(De)-nazionalizzazione del voto e mutamento del sistema partitico

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(De)-nazionalizzazione del voto e mutamento del sistema partitico
XXVI Convegno SISP 2012
Panel 9.3 Elezioni, territorio e de-nazionalizzazione del voto
Alessandro Chiaramonte (Università di Firenze) e Vincenzo Emanuele (SUM)
(De)-nazionalizzazione del voto
e mutamento del sistema partitico italiano
[versione provvisoria: si prega di non citare senza il permesso degli autori]
Abstract
La nazionalizzazione della politica è un fenomeno di lungo periodo che concerne l’evoluzione storica
verso la formazione di elettorati e sistemi di partito nazionali avvenuta successivamente alla
realizzazione di tre grandi processi storici, quali la formazione dello stato, la costruzione della nazione e
lo sviluppo della politica di massa e realizzatasi tramite la progressiva riduzione della territorialità dei
cleavages politici [Caramani 2004]. Nel corso dell’ultimo cinquantennio una vasta letteratura si è
confrontata con il tema della nazionalizzazione, proponendo di volta in volta concettualizzazioni
differenti e, di conseguenza, diversi indicatori per misurarla empiricamente (dai safe seats di Cornford
[1970] al più robusto standardised Party Nationalization Score di Bochsler [2010]).
Nonostante la rilevanza dell’argomento e la fecondità del dibattito sviluppatosi a livello internazionale
negli ultimi anni, non è mai progredita, al di là di qualche contributo isolato [Pavsic 1985; Diamanti
2009], una seria riflessione sul caso italiano. Nel corso degli ultimi vent’anni il sistema partitico del
nostro paese è stato attraversato da profondi mutamenti, passando dalla lunga stagione del pluralismo
estremo e polarizzato [Sartori 1976], caratterizzata da una durevole stabilità della distribuzione
territoriale del voto, alla sperimentazione del bipolarismo frammentato della Seconda Repubblica, in cui
si è assistito alla nascita continua di nuovi soggetti politici e ad un vertiginoso aumento dei livelli di
frammentazione e volatilità, fino alla nuova svolta quasi-bipartitica delle elezioni del 2008. Quale è stata,
in questo quadro di mutamento, l’evoluzione del processo di nazionalizzazione del voto in Italia? Vi è
stata una progressiva convergenza nel consenso elettorale ai partiti politici fra le unità territoriali del
paese, in continuità con quanto osservato nel resto dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra
Mondiale? O, viceversa, abbiamo assistito allo sviluppo di un processo inverso, di crescente
territorializzazione del voto?
Dopo aver esaminato la principale letteratura sull’argomento e aver passato in rassegna i vari indicatori
proposti per misurare empiricamente il fenomeno, questo lavoro si pone l’obiettivo di analizzare il
processo di (de)-nazionalizzazione del voto in Italia e spiegarne l’evoluzione tra Prima e Seconda
Repubblica valutando l’impatto dei possibili fattori determinanti, da quelli istituzionali (sistema
elettorale, decentramento istituzionale, integrazione europea) a quelli legati alla struttura della
competizione (volatilità, frammentazione, accesso all’arena elettorale di nuovi attori partitici).
1
1.
La nazionalizzazione del voto: significati e indicatori
L’origine del termine “nazionalizzazione della politica” va ricercata nell’importante lavoro di
Schattschneider [1960]. Lo studioso americano, descrivendo il sistema politico statunitense, in cui per
oltre 30 anni (tra il 1896 e il 1932) la vita politica nazionale era stata dominata dal Partito Repubblicano,
osservava come il sostegno elettorale dei due maggiori partiti politici fosse stato caratterizzato da una
marcata concentrazione territoriale, con i democratici dominanti negli stati del Sud ma incapaci di
competere con i repubblicani nel resto del paese, tanto che nel 1896 solo in 6 stati vi erano condizioni
tali da creare una certa indeterminatezza del risultato, mentre in tutti gli altri la supremazia dell’uno o
dell’altro partito non concedeva spazi competitivi. Questa situazione mutò completamente nel 1932,
quando l’alto grado di territorialità dell’elettorato americano si dissipò, per via del fatto che da quel
momento in poi la politica fu dominata da fattori nazionali e non più locali: la Grande depressione e il
New Deal prima, la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda poi, spostarono l’attenzione degli
elettori verso questioni nazionali, determinando così una comunanza di interessi in tutte le aree del
paese. Ciò portò alla scomparsa dei one-party states, ovvero stati in cui la supremazia di un partito è
incontestata. Per Schattschneider quindi, la nazionalizzazione della politica consiste nel passaggio dal
dominio dei fattori locali (sectional politics nella terminologia dell’autore) alla supremazia di quelli
nazionali e ciò si traduce in un’accresciuta competitività delle elezioni, con i principali partiti che si
contendono la vittoria in ogni stato. Da questa prima concettualizzazione del fenomeno discende
l’utilizzo di alcuni indicatori elementari di competitività, intesa come “contestabilità” delle elezioni
[Cornford 1970; Rose e Urwin 1975, 19; Urwin 1982, 41]. Un approccio diverso è quello di misurare la
copertura territoriale dei partiti [Caramani 2004, 61], cioè la percentuale di unità territoriali in cui un
partito è presente sul totale di unità in cui è suddiviso il paese. Partendo dal concetto di
nazionalizzazione come omogeneità dell’offerta partitica fra le aree del paese, Lago e Montero [2009,
13; 2011, 16] elaborano un indice leggermente più complesso, la local entrant measure (E1). Essa oscilla tra
0 (ogni partito presenta candidati in un solo collegio/circoscrizione) e 1 (tutti i partiti presentano
candidati in tutti i collegi/circoscrizioni). L’indice assegna un peso diverso a seconda della grandezza
del partito (in termini di voti ricevuti) a livello locale come proporzione del totale nazionale e della
grandezza delle diverse unità territoriali (in termini di seggi assegnati) come proporzione del totale dei
seggi nazionali.
Né il grado di contestabilità delle elezioni, né il grado di copertura territoriale, né la local entrant
measure hanno però a che fare con il livello di omogeneità del consenso ai partiti politici tra le aree del
paese. Tutti i seggi in palio potrebbero essere formalmente contesi da almeno due partiti, e tutti i partiti
n
1
E   vi * si .
i 1
2
potrebbero avere una copertura territoriale del 100%, senza per questo avere un consenso omogeneo
fra le unità territoriali del paese. Ragionando in termini economici potremmo definirle misure della
nazionalizzazione dell’offerta, mentre a noi interessa la nazionalizzazione dell’outcome, dell’esito
dell’incontro tra domanda e offerta, cioè il voto.
Tra le misure che si focalizzano in modo specifico sulla nazionalizzazione del voto, essendo
questa, come ricorda Caramani [2004, 42] un indicatore parsimonioso della nazionalizzazione della
politica, dobbiamo distinguere tra quelle che studiano la singola elezione e quelle che si basano sul
confronto tra due elezioni contigue. Alla base di queste ultime vi è infatti un diverso modo di
interpretare il significato del termine “nazionalizzazione”. Donald Stokes [1965; 1967] è il principale
interprete di questo filone. Come Schattschneider, vede il fenomeno come progressivo aumento
dell’importanza delle issues nazionali e testa empiricamente le sue ipotesi
analizzando i tassi di
partecipazione e le scelte di voto in USA e Gran Bretagna. Egli introduce però un’ulteriore dimensione
del concetto di nazionalizzazione, cioè la corrispondenza del cambiamento (nei livelli di turnout o di
consenso a un partito) da un’elezione alla successiva tra il livello nazionale e le varie circoscrizioni locali.
Così, tanto più alto il numero di unità territoriali che mostrano una tendenza opposta a quella nazionale
(un partito perde voti a livello nazionale ma cresce in molte circoscrizioni locali, o viceversa), tanto più
basso il livello di nazionalizzazione. Come preciseranno successivamente Claggett, Flanigan e Zingale
[1984], si tratta di misurare la risposta degli elettori agli stimoli provenienti dal sistema partitico
nazionale2. Tale risposta (operazionalizzata tramite lo swing tra due successive elezioni) può essere
uniforme o meno. Avremo una perfetta nazionalizzazione nel caso in cui, ad esempio, un partito che
cresce a livello nazionale di 3 punti rispetto alla precedente tornata elettorale, cresce di tale misura
anche in tutte le unità territoriali che compongono il paese. Interpretando la nazionalizzazione sempre
in ottica di confronto tra due elezioni successive anche Rita Pavsic [1985], in uno dei pochissimi
contributi sull’argomento che hanno preso in esame il sistema partitico italiano, mette in dubbio la
tendenza all’omogeneizzazione territoriale dei partiti italiani misurando la correlazione del voto ai
singoli partiti nell’elezione al tempo t e in quella al tempo t+1 su dati a livello provinciale. Interpretando
la nazionalizzazione nel senso dato da Stokes e dalla Pavsic essa diventa sinonimo di uniformità o
unidirezionalità del cambiamento e del suo ammontare tra due elezioni, del tutto indipendente dai livelli
di sostegno ricevuti da un partito tra le varie unità territoriali del paese.
Gli stimoli però potrebbero provenire anche dal livello locale, dando così origine a quattro possibili situazioni descritte
nella tipologia costruita da Claggett, Flanigan e Zingale [1984]. In particolare, incrociando il livello delle forze politiche
(nazionale o locale) con il tipo di risposta degli elettori (uniforme o difforme), vi sono due casi di difficile interpretazione: il
caso di “coincidenza” (forze locali e risposta uniforme), comunque difficilmente verificabile, e quello di “influenze nazionali
mediate”, cioè il caso in cui a stimoli provenienti da forze nazionali seguono risposte non uniformi da parte degli elettori.
Non essendoci un modo per verificare empiricamente la fonte degli “stimoli”, sarà impossibile interpretare il caso di swing
non uniforme tra le unità territoriali di un paese (non si potrà infatti stabilire se i fattori politici che lo hanno determinato
provengono dal livello nazionale o da quello locale). E’ per questo che la misurazione del livello di nazionalizzazione della
politica tramite lo swing è problematico.
2
3
Tra le misure che studiano la nazionalizzazione nella singola elezione possiamo individuare la
presenza di tre ulteriori gruppi: le misure di “inflazione”, gli indici di varianza e i coefficienti di
distribuzione. Le misure dette di “inflazione” comparano il numero di partiti a livello nazionale e locale.
Chibber e Kollman [1998; 2004] misurano la nazionalizzazione del sistema partitico calcolando la
differenza tra il numero effettivo di partiti elettorali3 esistenti a livello nazionale e la media del numero
effettivo di partiti esistenti nei sistemi di partito locali. Questa misura prende il nome di Deviation4 e, più
è grande, meno il sistema è nazionalizzato, perché il sistema partitico nazionale tende ad essere il
risultato dell’aggregazione di sistemi partitici locali molto diversi gli uni dagli altri. L’idea di fondo è che
un sistema partitico può dirsi nazionalizzato quando “the same parties compete at different levels of vote
aggregation” [Chibber e Kollman 2004, 4]. Cox [1999, 155-156], partendo dalla misura di Chibber e
Kollman, sviluppa lo Inflation score, che normalizza la Deviation per il numero effettivo di partiti elettorali
presenti a livello nazionale. Allik [2006] crea l’indice di aggregazione partitica, che è una sorta di
completamento delle misure di Chibber e Kollman e Cox, poiché varia tra 0 (minima) e 1 (massima
nazionalizzazione). Moenius e Kasuya [2004, 504] definiscono invece un indice più complesso, detto di
Inflazione5: anche in questo caso, se il numero medio di partiti a livello locale è inferiore a quello
nazionale avremo inflazione del sistema partitico, viceversa avremo deflazione6. Gli stessi autori
[Kasuya e Moenius 2008, 129] propongono successivamente la versione pesata7 dello stesso indice di
Inflazione, che tiene conto della diversa grandezza (misurata in termini di voti espressi) delle unità
territoriali considerate. Anche queste misure di inflazione, però, pur tenendo conto in qualche misura
dei voti espressi (tramite il numero effettivo di partiti elettorali), non riescono a dar conto del grado di
omogeneità del comportamento di voto tra le unità territoriali, ma solo della differenza nel numero di
partiti tra livello locale e nazionale.
Il numero effettivo di partiti elettorali (ENEP) è una misura introdotta da Laakso e Taagepera [1979]. Essa misura il
numero e la forza relativa dei partiti all’interno di un sistema e si ottiene calcolando l’inverso della somma dei quadrati delle
percentuali di voto ottenute da ciascun partito (N= 1/Σsi2). L’indice conta i partiti ponderandone il peso a seconda della
forza elettorale: nel caso di scuola di un sistema perfettamente bipartitico, con i due partiti entrambi al 50% l’indice fa 2.
4 La formula è D= ENP nat – ENP avg [Lago 2011, 10].
5 I= [(ENP nat – ENP avg)/ENP avg]*100.
6 6
Il caso di deflazione è empiricamente verificabile, come scrive Bochsler [2010, 159-160] qualora in alcuni distretti,
solitamente urbani, compaiono molti piccoli partiti locali che ottengono buone percentuali, mentre nelle aree rurali dello
stesso paese la competizione è quasi perfettamente bipartitica. In questo frangente il numero effettivo di partiti elettorali
risulterà più alto nelle unità locali urbane che a livello nazionale. Tutte le misure di inflazione si basano sul confronto fra il
numero effettivo di partiti a livello nazionale e il numero medio di partiti a livello locale (cioè la media del numero di partiti
tra le varie unità locali), sottostimando così le differenze tra i singoli sistemi locali e la media nazionale.


 votnat * ENPnat 
7
Iw   n
 1 *100 .
 ENPi * voti 


 i 1

3
4
Se intendiamo la nazionalizzazione8 del voto come processo di progressiva convergenza del
consenso ai partiti politici fra le diverse unità territoriali di un paese, le misure da prendere in
considerazione sono gli indici di varianza e i coefficienti di distribuzione.
Gli indici di varianza si basano sulla dispersione dei valori dei partiti a livello regionale attorno
alla media nazionale: la mean absolute deviation (MAD) o “index of variation” di Rose e Urwin [1975, 24] è la
somma degli scarti assoluti dei valori regionali del partito dalla media nazionale diviso per il numero
delle regioni. La mean squared deviation (MSD) è identica alla MAD, con la differenza che eleva al
quadrato gli scarti anziché prendere i valori assoluti. La varianza (S2), a differenza della MSD, non
divide per il numero di circoscrizioni (n) ma per n-1. La deviazione standard (S) è semplicemente la
radice quadrata della varianza, e in tal modo compensa la precedente elevazione al quadrato degli scarti
dalla media fatta per il calcolo della varianza. Un'altra misura di dispersione è il Lee index [Lee 1988],
molto simile alla MAD, con la differenza che divide per 2 e non per n le differenze assolute degli scarti
dalla media. La letteratura ha messo ampiamente in rilievo i limiti e i difetti di queste misure [Caramani
2004, 62; Bochsler 2010, 156-158], e in particolare il fatto che attribuiscono valori più alti di dispersione
quando il numero di regioni è più basso e quando i partiti sono più grandi. Inoltre, queste misure non
sono standardizzate e mancano di un limite superiore (possono assumere qualsiasi valore superiore allo
0). Alcuni autori preferiscono utilizzare misure giudicate più solide, come il Coefficiente di Variazione9
(CV) che divide la deviazione standard per la media e dunque tiene conto della forza relativa dei partiti,
pur mantenendo altri difetti, come la mancanza di un limite superiore e il fatto che il suo valore
diminuisce al crescere del numero di unità territoriali, rendendo problematiche le comparazioni tra
paesi. Con l’intento di eliminarne i difetti, Ersson, Janda e Lane [1985] propongono il coefficiente di
variazione pesato e standardizzato, che tiene conto della grandezza relativa delle singole regioni (in
termini di elettori) ma non del numero di regioni stesse, e inoltre manca ancora di un limite superiore.
Quest’ultimo difetto è assente nell’indice IPR (index adjusted for party size and number of regions) che divide il
Lee index per la somma dei voti raccolti dal partito in ogni regione come proporzione del totale
nazionale, e nel CRII (cumulative regional inequality index) di Rose e Urwin [1975, 30] che ha l’obiettivo di
Come scrive Caramani [2004, 1 e ss.] la nazionalizzazione della politica è un fenomeno di lungo periodo che concerne
l’evoluzione storica verso la formazione di elettorati e sistemi di partito nazionali, che ha preso piede in Europa occidentale
tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale in seguito allo sviluppo di tre grandi processi storici: la formazione
dello stato, la costruzione della nazione e l’avvento della politica di massa. La nazionalizzazione si è realizzata tramite un
processo di riduzione della territorialità dei cleavages politici storicamente avvenuto tramite due dimensioni: la prima,
“orizzontale”, di omogeneizzazione territoriale dei “caratteri” [Caramani 1994, 239] politici, ossia attitudini, valori e
comportamenti, avvenuta tramite il processo di nation-building e la conseguente standardizzazione delle periferie; la seconda,
“verticale”, di costruzione del “centro”, occorsa attraverso il trasferimento delle competenze e delle issues rilevanti dal livello
locale a quello nazionale, e anche tramite la formazione di organizzazioni e alleanze nazionali. La nazionalizzazione del voto
è qui intesa, come abbiamo precisato in precedenza, proprio come indicatore parsimonioso di nazionalizzazione della
politica. Tuttavia il nostro obiettivo non è quello di ricostruire il processo storico di nazionalizzazione in Italia ma
semplicemente quello di analizzare l’evoluzione del fenomeno negli anni della Repubblica, sia a livello partitico sia a livello
sistemico.
9 Il Coefficiente di Variazione è stato utilizzato da Pavsic [1985], Diamanti [2003] e Caramani [2004].
8
5
tenere conto dell’influenza delle differenze di dimensioni (in termini di elettori) delle unità territoriali sul
grado di omogeneità di voto. L’indice è costruito sottraendo la percentuale di voto ottenuta in una
regione (rispetto al voto nazionale) dalla percentuale dei votanti che si trova in quella regione,
sommando i valori assoluti di tali differenze e dividendo il risultato per 2 [Caramani 1994, 254]. Sia
l’indice IPR che il CRII variano tra 0 e 1 e sono le due principali misure utilizzate da Caramani [2004]
per misurare il livello di omogeneità di voto in Europa occidentale. Tuttavia anche queste misure non
sono immuni da difetti10: l’IPR non tiene conto delle dimensioni delle unità territoriali [Bochsler 2010,
159], mentre il CRII sovrastima le differenze di dimensione fra le circoscrizioni.
Gli indici più affidabili per valutare il livello di nazionalizzazione del voto sono i coefficienti di
distribuzione, come il Party Nationalization Score11 (PNS) di Jones e Mainwaring [2003, 142]. Esso non è
altro che l’inverso dell’indice di Gini12 e varia tra 0 e 1. E’ un indicatore che permette di comparare
facilmente i cambiamenti nei livelli di nazionalizzazione del sostegno a un partito nel tempo, ma anche i
livelli di nazionalizzazione fra partiti diversi, sia di uno stesso paese che di paesi diversi. Il grado
complessivo di nazionalizzazione del sistema partitico si calcola invece tramite il Party System
Nationalization Score (PSNS) sempre opera di Jones e Mainwaring [2003,143] che è la somma del PNS di
ciascun partito pesata per la forza percentuale del partito stesso a livello nazionale.
Bochsler [2010, 161-164] evidenzia comunque due principali difetti13 del PNS e cerca di porvi
rimedio in modo da rendere la formula ancora più affidabile. L’indice di Jones e Mainwaring non tiene
conto della diversa dimensione delle unità territoriali e del diverso numero di unità stesse, che può
cambiare considerevolmente da paese a paese. Riguardo il primo difetto, è evidente che è scorretto
pesare allo stesso modo, ad esempio, la provincia coincidente con l’isola finlandese di Åland (26.000
elettori) e la provincia di Uusimaa, che conta 70 volte gli abitanti della prima. Per far fronte a tutto
questo, Bochsler elabora il Party Nationalization Score with weighted units14 (PNSw), che permette la
Entrambi gli indici inoltre sono affetti dal problema della “insensitivity to transfers”. In certe situazioni, quando i voti sono
trasferiti da un collegio in cui il partito è più debole a un altro in cui è relativamente più forte, questi indici risultano
immutati, anche se questi trasferimenti accrescono l’eterogeneità. Per un esempio concreto, vedi Bochsler [2010, 158].
11 PNS =1 – Gini = Σ (1-Gi(P))p = 1 – Σ (Gi(P))p
N
N.
12 L’indice di Gini è un coefficiente ampiamente usato per misure i livelli di disuguaglianza, di solito del reddito tra pesi
diversi. Esso varia tra 0 e 1, in cui 1 indica la massima disomogeneità. L’indice di Gini può facilmente convertito in una
misura dell’eterogeneità della distribuzione territoriale del voto per un partito politico. In caso di distribuzione omogenea
(coefficiente di Gini=0), il partito riceve la stessa porzione di voti in ogni unità territoriale. In caso, al contrario, di perfetta
disomogeneità (coefficiente di Gini=1) un partito riceve il 100% dei suoi voti in una sola unità territoriale e nelle altre non
riceve alcun voto. Per far assumere al valore 1 il significato di massima omogeneità Jones e Mainwaring costruiscono il PNS
sottraendo il coefficiente di Gini da 1.
13 Per una rassegna completa ed esauriente sui vari indici e i rispettivi difetti, vedi la tabella di Bochsler [2010, 157].
10
 (v  (  p
PNSw  2 
 v 
d
14
1
i
i
1
d
1 i
j
d
1

pi
))
2
La formula vede al numeratore l’area presente sotto la curva di Lorenz che
pi
rappresenta la funzione cumulata dei voti tra le regioni e al denominatore l’area sotto la linea di perfetta omogeneità. In caso
di perfetta omogeneità, il numeratore è uguale al denominatore e la formula fa 1. Ogni unità territoriale i (d) ha vi elettori e pi
di loro votano per il partito p.
6
comparazione fra i livelli di nazionalizzazione dei vari partiti in un paese con unità elettorali di diverse
dimensioni.
Rimane quindi il secondo difetto, quello del diverso numero di unità territoriali, che dipende
dalla disponibilità di dati elettorali allo stesso livello di aggregazione. In presenza di significative
differenze nel numero di unità territoriali il PNS e perfino il PNSw risultano distorti. Se esistessero solo
dati a livello regionale, ad esempio, il voto a un partito potrebbe risultare distribuito in modo molto
omogeneo secondo entrambi gli indici. Eppure, se avessimo avuto dati di livello inferiore, ad esempio
provinciali, avremmo magari scoperto che l’omogeneità non era che il risultato finale di una grande
varianza intra-regionale, con province in cui il partito è pressoché inesistente e altre che si
caratterizzano come vere e proprie roccaforti elettorali. A seconda del livello di aggregazione
considerato, dunque, il coefficiente esprimerà valori diversi. Per eliminare anche questa distorsione,
Bochsler intuisce che un incremento nel numero di unità territoriali dovrebbe condurre ad un costante
incremento del livello di eterogeneità, e assume che l’eterogeneità misurata ad un più basso livello
territoriale, PNS(n2), corrisponde al quadrato dell’eterogeneità misurata al livello superiore, PNS(n),
dove n è il numero di unità, cosicché PNS(n2) = PNS(n)2. Sceglie poi il numero 1015 come totale di unità
territoriali per le quali la nazionalizzazione dovrebbe essere stimata per essere comparabile fra diversi
paesi e dopo aver calcolato il PNS(d) per ogni altro numero di unità territoriali d (che dipende dal livello
di aggregazione dei dati elettorali) sviluppa una funzione logaritmica per stimare il livello standardizzato
di nazionalizzazione partitica (PNS10) grazie alla formula: PNS10 = PNS(d)1/log(d). Attraverso questi
passaggi, Bochsler [2010, 164] sviluppa lo standardized Party Nationalization Score (sPNS) che presenta la
stessa formula del PNSw con l’unica differenza dell’elevazione dell’intera espressione16 per 1/log(E),
dove E rappresenta l’effettivo numero di unità territoriali (in analogia con l’effettivo numero di partiti
di Laakso e Taagepera [1979]) e permette di pesare, in base alle rispettive dimensioni, le unità
territoriali, così da giungere ad una formula definitiva che risolve entrambi i difetti riscontrati a
proposito del semplice PNS. Solo lo sPNS, tra tutti gli indici esistenti, è in grado di non mostrare alcuna
varianza nei risultati calcolati a due livelli diversi di aggregazione dei dati. Lo dimostra una recente
ricerca [Andreadis 2011] in cui viene testato il livello di nazionalizzazione del voto del partito
conservatore greco alle elezioni del 1958, calcolato tramite diversi indici sia sulla base delle 9 regioni, sia
E’ una scelta del tutto convenzionale, frutto della convinzione dell’autore, secondo il quale dieci unità sembrano essere
una base sufficientemente buona per effettuare una corretta stima.
15
16
7
sulla base dei 55 nomoí. Lo sPNS risulta l’unico in grado di garantire lo stesso risultato per entrambi i
livelli di aggregazione dei dati17.
Dopo questo lungo excursus sugli indici utilizzati dalla letteratura per misurare la
nazionalizzazione del voto, siamo finalmente giunti all’individuazione dell’indice sPNS che permette di
operazionalizzare la nostra variabile dipendente e analizzare in modo quanto mai preciso ed affidabile
l’andamento del processo di (de)nazionalizzazione del voto in Italia dal 1948 a oggi18.
2.
La (de)nazionalizzazione del sistema partitico italiano tra Prima e Seconda Repubblica
2.1.
Un andamento non lineare
Come appena detto, abbiamo calcolato i valori dell’indice di Bochsler, ossia lo standardized Party
Nationalization Score (d’ora in avanti sPNS), per i partiti italiani dal 1948 al 2008 alle elezioni politiche
della Camera dei Deputati sulla base di una disaggregazione del voto in 32 circoscrizioni nel periodo
1948-199219 e nelle 20 regioni nel periodo 1994-200820. Sono stati inclusi nell’analisi tutti i partiti in
grado di soddisfare, nella singola elezione, almeno uno dei seguenti due criteri: l’aver ottenuto almeno il
2% dei voti a livello nazionale o il 4% in una circoscrizione21. I valori sistemici sono stati ottenuti
tramite la somma, ponderata per il rispettivo peso elettorale, dei singoli partiti presenti in ciascuna
elezione, così da ottenere lo standardized Party System Nationalization Score (d’ora in avanti sPSNS).
Come vediamo nella Figura 1, l’andamento dell’indice non segue un percorso lineare attraverso
le 16 elezioni politiche del sessantennio repubblicano. I valori aggregati di sPSNS crescono nella prima
Gli altri indici andavano da un incremento minimo del 25% dell’IPR ad un massimo del 991% del Lee index. Tutti gli
indici di dispersione crescevano passando da 9 a 55 unità, segno che l’eterogeneità aumentava pur essendo in presenza della
medesima distribuzione del voto allo stesso partito.
18 Occorre dire che, nonostante tutti i miglioramenti apportati rispetto agli indici sviluppati precedentemente, anche l’indice
di Bochsler conserva dei limiti ai fini dell’analisi della nazionalizzazione del voto. Infatti, esso assume esclusivamente la
prospettiva dei partiti, ma non (del tutto) quella dei territori. Coerentemente al significato attribuito alla nazionalizzazione
del voto quale processo di convergenza dei consensi ai partiti tra le unità territoriali di cui si compone un paese, l’indice è in
grado di misurare i livelli di nazionalizzazione di ciascun partito, così come del sistema partitico nel suo complesso. Non è
però in grado di fornire alcun valore relativo ai singoli territori: in altri termini, non ci dice quanto un sistema partitico locale
sia simile a quello nazionale. Se i valori dell’indice sPSNS sono prossimi ad uno, ovviamente sappiamo anche che in ciascuna
area geografica considerata il sostegno elettorale dei partiti è pressoché identico a quello registrato in sede nazionale. Ma
quanto più tali valori si allontanano dal massimo, tanto minori sono le informazioni che abbiamo sulle stesse aree
geografiche. Infatti, anche a causa della ponderazione dei territori in base ai voti totali espressi (peraltro imprescindibile
nell’analisi della nazionalizzazione dalla prospettiva dei partiti), può capitare che: 1) ad uno stesso valore di sPSNS
corrispondano situazioni diversificate circa il grado di approssimazione dei sistemi partitici locali a quello nazionale; e 2) ad
un aumento del valore di sPSNS tra due elezioni consecutive non corrisponda in tutte le unità territoriali una maggiore
convergenza del sistema partitico locale rispetto a quello nazionale (andamento non monotonico). Questi rilievi non sono
volti a sminuire l’importanza e l’utilità dell’indice di Bochsler, di cui anzi faremo largo uso in questo saggio, bensì a suggerire
future ricerche in cui l’analisi della nazionalizzazione del voto in termini di diffusione del consenso dei partiti sia integrata
anche da un approfondimento del livello di distintività territoriale di ciascun sistema partitico locale.
19 Nelle elezioni del 1948 e del 1953 le circoscrizioni sono 31. In tutte le successive elezioni esse diventano 32 per il ritorno
di Trieste sotto la sovranità italiana.
20 La variabilità nel numero di regioni non produce un bias nei risultati elettorali con l’utilizzo dello sPNS (vedi sopra,
Andreadis [2011]).
21 Un totale di 186 casi ha superato almeno uno dei due criteri ed è stato incluso nell’analisi.
17
8
fase della Prima Repubblica e il livello di nazionalizzazione nel nostro paese tocca il culmine con le
elezioni del 1976 (.899). Successivamente i coefficienti tendono a declinare con un brusco decremento
al crepuscolo della Prima Repubblica, fino a toccare il punto minimo nel 1994 (.758). Poi risalgono
nuovamente nel corso della Seconda Repubblica, e, sebbene attestandosi su valori globalmente più bassi
rispetto al passato, l’indice tocca quota .873 nel 2006 prima di scendere nuovamente nelle ultime
elezioni politiche (.838). In generale nel corso dell’intero periodo possiamo notare una lieve tendenza
alla de-nazionalizzazione del sistema partitico italiano, evidenziata dalla linea di tendenza lineare
leggermente declinante. Controllando i risultati tramite l’utilizzo di altri indici22 (CV, CRII, PSNS)
l’andamento dei livelli di eterogeneità di voto rimane sempre il medesimo, facendo segnare la stessa
relazione non lineare con gli stessi punti di svolta: il 1976, il 1994, il 2006.
Già da queste prime evidenze la tesi, sostenuta da Caramani [2004, 90], secondo la quale il
processo di nazionalizzazione, le cui tappe fondamentali erano già state raggiunte alla fine della I
Guerra Mondiale, dopo il 1945 segue un lungo pattern di “stability with a slight tendency toward
nationalization”, viene messa in discussione per quanto concerne il caso italiano, almeno per il periodo
successivo al 197623.
Fig. 1 Andamento del livello di nazionalizzazione del voto in Italia, 1948-2008 (Camera dei Deputati).
0,950
0,900
sPSNS
0,850
0,854 0,860
0,883 0,878
0,869 0,876
0,899
0,887
0,876 0,874
0,873
0,851
0,818
0,806
0,800
0,750
0,838
0,758
0,700
0,650
1948 1953 1958 1963 1968 1972 1976 1979 1983 1987 1992 1994 1996 2001 2006 2008
Elezioni
La correlazione tra lo sPSNS e i valori aggregati del CRII è altissima (r= -.917) e significativa al livello dello 0,01 (test a
due code). Il segno negativo della correlazione è dovuto al diverso senso dei due indici: valori alti del CRII significano alta
eterogeneità, viceversa per lo sPSNS.
23 Caramani comunque accenna al fatto che negli anni ’90 alcuni paesi tra cui Belgio, Irlanda, Regno Unito e Italia sono
divenuti più regionalizzati, ma non si spinge oltre nell’indagine delle cause di questi percorsi differenziati rispetto al pattern
principale.
22
9
2.2.
Le possibili determinanti dell’andamento della nazionalizzazione in Italia
Dal momento che, come abbiamo appena visto, l’andamento del livello di nazionalizzazione in
Italia non segue un percorso lineare, né mostra una perdurante stabilità, risulta interessante cercare di
comprendere le ragioni di questo trend singolare. In altri termini, quali sono i fattori che sono in grado
di spiegare l’evoluzione del livello di nazionalizzazione del voto in Italia nel corso del tempo?
Abbiamo provato a testare l’impatto di alcuni fattori istituzionali e di altri legati alla struttura
della competizione. Tra i fattori istituzionali considereremo in particolare due macro-processi
sviluppatisi negli ultimi decenni in Europa che hanno coinvolto anche il nostro paese: il decentramento
istituzionale e l’integrazione europea. Tra i fattori connessi alla struttura della competizione
considereremo il numero dei partiti e il cambiamento elettorale (volatilità). Prima di verificare i
potenziali effetti di questi fattori sul grado di nazionalizzazione del voto occorre però specificare le
ipotesi teoriche che ne stanno alla base, nonché gli indici utilizzati.
Da alcuni decenni molti paesi europei, tra cui l’Italia, si stanno confrontando con processi di
ridefinizione delle relazioni tra centro e periferie [Fabbrini 2008, 155] che comportano la devoluzione di
parte delle competenze statali a strutture periferiche, che accrescono i propri poteri sia in termini di
policies di cui sono responsabili, sia come capacità di rappresentanza (tramite un legislativo ed un
esecutivo indipendenti dagli organi centrali dello stato), sia in termini di capacità di condeterminare la
politica nazionale. Negli ultimi anni parecchi autori hanno sottolineato che il decentramento politico ed
economico influenza il livello di nazionalizzazione del sistema partitico [Hopkin 2003]. In particolare,
l’aumento dei poteri detenuti dalle autorità locali incentiva la formazione di partiti regionali [Chibber e
Kollman 1998; 2004] e la loro crescita elettorale [Brancati 2006, 656-657]. Ciò avviene perché, con la
crescita dei poteri politici e fiscali dei governi regionali, i partiti locali hanno minori incentivi ad unirsi
fra loro e competere a livello nazionale, poiché il “premio” della conquista del governo nazionale
diventa meno invitante. Inoltre, “gli elettori sono più propensi a votare per partiti nazionali quando il
governo nazionale diventa importante per le loro vite” [Lago-Peñas e Lago-Peñas 2009, 5]. Viceversa,
se il governo centrale perde potere relativo, crescono gli incentivi per gli elettori a votare per partiti
locali, che presentano una geografia di voto altamente concentrata in una o poche regioni del paese e
contribuiscono ad aumentare il grado di de-nazionalizzazione del voto24.
Per misurare il livello di decentramento la letteratura ha proposto diversi indici25. Quello di gran
lunga più completo e adeguato per comparare le differenze nel livello di decentramento sia tra paesi
Secondo Chibber e Kollman [2004, 227], inoltre, non esiste un problema di endogeneità fra le due variabili di
decentramento e denazionalizzazione, poiché il primo fenomeno precede sempre il secondo: “it’s tipically the changing nature of
political authority that initiates changes in party systems, not the other way around”.
25 Per una rassegna completa degli indici di decentramento v. Hooghe, Marks e Shakel [2010, 33-37]. Tra i molti, segnaliamo
Lane ed Ersson [1999], Lijphart [1999, trad. it 2001, 208-211] e Brancati [2006].
24
10
diversi che tra periodi diversi della storia di uno stesso paese è il Regional authority index (RAI) di
Hooghe, Marks e Schakel [2010]). Si tratta di un indice che misura la “autorità regionale”, vale a dire
l’autorità formale, esercitata in relazione a regole esplicite scritte nelle costituzioni o nella legislazione,
da parte della “regione”, ossia un territorio continuo, intermedio tra il livello locale e quello nazionale in
cui è presente un governo regionale formato da un insieme di istituzioni legislative ed esecutive,
responsabile per la presa di decisioni [Hooghe et al. 2010, 4-5]. Il RAI è composto da due
macrodimensioni (Self-rule e Shared rule) a loro volta costituite da una serie di indicatori e assegna a
ciascun paese un punteggio che oscilla tra 0 e 2426 e varia nel tempo come riflesso delle riforme di
decentramento o accentramento del potere portate avanti dai vari stati. Lo studio di Hooghe, Marks e
Schakel copre l’intero periodo 1950-2006 consentendoci così di servircene in questo lavoro.
Anche il processo di integrazione europea potrebbe aver inciso sull’andamento del processo di
nazionalizzazione del voto in Italia. Secondo alcuni autori [Keating 1998; Bartolini 2005] la devoluzione
di competenze dagli stati-nazione alle istituzioni sovranazionali europee e il conseguente rafforzamento
del processo di policymaking dell’UE ha un impatto diretto sulla strutturazione dello spazio politico degli
stati nazionali. Se la creazione e il consolidamento degli stati-nazione moderni aveva comportato un
rafforzamento dei confini territoriali esterni dello stato e una diminuzione delle opportunità di exit,
l’integrazione europea indebolisce e rimuove questi confini territoriali costruendo a sua volta nuovi
confini esterni e sviluppando nuove aree funzionali interne. Procedendo, in altri termini, verso la
costruzione di uno spazio politico europeo che costituisce una sfida per le strutture politiche nazionali.
In particolare, l’indebolimento dei confini statali sembra favorire la rinascita della politica territoriale e il
rafforzamento delle forme di rappresentanza territoriale a scapito delle tradizionali forme di
rappresentanza funzionale di carattere nazionale [Bartolini 2005, 251], oltre che un rinvigorimento della
storica frattura centro-periferia tradottosi nella crescente mobilitazione di attori locali che, sin dalla fine
degli anni ’80, si sono battuti per una ridefinizione dei rapporti tra i vecchi centri nazionali e le periferie
di vario tipo (periferie economiche, culturali, politico-amministrative) presenti al loro interno [ibidem,
256-257]. L’integrazione europea sembra pertanto aver garantito nuove opportunità per le aree substatali europee e per i processi di differenziazione territoriale, di competizione per le risorse e di
rafforzamento dell’ identità che si sono sviluppati all’interno di queste.
Per misurare il livello di integrazione europea ci serviamo dell’Institutional index of regional
integration for the EU (IIRE) [Dorrucci et al. 2002, 7-8]. Esso assegna un punteggio che varia tra 0 e 100
basandosi su 4 stadi di integrazione successivi, originariamente identificati da Balassa [1961], ognuno
In particolare la Self-rule indica l’autorità esercitata dal governo regionale su coloro che vivono sul suo territorio, oscilla tra
0 e 15 punti ed è costituita da quattro indicatori: Institutional depth (0-3), Policy scope (0-4), Fiscal autonomy (0-4), Representation (04). La Shared rule indica l’autorità esercitata da un governo regionale o dai suoi rappresentanti a livello nazionale, oscilla tra 0
e 9 unti ed è costituita da altri quattro indicatori: Law making (0-2), Executive control (0-2), Fiscal control (0-2) e Constitutional
reform (0-3).
26
11
dei quali assegna 25 punti. Essi sono: l’area di libero scambio e l’unione doganale (considerati insieme),
mercato comune, unione economica, integrazione economica totale.
Passando ai fattori relativi alla struttura della competizione politica, la vasta letteratura sui
sistemi partitici dell’Europa occidentale ha ampiamente sottolineato come da parecchi anni le principali
trasformazioni abbiano riguardato 1) il mutamento dei rapporti tra elettori e partiti e il conseguente
aumento dei livelli di volatilità elettorale [Dalton e Wattenberg 2002], 2) l’accesso nell’arena politica di
nuovi partiti27 e il conseguente aumento dei livelli di frammentazione partitica [Dalton et al. 1984]. Il
declino dell’identificazione partitica e del modello organizzativo di massa ha indebolito la relazione tra i
partiti e gli elettori, che è diventata meno stabile e più imprevedibile. I partiti si sono trovati così più
esposti ai rischi del mercato elettorale, divenuto anche più concorrenziale per l’ingresso di nuovi
soggetti politici. In un tale contesto di incertezza, caratterizzato oltretutto da una relativa minor salienza
del cleavage di classe, è plausibile che sempre più partiti – vecchi e nuovi – sviluppino strategie di
concentrazione territoriale del consenso. Per comprendere meglio il punto riconsideriamo il modello
spaziale di Downs [1957]. Secondo il capostipite della teoria della scelta razionale, in un sistema
bipartitico entrambi i partiti tendono a convergere verso il centro dello spazio ideologico con l’obiettivo
di conquistare il voto dell’elettore mediano. Un aumento del numero di partiti e il passaggio ad un
sistema multipartitico, però, provoca una riduzione dello spazio politico a disposizione per i partiti, che
perdono l’incentivo a muoversi l’uno verso l’altro. Se, ad esempio, un partito di centrosinistra si sposta
verso il centro per guadagnare voti moderati perde immediatamente i voti degli elettori di sinistra che lo
sostenevano, e questi si spostano verso il partito di estrema sinistra [Downs 1957, trad. it. 1988, 162163]. Nei sistemi multipartitici, dunque, nessun partito ha un grande incentivo ad allargarsi troppo
sovrapponendosi ideologicamente ad altri e cercherà piuttosto di ancorarsi ad una precisa posizione
ideologica. Traslando il ragionamento di Downs dal piano ideologico a quello territoriale che costituisce
il punto di partenza delle sue riflessioni (si pensi alle considerazioni sulla localizzazione geografica delle
imprese di Hotelling, dal quale Downs prende spunto per la sua teoria), potremmo ipotizzare che un
aumento del numero di partiti e la conseguente riduzione dello spazio politico incentivi le forze
politiche già esistenti, minacciate dai nuovi sfidanti, a sviluppare appunto strategie di concentrazione28
territoriale del proprio sostegno, miranti al mantenimento dei propri bastioni elettorali, piuttosto che ad
espandersi territorialmente correndo il rischio di perdere voti all’interno dei feudi storici. A maggior
ragione se il territorio diventa sempre più fonte di identità in un contesto più generale caratterizzato
invece da un aumento della fluidità dei comportamenti di voto.
Dai partiti etno-regionalisti [Tronconi 2009] a quelli espressione della “Nuova politica” e del post-materialismo [Inglehart
1977], come i partiti ambientalisti, fino ai partiti della cosiddetta “estrema destra radicale e post-industriale” [Ignazi 1992].
28 Per un approfondimento sulle opposte strategie competitive di concentrazione e diffusione, si veda Caramani [1994, 278279].
27
12
Per misurare il numero dei partiti e il livello di cambiamento del voto faremo ricorso a due
classici indici quali, rispettivamente, il NEFF o ENEP (Effective Number of Electoral Parties) di Laakso e
Taagepera [1979] e la volatilità (aggregata) totale (VT) di Pedersen [1979].
Tab. 1. Valori di RAI, IIRE, NEFF, VT e sPSNS in Italia, 1948-2008
Elezione
RAI
IIRE
NEFF
VT
sPSNS
1948
8,5
_
2,94
16,2
.854
1953
8,5
_
4,17
14,1
.860
1958
8,5
6
3,87
5,4
.869
1963
8,7
24
4,14
8,5
.876
1968
8,7
47
3,93
4,0
.883
1972
14,6
46
4,08
5,7
.878
1976
13,6
47
3,53
7,6
.899
1979
14,5
53
3,91
4,7
.887
1983
14,5
53
4,51
8,6
.876
1987
14,5
58
4,62
9,2
.874
1992
15,5
65
6,63
14,4
.818
1994
17,5
74
7,58
36,7
.758
1996
17,5
74
7,16
8,8
.806
2001
22,7
86
6,32
20,4
.851
2006
22,7
86
5,50
8,3
.873
2008
22,7
86
3,79
9,0
.838
Fonte: i valori di RAI sono un adattamento da Hooghe et al. [2010, 175]; quelli di IIRE sono tratti da
Dorrucci et al. [2002, 40-41]; i valori di VT fino al 1996 sono tratti da Cartocci [1997], mentre quelli del 2001 e
del 2006 da Chiaramonte [2007]; gli altri valori sono nostre elaborazioni su dati ufficiali.
La Tabella 1 riporta i valori degli indici ora presentati, unitamente a quelli di sPSNS, con
riferimento al periodo della Prima e della Seconda Repubblica (1948-2008) scandito dalle elezioni
politiche svolte.
Come possiamo vedere, il livello di decentramento istituzionale in Italia misurato attraverso il
RAI è cresciuto considerevolmente negli ultimi decenni, passando dagli 8,5 punti degli anni ‘50 ai 22,7
punti in seguito alla riforma del Titolo V (2001), lungo una traiettoria di crescita quasi lineare. Per
quanto riguarda il processo di integrazione europea, i valori di IIRE mettono in evidenza come esso
abbia raggiunto e superato, nel corso dell’ultimo cinquantennio, tre dei quattro stadi individuati da
Balassa e, con il raggiungimento dell’Unione Monetaria (1999) si trova oggi in una posizione intermedia
tra l’unione economica e l’ultimo stadio, l’integrazione economica totale, livello non ancora raggiunto.
Possiamo in particolare distinguere tre sotto-periodi del processo: il primo, caratterizzato da una rapida
13
integrazione, procede dalla firma del Trattato di Roma (1957) al completamento dell’Unione doganale
(1968). Il secondo periodo, compreso tra l’inizio degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 vede un
rallentamento dell’integrazione e l’incapacità della Comunità di pervenire a nuovi accordi (fino all’intesa
sul Sistema Monetario Europeo, 1979). Nell’ultimo periodo si osserva una nuova accelerazione nel
processo integrativo che porta al raggiungimento dell’Unione Monetaria.
Non occorre molto per osservare che gli andamenti temporali dei valori di RAI e IIRE sono
chiaramente diversi da quello dei valori di sPSNS. Come appena evidenziato, durante il periodo
repubblicano in Italia il decentramento istituzionale e l’integrazione europea hanno seguito un percorso
di progressiva crescita, segnato anche da momenti di interruzione o da fasi di rallentamento, ma mai da
passi indietro. I valori di sPSNS non tracciano invece una traiettoria lineare, bensì presentano
oscillazioni consistenti. In altri termini, l’associazione tra i processi di decentramento istituzionale e di
integrazione europea da un lato e il livello di nazionalizzazione del voto dall’altro appare debole, se non
inesistente29.
Appurato che i fattori istituzionali30 non appaiono essere le variabili in grado di spiegare
significativamente l’andamento della nazionalizzazione del voto in Italia, non resta che verificare se lo
siano invece i fattori legati alla struttura della competizione. Ritornando ai valori della Tabella 1, già ad
un primo sguardo emerge che l’evoluzione sia di NEFF sia di VT tende ad essere simile a quella del
livello di nazionalizzazione del voto. I grafici a dispersione delle Figure 2 e 3, che mettono in relazione
sPSNS rispettivamente con NEFF e VT, dimostrano in entrambi i casi l’esistenza di una correlazione
significativa e di segno negativo31. La nazionalizzazione del voto decresce, dunque, al crescere della
frammentazione partitica e della volatilità elettorale. Quando vi sono più partiti in campo e gli elettori
La correlazione tra RAI e sPSNS è di r= -.334, quella tra IIRE e sPSNS è di r= -.347 ma in entrambi i casi esse non sono
significative (p>0,05).
30
Sul fronte dei fattori istituzionali vi sarebbe da considerare il livello di “contestabilità” della competizione [Bartolini 1996,
228-230]. Esso è determinato da due tipi di barriere: i prerequisiti per entrare nella competizione ovvero le condizioni
richieste dal sistema perché partiti e candidati possano partecipare alle elezioni; le possibilità di essere rappresentati nelle
assemblee. La contestabilità riguarda dunque sia la legislazione elettorale in senso lato, che il tipo di sistema elettorale, le
dimensioni del collegio elettorale, la presenza di soglie di esclusione etc. L’Italia dal 1948 a oggi ha modificato in modo
significativo il proprio sistema elettorale, passando da un sistema proporzionale quasi puro (1948-1992) ad uno misto, 75%
maggioritario e 25% proporzionale (1993-2005), fino all’adozione della legge n° 270/2005 che reintroduce un sistema
proporzionale con alte soglie di sbarramento e un premio di maggioranza alla coalizione vincente. Eppure anche questo
fattore non sembra avere una significativa associazione con l’andamento della nazionalizzazione del voto. Secondo la
letteratura in materia, infatti, gli elementi di un sistema elettorale che hanno incidenza sulla nazionalizzazione sono l’obbligo
di presentare liste in un certo numero minimo di circoscrizioni, la presenza di alte soglie di sbarramento a livello nazionale,
l’esistenza di collegamento diretto tra l’elezione del legislativo e la formazione dell’esecutivo, la presenza di un’ampia
porzione di seggi upper-tiers, ossia allocati in collegi di livello superiore. Essi facilitano la formazione di un sistema partitico
nazionalizzato e la crescita dell’omogeneità territoriale del voto [Cox 1997, trad. it. 2005, 257-258]. Il ruolo della grandezza
del collegio (ossia la district magnitude, M) rispetto alla nazionalizzazione del voto, invece, non è del tutto chiaro [Lago-Peñas e
Lago-Peñas 2009, 6-7] e la letteratura appare divisa. L’Italia ha visto l’introduzione, nel passaggio tra Prima e Seconda
Repubblica, di un’alta soglia di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza (4%) e di un collegamento diretto tra l’elezione
del Parlamento e la formazione del Governo, eppure, contrariamente alle aspettative della letteratura in materia, a ciò ha
fatto seguito un aumento, e non una diminuzione dell’eterogeneità territoriale del voto. Per il resto, l’Italia non ha mai avuto
seggi di tipo upper-tier, mentre le norme sulla presentazione delle liste non sono cambiate in modo significativo.
31 La correlazione tra NEFF e sPSNS è di r= -.782 e quella tra VT e sPSNS è di r=.-785; in entrambi i casi le correlazioni
sono significative a livello dello 0,01 (test a due code).
29
14
sono meno stabili nelle loro scelte di voto, allora il sostegno ai partiti si fa territorialmente più
disomogeneo. Detto altrimenti, la destrutturazione del sistema partitico, come previsto da Sartori
[1976], si riverbera nella de-nazionalizzazione del voto. Ma per comprendere come ciò possa accadere,
e, dunque, per verificare l’ipotesi formulata in precedenza circa la tendenza allo sviluppo, da parte dei
partiti, di strategie di concentrazione in risposta all’ingresso nell’arena elettorale di nuove forze politiche
e alla maggiore incertezza del mercato elettorale, occorre scendere dal livello sistemico al livello degli
attori partitici, passando all’analisi dei coefficienti di nazionalizzazione dei singoli partiti italiani.
Fig. 2 Correlazione tra sPSNS e NEFF (voti), Italia 1948-2008.
0,9
1976
1979
1972 1983
1963
1987
1958
1953
0,88
sPSNS
0,86
1948
0,84
1968
2006
2001
2008
0,82
1996
1992
0,8
R² = 0,611
0,78
0,76
1994
0,74
2
3
4
5
6
7
8
NEFF (voti)
Fig. 3 Correlazione tra sPSNS e VT, Italia 1948-2008.
0,92
0,90
1979
1976
1972 1983
1968
1963
1987
1958 2006
0,88
sPSNS
0,86
1953
0,84
1948
2001
R² = 0,616
2008
0,82
0,80
1996
1992
0,78
0,76
1994
0,74
0
5
10
15
20
25
30
35
40
VT
15
2.3.
Lo sPNS dei partiti italiani e delle famiglie di partito
La Tabella 3 mostra la media dei valori dello sPNS dei principali partiti italiani della Prima e
della Seconda Repubblica nel periodo in cui sono presenti32. A differenza di quanto solitamente
sostenuto dagli studi di geografia elettorale [Galli et al 1968; Corbetta et al. 1988; Cartocci 1990;
Diamanti 2009], che enfatizzano le differenze politiche esistenti tra la zona bianca nel Nord est
caratterizzata dal predominio della Dc e la Zona rossa nelle regioni appenniniche a forte prevalenza
comunista, notiamo invece gli alti coefficienti dello sPNS dei due maggiori partiti della Prima
Repubblica. La Dc fa segnare una media di .916 (il valore più alto in assoluto dopo la Margherita 2001)
e il Pci di .874, segno di una omogeneità di consensi fra le unità territoriali italiane molto più alta di
quanto ci si sarebbe aspettati. Anche il Psi appare straordinariamente omogeneo (.906). Tutti gli altri
partiti della Prima Repubblica mostrano coefficienti inferiori, con i Repubblicani (.766) e i Monarchici
(.616) che manifestano un’alta eterogeneità di voto (comprensibile alla luce della storica distribuzione
territoriale del voto a questi partiti: i Repubblicani concentrati in alcune aree del Centro-Nord e i
Monarchici nelle province del Sud continentale). Nella Seconda Repubblica il livello medio di
nazionalizzazione dei singoli partiti diminuisce, anche per la nascita di nuove forze politiche molto
concentrate territorialmente a cavallo tra fine anni ’80 e inizio anni ’90: si tratta sia di partiti
dichiaratamente regionalisti, come la Liga Veneta (.331) e la Lega Nord (.411), sia di altri formalmente
“nazionali” come La Rete (.539).
Tab. 3. Valori dello sPNS dei principali partiti italiani, 1948-2008
Periodo
sPNS (Media)
Periodo
sPNS (Media)
Dc
Partito
1948-1992
.916
Pds-Ds
Partito
1992-2001
.810
Pci
1953-1987
.874
Rifondazione comunista
1992-2006
.866
Psi
1953-1987
.906
Vallée d'Aoste
1992-2008
.005
Psdi
1948-1992
.838
Ppi
1994-1996
.878
Pli
1953-1992
.817
Radicali
1994-2001
.815
Pri
1953-1992
.776
Alleanza Nazionale
1994-2006
.824
Msi
1948-1992
.801
Forza Italia
1994-2006
.888
Monarchici (Pnm, Pmp, Pdium) 1948-1968
.616
Ccd-Cdu-Udc
1996-2008
.854
Südtiroler Volkspartei
1948-2008
.042
La Margherita
2001
.936
Partito sardo d'azione
1948-1996
.112
Partito dei comunisti italiani
2001-2006
.861
Union valdotaine
1958-1987
.011
Italia dei Valori
2001-2008
.884
Liga Veneta
1983-1992
.331
Autonomie Liberté Démocratie 2006-2008
.003
Verdi
1987-2006
.866
Ulivo-Pd
2006-2008
.897
Lega Nord
1987-2008
.411
Pdl
2008
.897
La Rete
1992-1994
.539
Mpa
2008
.245
Fonte: Nostre elaborazioni su dati ufficiali.
32
I casi di liste comuni, come il Fronte popolare del 1948 (costituita da Pci e da Psi), non sono riportati in Tabella.
16
Le forze politiche eredi del passato risultano meno nazionalizzate dei loro predecessori: sia il
Ppi che il Ccd-Cdu-Udc sono lontani dai valori dello sPNS raggiunti dalla Dc, così come il Pds-Ds e
Rifondazione appaiono meno omogenei del vecchio Pci (An invece fa eccezione con un coefficiente
medio di .824 più alto di quello del .801 del Msi). I partiti con il più alto livello di nazionalizzazione
della Seconda Repubblica sono La Margherita, apparsa solo alle elezioni del 2001 (.936), e Forza Italia
(.888), partito “nazionale” per eccellenza, tanto da essere considerata “autonoma dal territorio” da
Diamanti [2009, 99-100]. I due grandi partiti nati negli ultimi anni (il Pd e il Pdl), invece, manifestano
un’omogeneità di consensi assai alta (.897), simile a quella dei grandi partiti della Prima Repubblica. Per
i partiti regionalisti, invece, come la Svp del Trentino Alto-Adige o gli autonomisti della Valle d’Aosta,
che hanno una copertura territoriale minima (si presentano in una sola unità territoriale), lo sPNS si
approssima ai valori minimi possibili, sfiorando lo 0 (tra .003 e .011 i valori dei partiti valdostani, .042 la
Svp).
Fin qui abbiamo esaminato i livelli di nazionalizzazione del voto ai principali partiti italiani da un
punto di vista descrittivo e statico. Proviamo adesso ad entrare maggiormente nel dettaglio per
comprendere cosa spiega le differenze nei livelli di eterogeneità di voto ai partiti nonché l’evoluzione
temporale degli stessi valori di nazionalizzazione.
Innanzitutto proviamo a raggruppare i partiti italiani in famiglie politiche. La classificazione dei
partiti in famiglie ci è utile non tanto per evidenziare le differenze ideologiche tra i partiti italiani
(secondo l’approccio di von Beyme [1985] delle famiglie “spirituali”), che non costituisce lo scopo di
questo lavoro, quanto perché i cleavages politici [Lipset e Rokkan 1967] ai quali le diverse famiglie fanno
riferimento sono dotati di diversi gradi di territorialità ed è interessante verificare se le ipotesi formulate
dalla letteratura che segue un approccio macro-sociologico [Caramani 2004] circa la distribuzione
territoriale del voto delle varie famiglie valgono anche per il caso italiano.
I partiti italiani sono stati raggruppati in 8 famiglie, rappresentate nella Figura 4. Abbiamo in tal
modo classificato 173 casi33 di partiti nella singola elezione, mentre 13 casi34 sono rimasti esclusi poiché
privi di una chiara collocazione.
In particolare fra i comunisti abbiamo incluso il Fronte democratico popolare, il Pci, Rifondazione, i Comunisti italiani e la
Sinistra arcobaleno; fra i socialdemocratici Psi, Psli, Psdi, Psiup, Pds, Ds, Ulivo e Pd; fra i confessionali Dc, Ppi, Ccd-Cdu,
Udc, Margherita, Democrazia europea e Udeur; fra i liberali Pli, Pri, Partito Radicale (1979) e le liste radicali della Seconda
Repubblica (Pannella, Pannella-Sgarbi, Pannella-Bonino); fra i conservatori Forza Italia, An e il Pdl; fra i regionalisti Lega
Lombarda, Liga Veneta, Lega Nord, Lega d’Azione Meridionale, Associazione per Trieste, Partito sardo d’azione, Mpa, Svp,
Union Valdotaine, Vallée d'Aoste e Autonomie Liberté Démocratie; all’interno dell’estrema destra abbiamo incluso Msi,
Monarchici (Pnm, Pmp, Pdium), La Destra.
34 Fra questi La Rete, l’Italia dei Valori, la Lista Dini e il Patto Segni.
33
17
sPNS 1948-2008, media ponderata
Fig. 4. sPNS delle famiglie di partito italiane, valori ponderati, 1948-2008
1,000
0,900
0,800
0,700
0,872
0,865
0,876
0,912
0,807
0,872
0,766
0,600
0,500
0,400
0,300
0,372
0,200
0,100
0,000
La Figura 4 mostra i valori di nazionalizzazione delle 8 famiglie ottenuti attraverso la somma dei
coefficienti dei singoli partiti ponderata per la rispettiva forza elettorale. Non stupisce naturalmente
l’alto livello di de-nazionalizzazione del voto ai partiti etno-regionalisti, che, politicizzando il cleavage
centro-periferia, sono presenti alle elezioni solo in una o poche unità territoriali, le stesse per le quali
rivendicano maggiore autonomia dallo stato centrale. Piuttosto basso (.766) anche il grado di
omogeneità territoriale della famiglia dell’estrema destra, il cui elettorato è sempre stato fortemente
concentrato nelle regioni meridionali del paese. Tutte le altre famiglie, con in testa quella confessionale
(.912) si trovano sopra .80, facendo segnare alti indici di omogeneità territoriale. Secondo la letteratura
che segue l’approccio rokkaniano la principale determinante del processo di nazionalizzazione del voto
fu la Rivoluzione Nazionale, con le divisioni sociali che ne conseguirono e la nascita dei partiti liberali e
conservatori, che, pur su posizioni diverse, furono i principali fautori del processo di center e nationbuilding, oltre che di rapida nazionalizzazione della competizione e del voto35. Successivamente, anche la
Rivoluzione Industriale contribuì al processo, facendo emergere il cleavage di classe e provocando lo
sviluppo e la diffusione sul territorio nazionale dei partiti socialisti e socialdemocratici che
determinarono la definitiva trasformazione della competizione da territoriale in funzionale,
cristallizzando la politica sull’asse destra-sinistra. I partiti liberali e conservatori che contribuirono alla
costruzione del “centro” e i partiti che politicizzarono il cleavage di classe (socialdemocratici, ma anche
Per un approfondimento sul tema del ruolo svolto dalle fratture sociali e dai partiti emersi in seguito ad esse sul processo
di nazionalizzazione della politica vedi Caramani [2004, 198-220].
35
18
comunisti36), dunque, dovrebbero essere quelli con la distribuzione del voto più omogenea e
“nazionale”, proprio perché sono espressione di cleavages “funzionali” ossia basati su interessi/ideologie
che, seppur dotati di un certo grado di territorialità [Caramani 1994, 263] (ad esempio il cleavage di classe
sarà più forte nelle zone con forte insediamento operaio), tendono a riprodursi con le stesse dinamiche
in tutte le aree di un paese. I partiti confessionali, invece, emersi in seguito alla frattura stato-chiesa
sono caratterizzati dalla presenza di un certo grado di eterogeneità di voto dovuta alla presenza di aree
ad avanzata secolarizzazione nei paesi protestanti del Nord Europa e alla contemporanea presenza, nei
paesi a religione mista (Germani, Paesi Bassi, Svizzera), di partiti cattolici e protestanti con sacche di
consenso territorialmente ben distinte [Caramani 2004, 160]. Nei paesi cattolici come l’Italia, però, i
partiti confessionali (come la Dc) hanno storicamente svolto le veci dei grandi partiti conservatori37 nel
resto dell’Europa (in Italia la famiglia conservatrice non ha esponenti fino alle elezioni del 1994) e la
distribuzione territoriale del loro voto è altamente nazionalizzata. Ritornando all’istogramma della
Figura 4, non sorprende che le famiglie con i più alti livelli di nazionalizzazione siano quella dei partiti
confessionali, seguita dai socialdemocratici, i conservatori (coerentemente con l’ipotesi appena
formulata), i comunisti e i verdi38, tutti a breve distanza gli uni dagli altri. Solo i liberali sembrano
rivelare un consenso meno nazionalizzato di quanto ci saremmo aspettati sulla base delle considerazioni
precedenti.
2.4.
L’evoluzione cross-time della nazionalizzazione del voto
Dopo aver esaminato le differenze nei livelli di nazionalizzazione del voto ai singoli partiti e alle
famiglie politiche da una prospettiva “statica” (utilizzando le medie del periodo in cui sono presenti),
passiamo adesso all’analisi dinamica, studiando l’evoluzione cross-time della nazionalizzazione dei
principali partiti per verificare l’ipotesi formulata all’inizio secondo cui gli attori già esistenti tendono a
sviluppare strategie di concentrazione territoriale quando vengono minacciati dall’ingresso di nuove
forze politiche nell’arena elettorale. Se questa ipotesi fosse vera sarebbe presumibile aspettarci che tra il
1976 e il 1994, negli anni in cui il sistema dei partiti nati nel dopoguerra viene sfidato da nuove forze
politiche (i Radicali, i Verdi, la Liga Veneta, la Lega Nord) prima di crollare all’inizio degli anni ’90, i
partiti già esistenti mostrino un declinante livello di nazionalizzazione.
Pur se nati in seguito ad una frattura interna al movimento operaio, i partiti comunisti vengono inclusi da Bartolini e Mair
[1990], nel loro studio sulla volatilità in Europa occidentale, all’interno del cleavage di classe.
37 La media dei voti della famiglia confessionale è infatti del 23,9%, la più alta in assoluto, seguita proprio dalla famiglia
conservatrice (20,6%) che però copre solo il periodo 1994-2008.
38 Sia la famiglia comunista che quella ecologista sono storicamente caratterizzate da un consenso territorialmente omogeneo
[Caramani 2004, 176]. Gli alti coefficienti della famiglia comunista hanno ancor più senso in un paese come l’Italia, nel quale
è sempre mancato un grande partito socialdemocratico (la media voti della famiglia comunista è del 16,8%, ben più alta della
media dei socialdemocratici che è dell’11,4%) e la principale opposizione alla Dc è stata svolta dal Pci che è stato il maggior
interprete del cleavage di classe in Italia.
36
19
Le Figure 5-11 raffigurano l’evoluzione dei valori dello sPNS per i sette maggiori partiti italiani
della Prima Repubblica. Il trend di concentrazione territoriale è chiarissimo per i due partiti più grandi,
la Dc e il Pci (Pds dal 1992). A partire dalle elezioni del 1976 entrambi fanno osservare la tendenza a
specializzarsi territorialmente: il voto democristiano si meridionalizza [Caciagli 1985, 106], mentre
quello comunista risulta sempre più dipendente dal contributo delle regioni rosse. Impossibile, in
questo frangente, non vedere una reazione dei due grandi partiti alle sfide poste nel Nord del paese
dalla Liga Veneta e poi soprattutto dalla Lega Nord, insediatesi nelle aree della declinante subcultura
bianca. Per gli altri partiti però non si nota una tendenza simile.
Fig. 5 sPNS della Dc, 1948-1992
Fig. 6 sPNS del Pci e del Pds, 1953-1994
0,950
0,920
0,940
0,900
0,930
0,880
0,920
0,860
0,910
0,840
0,900
0,820
0,890
0,800
0,880
0,870
1945
1955
1965
1975
1985
1995
Fig. 7 sPNS del Psi, 1953-1994
0,780
1950
1970
1980
1990
2000
Fig. 8 sPNS del Msi, 1948-1992
0,960
0,880
0,940
0,860
0,920
0,840
0,900
0,820
0,880
0,800
0,780
0,860
0,760
0,840
0,740
0,820
0,800
1950
1960
0,720
1960
1970
1980
1990
2000
0,700
1945
1955
1965
1975
1985
1995
20
Fig. 9 sPNS del Psdi, 1948-1992
0,940
Fig. 10 sPNS del Pli, 1953-1992
Fig. 11 sPNS del Pri, 1948-1992
0,850
0,900
0,880
0,860
0,840
0,820
0,800
0,780
0,760
0,740
0,720
0,700
0,680
0,660
0,640
0,620
0,600
0,580
1945
0,920
0,840
0,900
0,830
0,880
0,820
0,860
0,840
0,810
0,820
0,800
0,800
0,790
0,780
0,780
0,760
0,740
1945
1965
1985
0,770
1940
1960
1980
2000
1965
1985
Mentre ancora Psi e il Psdi39 mostrano un’inversione di tendenza tra una prima lunga fase di
nazionalizzazione (fino al 1987 per il Psi, fino al 1979 il Psdi) e una seconda fase di rapida denazionalizzazione del proprio consenso, Msi e Pri sviluppano un trend di netta diffusione territoriale
del proprio consenso (provenendo però da una situazione opposta), stesso percorso evidenziato dal Pli
dopo il 1979.
2.5.
Strutturazione del sistema, dimensione elettorale dei partiti e nazionalizzazione del voto
L’ipotesi formulata in precedenza sembra dunque plausibile solo per alcuni partiti e non
completamente generalizzabile. In definitiva, quindi, cosa spiega davvero le differenze nei livelli di
nazionalizzazione tra i partiti italiani e il cambiamento di questi stessi livelli nel tempo? Osservando con
più attenzione i grafici precedenti scopriamo che la variabile forse decisiva per comprendere il
fenomeno è la grandezza del partito, in termini di percentuale di voti ricevuti. Più un partito è grande,
più tende ad avere consensi omogenei; viceversa, più è piccolo, più tende a specializzarsi
territorialmente nei propri bastioni elettorali. La diminuzione dei valori dello sPNS della Dc e del Pci
dopo il 1976 è in gran parte spiegabile alla luce del loro declino elettorale. Lo stesso discorso vale per il
Psi che cresce elettoralmente fino al 1987 sotto la guida di Craxi e poi crolla dopo Tangentopoli
(passando dal 13,6% del 1992 al 2,2 del 1994) e in misura minore anche per il Psdi, mentre il Msi (con
l’eccezione del boom del 1972 che si accompagna ad un basso livello di nazionalizzazione) e soprattutto
il Pri crescono elettoralmente nel corso della Prima Repubblica.
Il valore del 1968 dei due partiti socialisti è quello del Partito socialista unificato, formato dalla temporanea fusione di Psi
e Psdi.
39
21
Il tema della grandezza del partito si collega sia alla questione, già affrontata prima, della
frammentazione elettorale che a quella della strutturazione del sistema partitico40. Se c’è un sistema
partitico strutturato avremo pochi partiti di grandi dimensioni ed un ridotto livello di frammentazione.
In questo contesto vi sarà un’alta omogeneità territoriale del voto sia al livello individuale (singoli
partiti) sia, di conseguenza, a livello sistemico. Viceversa, nella fasi di destrutturazione del sistema
partitico il numero degli attori aumenta e le dimensioni medie dei partiti diminuiscono. Contraendosi
elettoralmente, i partiti tenderanno a perdere più voti nelle aree di recente insediamento, mostrando
invece una maggiore capacità di resistenza nei feudi tradizionali. In tal modo si assisterà ad una crescita
della de-nazionalizzazione del voto. Questo spiega l’andamento dei livelli di nazionalizzazione nel corso
della Prima Repubblica e in particolare la crescente eterogeneità successiva al 1976, elezione che segna
l’apice della strutturazione del sistema nato nel secondo dopoguerra, fino al crollo definitivo negli anni
di Tangentopoli (1992-1994). E spiega bene anche l’evoluzione susseguente: il nuovo sistema partitico
nato all’inizio degli anni ’90 si consolida nel corso della Seconda Repubblica: partiti come Forza Italia,
Alleanza Nazionale, il Pds-Ds-Ulivo, Rifondazione comunista, il Ccd-Cdu-Udc e le Liste radicali
aumentano il proprio livello di strutturazione nel corso del tempo accrescendo la propria omogeneità
elettorale fino a toccare un nuovo apice di nazionalizzazione in occasione delle politiche del 2006, che
rappresentano il momento culminante del sistema bipolare che esordisce nel ‘94 (sono le politiche
segnate dal confronto tra Prodi e Berlusconi e le loro mega-coalizioni dell’Unione e della Casa delle
Libertà). Con le elezioni del 2008 il sistema cambia ancora, nascono due nuovi grandi partiti, la
frammentazione diminuisce ma il livello di nazionalizzazione complessivo torna a calare, sia per la
crescita elettorale della Lega Nord (partito regionalista molto concentrato) sia per un evidente deficit di
strutturazione del sistema partitico che non si è ancora assestato dopo le recenti trasformazioni (nascita
di Pd e Pdl e passaggio dal bipolarismo estremo del periodo 1996-2006 al bipolarismo limitato
[Chiaramonte 2010]).
Il diagramma della Figura 12 ci chiarisce bene la forte associazione41 tra dimensione elettorale e
nazionalizzazione del voto. L’incrocio tra le due dimensioni crea quattro quadranti che dividono il
campione di 186 casi sulla base della grandezza media dei partiti (8,3%) e del valore medio dello sPNS
(.632). Come vediamo, tre dei quattro quadranti ospitano la quasi totalità dei casi: abbiamo partiti
piccoli e territorialmente molto eterogenei (quadrante in basso a sinistra), piccoli e omogenei (alto a
sinistra) e partiti grandi e omogenei (alto a destra). Il quadrante in basso a destra, invece, risulta vuoto:
ad eccezione della Lega Nord nel periodo 1992-1996, nessun altro partito di grandi dimensioni
(maggiore dell’8,3%) presenta un livello di nazionalizzazione del voto inferiore alla media di .632.
Un sistema partitico è strutturato quando sono presenti partiti di massa, con un’organizzazione diffusa su tutto il territorio
nazionale in tutti o quasi tutti i collegi elettorali, che sviluppano la stessa dinamica di competizione nei diversi collegi
elettorali del paese [Sartori 1984].
41 La correlazione tra le due variabili è di r= .498, significativa al livello dello 0,01 (test a due code).
40
22
sPNS
Fig. 12. Dimensione elettorale e valori dello sPNS dei partiti italiani, 1948-2008.
1,000
0,950
0,900
0,850
0,800
0,750
0,700
0,650
0,600
0,550
0,500
0,450
0,400
0,350
0,300
0,250
0,200
0,150
0,100
0,050
0,000
0,0
3.
4,0
8,0
12,0
16,0
20,0 24,0 28,0 32,0
Dimensione elettorale
36,0
40,0
44,0
48,0
Conclusioni
La nazionalizzazione del voto nelle elezioni politiche italiane ha raggiunto il suo apice nel 1976.
Da allora, seppure con oscillazioni anche significative, la tendenza prevalente è stata quella inversa. Ci
siamo dunque chiesti quali fossero i principali fattori esplicativi del processo di nazionalizzazione del
voto nei primi 30 anni della Repubblica e della de-nazionalizzazione in atto negli ultimi 30 anni.
L’analisi che abbiamo compiuto ha messo in luce una stretta correlazione tra il livello di
nazionalizzazione del voto da un lato e i livelli di frammentazione partitica e di volatilità elettorale
dall’altro. Più precisamente, abbiamo rilevato che quanto più aumentano il numero dei partiti e
l’instabilità del comportamento di voto, tanto meno geograficamente omogeneo diviene il sostegno
elettorale. Questo è accaduto in particolar modo nell’ultima fase della Prima Repubblica, quando si è
assistito alla progressiva erosione del sistema dei partiti consolidatosi nel dopoguerra e all’accesso
all’arena elettorale di nuovi sfidanti (i Verdi, la Liga Veneta, la Lega Lombarda, poi la Lega Nord); ed
anche durante la Seconda Repubblica, caratterizzata, con l’eccezione del 2008, da un elevato numero di
partiti – che tocca il punto massimo nel 1994 (Neff=7,58), per poi ripiegare – e da alta volatilità
elettorale.
23
Il livello di nazionalizzazione del voto è dunque connesso al grado di strutturazione dei partiti e
del sistema partitico. Così, il processo di de-nazionalizzazione cui abbiamo assistito negli ultimi decenni
si deve alla destrutturazione del vecchio sistema partitico della Prima Repubblica e alla difficoltà di
ristrutturazione di un nuovo sistema partitico. Appare invece indipendente rispetto al processo di
integrazione europea e alle grandi trasformazioni che hanno riguardato gli assetti istituzionali interni del
nostro paese, passato da un assetto unitario e centralizzato alla sperimentazione di ampie forme di
autonomia regionale, fino allo sviluppo “quasi federale” degli anni più recenti [Hooghe et al. 2010, 84].
In particolare, l’ipotesi che l’aumento del decentramento incentivi la crescita elettorale dei partiti
regionalisti [Brancati 2006, 656-657] non si adatta bene al caso italiano. Infatti, dopo le riforme
dell’assetto regionale negli anni ’70, per oltre un decennio i partiti (etno-)regionalisti in grado di ottenere
sistematicamente seggi alla Camera dei Deputati sono stati quelli che già c’erano prima, l’Union
Valdôtaine nel collegio uninominale della Valle d’Aosta e la Südtiroler Volkspartei in Trentino-Alto
Adige. E se anche si volesse ritenere la comparsa e l’affermazione della Lega Nord dalla fine degli anni
’80 come un effetto tardivo di quei processi, rimane il fatto che da allora ad oggi i suoi consensi
elettorali non sono affatto aumentati secondo una progressione lineare così come invece avvenuto per il
decentramento istituzionale.
Avviatasi a partire dalla fine degli anni ’70, la de-nazionalizzazione del voto non è stata un
processo continuo, né particolarmente intenso (anche rispetto alle previsioni che si potevano formulare
allorché esplose il fenomeno leghista). Men che meno si è trattato di un processo che definiremmo
irreversibile. Questo perché non c’è stata – perlomeno non ancora – una vera e propria disintegrazione
del sistema partitico su basi territoriali. La nascita delle Leghe prima e il successo della Lega Nord poi
sono stati certo il segno della maggior salienza politica del territorio, ma, nonostante gli sforzi profusi
da questi partiti, il territorio – e dunque l’appartenenza al partito che se ne fa espressione – solo per
pochi elettori è diventato la fonte della propria identità politica. Così, anche il voto alla Lega Nord non
è affatto incondizionato: come è stato già sottolineato da alcune ricerche, gli elettori leghisti non sono
più identificati di altri [Corbetta 2010] e il supporto al partito è a corrente alternata [Biorcio 2010]. Ciò
che più conta è, però, che il voto alla Lega Nord può essere ritirato in favore di formazioni politiche
“nazionali”, che rimangono dunque concorrenziali e che, con un’offerta appropriata, possono costituire
un’alternativa percorribile. Sia chiaro, anche i partiti “nazionali” possano specializzarsi territorialmente
– anzi, come abbiamo visto, costretti o meno, tendono sempre più a farlo – sia direttamente,
rafforzando il proprio insediamento in una specifica area, sia indirettamente, perseguendo strategie di
decentramento organizzativo che favoriscono un maggiore adattamento ai diversi contesti. Ma si tratta
comunque di partiti che non fanno della rappresentanza del territorio in cui sono concentrati la loro
ragion d’essere esclusiva o prevalente.
24
Il quadro che emerge dall’analisi compiuta non è dunque quello di una dimensione territoriale
del conflitto politico che si stia imponendo sulle altre (e che alla lunga, come successo in Belgio, possa
minare l’unità del Paese), bensì di una perdurante destrutturazione o semi-strutturazione partitica che si
traduce in comportamenti di voto continuamente mutevoli, cui segue (ma non è un processo
irreversibile) un più alto tasso di de-nazionalizzazione del voto sia per la differenziazione territoriale dei
partiti “nazionali” (che quindi diventano un po’ meno “nazionali”), sia per l’eventuale affermazione dei
partiti regionalisti. Quest’ultimi, in particolare la Lega Nord, hanno cercato di rafforzare il legame con i
propri elettori moltiplicando i richiami anche simbolici al territorio, ma la risposta non è stata quella
sperata, se è vero che molti elettori continuano ad intrattenere con questi partiti un rapporto
strumentale, non escludendo la possibilità di rivolgersi a quelli nazionali se in grado di rappresentare più
efficacemente le loro domande e i loro interessi. In definitiva, la relativa denazionalizzazione del voto in
atto non sembra (ancora) la conseguenza di una sempre più vasta ed insopprimibile domanda di identità
fondata appunto sull’appartenenza territoriale.
25
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