nomi dei ribelli e i loro rifugi. Infine fu tradotta per ulteriori interrogatori nelle Carceri di Ravenna, dove rimase 17 giorni.
Veniamo all’omicidio. Degasio Mazzolani, di Massalombarda, il 21 agosto 1944 fu preso e
condotto a Lugo. In cella con lui un ferroviere di Conselice, Armando Ancarani, classe 1895.
Trascorse un giorno intero senza interrogatori. Poi iniziò il calvario per entrambi i detenuti. Da Degasio volevano sapere dei nascondigli dei partigiani; ad Armando rimproveravano la scelta partigiana dei figlio e lui stesso era accusato di avere ucciso un fascista. Si alternarono botte ed accuse. Il 23 furono caricati su un camioncino e, per nascondere alla gente
le lesioni, furono avvolti in una coperta. Il mezzo andò verso nord, verso le Valli di
Campotto, in comune di Argenta. Ad una curva i due furono fatti scendere. Il Geminiani
puntò una pistola contro Mazzolani, mentre altri brigatisti si allontanavano con l’Ancarani.
Dopo pochi minuti si udirono spari. Il corpo dell’Ancarani venne gettato in mezzo ad una
risaia.
L’imputato non si scompose di fronte alla gravità delle accuse ed ammise soltanto l’iscrizione al Fascio, l’arruolamento prima nella “Guardia del Duce” e poi nelle Brigate Nere.
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Riconobbe anche di avere un giorno accompagnato in macchina la Verati: un fermo per
accertamenti.
La Corte, alla luce delle testimonianze dei sopravvissuti, confermate da Casotto
Francesco e Ricci Teresa, si convinse della mancanza di scrupoli dell’uomo, della cattiva condotta morale e politica (come da rapporto della Questura). Colpevole di tutti i reati, ad
esclusione della rapina nel Palazzo Matteucci (non provata). Condanna a 18 anni (senza attenuanti), più tre anni di libertà vigilata e la confisca di 1/3 dei beni (28-5-46).
Esattamente un anno dopo la Cassazione annullerà e rinvierà alla Corte di Assise di
Bologna per un nuovo processo.
Bertulli di Conselice. A morte!
La difesa presentò al processo un certificato attestante che il Bertulli dal 25 aprile 1945 al
3 maggio aveva operato in una formazione partigiana, la “Brigata Garibaldi (?) Mattei”, in territorio milanese. Stranamente, però, le accuse contro di lui erano partite proprio dal
Comune di Milano, che, dopo averlo licenziato da vigile urbano, aveva spedito un dossier a
Ravenna in data 19 maggio.
Si aggiunga che nell’ultimo giorno di attività partigiana era stato arrestato per collaborazionismo con il tedesco.
Bertulli Edelweis, di Antonio e di Zaccaria Stella, era nato a Conselice nel 1910. Lì aveva
fondato il Fascio Repubblicano e n’era divenuto vice Segretario. Per mesi e mesi, secondo
l’accusa, il Bertulli terrorizzò la popolazione di una vasta area, da Conselice a Lugo.
Queste le imputazioni:
1) di avere ucciso il colono Lidio Savioli di Giovecca (20-3-44);
2) di avere ucciso tre compaesani (il pescivendolo Buscaroli Guido, il facchino Antonio
Gardenghi, il muratore Martelli Libero) nei pressi dei Fiumi Uniti in comune di Ravenna, in
data 12 luglio 1944;
3) di avere organizzato moltissimi rastrellamenti nella Bassa Romagna;
4) di avere sfondato la finestra e la porta di Moldati Giacomo, il 5 gennaio 1944, con il pretesto della sua ostilità al fascismo, asportando un fucile da caccia e vari altri oggetti e di
avere, il giorno successivo, fatto arrestare il Moldani e la figlia di anni 21;
5) di avere fatto sequestrare dai tedeschi un autocarro Fiat 634, targato Ra 9659;
6) di avere, per rappresaglia in seguito all’uccisione del fascista Graldi Alfredo, organizzato
e diretto le squadre di azione, incendiando diverse case di comunisti e minacciando di
morte Ricci Maccarini Norino, Verlicchi Marcello e Tampieri Giuseppe, che non intendevano iscriversi al Partito Fascista Repubblicano;
7) di avere ucciso Camanzi Sebastiano, partigiano, muratore di Giovecca, in data 22 luglio;
8) di avere fatto perquisizioni arbitrarie e a mano armata nelle abitazioni di Billi Carletta e
Ricci Maccarini Ottavia, con l’accusa di aiutare i partigiani e di avere un figlio renitente (primavera del 1944);
9) di avere perquisito la casa di Pasi Berta in cerca del fratello partigiano, procedendo, successivamente, all’arresto della madre e della sorella;
10) di avere requisito un’automobile di proprietà di Martelli Libero;
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11) di avere eseguito una perquisizione nell’abitazione di Toschi Armando, tentando di catturarlo e denunziandolo alla polizia tedesca;
12) di avere compiuto sequestri di merci in danno di Testa Luigi, Minardi Giuseppe, Rambelli
Lina, Garotti Nanda, Barani Marianna, Baldassari Medardo, Chersani Adelmo, Berti Celeste,
Tagliani Cleto, Fabbri Ettore, Garotti Maria, ecc.
Per finire, altre accuse di torture, sevizie e saccheggi in danno di antifascisti e patrioti:
Baffé Bruna e Vincenzo, Paulucci Guido. Spari contro Verlicchi Angelo, contro Graldi Angelo.
Saccheggi delle case dei fratelli Costa, di Verlicchi Francesco e Fioravante.
L’imputato negò la fondazione del Partito, le violenze e gli omicidi, ammettendo soltanto di avere svolto compiti annonari in rappresentanza del Comune. Attribuì l’uccisione del
Savioli ad una operazione gestita dalla Brigata Nera di Ravenna, in cooperazione con i fascisti di Lugo, Massalombarda e Conselice. In tale rastrellamento a lui era toccato di guidare
una macchina. La difesa, in merito a quest’ultimo episodio, giocò su alcune contraddizioni
dei testi, che dapprima avevano dichiarato che il Bertulli aveva ucciso il Savioli con un colpo
di pistola, mentre al processo parlarono di una scarica di mitra. Una certa Rambelli Lina
ricordò che l’imputato si era vantato di tale misfatto. Verlicchi Angelo ricordò che una volta
il Bertulli lo ferì e si dichiarò dispiaciuto di non averlo ammazzato.
Il Consigliere Lallo ricostruì i fatti con poca coerenza e diverse imprecisioni. Scrisse
Brisighella al posto di Conselice, cancellò in un colpo ben 4 omicidi (Camanzi, Gardenghi,
Buscaroli e Martelli), poiché l’imputato a quel tempo non era più in provincia di Ravenna,
come confermarono tre testi, salvo poi, nel dispositivo della sentenza, aggiungere esplicitamente anche l’omicidio Camanzi.
La Corte ( Vicchi, Lallo, Buttini, Castelvetro Bartoletti, Minghelli, e Morigi) non concesse
nessuna attenuante, considerando risibile l’apporto del Bertulli alla Resistenza milanese.
Condanna sulla base dell’art. 51 del Codice Penale Militare di Guerra. Fucilazione alla
schiena e confisca dei beni.(28-5-46) Sentenza da pubblicare su “Il Giornale dell’Emilia” e su
“La Voce di Romagna”.
Il 25 febbraio del 1947 la Cassazione annullerà la condanna per insufficiente motivazione
del rifiuto delle attenuanti generiche e rinvierà alla Corte di Forlì.
Che dire? Nulla si dice della vita di un condannato a morte: stato civile, mestiere, carattere, precedenti, quando era partito per Milano, quando era stato assunto come vigile. Poco
anche dei fatti specifici, dei crimini, della dinamica, dei luoghi, del momento della giornata,
della data, del concorso d’altri…
Garotti di Lugo. A morte!
La confusione e le dimenticanze dipendono in parte dalla fretta: in due giorni quattro
processi con due condanne a morte. Dalla causa Garotti veniamo a sapere, per esempio, dell’omicidio Camanzi, del quale il Bertulli era stato ritenuto colpevole, senza che la sentenza
ne indicasse le prove.
Il 15 luglio del 1944, un sabato, Camanzi Sebastiano, classe 1909, muratore di Giovecca
(Lugo), sta rientrando a casa. Ad attenderlo due militi, un italiano e un tedesco. E’ portato
a Lavezzola e poi a Conselice. Il sabato successivo, il 22 luglio, viene fucilato lungo il muro
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di cinta del cimitero di Conselice. Natalia, la sorella di Sebastiano, subito accorsa sul luogo,
trova il Garotti in compagnia di tale Bruno Bolognesi e di alcuni tedeschi.
Il 6 marzo dello stesso anno, un lunedì, mentre a Faenza mons. Battaglia riesce ad ottenere la liberazione di alcuni detenuti politici, i fascisti del luogo, aiutati da quelli di altri presidi e dai tedeschi, sono impegnati sulle colline di Brisighella, a S. Cassiano. Molti prigionieri e due patrioti uccisi. Al rastrellamento partecipa il Garotti.
Il 1 giugno (gennaio nel testo), altra retata da parte di forze italo-tedesche in località S.
Patrizio di Conselice. 4 giovani sono catturati, tre spediti in Germania, uno, Luigi Brini, è
fucilato lungo il muro di cinta del cimitero di Conselice. L’indomani avrebbe compiuto 25
anni. Il Garotti è componente del plotone di esecuzione.
L’11 agosto, un venerdì, spedizione congiunta nella zona di S. Maria di Fabriago (Lugo),
in sinistra Senio. Catturate una trentina di persone (sessanta in un passo successivo), tra cui
Siroli Angelo, Siroli (errore, Pattuelli) Domenico e Pattuelli Lorenzo, fucilati con altri sette
presso il cimitero di Ca’ di Lugo, in destra Senio. Lorenzo, colono, aveva 16 anni, Domenico,
il padre, 51 anni, il contadino Angelo, 35. Tutto si era svolto nella stessa giornata. Garotti,
sempre presente, componente del plotone di esecuzione, aveva dato anche i colpi di grazia.
Garotti Dino, fu Natale e fu Minzoni Francesca, nato nel 1914 a Lugo, detenuto dal 6 ottobre 1945, respinse ogni addebito, tranne l’arruolamento nella GNR e nelle B.N., e la partecipazione al rastrellamento di via Viola (in Fabriago di Lugo).
La parola ai testi. Il dottor Sismondo (cognome illeggibile) riferì che al tempo del rastrellamento di S. Cassiano aveva fatto proprie indagini, inequivocabili. E’ la prima volta che una
simile procedura entra in un processo. Libero Nardi ricordò che l’imputato si vantava di non
essere mai mancato ad un rastrellamento con i nazisti, anche se nella denuncia scritta il
Nardi aveva confuso le date (lo fa anche la Corte!). Fabbri Libero (quanti Libero!), tra i catturati di S. Patrizio, non ebbe dubbi. Sulla stessa linea Bolognesi Emiliano e Marironi (?)
Rodolfo, che riferirono anche di sevizie.
Quanto ai fatti dell’11 agosto (9 fucilati), ammessi parzialmente dall’imputato, furono
concordi nell’accusarlo Siroli Antonio, Pattuelli Luigi, Bernardi Fosca, Nardi Libero, Pattuelli
Liliana, (?) Maria, Ghiselli Angelo, Cantoli Ernesto e Bacchilega Lino (per lo più famigliari
delle vittime).
Tra i testi si distinse Fosca Bernardi che al processo riferì che il Garotti dava i colpi di grazia. Circostanza non menzionata nella denuncia scritta, e ciò consentì all’avvocato della difesa di chiedere un rinvio per ulteriori accertamenti. Richiesta giudicata “inutile e dilatoria”,
poiché la teste era in armonia con le parole del Bacchilega (“Vidi il Garotti offrirsi per il plotone”) e del citato Nardi (amico dell’imputato) al quale il Garotti stesso aveva confessato la
partecipazione all’eccidio dei nove.
Restava da appurare la verità in relazione all’omicidio del Camanzi. L’imputato fu visto sul
luogo del misfatto, ma dopo. Troppo poco per la Corte.
Nessuna attenuante per il Garotti, data la notevole importanza del ruolo svolto.
Condanna alla fucilazione alla schiena e confisca dei beni. Sentenza da pubblicare su “Il
Giornale dell’Emilia” e su “La Voce di Romagna”, (28-5-46).
Ad ottobre la Cassazione annullerà il verdetto e rinvierà alla Corte di Assise di Bologna.
Cassazione a parte, nonostante gli errori sparsi qua e là, si deve riconoscere che la condanna capitale scaturisce dalle risultanze dei fatti.
Una curiosità. Casualmente nel fascicolo compare in un unico foglio lo stampato della
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Suprema Corte. Bellissima l’intestazione: a cinque mesi dalla proclamazione della
Repubblica, al centro campeggia ancora Umberto di Savoia (neanche barrato), in piccolo e
di lato “In Nome del Popolo Italiano”. Quanta nostalgia!
Amici di mensa
Se fosse rimasto a vivere nel suo paese, forse non avrebbe avuto guai. Si era invece trasferito a Ravenna. Nonostante l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano, nel dopoguerra
tutto era filato liscio. Parliamo di Amici Lazzaro, di Aurelio e di Monti Sincera, classe 1924.
Un giorno venne a sapere che in un processo in Corte di Assise era uscito il suo nome,
come partecipante alla cattura di Ravaioli Dino, il giovane, noto a queste cronache, che il 30
dicembre del 1943 aveva salvato un pilota inglese nella località di S. Stefano, a pochi chilometri da Ravenna. In più, i fratelli di Dino, Sesto e Geremia, che avevano fatto riferimento
ad un giovane collaboratore di Papa Enrico (già visto) nelle ricerche, in istruttoria avevano
riconosciuto da una foto proprio il Lazzaro. Di disgrazia in disgrazia, altri, non meglio definiti, giurarono che nella notte tra il 6 e il 7 gennaio del 1944, egli si aggirava per i locali della
Federazione mentre si teneva il processo contro il Ravaioli da parte di un cosiddetto
Tribunale. Uscito il verdetto di condanna a morte, il Lazzaro, sul posto come componente
della Polizia federale, si sarebbe vantato che il merito era tutto suo.
Su queste basi Amici Lazzaro fu arrestato il 22 gennaio 1946.
Al processo, il Papa escluse di averlo visto quel giorno e i fratelli della vittima sfumarono
le loro certezze. Ma il soccorso decisivo giunse da due amici che con assoluta sicurezza
dichiararono che l’imputato quel giorno (il 30 dicembre o il 6 gennaio?) era rimasto sempre
a Ravenna. Raul Conservi garantì per il pomeriggio (dalle 13 alle 18,30) e Livia Trombini per
le ore notturne, trascorse in un campo (con quei freddi!). Un alibi di ferro. Resta un piccolo dubbio, intatto dopo la lettura degli atti.
Come era possibile, a due anni e mezzo di distanza, ricostruire le ore di una giornata con
tanta precisione? Assoluzione piena (29-5-46).
Ancora su Cervia
Il desiderio di conoscere spesso si blocca di fronte a sentenze simili, in cui la ricostruzione dei fatti è proposta in termini essenziali, al fine del verdetto, non della narrazione esaustiva. Così la fantasia è obbligata ad immaginare i fascicoli allegati, gettati da qualche parte
in modo disastroso, dopo manomissioni interessate o prelievi degli alleati per fare fuoco.
Bisogna rassegnarsi e fare dei limiti una virtù. Però, non sempre è un male, poiché di tanto
in tanto si scoprono frammenti inediti di verità, sparsi in sentenze successive.
Della notte di Cervia si è parlato più volte, del colpevole e dei complici, del ruolo dei forlivesi, della dinamica degli eventi, della logica dei giurati, ecc. Tutto chiaro allora? Per niente. Ogni tanto si scopre un particolare e si modifica la prospettiva della Corte.
Per esempio, dalla causa contro Fabbri Paolo di Ravenna veniamo a sapere che il fascista
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ucciso nel buio, il 21 marzo 1944 e rimasto innominato, si chiamava Meldoli. Inoltre, che
qualcuno da Cervia aveva telefonato a Ravenna al Gruppo Rionale “Muti” per comunicare la
perdita, dimenticando però di citare l’avvenuta rappresaglia; che dal capoluogo era subito
partita una squadra per dare una lezione, non per stendere un rapporto.
La squadra di brigatisti era comandata da Giovanni Babini e comprendeva Primo Poletti,
Giacomo Andreani (non ancora capo assoluto), il Fabbri ed altri. Il gruppo, giunto a Cervia,
vedendo che il Casalboni aveva fatto una strage nel Caffè Roma, invertì la marcia. L’imputato
disse che per lui il viaggio era una semplice gita, che non ne conosceva gli scopi e che l’esito della puntata dimostrava l’assenza di ogni spirito di vendetta. Di avviso opposto la Corte,
per la quale la squadra non seminò morte solo perché altri avevano provveduto prima.
Il Fabbri era anche accusato di partecipazione all’eccidio di Ponte degli Allocchi. Il suo
nome era stato comunicato agli agenti della Questura, Piermattei e Salvadori, dal brigatista
Morelli Agostino. Ma in dibattimento l’accusatore si rimangiò il tutto, perché estorto. Nulla
poteva dire, in quanto lui non era presente. Ciò fu sufficiente alla Corte per derubricare l’imputazione, cosa corretta ai fini della giustizia, ma non automatico ai fini della storia. Chi può
escludere, infatti, che le notizie su un evento tanto rilevante non potessero arrivare alle
orecchie dei camerati assenti?
In data 29 maggio 1946, il Fabbri Paolo, fu Federico e fu Pizzigati Ruggera, nato a Ravenna
nel 1905, detenuto dal 25 gennaio 1946, iscritto al Partito Fascista Repubblicano ed arruolato nella Brigata Nera, fu condannato a 6 anni ed 8 mesi, viste le attenuanti generiche.
A metà luglio dello stesso anno: declaratoria di amnistia.
Il latitante Bacchetta
Altri frammenti. Siamo alla vigilia del 25 agosto 1944. La decisione sul Ponte degli Allocchi
è già stata presa. Numero delle persone da uccidere, quali e in che modo. Tutto programmato con cura e nessuna improvvisazione, come qualcuno di autorevole vorrà far credere a
guerra finita.
Erano le ore 20 del 24 agosto. Un uomo in divisa delle Brigate Nere, armato di mitra e
pistola, si presenta all’Agenzia della TIMO di Ravenna (la vecchia società telefonica: Telefoni
Italia Medio Orientale), in angolo con la Piazza del Mercato (ora Kennedy). E’ ricevuto dal
responsabile, Pietro Ballerini. Richiesta o meglio ordine: due uomini e due pali per le ore
21. In caso di disobbedienza impiccagione per gli operai giunti nel frattempo, Simonetti,
Casotti e Pezzi. Il Bacchetta è stato chiaro. All’ora convenuta nel cortile della TIMO gli uomini si presentano con i pali, presente il Bacchetta ed altri brigatisti. Segue l’ordine di trasportarli al Ponte degli Allocchi. Iniziano i lavori, interrotti quando appare evidente la finalità.
Al che subentra il Bacchetta con altri per completare l’innalzamento dei due pali, destinati ad Umberto Ricci e a Lina Vacchi. Poco importa che il Bacchetta fosse presente, l’indomani, all’eccidio (anche se il teste Prometeo Stanghellini ricordava di averlo incontrato in
mattinata in via Agnello Istorico, mentre mostrava ad altri camerati la pistola, dicendo che
non funzionava bene: usata per qualche colpo di grazia?).
Nei giorni precedenti, l’imputato Bacchetta aveva denunciato il luogo in cui era nascosto,
da sfollato, il calzolaio Giuseppe Fiammenghi di Ravenna, di anni 36. Ciò era stato riferito
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dai camerati Sergio Morigi e da Sante Buda e dalla teste Libera Fiammenghi. Catturato, il
Fiammenghi verrà impiccato a Savarna il 26 agosto del 1944. Poco importa che il delatore
Bacchetta, mosso da motivi personali, fosse presente.
La mattina del 29 giugno, Pietro Cottignoli si trovava in via Cavour presso il negozio dell’orologiaio Gambi. Era entrato il Bacchetta con altri e gli aveva ingiunto di consegnare la
pistola, che egli non aveva con sé. Lo accompagnarono al domicilio e la pistola fu consegnata a forza ad un certo Ricci.
Capitolo chiuso? No, ebbero inizio contro il Cottignoli pressioni e persecuzioni, affinché
lo stesso si iscrivesse al Partito Fascista Repubblicano. Cosa che avvenne.
Una settimana prima, il 23 giugno. Un autocarro di fascisti ravennati (Andreani, Poletti,
Nivellini, Morigi Lino, Savini e Bacchetta) si dirigeva verso Gambellara. In campagna, presso
il vicolo Amadori, c’era una piccola casa, la cui ispezione non diede risultati. Ma poi, proseguendo le ricerche nei campi, i fascisti scoprirono alcuni giovani intenti a costruire un rifugio. Questi fuggirono tutti, tranne uno che fu identificato. Aveva solo 20 anni (non 22, come
ribadisce più volte la sentenza) e si chiamava Almo Montanari, un colono. Fu ucciso con
quattro colpi di pistola, sparati tutti dal Bacchetta, che per simile gesto si beccò i rimproveri del comandante Andreani, irritato perché avrebbe preferito interrogare il giovane. L’intera
sequenza, con molti particolari, era stata narrata dal Poletti (già giudicato).
Bacchetta Guido, “naturale di Bacchetta Maria”, nato a Ravenna nel 1896, latitante, fu condannato a 30 anni di reclusione, a 4 anni di libertà vigilata e alla confisca dei beni (29-5-46).
Nel 1949 la Cassazione dichiarerà inammissibile il ricorso e determinerà la pena in anni
24, di cui 8 condonati. Nel 1950 la Corte di Appello ridurrà di un altro anno. Nel 1954 il
Tribunale (di Ravenna?) calcolerà la pena residua in anni due, già scontati, e concederà la
liberazione del condannato. Quindi, la latitanza era stata interrotta. Ugualmente manca qualche passaggio, perché i conti non tornano.
Per il medesimo omicidio, la Questura, con rapporto 6 aprile 1945, aveva aggiunto tra i
correi Primo Andreini. Prosciolto in istruttoria?
Il rebus di Russi
In via Violetta di Russi (oggi via Martiri) il 5 settembre del 1944 furono fucilate cinque
persone ad opera dei tedeschi, come rappresaglia per l’uccisione di un camerata. Storia già
narrata. Allora la massima autorità italica del paese era un ex squadrista di Cervia, Monti
Secondo, Segretario del Partito Fascista Repubblicano, della Brigata Nera e Commissario
Prefettizio del Comune. Tre incarichi che facevano di lui il responsabile politico, amministrativo e militare. Logico quindi che il Monti fosse coinvolto in un evento di tale rilevanza. Chi
fucilare, quanti, dove, come comunicare la strage alla popolazione. Occorrevano le schede
delle carte d’identità per scegliere le vittime, bisognava scavare le fosse al cimitero, scrivere
il manifesto e chiamare il tipografo. Tutti compiti del Commissario prefettizio. Tralasciamo
in questa sede la trattativa avvenuta a Russi tra il Comando germanico e i rappresentanti di
Salò. Era certo che dall’Ufficio Anagrafe erano uscite le schede, su cui operare la scelta dei
fucilandi; era certo che agli operai del comune era stato impartito l’ordine, in data 4 settembre, di preparare le fosse al cimitero (quante?); era certo che la sera del 4 settembre la
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Guardia comunale Domenico Rivalta aveva portato alla Tipografia Berardi la bozza del manifesto in cui si comunicava alla popolazione che due persone erano state fucilate per rappresaglia. Sul manifesto la firma del Monti.
L’indomani Antonio Fantini portò i manifesti in Municipio, ma dovette ritornare indietro
per alcune significative correzioni. Bisognava mettere cinque al posto di due (come da decisione del Comando germanico di piazza di Ravenna) e togliere la firma del Commissario
(non per ordine tedesco). Ma chi aveva compilato il primo manifesto? Il Segretario comunale, il dott. Oreste Lama, dirà che non era in grado di precisare se fosse stato lui (ovviamente, su disposizione del Podestà) oppure se fosse stato portato già compilato dai tedeschi.
Stessa amnesia per il testo corretto.
L’assistente tecnico del comune, Alfredo Ballardini, invece, ricordava bene che il
Segretario, nel pomeriggio del 4, gli aveva dato disposizioni di scavare due fosse. Al che, per
naturale ripugnanza, egli aveva preferito rinviare al giorno successivo. Seppe poi, l’indomani, che tutto era già a posto, fucilazione di cinque ostaggi e seppellimento (in due buche?
Da parte di chi?). Restava la questione delle schede anagrafiche delle persone da individuare per la rappresaglia. Procedura cui non sempre ricorrevano i nazisti. Quella volta sì, per
essere sicuri di eliminare, se non i responsabili dell’uccisione del camerata, almeno dei
potenziali nemici. Operazione che però richiedeva la piena collaborazione dei fascisti locali. L’impiegato dell’anagrafe, Aldo Gallamini, giurò che nessuno gli aveva chiesto delle schede e che anzi neppure si era accorto dell’ammanco (gli conveniva dire così). Il vice
Comandante del presidio della Guardia Nazionale, tale Naldoni, ricordò che le schede erano
nella tasca del Brigadiere Cornacchia, il Comandante della GNR, e che forse se le era procurate in Questura (poco credibile). Ma il Brigadiere dei Carabinieri, Guerrino Tubertini, fu più
preciso. Aveva visto venire verso la caserma il Cornacchia e il Monti, il quale teneva in mano
delle schede con fotografie, deposte poi sul tavolo per la scelta dei morituri. Infine, l’imputato Monti addossò tutta la colpa al Cornacchia. Lui aveva le schede, neppure distinguibili
se fossero anagrafiche (cioè provenienti dal Municipio), schede con foto e basta, tant’è che
tra esse, per caso, scorse quella di Giulio Galeati e tosto la trafugò nascostamente. Si sarà
accorto allora che erano anagrafiche? Procediamo. Dopo qualche tempo, il Monti, incontrando il Galeati, gli avrebbe narrato il fatto, consigliandogli di prendere il largo (episodio confermato). In vero, anche il Tubertini si vanterà di avere sottratto la scheda del Galeati.
Il Monti era accusato pure di avere determinato la cattura di due suoi vicini di casa,
Francesco e Benvenuto Ghetti, dei quali doveva conoscere le abitudini, e di altri tre. I Ghetti
finirono in Germania e al ritorno seppero che il giorno della cattura il Monti era in compagnia dei tedeschi, anche se a debita distanza dallo loro casa (per non essere notato). Il Monti
negò ogni responsabilità, aggiungendo di essere intervenuto per ottenere la liberazione
degli altri, Florindo Granelli e Domenico Babini. Strana linea difensiva. All’oscuro degli episodi negativi, sempre determinante quando essi prendono una piega diversa, anche se parziale. Da ultimo, contro il Commissario prefettizio, componente della Brigata Nera, imputazioni di minacce e violenze, non meglio precisate. Troppo vaghe per la Corte. Giustamente.
Ritornando all’imputazione principale, collaborazione nell’uccisione dei cinque ostaggi
(Morelli, Grassi, Bulgarelli, Patrignani e Casadio): la Corte risolse i vari rebus in modo acrobatico. Le schede anagrafiche potevano non venire dall’ufficio specifico; il manifesto compilato e poi modificato nell’ufficio del Segretario poteva non avere ricevuto l’assenso del
Podestà (il che avrebbe comportato il licenziamento del funzionario); il Segretario avrebbe
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potuto ordinare due fosse senza l’avallo superiore. Nessuno incolpò di simili abusi il dott.
Lama, né nei giorni tristi, né nel dopoguerra. Ma allora come poteva essere all’oscuro di
tutto il Monti, fra l’altro visto dal Brigadiere dei Carabinieri a scegliere i morituri, scartandone uno? Un’infinità di interrogativi, che la Corte di Ravenna volle risolvere secondo lo schema della difesa. Essa scelse di essere “prudente” e, violando la logica dei fatti, assolse con
formula dubitativa (29-5-46). Fu l’ultima sentenza “In nome di Sua Maestà Umberto II, Re
d’Italia”.
Monti Secondo, di Eugenio e di Fontana Adalgisa, nato a Cervia nel 1903, detenuto dal 6
maggio 1945, dopo un anno di carcere salutò e ringraziò. Neppure l’avvocato difensore
aveva osato sperare tanto.
Una catena di equivoci
Dopo un lungo intervallo, la Corte si riunì soltanto il 18 giugno del 1946. Naturale assestamento in seguito all’affermazione della Repubblica? Pausa dovuta all’attesa dell’amnistia?
Il primo, ad essere giudicato “In nome del Popolo Italiano”, si chiamava Bandini Mario,
fu Angelo e fu Savorani Rosa, nato a Brisighella nel 1896, arrestato tardivamente, il giorno di
S. Giuseppe del 1946. Un ritardo strano per chi era accusato di avere fondato il Fascio repubblicano di Brisighella, di avere diretto un rastrellamento in Brisighella, di avere fornito alle
SS un elenco di civili, poi rastrellati, tra i quali un pezzo da novanta, un Generale, forse di
sentimenti monarchici, Antonio Liverani. Ma il Generale, sopravvissuto, nel dopoguerra non
aveva denunciato il Bandini (del resto mica poteva sospettarlo) ma il Segretario Politico di
Brisighella, il Badiali. Ad accusare l’imputato era stato invece un omonimo del Generale, non
legato da parentela, il Comandante partigiano della zona, Sesto Liverani. Questi raccontò al
processo una storia spettacolare, ma poco credibile. In una tasca di un sergente delle SS, da
lui catturato, aveva trovato una lettera scritta dal Bandini in cui venivano denunciati il detto
Generale ed altri, “come elementi pericolosi da sopprimere”! Peccato però che la missiva
fosse stata distrutta e pertanto nessuno fosse in grado di valutarne l’autenticità. Quanto al
rastrellamento condotto in Brisighella, il Bandini era stato visto a colloquio con un ufficiale
tedesco in piazza. L’imputato non negò l’episodio. L’incontro era dovuto alla necessità di
chiarire la propria posizione, poiché in sua assenza per ben due volte qualcuno era andato
a cercarlo a casa. Un equivoco.
Da ultimo, al processo nessuno fu in grado di dimostrare che il Nostro avesse fondato il
Fascio repubblicano locale.
Alla Corte non rimase che assolvere per insufficienza di prove.
“Tunin d’Pezpan”
Tonino di Piangipane, all’anagrafe Porisini Antonio, di Adamo e di Bagnara Giuseppa,
nato a Ravenna nel 1897, era detenuto dal 10 ottobre 1945. Il Porisini si era fatto una brutta
fama durante il ventennio, cui volle restare fedele durante la Repubblica di Salò, arruolan-
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dosi dapprima nella Guardia Nazionale e poi nella Brigata Nera. Noto agli oppositori del regime, agli indifferenti e ai camerati, di città e della campagna. Con queste premesse, era inevitabile che fosse coinvolto in episodi cruciali, alla migliore conoscenza dei quali egli diede
un contributo sia in sede di istruttoria, sia in aula. Fu lui (disse alla polizia) a recarsi a casa
del Bonini per arrestare il Sintoni (mai emerso prima), ma non fu lui a sparare, in quanto
camminava a fianco del Bonini. Furono gli altri allievi ufficiali della GNR che lo seguivano a
far fuoco quella sera del 12 novembre 1943. Fu lui ad arrestare l’antifascista Umberto Ricci
(un merito straordinario al tempo). Fu lui a catturare l’industriale Toschi Edmondo (ucciso
al Ponte degli Allocchi). Certo era sempre in giro armato di mitra alla ricerca dei ribelli e dei
loro amici, ma non era in grado di ricordare ogni episodio. Per esempio, non poteva giurare se avesse concorso al rastrellamento degli Zoli in località Rossetta di Bagnacavallo (in data
4 maggio 1944) e, ovviamente, escludeva di avere ucciso Zoli Adriano. Meno che meno gli
veniva alla mente un rastrellamento avvenuto in S. Pietro in Vincoli.
Con tali ammissioni la condanna sarebbe sta inevitabile e pesante, motivo per cui al processo l’imputato corresse alcune sue affermazioni precedenti, anche se in modo poco significativo. Il Porisini era accusato anche della partecipazione all’eccidio del Ponte degli
Allocchi, sulla base della testimonianza di un camerata, Zampiga Luigi, dell’omicidio del facchino Cortesi Menotti, avvenuto in via S. Mama di Ravenna il 16 febbraio del 1944, nonché
del tentato omicidio, nella stessa circostanza, di Bartoletti Bartolo. I due amici, Cortesi e
Bartoletti ritornavano dal cinema quella sera (una novità, assente nei precedenti processi).
Della dinamica e delle responsabilità acquisite già si è discorso: a sparare sarebbe stato
Delmo Mazzotti, come testimoniato dal sopravvissuto Bartoletti.
Tuttavia quest’ultimo non poteva sottrarre alla Corte quanto gli aveva detto il Cortesi
prima di morire: “Ho riconosciuto il Porisini”. Era probabile, visto che certa Marianna
Matanelli(?) una settimana prima del fatto aveva udito i propositi omicidi del Porisini nei
confronti del Cortesi.
Veniamo all’affare Zoli. Uccisione di Adriano e cattura di altri tre, Silvio e Guido Zoli, e
Ravaglioli Armando. Erano in cinque i militi, tutti armati di mitra, alla ricerca di sbandati o
partigiani. Adriano fuggì e poi, scoperto, ritornò sui suoi passi. Ma qualcuno lo freddò.
Secondo il padre, Cesare, era stato Natale Ancarani di Alfonsine, già condannato dalla Corte
di Ravenna. L’Ancarani, in vero, aveva dichiarato di non essere stato neppure presente e di
avere saputo dal camerata Gino Ghirardelli che l’autore del misfatto era stato proprio il
Porisini. Quale la verità? Se era certo il concorso dell’imputato, egli non era condannabile
però per l’eliminazione materiale del fuggiasco, non provata sufficientemente.
Il Porisini fu ritenuto colpevole di collaborazione militare con il tedesco e di quasi tutte
le imputazioni specifiche (qualche dubbio sul Ponte degli Allocchi). La pena conseguente fu
indicata in quella prevista dall’art.51 del Codice Militare di Guerra, cioè la condanna capitale, viste la continuità e l’opera svolta di notevole entità. Nessuna attenuante pertanto sulla
base dell’art.26 del medesimo Codice. Impraticabile, a detta della Corte, la diminuente per
l’invalidità di guerra. Giudicata di poco conto e tanto più inammissibile perché la leggera
ferita all’avambraccio destro non gli aveva impedito di agire in modo violento. A salvare il
morituro, concorsero invece altre attenuanti (non precisate) e i buoni precedenti. Per concludere: 30 anni di reclusione, 4 anni di libertà vigilata e confisca dei beni.
Agli atti non risultano altre carte. Quel che è certo che nella Ravenna degli anni ‘50 il
nome di Tunin d’pezpan era ricorrente.
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Chi entra e chi esce
Non era facile per gli investigatori preparare le cause e neppure per i Presidenti della
Corte portarle in dibattimento. C’era fretta di chiudere il capitolo dei processi straordinari e
di consentire all’Italia di riprendere un cammino di pace. Bisognava raccogliere prove ed
indizi, quasi tutti orali, in breve tempo, con imputati ancora prigionieri degli alleati, altri latitanti. Bisognava selezionare le numerose denunce, alcune verosimili, altre frutto di vendette private, altre fantasiose.
Poi vi erano le confessioni dei fascisti, anch’esse da vagliare, specie quando chiamavano
in causa altri camerati, assenti o deceduti. Inoltre, di tanto in tanto si poneva l’alternativa
chiave: partire dagli episodi delittuosi o partire dagli imputati con il loro carico criminoso.
Talora si seguivano entrambe le strade, per poi scoprire che i tempi si sarebbero dilatati.
Inoltre, occorreva smaltire tutta la corrispondenza preparatoria, in tempi di confusione, di
mancanza di macchine da scrivere e di carta, in assenza di telefoni e di auto a disposizione.
Si susseguivano confronti o conflitti di competenze con altri tribunali del nord. La Romagna
voleva giudicare i propri repubblichini, anche se i fatti più sconvolgenti si erano verificati in
Piemonte o in Veneto. Spesso ciò si tramutava in un vantaggio per gli imputati, con la Polizia
e i Carabinieri che lasciavano perdere i filoni che portavano lontano. Anche per i testi le
complicazioni non mancavano. Non tutti erano in grado di viaggiare. Si aggiungano le reticenze politiche ed investigative, con Carabinieri invitati ad indagare su azioni ritenute delittuose, alle quali essi stessi o il Corpo avevano partecipato. La fretta, tra l’altro, doveva servire a ridurre la pressione carceraria e ad anticipare la giusta liberazione degli innocenti.
Infine, cammin facendo si era posto un problema cruciale: come comportarsi di fronte a
nuove testimonianze su fatti già trattati e definiti con condanne, nel caso comparissero altre
persone, ritenute verosimilmente colpevoli? Insomma: era quasi impossibile fare quadrare
il cerchio della giustizia. Un esempio. Romolo Ricci, patriota, era stato ucciso il 3 maggio del
1944 nel Borgo S. Rocco. Quella sera erano con lui Roldano Melandri e Alfredo Armuzzi, che
fortunosamente si erano salvati fuggendo. La Questura di Ravenna, fin dal 13 aprile del 1945
(notare), aveva così ricostruito l’omicidio. Passano i tre giovani. Poco distante tre militi.
Compare il fascista Morelli Gaetano, che, definendosi un’autorità del regime e del partito,
invita (ordina) i tre militi a sparare.
Il “capo” si chiamava Morelli Gaetano, di ignoto e di Morelli Maria Carlotta, nato a
Ravenna nel 1910. I tre militi: Fogli Sauro, detto Luciano, Sciottola Ruggero Gaetano, di
Cosimo e Leone Angela, nato a Ravenna alla fine del 1925, Orioli Enrico, fu Federico e di
Giannella Medea, nato a Ravenna nel 1903. A preparare il rapporto della Questura aveva contribuito anche il Colonnello dei Carabinieri Anzalone (colui che aveva diretto il rastrellamento italo-tedesco del Palazzone di Fusignano!!).
Il Fogli era già stato giudicato (ed assolto, nonostante avesse confermato la sua presenza).
Il 18 giugno 1946 si trattò la posizione degli altri, Orioli, Morelli e Sciottola, latitanti i
primi due. Ai tre fu aggiunto il nome di un certo Plazzi Vincenzo, fu Primo Paolo e di Barboni
Veronica, nato a Ravenna nel 1911, arrestato sulla base della dichiarazione di una donna,
Eleonora Taroni (già nota alla Polizia nell’aprile del 1945), che da sempre, anche nei giorni
successivi al fatto, lo aveva indicato come l’uccisore del Ricci, addirittura rimproverandolo
personalmente nell’osteria di Luigi Zoffoli. Quattro quindi, per connessione, gli imputati, di
cui due latitanti.
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Ma né i compagni del morto, né i militi, né la Teresina Bonini (anch’ella sul posto) riuscirono a capire da dove uscisse il nome di Plazzi. La teste Taroni era confusa e non veritiera?
Così la pensò la Corte che diede molto rilievo ad una contraddizione: lei era certa che i colpi
fossero partiti da una trentina di metri, mentre la raffica mortale, secondo perizia scientifica, al massimo andava collocata a 5 metri. Rilievo giusto, ma pare troppo pretendere da una
donna una perizia balistica ad occhio e al buio, tenendo conto che effettivamente furono
sparati altri colpi a maggiore distanza, forse non mortali e non diretti alle figure dei tre
patrioti. Gli spari dei tre militi furono verso l’alto (secondo loro), per spaventare i tre antifascisti, intenti ad affiggere manifestini e bandierine. Libertà per il Plazzi, pur restando il dubbio. Ma allora chi aveva sparato i colpi mortali? I periti balistici, ovviamente, non potevano
dirlo. E la Corte pensò di attribuirli, “presumibilmente” al Morelli stesso, latitante, cosa che
non dispiacque ai restanti due, l’Orioli e lo Sciottola.
Sollievo a metà per il giovane Sciottola, classe 1925. Infatti, contro di lui pendevano altri
due capi di imputazione. Avere sparato, per uccidere, contro Salti Luigi il 31 gennaio del 1944,
in via Girolamo Rossi. Storia già narrata. Una ronda fascista entra in osteria, chiede i documenti e perquisisce. Il Salti cerca di svicolare. Partono dei colpi che lo raggiungono. Ferite da
pistola calibro 12, lo stesso in dotazione a Sciottola (quali le pistole degli altri militi?).
Aver partecipato al rastrellamento del Palazzone (ironia della sorte, va ribadito, diretto dal
Col. Anzalone, con tedeschi, militi della GNR, Carabinieri, Alpini e Agenti di PS).
Partecipazione non generica, poiché, viste le deposizioni di due camerati, Pirazzoli Guerrino
e Cattani Carlo, Sciottola sarebbe stato tra i componenti del plotone di esecuzione che fucilò 8
patrioti catturati.
La Corte ( Vicchi, Lallo, Buttini, Triossi, Giannetti, Morigi, Minghelli) così concluse.
Condanna Morelli ad anni 25 di reclusione, 4 di libertà vigilata e confisca dei beni.
Condanna Orioli ad anni 6 e mesi 8.
Condanna ad anni 30 lo Sciottola, meritevole della pena capitale, evitata per la giovane
età e per la “ripugnanza” dimostrata a partecipare al plotone di esecuzione. A luglio dello
stesso anno, ad un mese dal processo, amnistia per l’Orioli. La Cassazione, inoltre, nel giugno del 1947 annullerà la sentenza nei confronti del Morelli, rinviando alla Corte di Novara,
e respingerà il ricorso di Sciottola. Sul Morelli, latitante, nulla più compare tra le carte.
Nel settembre del 1948 la Corte di Appello di Bologna condonerà 20 anni a Sciottola, 10 per
il Decreto di amnistia del 1946, 10 per uno analogo del febbraio 1948. Pena residua: anni 10.
Un altro anno verrà condonato per declaratoria nel febbraio del 1950. Successivamente,
nel marzo del 1951, il Giudice di Sorveglianza di Ravenna autorizzerà la libertà vigilata fino
all’esaurimento della pena. Nel novembre dello stesso anno libertà completa per Sciottola.
Il “Quarto” del Polesine
Abbiamo detto che quasi mai i Veneti entravano nei processi di Romagna. Solo in un caso
avevamo trovato tre polesani, uniti nello stesso procedimento giudiziario. Tre polesani autorevoli che dal febbraio al maggio del 1944 avevano emanato sentenze come componenti del
Tribunale Straordinario provinciale di Ravenna, un tribunale considerato illegittimo nel
dopoguerra. Ce n’era uno per provincia ed era composto, in genere, da personaggi esterni
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alla realtà politica locale, non provenienti però dalla magistratura. Il quarto polesano fu chiamato a giudizio il 19 giugno del 1946. Ma era latitante.
Si chiamava Faccini Arturo, fu Antonio e fu Bonini Adelaide, nato nel 1907 a Frassinelle
Polesine e residente ad Arquà Polesine. Un personaggio di primo piano nella vita politica del
Polesine, che fin dal settembre del 1943, giorno 16, aveva partecipato all’atto di fondazione
del Partito Fascista Repubblicano, rito celebrato con enfasi e riportato dalla stampa di regime e non. Ma perché processarlo a Ravenna? Per l’identica colpa attribuita ai tre già processati, il Tironi, il Dall’Oglio, lo Zanotelli. Anche il Faccini era componente del Tribunale
Straordinario provinciale e nello stesso periodo. Anche lui, secondo la Corte era meritevole
di assoluzione in quanto, nei tre mesi, aveva fatto di tutto per sabotare le leggi restrittive
fasciste, rinviando, assolvendo, ecc.
Pochissime le condanne e tutte di entità minima.
Assoluzione facile in questo caso, perché, a differenza dei colleghi giudicati ad aprile, il
Faccini non era caricato di altre reati, tranne quello di avere fondato il Fascio repubblicano
nella sua provincia, cosa “minimamente provata”.
La parola alla fidanzata
Non è piccola la differenza tra una fidanzata ed una ex fidanzata. I giurati avrebbero dovuto saperlo, ma talora dimenticano di precisarlo a verbale. Da una ex ci si può aspettare di
tutto, anche che riferisca cose verissime e terribili.
Alfredina Fontana, indicata genericamente come fidanzata di Feletti Angelo, testimoniò
che l’imputato le parlava di uccisioni, rapine ed incendi, cui aveva partecipato. In particolare il Feletti le aveva raccontato di avere ucciso un uomo a Massalombarda, di avere bruciato
nella stessa città un casa con l’intera famiglia e avere fatto ardere viva una sessantenne che
era riuscita a salvarsi dall’incendio. Troppo poco per la Corte: mancavano i nomi delle vittime, le date precise e le modalità dei crimini. L’Alfredina non era mica un poliziotto in gonnella e neppure un’infiltrata del movimento partigiano. Non era una spia, bensì una semplice fidanzata, che ascoltava, senza sollecitarli, racconti macabri. Chissà se veri.
In vero, la Questura di Ravenna aveva dato credito all’Alfredina, dato che in
Massalombarda il 17 ottobre del 1944 furono distrutte due famiglie, i Baffé e i Feletti, uomini e donne, 23 persone! Il fidanzato, come detto, si chiamava Feletti Angelo, di Alberto e di
Mazzoli Alberta, nato nel 1925 a Longastrino ed ivi residente, detenuto dal 5 novembre del
1945. Il Feletti in questione era stato componente della Brigata Nera di Massalombarda, cittadina dove aveva condotto nel settembre del 1944 anche la famiglia paterna, compromessa a Longastrino per collaborazionismo con i nazifascisti. Dopo il misfatto di cui sopra, il
Feletti era ripiegato al nord.
A guerra finita i partigiani di Massalombarda si mossero alla ricerca dei responsabili o supposti tali dell’eccidio. E certo Venturini rintracciò a Ferrara, in via Paglia (?) n.1, il latitante
Feletti. Nella sua nuova casa, molta biancheria e vari oggetti di proprietà delle famiglie
distrutte. Inoltre alcuni sopravvissuti, Baffé Giorgio, Baffé Albertina e Foletti Paolo, avevano
dichiarato che a loro sembrava che il Nostro fosse presente alle uccisioni, mentre altri erano
certi di averlo visto entrare nelle case semidistrutte a prelevare merce. I conti tornavano,
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anche se i famigliari delle vittime al processo precisarono che potevano confermare o dubitare. Si ricordi che all’eccidio aveva partecipato l’intera Brigata Nera di Massalombarda, di S.
Agata e di Lugo. Per la Corte, tutto ciò non poteva essere “tranquillante” per attribuire all’imputato il reato più grave. Più semplice il giudizio sulle altre imputazioni. Sequestro a mano
armata di un camioncino Fiat, di proprietà di Farina Franco, avvenuto nella giornata del 12
marzo del 1944. Persecuzione con delazione in danno di Pagani Tina di Longastrino. La
donna fu minacciata, come pure i suoi famigliari, sottoposta a ripetute perquisizioni con
asportazione di vari oggetti, arrestata e sottoposta ad interrogatori presso il presidio,
costretta infine a fuggire e a restare nascosta per otto mesi, fino alla liberazione.
Condanna ad anni 15, vista la diminuente per la giovane età. In più, tre anni di libertà vigilata e la confisca di 1/3 dei beni (perché un terzo?).
Nessuna traccia di ricorsi o di successivi procedimenti giudiziari.
Frumento da Porto Corsini
Non era nato sull’Adriatico, ma sul Mar Ligure, a Savona nel 1923. Si chiamava Frumento
Alfredo, fu Luigi e di Sega Emilia.
La sua vicenda politico-militare fu ricostruita a ritroso. Era al nord nell’aprile del 1945.
Dove? Si dice nord e si resta nel vago, lasciando libera l’immaginazione. Liberatosi della divisa della Guardia Nazionale Repubblicana, stava tentando di raggiungere a Ravenna la sua
famiglia, ma non percorse tanta strada. Incontrò i partigiani e finì nelle Carceri di Padova,
semidistrutte dopo i bombardamenti alleati. In attesa d’informazioni, vi rimase fino al 23 settembre e poi fu spedito al Carcere di Ravenna, che, strapieno, lo ospitò per poche ore. Il 10
novembre fu chiamato dalla Squadra politica della Questura per sapere da lui le sue tappe
ed eventualmente le sue colpe.
Risultò che si era arruolato volontariamente nella GNR il 3 gennaio del 1944 e subito
dopo era stato spedito alla caserma dei Carabinieri di Voltana, paese del lughese con forti
vocazioni ribellistiche. Un curriculum normale, se dalle sue parole non fosse uscito anche il
successivo passaggio al Battaglione O.P.(ovvero Ordine Pubblico). Un Corpo, questo, utilizzato nei rastrellamenti, negli arresti arbitrari, composto da personaggi tratti dai correzionali, di pessima fama, tanto da entrare spesso in urto con le altre autorità fasciste.
Interrogato di nuovo, il 12 novembre saltò fuori che il Frumento aveva partecipato ad un
rastrellamento sui monti di Casola Valsenio, uno solo, in data 24 maggio 1944.
Da qui, il rinvio a giudizio, a piede libero (una rarità), con l’accusa di collaborazionismo.
L’imputato si difese cercando di sminuire il significato della sua presenza, in mezzo a militi
italiani e tedeschi. Lui non conosceva lo scopo della spedizione e il suo reparto (agli ordini
del Capitano Pontili) era rimasto ai fianchi, lontano dal fuoco e dalle operazioni di “stanamento”, eseguite dai nazisti e dai bersaglieri. Inoltre, in lui non c’erano mai stati sentimenti
fascisti e solo le necessità economiche lo avevano spinto a presentarsi. L’assunto principale
era poco credibile, perché il 24 maggio non era una data qualsiasi: coincideva con la scadenza di presentazione alle armi del “Bando Mussolini”, e richiamava una data storica, l’ingresso in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale.
Poco credibile anche alla luce di quanto riferito da un altro milite della GNR, Aldo Novelli.
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Il “Battaglione OP”, a suo dire, era specializzato ed utilizzato nei rastrellamenti, al plurale.
La Corte, in data 19 maggio 1946, capì tutto, ma non volle infierire, scegliendo la formula dubitativa.
La testimonianza di una sfollata
A testimoniare di solito sono parenti, amici, compagni di lotta, vicini, camerati. Non bisogna però dimenticare il popolo degli sfollati, talora vittime essi stessi dapprima delle violenze di città e poi di quelle di collina o di pianura. Lo sfollato, ospite, diventava uno di casa, a
conoscenza dei segreti e dei nascondigli, partecipe delle paure e degli incubi. Qualcuno di
loro, forse, avrà fatto anche la spia.
Giuliana Cicognani, da sfollata, si era rifugiata nelle campagne di Solarolo, presso una famiglia di contadini di via Corona, quella dei Monti. La vita trascorreva abbastanza tranquilla.
La sera del 16 giugno 1944 la quiete fu interrotta dal vociare di militari tedeschi e di fascisti della Brigata Nera. Volevano Angelo, renitente alla leva. Non trovandolo, caricarono su un
camioncino tutti i famigliari, ostaggi fino a quando il giovane non si fosse presentato.
Lasciarono a casa solo una bambina, accudita dalla Cicognani.
Dopo un’ora i repubblichini ritornarono. Sfondarono la porta e rubarono vestiario, biancheria ed oggetti preziosi. Soddisfatti, si misero a tavola a banchettare. Ad un tratto si udì
una raffica di mitra. Nel buio non fu possibile capire contro chi fosse diretta. Poi si seppe che
Leonilde Montanari, d’anni 49, madre di Angelo Monti, era stata trucidata. Tale ricostruzione dei fatti fu possibile solo il 12 settembre del 1945, allorché la Cicognani si presentò presso il Commissariato di Pubblica Sicurezza di Faenza. La donna riferì anche un nome, di uno
della Brigata Nera, che nel momento tragico si trovava fuori dalla casa in compagnia di altri
camerati, estranei però all’uccisione della Montanari. Fabbri Claudio, di Eugenio e di
Vespignani Emma, nato a Faenza nel 1907, fu arrestato e denunciato per l’omicidio della
Leonilde e per tentato omicidio del colono Montanari Domenico, il marito. L’imputato era
furibondo. Mai stato nella Brigata Nera, ma solo nella Guardia Nazionale. Mai stato di notte
in quella casa, ma solo di giorno, sull’aia, a fine agosto, a controllare che nessuno interrompesse la trebbiatura o meglio di guardia alla trebbiatrice.
Era tutto vero. La sfollata Cicognani, in buona fede, aveva fuso i due avvenimenti o, forse,
ad agosto, osservando quel milite, aveva pensato di riconoscere un volto già visto.
Assoluzione piena, dopo 9 mesi di carcere.
S. Maria in Fabriago
Una piccola località con un nome in grande sulle carte. Giustamente. Corre sulla sinistra
del Santerno, sotto un argine imponente, e ad un tratto offre una meraviglia: un Castello. Un
vero castello, in parte nascosto dalla vegetazione. Siamo nel territorio di Lugo, che si estende in profondità verso nord, verso il ferrarese. Un’area, come quelle limitrofe di Fusignano
e Conselice, caratterizzata da sempre da forti contrasti sociali e politici, tali da richiedere una
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capillare presenza delle forze repressive. Molte le Caserme di Carabinieri sotto i governi liberali e sotto il regime fascista. Molti i presidi della Guardia Nazionale e delle Brigate Nere
durante la Repubblica di Salò, rafforzati dalla presenza tedesca.
Un tedesco fu trovato ucciso l’11 agosto del 1944 in via Viola, ad una certa distanza dal
borgo. Nel tardo pomeriggio arrivarono sul posto diversi repubblichini, tra cui quelli di
Conselice. Un certo Calbucci Livio, brigatista nero, e Nacari Ferruccio perquisirono le case
di Fosca Bernardi e di Lino Bacchilega alla ricerca di partigiani. Invano. Si sfogarono allora
rapinando a piacere. Analogamente si comportarono gli altri camerati nelle abitazioni vicine. A fine rastrellamento, circa sessanta persone furono tratte in arresto. Ne furono scelte
nove e condotte presso il cimitero di Campanile di Ca’ di Lugo (più a monte del fiume). I
loro nomi: Venturini Vincenzo, Giovannini Giovanni, Gauardigli Giulio, Siroli Angelo,
Geminiani Antonio, Pattuelli Domenico e Renzo, Bartolotti Paolo e Angelo. Renzo aveva 16
anni, Paolo 17. La Bernardi e il Bacchilega furono portati sul posto ad assistere alla fucilazione. Testimonieranno entrambi che il Calbucci si era offerto per il plotone di esecuzione e
che il Nacari, di animo sensibile, aveva allontanato un poco la donna. Concordi le deposizioni di Siroli Antonio, Pattuelli Liliana, Bartolotti Maria e Baldassarri Maria. Inoltre, il Calbucci,
in forza a Conselice, fu accusato anche di avere provveduto al fermo di Buscaroli, Martelli e
Gardenghi, sottoposti a maltrattamenti e fucilati ai Fiumi Uniti di Ravenna il 12 luglio del
1944 (erroneamente si scrive 12 agosto nella sentenza). Testi oculari: Cavallazzi Amadeo,
Gardenghi Mario, Tosi Maria, Biscaroli Ferruccio e Tamburini Augusta.
Calbucci Livio, fu Giulio e di Tassinari Delvina, era nato nel 1909 a Cesena ed ivi risiedeva, detenuto dal 21 dicembre 1945, fu giudicato il 16 maggio 1946. Tra le altre imputazioni,
la partecipazione ai rastrellamenti di Casola Valsenio, di S. Sofia, di Giovecca, all’uccisione di
Camanzi Sebastiano e all’asportazione di oggetti in danno di Costa Enea e di altri. Contro il
Calbucci la deposizione di Laghi Antonio, che aveva partecipato alle medesime imprese. Il
Laghi confermò tutti i rastrellamenti dell’aprile e del maggio 1944, la fucilazione del Camanzi
presso il cimitero di Conselice, avvenuta il 22 luglio 1944, all’indomani del rastrellamento di
Giovecca, la rapina ai danni del Costa di Giovecca (lire ottomila, vari indumenti e due maiali).
Razzie il Calbucci avrebbe operato anche in Veneto, come riferirono i Carabinieri di
Arzignano, e precisamente nel comune di Trissino. Un’ultima accusa giunse anche dalla sua
città: delazione ai danni di Montanari Egisto da Cesena, denunciato dal Nostro per antifascismo e propaganda comunista.
Per la Corte l’imputato era meritevole della fucilazione alla schiena. Pena ridotta, per i
buoni precedenti, ad anni 30 e 4 di libertà vigilata, nonché la confisca dei beni.
In ottobre gli abbonarono 10 anni e nel febbraio del 1950 determinarono nel 21-12-54 la
fine della pena.
Una doppia dimenticanza
Due sentenze nascoste sono riapparse, entrambe del 30 ottobre 1945. Nella prima era
imputato un commerciante di Faenza, tale Zaghi Villiam, di Luigi e di Parmeggiani Maria,
classe 1915, detenuto da 22-6-45. Fortunato durante la guerra, tre anni a Venezia, un po’
meno dopo l’8 settembre 1943.
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A novembre aderì al PFR e, dal febbraio 1944, svolse servizio di pattuglia in abiti borghesi. Perquisiva i fermati. Dal maggio 1944 nel Battaglione mobile della GNR di Ravenna, In
agosto e settembre di stanza a Casola, a fianco dei tedeschi, Poi, Verona Fusignano, Cascina
di Mandriole, Longastrino, sede del Comando tedesco. A suo dire, solo il sequestro di una
radiotrasmittente e di un’automobile del dottor Fabbri, poi restituita. Nessun rastrellamento, unico impegno: guardia fili. Di segno opposto la tesi dell’Accusa, che parlò di tre partigiani uccisi in uno scontro a fuoco e della successiva fucilazione da parte dei tedeschi di due
feriti. Villiam contestò: i due feriti partigiani furono catturati dai tedeschi, dopo un conflitto in cui erano morti tre tedeschi e non tre partigiani, caduti invece l’11 settembre 1944,
mentre egli si trovava a Reggio Emilia dai genitori..Un teste partigiano confermò la dinamica, non l’alibi.
Alla Corte bastò: insufficienza di prove.
Più grave la posizione dell’altro imputato, Zampiga Attilio, di Pietro e di Visani Rosa, classe 1927, meccanico, detenuto dal 16 maggio 1945. Nonostante la giovane età e la mancanza
di obblighi di leva Attilio si era fatto valere. Queste le accuse: pedinamento dei fratelli
Rambelli Antonio e Giuseppe, poi arrestati a Lugo; rapine e sequestro in compagnia dei
fascisti e dei tedeschi (un furgoncino a Cristoforo Mazzotti, una Fiat 508 ad Anzio Amato,
una moto a Eva Poggiali, pollame vario); minacce a mano armata nei confronti di Berto
Dragoni, di Giovanni Guerra: vigilanza di tre cadaveri; un rastrellamento ad Alfonsine e, da
ultimo, la partecipazione all’eccidio del Ponte degli Allocchi.
Lo Zampiga ammise l’iscrizione al PFR, l’arruolamento nella GNR e poi il passaggio alle
Brigate Nere, con compiti minori presso la Federazione. Quanto ai delitti contestati: veri il
pedinamento del Rambelli (ordine di quelli di Lugo); veri i sequestri (ordini di Andreani);
pura vanteria il rastrellamento di Alfonsine, originata dal desiderio di impressionare una
ragazza, Stefania Berti; assente all’eccidio. In vero, alle 9,30 del 25 agosto 1944 il giovane si
trovava sul posto della strage, dove minacciò con una pistola la madre di un caduto, e ciò di
fronte a molti testimoni.
La Corte si dimostrò generosa, in considerazione del fatto che gli eventi tragici si erano
verificati all’alba quando la città era deserta, ed escluse la responsabilità dell’imputato. Fece
propria anche la tesi delle “vanterie”. Indiscutibili, invece, i sequestri, le requisizioni con violenza e il collaborazionismo. Pena giusta: anni 18, ridotti a 12 per la giovane età.
Di lì a poco arriverà l’amnistia.
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L’amnistia
Il giugno del 1946 segnò uno spartiacque nella vita nazionale, con la nascita della
Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente e, per ciò che riguarda il presente lavoro,
con l’emanazione del Decreto Presidenziale n. 4, del 22 giugno 1946, meglio conosciuto
come “la legge dell’amnistia”. Questo provvedimento intendeva disciplinare diversamente
la complessa materia giuridica, su cui si erano basate le migliaia di processi celebrati in tutta
Italia contro i “collaborazionisti con l’invasore tedesco”. Un atto di clemenza da parte delle
forze politiche, da due anni al governo della capitale e da un anno protagoniste anche della
vita civile e politica del nord, le stesse forze che avevano contribuito alla lotta armata e alla
liberazione dell’Italia.
Un provvedimento che “guarda al futuro”, come ebbe a dichiarare il relatore Togliatti,
senza interrompere la necessaria opera di giustizia “per il nostro definitivo risanamento politico e morale”. Ma fu anche un provvedimento che divise la popolazione, accolto con entusiasmo dagli ex fascisti, respinto con scoramento dagli ex partigiani, pur con i dovuti distinguo. Sul decreto si spaccarono anche il Governo e le forze politiche tra loro e al loro interno. Contrari i socialisti e il Partito d’Azione (ormai al tramonto), favorevoli i liberali, i democristiani, i repubblicani e i comunisti, con profonde riserve in una parte dei dirigenti centrali e periferici, nonché nella base delle grandi città industriali e nelle campagne emilianoromagnole. Per molti la decisione di concedere l’amnistia e l’indulto ai criminali fascisti rappresentò una ferita insanabile, tanto più che a proporre il Decreto era stato il Ministro di
Grazia e Giustizia, nonché il capo indiscusso del partito, cioè Palmiro Togliatti. Da altri (conservatori, moderati, parte dell’opinione pubblica desiderosa di chiudere con il passato,
Chiesa) fu vista invece come una scelta saggia e non più procrastinabile. D’accordo con questi ultimi pure le centinaia di magistrati impegnati nelle Corti d’Assise della varie province.
Il capitolo repressivo contro gli ex fascisti andava se non chiuso, almeno ridimensionato.
Lungi in questa sede dal volere entrare nel merito degli infiniti problemi aperti nei dibattiti
pubblici, sulla stampa, all’interno delle associazioni e dei partiti, tra i giuristi e tra gli storici.
A noi spetta solamente riproporre le norme specifiche, spesso dimenticate nella foga del
confronto di principio, sia per consentire una lettura più agevole delle sentenze successive
al giugno 1946, sia per comprenderne i limiti, le controverse interpretazioni (da magistrato
a magistrato) e il decisivo ruolo svolto dalla Cassazione, raramente in armonia con il Decreto
stesso. I Sommi Magistrati, quasi tutti giunti all’apice della carriera sotto Mussolini, nel
decennio postbellico seguirono una linea costante: assolvere i repubblichini e condannare i
partigiani, sempre al limite delle norme di legge o anche contro di esse, censurando se del
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caso i Giudici di provincia. E così, volti senza nome tentarono di riscrivere la storia ed in
parte ci riuscirono. Sollecitati in questo dal potere politico? Lo si può pensare, anche se la
documentazione finora acquisita non offre risposte certe. Indubitabile, invece, la responsabilità del Governo nell’indurre la Magistratura Militare ad insabbiare le istruttorie sulle stragi tedesche e a negare la consegna dei criminali di guerra italiani alle nazioni richiedenti.
Temi che esulano da questa ricerca. Vediamo pertanto la legge dell’amnistia.
L’art.1 prevede l’amnistia per tutti i reati punibili con una pena non superiore ai cinque anni.
L’art. 2 estende l’amnistia anche ai delitti politici puniti con pena superiore, commessi
nelle parti del territorio nazionale dopo l’inizio dell’Amministrazione del Governo Militare
alleato (vale per Ravenna) e nelle province rimaste sotto l’amministrazione del Governo
legittimo italiano dopo l’8 settembre 1943 (applicabile ai separatisti siciliani, ai rari tentativi
di ricostituzione del partito fascista e, soprattutto, ai singoli o ai gruppi, legati alla lotta partigiana, responsabili di uccisioni con motivazioni politiche).
L’art.3 è il più importante per il nostro lavoro, perché “concede l’amnistia a tutti i collaborazionisti, politici e militari, escludendo le persone rivestite di particolari funzioni di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidio o saccheggio, ovvero i delitti siano stati compiuti a
scopo di lucro”.
L’articolo 4 non esclude dall’amnistia anche i responsabili di gravi fatti di sangue, purché
avvenuti entro il 31 luglio 1945. Norma applicabile anch’essa alle vendette compiute dopo
la Liberazione.
Questa la platea che avrebbe potuto beneficiare dell’amnistia, salvo che l’imputato preferisse il dibattimento (art.6).
Quanto al condono: esso si applica anche per i reati comuni. Le pene sono completamente condonate fino ai tre anni o con la riduzione di un terzo (art. 8).
L’art.9 ritorna ai reati politici, estendendo ai rei (non coperti da amnistia) il condono e la
commutazione della pena. La pena di morte è commutata in quella dell’ergastolo (salvo
eccezioni), quella dell’ergastolo in 30 anni di reclusione. I soggetti beneficiari di ciò non possono usufruire del condono di un terzo previsto in tutti gli altri casi.
Il condono non è applicabile ai latitanti, tranne non si costituiscano entro 4 mesi (art.10)
Fuori dal provvedimento i reati finanziari, soggetti alla legge sull’avocazione dei profitti
di regime (art. 14) “e in ogni caso i reati commessi in danno delle Forze Alleate o degli
appartenenti a dette Forze, ovvero giudicati dai Tribunali alleati o in corso di giudizio presso tali Tribunali”( art.13). Pare logico che i vincitori della guerra non volessero lasciare alle
dinamiche politiche interne e ai provvedimenti italiani di clemenza il destino dei loro detenuti, fascisti e non. Per il momento può bastare.
Lo spionaggio: dall’OVRA all’Ufficio Politico Investigativo, alla Gestapo…
I fascisti e i tedeschi sapevano bene che per contrastare in pianura e nei centri urbani il
movimento partigiano non potevano bastare i rastrellamenti di massa, né i Bandi, né il coprifuoco, né il divieto di circolazione in bicicletta, ecc. Era invece fondamentale basarsi su una
fitta rete d’informatori, infiltrati e non, doppiogiochisti o prezzolati.
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A chi rivolgersi? Gli elenchi dei vecchi collaboratori, tipo quelli della “Capillare” di
Ravenna erano per lo più inservibili. Analogamente gli elenchi dei delatori a disposizione
delle Questure o delle Caserme dei Carabinieri. Dalla necessità di costruire qualcosa di
nuovo e d’efficiente sorse una rete di spie, talune occasionali, utile per capire la mappa resistenziale, i capi, i combattenti, i rifugi, i canali di comunicazione, i sostenitori e, perché no,
gli informatori, tra cui quelli in divisa fascista. A volte i fili si dipanavano per mezzo delle torture dei prigionieri, altre volte tramite lettere anonime, spesso con i rapporti di civili, parenti di brigatisti neri o votati alla causa dell’Asse. Certo: anche la Repubblica di Salò ebbe una
sua base di massa, non paragonabile, ovviamente, a quella del ventennio.
Il pericolo proveniente dall’attività spionistica di uomini e donne al servizio dei nazifascisti non era sfuggito ai combattenti partigiani, che tentarono di contrastare il fenomeno con
minacce a mezzo stampa, con scritte, con passaparola, con interrogatori e processi clandestini (alcuni dei quali verbalizzati e a disposizione dei ricercatori) e con agguati notturni, tesi
alle spie più esposte, non tutte agenti sotto copertura.
Nella “lunga liberazione” talune di queste figure furono raggiunte dal piombo nei giorni
e nei mesi successivi al 25 aprile. Nei processi in Corte d’Assise la materia ritornò di tanto in
tanto, specialmente nei confronti di donne. Gli esiti furono caratterizzati, come visto, da
varie forme di assoluzione o da rare e modeste condanne. Dopo l’amnistia, diventerà quasi
impossibile perseguire tale reato, classificabile come collaborazionismo politico da parte di
individui che non rivestivano funzioni di comando.
Le supposte spie, scagionate in istruttoria o frettolosamente amnistiate in aula, saranno
comunque additate a lungo tra i responsabili di gravi fatti di sangue o di deportazioni.
Nel titolo si parla di Gestapo. A torto? Sembrerebbe di sì ad ascoltare gli uomini di quel
tempo, per i quali gli occupanti tedeschi erano tutti della Wehermacht o delle SS. La cosa è
comprensibile, poiché s’ignora che la Gestapo aveva propri funzionari in ogni formazione
germanica e che dopo l’attentato a Hitler (20 luglio 1944) gli agenti della Polizia Politica furono “tassativamente” obbligati a non farsi vedere in giro né con i tedeschi, né con i fascisti, e
a girare sempre senza divisa. Così anche a Ravenna, come dichiarato in un intervista a “La
Voce di Romagna” (giugno 1947) da Wilehlm Succi, Tenente della Wehermacht, addetto al
Comando tedesco di piazza come interprete della Polizia impegnata nello spionaggio e nel
controspionaggio. L’ufficiale era nato in Germania da genitori italiani, romagnolo almeno il
padre (visto il cognome), e lavorava alle dipendenze del Maggiore Kienestz. Dal Succi, attraverso alcune interviste da lui rilasciate al giornale repubblicano, veniamo a sapere anche che
il Comando era in possesso di una lista di ravennati da uccidere, fornita dalle Brigate Nere
(portata da Cattiveria, se ben ricordava), che da informatori avevano saputo che due ufficiali inglesi erano nascosti nella Chiesa di S. Giovanni Battista, protetti da due sacerdoti.
L’operazione di cattura era pronta, quando, sfortunatamente per i tedeschi, a poche decine
di metri dal “caseggiato rimase ferito un ufficiale della Milizia per mano sconosciuta”. E la
sorpresa saltò.
E ancora, che vi erano fascisti aggregati come civili nella Gestapo. Uno di questi aveva
funzioni di comando nella “polizia federale” e si vantava di essere un “corridore in motocicletta”. Aveva circa 30 anni e, tramite lui, indicato come un certo Babini, molti antifascisti
erano stati arrestati. Poi, si ruppe la testa in moto. Ma il più efficiente di tutti era un siciliano, noto in città, di nome Giamona, abile nell’introdursi negli ambienti clandestini. Fu lui ad
uccidere Lino Cimatti in pineta e non Spero come poi si sostenne. Sull’eccidio del Ponte
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degli Allocchi: il Succi afferma che i tedeschi di Ravenna erano stati informati della volontà
di una rappresaglia fascista e che dalle SS di Forlì era giunto l’ordine di lasciare fare e di starsene fuori; inoltre che a catturare Umberto Ricci, dopo l’uccisione di Cattiveria, erano stati
alcuni sottufficiali tedeschi della Marina, di passaggio.
Sulla strage della Camerlona poi, in data 26 agosto, era successo che una colonna tedesca in transito tra Mezzano e Ravenna era stata fatta oggetto di colpi d’arma da fuoco. Due
risultarono i feriti. I tedeschi al momento pensarono che ciò fosse frutto di un errore da
parte dei fascisti ravennati impegnati nella zona in un rastrellamento. Ma l’onnipresente
Andreani li convinse del contrario. Di qui l’intenzione dell’ufficiale nazista di operare immediatamente una retata, onde catturare i veri responsabili. Al che, il capo della Brigata Nera:
“Inutile andare a cercarli; ne ho già parecchi dei catturati”. Quindi l’Andreani spedì alle
Carceri di Ravenna un subalterno con l’ordine di prelevarli: fu così che furono uccisi dai
tedeschi Zanzi, Lolli e Miccoli ed altri, alcuni dei quali detenuti a Lugo (gli Orsini), furono
spediti a Savarna per analoga rappresaglia. Il Tenente Succi ricordava bene l’episodio, perché il suo superiore gli aveva dato ordine di correre a Ravenna per bloccare il prelievo di
Miccoli, impiegato della Todt, su cui erano in corso accertamenti. Viaggio inutile, perché il
Capo guardiano delle Carceri, un tale detto Moro, gli comunicò che tra i prigionieri non
aveva mai avuto un Miccoli. Tra l’altro, dall’interprete veniamo a sapere che in Prefettura
aveva gli uffici un Capitano della Xa MAS, in stretto collegamento con le SS di Forlì. Infatti,
dal Comando di Forlì dipendeva Ravenna e là venivano destinati alcuni prigionieri ravennati, taluni alla Rocca delle Caminate, sempre in mano germanica, altri a Bologna.
Quanto alle stragi di Villa dell’Albero, S. Alberto e S Pancrazio? Nonostante la Gestapo e il
Comando di piazza fossero ancora in città, il potere era passato interamente nelle mani del
Comando Militare di Linea, dato il precipitare degli eventi di guerra, e al Succi non erano note.
Ritornando all’opera di spionaggio. Egli afferma che fu merito precipuo del siciliano
Giamona se “catturammo Guerrini, Bondi, Pascoli, Rossi ed Orioli”. Wilehlm Succi, nelle
interviste, riferisce anche di un diffuso malcostume che non faceva tanto onore a Ravenna:
egli doveva tradurre dalle 20 alle 30 lettere al giorno, anonime o sotto falso nome, talora
anche 50, frutto di invidie personali, di contrapposti interessi privati e di ostilità politica. A
queste missive, è immaginabile, andavano aggiunte quelle spedite alla Polizia, alla Brigata
Nera. A volte, gli spioni anonimi, per favorire la cattura dei “ribelli”, descrivevano perfettamente la dislocazione della casa sospetta, la posizione dei vani e delle vie di fuga, con l’aggiunta di precisi disegni. Anche i luoghi di ritrovo pubblici attiravano l’attenzione dei delatori, in particolare il Caffè Roma di Piazza Vittorio Emanuele. Inoltre, il Succi cita l’incontro
tra Scapinelli, direttore della Cassa di Risparmio, e il suo Comandante. Oggetto del colloquio: impedire il saccheggio della Cassa stessa ad opera di Andreani.
Da ultimo, l’interprete della Gestapo si toglie un sassolino dalla scarpa: dice di ricordare perfettamente nomi e cognomi di ravennati, le cui ditte si erano fatte le budella d’oro,
vendendo, tra le altre cose, ai tedeschi materiali che dovevano essere considerati bellici
(accettati per bisogno). Il soprintendente tedesco ai lavori e agli acquisti, l’ing. Fergert,
sarebbe potuto entrare nel dettaglio. Ed erano stati proprio questi profittatori che, al
momento del ritiro tedesco da Ravenna, avevano negato al Succi qualche centinaio di lire
per ritornare in Germania, motivando il diniego con la paura di compromettersi. Un chiaro
messaggio mafioso tramite stampa, forse andato a buon fine, visto che i nomi dei destinatari non si sapranno mai più.
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L’OVRA
Se l’amnistia sembrava volere chiudere in parte il capitolo sui crimini fascisti, un provvedimento uscito sulla “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” il 2 luglio 1946 parve andare in direzione opposta. In quel giorno gli italiani poterono leggere tutti (forse) i nominativi dei confidenti dell’OVRA, l’organizzazione segreta dipendente dal Ministero degli Interni
e sottoposta al controllo di Mussolini, che per 20 anni aveva controllato corrispondenza,
telefonate, conversazioni, riunioni, nonché promosso provocazioni, eseguito uccisioni, ecc.
ecc. I dati raccolti sui gerarchi fascisti servivano al Duce per promozioni, rimozioni e, soprattutto, per ricattarli. Quelli sugli antifascisti, per arrestare, processare, uccidere, spedire al
confino o nei penitenziari. Studi lontani e recenti molto ci hanno raccontato su questa speciale polizia.
Ritorniamo al 2 luglio 1946. All’elenco è premessa un’avvertenza per il lettore (non così
definita). “La seguente lista di confidenti dell’OVRA è stata redatta, sulla base di deliberazione del Consiglio dei Ministri, con esclusione dei deceduti e dei funzionari, impiegati, sottufficiali e guardie di PS e delle persone non identificate. La Commissione ha proceduto alla
sola identificazione dei nominativi delle persone che hanno avuto rapporti con l’OVRA,
senza compiere operazioni di accertamento delle responsabilità concrete dei singoli.
Pertanto l’inserzione nell’elenco non può far indurre di per sé a ritenere che siano stati
accertati elementi specifici di colpevolezza a carico degli inclusi, che, ai sensi dell’art.2 del
Regio Decreto Legislativo 25 maggio 1946, n.424, hanno diritto di ricorrere per la cancellazione all’apposita Commissione prevista dall’articolo stesso”. A scanso di equivoci si è preferito, da parte nostra, riprodurre integralmente il testo, perché esso consente alcune considerazioni relative ad un argomento simile, già trattato in sede locale. Ricordate le reazioni
contro “Democrazia”, “La Lente” e la Delegazione Provinciale di Epurazione, colpevoli, nel
Natale del 1945, della pubblicazione dei nominativi della “Capillare”, senza preventivi accertamenti sulle responsabilità specifiche? Ebbene, sette mesi dopo, il Governo stesso comunicherà al mondo i nomi di centinaia di “spioni”, “senza previ accertamenti”!
Ovviamente, è presente la diversa rilevanza delle due organizzazioni, ma non di rado esse
avevano portato alle medesime conseguenze in danno delle persone denunciate in tanti
anni di fascismo. Chi aveva rapporti con Roma (OVRA), a volte tramite appositi funzionari
della Questura, veniva compensato in denaro, con promozioni, con il silenzio su eventuali
reati. Tra i confidenti, anche uomini dei partiti antifascisti, scoperti, ricattati e passati dall’altra parte. Quanti sospetti e reciproche accuse dopo qualche retata e arresto più o meno
eccellente! Talora per non bruciare la fonte, i fascisti procedevano anche alla cattura dei
delatori stessi. Da ultimo, a differenza degli aderenti alla “Capillare”, i referenti dell’OVRA
erano generalmente elencati in separati registri: in uno i dati anagrafici esatti, nell’altro il
nome in codice. Il clamore in tutta Italia fu enorme e generò persino accuse a Nenni (Alto
Commissario nel primo dopoguerra) di avere visionato personalmente e per primo il materiale ritrovato.
Gli echi arrivarono anche in Romagna e in molti, tra gli uomini in vista dell’economia e
della politica, corsero a leggere la Gazzetta in questione, in cerca dei nominativi locali.
Il primo ravennate nella lista era Bagnari Augusto (in codice, Silvestro) di Mario e
Bedeschi Teresa, nato a Bagnacavallo 27-2-1901, domiciliato a Milano via Ciro Menotti 24,
ragioniere.
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Il secondo: Beltrami (Beltrani) Tommaso, fu Ludovico e Piana Caterina, nato a Solarolo
5-2-1891.
Il terzo: Ceccarelli Angelo Benito (Celli), fu Eugenio e di Francesconi Maria, nato a S.
Stefano di Ravenna il 5-5-1881.
Il quarto: Montuschi Alfredo (Tuschi), fu Domenico e fu Ancarano Maria, nato a Faenza
nel 1880, domiciliato a Roma, via Carlo Poma 4 (la strada del famoso delitto di decenni
dopo), ragioniere e banchiere.
Il quinto: Melandri Edmondo di Marco, non meglio identificato, nel 1931 confinato a
Ponza.
Poi, Nostini comm. Edgardo (Ardo) fu Natale, nel 1935 domiciliato a Lugo via Roma 28,
ex Prefetto fascista. Altro non si dice. Il Nostini era nato a S. Agata sul Santerno nel 1895 e
nel 1927 era stato Prefetto di Lucca. Ma prima aveva partecipato alla resa dei repubblicani di
Ravenna e Romagna nella famosa riunione del 28 luglio 1922, in Municipio, e nel 1924 era
stato eletto Federale della provincia. Una strana spia, che di certo non poteva passare inosservata. Tra gli incarichi ricoperti anche quello di Console a Madrid (una biografia da approfondire). Andando a ritroso, scopriamo che il 30 gennaio 1920 il Nostini ed altri si erano
rivolti con un manifesto agli abitanti di Lugo. Parlavano a nome del Gruppo Nazionalista
d’Avanguardia, un movimento antisocialista e antibolscevico. Questi i programmi. “Senza
quartiere combatteremo ogni sozzo connubio, ogni menzogna, ogni forma di sfruttamento
e di materialismo imbecille: noi consideriamo la rossa bottega del leninismo alla stessa stregua delle confraternite papaline… riaffermiamo inesorabilmente la necessità di sbattere i
polverosi gropponi delle decrepite carogne, che ostacolano ancora col loro fetore nauseabondo ogni movimento sanamente progressista”. Il Gruppo non si nascondeva ai concittadini e si firmava: E. Nostini, G.B.Benini, G. Gallignani, N. Pasi, A. Folicaldi.
Di seguito, Nuvoli Alvise (Esopo), di Artidoro e di Canuti Assunta, nato a Lugo, domiciliato a Parigi, Rue de la Glacère n.96, commerciante.
Nuvoli Artidoro (Artidoro), non meglio identificato (il padre di Esopo!), domiciliato nel
1935 a Parigi, Rue de la Tombe Issoire, 110.
Rambaldi Angelo (Napoleone), fu Giuseppe e di Gandolfi Anna, nato a Ravenna 21-111884, domiciliato a Milano, via Manzoni 33, capomastro impresario.
Saporetti Secondo (Primo o Bianchi), di Antonio e di Magnani Rosa, nato a Ravenna 168-1907, domiciliato a Roma, via Principe di Savoia n.18, falegname.
In tutto, dieci confidenti originari della provincia, di cui diversi domiciliati altrove, forse
da tempo. Delle successive ricerche in loco non abbiamo informazioni. L’unica cosa certa è
che improvvisamente da Massalombarda lasciò il paese, la famiglia e il lavoro il “non meglio
identificato”, Edmondo Melandri, una figura di primo piano nella vita civile e politica del
paese, nonché procuratore della locale Cooperativa Ortofrutticola. Uno dei fondatori del
Partito Comunista in provincia, divenuto dopo il 1927 “segretario segreto”, secondo la polizia.
Ebbene, nel 1930 l’intero Comitato Federale del Partito Comunista era caduto in una
trappola (portata a termine da Neri, Questore poi sotto Salò). Arrestati anche alcuni parenti del sospetto “spione”, ivi compresa la moglie Carlotta, ma Edmondo era riuscito a farla
franca. Al momento era nato qualche sospetto sull’unico che si era messo in salvo, subito
però fugato quando anch’egli, dopo la cattura (evidentemente concordata), raggiunse da
prigioniero Ponza. Il depistaggio fu perfetto e gli consentirà di proseguire nell’opera informativa sugli altri detenuti politici, alcuni di massimo rilievo nazionale. Uscirà infine nel 1933.
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L’uomo, in vero, aveva sempre condotto una vita brillante e la moglie ancor più, ma nessuno poteva sospettare la provenienza del denaro, visto che Edmondo era benestante di
suo. A chi volesse saperne di più, si consiglia la lettura al femminile della vicenda Melandri,
narrata da Claudia Bassi (in “Cinque storie dimenticate”), sulla base di numerose testimonianze e previa la consultazione della cartella intestata a Melandri, reperita presso l’Archivio
Centrale di Stato.
A noi preme ricordare che il “traditore” vivrà in miseria a Bologna, in Marocco e di nuovo
a Bologna, dove cesserà di vivere nel 1961.
All’elenco di cui sopra seguiranno un secondo ed un terzo, con nuovi nominativi di fiduciari dell’OVRA, tutti rintracciabili nel volume di Mauro Canali, “Le spie del regime”, anno 2004.
Mancano però i luoghi di provenienza dei delatori e, quindi, per trovare se altri ravennati fossero assoldati dal Ministero dell’Interno è necessaria una ricerca puntuale presso
l’Archivio Centrale di Stato. Il Canali, infine, pubblica anche i nomi dei fiduciari e confidenti degli uffici politici delle Questure, con le relative specificazioni. Sorpresa: tra centinaia di
nominativi uno solo faceva riferimento alla Questura di Ravenna: Fusconi Apollinare, senza
ulteriori indicazioni.
Ultime dall’Archivio Centrale sulle spie dell’OVRA. In parte vi si correggono i dati anagrafici, le residenze e le professioni, presenti nella citata Gazzetta Ufficiale. Aspetti marginali
questi, ma l’interesse maggiore scaturisce da altro. Come si sa, i cosiddetti delatori avevano
la possibilità di presentare ricorso presso l’Alto Commissariato per l’Epurazione e successivamente presso i Tribunali ordinari.
Tra i ravennati ne approfittarono Ceccarelli (ricorso respinto), Rambaldi (ricorso respinto), Nostini (ricorso respinto) e Melandri. Questi, secondo dati più precisi ed aggiornati era
nato a Massalombarda il 28 settembre 1892, da Marco e da Masoni Angelica. Non risultava
per niente benestante, ma campava facendo il “venditore ambulante” (al momento dell’istanza?). Fin qui nulla di sconvolgente.
Sono, invece, le ultime parole a provocare stupore, “ricorso accolto”. Pertanto, Edoardo
Melandri non sarebbe stato un delatore e non avrebbe tradito il partito. Ma perché fuggire
dal paese, perché non ritornarvi in seguito, perché non pretendere la riabilitazione morale
e politica? O forse la fuga e il silenzio avevano provocato una frattura profonda con i suoi
compagni di partito, che, diversamente da Roma, avevano sentenziato in modo negativo e
definitivo. Una vicenda umana da riscrivere.
Renier di Massalombarda, a processo
Poco si conosce delle origini familiari di Renier Raniero (un cognome veneziano). Si sa
che verso la fine del 1943 lasciò la scuola per andare volontario nella Guardia Nazionale.
Aveva 17 anni. Restò nella sua zona, a Massalombarda, dove tutti lo conoscevano. Assieme
al fratello Mario, si guadagnò la fama di “uno dei più accaniti criminali”.
In apparenza un uomo (un ragazzo) d’azione, anche se alcuni testi lo dipinsero come un
tipo subdolo che non amava esporsi. Per fortuna! Lo troviamo, infatti, ovunque, in paese, in
collina, in campagna, in caserma, a sequestrare, a interrogare, a sparare. Cominciò sotto
Natale del 1943. Visita ad un colono con fama di antifascista nel fondo Tagliata Superiore. In
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divisa da Brigata Nera sequestrò un grosso quantitativo di cognac, consumato poi in compagnia dei germanici. Il 19 maggio del 1944 partecipò alla spedizione punitiva contro alcuni
industriali di Massa, i fratelli Dalle Vacche (Ettore e Leo) e Chiarini Arturo, sospettati di finanziare il movimento partigiano. Furono trucidati tutti e tre. I Dalle Vacche furono raggiunti
nella propria abitazione, poi incendiata, il Chiarini presso il suo stabilimento. Bisognava vendicare l’uccisione del Segretario del Fascio locale, Giovanni Dal Pozzo. Il teste Corrado Dalle
Vacche lo vide armato, e Veliano Chiarini soddisfatto con un “sorriso sardonico”. Il Renier in
persona, sempre per onorare la morte del camerata, arrestò Milanesi Antonio, Antonini
Maria, Preti Leone, Lanzoni Paride (futuro giornalista de “l’Unità”) ed altri. In data imprecisata partecipò al rastrellamento nei poderi della SIAMA, che portò alla cattura e alla deportazione di partigiani e civili.
Nell’agosto del 1944 si insediò con gli altri brigatisti nel Palazzo Armandi, sito di fronte al
Municipio, di proprietà dell’ammiraglio Pellegrino Matteucci e fratelli. Quando i fascisti se
ne andarono, diretti al nord, il 26 ottobre, la merce sparita raggiungeva i due milioni di lire.
Già noti i particolari. Un solo inciso: delusione somma per chi oggi, affacciandosi in Piazza
Matteotti, cercasse il palazzo. Distrutto dalla guerra, dice qualche anziano, più probabilmente demolito negli anni del boom. Orribile la nuova costruzione.
Il primo giugno del 1944 Brini Luigi fu fucilato al cimitero di Conselice. Il fratello di Luigi
ricorderà che Renier stesso gli aveva confessato il suo ruolo nella cattura e nella fucilazione.
Visani Marcello, catturato (il 16 marzo 1944) e sottoposto a duro interrogatorio, riconobbe in Renier il giovane che diceva ai torturatori di averlo visto con le armi per
Massalombarda. Nel settembre del 1944 si verificò un attentato alla linea ferroviaria
Massalombarda- Lavezzola.
Il Renier, assieme la fratello Mario, arrestò Ricci Pietro, poi ridotto in fin di vita.
Nell’ottobre, sempre con Mario, diede il suo contributo alla strage dei Baffè e dei Foletti
(22 morti). Partecipò ai rastrellamenti di Villa S. Martino, di Lugo, di Massalombarda, di S.
Agata sul Santerno e ad altri in montagna. Fu accusato inoltre di violenze ai danni di Pirazzini
Guerrino, Foletti Walter, Margotti Aristide, Righi Luciano e Gabi Giovanni. Sempre in prima
linea, a bastonare e a rapinare di un camioncino Franco Mezzogori, a maltrattare Lea Verati
per sapere il nascondiglio dei partigiani. L’imputato ammise soltanto l’iscrizione al Fascio,
l’arresto del Ricci, il tentativo di arrestare i Dalle Vacche e un rastrellamento a Conselice.
Di diverso avviso la Corte. Renier Raniero, di Pietro e di Berti Geltrude, nato a
Massalombarda nel settembre del 1926, studente, detenuto dal 29 maggio 1945, fu ritenuto
in data 2 luglio 1946 colpevole di quasi tutti i reati attribuitigli (qualche dubbio sul palazzo
di piazza) e giudicato meritevole della pena prevista dall’art.51 del Codice Penale Militare di
Guerra e cioè della condanna a morte per fucilazione. Ma, data la giovane età, la Corte optò
per i 24 anni di reclusione, tre anni di libertà vigilata e la confisca di un terzo dei beni.
Alla luce del Decreto di amnistia e condono del 22 giugno 1946, il Renier si vide condonati otto anni. La Cassazione nel maggio del 1947 annullò la sentenza e rinviò alla Corte di
Bologna.
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I primi frutti del Decreto di amnistia
Li si videro subito. Amnistie piene e condoni. Ne beneficiarono gli imputati di colpe non
gravi, ne beneficiarono i detenuti a svantaggio dei latitanti. Ne trasse vantaggio anche la
struttura delle sentenze, a scapito della conoscenza piena dei fatti in discussione. In qualche
caso si ha l’impressione che i giudici abbiano scelto tra l’amnistia e l’assoluzione con formula dubitativa. Il 2 luglio del 1946, dopo l’impegnativo processo contro il Renier, due cause
secondarie. Una contro Gonani Francesco, fu Innocenzo e di Carli Erminia, nato nel 1899 a
Ravenna, latitante. Senza obblighi militari, si era arruolato nella Guardia Nazionale
Repubblicana, con il grado di sergente e svolgendo attività di rilievo presso l’Ufficio Politico
Investigativo. Come altri camerati aveva preso la strada del nord, sistemandosi dapprima a
Ferrara, da dove con i più autorevoli o fanatici era rientrato a Ravenna, mosso da pendenze
di vario genere, non ultima sistemare i conti con chi di dovere.
Già abbiamo letto del fascista “pentito” Romeo Piccinini, detto Zampon, prelevato ai
primi di novembre del 1944, caricato in macchina e condotto per la Statale 16, fin oltre il
Ponte sul Reno, e fatto fuori in un viottolo, alle porte di Argenta. Erano 4 i fascisti accanto
alla vittima sacrificale, l’Arcieri, l’esecutore, ed altri tre militi. La sua sorte fu intuita quasi
subito dal Piccinini, durante il percorso e soprattutto quando fu trascinato a forza fuori dall’automobile; lo scopo del sequestro doveva essere noto anche all’equipaggio tutto, sia al
killer prescelto, sia agli altri tre, tra cui il Gonani, l’ex ragazzo del ‘99.
La Corte, poiché l’imputato non era sceso e poiché i camerati Bravetti Spero ed Ercolani
Sauro testimoniarono a suo favore, si orientò per la buona fede. Assoluzione per insufficienza di prove.
Più rapida la successiva sentenza.
Tozzi Arnaldo, di Domenico e di Campi Amedea, nato a Faenza nel 1915, detenuto dal 31
gennaio 1946, era accusato di diversi fatti specifici. Come componente della Brigata Nera era
imputato di arbitraria asportazione di grano e fagioli in danno di Adriana Argnani, di un
motocarro di proprietà di Giovanni Gulmanelli, della cattura di Pietro Volpiano e di Angelo
Muccinelli (con relative minacce e violenze) e dell’arresto di Giovanni Guerrini.
Paradossalmente i fatti più gravi, contro le persone, rientravano nell’amnistia, mentre i
sequestri di beni altrui restavano fuori. Fortuna volle che i danneggiati modificassero la primitiva denuncia, attribuendola ad un equivoco. Reato estinto.
Al limite
Particolare la vicenda di Ercolani Sauro, di Guglielmo e di Albertini Lina, nato a Ravenna
nel 1924, detenuto dal 13 febbraio 1946. Era nella famosa macchina con i militi che rapirono ed uccisero il Piccinini, in data 9 novembre del 1944. Rifacciamo il punto, per togliere le
ultime incertezze su un episodio che ogni tanto ritorna in forma diversa. A guidare era
Arcieri, che da Andreani, in attesa a Ferrara, aveva ricevuto ordini precisi, anche se affidati
ad un sottinteso macabro: “Trattalo come un padre”. Accanto i brigatisti Calvetti Anselmo,
Bravetti Spero, Gonani Luigi e Ercolani. Sembra che al Ponte di S. Biagio il Bravetti e il
Gonani siamo rimasti in auto e che il primo si sia opposto all’esecuzione. A scendere e ad
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allontanarsi con il Piccinini gli altri tre, il Calvetti, l’Arcieri e l’Ercolani. A sparare, secondo la
sentenza del 5 marzo 1946, l’Arcieri, sulla base anche delle dichiarazioni di altri fascisti, che
avevano riferito il resoconto dell’Arcieri all’Andreani. Si seppe così che il poveretto, disperato, aveva offerto prima centomila lire, poi quattrocentomila, onde evitare la morte. Gli accusatori si chiamavano Morigi Sergio, Buda Sante, Morelli Agostino e il Bravetti stesso. L’Arcieri,
da parte sua, si dichiarava innocente ed incolpava l’Ercolani e il Calvetti. L’Ercolani, non
potendo negare di essersi allontanato dall’automobile con il Piccinini, disse che in quell’occasione era disarmato e che, poco dopo, si era fermato con il Calvetti, mentre esecutore e
vittima erano spariti allo sguardo. 30 metri, 50 metri? Infine, una raffica. Un tribunale normale avrebbe condannato per concorso in sequestro ed omicidio, invece la Corte Speciale di
Ravenna sembrava interessata solo a chi aveva premuto il grilletto.
Altra accusa contro l’Ercolani. Un certo Tapparo Carino aveva denunciato ai Carabinieri
di Fossano che l’Ercolani lo aveva perquisito ed arrestato, con la conseguente deportazione
in Germania. Ma chi era questo Tapparo? Una figura poco raccomandabile, secondo l’agente di PS Piermattei Marsilio, che si faceva passare per partigiano per commettere furti ed
estorsioni. Un ceffo, forse, del resto impossibilitato a presenziare al processo, poiché detenuto a sua volta nel Carcere di Lonigo. Per quali accuse? Doppia fortuna per l’Ercolani, che
così in data 3 luglio 1946 ottenne la libertà, con formula dubitativa.
Non era nessuno
Il Begala non era fazioso e si era prodigato, a detta di camerati e vittime, per agevolare
cittadini arrestati o perquisiti per ragioni politiche. In tal senso giurarono Molducci Alda,
Amadei Guido, Morigi Lino, Ercolani Sauro, Ceccarelli Epaminonda, Zannoni Angelo,
Miserocchi Fernando, Mandarà Graziella, Angelini Arcangelo e Valentini Luigi.
La Corte ne rimase impressionata e non sapendo come uscirne sentenziò con una logica assurda. Il Begala non era nessuno, non aveva incarichi politici, non aveva compiti di polizia, né investigò per conto proprio. Ma se non era nessuno, da dove gli veniva tanta autorevolezza da decidere il destino dei catturati? Mistero. La Corte negò persino che egli fosse
componente della Brigata Nera, ammettendo, in subordine, che l’imputato avesse aderito al
Corpo solo dopo il ripiegamento al nord. Il Begala non andava considerato un brigatista
nero, almeno per la zona di Ravenna, nonostante avesse il grado di aiutante maggiore e
nonostante avesse lavorato in ufficio presso la Federazione, in qualità di “segretario”.
Segretario di chi? Di conseguenza caddero le altre imputazioni: avere svolto attività di direzione investigativa, avere partecipato alle sevizie in danno di Umberto Ricci, avere partecipato all’eccidio del Ponte degli Allocchi, avere fatto requisire un apparecchio radio di proprietà di Montanari Guido.
Begala Ettore, fu Emilio e di Focaccia Dora, nato a Ravenna nel 1913, geometra, detenuto dal 13 febbraio 1946, fu assolto per “non avere commesso il fatto” in data 3 luglio 1946.
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Non era lui
A volte la Corte si divertiva a concentrare nella stessa giornata processi a sorpresa, dove
solo le vittime e i reati erano certi. Per il resto si viaggiava nelle nebbie. Il Vicchi, forse avvertendo le critiche alle sue sentenze (alla loro stesura), piene di date errate, di dati anagrafici
contraddittori, di dimenticanze e di paradossi logici, ogni tanto si vendicava sui rapporti della
Questura e dei Carabinieri, troppo approssimativi e percorsi da voci di paese e non da prove.
Dall’Osso Emilio, fu Vincenzo e di Dalpozzo Lucia, originario di Imola, classe 1882, residente a Casola Valsenio, comparve a giudizio il 25 giugno del 1946, con l’accusa di avere
fatto parte della Brigata Nera, di avere partecipato ad un rastrellamento in cui fu saccheggiata la casa di Cavina Francesco, ad una spedizione punitiva in danno di certo Bedronici, detto
Gerbi, di avere ricercato Giovanni Rossini e di avere saccheggiato l’abitazione di Domenico
Rossini. Un bel curriculum, una vita di movimento per uno che aveva superato i 60 anni.
Possibile però. Sennonché alcuni testi, più o meno autorevoli, tra cui il prete don Peppi
Adamo e Zaccherini Mario, sostennero che l’imputato non aveva mai aderito ad organizzazioni fasciste. Lo stesso prete e Naldoni Giuseppe, aggiunsero che il Dall’Osso al momento
dei fatti si trovava nell’impossibilità fisica di commetterli abitando altrove. Da ultimo, il rapinato Rossini Domenico e Bazzi Giovanni riferirono che il responsabile dei misfatti era sì un
Dall’Osso, ma il figlio!
Che schiaffo per la Questura di Ravenna che, tra l’ottobre e il dicembre del 1945, aveva
steso due verbali di accusa! Assoluzione per non avere commesso il fatto.
Le disgrazie dei Matteucci di Massalombarda
Nello stessa giornata, 25 giugno 1946, fu processato uno degli occupanti del famoso
Palazzo Armandi di Massalombarda, più noto come palazzo dei fratelli Matteucci, l’ammiraglio Pellegrino e l’ingegnere Leonello. Il 22 maggio del 1945 (notare la data) il Pellegrino
aveva sporto denuncia scritta contro coloro che, dal 10 agosto al 26 ottobre del 1944 (altri i
fascisti fino alla fine della guerra), avevano occupato la sua residenza, cioè i repubblichini
della Brigata Nera di Massalombarda. Ne abbiamo parlato più volte. Alcuni di loro erano partiti per il nord nell’ottobre. A fine guerra i fratelli, nel fare l’inventario dei danni, registrarono quelli provocati dai bombardamenti alleati e quelli operati dai fascisti. Del valore di questi ultimi (scomparsa e distruzione di arredi, arazzi e scorte per l’agricoltura) non sempre vi
è corrispondenza di cifre nelle varie cause. Talora si dice un milione e centomila lire, talora
due milioni. Differenze non dettate da superficialità o da esagerazioni, ma dalla distinzione
tra crittogamici e mobilio. Ebbene, i proprietari (o meglio l’Ammiraglio: vedremo perché)
avevano individuato un unico colpevole, la Brigata Nera, che, ovviamente, nel dopoguerra
non aveva alcuna personalità giuridica. Pertanto la Polizia chiamò a rispondere tutti i brigatisti che nel palazzo erano vissuti per mesi, prelevando un giorno sì e un giorno sì.
Tra questi Gianstefani Medardo, di Adolfo e di Marescotti Serafina, nato a Massalombarda
nel 1923, latitante. Sennonché al processo comparvero solo testimoni a suo favore (Lanzoni
Pompeo, Cavallazzi Silvio, Garavini Romeo, Paganini Ugo, Pracucci (?) Giuseppe, e il dott.
Rangoni Filippo) tra i quali alcuni partigiani. Essi esclusero che il Medardo avesse partecipa-
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to alle devastazioni. Dimostrazione non tanto agevole. Inevitabile l’assoluzione. Per non
avere commesso il fatto, viste le deposizioni, ma la Corte preferì la formula dubitativa.
Non sappiamo dove e se il latitante Medardo abbia accolto la notizia. Il nome non risulta tra i caduti della Repubblica Sociale. Vi troviamo invece un Gianstefani Adolfo. Il padre?
Luogo e data di morte (Conselice, 13 aprile 1945) suggeriscono una risposta affermativa,
smentita, salvo errori, dai dati anagrafici. Se la storia raccontata finisse qui, non si capirebbe
il titolo. Ritorniamo al Palazzo. Ascoltando le voci dei viventi si direbbe che i bombardamenti siano stati terribili, definitivi. Ma non deve essere stato così se i fascisti vi rimasero fino
all’aprile e se è vero che dopo la Liberazione vi funzionavano, a piano terra, un Caffè, una
drogheria, una bottega da barbiere e vi abitavano famiglie sfollate e nel meraviglioso parco
giocavano senza pericolo decine di ragazzini. Allora come spiegare l’odierna ignobile facciata? Un momento di pausa.
La denuncia del Pellegrino era del 22 maggio 1945, ma in data 25 maggio 1945 (esattamente un anno prima del processo di cui sopra) il cronista forlivese Mambelli registrava nel
suo diario che l’agricoltore Leonello, fratello del denunciante Pellegrino, era sparito fin dal
18 maggio assieme al fattore Armando Conti, vittime entrambi di giustizia sommaria.
Approfondendo un poco, è emerso che la famiglia Matteucci ben presto ruppe definitivamente con un paese tanto ingrato, lasciò palazzo e parco ai preti, i quali, non frenati da
vincoli aviti, pensarono bene di cancellare ogni traccia nobiliare di bellezza e di ristoro.
Elisabetta più dieci
Chi ha avuto sfortunatamente a che fare con la giustizia sa che i fascicoli sono intitolati,
a fronte di molti imputati, ad uno solo, non a quello con i maggiori addebiti, ma al primo in
ordine alfabetico.
Il 9 luglio del 1946 la Corte di Ravenna scelse un altro criterio, intestando il faldone a
Pollini Elisabetta. Un gesto di cavalleria? Vediamo.
Massalombarda ogni anno ricorda il 17 ottobre 1944. In quel terribile giorno reparti delle
SS germaniche, della Brigata Nera e della GNR invasero due case coloniche, site in via
Martello, ai numeri civici 1 e 2. Le saccheggiarono e le incendiarono e vi fecero morire, nella
prima, dieci componenti della famiglia Baffé (Pio, Davide, Federico, Maria, Vincenza, Alfonso,
Angelo, Domenico Giuseppe, Osvalda), Gollo Severino, Canori Giuseppe, Baldini Germano,
Baldini Aderito, Landi Leo, Landi Antonio, Maregatti Augusto. Il più vecchio era Baldini
Germano nato sotto lo Stato della Chiesa nel 1856. Il più giovane Baffè Domenico di 16 anni.
Nella seconda abitazione perirono cinque persone, i Foletti (Giuseppe, Angelo, Aristide,
Adamo) e Cavallazzi Giuseppe. Il più anziano era Angelo, di anni 75, nato quando Roma apparteneva ancora al Papa. Entrambe le case fungevano da basi di sostentamento e di rifugio dei
partigiani e dei renitenti. Tra i trucidati alcuni vi erano stati portati in vista del sacrificio.
Come risalire ai responsabili italiani? Qui entrò in gioco la voce popolare, che attribuiva
le due stragi ad una donna che aveva fatto il doppio gioco. La donna si chiamava Elisabetta
Pollini, di anni 22. La ragazza aveva lavorato per i partigiani, come da lei confessato, ed aveva
il compito di stringere amicizie con elementi fascisti per riferire sulle intenzioni e per farli
cadere in un’imboscata. Forse aveva generato qualche sospetto e l’operazione non era anda-
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ta in porto. Ciononostante non aveva rotto i rapporti con i partigiani e con più cautela riferiva di tanto in tanto, continuando a frequentare le sedi e gli uomini in camicia nera o meglio
in grigio verde. Ma, come capita in queste cose, l’Elisabetta aveva finito con l’innamorarsi di
un milite di 34 anni, tale Marino Govoni, originario di Pieve di Cento, domiciliato a Bologna.
Fu lui a raccontarle dei due eccidi, dei partecipanti e dei ruoli di ciascuno. Tra i più “feroci”
Manaresi Giorgio, di anni 20, Marconi Marcello, di anni 27, Foschini Antonio, di anni 41. Tutti
e tre di Massalombarda, tutti e tre latitanti. Per “sadismo” si distinse anche Renier Mario
(estraneo a questo processo). Il 9 luglio 1946 si aprì il processo Baffè-Foletti contro i militi,
accusati dell’uccisione con premeditazione di 22 persone. Sotto accusa la donna, all’origine
del tradimento, i tre di cui sopra e Randi Mario, un ragazzo del ‘99, nato a Lugo e domiciliato a Massa, il Govoni, Turroni Ferramando, classe 1909, nato a Bertinoro e residente a Forlì,
Pasotti Ezio, nato nel 1923 (manca il luogo), domiciliato a Lugo, Dalle Vacche Gaetano, di
anni 41, di S. Agata. Tutti latitanti, tranne l’Elisabetta. Alla sbarra con la donna, Turicchia
Paolo, classe 1902, di Imola, e Baruzzi Amleto di Lugo, residente a S. Agata, classe 1909, tutti
in stato di detenzione.
Un processone con 11 imputati, di cui 8 uccelli di bosco. Un processone atteso, forse rinviato più volte nella speranza di catturare i fuggiaschi.
Atteso anche perché i sopracitati erano accusati di vari altri crimini. Il Govoni delle sevizie
ai danni di Visani Marcello. Il Dalle Vacche della cattura e di sevizie in danno di Siroli Angelo.
Il Manaresi di cattura e violenze in danno di Verati Vera, del saccheggio del Palazzo Matteucci,
nonché della cattura dei due Landi, poi uccisi in casa Baffé. Il Randi del fatto Visani.
Il Marconi (il più attivo) per la cattura della Verati e successive sevizie, per le torture di
Lanzoni Pompeo, e del Visani, per le percosse di Mazzolani Degasio, per la cattura di
Ancarani Fernando (poi ucciso), per l’arresto di Grassi Pompeo e Dosi (?) Antonio, per il
rastrellamento di Voltana e successive fucilazioni, per il saccheggio del Palazzo, per la cattura di Galà Giovanni, per la rapina di lire 100mila in danno della Cassa di Risparmio di
Massalombarda.
Il Pasotti era accusato della cattura e delle minacce in danno di Siroli Angelo, di Mondini
Giovanni e di Serrazanetti Attilio.
Il Baruzzi, come per il Pasotti, più la cattura di un aviatore, le violenze su Vernocchi
Adelmo onde costringerlo a presentarsi alle armi, la cattura di due renitenti, Baldini
Domenico e (…) Gioacchino, le percosse in danno di certo Baroncini, l’avere costretto
Poletti Francesco a presentarsi alle armi, la cattura e l’uccisione di Tampieri Primo. Da ultimo
per avere sottratto un camioncino a Bagnaresi Giovanni, poi restituito in cambio di lire 3mila.
Il Turicchia doveva rispondere di quattro omicidi, dei fratelli Dalle Vacche, dell’industriale Chiarini e di Brini Luigi. Tra gli esecutori delle due stragi erano emersi altri due nomi, il
citato Renier Mario, giudicato in altro dibattimento, e Patuelli Giulio, morto durante l’istruttoria, non si dice in che modo. Scomparso il 13 aprile 1945, secondo altre fonti. Non era facile l’accertamento delle singole responsabilità in ordine ai numerosi addebiti, alcuni intrecciati tra loro, altri già esaminati in altre cause. Un processo di tal fatta avrebbe meritato una
sentenza ampia, ricca di riferimenti sulle singole personalità, sui precedenti politico-militari
e giudiziari, sul contesto. Obbligatoria avrebbe dovuto essere almeno la ricostruzione puntigliosa delle due stragi. Niente di tutto questo. Dapprima la Corte espunse il saccheggio del
Palazzo Matteucci (come da copione), indi sottolineò che il sequestro del camioncino, a
scopo di lucro, non rientrava nell’amnistia (Baruzzi), che il Manaresi e il Marconi avevano
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bruciato i capezzoli della Verati Vera.
Conclusioni:
1) Foschini Antonio, di Giuseppe e di Mondini Maria, fu condannato all’ergastolo.
2) Manaresi Giorgio, di Giovanni e di Antolini Maria, fu condannato all’ergastolo.
3) Marconi Marcello, di Cesare e di Contavalli Elisa, fu condannato all’ergastolo.
4) Baruzzi Amleto, di Paolo e di Bazzi Filomena, fu condannato ad anni 18, di cui sei condonati.
5) Randi Mario, fu Paolo e di Lippi Luigia, fu assolto dall’imputazione di omicidio, con formula dubitativa per le altre imputazioni, e amnistiato per il collaborazionismo politico con
il tedesco invasore.
6) Turroni Ferramando, di Antonio e di Pasi Anna, come sopra.
7) Pasotti Ezio, di Giuseppe e di Zardi Agata, come sopra.
8) Dalle Vacche Gaetano, fu Italo e di Camerini Antonia, come sopra.
9) Turicchia Paolo, fu Giuseppe e fu Ghirardelli Rita, come sopra. Restavano le posizioni dei
due innamorati, il Govoni e la Pollini.
10) Il Govoni Marino, fu Cesare e di Gamberini Caterina, colui che aveva raccontato i particolari delle stragi, fu assolto con varie formule.
11) La Pollini Elisabetta, di Adolfo e fu Poggi Cesira, fu la protagonista del processo. Molti
addebitarono a lei la spiata che aveva rivelato i nascondigli dei partigiani. Senza di che i Baffè
e i Foletti non sarebbero morti. Ammessa la spiata, ragionò la Corte, non può attribuirsi alla
donna l’intenzionalità omicida e neppure un nesso di causalità tra la denuncia e la strage.
Ergo, l’Elisabetta va assolta.
Possiamo immaginare le reazioni degli abitanti di Massalombarda. Assolti quattro degli
otto latitanti, assolti i tre detenuti. Tutti liberi, compresa la pietra dello scandalo, l’Elisabetta,
che mai più fu vista in paese e che i più informati dicono essersi trasferita negli Stati Uniti.
Con un soldato alleato? Nessun ricorso agli atti. La Corte: Vicchi. Lallo, Berti, Masetti,
Pagliaretti, Verlicchi, Nediani.
P.S. Un Giorgio Manaresi risulta tra i fucilati a Jerago di Varese, in data 13 maggio 1945, un
Antonio Foschini, di età diversa, tra i caduti a Conselice il 13 aprile 1945, un Ferramando
Turroni falciato da un mitragliamento aereo presso l’Aeroporto di Forlì il 30 settembre 1944,
cioè 20 giorni prima della strage Baffé, un Gaetano Dalle Vacche ucciso a Lugo il 17 aprile 1945.
Il vecchio Raffaeli
Vecchio per modo di dire: era del 1897 Raffaeli Natale, fu Giuseppe e di Zani Rosa, di
Faenza. Al momento dei fatti aveva 46 anni. Vecchio per distinguerlo dai figli, in divisa delle
Brigate Nere, di cui uno, Raffaele, più volte ricordato come una belva ed accusato come il
massimo responsabile di molti crimini avvenuti nella zona di Faenza e dintorni.
Natale fu da meno di Raffaele, sia perché il figlio era difficilmente raggiungibile nella sua
ferocia, sia perché da lui (ras assoluto di Faenza) dipendeva come Comandante del presidio
di Marzeno, dipendenza di fatto e di diritto. Fanatico fascista il padre, fanatico il figlio. Meno
fortunato il primo, che si fece catturare in Piemonte con appresso il diario, mentre il secon-
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do diventò, assieme ad Andreani di Ravenna, il superlatitante della provincia. Confronti a
parte, il Natale partecipò ad arresti, perquisizioni, interrogatori, maltrattamenti, ricerche di
partigiani ed omicidi. In Romagna e in Piemonte.
Il 6 febbraio del 1944, sulla strada Marzeno-Faenza, percosse con il mitra il renitente
Zaccarelli Anselmo e lo fece arrestare e consegnare al figlio Raffaele. Il 2 settembre prese
parte in parrocchia Pergola al rastrellamento dei fratelli Linguerri Angelo e Antonio, condotti a Ponte Felisio, con altri sette, per essere fucilati e impiccati. Alla fine di settembre partecipò al plotone di esecuzione che fucilò sei partigiani contro i quali sparò il colpo di grazia. Il
19 ottobre (in vero il fatto avvenne il 19 settembre) prese parte al saccheggio e all’incendio
della casa colonica di Placci in parrocchia di Scaldino. Ancora: rastrellamento di Rivalta, di
Pietramora; fucilazione di Casalini Carlo, Sangiorgi Luigi, Savini Giuseppe, Nanni Emilio; rapina di tessuti, coperte e stoffe di proprietà di Babini Achille; fucilazione di Poggi Lorenzo e di
Ferri Teodosio e successiva imposizione violenta a don Bagnolini Carlo di provvedere alla
sepoltura; cattura di Gentilini Ada per conoscere il recapito dei ricercati Caroli Carlo e
Giuseppe; uccisione di Alessandrini Luigi; arbitrarie perquisizioni a casa di Savini Sante e
Camerani Maria. Si potrebbe continuare ricordando altre numerose violenze, a lui attribuite.
Raffaeli Natale, giunto in Piemonte, rimase Comandante di presidio e precisamente di
quello di Pieve di Vergante, in provincia di Novara. Là partecipò a razzie, a rastrellamenti con
i tedeschi, a ferimenti, a fucilazioni, ecc. Tutto scritto nel suo diario, acquisito agli atti.
Veniamo a sapere così del ferimento di Macrì Bernardo, dell’uccisione di Panighetti Martino
e della fucilazione di 12 ostaggi. L’imputato si difese, dicendo che nel diario egli scriveva
quanto succedeva in zona, non della sua partecipazione ai fatti. Sennonché bene e spesso la
dicitura era “noi”. Ma il Macrì ricordava bene chi lo aveva ferito, trattato brutalmente ed
aggredito con queste parole: “Tuo cognato l’ho ucciso io e te ti metto al muro adesso”. Il
cognato era il Panighetti. Contro il Raffaeli, oltre alle numerose accuse delle vittime di terra
di Romagna, anche quelle dei camerati Nati Guerrino e Schiumarini. Da ricordare che l’imputato ammise diverse circostanze, ma non le più gravi. Era vero che aveva sequestrato le
stoffe, ma per darle ai sinistrati.
La Corte ( Vicchi, Lallo, Berti, Masetti, Pagliaretti, Verlicchi, Nediani) ebbe solo l’imbarazzo della scelta. Nessuna attenuante. Condanna a morte (9 luglio 1946). Pubblicazione della
sentenza su “Il Giornale dell’Emilia” e su “La Voce di Romagna”.
La Cassazione, il 6 febbraio del 1947, annullerà la sentenza e rinvierà la causa alla Corte
di Assise di Ancona.
La fortuna di chiamarsi Natale
Nello stesso giorno di luglio comparve a giudizio un altro Natale, un siciliano, accusato
di delazione, dell’uccisione di Zoli, Melandri, Corniola, di partecipazione all’eccidio di Ponte
degli Allocchi. Si chiamava Cantella Natale, di Ignazio e di Cammerata Giuseppa, classe 1903,
nato a S. Cataldo di Caltanisetta, ivi residente in via Speranza n.16. Non era un burocrate,
faceva il meccanico. Ma come mai si trovava a Ravenna nell’estate del 1944? Non era un militare in congedo, non aveva obblighi di leva e, a leggere le carte, non era né volontario di
qualche corpo paramilitare o politico, né iscritto al Partito Fascista Repubblicano.
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Ma perché arrestarlo con tali accuse? Le imputazioni erano partite da ben cinque detenuti fascisti, abbastanza autorevoli sotto Salò, Reggi Alvaro, Morelli Agostino, Morigi Lino,
Poletti Primo, Arcieri Luigi. Accuse fatte negli interrogatori di Polizia e poi non confermate
al Giudice Istruttore. Ma come facevano a conoscerlo i repubblichini di Ravenna o ad odiarlo fino al punto da chiamarlo in causa per omicidi plurimi? Un mistero, visto che il Cantella
si trovava a Ravenna, domiciliato provvisoriamente in via Dei Pozzi 4, giuntovi da semplice
sfollato. Uno sfollamento lungo, iniziato al tempo dei bombardamenti della Sicilia e poi proseguito lungo la penisola. Fu il destino di molti.
Il Cantella si salvò dalla condanna perché non si chiamava Salvatore, come battezzato in
qualche foglio processuale e riportato dalla stampa. Ma quanti dovevano essere i Cantella
per le vie della città? E poi, come si sa, ai ravennati viene naturale chiamare Salvatore qualsiasi siciliano. Forse ai giurati venne tale dubbio e non vollero assolvere con formula piena.
Nato sotto l’Aquila Asburgica
Era nato a Trieste nel 1912, al tempo dell’Imperatore Francesco Giuseppe, ma il cognome italiano, non appartenente alla comunità triestina, rivelava origini romagnole.
Fagnocchi Leone, fu Antonio e fu Santini Lucia, quando Trieste passò sotto il controllo
nazista, abitava a Faenza. Siamo nel 1944, a settembre. Faenza si era spopolata per paura dei
bombardamenti. Anche molti militi della GNR erano sfollati nelle campagne e nelle colline
circostanti. Uno di questi, Alvaro Casemurate, si era sistemato in parrocchia di Scaldino. Il
18 settembre ricevette una visita per nulla gradita: cinque individui (forse partigiani) lo
costrinsero a consegnare una bomba a mano. Alvaro pensò di averne riconosciuto uno, tale
Placci Vincenzo, e l’indomani, accompagnato da due militi, tra cui il Fagnocchi, alle 9 del
mattino si recò nella casa colonica della famiglia Placci. il capo famiglia, Giovanni, di anni 66,
che si trovava in mezzo all’aia, andò incontro al più alto in grado, il Fagnocchi appunto.
Forse esplose una zuffa tra il Casemurate e il vecchio, fatto sta che il Fagnocchi, fatti due
passi indietro fece fuoco contro Giovanni Placci. Il figlio Vincenzo, con un fratello, si diede
alla fuga, ma fu raggiunto da un colpo di mitra che lo ferì gravemente. Il Fagnocchi, allora,
si avvicinò per verificare lo stato del giovane, di anni 23, e, visto che ancora respirava, lo finì
col calcio del mitra. Questa la versione della Questura in data 27 giugno 1945.
Quattro giorni prima i Carabinieri di Granarolo avevano spedito un altro rapporto sull’episodio, più dettagliato, in parte diverso. In esso si diceva che Vincenzo Placci era stato catturato dai militi, condotto sull’argine di un canale poco distante (il Naviglio?) e finito a colpi di
mitra, di pistola e di pugnale. Dopo di che il Fagnocchi avrebbe voluto gettare il corpo in
acqua, ma fu trattenuto dagli altri presenti (militi e parenti) e di mala voglia acconsenti che
i due cadaveri fossero condotti al cimitero di Scaldino, dove oggi un cippo li ricorda.
La giornata non era ancora conclusa. Dopo qualche ora fascisti repubblichini, agli ordini
del Fagnocchi, e una trentina di tedeschi ritornarono sul luogo del duplice omicidio ed
asportarono generi alimentari, oggetti di vestiario, vino e bestiame. Bottino poi spartito
assieme ai nazisti. Dopo una settimana, altra visita, senza la compagnia teutonica. Tanta benzina e la casa dei Placci andò distrutta.
Al processo si presentarono diversi testimoni a raccontare l’accaduto (Placci Achille e
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Sante, due Placci Domenico, Bellini Primo, Foschini Domenico, Samorè Aldo, Soldati Celso,
Melico (?) Pietro). Unanime il coro, tranne che per un aspetto, la fine di Vincenzo, avvenuta per qualcuno con un ordigno, all’apparenza una bomba tedesca, sbattuto sul capo del
moribondo, sempre per mano del Fagnocchi. In successivi rapporti dei Carabinieri e della
Polizia si elencavano altri crimini.
Cattura in data 2 settembre, in parrocchia Formellino di Faenza, di Alessandrini Luigi (studente), Caroli Giovanni (lattivendolo), Banzola Giuliano (Stefano in altre carte, maniscalco),
Fiumi Ferruccio, Tampieri Primo (colono), Linguerri Antonio (colono), Linguerri Angelo (fratello, colono), Mazzara Dionisio e Buffardeci Giuseppe. I nove furono consegnati ai tedeschi.
Il padre di Alessandrini, Ugo, cercò in ogni modo di sottrarre Luigi alla cattura, invocando l’assoluta innocenza e la giovane età (poco più di 18 anni). Ebbe qualche promessa. Poco
dopo, al Ponte Felisio, vide il figlio appeso ad un palo per i piedi, con la testa all’ingiù, mezza
scoperchiata da colpi di mitra. Stessa sorte per gli altri otto: rappresaglia per la morte di un
tedesco.
Il Fagnocchi era altresì imputato di avere partecipato ai rastrellamenti di Pergola, Pideura
e Tebano (saccheggio ed incendio delle abitazioni di Casadio Carlo e di Cavina Francesco),
di avere catturato a Rivalta Casalini, Sangiorgi, Savini, Nanni e Verità (poi fucilati), di avere
preso parte ai rastrellamenti di Montefortino, Terra del Sole e Pietramora (100 individui consegnati ai tedeschi, deportati in Germania). Numerose le altre imputazioni di saccheggi,
arresti e violenze, contro uomini e donne, giovani e vecchi, renitenti e no. Tra le catture,
quella di Emiliani Marx (detto Max), autista, condannato a morte dopo processo sommario
e fucilato a Bologna il 30 dicembre del 1943, Medaglia d’Argento al Valore Militare.
L’imputato volle precisare di essersi iscritto alla Brigata Nera solo il 26 settembre 1944, al
momento del ripiegamento al nord (ma molti crimini erano stati commessi in divisa della
GNR), di essersi recato alla casa Placci, a seguito del sospetto del Casemurate, dove era stato
aggredito da due dei Placci e di avere sparato per legittima difesa. Aggiunse di essere del
tutto estraneo agli altri episodi addebitatigli, specie per quelli accaduti in ottobre, quando
egli aveva già lasciato Faenza.
Al processo la difesa deve avere insistito molto su questo, chiedendo un rinvio del dibattimento per accertamenti, tanto da indurre in errore persino l’estensore della sentenza, che
collocò il massacro dei Placci al 19 ottobre (19 settembre in verità).
Per la Corte ( Vicchi, Lallo, Bartoletti, Morigi, Castelvetro, Minghelli, Masetti), in data 25
giugno 1946, nessuna attenuante doveva essere concessa al Fagnocchi, per l’efferatezza e il
fanatismo dimostrati nella sua triste attività.
Condanna alla fucilazione alla schiena e pubblicazione su “Il Giornale dell’Emilia” di
Bologna e su “La Voce Repubblicana di Ravenna”.
La Cassazione, puntualmente, 4 giorni dopo l’annullamento della sentenza di morte contro Raffaeli Natale, il 10 febbraio del 1947 provvederà ad annullare quella contro Fagnocchi
Leone e analogamente a rinviare alla Corte di Assise di Ancona.
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Giovane, ma abile
Dante Terzi era nato a Riccione nel febbraio del 1926, da Raffaele e da Rossi Maria, poi
aveva seguito la famiglia a Bologna, in via S. Felice 157. In seguito ai pesanti bombardamenti
della città, il diciottenne, non si sa se da solo o con i genitori, ritornò in Romagna e si sistemò, da sfollato, in collina, a Riolo Bagni. Sfollato o là inviato per adempiere a delicati servigi?
Non è dato capirlo, ma è certo che il Terzi a Riolo aderì alla Brigata Nera. Sotto copertura
però. Verso l’esterno, invece, si finse, con cautela, simpatizzante del movimento partigiano.
Ciò gli consenti di introdursi nella famiglia di Alfredo Cavina, di anni 41, muratore. Il giovane, già smaliziato, non chiese nulla al padrone di casa, ma cominciò a prestare molte attenzioni alla figlia Maddalena, forse a corteggiarla. L’astuzia ben presto diede i suoi frutti e saltò
fuori che il Cavina era inserito in un’organizzazione partigiana, che faceva capo al dott. Molina
di Riolo, il quale in apparenza seguiva solo la propria attività professionale.
Il 12 giugno del 1944 scattò la trappola. La casa del Cavina fu circondata da militari tedeschi e da brigatisti, presente il Terzi. Furono catturati tutti i presenti, compresa la giovane ed
ingenua Maddalena. In rapida successione furono catturati Caroli Francesco, Marchi Enrico
e Masini Giulio. Devastante l’irruzione in casa Molina: saccheggi ed arresto del dottore, della
moglie e di due bambini. Il Cavina padre e il Molina subirono interrogatori pesanti ed infine furono uccisi (luogo e data non precisati). Caroli e Masini finirono in campo di concentramento, il Marchi e la Maddalena deportati in Germania. Nel frattempo si susseguirono i
saccheggi in casa Molina. Pur scoperto come doppiogiochista e delatore, il Terzi insistette
nella sua attività investigativa, talora al servizio della Brigata Nera, più spesso dei tedeschi.
In tale veste, con il brigatista Giovanni Ragazzini, condusse soldati germanici, comandati da
un Capitano, alla casa dei Mazzanti di Riolo, una famiglia di fornai, sospettata di nascondere
armi.
Era il 28 agosto del 1944. Non si sa cosa i militi abbiano trovato, di sicuro non Ivo, giovane di 24 anni, combattente sulle montagne imolesi. L’ufficiale avrebbe voluto arrestare solo
la padrona di casa, Rosa Tacconi, di anni 54, ma dopo gli incitamenti del Terzi, “è una famiglia da eliminare perché tutta comunista, il padre è stato sempre comunista… hanno un
figlio partigiano… fanno propaganda contro i nazifascisti”, furono prelevati anche il figlio
Medardo (poi fuggito), la figlia Giuseppina, la nuora Natalia Zanotti, i fratelli Zanotti Romeo
e Giovanni ed altri congiunti della Tacconi. I tre Zanotti furono deportati in Germania. La
Rosa fu fucilata il 5 settembre all’Aeroporto di Forlì (un colpo di pistola alla nuca da parte di
un tedesco e gettata nella buca di una bomba). Stessa sorte quel giorno per altre dodici
donne, per ex militari dell’Esercito regio, per partigiani, per molti ostaggi, 10 uomini di
Piangipane di Ravenna, e per molti ebrei, giunti a Forlì in fuga dai Paesi dell’Europa centrale. Un’orribile strage, con i militi della GRN in funzione di sorveglianza e di protezione alla
carneficina. All’Aeroporto, dopo la liberazione di Forlì, per ben 10 mesi furono rinvenuti
corpi di individui trucidati, per un totale di 51. Il Terzi, sempre più determinato, continuò a
perseguitare i Mazzanti, le sorelle Giuseppina e Giovanna, a perquisirne l’abitazione, asportandone benzina, candele, sigarette. Voleva il padre (Angelino?), che però era ricoverato
presso l’ospedale S. Orsola di Bologna. Il Terzi vi fece anche una puntata, ma il ricoverato
aveva preso il largo. Mazzanti Ivo, Comandante della 36a Brigata partigiana “Bianconcini”,
morirà da eroe il 12 ottobre 1944 a Purocelo, Medaglia d’Argento al Valore Militare.
Il Terzi si trasformò poi in uomo d’azione, ma non scordò la vocazione investigativa e le
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perquisizioni. Catturò e perseguitò uomini e donne, con una certa preferenza per queste
ultime, quasi una specificità. Arrestò Ancilla e Cecilia Cavina, partecipò alla cattura di Ivonne
Pasini, con violenze e minacce, analogamente contro Bruna Pasini, fatta oggetto da colpi di
arma da fuoco da lui sparati. Sparò colpi anche contro Cavina Nicola e Casadio Giuseppe
(poi catturato), saccheggiò la casa di Francesco Cavina, rubò una macchina ad Alberto
Minerbi, una radio a Antonio Ronchi, ecc.
Un vero incubo per i Cavina! Al processo il giovane e scaltro Terzi ammise solo l’appartenenza alla Brigata Nera e la cattura di Nicola Cavina e Giuseppe Casadio, responsabili di
avere disarmato un ufficiale della repubblichina. Le tentò tutte, da abile delatore, come quella di ricordare i suoi interventi a favore di patrioti e partigiani, del resto in armonia con gli
attuali sentimenti politici, nettamente antifascisti. Se al momento dei fatti non fosse stato
incensurato (ovvio) e non avesse avuto poco più di 18 anni, il Terzi si sarebbe beccato la condanna a morte, come si scrive in sentenza. La Corte (in data 19 giugno 1946, a tre giorni dal
Decreto di amnistia), condannò il Terzi, detenuto dal 21 gennaio 1946, a 30 anni di reclusione, a 4 di libertà vigilata, alla confisca dei beni.
La Cassazione, nella sua monotonia, il 30 maggio del 1947 annullerà e rinvierà alla Corte
di Assise di Bologna, a pochi passi da via S. Felice.
“Ombra”
Con tre nomi luminosi, Dante, Cesare, Telesforo, un certo Vacchi di Conselice scelse per
sé il nome di battaglia “Ombra”. Un nome in codice, comune al suo reparto specializzato in
sabotaggi contro gli alleati e in operazioni di Polizia segreta contro i patrioti. Anche se di giovane età, appena diciannovenne, il Vacchi era a capo della “Banda delle Ombre”, alle dirette dipendenze del Comando generale germanico. Per un certo verso ricorda la figura di un
altro Dante, il Terzi di cui sopra. Furono in migliaia gli italiani che combatterono contro il
movimento partigiano, in divisa o in borghese, inquadrati nelle SS o nella Gestapo, senza
obbligo alcuno nei confronti delle autorità politiche o militari di Salò. In genere, a guerra
finita, essi furono più fortunati dei camerati delle Brigate Nere o della Guardia Nazionale
Repubblicana. Non identificabili, spariti nel nulla.
Il Vacchi, per puro accidente, si ritrovò detenuto (6 gennaio del 1946) e alla sbarra, in
data 26 giugno dello stesso anno. Era successo che i Carabinieri di Cotignola nel 1944, esattamente il 2 marzo, quando il fronte era ancora lontanissimo, a sud di Roma, avevano steso
un rapporto su un episodio apparentemente banale. Stesso giorno, ore 17, 30. Strada
Bagnacavallo-Faenza, lungo il Canale Naviglio, all’altezza dell’incrocio che porta a Cotignola
e a Granarolo Faentino. Due donne procedevano in bicicletta verso la loro residenza, a
Granarolo. I loro nomi: Ida Tazzari in Bandini e Adelaide Timoncini. In senso inverso proveniva un’automobile. Poco distante un barroccio con due uomini. Uno di questi, in abito civile, scese ed intimò l’alt alla vettura, che non si fermò. Paura di una rapina? Uno sparo inseguì l’auto, inutilmente. A terra l’Ida colpita alla coscia destra. Casualmente, proprio in quel
momento, transitava una camicia nera della Milizia Ferroviaria di Faenza, Walter Montanari,
che si fece aiutare da due individui. L’Ida fu trasportata al vicino ospedale “Testi” di
Cotignola, dove fu giudicata guaribile in 90 giorni, salvo complicazioni.
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Ligio al dovere il Montanari chiese spiegazione ai due del barroccio, che confermarono
la versione di cui sopra. Ferimento involontario. I due mostrarono anche i documenti, scritti in tedesco e in italiano (come sempre), da cui risultavano le loro generalità, la dipendenza dal Comando generale tedesco e la disposizione tassativa per le autorità italico-fasciste di
non intralciarli e aiutarli in caso di bisogno. Il fare, però, era sospetto e gli attestati potevano essere falsi, opera dei partigiani. Di qui la decisione del Montanari: “Seguitemi al
Comando tedesco di Cotignola”. Fu necessario l’interprete, perché l’ufficiale interrogante
non conosceva una parola d’italiano, né i due barrocciai una parola di tedesco. Stranamente,
poiché sul luogo del sinistro i due misteriosi personaggi avevano conversato proprio in
tedesco. Il confronto si chiuse dopo una telefonata al Comando germanico di Lugo, che
garantì sull’identità dei due.
Uno era il Vacchi Dante, Cesare, Telesforo, l’altro Roberto Ermanni di Correggio.
Finita la guerra, entrambi avevano fatto perdere le loro tracce. Soltanto nel giorno
dell’Epifania del 1946 il primo fu rintracciato a S. Margherita Ligure. Del secondo, nonostante le accurate indagini, dubbia persino l’identità (un nome falso?). Da successivi rapporti fu
meglio precisata la figura del Vacchi, contro il quale piovvero altre accuse in relazione alla
sua attività nel comune di Riolo Bagni (quello del Terzi), dove con il nomignolo di “Ombra”
si era reso responsabile di arbitrarie requisizioni, di saccheggi e di violenze, in collaborazione con la Brigata Nera. Tutti fatti riferiti al mese di settembre del 1944. Il 3 settembre, cattura e violenze su Zanotti Pietro, trattenuto in prigione per 20 giorni, padre dei tre fratelli (due
maschi e una femmina) arrestati dal Terzi e spediti in Germania. Il 21, maltrattamenti e percosse ad Alma Zanotti (altra figlia, fuggita in località “Serodina”), accompagnati dall’incendio
della casa e dall’asportazione di tutto il bestiame, da stalla e da cortile. Stesso giorno e stesse malefatte contro il colono Matteo Coralli e Andrea Dalmonte. Verso la fine del mese, in
unione con Raffaeli Raffaele, irruzione nella casa di Angelina Vacchi, alla quale sparì una partita di stoffe del valore di 400.000 lire.
Vittime, paesani e camerati lo conoscevano tutti per “Ombra”.
Ma quali gesta aveva compiuto “Ombra” dal marzo al settembre del 1944 e quali dall’ottobre del 1944 all’aprile del 1945? Di certo, per sua stessa ammissione, il Vacchi si era distinto nella Campagna d’Italia, ottenendo numerose onorificenze, in un reparto di sabotatori,
alle dipendenze del Comando Germanico: la “Compagnia delle Ombre” o la “Banda delle
Ombre”, come definita dagli alleati. Il Nostro, se fosse stato catturato durante il conflitto,
sarebbe stato sicuramente fucilato dagli anglo-americani. Ora, a Ravenna, in data 26 giugno
1946, doveva rispondere di collaborazionismo con l’invasore tedesco. Il dibattimento, curiosamente, tralasciò l’attività di sabotatore (chiara prova di collaborazionismo militare), sfiorò
appena le violenze del mese di settembre in Riolo Bagni e si incentrò sull’episodio minore,
il ferimento della donna in bicicletta, rimasta claudicante. Poco male, perché ciò consente
di apprezzare la fantasia dell’imputato. Si trovava in missione segreta tra Cotignola e
Granarolo, con un milite ed un tedesco. Alt! Dalla macchina partì una raffica di mitra che
fece stramazzare a terra i suoi compagni. In quel momento giunsero di corsa altri due militi, uno dei quali, capita al volo la situazione, sparò con la pistola contro la macchina, ferendo la donna. Poi, giunse una terza persona (il Montanari). Per il resto, confermò l’avvenuto
chiarimento con l’ufficiale tedesco di Cotignola. Sennonché, i tre testi oculari (le due donne
e il Montanari, della Milizia ferroviaria) non avevano visto i due militari al suolo, falciati, e
non avevano visto sopraggiungere altri due fascisti.
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A sparare era stato uno dei due finti barrocciai, il Vacchi, più lesto del fantomatico Ermanni.
Nonostante il rilievo dato alla vicenda, a motivare la sentenza furono gli altri addebiti.
L’amnistia non poteva essere concessa, in quanto in alcuni fatti era chiaramente ravvisabile lo scopo di lucro, l’attenuante della giovane età sì. Vacchi Dante, Cesare, Telesforo, di
Giuseppe e di Gentilini Anita, nato nel 1825 a Conselice, ivi residente, fu condannato a 20
anni, ridotti a 15, poiché appena diciottenne al momento dei crimini.
Inoltre, a tre anni di libertà vigilata e alla confisca di un quarto dei beni.
La Cassazione, nell’aprile del 1947, rigettò il ricorso e condonò cinque anni. Nuovo beneficio di un anno nel 1950 da parte della Corte di Appello. Nel luglio del 1966 il Tribunale di
Ravenna dichiarerà estinto il reato per effetto della nuova amnistia, concessa nel giugno
dello stesso anno. Si noti “estinto il reato”. La pena, se i calcoli non ingannano, doveva essersi già conclusa nel 1955.
Un vero autista e non solo
Tra tanti imputati che nel dopoguerra si finsero autisti o meccanici, Mariani Enrico Luigi
proprio con tale professione veniva indicato nella carta d’identità. Era nato a Cologno
Monzese (in data dimenticata nella penna) e risiedeva a Ravenna. Un ritorno alla terra degli
avi, come il cognome chiaramente indicava. Il padre Achille e la madre Argenta Picozzi erano
già morti al momento dell’arresto (in data non precisata). Quel che è certo è che il Mariani
si era iscritto al Partito Fascista Repubblicano fin da subito ed era stato assunto dalla
Federazione in qualità di autista. Per viaggi normali e per spedizioni punitive. Poi, era passato alla Xa MAS. Dopo il febbraio 1944 si perdono le notizie sul suo operato.
A Ravenna aveva portato in giro il Federale Negri, il Cattiveria e il Babini Giovanni,
Comandante della Polizia federale. Con quest’ultimo spesso per prelevare merci, talora per
catturare oppositori.
Il 28 novembre del 1943 un’auto si fermò davanti alla casa di Luigi Mazzotti, abitante in
Bagnacavallo. Tre individui, tra cui il Mariani, bussarono, qualificandosi agenti della Polizia
federale. Il padrone di casa e la domestica finirono in carcere a Ravenna, accompagnati dal
Mariani. In loro assenza e per tutta la notte si procedette allo spoglio della dimora, del negozio e del magazzino. Alcuni militi (forse), il centurione Ferretti e il Mariani si divisero il malloppo. Un discreto bottino: sette fucili da caccia, duecento copertoni di automobile, due
automobili, sette motociclette, migliaia di cartucce, due orologi d’oro, il denaro nel cassetto del negozio, trenta chili di olio lubrificante, altri materiali e vari oggetti.
Il 13 febbraio 1944, sempre col buio, 15 della Brigata Nera di Ravenna, presente il Mariani,
fecero visita a certo Ghetti Federico, residente a Torri di Mezzano. Motivazione: ricerca di
armi. Una scusa? Ricerca comunque infruttuosa. Il Ghetti fu fermato e dalla casa sparirono
diciotto bottiglie di vari liquori, un prosciutto, tre formaggi, una radio e altri oggetti, nonché
la somma di lire 40.000 lire. Il denaro, dopo qualche giorno, per le proteste del legittimo
proprietario, fu restituito. Analoghe losche procedure, in data non precisata, nell’abitazione
di tale Silvagni, in Fosso Ghiaia. Altro episodio del febbraio. Tra gli avvocati più in vista della
città c’era Mario Brocchi, un personaggio brillante e mondano, residente in via Alberoni,
quasi di fronte alla Caserma Italo Balbo. Il Brocchi non si faceva mancare nulla e la sua auto
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non era seconda a nessuna.
A febbraio capitò che il camerata Agostino Gemona si dovesse allontanare da Ravenna.
Questi, poco amante dei mezzi pubblici, si rivolse al Mariani che in breve risolse il problema, consigliandogli la requisizione della vettura dell’avvocato. E così avvenne.
Ritorniamo al 1943. Già si è narrata la triste storia dei cinque prigionieri slavi, evasi dopo l’armistizio dal campo di concentramento di Arezzo. Giunti al Reno, al Passo di Mandriole, diretti a
Porto Garibaldi, i fuggiaschi si misero a cercare un natante per raggiungere la costa dalmata. Ma
un confidente in loco della Polizia fascista, tale Renato Ambrosini, informò la Federazione repubblichina. Il Mariani trasportò i capi da Ravenna, il federale Negri e Leonida Bedeschi, detto
Cattiveria, e, al ritorno, gli slavi ammanettati, dal destino sicuramente tragico.
Il Mariani, a norma di legge, avrebbe meritato 10 anni di reclusione, ma, poiché minimo
era stato il suo ruolo nell’ideazione e nell’esecuzione dei crimini, la pena fu ridotta a sei anni
e mesi otto, con l’aggiunta della confisca di un terzo dei beni. Vano risultò il tentativo della
difesa di ottenere l’amnistia, ostando, nei delitti compiuti, lo scopo di lucro. Nessun ricorso
agli atti.
Comandante, Questore, Capo Provincia: Guido Guidi
In Romagna, il cognome Guidi genera suggestioni che vengono dalla storia e dalla poesia. Famiglia di feudatari dal XIII secolo, cantata dal Pascoli, impostasi nella Romagna toscana, a Bagno, Dovadola, Modigliana. Una razza padrona, presente anche durante il secondo
conflitto mondiale, il cui ramo nobile viveva in un ricco castello a Cusercoli, sul fiume
Bidente, non troppo distante da Predappio. Maniero devastato nel luglio del 1942 da soldati di stanza in paese (notare la data).
In provincia di Forlì esistevano anche i rami “ignobili”, i Guidi senza insegne da sempre.
Rachele Guidi in Mussolini apparteneva ad una di queste, anche se da tempo alloggiava, in
proprietà, in una Rocca, quella delle Caminate, passata alla storia perché lì si decise di fatto
la nascita della Repubblica di Salò, e passata nelle nostre vicende giudiziarie perché trasformata dalle Brigate Nere in carcere e luogo di torture. Di altri Guidi si potrebbe parlare, di
un Domenico, scappato dalla Caserma Caterina Sforza di Forlì (nel marzo del 1944), per non
fare il sodato e morto annegato nel Montone. Di un Guido Guidi, omonimo del nostro, antifascista, liberato con altri dal Carcere di Forlì il 23 dicembre del 1943, per intervento del
Vescovo, si disse.
E di Guido Guidi, fu Edoardo e di Baroncelli Domenica, nato a Ravenna ed ivi residente,
classe 1894? Un ravennate di nascita, di formazione, di parentele. Nulla si sa del padre e nulla
della sua vita prima del 1925. Trent’anni ignoti, segnati dalla grande guerra e dalla nascita del
fascismo, dagli studi, da eventuale matrimonio e dalla professione. Nulla si sa, tranne che i
Guidi di Ravenna non vivevano di rendita. In quel 1925 Guido si iscrisse al Partito Nazionale
Fascista e nel 1927 si arruolò nella Milizia Volontaria divenendovi ufficiale in servizio permanente effettivo. Uomo di capacità, portato per il comando, svolse importanti incarichi
all’estero, in Africa settentrionale, in Africa orientale e in Albania. Nel 1943 si trovava vicino
a casa, a Imola, Comandante della “68a Legione” della Milizia.
Dopo l’8 settembre fu incaricato di gestire anche il Comando della “75a Legione” della
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Guardia Nazionale Repubblicana di Ferrara. Era a Ferrara, il Guidi, quando fu decisa la fucilazione di cittadini innocenti lungo il muro del Castello, come rappresaglia per l’uccisione
del federale Igino Ghisellini. Caddero, tra gli altri, il senatore Arlotti e il sostituto procuratore Colagrande. Quali autorità presero la decisione? Quale ruolo ebbe il Guidi? Quel che è
indubitabile è che le vittime predestinate furono riunite in attesa dell’eccidio nel cortile
della caserma della GNR da lui diretta. A Ferrara il Guidi rimase fino al 31 gennaio del 1944.
In febbraio fu a Ravenna, Comandante della “81a Legione” della Guardia Nazionale, per soli
15 giorni, poiché, essendo nativo di Ravenna, si ritenne opportuno destinarlo ad altra sede,
nientemeno che a Padova. Località che non raggiunse, poiché si mise in convalescenza.
Un riposo lungo, accanto ai famigliari e nella sua città, durato circa tre mesi.
Di fatto non si allontanò da Ravenna. Nel luglio del 1944 si prestò a dare consigli tecnici,
militari, organizzativi ed amministrativi alle Brigate Nere, sollecitato dal Capo Provincia
(Grazioli) e dal Federale (Montanari). Le lezioni si tenevano presso la Federazione di Piazza
Muti. Sempre in ruoli di massima responsabilità, come si conveniva ad un ufficiale superiore. Compiti politici, militari ed investigativi. Come se non bastasse, il Guidi, alla partenza del
Grazioli verso Torino, ricevette l’incarico, ad interim, di Capo Provincia.
Mai nessuno in Ravenna ebbe tanto potere, almeno nell’età moderna.
Il 30 settembre 1944, il Guidi, Prefetto Reggente e Questore, ordinò di anticipare lire tre
milioni a vantaggio della Brigata Nera, nonostante il parere contrario del ragioniere capo
della Prefettura, Francesco Cappuccio. Soldi che andarono ad aggiungersi ai 4 milioni e
mezzo, prelevati a forza da Andreani presso la Banca d’Italia. Da Questore, pochi giorni
prima, aveva minacciato gli agenti di Pubblica Sicurezza che non volevano partire per il nord
al seguito della Brigata Nera, e aveva fatto sequestrare tutte le armi del deposito, anche quelle in dotazione ai singoli poliziotti, per passarle al Comando della Guardia Nazionale e alle
Brigate Nere (testimonianza di Mario Primanti e conferma nelle carte recuperate).
Nei vari incarichi, egli ebbe sempre alle dipendenze un Ufficio Politico Investigativo,
impegnato unicamente e con ogni mezzo a scoprire e ad arrestare gli oppositori. Quello
della Guardia Nazionale, quello della Questura, quello della Brigata Nera, da lui addestrata.
Si poteva sostenere che ogni ufficio godesse di una propria autonomia? Neppure in teoria,
e, nel caso in questione, risultò che i rapporti informativi, spediti ogni 15 o 30 giorni al
Comando superiore di Bologna, non solo portavano la sua firma, ma erano frutto della sua
penna, come da minute trovate presso la sua abitazione di Ravenna. Non è chiaro chi gli
pagasse gli stipendi e neppure se il Guidi cumulasse più retribuzioni. Risulta con certezza
che egli rimase a disposizione del Comando Generale della Guardia Nazionale, con sede a
Brescia, che egli raggiunse nel dicembre del 1944, proveniente dalla Questura di Ravenna,
dove era rimasto, con l’unica funzione di Questore, alle dipendenze del nuovo Capo
Provincia, Alberto Zaccherini, un romagnolo di Casola Valsenio, un coetaneo. Entrambi,
dopo la liberazione di Ravenna, andranno in Piemonte, lo Zaccherini a dirigere la Prefettura
di Novara e il Guidi a gestire il Comando della Legione operante ad Alessandria, fino alla
sconfitta. Dopo di che si nascose a Bologna, dove fu individuato dal CLN il 1° maggio 1945
e consegnato all’Ufficio Politico di quella Questura.
Con un simile curriculum domandarsi se l’imputato avesse collaborato militarmente e
politicamente con il tedesco i