a scuola di giallo - ITT "E. Majorana"

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a scuola di giallo - ITT "E. Majorana"
A SCUOLA DI
GIALLO
SCRITTORI
IMPROVVISATI
GLI AUTORI
IAET
Cacace Lorenzo
Cafeo Raffaele
Cincotta Nicolas
Crimi Davide
D’Andrea Giuseppe
De Luca Giuseppe
Di Bella Roberto
Formica Francesco
Foti Gioacchino
Giardina Alessio
Iacono Fabrizio
Impalà Fabio
Isgrò Alessandro
Isgrò Nunzio
Maestrale Domenico
Maimone Francesco
Milazzo Luigi
Mirabile Federico
Puglisi Filippo
Quattrocchi Carmelo
Rizzo Francesco
Russo Gabriele
Scibilia Alessandro
Scibilia Giuseppe Pio
Trio Marco
GLI AUTORI
IBM
Amovilla Andrea
Campagna fabio
Caravello Lorenzo
Fiumara Antonio
Galeno Emanuel
Giordano Roberto
Ingegnere Gabriele
Puglisi Mattia
Rizzo Salvatore
Santoro Salvatore
Siroli Samuele
Torre Francesco
Triboli Michael Mirco
…ai nostri genitori,
ai fratelli, ai nonni, agli amici nostri
ai nostri amici animali,
ai giovani,
ai bambini malati, bisognosi, affamati,
ai morti in Libia
a chi ci fa riflettere, a chi ci sa consigliare,
a chi ci aiuta.
Siamo scrittori improvvisati di storie,
ma non sono improvvisati i nostri sentimenti.
Alla prof.ssa Abramo, al nostro Preside,
all’Itis Majorana.
INTRODUZIONE
Questo modesto lavoro, realizzato dai ragazzi della I A ET e della I B M,si
propone come un piccolo esperimento. La fantasia degli autori è stata la
fonte principale a cui si è attinto per progettare e realizzare questa raccolta
di racconti. Il genere del “giallo” ha affascinato i ragazzi e per questo si è
scelto di approfondirne lo studio della struttura. I ragazzi hanno “montato”
le loro storie dopo aver creato il loro personaggio principale, il detective, e
dopo aver scelto l’ambientazione. L’assenza di scene cruente è stata
“pensata” e “ voluta” con gli autori che hanno condiviso l’idea che
“giallo” non deve significare orrore.
La fantasia e la creatività dei ragazzi ha fatto il resto. Ognuno di essi ha
avuto la possibilità di esprimere la propria personale capacità di
raccontare. Sono stati forniti degli elementi che sono stati inseriti,
obbligatoriamente, nelle storie: ciò allo scopo di agevolare il percorso di
scrittura con delle indicazioni che fungessero da dati di partenza, ma anche
al fine di dare alla costruzione dei “gialli” un’impronta personale ed
originale . Quindi alcuni aspetti in apparenza ripetitivi, in realtà
rappresentano il rispetto dell’obbligo di inserimento di questi elementi che,
talvolta, sono stati scelti e concordati con i ragazzi stessi. Chiedendo scusa
per gli inevitabili errori e per le eventuali mancanze o ripetizioni e
fiduciosi della comprensione dei lettori, gli autori sono orgogliosi di offrire
questo piccolo spaccato della loro creatività.
Buona lettura!
LE INTUIZIONI DI OSCRAM
Nella notte del tre Novembre 1989 un uomo lasciò la sua fidanzata perché
era stata scoperta mentre lo tradiva con Frank Molone. Il tre Novembre del
1990 un assassino entrò in casa di Frank e lo soffocò, durante la notte, per
vendetta. Quella stessa notte, alle 5.00 del mattino, il detective Oscram
ricevette a casa la telefonata dell’agente di polizia che gli comunicava
quanto era successo. Arrivato sul luogo del misfatto, vide la stanza in
disordine e il cadavere sul letto, la finestra aperta, un sigaro spento sulla
coperta ed un fazzoletto poggiato vicino alla finestra. Oscram cominciò ad
indagare con molta attenzione perché l’assassino era stato attento a non
lasciare tracce. L’oggetto che lo incuriosiva di più era il sigaro che faceva
pensare ad un assassino che, nel commettere il delitto, avesse agito come
se fosse un gesto abituale, come se non fosse la prima volta. Quella sera
Oscram tornò a casa, ma non dormì per tutta la notte e, mentre continuava
a leggere il giornale, notò la fotografia di un uomo, ricercato per
l’omicidio dell’ex moglie. L’indomani, tornato sul luogo dell’omicidio,
Oscram riesaminò anche il fazzoletto e si accorse che sulla stoffa c’era
scritto un messaggio: “Ti aspetto alla fattoria abbandonata”. Con tutte le
unità di polizia, allora Oscram si recò alla fattoria che aveva presto
individuato perché sentì che l’assassino voleva essere preso. Arrivato lì
trovò, infatti, un uomo che lo aspettava con le mani in alto. Serviva, però,
una confessione per sapere se fosse davvero lui l’omicida. Durante il
primo interrogatorio, l’uomo riferì che era stato lui a commettere il delitto,
ma che per fornire altri dettagli voleva in cambio un bel letto al posto di
quello che c’era nella sua cella. Gli venne portato, però venne messo in
isolamento; allora chiese ad Oscram di lasciarlo andare altrimenti avrebbe
ucciso altre persone entro le 6.00 del mattino. Oscram non lo liberò e, la
mattina stessa, appena gli agenti di turno in auto accesero i motori delle
macchine, ci fu un’esplosione che uccise molti dei colleghi di Oscram.
Arrabbiato, il detective andò di corsa dall’assassino e gli chiese perché
stesse facendo tutto quello ed egli rispose che agiva così perché voleva
cambiare il sistema in quanto, per omicidio, venivano dati pochi anni di
galera. Oscram, con il suo collega più fidato, si recarono in un garage di
proprietà dell’assassino e scoprirono che era collegato alla cella in cui era
rinchiuso tramite delle gallerie in modo che l’uomo potesse uscire e
rientrare quando voleva; infatti quando tornò alla cella, l’uomo non si
trovava lì. Il detective si chiese dove potesse essere andato e,
immediatamente, si ricordò che quel giorno si sarebbero riuniti i membri
del Comitato governativo. Oscram scappò di corsa sul luogo della riunione
e, nei locali sotto la sala riunioni, trovò una bomba. Prima che l’assassino
la facesse esplodere, Oscram la prese e la spostò sotto il lettino della cella
che ospitava l’uomo. Gli sembrò l’unica soluzione: al clic del
telecomando, la cella dell’omicida, che nel frattempo era rientrato in
carcere, esplose. Nessuno seppe mai che era stato Oscram.
Lorenzo Cacace
UN NATALE ALL’INSEGNA DEL GIALLO
Era la mattina del giorno che precedeva il Natale e l’orologio posto sul
campanile della chiesa batteva le dieci. Il paese era ricoperto da una fitta
coltre di neve. Tutto era pronto, in questo piccolo paesino vicino Catania,
per festeggiare. Tutti erano indaffarati ad ultimare gli ultimi acquisti per
parenti ed amici e per preparare il tradizionale pranzo. Jack, un uomo alto
e grassoccio dall’espressione sempre sorridente, si muoveva con passo
svelto, ma la sua attenzione fu attratta da un particolare, quando entrò nella
farmacia del paese: Giorgio, il commesso della farmacia, aveva qualcosa
di strano. Incuriosito aspettò che l’uomo uscisse e decise di seguirlo. Jack
era noto agli abitanti della zona per la sua fama di investigatore, dato che
aveva avuto l’occasione di partecipare ad importanti indagini e, per questo
motivo, era invidiato, ma anche rispettato da tutti. Ad un certo punto,
Giorgio si fermò di colpo per rispondere al telefonino che squillava. Jack
riuscì a sentire la conversazione e capì che, dall’altro lato, parlava una
guardia forestale, ma nello stesso tempo intuì che qualcosa di tragico
stesse per succedere. Giorgio si girò di scatto, ma l’investigatore fu pronto
a nascondersi sotto il portico di un edificio vicino. Cominciò subito a
riflettere come potesse evitare che accadesse quanto aveva sentito: un
omicidio, all’alba, sulla piccola pista sciistica del paese. L’indomani
prestissimo, Jack si mise gli sci in spalla e s’incamminò seguendo un
tortuoso sentiero attraverso la fitta boscaglia. Quando raggiunse sul luogo
del presunto omicidio, il sole era già alto e la pista cominciava a popolarsi.
Si nascose dietro un robusto tronco e rimase in osservazione. Vide Giorgio
passare impugnando un coltello e seguendolo con lo sguardo si accorse
che si avvicinava minacciosamente ad un uomo che sembrava riposarsi
dalla fatica della sciata. Jack immediatamente si lanciò verso Giorgio
riuscendo a farlo cadere sulla neve, ma non riuscì ad evitare l’omicidio
perché all’improvviso sbucò una guardia forestale che colpì a morte la
vittima riuscendo a dileguarsi in un istante. Jack, tenendo fermo in terra
Giorgio, prese il telefonino e contattò la polizia. Pochi minuti dopo sul
posto era tutto un brulicare di persone: agenti, infermieri dell’ambulanza,
molti curiosi e il medico legale. Giorgio ammanettato, fu condotto nel
carcere più vicino. La mattina dopo l’aria di festa sembrava essersi
disciolta nel nulla. Jack aveva dormito poco e decise di recarsi sul luogo
del delitto per cercare qualche indizio. Arrivato sulla pista cominciò a
guardarsi intorno e a rovistare ovunque, così dentro la spaccatura di un
tronco trovò la divisa della guardia forestale. Frugò nelle tasche e trovò un
tesserino identificativo, ma subito pensò: “può essere così facile risalire al
colpevole?” Fu un attimo, all’improvviso si accorse che qualcuno,
nascosto nell’ombra che lo stava osservando, ora si stava allontanando
velocemente. Jack provò ad inseguirlo seguendo le impronte lasciate sulla
neve. Percorse un lungo tragitto, poi, stanco, si fermò davanti ad un dirupo
e, deluso, si sedette a riflettere. Si accese una sigaretta e rimase lì finche il
freddo non gli ricordò che era giunti il momento di tornare a casa. Fu
allora che si accorse che, legata ben salda ad un tronco, una fune era stata
fatta scivolare nel dirupo: forse lì sotto vi era un rifugio. Non perse un
attimo, corse fino alla sua auto per prendere una torcia elettrica, ma il buio
e il freddo gli sconsigliarono di continuare le ricerche. Il mattino seguente
si alzò presto e decise di scendere nel dirupo. Arrivato sul posto, scese e
trovò, con grande sorpresa, una radura nascosta da un folto gruppo di
alberi e, celata da questi, una casa che era stato impossibile vedere
dall’alto. Pensò subito che si doveva trattare dell’abitazione della guardia
forestale che si era macchiato dell’omicidio. Silenziosamente si avvicinò
alla casa e fece irruzione sorprendendo l’uomo che cercava di sbarazzarsi
dell’arma del delitto. La guardia forestale, accortasi della sua presenza, gli
saltò addosso cercando di strangolarlo con le mani e, non riuscendoci, si
voltò velocemente per prendere una corda, ma Jack fu più veloce e riuscì
ad estrarre la pistola e a sparare. Lo colpì alla mano in modo che l’uomo
non potesse più prendere la corda. Steso l’assassino a terra, Jack riuscì a
immobilizzarlo e a condurlo in commissariato. Dopo un lungo
interrogatorio infine confessò che, appartenendo ad una storica famiglia
del paese, aveva vendicato un vecchio omicidio perpetrato contro un suo
familiare. Jack aveva concluso le sue indagini.
Raffaele Cafeo
I CUGINI
Un giovane di nome Mike si era appena laureato in medicina e aveva
l’intenzione di partecipare a dei corsi per realizzare il suo sogno di
diventare medico. Dopo avere frequentato questi corsi, Mike scoprì che
suo cugino Matteo era diventato medico senza alcun titolo. Questa notizia
scatenò un’invidia spaventosa nel giovane che decise di rinunciare al suo
sogno. Una domenica Mike incontrò Matteo in un bar e lì si misero a
discutere. Mike, sempre roso dall’invidia, invitò il cugino per il martedì
successivo per continuare il discorso iniziato al bar. Matteo accettò. Mike,
quel martedì, si mise ad aspettare il cugino in un vicolo molto buio finchè
Matteo, anche se con dieci minuti di ritardo, arrivò. Mike, vedendolo
arrivare, afferrò un bastone e, aggredendolo alle spalle, cominciò a
picchiare Matteo. L’omicida si sbarazzò poi del corpo sotterrandolo.
L’indomani mattina Mike, temendo che qualche traccia potesse far
rinvenire il corpo alla polizia, lo prese e lo gettò in mare. Nel frattempo in
televisione veniva data la notizia della scomparsa del giovane e tutti
cominciarono a cercarlo. Un pescatore, mentre tirava le sue reti, vide il
cadavere e lo riferì subito alla polizia che lo recuperò e lo fece esaminare.
Sotto le unghie del povero Matteo furono trovati i capelli di Mike che il
giovane, nel tentativo di difendersi, aveva strappato al cugino. La polizia
arrestò Mike che confessò tutto.
Nicolas Cincotta
PAISTE ALLE PRESE CON UN NUOVO CASO
Era una notte molto fredda e, mentre dormiva, il commissario Paiste d’un
tratto sentì squillare il telefono; era il suo assistente Mail che gli
comunicava che c’era stato un omicidio nelle vicinanze del laghetto che
c’era vicino al vecchio cimitero abbandonato. Il commissario si vestì
velocemente e si precipitò sul luogo dell’omicidio. Arrivato lì, trovò già il
medico legale che stava esaminando il cadavere. Dopo aver finito, il
medico disse che si trattava di una giovane donna di ventinove anni della
quale sapevano le generalità grazie al fatto che aveva con sé la borsa che
ancora conteneva tutti i documenti e anche dei soldi. Paiste dedusse subito
che il delitto non era stato commesso a scopo di rapina. Il commissario
chiese al medico se sapesse a che ora risaliva l’ora del decesso e quello
rispose che il fatto era accaduto circa due ore prima. A questo punto Paiste
e Mail cominciarono a studiare la dinamica dell’omicidio e alla fine
conclusero che sembrava fosse stata uccisa per strangolamento.
Successivamente, arrivato in commissariato, Paiste fece convocare tutti gli
amici più intimi e anche il fidanzato della vittima. L’interrogatorio di
queste persone durò a lungo, ma tutti sembravano avere un buon alibi.
Paiste, però, trovò strano il fatto che un amico della giovane, Robert, che
aveva detto di non vedere la ragazza da almeno due anni, avesse un graffio
molto evidente su una mano. Dopo che i convocati andarono via, Paiste e
Mail cominciarono a riflettere sul caso cercando di indovinare, per
ciascuna delle persone appena sentite, un movente per l’omicidio. E ancora
tutti gli indizi sembravano portare a Robert che faceva il muratore presso
un cantiere che si trovava vicino al luogo del delitto e che, sicuramente,
non avrebbe avuto nessuna difficoltà a procurarsi una corda: inoltre
dimostrava di avere una grande perché il suo fisico rivelava la sua passione
per il culturismo. Paiste, continuando ad indagare, seppe che Robert e la
ragazza erano stati fidanzati e che lui ne era ancora innamorato. Il giovane,
che fu nuovamente interrogato diverse volte, continuava a negare di essere
il responsabile, ma quando Paiste ebbe il risultato dell’autopsia non ebbe
più dubbi: sotto le unghie della donna erano stati trovati frammenti di pelle
che, rapidamente, si capì che appartenevano a Robert. A quel punto il
ragazzo scoppiò in un pianto disperato e confessò di averla uccisa, ma che
non avrebbe voluto farlo perché lui l’amava tantissimo, però quando aveva
scoperto che lei stava per sposarsi le aveva chiesto di concedergli un
ultimo appuntamento che, poi, si era concluso con l’omicidio. Paiste aveva
finalmente risolto il caso.
Davide Crimi
QUESTIONE DI EREDITA’
Quel lunedì Calogero, un investigatore privato che lavorava presso
un’azienda, era uscito prima dal lavoro. Subito prima di andar via, aveva
parlato telefonicamente con suo fratello, poi si era infilato la giacca a
vento gialla e si era avviato verso la stazione a piedi. Trentacinque minuti
dopo era seduto da solo in uno scompartimento vuoto. Secondo i suoi
calcoli stavano per partire, se il treno viaggiava in orario. Appoggiata la
testa contro lo schienale, chiuse gli occhi. Mentre il treno si avviava,
Calogero pensava al bel piatto di lenticchie, caldo e fumante, che si
sarebbe preparato a casa. Improvvisamente la porta dello scompartimento
si aprì ed entrò una ragazza che si sedette nel posto più lontano da
Calogero e che sembrava tenere d’occhio il corridoio. Dopo un po’ guardò
Calogero e disse educatamente:” Buonasera”. “Buonasera”, rispose lui. Poi
più niente. Calogero si voltò verso il finestrino e, come se guardasse fuori,
si mise ad osservare la ragazza dal riflesso sul vetro. Intanto nel corridoio
passò un uomo che si girò a guardare la giovane. Lei se ne accorse e fissò
il pavimento, ignorandolo. L’uomo si fermò un istante di fronte allo
scompartimento di Calogero, poi si allontanò. La ragazza allora si voltò
verso Calogero e disse:” Sa, ho un po’ paura a viaggiare di sera su questa
linea, a volte si incontrano delle persone che non sembrano molto a posto
con la testa”. Calogero rispose:” Io prendo questo treno tutti i giorni a
quest’ora, sono un pendolare, ma non mi sento minacciato; però forse per
una donna è diverso”. “Già”, aggiunse lei, “ vede, prima ero seduta in un
altro scompartimento e c’era anche quel signore che è passato adesso nel
corridoio. Non so se l’ha notato…” . “Si, l’ho notato” rispose Calogero. E
lei continuò: “Beh, mi ha…come dire? Infastidita. Niente di grave, però
non appena mi sono seduta, non ha fatto altro che fissarmi, poi si è alzato
in piedi, in mezzo allo scompartimento. Non mi sono spostata subito
perché adesso i posti sono prenotati. E’ una scocciatura doversi sedere
dove viene indicato sul biglietto, senza poter scegliere”. “Già” ammise
Calogero. La ragazza continuò:” Beh, poi quel signore ha cominciato a
parlare, come a se stesso, però ho capito che si rivolgeva a me. Non ho
sentito bene quello che ha detto perché mormorava. Poi è passato l’uomo
delle vivande, sa quello con il carrello, e lui ha comprato una birra e
mentre bevevo la situazione mi è sembrato che peggiorasse”. “E poi?”
chiese Calogero. “Poi si è messo in piedi di nuovo. Bevevo e parlava, con
la lattina in mano. Ho pensato che forse era il caso di spostarmi, quindi ho
afferrato la mia borsa e sono andata via”. Il controllore interruppe la
conversazione: vidimò i biglietti e si allontanò. Calogero allora suggerì:”
Forse dovrebbe raccontare al controllore quello che ha detto a me,
signora”. “No, non è successo niente di grave” rispose lei. E poi
domandò:” Mi scusi se glielo chiedo, ma lei dove scende?” “A Torino”
rispose Calogero. Lei sembrò sollevata:”Ah, bene, anch’io”. In corridoio
ripassò l’uomo che aveva spaventato la ragazza camminando lentamente e
fissando prima Calogero e poi lei. La giovane fece finta di nulla, poi chiese
a Calogero:”Può guardare un momento la mia borsa, per favore?”. “Certo,
signora” rispose lui. La donna si alzò e Calogero pensò che andava
sicuramente in bagno. Il treno entrò in galleria e, ad un certo punto, si sentì
un urlo. Subito si creò tanta confusione: gente che si alzava, parlava, si
muoveva, chiamava, correva, gridava. Calogero non si mosse: la donna
che era andata in bagno non era ancora tornata. Calogero aspettò, ma i
minuti divennero troppi. Fuori della galleria il treno si fermò. Calogero
sentì le sirene delle auto della polizia e di un’ambulanza. Tutti passavano
nel corridoio. Quando Calogero vide il controllore lo fermò e gli domandò
cosa fosse successo. Quello rispose:” Hanno trovato una donna in bagno. Il
bagno era chiuso a chiave e me l’hanno fatto aprire. La donna è morta”.
“Morta?” chiese Calogero “morta come?”. “Era un passeggero del treno,
non so altro” rispose il controllore scansandosi per far passare gli uomini
della scientifica che trasportavano un sacco nero. Un uomo, dietro di essi,
fece loro cenno di fermarsi e si presentò a Calogero: era l’ispettore
Mancuso. Calogero gli disse di essere un investigatore privato e gli chiese
di vedere il corpo della vittima. L’ispettore acconsentì e gli chiese se fosse
disposto a collaborare alle indagini, dato che era un investigatore.
Calogero accettò. Poi gli uomini della scientifica aprirono leggermente il
sacco e lui si accorse subito che non si trattava della donna che era con lui
nello scompartimento, così disse:”Non l’ho mai vista. Come si chiama?”.
L’ispettore rispose:”Si chiamava Grazia Bossi”. Poi il suo sguardo si posò
sulla borsa da donna posata sul sedile e disse:”Lei non è solo nello
scompartimento”. Calogero disse:”C’era una donna, ma da quando è
iniziata tutta questa confusione non l’ho più vista”. Allora intervenne il
controllore dicendo:”Si, è la donna che ha trovato il corpo e che mi ha
fatto aprire il bagno”. Calogero capì che era stata lei a gridare. Lentamente
tutti i passeggeri cominciarono a scendere dato che era stato messo a
disposizione un pullman per riportare ognuno alla propria destinazione.
Calogero rimase sul treno. L’ispettore gli domandò:” Ha notato qualcosa
di strano, anche di poco conto, che ritiene utile segnalarci?”. “Beh” disse
Calogero “forse la signora che ha scoperto il corpo ve lo ha già detto di
quell’uomo…” . “Quale uomo?” chiese l’ispettore. “Un tipo strano che
l’aveva un po’ infastidita. Lei si era spostata in questo scompartimento per
questo motivo” rispose lui. Mancuso si ricordò che la signora, troppo
sconvolta, era stata affidata ai medici dell’ambulanza, ma fece subito
fermare l’uomo di cui gli aveva parlato Calogero che si trovava ancora sul
treno. L’uomo raggiunto dagli agenti cominciò a protestare, alzando la
voce: era sicuramente ubriaco e gesticolava in maniera esagerata. Calogero
si rivolse all’ispettore Mancuso e gli disse:” Non arrestate quell’uomo, non
c’entra niente con l’omicidio. Il colpevole ormai non è più sicuramente su
questo treno. Gli avete dato la possibilità di scappare facendo scendere
tutti i passeggeri. Qualche tempo fa ho letto su un quotidiano locale che la
signora Bossi aveva ricevuto una grossa eredità che, se lei fosse deceduta,
sarebbe passata ad un suo cugino che, guarda caso, si trovava proprio su
questo treno e l’ho riconosciuto perché lo conosco da tempo”. L’ispettore
Mancuso rispose:” Giusta osservazione, signor Calogero, procederemo alla
ricerca del cugino. Ancora grazie !” “Mi sembra che non ci sia più nulla
da fare qui” disse allora Calogero e se ne andò pensando alle sue
lenticchie. Il cugino tuttavia non fu mai trovato.
Giuseppe D’Andrea
OMICIDIO AL CENTRO COMMERCIALE
Nel cuore di Lusaka Town si sentivano le sirene della polizia: un delitto. Il
tenente Hatchette fu svegliato dai suoi colleghi al mattino presto. Appena
arrivato il tenente, iniziarono le indagini e si scoprì subito che la vittima
era il direttore del centro commerciale della città. Ad un certo punto, si
sentì squillare il cellulare della vittima per un secondo: era un suo cassiere
che, dopo un po’, aveva lasciato un messaggio. Il cellulare era protetto da
una password, perciò, per sentire il messaggio, dovettero trasferirlo su un
altro telefono. Il messaggio era breve, ma impossibile da capire perché in
lingua giapponese. Il tenente decise di parlare con tutti i dipendenti del
centro commerciale e, dopo ore di interrogatori, arrivò ad una conclusione:
se la maggior parte dei dipendenti era sconvolta dall’omicidio, altri lo
erano meno perché avevano raccontato che il loro datore di lavoro era
molto crudele ed anche razzista, visto che il 60% dei dipendenti era di
origine straniera. Hatchette pensò a quella chiamata incomprensibile e capì
che l’omicidio era stato commesso da uno dei dipendenti stranieri, di
origine asiatica. Nel pomeriggio, il tenente entrò nel centro commerciale e
andò a perlustrare tutto l’edificio e, nella stanza dove si trovava l’impianto
della corrente elettrica, vide un giapponese nascosto. Appena quest’ultimo
si vide scoperto, scappò fuori dell’edificio dove però ormai per lui era
finita: all’esterno c’era una miriade di pattuglie della polizia. Arrestato
confermò che il movente riguardava i pessimi rapporti che il direttore
aveva con i suoi dipendenti. Il giapponese fu arrestato e Hatchette concluse
il caso.
Giuseppe De Luca
LA VENDETTA PERFETTA
Quella mattina il cielo era nuvoloso. L’aria era umida a causa della
tempesta durata tutta la notte sulla città di Helios; il cielo era ancora
nuvoloso, non penetrava il minimo raggio di luce e la città era avvolta da
una nebbiolina spettrale. Poteva sembrare una mattina come tutte le altre;
ma c’era agitazione nell’aria, un’agitazione quasi materiale, palpabile, che
uno straniero non avrebbe mai potuto percepire. Ma nella casa
dell’investigatore Hermann Grass predominavano, come sempre, la calma
e la tranquillità, dovuta all’ignoranza di ciò che stava succedendo fuori del
portone di casa. Al suono della sveglia, alle otto del mattino, il detective si
alzò, scese le scale e si avvicinò alla fessura del portone, dove
abitualmente il postino gli gettava il giornale. Ma quella mattina il giornale
non c’era. “Strano…” pensò Grass. Incapace ancora di formulare qualsiasi
pensiero per quanto era intontito dal sonno, andò in cucina e si fece il
caffè; poi si sedette al tavolo, accese la TV e cominciò lentamente a
sorseggiare la bevanda calda. La presentatrice che di solito annunciava le
notizie dell’edizione del mattino del TG annunciò, dopo la breve sigla:”Il
Sun Palace distrutto; Helios nel caos”. All’inizio Grass non fece caso a ciò
che aveva appena sentito, ma due secondi dopo, sputò il caffè con una tale
forza da far arrivare lo schizzo dalla parte opposta della stanza,
imbrattando il muro. Come poteva essere? Era qualcosa di impossibile per
gli abitanti della città…Gettò la tazzina nel lavandino e si fiondò oltre il
portone in tutta la sua goffaggine, in pigiama e pantofole, per verificare di
persona. Si buttò per strada per avere una visuale migliore, poi alzò lo
sguardo verso il cielo: una grande colonna di fumo si alzava dalla zona
costiera. La strada era deserta, non c’era un’anima viva in giro. Grass
cominciò a correre per la strada, ma inciampò nel pigiama e un’auto gli
arrivò quasi di sopra; per fortuna il giovane autista frenò al momento
giusto. “Ma cosa caspita fai? Io vengo a prenderti e tu…tu ti butti nella
strada?!” disse il ragazzo con aria di rimprovero dal finestrino dell’auto.
Aveva capelli neri e lunghi, legati in un codino, e indossava una giacca blu
scuro. Grass alzò lo sguardo e riconobbe l’autista: era Nero, il suo aiutante
più fidato. “Alzati e monta sulla macchina, ti spiego tutto durante il
tragitto!”. Così l’investigatore si rialzò da terra con tutta la sua mole e salì
sul sedile posteriore dell’auto che un istante dopo partì. “Non dovresti
parlare così al tuo insegnante, lo sai?” disse Grass in tono di rimprovero,
ma Nero fece come se l’investigatore non avesse parlato. Senza distogliere
lo sguardo dal parabrezza, il giovane cominciò a parlare:”Intanto vestiti,
no?” e gli indicò i vestiti accanto a lui con un cenno del capo. “Allora…
stanotte sono successe ben due cose. La prima, come ben saprai, è che il
Sun Palace è stato fatto saltare in aria, alle tre; di tutta la gente che ci
viveva dentro ne è sopravvissuto solo uno. Poi…”continuò sospirando “un
uomo è andato a schiantarsi con la sua moto contro un palazzo oltre il
Death Bridge. Non sono riusciti ancora a capire chi fosse”. Calò un
silenzio insopportabile, rotto dal rombo del motore dell’auto. Grass
osservò il cielo dal finestrino, mentre si grattava il naso grasso e grosso:
l’oscurità piombava sulla città e la nebbia si infittiva. Lentamente, si
cominciò a vedere sempre più gente per la strada e Nero fermò la
macchina: erano arrivati a Sun Square. Nella grande piazza circolare
incombeva il caos: gente che piangeva e urlava, mentre i vigili del fuoco
cercavano ancora di domare le fiamme. Il suolo era costellato di lenzuola
sotto le quali si delineavano forme umane: erano i cadaveri che erano
riusciti a recuperare. Il grattacielo era ridotto ad un cumulo di macerie
collassate su loro stesse, ancora in fiamme. “Qui c’è qualcosa che non
va…” disse tra sé e sé Grass. “Ci sono i vigili del fuoco…c’è
l’ambulanza…cosa manca…?”. Fece un saltello per scendere dall’auto, ma
scivolò e cadde a terra; mentre tentava di rialzarsi da terra, squillò il
cellulare di Nero che rispose in un istante:”Si, sono io, cosa c’è?
Uhm…si…bene” e riattaccò. Si rivolse a Grass:”Scusa Hermann, ma ho
una questione urgente da sbrigare…Ci vediamo dopo” e partì in quarta. Il
detective si affrettò a raggiungere la tenda dei vigili del fuoco,
inciampando diverse volte; ma quando raggiunse l’ingresso, i due uomini
di guardia non lo fecero passare, neanche quando disse che se l’avessero
fatto passare avrebbe offerto loro un gelato (a Grass sembrava una
proposta ragionevole…). Si allontanò, ma venne immediatamente attratto
da un’esplosione proveniente dalle rovine del palazzo. In quel momento,
dalla tenda uscirono due uomini: uno era il signor Floreus, il comandante
dei vigili del fuoco, inconfondibile per la sua zucca pelata e il fisico
balestrato; l’altro era un uomo alto, dai capelli neri, lunghi e leggermente
mossi e dal vestito poteva sembrare un grande imprenditore. I due
osservarono la scena qualche secondo, poi l’uomo con i capelli neri corse
al di là della piazza, sulla strada a destra del palazzo. “Ma chi era
quell’uomo?” si chiese l’investigatore. Grass sapeva che lì non avrebbe
trovato nulla: tutta la zona circostante era recintata e gran parte del resto
della piazza era coperta dalle lenzuola. Cosa avrebbe potuto fare?
Beh…forse sarebbe stato meglio andare in centro. Visto che era rimasto a
piedi, Grass fu costretto a dirigersi verso il municipio camminando; il caos
andava via via diradandosi e presto la strada divenne di nuovo deserta. La
nebbiolina spettrale non accennava a sparire ed era ancora forte la puzza
emanata dalla colonna di fumo. Dato che si annoiava a camminare, Grass
decise di
distrarsi facendo il punto della situazione.
“Allora…Un’esplosione, uno schianto, decine di morti…Il capitano si
rifiuta di parlare con la gente… L’uomo dai capelli lunghi…esplosioni che
continuano…Tutto questo non ha senso…però sono più che convinto che
tutto questo è collegato…”.Mentre pensava ciò, tirò un calcio a qualcosa
che, a primo impatto, gli sembrò una pietra; poi la sua attenzione venne
attirata da quell’oggetto scintillante. Grass la afferrò: era una spilla dorata
raffigurante un ingranaggio e sul retro vi era una didascalia:”Industrie
HALL, dove tutto è realizzabile”. Grass si chiese subito cosa ci facesse
quella spilla lì se le industrie Hall erano chiuse da dieci anni. Presto si
accorse di aver preso la strada sbagliata: era dall’altro lato della città, al
Death Bridge. Scorse nella nebbiolina un gruppetto di persone dalla parte
opposta del ponte e si ricordò che Nero gli aveva accennato allo schianto
di un uomo con la sua moto. Si avvicinò, facendosi strada fra la piccola
folla e vide la lucente carrozzeria di una moto distrutta sulle cui fiancate si
poteva intravedere una scritta: Fenrir. E sotto si vedeva inciso il nome di
un uomo:Adam. Il corpo del motociclista era stato probabilmente
trasportato altrove, ma le tracce di sangue si vedevano ancora sulla strada;
ma non c’era alcun segno di frenata. Fenrir… Adam… Industrie
Hall…Grass sentì di avere uno dei suoi colpi di genio. Aveva risolto il
mistero dello schianto. “Ora devo capire cosa c’entra tutti questo con
l’esplosione” disse tra sé e sé. Tutto ad un tratto sentì una donna
esclamare.”Ma dov’è la polizia quando serve!?”, ebbe un secondo lampo
di genio. Era così ovvio… mancava la polizia! In città non si vedeva un
poliziotto! Doveva raggiungere il commissariato, ma non poteva fare più
di tanto: due ore prima si era separato da Nero e, da quel momento, era
come se lui si fosse volatilizzato. Adesso doveva andare sul serio in centro,
nel più breve tempo possibile: aveva bisogno di incontrare il sindaco, Rob
Shaklebolt. Erano quasi le undici del mattino, ma sembrava essere tardo
pomeriggio a causa dell’ombra generata dalle grandi nubi di fumo. Grass
cercava di fare il più velocemente possibile: doveva andare alla centrale di
polizia e poi avvisare il sindaco. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva
ad andare più velocemente. I grandi grattacieli occupavano le vie già buie
dove la gente cominciava a sbucare dalle porte e l’intera città ricominciava
a prendere vita. Dopo qualche chilometro, il detective riuscì finalmente a
raggiungere Privet Drive, dove aveva sede la centrale di polizia. Entrò di
corsa, ma non vi trovò nessuno: c’era solo un agente, seduto sul divano,
che leggeva il giornale. Grass conosceva quell’agente, Henry Ionas, il suo
vicino di casa. “Henry!” esclamò Grass,rivelando il fiatone per la corsa
che aveva fatto, “dove sono gli altri?”. “Altri chi, signore? Intende gli altri
agenti? Beh, sono tutti nella zona malfamata della città…A quanto pare, la
malavita è uscita allo scoperto! Un uomo, che è voluto rimanere anonimo,
ha rivelato il loro nascondiglio stamattina, verso le sette…” Henry staccò
gli occhi dal giornale e vide l’investigatore affannato. Facendo uno sforzo
enorme, Grass aprì di nuovo bocca:”Henry, avrei bisogno di un favore…”.
Un minuto dopo un’auto della polizia sfrecciava verso la piazza centrale,
trasportando Grass e l’agente Jonas. Con una sgommata tremenda, l’auto si
fermò proprio davanti alla statua del fondatore della città. Sulle scale che
portavano all’ingresso del grande municipio scuro, l’edificio più vecchio
della città conosciuto come Palazzo d’Ossidiana, si stava raccogliendo
molta gente, formando una specie di ring al centro. Grass scese dall’auto
più velocemente possibile, ma salendo le scale inciampò un’altra volta. Si
rialzò subito e si fece strada, deciso, verso il bordo del ring. La gente era
bloccata da una ventina di uomini ognuno dei quali era armato di mitra; al
centro del cerchio, c’era la figura snella, occhialuta e vestita per bene del
sindaco Rob Shaklebolt e, di fronte a lui, c’era lo stesso uomo che aveva
visto in compagnia del capitano dei vigili del fuoco a Sun Square, con il
braccio destro teso e una rivoltella puntata verso Shaklebolt. Dal limite del
ring, dove era riuscito a mettersi Grass, i lineamenti dell’uomo erano più
marcati che mai; i suoi capelli lunghi erano trasportati dal vento e i suoi
occhiali da sole e i suoi vestiti neri gli davano un’aria cupa. Regnava il
silenzio; si sentiva la tensione nell’aria. “Hall” esordì Rob, rompendo il
silenzio. “Blake Hall. E così ci sei riuscito, eh? Ti sei vendicato. E adesso
cosa farai? Mi sparerai?”. Sul volto del sindaco c’era una smorfia che
sembrava un sorriso di sfida. Hall sorrise con aria soddisfatta. Eccolo:
l’ultimo tassello. Ciò che Grass aveva cercato di ricordare: perché le
industrie Hall avevano chiuso i battenti e, sentendo il nome del
proprietario di quelle industrie, la soluzione gli fu praticamente davanti.
Cercò di avvicinarsi di più al centro dello scontro, ma uno degli uomini gli
puntò il mitra contro, urlando qualcosa di simile a “Fermo o ti buco lo
stomaco!”; potè soltanto tornare indietro. Intanto Blake cominciò a parlare.
“Ne sei sicuro? Non avrei più alcuna utilità a lasciarti in vita. Mi sono
vendicato? Oh, no, la mia non è una vendetta; sto solo per portarti via la
tua amata città e, se mi va, anche la tua vita, dopo che tu mi hai portato via
tutto quanto. Mi hai mandato sul lastrico, mi hai tolto la MIA vita…e
adesso potrò portarti via la tua!”. Detto ciò esplose in una risata isterica
che echeggiò tutt’intorno. “Fossi in te, non lo farei” disse Rob. “Devo
ammetterlo, un piano ben congegnato, allontanare la polizia, attirarmi fuori
del Palazzo d’Ossidiana e uccidermi. Ma la polizia non tarderà ad
arrivare…e tu rimarrai fregato”. Un sorriso beffardo era ancora stampato
sul suo viso. Hall cominciò a ridere. “Quanto sei stupido…non sarò io ad
ucciderti, né tanto meno succederà ora. Questo è soltanto l’inizio dell’atto
finale…”. Mentre parlava, alzò la pistola verso il cielo e sparò un colpo;
un attimo dopo, Hall si fece strada fra la folla, ancora trattenuta dagli
uomini armati, salì su una limousine scura e partì, verso il Death Bridge.
Grass riuscì a liberarsi dalla morsa degli uomini armati, ma cadde da uno
scalino e rotolò fino ai piedi della scalinata, dove finì di nuovo quasi sotto
l’auto di Nero, che era arrivato un attimo prima. “Sali, presto! Dobbiamo
seguirlo!”. Grass non se lo fece ripetere: salì sull’auto mentre questa era
già in movimento. Grass si rivolse a Nero:”Ma dove sei stato? Tre ore in
giro per la città…Alla faccia dell’impegno!”. Il ragazzo aveva un volto
pallido, non guardò neanche il suo maestro. Sfrecciarono per le strade,
attraversando la città e raggiungendo il Death Bridge. “Abbiamo fatto la
fine del topo in trappola!” esclamò Grass dopo aver superato il ponte
accorgendosi che quest’ultimo era esploso. Qui si accorse che una seconda
auto si era lanciata all’inseguimento: un’auto della polizia. Dopodichè,
intuendo ciò che sarebbe successo, prese il cellulare di Nero dal
portaoggetti, fece qualcosa con i tasti e lo ripose. Nero non si accorse di
nulla. Erano entrati nella zona malfamata. Seguirono la limousine in un
vicolo e poi la raggiunsero in un grande piazzale; la limousine era ferma e
si fermarono anche loro. Hall era in piedi al centro del piazzale. Grass
scese dall’auto con insolita grazia e si posizionò davanti a lui. “Fine dei
giochi, Hall!” esclamò il detective soddisfatto. “Io non direi…” disse una
voce dietro di lui. Nero gli puntava una pistola contro la schiena. “Fermi
tutti!” dissero all’unisono altre due voci; l’agente Jonas puntava una
pistola contro Nero e Rob era dietro di lui. “Nero…immaginavo che Hall
avesse un braccio destro…Proprio tu, che ti eri sottratto alla tua vita da
delinquente, sei tornato a farne parte? Tu, Nero Hall, mi hai deluso!”.
Grass mise una nota di tristezza in queste parole, ma dal suo tono non
nascondeva che se l’aspettasse. Blake esplose in un’altra risata isterica.
“Fine dei giochi, Grass! Sei un uomo morto! Venite, ragazzi!”. Da dietro
la limousine sbucarono una decina di uomini armati di mitra; m in quello
stesso momento, dai viottoli, comparvero frotte di poliziotti e puntavano
tutti le loro pistole contro il gruppo armato di mitra. Blake ebbe
un’espressione di sorpresa e, per la prima volta, il sorriso scomparve dal
suo volto. “Bene, signori” disse Grass “credo che possiamo mettere fine a
tutta questa storia”. Blake era immobile al centro della piazza, serio,e
osservava Grass. Dietro quest’ultimo, Nero puntava ancora la sua pistola
ed era a sua volta tenuto sotto tiro dall’agente Jonas; il sindaco Rob
osservava la scena alla destra di Jonas e una cinquantina di poliziotti
tenevano sotto tiro i malavitosi dietro Blake. Hermann Grass cominciò a
parlare. “Anzitutto, volevo dire che tutti gli avvenimenti di ieri notte sono
collegati. Dunque…come sappiamo, ieri notte il Sun Palace è stato fatto
saltare in aria da diverse cariche esplosive e, poco tempo dopo, un uomo si
è schiantato con la sua moto, un Fenrir, al limite del ponte. Se non fosse
stato per questo inconveniente, sarebbe stato un piano perfetto. Un piano
ben congegnato che serviva solo a distrarre la polizia dal tuo VERO
intento, Blake. Alle due del mattino, Adam Hall, noto scassinatore
professionista, nonché nipote del qui presente Blake, è riuscito ad aprire
una breccia nella sicurezza del Sun Palace, dove avevano alloggio gran
parte degli operai pubblici. Programmate diverse cariche esplosive ad orari
diversi, è uscito dal palazzo ed ha atteso il momento dell’innesco.
Probabilmente, quando ha visto il palazzo in fiamme e sentendo le urla
delle vittime, è stato travolto dai sensi di colpa e ha deciso di mettere fine
alla sua vita. Come faccio a sapere che è stato un suicidio? Perché nei
pressi del luogo dell’impatto non ho trovato segni di frenate. Inoltre,
qualche metro prima gli era caduta questa spilla( e mostrò la spilla a tutti
quanti) appartenente solo a chi ha avuto a che fare con le industrie Hall. E
ancora, il modello Fenrir era il più famoso prodotto da quelle industrie e,
sulla moto, sotto il logo era inciso il nome di Adam. Ma serviva che si
pensasse che la malavita aveva fatto tutto questo. Qui entra in gioco il
fratello di Adam: Nero. Alzatosi presto, era andato a testimoniare che era
stata la malavita a organizzare tutto e che questa aveva la sua sede al
centro della zona malfamata. Dopodichè è venuto a prendermi e mi ha
portato a Sun Square. Contemporaneamente Blake entrava in azione:
andava ad accertarsi che la situazione fosse tragica, per poi scappare
all’esplosione successiva, facendo finta di niente col capitano Floreus.
Nero, intanto, preparava la trappola al sindaco radunando la banda e
nascondendola nei pressi del municipio. Due ore dopo, metteva in atto il
vero piano: i poliziotti erano fuori gioco lasciando a Blake tutto il tempo
che gli serviva per entrare in azione. Nero doveva dirigersi al Death Bridge
con Blake, ma non aspettandosi di trovarmi davanti al municipio e, per non
destare sospetti, mi trascina fin qui. Ora, se le mie deduzioni sono esatte, il
sindaco sarebbe dovuto rientrare al municipio per poi saltare in aria con
tutto l’edificio! Dico bene?” “E così hai scoperto tutto, eh? Sono stato
preso con le mani nel sacco. Ero convinto di aver fatto scacco matto…ma
non è stato così. Volevo che colui che, con quell’accusa, mi aveva tolto
tutto, patisse almeno un po’ di ciò che ho sopportato io. Rob
Shaklebolt…la città ha pagato per i tuoi errori!”. Gli occhi di Hall
sembrarono uscire dalle orbite. “Quattro cariche di esplosivo…Ben
quattro, tutte disposte nel Palazzo d’Ossidiana! Il simbolo della tua vita ti
sarebbe crollato addosso!...Mi hai tolto le mie industrie, mi hai tolto la mia
famiglia!!”. Dicendo questo, cadde in ginocchio. Il viso rigato dalle
lacrime era coperto dai lunghi capelli neri. Le nubi, che fino a quel
momento avevano solo minacciato pioggia, cominciarono a versare acqua
su tutti. Dopo un breve silenzio, il sindaco si rivolse ai poliziotti chiedendo
loro di arrestare tutta la banda, poi andò verso Blake al quale, sollevato da
terra da un poliziotto, rivolse uno sguardo colmo di odio. Nero si consegnò
volontariamente a Jonas che lo ammanettò. E mentre li portavano via,
Grass si avvicinò a Blake, tenuto da due agenti. Col suo volto grassoccio
gli rivolse uno sguardo di rimprovero e gli disse:” Per una tua vendetta, hai
ucciso decine di uomini…Si, forse Rob ti ha tolto la famiglia, ma nulla
vale quanto decine di vite umane. Ma questo lo imparerai presto in
carcere”.
Roberto Di Bella
PAURA OMICIDA
Era un pomeriggio d’estate e un gruppo di ragazzi si incontrò in una piazza
per giocare e divertirsi un po’. Arrivati in questa piazza, però, sotto un
albero trovarono il cadavere di un uomo che poteva avere più o meno
trentacinque anni. I ragazzi chiamarono subito la polizia e il pronto
soccorso che giunsero sul luogo dopo pochi minuti. I poliziotti fecero
allontanare tutti i curiosi e interrogarono i ragazzi, mentre i medici
eseguivano un primo esame del corpo: la vittima mostrava due tagli alla
gola e tre coltellate al petto, tutte causate sicuramente da un coltellino
svizzero. Dopo circa mezz’ora dall’arrivo della polizia e del pronto
soccorso, giunse sul luogo del delitto l’investigatore Antonio Maimone, il
migliore investigatore della regione. Subito cominciò ad ispezionare
attentamente tutto ciò che circondava la vittima e, dopo qualche minuto,
l’ispettore Maimone trovò un indizio: l’impronta di una scarpa da donna
molto particolare, con la suola intagliata e il tacco molto sottile, stampata
sulla terra che circondava l’albero sotto il quale era stata trovata la
vittima. Maimone fece interrogare tutti i proprietari di negozi di scarpe per
scoprire chi vendesse quel particolare tipo di calzature. La mattina
seguente venne rintracciato il negozio giusto; l’ispettore chiese alla
proprietaria chi avesse acquistato quelle scarpe e lei rispose:”Beh…se non
ricordo male ne ho vendute due paia, un paio alla signora Barbera e un
paio alla signora Venuti!”. “Ma la signora Barbera è la moglie della
vittima!” esclamò Maimone. “Vittima!?” quasi urlò la negoziante”Ma cosa
è successo ispettore?”. Egli rispose:”Il marito della signora Barbera è stato
trovato morto in una piazza in periferia”. “Oddio!!” esclamò la
donna.Maimone chiese ancora:”Ascolti signora, sa dirmi anche quale
numero di scarpe calzi la signora Barbera?”. La donna rispose:”Si lo
ricordo. Calza il numero 40”. “Grazie, lei è stata molto gentile,
arrivederci” disse Maimone uscendo dal negozio. In strada Maimone,
riflettendo a voce alta, aggiunse:”La signora Barbera calza il numero 40,
mentre le impronte erano un 37-38! Non resta che la signora Venuti!”.
Maimone si diresse subito a casa della signora Venuti che, assillata dal
rimorso e dal senso di colpa, confessò subito all’investigatore di essere lei
l’assassina. “Era il proprietario del supermercato nel quale lavoro e voleva
chiuderlo per aprire una sala giochi. Non potevo restare senza lavoro!”
disse la signora. L’ispettore Maimone chiuse così il caso.
Francesco Formica
UN NATALE PARTICOLARE
Cinque amici di mezza età, di nome Giovanni, Paolo, Luca, Martina e
Sara, un giorno ricevettero un biglietto di invito anonimo per trascorrere le
vacanze di Natale in un castello non molto lontano. I cinque amici ne
discussero un po’, ma non individuarono l’anonimo proprietario del
castello; decisero, comunque, di andare pensando ad una festa a sorpresa o
all’invito di un amico. La mattina del 24 Dicembre 1973, Giovanni, Paolo,
Luca, Martina e Sara, con le loro valige partirono per raggiungere il
castello. Dopo un’oretta di viaggio iniziarono a salire lungo una stradina di
montagna, desolata, ma piena di decorazioni natalizie. Alla fina della
stradina, in cima, trovarono il castello: era tutto illuminato da luci natalizie
e decori bellissimi. I cinque amici aprirono la porta e trovarono una lettera
sul tavolo che diceva:”Tantissimi auguri di buon Natale. Nel castello
troverete molte cose insolite, ma non vi preoccupate!”. Paolo, letta la
lettera, la mise in valigia e non si preoccupò di nulla. Gli amici cercarono
di capire chi potesse averla scritta, ma non giungendo ad una conclusione e
scherzando ringraziarono l’anonimo autore per gli auguri di Natale.
Martina e Sara andarono in cucina per preparare la cena, mentre Giovanni,
Paolo e Luca raggiunsero le stanze del piano superiore con le valige. La
cucina era perfetta, non mancava nulla; allora le due donne decisero il
menu da cucinare per la cena di Natale e, con molto entusiasmo,
prepararono tutto. Gli altri, al piano superiore, perlustrarono tutte le stanze,
tranne una chiusa a chiave. Sistemarono bene le valige e misero tutti regali
in un sacco natalizio, per la sera. Alle nove tutti si sedettero a tavola ed
iniziarono a cenare; mangiarono di tutto e, quando scoccò la mezzanotte,
Luca andò a prendere il sacco dei regali di Natale. Salito al piano
superiore, vide la porta della stanza che non avevano visitato prima
socchiusa e ciò lo inquietò; andò comunque a prendere il sacco dei regali
che però trovò vuoto. Nello stesso istante fu assalito alle spalle da
qualcuno che, con un coltello affilato, lo uccise e lo mise nel sacco.
L’assassino uscì dalla finestra portando con sé il sacco che adesso
conteneva il cadavere di Luca. Dopo un po’ i quattro amici cominciarono a
chiamare Luca per capire dove fosse finito quando sentirono bussare alla
porta d’ingresso. Martina, credendo fosse l’anonimo amico che li aveva
invitati, andò ad aprire la porta, ma dietro l’uscio vi trovò Babbo Natale.
Lo fece entrare e lo invitò a tavola. Babbo Natale non parlò molto e, dopo
averli salutati, prima di andarsene, disse:”Chi di voi tornerà?”. Sara,
colpita da quella frase, lo accompagnò alla porta, ma appena la aprì l’uomo
si dileguò. La donna, stupita, vide davanti all’uscio il sacco dei regali
macchiato di sangue e si accorse subito che conteneva qualcosa. Chiamò
terrorizzata gli altri tre amici. Insieme portarono il sacco dentro e, quando
lo aprirono, trovarono il cadavere di Luca. Allora i quattro amici rimasti,
corsero verso la stanza del primo piano per cercare qualche indizio, ma
una volta arrivati nella camera che prima era chiusa a chiave, videro tutti
regali sparsi sul pavimento. Martina, Sara e Giovanni allora corsero fuori
del castello per salire in macchina e fuggire, ma giunti all’aperto non
videro più l’auto e a terra trovarono un coltello insanguinato,
probabilmente quello che aveva ucciso Luca. Si fecero coraggio e si
chinarono per prenderlo, ma all’improvviso furono abbagliati dai fari della
loro macchina che li stava investendo. Paolo, rimasto dentro, non
sentendoli più si affacciò alla finestra e vide i tre amici schiacciati
dall’auto. Sicuro della sua prossima fine, Paolo si chiuse in bagno e decise
di passare la notte là. La mattina fece chiaro presto e decise
coraggiosamente di uscire dal bagno; guardandosi bene intorno scese le
scale e sul tavolo trovò il pranzo pronto e Babbo Natale seduto lì ad
aspettarlo. In silenzio si sedette alla tavola apparecchiata. Ad un certo
punto ruppe il silenzio e chiese, addolorato, a Babbo Natale il perché di
tutti quei delitti, ma l’uomo non rispose. Paolo, molto preoccupato, rimase
seduto lì, immobile, ma appena Babbo Natale si alzò per dirigersi in
cucina, Paolo si accorse che aveva un coltello sotto la cintura dei
pantaloni. Allora silenziosamente si alzò e fuggì senza voltarsi indietro.
Salì in auto. Allontanandosi, dallo specchietto vide Babbo Natale col
coltello in mano. In quel momento capì tutto: il proprietario del castello,
sotto le sembianze di Babbo Natale, era un crudele assassino seriale. Solo
in seguito seppe che quell’uomo era ricercato nella zona da molti anni per
aver commesso altri atroci delitti.
Gioacchino Foti
L’INDAGINE DI TOM
Si chiamava Tom, ma tutti lo conoscevano come Tom “occhi di ghiaccio”.
Era, come si suol dire, un uomo tutto d’un pezzo; aveva i capelli biondi
lisci, gli occhi grigi profondi e penetranti, da qui il suo soprannome, e
spesso bastava un suo sguardo per far cadere le donne ai suoi piedi. Il viso
era ben scolpito, mancava però d’espressione. Era alto circa un metro e
ottantasette, le sue spalle erano larghe come quelle di un giocatore di
rugby e il resto del corpo faceva invidia ai bronzi di Riace. Portava sempre
un cappello ed un cappotto scuro, di pelle, lungo fino alle caviglie e, nel
taschino interno di questo, aveva sempre un block notes e una penna d’oro,
regalo del padre deceduto non prima, però, di vedere suo figlio diventare
detective. Era un bell’uomo, duro, rigoroso ed estremamente esigente sul
lavoro, ma simpatico e dongiovanni nel tempo libero, disponibile con tutti,
anche se difendeva molto la sua privacy. Come tutte le sere, dopo un paio
di ore trascorse in palestra, Tom era rientrato a casa e, dopo aver fatto una
lunga doccia, si era messo a letto sfinito. Nel cuore della notte lo squillo
del telefonino stroncò il suo sonno: un nuovo caso lo aspettava! Arrivato
sul luogo del delitto si trovò davanti ad un cadavere e gli parve di
riconoscerlo: era Ugo Robert de Santis, dirigente sportivo della squadra di
calcio più forte del campionato, la Lucci, balzato agli onori della cronaca,
la settimana prima, in quanto diventato uno degli uomini più ricchi del
paese grazie all’eredità lasciatagli dal padre deceduto improvvisamente per
un infarto. Indossò i guanti, si chinò sulla vittima e frugò nelle tasche
esterne e poi in quella interna della giacca dell’uomo; lì trovò il telefonino,
fortunatamente scampato ai proiettili che lo avevano ucciso. Scorse
velocemente il registro delle chiamate ricevute, poi quelle effettuate;
annotò alcuni numeri e poi diede il cellulare agli uomini della scientifica
per farlo analizzare. Dopo aver dato disposizioni sul da farsi ai suoi
uomini, andò in centrale: voleva risolvere subito questo caso e tornare al
suo sonno! Estrasse dalla tasca il block notes, guardò gli appunti e chiamò
l’ultimo numero a cui aveva telefonato la vittima: era Fabio Tawone,
vecchia conoscenza del detective, spacciatore, usuraio e sospetto omicida,
proprio u bel tipo! Lo fece convocare alla centrale per interrogarlo e, nel
frattempo, iniziò a delineare il quadro dell’omicidio: usura? droga? Tutte
piste da seguire, così chiamò due suoi uomini e disse loro di indagare sulla
vita privata del defunto: amicizie, frequentazioni, tutto poteva servire a
risolvere presto questo caso. Dopo aver interrogato l’unico sospettato,
Fabio Tawone, per un paio di ore, Tom aveva le idee chiare: la vittima
faceva uso di cocaina e Tawone era il suo fornitore; ora che Ugo Robert de
Santis era diventato ricchissimo, lui lo stava ricattando chiedendogli
un’enorme somma di denaro in cambio del suo silenzio, altrimenti avrebbe
rivelato a tutti il suo segreto. La vittima, inizialmente, aveva pagato, ma
poi le richieste si erano fatte sempre più pesanti, così Ugo aveva dato
appuntamento a Fabio in quel luogo poco frequentato per farlo uccidere,
probabilmente da un sicario che aveva assoldato; solo che qualcosa era
andato storto. Il sicario non si era presentato e, nel corso di un’accesa
discussione che era seguita tra i due, era partito un colpo dalla pistola di
Fabio che aveva ferito Ugo. Lo spacciatore aveva, però, intuito che se lo
avesse lasciato in vita, Ugo avrebbe parlato, così aveva deciso di finirlo,
ma nella fretta di fuggire non aveva avuto la prontezza di guardare nella
tasca interna della giacca della vittima dove c’era il telefonino. Anche
questa notte era volata via, le luci del nuovo giorno illuminavano la stanza
di Tom, un altro criminale era stato assicurato alla giustizia; si alzò dalla
scrivania, guardò fuori e disse tra sé:”Il mondo là fuori è più “pulito”
grazie al nostro lavoro…dopotutto la notte insonne non era stata sprecata!
Alessio Giardina
IL MIO PRIMO CASO:”CHI HA UCCISO LAURA?”
Nel bel mezzo della notte, precisamente alle 4.40, squillò il telefonino.
Risposi un po’ seccato perché stavo dormendo: era la polizia che mi
comunicava che era stato commesso un omicidio vicino al mio quartiere.
Sobbalzai dal letto e mi vestii in fretta per andare immediatamente sul
luogo del delitto. Arrivai lì a piedi. Già c’erano i miei colleghi di lavoro e l
mio aiutante Frenki. Il luogo dell’omicidio era una casa abbandonata alla
fine della strada. Entrai nella casa e vidi il corpo di una ragazza riversa per
terra e una vistosa macchia di sangue. Il corpo lo inviammo subito alla
sezione di medicina legale per farlo esaminare e per sapere la causa della
morte. Guardai nel borsellino della giovane per cercare i documenti e
scoprii che la ragazza si chiamava Laura, aveva trentacinque anni, era alta
un metro e settanta. La segnalazione dell’omicidio l’avevano fatta dei
ragazzi che andavano girando tirando fino a tardi. Fattesi le dieci del
mattino, arrivarono molte persone, curiose di sapere dell’accaduto. Intanto
io con Frenki continuammo a cercare indizi nella casa. Infine trovai nel
giardino un fazzoletto intriso di sangue, allora pensai che Laura si era forse
difesa prima di morire, ferendo l’omicida. Mandai subito il fazzoletto alla
scientifica per avere un riscontro del dna. Mentre andavo a consegnare gli
indizi, incontrai i genitori ed il fidanzato della giovane e chiesi loro se
Laura avesse dei problemi con qualcuno. Loro mi risposero di no, ma notai
che il fidanzato aveva dei graffi su una mano. Mi allontanai e mi recai alla
scientifica. Dai risultati dell’autopsia seppi che Laura era morta a causa di
sei coltellate al petto e sicuramente non era stato un serial killer perché
l’assassino aveva lasciato tante prove sulla scena del delitto. Alle 17.30
andai a parlare con un’amica di Laura, Veronica, che era stata l’ultima
persona con cui aveva parlato al telefono. Le aveva detto di avere tanta
paura perché il fidanzato l’aveva minacciata, ma Veronica non si spiegava
come potesse essere accaduto tutto questo. Il giorno dopo, alle 9.00,
ricevetti i risultai del dna trovato sul fazzoletto e si scoprì facilmente che
corrispondeva al dna del fidanzato. Andai subito a casa del giovane, ma
non lo trovai. Mi resi conto che, sentendosi braccato, stava tentando di
fuggire; con l’aiuto dei miei uomini riuscii a bloccare tutte le vie di fuga,
lo portai in centrale per farlo confessare e così seppi che l’aveva uccisa per
gelosia. L’aveva vista spesso con un altro che poi scoprimmo essere il
cugino della vittima. Lo arrestai.
Fabrizio Iacono
OMICIDIO PER AMORE
Erano ancora le 6,35 quando il telefono squillò: incominciava un’altra
giornata di lavoro. Nella notte era stato commesso un omicidio nei pressi
della spiaggia. Alle 7,05 il commissario Jonson si trovava già sulla scena
del crimine; si avvicinò alla vittima e vide che si trattava di una donna,
giovane, con indosso solo una mogliettina a maniche corte e dei jeans.
Subito cominciò a cercare degli indizi intorno al luogo in cui si era
consumato l’omicidio: tra la sabbia un po’ bagnata c’era un portafogli,
senza soldi, ma che conteneva dei documenti, un’agendina, una patente,
una carta d’identità, che identificava la donna in Marta Tessori, e un
bigliettino che recitava:”Stasera alle 20,30 vediamoci al molo, ho una
sorpresa per te. Fabry”. Che si trattasse di un messaggio mandato
dall’assassino per attirare la vittima nella sua trappola? Dopo avere letto il
bigliettino, il commissario si avvicinò nuovamente alla donna stesa a terra
per osservarne meglio la posizione e subito si rese conto che il corpo era
supino e bagnato fradicio, con una serie di coltellate al petto ed una alla
gola. Allora una cosa incuriosì il commissario: la mancanza, vicino al
corpo, di sangue e l’assenza di particolari segni di trascinamento. Questo
significava che la vittima era stata uccisa lì, ma allora perché il corpo era
bagnato e non c’erano tracce di sangue? Il commissario Jonson pensando
ad alta voce disse: “Se la donna è stata uccisa qui vicino e non ci sono
segni di trascinamento, come è arrivata fin qua?”. “Semplicemente
trasportata dall’alta marea, che ora si è abbassata” rispose l’assistente del
commissario, appena giunto sulla scena del crimine. “Giusta osservazione”
ammise Jonson”questo spiegherebbe il corpo bagnato, il portafogli sporco
di sabbia e l’assenza di sangue”. “Inoltre” aggiunse l’assistente, guardando
attentamente una bustina contenente degli oggetti che uno degli agenti gli
aveva appena consegnato, “l’assassino doveva andare di fretta se ha
dimenticato l’arma del delitto sul molo e anche un portacellulare viola e
blu”. “Lei non smette mai di sorprendermi” disse il commissario al suo
assistente”Non ci resta che cercare questo Fabry”. Nel frattempo, sul luogo
delitto, arrivò una giovane, Giulia, che si presentò come la sorella della
vittima. Alla vista del corpo della ragazza scoppiò in un lungo pianto.
Dopo che si fu un po’ calmata, il commissario Jonson le chiese chi fosse
questo Fabry e perché, eventualmente, avrebbe potuto uccidere la sorella.
La giovane spiegò che Fabry, cioè Fabrizio, era l’ex fidanzato di Marta,
ma che era stato lui a lasciarla, quindi non poteva avere un movente per
commettere l’assassinio. Il commissario le domandò se Marta avesse dei
nemici e la giovane rispose che tutti le volevano bene e che andava
d’accordo con chiunque. Allora il commissario ipotizzò che forse si
trattava di un delitto passionale e chiese a Giulia se fosse a conoscenza di
spasimanti o di una rivale in amore. Lei riflettè a lungo, poi si ricordò del
fatto che sua sorella, qualche tempo prima, le aveva confessato di amare
ancora il suo ex, ma che l’attuale fidanzata di Fabrizio era molto
possessiva e l’aveva perfino minacciata; Marta non aveva creduto alle
minacce e aveva continuato a mandare sms a Fabrizio il quale, spesso, non
le rispondeva, ma una volta l’aveva minacciata di suicidarsi se non
l’avesse lasciato stare così almeno avrebbe ritrovato la pace. Bastò questo
al commissario per trarre delle conclusioni; congedò Giulia e si precipitò
in ufficio dove convocò subito per un interrogatorio Marika, l’attuale
fidanzata di Fabrizio. Appena arrivata in commissariato, la giovane
domandò con tono arrogante:”Cosa volete da me? Ho ben altro da fare che
stare qui a chiacchierare con voi, come dedicarmi al mio fidanzato”.
“Forse è proprio questa tua ossessività che ti ha spinto ad uccidere una
donna, non è vero?” esordì Jonson. Colta di sorpresa, Marika rispose:”Che
cosa? Io avrei ucciso chi? Mi state accusando di qualcosa che non ho
commesso, non avete prove per accusarmi di niente”. “Ah si?” ribattè il
commissario”allora dammi il tuo cellulare e vediamo una cosuccia”.
Jonson afferrò con forza il telefono dalle mani di Marika e prese il
portacellulare trovato sul molo. “Vedi? Entra perfettamente! Un telefono
non si sfila da solo dalla sua custodia, ma se è in corso una colluttazione
allora può capitare che si sfili e che il suo proprietario, forse per la fretta di
gettare in acqua il corpo della vittima, non se ne accorga!”. A quel punto,
la giovane scoppiò in lacrime, ma il commissario continuò:”Perché l’hai
uccisa?Per gelosia?” “No!” sospirò la ragazza. Jonson insistette:”E per
cosa allora? Per paura che Fabrizio tornasse con lei?” “No!” singhiozzò
ancora Marika” lei non la smetteva, io l’aveva avvisata di lasciarlo stare,
invece lei era diventata pazza, ci seguiva, faceva telefonate anonime al
cellulare di Fabrizio, non avevamo più un attimo di pace. Un giorno
Fabrizio ha trovato sul suo comodino delle fotografie che Marta aveva
lasciato mentre lui dormiva e un’altra volta l’ha sorpresa in casa sua
mentre frugava fra le sue cose. Continuava a ripetergli che sarebbe stato
suo per sempre, che l’avrebbe fatto impazzire così come lei era pazza di
lui” “Tutto questo non giustifica ciò che hai fatto” disse amaramente
Jonson. Marika allora aggiunse con un tono quasi sommesso:”Mi dica,
commissario, lei ucciderebbe per salvare una vita? Non ce la facevamo
più. Fabrizio mi aveva detto che si sarebbe ucciso pur di ritrovare la pace.
A quel punto ho dovuto scegliere: o lasciare morire il mio amore o
uccidere lei. Ho scelto di uccidere lei.”. Il commissario le rispose:”Tu hai
fatto la tua scelta: hai preferito uccidere piuttosto che denunciare. E’ per
questo che pagherai”.
Fabio Impalà
LA MORTE IN VACANZA
Nel bel mezzo d’agosto, quando l’isola di Lipari era piena di turisti,
accadde un fatto molto grave. Tra tutta quella folla si trovava la famiglia
Bartolone di Milano che aveva affittato una casa per trascorrere le vacanze
estive dopo che, per motivi di lavoro, si era trasferita a Messina. Un giorno
la signora Rosa Bartolone, tornando a casa dopo la mattinata trascorsa al
mare, trovò il marito Francesco morto. Chiamò subito i carabinieri che
contattarono un detective molto bravo e specializzato in casi come questo.
Egli si fece spiegare la situazione e, dopo aver riempito di informazioni le
pagine del suo blocco, cominciò ad indagare. Pose delle domande ai figli
della vittima,Cristina e Luigi, che ,tra le altre cose, gli raccontarono un
episodio risalente al periodo in cui vivevano a Milano. Il padre, operaio
presso un’azienda che lavorava marmi, un giorno ebbe un incidente sul
lavoro: dal camioncino che guidava era caduto un blocco di marmo
causando la morte di un collega, Mario. Aveva subito una pesante
condanna pecuniaria e, dispiaciuto, si era anche licenziato. Il detective,
ascoltata questa storia, capì che occorreva rintracciare la famiglia di Mario
e, quasi subito, scoprì che anch’essa si trovava a Lipari. Dopo che il
detective riunì la famiglia, li portò tutti in caserma per far loro delle
domande. Apparve immediatamente chiaro che le due famiglie erano in
aperto conflitto e che vi era ancora una causa in corso. Esaminando la casa
delle vacanze della vittima gli agenti avevano prelevato delle impronte sul
tavolino nel salone. Il detective prese le impronte a tutti i familiari di
Mario e, dalla comparazione, emerse che appartenevano al fratello
dell’uomo morto nell’incidente a Milano. L’uomo venne fermato, mentre
proseguivano le ricerche di tracce nella casa dei Bartolone. Così braccato,
il fratello di Mario confessò: era successo tutto il terzo giorno di vacanza
della famiglia Bartolone quando l’accusato, volendo vendicare il suo
familiare, era entrato in casa dei Bartolone la cui porta d’ingresso era
socchiusa perché Francesco stava per uscire. L’assassino aveva afferrato
un coltello da cucina e lo aveva colpito alla schiena sette volte. Dopo la
confessione tutti andarono via dalla caserma molto tristi. Il caso era risolto.
Alessandro Isgrò
ASSASSINIO SUL FIUME
Il detective Tom era un investigatore molto noto per aver risolto casi
estremamente complessi. Stanco per il troppo lavoro, decise di trascorrere
un fine settimana al suo paese di origine dai genitori. Sceso alla stazione,
prese un taxi per recarsi a casa dei suoi. Rimase sbalordito: era da anni che
non tornava a casa e vide un paesaggio molto diverso da come lo
ricordava. Mentre osservava tutto dal finestrino del taxi, la sua attenzione
fu attirata dalla vista di una ragazza che correva verso la strada chiedendo
aiuto. Di scatto fece fermare il taxi e scese velocemente dall’auto correndo
verso la ragazza tremante chiedendole cosa fosse successo. La giovane,
che disse di chiamarsi Martina, gli riferì che aveva visto un cadavere
presso la riva del fiume e un uomo che fuggiva. Tom si fece accompagnare
sul posto e disse al tassista di chiamare i carabinieri. Arrivato al fiume,
vide un uomo riverso in terra con la testa tumefatta e insanguinata.
Immediatamente arrivarono i carabinieri che chiesero a Tom di spostarsi e
non toccare nulla. Tom allora mostrò il suo distintivo al comandante dei
carabinieri che subito riconobbe l’abile detective. Esaminato il corpo, non
trovarono nessun documento per poterlo identificare. Tom, intanto,
ricordando che i suoi genitori lo stavano aspettando, chiese ad uno dei
carabinieri di accompagnarlo . Giunto a casa, suo padre e sua madre lo
abbracciarono forte, contenti di rivederlo, ma Tom, spiegato ai suoi quanto
accaduto durante il tragitto, li salutò nuovamente per tornare sul luogo del
delitto. Lì cominciò a guardarsi intorno per cercare qualche indizio e .
all’improvviso, si accorse che qualcosa luccicava sotto i raggi del sole:
dietro c’era un cespuglio un bracciale d’ oro con incisa sopra una M.
Subito gli tornò in mente che la ragazza, poco prima, gli aveva detto di
chiamarsi Martina, così cominciarono a sorgergli dei dubbi sull’innocenza
della giovane. Intanto in caserma avevano scoperto l’identità del
cadavere: si trattava di un commerciante romano che, da un po’ di tempo,
tutti i fine settimana li trascorreva in un albergo del paese. Tom scoprì che
la ragazza aveva lavorato presso gli uffici del commerciante così i sospetti
si infittirono; qualcuno, in paese, mormorava anche di averli visti insieme
più di una volta. Raccogliendo altre informazioni, seppe da una donna
che, quel giorno, li aveva visti litigare in albergo e che poi erano usciti
insieme. Tom non ebbe più dubbi: era stata lei ad uccidere l’uomo, così
andò dal commissario e gli spiegò tutto. La giovane fu arrestata e, dopo
due ore di interrogatorio, confessò l’omicidio spiegando che l’aveva ucciso
perché voleva lasciarla per un ‘altra donna. Tom tornò dai suoi genitori,
ma solo per risalutarli: la sua piccola vacanza era già finita.
Nunzio Isgrò
IL MAGGIORDOMO
Presso una nobile dimora, un grande palazzo ai piedi del Monte Bianco,
avvenne un omicidio: fu ucciso il maggiordomo che, per tanti anni, aveva
servito la famiglia che ci viveva. Questa era composta dal conte, la moglie
e due figli di circa trent’anni, un maschio ed una femmina. Il conte si
rivolse subito all’investigatore Colombo, un uomo molto silenzioso che
amava lavorare in solitudine, ma che era il migliore in questo campo. Egli,
osservando il corpo del maggiordomo, capì che era stato ucciso con
un’arma da taglio, più precisamente un coltello da cucina. Ne dedusse che
l’assassino doveva aver nascosto l’arma nuovamente in cucina e
perlustrandola ne ebbe conferma in quanto trovò il coltello ancora sporco
di sangue. Tra i vari indizi che rintracciò sparsi per la casa, uno lo colpì in
modo particolare: si trattava di un braccialetto d’oro che era stato
rinvenuto non lontano dalla scena del crimine. L’investigatore intuì allora
che l’assassino doveva essere sicuramente la figlia del conte. Decise di
interrogarla e la ragazza, quasi immediatamente, confessò di essere lei la
colpevole: aveva scoperto che il maggiordomo era l’amante di sua madre e
non voleva che il padre prima o pio lo scoprisse. Colombo risolse così il
suo caso.
Domenico Maestrale
UN CASO PER BUSH
Il commissario William Bush ed il suo braccio destro Brian Jones vennero
chiamati per risolvere un nuovo caso. Si diressero subito sul luogo del
delitto. Arrivati, il commissario ed il suo assistente, videro il corpo di un
uomo riverso in terra con dei segni inequivocabili sul collo; subito
interrogarono i presenti al momento del dell’omicidio, ma non trovandoli
molto convincenti, li portarono in caserma per risentirli con più calma.
Ritornando sulla scena del crimine, Jones, guardandosi intorno, trovò
parecchi indizi; quindi chiamò William e il commissario di recò
esattamente nel punto in cui era stata trovata la vittima e da lì raggiunse,
poi, lo scantinato dove trovò, tra mucchi di robaccia accatastata, un filo
che gli ricordò i segni sul collo dell’uomo ucciso che facevano pensare ad
uno strangolamento. William incontrò, poi, la moglie della vittima e la
portò con sé in caserma per interrogarla. Dalla conversazione con la donna
ne ricavò un senso di inadeguatezza perché le sue parole non lo
convincevano. Il commissario, allora, chiamò gli agenti del Ris e con loro
ritornò ancora sul luogo del delitto dove, dopo attente ricerche, trovarono
delle impronte che furono mandate in laboratorio per essere analizzate. Si
scoprì presto che coincidevano con quelle della moglie della vittima.
William arrestò la donna e lei confessò. Disse al commissario che suo
marito era molto ricco e lei aveva pensato di godersi l’eredità con un
compagno più giovane. Dopo l’arresto della donna, William tornò a casa e
non ci pensò più.
Francesco Maimone
IL DETECTIVE MORTON
Il commissario Sullivan della polizia di Blackwater chiamò il detective
Morton; era ormai trascorso un mese dalla morte del rinomato avvocato
Colloway e la polizia non era ancora riuscita a smascherare il colpevole. Il
detective, dopo un’ora, si recò alla villa dell’avvocato e iniziò a compiere
i primi rilievi; poco dopo giunse il commissario che vide il detective
rinchiuso nell’armadio e chiese:”Che ci fa lì dentro, Morton?”. “Salve,
commissario!” rispose il detective” Stavo solo verificando se da dentro
l’armadio fosse possibile vedere ciò che accadeva nella stanza”. “Perché
mai?” chiese Sullivan. “Solo ipotesi, commissario” rispose Morton. Il
commissario lo informò sulle indagini che erano già state effettuate: il
corpo dell’avvocato era stato ritrovato nel giardino, con una ferita da taglio
in pancia e un coltello in mano e tutto lasciava, inizialmente, credere ad un
suicidio in quanto l’avvocato era sotto processo per corruzione, ma molti
erano stati subito i dubbi. Anche il detective scartò immediatamente
l’ipotesi del suicidio e volle esaminare i reperti, solo dopo avrebbe
interrogato i familiari ed i conoscenti di Colloway. Quindi Morton salì al
primo piano ed entrò nella stanza che dava sul balcone dal quale
l’avvocato era caduto, finendo in giardino. Spostando una pianta vide che,
dietro di essa, vi era un pacchetto di sigarette con tre mozziconi all’interno
e chiese se la vittima fumasse. Il commissario rispose di no e Morton
consegnò le cicche a Sullivan per farle analizzare. Il giorno, in
commissariato, dopo il detective incontrò i familiari e li interrogò.
Cominciò dal figlio dell’avvocato, l’ingegnere Mark, sposato con due figli.
Morton gli chiese:”Dove si trovava al momento della morte
dell’avvocato?”. L’uomo rispose:”Ero in viaggio per andare a vedere un
terreno per una nuova costruzione”. “Bene, quindi lei era fuori
città”commentò il detective. “Si, esattamente” ribadì l’ingegnere. Morton
continuò:”Qualcuno può confermarlo?”. Il figlio dell’avvocato rispose:”Si,
mia moglie era con me”. Morton proseguì:”Suo padre era sotto processo,
giusto?”. “Si, ma questo cosa c’entra?” chiese l’uomo. Morton spiegò:”Noi
avevamo pensato inizialmente che si trattasse di un suicidio, ma le indagini
ci hanno confermato il contrario. Lei sa se suo padre aveva qualche
controversia con qualcuno?”. L’ingegnere rispose:”Non lo so, perché?”
Morton disse:”Perché forse a causa di questa rivalità suo padre ha avuto un
faccia a faccia violento con qualcuno e ci è scappato il morto”. Il figlio di
Colloway concluse:”Io non so niente di nessuna controversia, mi
dispiace”. Morton disse:”Va bene, grazie, lei per il momento può andare;
arrivederci e veda di non lasciare la città, per ora”. “Bene, arrivederci”
salutò l’ingegnere. Andandosene, questi, fece cadere per sbaglio un
pacchetto di sigarette e non se ne accorse; il detective lo prese e vide che
era della stessa marca di quello ritrovato nella stanza del delitto. Morton,
successivamente, interrogò la moglie dell’ingegnere, la signora Jannette.
Subito le chiese:”Lei conferma che suo marito era fuori città il giorno della
morte dell’avvocato Colloway?”. “Si, ero con lui” rispose la donna.
Morton aggiunse:”Lei lavora?”. “No” ammise lei. “Quindi lei, le giornate
le trascorre a casa?” chiese ancora Morton”. “Si” confermò Jannette. “Va
bene, può andare,grazie” salutò il detective; poi aggiunse:”Ah, un’ultima
cosa: suo marito fuma?”. “Si” rispose lei un po’ stupita” ma solo quando è
nervoso, perché?”. Morton, porgendole il pacchetto di sigarette che era
caduto prima all’ingegnere, rispose:”Allora gli dia queste, sono le sue, gli
sono cadute poco fa”. La donna andò via. Il detective, finito il lavoro per
quel giorno, tornò a casa, ma durante il tragitto passò dalla villa posta sotto
sequestro, nella quale era avvenuto il delitto e vide una luce accesa; si
guardò intorno per vedere se ci fossero auto nei paraggi, ma non ne vide,
allora decise di fermarsi e andare a controllare. Entrato in casa, trovò tutte
le altre luci spente; solo la stanza del delitto era illuminata, ma trovò tutto
in ordine. Diede ancora un’occhiata alla stanza e trovò una lettera in cui
l’avvocato scriveva ad un certo Jack Colloway che, nel suo testamento,
avrebbe lasciato tutto a suo nipote Max Colloway. Il detective prese la
lettera e se ne andò a casa. L’indomani Morton fece una ricerca su Jack
Colloway e scoprì che era il fratello dell’avvocato. Poco dopo andò a casa
di quest’ultimo, poco fuori città. Arrivato, fu accolto da Max, il figlio di
Jack che non era in casa,e che era l’erede citato nella lettera al quale
Morton fece subito alcune domande: gli chiese se sapesse il motivo per il
quale l’avvocato avrebbe lasciato tutto a lui e non al figlio e Max rispose
che tra Colloway e il figlio non c’era mai stato un buon rapporto. Morton
gli chiese anche se fosse a conoscenza del fatto che Mark, il giorno
dell’omicidio, si trovava fuori città e il giovane rispose di si. Dal momento
che Jack Colloway non rientrava, se ne andò. Morton cominciava a
formulare dei sospetti e si stava facendo un’idea della vicenda, ma aveva
bisogno di qualche prova. Mentre andava in ufficio, Morton si fermò alla
casa dell’avvocato ed entrò ancora nella stanza del delitto per cercare
qualche altro indizio. Rovistando, gli cadde dal taschino la penna che andò
a finire sotto la scrivania; quando si chinò per prenderla, si accorse che lì
sotto c’era inciso sul legno il nome di Max. A questo punto il detective
non ebbe quasi più dubbi e si precipitò al commissariato dove Sullivan gli
riferì di avere scoperto che Mark aveva dei debiti; insieme cercarono di
ricostruire la vicenda per vedere se era tutto chiaro. Nel frattempo
arrivarono i risultati delle analisi dei mozziconi di sigarette ritrovati al
primo sopralluogo: le impronte digitali e i campioni di saliva
corrispondevano a quelli di Mark Colloway. Il detective pensò allora a
quello che gli aveva detto la moglie di Mark, cioè che il marito fumava
soltanto quando era nervoso. Allora tutto fu chiaro, Max e Mark Colloway
con la moglie furono portati in caserma e, dopo ore di interrogatorio , i tre
confessarono tutto e fu possibile ricostruire la vicenda: Max e Mark si
erano presentati a casa dell’avvocato con la semplice scusa di una visita.
Dopo aver preso il discorso del testamento, i due fecero finta di arrabbiarsi
e tentarono di strozzarlo, ma l’avvocato era riuscito a scappare e si era
chiuso in una camera mettendosi sotto la scrivania, sulla quale aveva
inciso il nome di Max. Aveva cercato di chiamare la polizia, ma i due
erano riusciti ad entrare e Mark lo aveva accoltellato lasciando il coltello,
sul quale non furono trovate tracce perché Mark aveva indossato i guanti,
in mano alla vittima che, barcollando era caduta dal balcone. Nel
frattempo era arrivata la moglie di Mark che li aveva aiutati a sistemare
tutti per far credere al suicidio. Mark, subito dopo, nervoso com’era, aveva
fumato velocemente le ultime tre sigarette e aveva messo i mozziconi nel
pacchetto per non lasciare tracce, ma il pacchetto gli era caduto ed era
andato a finire dietro la pianta senza che lui se ne accorgesse. I tre si erano
poi messi d’accordo su cosa dire negli interrogatori e, successivamente, si
sarebbero divisi l’eredità. Il detective chiese perché non avessero aspettato
la morte “naturale” dell’avvocato e Mark spiegò che i suoi debiti erano
urgenti. Tutti e tre furono arrestati. Sullivan ringraziò Morton.
Luigi Milazzo
IL MOLESTATORE
Il detective Roger ed il suo fido pappagallo Paul erano gli individui più
famosi di Apple. Venivano chiamati da tutti per risolvere ogni caso. Un
giorno si recò da loro una signora molto spaventata perché c’era qualcuno
che le mandava strane lettere. Roger si mise subito alla ricerca di tracce,
incominciando ad esaminare le lettere che erano piene di errori commessi
dal molestatore ed anche parecchie cancellature. Ad un certo punto arrivò
un’altra missiva. La signora vide dalla finestra un uomo che scappava e lo
inseguì fino ad una via dove quello sparì. Chiamò Roger che capì subito
che il colpevole era il cugino della signora sia per le cancellature, in
quanto l’uomo non era mai andato a scuola e le uniche cose che sapeva
gliele aveva insegnate la cugina, ovvero la signora, sia per il fatto che in
quella via abitava solo lui in quel periodo, in quanto gli altri appartamenti
erano abitati solo in estate. Roger si diresse verso l’abitazione del
molestatore, gli bussò e l’uomo gli sembrò quasi sollevato al pensiero di
confessare. Spiegò che inseguiva la cugina per vendetta dato che lei, pochi
anni prima, lo aveva fatto divorziare dalla moglie. Alla fine il detective
Roger e il suo fidato pappagallo Paul, capita la situazione, se ne tronarono
a casa a prendere una bella tazza di the.
Federico Mirabile
CONAN E IL SERIAL KILLER
Conan era il nome di un detective che viveva vicino Catania ed era
conosciuto da tante persone perché svolgeva il suo lavoro sempre bene.
Era alto un metro e ottanta, con una capigliatura folta e riccioluta; i capelli
erano neri così come gli occhi, sovrastati da sopracciglia molto folte.
Aveva una pelle rugosa per via di alcune cicatrici causate da colluttazioni
con delinquenti. Aveva un fisico robusto, ma molto agile. Il suo hobby
consisteva nel comprendere la psicologia umana. Conan aveva una
caratteristica particolare che lo contraddistingueva e cioè aveva una
capacità molto acuta di osservare. La sua tecnica si basava sull’evidenza
dei fatti e sugli indizi che trovava. Un giorno gli fu assegnato un caso:
molte persone erano scomparse senza un motivo. Nonostante le indagini
accurate, trascorse molto tempo senza che il detective riuscisse a
risolverlo. Un giorno Conan venne a sapere che, in una casa abbandonata,
erano stati trovati molti corpi senza vita. L’orrore crebbe quando si scoprì
che a tutte quelle persone erano stati sottratti organi vitali e che su ogni
corpo era stato lasciato un simbolo, quasi una sfida lanciata al detective.
Conan capì che si trattava di un serial killer, ma ciò che non sapeva ancora
era che l’assassino aveva preso ultimamente come bersaglio un’amica del
detective. Una sera il detective e la ragazza avevano deciso di cenare
insieme: Conan si recò sotto casa della sua giovane amica e, mentre
aspettava che scendesse, notò una persona che stava disegnando sul muro
un simbolo particolare. Conan osservò la scena di nascosto e poi decise di
seguire il serial killer per vedere cosa avesse intenzione di fare. Lo vide
entrare in casa della sua amica, allora si fiondò nell’appartamento prima
che l’uomo potesse farle del male e per arrestarlo, ma quello riuscì a
fuggire. Conan lo inseguì fino in cima ad un palazzo dove il detective
invitò l’assassino a consegnarsi. L’uomo però reagì aggredendo Conan, ma
durante la lotta il serial killer inciampò e cadde dal terrazzo dell’edificio
mettendo fine al tormento di Conan.
Filippo Pugliesi
IL SUICIDA
A Catania, una provincia della Sicilia, viveva un noto investigatore
privato. Il suo nome era Giovanni Micale, aveva ventisette anni, occhi
verdi, capelli castani ed era abbastanza alto. Era molto sicuro di sé e, non a
caso, era divenuto famoso per il suo acume e la sua prontezza
nell’intervenire. Era nato a Sant’Agata di Militello, dove ancora vivevano i
suoi genitori. Un sabato pomeriggio, Giovanni decise di andare a trovare i
suoi familiari. Arrivato tardi in un paesino chiamato Scala Torregrotta,
decise di fermarsi a dormire là perché in quel paesino c’era un albergo
dove prese una camera. La mattina seguente si alzò di buon’ora e decise di
mettersi in viaggio. All’uscita dell’albergo, mentre si avviava verso l’auto,
si accorse che qualcuno ne aveva alzato i tergicristalli; si avvicinò all’auto
per abbassarli, quando notò dal riflesso del vetro una corda che sporgeva
da una delle finestre dell’albergo, andò a guardare da vicino e notò un
cadavere nascosto dietro un cespuglio. Giovanni allora chiamò la polizia e
il proprietario dell’albergo. La polizia arrivò in meno di cinque
minuti,Giovanni intanto guardava il cadavere: era un uomo sulla
quarantina con capelli brizzolati e occhi marroni. Il commissario e
Giovanni si conoscevano, erano stati compagni all’accademia di polizia. Il
commissario cominciò ad indagare con l’aiuto di Giovanni che dovette
perciò rimandare la visita ai suoi genitori. Nella stanza della vittima non
c’erano segni di scasso, ciò fece presumere a Giovanni che potesse trattarsi
di suicidio, vista anche la corda appesa alla finestra, ma una cosa che lo
spinse a riflettere era il fatto che la corda era fissata in modo piuttosto
maldestro e che sicuramente non avrebbe retto il peso della vittima. Nella
furono trovati i documenti dell’uomo: si chiamava Aldo Giacobbe ed
aveva quarantuno anni. Il commissario interrogò tutte le persone presenti
nell’albergo,compreso lo staff, ma sembrava che nessuno lo conoscesse.
Giovanni cominciava a dubitare che si trattasse di suicidio. L’indomani
arrivarono gli esiti dell’autopsia dai quali si evinceva che sul collo non
c’erano segni di strangolamento e il corpo non si trovava da subito sul
luogo del ritrovamento, ma che era stato spostato. I dubbi di Giovanni
erano, dunque, fondati perché la corda attaccata in quel modo non avrebbe
retto nessuno. L’autopsia diceva che la vittima era morta per annegamento
e infatti sulla vasca da bagno dell’albergo l’investigatore trovò tracce del
Dna della vittima. Giovanni interrogò nuovamente tutte le persone presenti
nell’albergo e chiese a ognuno il proprio alibi. Alla fine del lunghissimo
interrogatorio solo tre non avevano un buon alibi. Giovanni non escluse
neanche che l’assassino potesse essere giunto da fuori, ma il portiere aveva
affermato di non aver visto entrare nessuno quella sera. Giovanni era
confuso, non riusciva a collegare niente di niente. Volle rivisitare la stanza
con il commissario e nel cestino trovò una lettera indirizzata alla vittima.
Fece controllare le grafie dei tre sospettati e venne fuori che la grafia della
lettera corrispondeva a quella di una sospettata, la signora Visalli. La
donna confessò che lei e la vittima si frequentavano, ma lei lo voleva
lasciare, per questo gli aveva scritto quella lettera, ma gliela aveva lasciata
in camera prima dell’omicidio quando lui non c’era. La signora, dunque,
rimaneva l’unica sospettata. Giovanni però constatò che il movente non
era sufficiente per spiegare l’omicidio perché se la signora Visalli voleva
lasciarlo, non aveva alcun senso ucciderlo. Tutto continuava ad essere in
disordine nella mente del detective e Giovanni cercò di ordinare i pezzi,
quando di colpo si ricordò della dichiarazione del proprietario dell’albergo
che aveva detto che la vittima era un poveraccio. Giovanni interrogò
nuovamente la signora Visalli per averne la conferma e lei disse che in
effetti gli aveva prestato dei soldi perché era in un momento di crisi e
aggiunse che lui non glieli aveva ancora restituiti. Giovanni chiamò il
commissario di polizia ed insieme convocarono il proprietario
dell’albergo. Giovanni lo accusò dell’omicidio spiegando che la vittima
aveva un problema di soldi e lui lo avrebbe ucciso perché non pagava il
conto. Il proprietario dell’albergo negò ogni cosa aggiungendo che non
avevano alcuna prova di quello che affermavano. In effetti non ne avevano
per incriminarlo. Allora Giovanni ed il commissario gli tesero un tranello e
gli dissero che negli ultimi test dell’autopsia avevano trovato le sue
impronte sui vestiti della vittima. Il proprietario, credendo di essere stato
ormai scoperto, confessò che quella sera era andato nella camera della
vittima chiedendogli i soldi; lui si era preparato un bagno e mentre
parlavano la situazione era degenerata così lo aveva annegato nella vasca,
poi lo aveva preso e nascosto sotto un carrello usato per il servizio in
camera e lo aveva nascosto dietro il cespuglio. Poi era tornato nella camera
e aveva legato una corda alla finestra così tutti avrebbero creduto che si
fosse suicidato perché la signora Visalli lo aveva lasciato. Lo portarono in
commissariato e Giovanni ripartì.
Carmelo Quattrocchi
QUELLE VACANZE INVERNALI DA DIMENTICARE
Erano finalmente arrivate le vacanze invernali per la giornalista Patricia
Queen che aveva programmato di trascorrerle in compagnia di sua sorella
Laura. Non le restava che prendere un aereo e andare a Los Angeles.
Arrivata, prese un taxi e raggiunse la casa della sorella: era una
grandissima villa nel cui giardino c’erano alberi e fiori di tutte le specie.
Patricia si accorse immediatamente che era successo qualcosa in quella
villa, infatti trovò sia la polizia sia l’ambulanza e molte persone che
cercavano di scorgere qualcosa per capirne di più. Patricia si avvicinò alla
folla e vide la sorella che piangeva disperatamente; più in là si vedeva
galleggiare nella piscina un corpo d’uomo, sicuramente il fidanzato di
Laura. Finito il trambusto e rimosso il corpo, Patricia potè finalmente
parlare con la sorella e farsi spiegare esattamente ciò che era accaduto in
quella casa. Laura era totalmente sconvolta, ma riuscì a spiegare che quella
mattina aveva deciso di fare spese, ma il suo fidanzato, che si chiamava
Mark, aveva preferito rimanere a casa; quando era tornata Mark era già
morto. Patricia decise di investigare affidandosi al suo fiuto di giornalista.
Parlò con vari poliziotti e osservò le varie prove. Quasi alla fine della sua
vacanza notò un ragazzo che gironzolava sempre da quelle parti,
osservando la casa. Patricia decise di seguirlo e scoprì che il ragazzo
conosceva Mark e che questo aveva un debito con un tipo poco affidabile,
un vero delinquente che aveva mandato qualcuno per ucciderlo. A Patricia
non restò altro da fare che trovare delle prove; per questo decise di
affiancare un poliziotto che seguiva il caso e che probabilmente era
innamorato di lei. Il poliziotto, Charlie, ormai deciso a risolvere il caso,
seguì gli indizi e le dritte che gli aveva dato la giornalista. Infine riuscì ad
ottenere del materiale per incastrare il losco tizio, con i suoi complici, e a
farlo finire in prigione. Patricia salutò Laura e Charlie promettendo loro di
tornare per l’estate. Arrivata a casa aveva già un pezzo da scrivere e
faccende da sbrigare.
Francesco Rizzo
CARTER E IL DELITTO DEL FARO
John Carter viene chiamato da una signora che gli dice di aver visto due
uomini entrare in un faro da cui poi ne è uscito uno solo; la signora dà a
Carter l’indirizzo di casa sua e si accordano per incontrarsi per le 15,30.
Puntuale Carte è a casa della signora Francesca la quale lo guida fino al
faro, un rudere diroccato e ormai disabitato. La porta del faro è vecchia ed
arrugginita e si fa fatica ad aprirla. Appena entrati vedono delle ragnatele
tagliate e impronte di piedi nella polvere. Un indizio porta verso il lato
mare, l’altro verso la scala a chiocciola. Mentre vanno verso la porta che
esce sulla spiaggia, qualcuno apre la porta d’ingresso e la richiude
velocemente dopo aver visto Francesca. Carter decide di far tornare la
donna a casa, mentre lui osserva la forma e le dimensioni delle impronte:
subito si accorge che alcune di esse sono piccole, quindi o di una donna o
di un ragazzo,ma scarta l’idea che Francesca abbia mentito. Uscito in
spiaggia, vede il cadavere di un uomo, sui trenta anni, che veste una strana
maglietta ormai a brandelli, senza alcuna ferita da taglio o arma da fuoco.
Solo la testa è insanguinata per il colpo causato, sicuramente, dalla caduta
dalla cima del faro.Scopre presto che l’uomo è Erik Fringe, l’ex marito di
Francesca. A questo punto tutto fa credere che l’uomo sia stato spinto dalla
donna mentre erano sul faro, ma l’acuta vista di Carter nota delle impronte
di passi cancellate con altra sabbia. Carter scopre anche che l’uomo aveva
già due figli e che molte volte era stato visto litigare con Francesca per
questo motivo. Carter non si spiega però ancora chi abbia aperto la porta
richiudendola alla loro vista e come mai gli indizi verso direzioni diverse.
Il giorno dopo vede che un ragazzo e suo padre stanno pescando dietro il
faro e così scopre che tutte le impronte sono le loro e che era stato il padre
a dirigersi verso il faro, il giorno prima, per prendere le esche. Ecco così
spiegato come mai Francesca aveva visto uscire solo una persona
dall’edificio. Carter si reca allora dalla signora e le chiede di mostrargli il
giardino che usciva sulla scogliera, ma mentre osserva la casa accanto,
nota la recinzione del vicino rotta e del sangue su una sedia. Poi nota altri
brandelli di maglietta sparsi nel giardino e sulla sedia insanguinata trova le
impronte del vicino. Carter capisce così che è stato lui ad uccidere l’ex
marito di Francesca facendo in modo che venisse accusata la donna. Erik
aveva un debito con lui che ancora, dopo diversi mesi, non aveva pagato.
Amareggiato Carter se ne torna a casa.
Gabriele Russo
UN ALTRO CASO PER IL COMMISSARIO MANCUSO
Era la mattina del primo di Settembre, molto calda a Torregrotta, quando il
commissario Antonio fu svegliato bruscamente dallo squillo del telefono.
Preso dal sonno rispose quasi sbadigliando.
-Pronto?
-Si, pronto, parlo con il commissario Antonio Mancuso?
-Si, lei chi è?
-Ah, scusi, non mi sono presentata. Sono Antonietta Cargiuli.
-Mi dica, signora Antonietta, posso fare qualcosa per lei?
-Si, è da due giorni che non vedo anima viva nella casa della mia vicina,
sa, è molto anziana e non vorrei che le fosse accaduto qualcosa.
-Bene, se gentilmente mi indica la via e il numero civico della casa, sarò
da lei fra circa mezz’ora.
-Va bene, allora, via Giacomo Leopardi numero 217.
-Va bene, signora, a più tardi.
Finita la conversazione al telefono il commissario Antonio si preparò per
recarsi all’indirizzo che gli era stato dato dalla signora Antonietta.Arrivato
a destinazione, Antonio venne ricevuto dalla signora Antonietta davanti
alla casa dell’anziana vicina.
-Aspetti, commissario, che prendo le chiavi per aprire.
Il commissario Mancuso, incuriosito al fatto che la signora Antonietta
fosse in possesso di un mazzo di chiavi che appartenevano alla casa della
sua vicina, le chiese:
-Mi scusi, come è entrata in possesso delle chiavi di casa della sua vicina?
-Sa, la signora Maria è molto anziana e non vive nessuno in casa, a parte
lei; mi ha dato queste chiavi in modo che io, tre volte alla settimana, vengo
a farle le pulizie.
-Capisco, e quando sarebbe dovuta andare a fare le pulizie in casa della
signora Maria, perché è così che si chiama, se non ho capito male?
-Si, il suo nome è Maria Antonelli; è rimasta vedova da giovane e non ha
avuto figli, Per quanto riguarda l’altra sua domanda, sarei dovuta andare a
fare le pulizie in casa della signora Maria proprio oggi, ma vedendo
serrande e finestre chiuse, avevo timore ad entrare da sola.
La signora Antonietta con le lacrime agli occhi aggiunse:
-La prego, commissario, entri insieme a me, ho paura!
-Non si preoccupi, apra questa porta così vedremo che cosa è successo.
Quando la porta venne aperta dalla signora Antonietta, il commissario
Antonio vide che all’interno della casa era tutto buio, neanche una luce
accesa. Entrò da solo. Dopo aver indossato i guanti, accese la luce del
corridoio, ma non vide nessuno. Allora si recò nella stanza da letto dove
trovò sdraiata sul pavimento, in una pozza di sangue, il corpo senza vita
della signora Maria. Gli occhi della povera vittima erano spalancati per il
terrore, come se la signora Maria, prima di morire, avesse visto un mostro.
Il commissario cercò subito degli indizi e sul comò trovò un paio di
occhiali da uomo e li mise in un apposito sacchetto. Dopodichè chiamò la
scientifica per fare esaminare il corpo della povera defunta. Finita la
telefonata, il commissario Antonio si recò dalla signora Antonietta per
darle la brutta notizia. Qusta scoppiò subito a piangere. Il commissario,
vista la situazione, chiese alla signora Antonietta:
-Scusi, posso farle delle domande riguardo l’omicidio della signora Maria?
-Si, mi dica.
-Ha notato qualcosa di strano, in questi giorni, ad esempio qualche lite in
cui era coinvolta la signora Maria?
-Si, ho dimenticato di dirglielo. Tre giorni fa, dopo aver finito le pulizie in
casa della signora Maria, me ne andai subito a casa mia, ma mentre stavo
salendo le scale, ho visto arrivare dalla finestra il nipote della signora,
Giovanni De Salvo. Mi è sembrato strano che lui venisse a trovare sua zia,
detto tra noi, commissario, andava soltanto il giorno di Natale per farle gli
auguri. Comunque quel giorno uscì dalla casa della zia, pace all’anima
sua,nervoso, gridando come un pazzo contro la povera donna. Allora io,
credendo che fosse accaduto qualcosa alla signora, corsi subito da lei, ma
la trovai davanti al portone che guardava suo nipote andar via. Le ho
chiesto cosa fosse successo, ma lei mi disse che era tutto a posto e io me
ne tornai a casa mia tranquilla.
-Grazie, signora Antonietta, mi raccomando, si tenga a disposizione.
-Sissignore, sarò sempre a disposizione per lei, signor commissario.
Tornato a casa, Mancuso, trovò un fax della scientifica dal quale apprese
che la povera signora Maria era stata uccisa da due coltellate alla schiena e
una alla nuca. Dopo aver letto il fax, il commissario chiamò l’ispettore
Muarizio De Angelis, suo grande amico, nonché suo collega, che lo
aiutava sempre a risolvere casi di questo genere.
-Pronto?
-Si, pronto. Antonio, come mai non ti sei fatto vedere oggi in
commissariato?E’ successo qualcosa? Mi devo preoccupare?
-No, non ti preoccupare, Maurizio, verrò più tardi in commissariato perché
questa mattina mi ha telefonato una certa Antonietta Cargiuli, dicendomi
che era preoccupata per la sua vicina di casa, Maria Antonelli.
-E allora?Cosa è successo?
-Allora, sono andato da questa signora Antonietta e ho trovato nella casa
della sua vicina il corpo defunto di quest’ultima.
-La scientifica l’hai chiamata?
-Si, l’ho chiamata e ho ricevuto ora i risultati.
-E perché mi hai chiamato visto che hai già i risultati della scientifica?
-Ti ho chiamato perché vorrei che mi facessi una ricerca su un certo
Giovanni De Salvo, mi raccomando, fammela avere per quando arrivo in
commissariato.
-Va bene, mi metto subito all’opera.
-Ciao, grazie, sarò lì tra un’ora circa.
-Ciao Antonio, a più tardi.
Trascorsa un’ora, Antonio arrivò in commissariato dove incontrò
l’ispettore Maurizio. Subito gli chiese:
-Allora, l’hai fatta la ricerca?
-Si, ma chi è questo Giovanni De Salvo?
-E’ il nipote della vittima; mi è stato raccontato dalla signora Antonietta
che circa tre giorni fa ha avuto una lite con sua zia.
-Maria Antonelli, giusto?
-Esatto. Allora, questa ricerca me la dai, si o no?
-Si, si, eccola qua!
Il commissario Antonio, letta la ricerca, scoprì che Giovanni De Salvo era
stato in carcere per un anno a causa di una rapina con scasso. Dopodichè
disse all’ispettore Maurizio:
-Vieni con me, devo fare delle domande alla signora Antonietta.
-Va bene, aspettami in macchina che arrivo.
-Ok, sbrigati!
Saliti in auto, i due si recarono a casa della signora Antonietta. Arrivati,
citofonarono e rispose la signora:
-Si, chi è?
-Sono il commissario Antonio, posso salire?
Ah, lei è, signor commissario, prego salga.
Aperto il portone i due vennero accolti dalla signora Antonietta nella sala
da pranzo. La donna chiese:
-Avete delle domande da farmi, signor commissario?
-Si, volevo sapere se, per caso, Giovanni De Salvo aveva problemi di
debiti, visto che è stato in carcere per un anno a causa di una rapina.
-Ah, l’avete saputo che Giovanni è stato in carcere!Ebbene si, è stato in
carcere proprio perché gli servivano soldi e quindi ha fatto una rapina. Ma
la signora Maria pagò la cauzione e Giovanni uscì dal carcere, ma senza
mai ringraziarla.
-Sa se Giovanni aveva di nuovo dei debiti con qualcuno?
-Mi sembra di si, ne ho sentito parlare in giro, sa qui le voci corrono!
-Capisco, mi saprebbe dire dove abita Giovanni De Salvo?
-Si, abita in via XX Settembre al numero 410.
-Grazie molte, signora Antonietta, spero di non aver disturbato.
-Non si preoccupi, signor commissario,gliel’ho detto che per lei sono
sempre libera, pur di risolvere il caso della povera signora Maria, pace
all’anima sua!
-Arrivederci e grazie di nuovo.
Usciti dalla casa della signora Antonietta, l’ispettore Maurizio si rivolse al
commissario dicendogli:
-A quanto pare abbiamo il colpevole: Giovanni De Salvo!
-Può darsi, ma per scoprirlo è meglio recarci da lui.
Saliti in auto, i due si recarono a casa di Giovanni De Salvo. Citofonarono
e rispose il presunto assassino:
-Si, chi è?
-Sono il commissario Mnacuso, posso entrare?
-Si, prego, commissario, entri.
Entrati, i due vennero accolti da Giovanni il quale disse:
-Suppongo che siete qui per l’omicidio di mia zia, ma se credete che io
c’entri qualcosa, vi sbagliate.
-Stia calmo, non si agiti, voglio farle soltanto qualche domanda.
-Scusi, commissario. Prego, mi faccia queste domande.
-Allora, è vero che lei tre giorni fa ha avuto una lite con sua zia?
-Si, è vero.
-E’ vero che lei in questi ultimi tempi si è indebitato?
-Si, è vero.
-E’ vero che lei ha ucciso sua zia Maria Antonelli perché aveva bisogno di
soldi, ma sua zia non glieli ha dati quando avete avuto quella lite?
Giovanni De Salvo, furibondo e piangendo rispose:
-No! Non è vero! Io non ho ucciso mia zia! Io volevo bene a mia zia! E poi
non avrei avuto nessun motivo per ucciderla; io il mio debito l’ho saldato e
se non ci credete potete andare al bar “Peccati di gola”. Il proprietario è un
mio amico ed è stato lui a prestarmi 1000 Euro per finire di pagare
l’automobile, ma io appena ho potuto glieli ho restituiti ed è stato proprio
quattro giorni prima della lite con mia zia. E adesso andate, sono stanco!
-Va bene, signor Giovanni, ci accerteremo di quello che ci ha detto ora lei.
-Arrivederci, signor commissario; arrivederci, ispettore.
I due si recarono subito al bar “Peccati di gola” dove ebbero la conferma di
quello che aveva detto Giovanni De Salvo. Usciti dal bar, l’ispettore disse
al commissario:
-E adesso siamo di nuovo punto e a capo.
-Non credo, forse abbiamo trovato l’assassino, ma prima…
-Ma prima cosa?
-Prima rechiamoci a casa della signora Maria.
Arrivati, il commissario Antonio forzò la serratura della porta
dell’appartamento. L’ispettore Maurizio, vedendolo all’opera, gli disse:
-Ma sei pazzo? Non abbiamo nessun mandato!
-E zitto per una volta! Devo farlo per risolvere il caso.
Entrati in casa, si recarono nella stanza da letto dove il commissario
Antonio si mise a rovistare ovunque fino a quando trovò dei capelli lunghi
e ricci sul pavimento, sotto un mobile. Disse tra sé:
-Questi non possono essere della signora Maria. Lei aveva i capelli lisci e
corti…La signora Antonietta! E’ lei l’assassina!
L’ispettore Maurizio, vedendo chino per terra, il commissario gli chiese:
-Allora?
-Andiamo dalla signora Antonietta, devo farle delle domande.
-Va bene.
La trovarono nel piazzale davanti alla sua casa che stava pulendo. Con
espressione preoccupata chiese:
-Come mai di nuovo qua?Avete altre domande da farmi?
Il commissario Antonio esclamò:
-Signora Antonietta! Ho trovato dei capelli tali e quali ai suoi sul luogo del
delitto.
-E allora? Facevo sempre le pulizie nella stanza da letto della signora
Maria, può essere che si sono strappati perché si sono impigliati ad una
maniglia del mobile.
-Signora Antonietta, veniamo subito al dunque. Lei ha ucciso la signora
Maria perché voleva più soldi per le pulizie che faceva in casa sua, ma la
signora glieli aveva rifiutati. Poi lei pensò di incolpare il nipote lasciando
degli occhiali da uomo sul comò. Ma io ho scoperto che Giovanni De
Salvo porta solo occhiali da vista.
-E va bene, commissario, ha scoperto tutto.
Il commissario Mancuso e l’ispettore Maurizio chiusero il caso e andarono
a prendere un gelato.
Alessandro Scibilia
IL COMMISSARIO PINCOPALLINO
Era una fredda mattina d’inverno. Il commissario Pincopallino mangiava
una delle sue ciambelle preferite, con la glassa al cioccolato. Tutta quella
calma era sul punto di essere interrotta da una telefonata della signora
Maria che denunciava la scomparsa di suo marito: l’uomo,ormai da ben
due settimane, non telefonava e non si faceva vedere. Per prima cosa il
commissario si fece dire cosa fosse successo in quei giorni e, soprattutto,
se lo scomparso avesse dei nemici. Pochi giorni dopo, il commissario
venne a sapere il nome di un vecchio “conoscente” dell’uomo, lo andò a
cercare a casa sua e, dopo una lunga conversazione, seppe che già da un
po’ di tempo il marito della signora Maria litigava, anche in modo violento
con suo vecchio “amico”. Saputo il nome e l’indirizzo dell’uomo, il
commissario si recò a casa dell’”amico” che, subito, confessò di essere
stato lui a ucciderlo e farlo sparire. Ciò, però, non convinse il commissario.
Come mai aveva confessato subito? E il corpo dov’era? Il commissario
capì che si trattava solo di un mitomane, così tornò a parlare con la signora
Maria. Proprio all’interno della casa della donna, si accorse di una traccia
di sangue e, nonostante le proteste di lei, cominciò a seguirla. Arrivò fino
ad una porta, entrò e scoprì il cadavere! A quel punto chiese alla donna
cosa significasse tutto quello; lei si mise a piangere e si giustificò
dicendo:”Ma lui mi ha tradita!!” Il commissario già non l’ascoltava più.
Tornò alla sua ciambella.
Giuseppe Pio Scibilia
TRADIMENTO E VENDETTA
L’investigatore James Burton fu guidato dal suo assistente sulla scena del
delitto. La vittima, secondo i primi rilievi, non era stata uccisa nel vicolo in
cui era stata trovata, ma vi era stata trasportata dopo. Si trattava di una
donna, capelli biondi, alta circa un metro e settanta, un fisico da modella.
Burton, dopo che gli consegnarono tutte le informazioni raccolte sul posto,
chiamò il suo assistente Nick Adams e gli disse:
-Nick, hai trovato qualcosa di particolare?
-Si, sul cranio della vittima ho visto la ferita che molto probabilmente è
stata la causa del decesso e ho notato che ha una forma strana, come se a
colpirla fosse stato qualcosa di molto duro, un oggetto con stampato sopra
un disegno!
-Ottimo lavoro! Visto che siamo qua cerchiamo di trovare altri indizi.
Dopo un po’ Nick si rivolse all’investigatore:
-Burton, non sono riuscito a trovare altro. Tu hai notato qualcosa?
-La donna faceva quasi sicuramente l’indossatrice.
-Come fai ad esserne così sicuro?
-Guarda sotto le ascelle e sotto il braccio: c’è un’irritazione che si ha, di
solito, quando una persona si sveste e si riveste continuamente.
-Giusto, non ci avevo pensato. Dividiamoci e cerchiamo di scoprire il
posto in cui lavorava.
In città c’erano solo quattro ditte che confezionavano abiti e che li
facevano provare a delle indossatrici prima di consegnarli. Dopo ore di
ricerche, l’investigatore sembrò aver trovato il posto in cui lavorava la
giovane. Entrò nel negozio e, mostrando la foto della vittima, chiese:
-Salve, mi sa dire se questa ragazza lavorava qua?
-Si, era una delle nostre indossatrici. Cosa le è successo?
-E’ stata assassinata. Mi sa dire qualcosa di lei? Il suo nome, l’età,
insomma tutto quello che sa! La prego.
-Si, certo. Il suo nome era Cristal Duprè, aveva ventitrè anni e aveva
iniziato a studiare teatro. Aveva pure un fidanzato, stavano insieme da
circa tre anni.
-Grazie mille, mi ha aiutato molto. Arrivederci.
Burton, finito il giro, chiamò il suo assistente e gli disse di incontrarsi allo
studio per scambiarsi le informazioni raccolte. Nick riferì a Burton, una
volta arrivato all’ ufficio, che aveva delle novità molto importanti.
-Mentre chiedevo alle persone che incontravo se conoscessero la vittima,
m sono imbattuto in una ragazza di nome Keri Hilson che ha detto di
essere un’amica intima di Cristal, così mi ha detto che si chiamava la
vittima, e che ci stava cercando per fornirci delle informazioni.
-Ottimo! Che ti ha detto di interessante?
-Mi ha detto che da qualche mese le cose con il suo ragazzo non andavano
più tanto bene e che la nostra vittima aveva intenzione di lasciarlo.
-Ti ha saputo dire altro?
-Si, mi ha detto che il suo ragazzo si chiama Mike, è alto un metro e
ottanta e lavora in una gioielleria in periferia.
-Andiamo a trovare il nostro amico!
Si avviarono verso la gioielleria per interrogare il ragazzo. Giunti lì
chiesero all’uomo presente in negozio:
-Salve! Cerchiamo un certo Mike, lo conosce?
-Si, sono io, cosa succede?
-Conosce la signorina Cristal Duprè?
-Certo è la mia fidanzata. Le è successo qualcosa?
-Ma come? Lei è il suo ragazzo e non sa nemmeno dove si trova la sua
fidanzata? Da quanto tempo non la vede?
-Non la vedo e non la sento da due giorni. Ma lei dov’è? Come sta?
-La sua ragazza è stata uccisa ieri sera. Lei dove si trovava ieri?
Il ragazzo portò le mani al volto in un gesto di disperazione e si sedette.
Burton in quel momento notò l’anello che il giovane portava al dito e che
somigliava tanto alla strana forma della ferita riscontrata sul cranio della
vittima. Ripresero a parlare. Il giovane disse:
-Io ieri sera ero a casa e guardavo un film.
-Era solo? Ha testimoni?
-No, ero solo a casa e sono arrivato tardi, non credo che mi abbia visto
qualcuno!
-Come immaginavo! Mi potrebbe fare vedere il suo anello?
-Si, certo!
-Dove lo ha preso?
-Me lo ha regalato la mia ragazza quando abbiamo festeggiato due anni di
fidanzamento.
-Ho saputo che ultimamente c’erano delle tensioni fra voi, mi può dire il
perché?
-Non lo so, diceva che voleva più tempo per se stessa e che era stanca di
stare con me perché le dedicavo poche attenzioni.
In quel momento squillò il cellulare del detective; era il suo assistente che
voleva avvertirlo del fatto che aveva trovato un testimone che affermava
che Mike era stato visto parlare con la vittima mezz’ora prima
dell’omicidio. Chiusa la telefonata, Burton si rivolse al giovane:
-Mike ci sono dei testimoni che affermano di averti visto insieme alla
vittima la sera stessa del delitto e, sul cranio della ragazza, abbiamo
rilevato una ferita procurata dal tuo anello.Confessa! Sei stato tu ad
uccidere Cristal!
-…!! L’avevo sorpresa baciare un altro. Sono rimasto scioccato e sono
andato a parlarle. Mi disse che mi lasciava e che non dovevo più cercarla.
Preso dalla rabbia le diedi un pugno, ma non era mia intenzione ucciderla.
Volevo solo farle male!
-Andrai in carcere!
-Ma…posso riavere il mio anello?
Burton non rispose, ma pensò fra sé:”Si, fra settant’anni!”
Marco Trio
UN DELITTO VELOCE
Un ragazzo che viaggiava quotidianamente dalla montagna per andare a
scuola, un giorno non tornò a casa e, dopo le prime ricerche, si scoprì che
non era andato neanche a scuola. Il padre chiamò subito la polizia che
affidò il caso al detective Monroe. Egli cominciò ad indagare facendo
domande a tutti i conoscenti. Nella stanza del giovane trovò un indizio,
una lettera scritta con dei caratteri presi dai giornali; leggendo la missiva,
Monroe capì che si trattava di un appuntamento al fiume vicino a casa.
Andarono a controllare e trovarono il cadavere del ragazzo che aveva
segni di strangolamento. La scientifica arrivò sul posto e subito trovò del
dna sotto le unghie, segno che il giovane aveva lottato…Confrontato con
quello dei conoscenti del ragazzo, Monroe dedusse facilmente che si
trattava di quello della fidanzatina. Interrogata, scoppiò in lacrime,
confessando di averlo ucciso per gelosia.
Andrea Amovilla
L’OMICIDIO DEI DUE ANZIANI
E’ notte fonda. Una coppia di anziani vive in un grande casolare, vecchio,
circondato da alberi di pino fradici e pipistrelli che svolazzano tutto
intorno senza mai fermarsi. Essi avevano un grosso debito con alcune
persone perché, con quel denaro, avevano comprato dei maiali e delle
pecore. Trascorse due settimane dall’acquisto, il debito non era stato
pagato e così Pinuccio, uno dei creditori, lasciò un avvertimento facendo
trovare loro tutti gli animali morti e un biglietto minaccioso che diceva
che, se il giorno dopo non gli fosse stato pagato il debito, li avrebbe uccisi
entrambi. I due anziani, non sapendo dove prendere tutto quel denaro, si
chiusero in casa e inchiodarono tutte le serrature delle porte in modo che
non si potesse entrare. Arrivata la sera, gli anziani cominciarono ad avere
paura, ma la stanchezza che sentivano fu più forte della stessa paura e si
addormentarono. In piena notte fecero irruzione i manigoldi che
scassinarono la porta in silenzio. Entrati nel casolare, si diressero nella
camera da letto e uccisero i due anziani. L’indomani i vicini si notarono
che la coppia non si vedeva in giro e, avvicinatisi al casolare incuriositi,
videro la porta scassinata. Chiamarono subito la polizia che mandò sul
luogo un detective: era il migliore nel risolvere i delitti. Si chiamava Mr
Cola, detto lo Zoppo per una vecchia ferita ad una gamba durante uno
scontro con un criminale. Era un uomo pauroso, non aveva capelli e aveva
una cicatrice in testa, un grosso naso a patata e la faccia grande quanto un
melone. Gli mancava anche una mano e l’altra era provvista solo di tre dita
con le quali teneva un bastone per non barcollare e il suo aspetto faceva
veramente paura. Nonostante tutto era un ottimo detective e quando
indagava non gli sfuggiva nulla. Aveva un solo difetto: quando parlava
balbettava, ma riusciva lo stesso a farsi capire. Mr Cola arrivato al
casolare, cominciò ad ispezionare tutto e, entrato nella camera da letto,
vide i due anziani morti, coperti da un telo bianco. Sul pavimento, in bella
vista, c’era un coltello sul quale sicuramente dovevano esserci delle
impronte. Dopo l’esame dell’arma del delitto, Mr Cola venne a sapere che
le impronte appartenevano ad una persona che lui conosceva bene: si
trattava di Mario Rossi, un grande mafioso, ricercato da tempo. A questo
punto il detective ordinò un mandato di cattura nei confronti dell’uomo
che venne rintracciato in un bar e arrestato. Portato in questura, confessò di
essere stato lui, assieme ad altre persone, a commettere il delitto e fece i
nomi dei suoi complici. Ormai il caso era risolto e Mr Cola potè ritornare a
casa.
Fabio Campagna
UNO STRANO ASSASSINIO
Un giorno d’estate un gruppo di persone si erano raccolte intorno ad un
albero: sopra vi era sdraiato un ragazzo che sembrava morto. Vennero
chiamati i pompieri per tirarlo giù, ma il poveretto cadde a terra da solo,
spinto forse da un gatto. Erano intanto arrivati anche un’autoambulanza, i
cui operatori si resero conto che il giovane non era morto e lo portarono in
ospedale, ed una pattuglia di agenti che cominciarono subito ad indagare,
alla ricerca di una traccia o di un indizio che facesse scoprire chi avesse
tentato di uccidere il ragazzo e come fosse stato caricato sull’albero. Sul
momento non venne trovato nulla, neanche i passanti avevano visto
qualcosa. I genitori del giovane, accorsi in tutta fretta all’ospedale, si
ritrovarono di fronte il medico di guardia che disse loro che il figlio era
sano come un pesce nonostante non si fosse ancora svegliato. Trascorsero
dei giorni ed il ragazzo non apriva gli occhi. I genitori non sapevano cosa
fare. Furono eseguite altre analisi finchè i medici decisero di tentare il tutto
per tutto e lo portarono in sala operatoria. Intanto le indagini proseguivano
senza alcun risultato. In ospedale, dopo alcune ore di attesa, finalmente
videro uscire dalla sala operatoria una figura: era il giovane! Sano, calmo
ed in piedi sulle sue gambe. Chiese subito ai genitori che cosa ci facesse lì
e quelli risposero spiegandogli che era stato trovato su un albero. Il
ragazzo ascoltò sbalordito e alla fine, per l’emozione, cadde a terra. Intanto
erano sopraggiunti gli agenti della polizia che, avendo saputo che il
giovane si era infine svegliato, lo volevano interrogare. Il commissario
comunicò che avevano trovato anche una scarpa da uomo e che ormai
bastava rintracciarne il proprietario per scoprire il colpevole. Quando
incontrarono il ragazzo e gli mostrarono la calzatura, questi li ringraziò per
aver ritrovato la sua scarpa. Così infine il giovane spiegò:” Sapete, io , a
volte, dormo poco e quella sera avevo preso un sonnifero molto forte. Poi,
visto che sono sonnambulo, devo essere uscito di casa e… come sono
salito sull’albero proprio non lo so!”. I poliziotti rimasero a bocca aperta,
ma ugualmente contenti della felice conclusione del misterioso caso.
Lorenzo Caravello
ASSASSINIO A NEW YORK
Era il primo di Luglio e il detective Gioacchino Calizzone, per i conoscenti
Jack, si trovava con la moglie e la figlia nella città di New York. Quel
giorno faceva un caldo bestiale, quasi 40° all’ombra, e tutto stava andando
per il meglio quando, all’improvviso, si udirono degli spari provenire dalla
metropolitana. A quel frastuono accorsero molti curiosi per vedere cosa
fosse successo: c’era stata una sparatoria. Il sangue era sparso ovunque e,
accanto al cadavere di un uomo, c’erano una pistola, dei bossoli e un paio
di guanti in lattice. Jack cercò di fare subito delle supposizioni fino
all’arrivo della polizia e dell’autoambulanza che, vedendo l’uomo ormai
deceduto, se ne ritornò all’ospedale. Il detective, insieme con l’ispettore
della polizia, cominciò a esaminare la pistola, i bossoli e i guanti, ma non
trovò alcuna traccia utile alle indagini né alcuna impronta digitale.
L’ispettore di polizia vide una macchia di sangue cinque metri più in là del
cadavere. Jack prese, dal taschino della giacca, la sua lente di
ingrandimento per visualizzare meglio quella macchia che, poi, fu lasciata
all’esame della scientifica. Jack non si arrese e continuò a cercare tracce e,
finalmente, si accorse di alcune orme che conducevano all’uscita della
metropolitana. Le seguì, ma quelle diventavano sempre meno visibili. Si
trattava, comunque, di orme di scarpe invernali, nuove di zecca, acquistate
probabilmente subito prima della sparatoria. In quella zona, pensò Jack,
c’era un solo negozio che vendeva quel genere di articoli così il detective e
l’ispettore si recarono immediatamente lì. Insieme interrogarono le
commesse, chiedendo loro se ricordassero chi aveva comprato da poco
quelle scarpe e le ragazze, prontamente, risposero che erano state
acquistate da due uomini: uno era alto e magro e l’altro basso e grasso, ma
si somigliavano molto; probabilmente erano due fratelli. Dopo aver
ringraziato le commesse per le preziose informazioni, ritornarono sul
luogo del delitto e lì decisero di dare un’occhiata al filmato registrato dalla
telecamera in funzione 24 ore su 24. Lo osservarono attentamente e
ripetutamente finchè non individuarono i due uomini descritti dalle
commesse: in effetti erano due tipi conosciuti, per la precisione si trattava
di due ex poliziotti in pensione, famosi tra i colleghi per essere due teste
calde. Jack e l’ispettore conclusero facilmente che la loro bravata doveva
essere il frutto di qualche idea balorda che pensavano di realizzare. Jack
considerò il caso risolto e lasciò che fosse l’ispettore ad arrestare i due
malviventi.
Antonio Fiumara
ASSASSINIO PER INVIDIA
Will, detective di fama, quel giorno doveva giocare una partita di calcetto:
era un quarto di finale, ma proprio quel giorno, uno dei suoi compagni più
forti, il portiere, non si presentò al campo. La partita fu giocata senza di
lui. Finito l’incontro, Will cercò di scoprire perché il suo compagno non si
fosse presentato al campo e così cominciò ad indagare. Due giorni dopo,
un tale informò la polizia della presenza del cadavere di un uomo;
avvisato, Will, andò a controllare di chi si trattasse: era il suo compagno. A
questo punto Will non indagava più su una scomparsa, ma su un omicidio.
Scoprì presto, dal fratello della vittima, che, il giorno della sparizione, non
si era presentato neanche a pranzo dicendo che doveva accompagnare la
fidanzata al bowling. I vicini di casa, però, informarono Will di aver visto
l’uomo nel cortile del palazzo. Allora il detective interrogò tutti i
componenti della famiglia e alla fine si convinse che, ad uccidere il suo
amico, era stato il fratello. Gli chiese se fosse lui il colpevole e quello,
dopo aver tentato di negare per un po’ , alla fine crollò e confessò. Will
scoprì che il suo compagno era stato ucciso dal fratello perché quando
questi gli chiedeva di giocare, lui diceva sempre di no . Cos Will risolse il
caso.
Emanuel Galeno
UN ALTRO DELITTO PER JOSEPH
Seguito dal dottor Alex, il detective Joseph, dopo essere arrivato sulla
scena del delitto, si avvicinò alla fontana di Trevi e trovò il corpo della
vittima in acqua: si trattava di un giovane. Era molto difficile capire come
si fossero svolti i fatti e soprattutto chi potesse essere il responsabile.
Joseph chiese al dottor Alex di analizzare il corpo e notò subito che la
vittima era stata strattonata e, cadendo a terra, forse aveva battuto la testa.
Tornato in commissariato, Joseph continuava a non capire chi potesse aver
fatto una cosa del genere ad un ragazzo così giovane. La mattina seguente,
dopo aver preso un buon caffè, tornò al lavoro. Insieme con il dottore si
recò alla scientifica e lì appresero il nome del ragazzo che si chiamava
Franco Cozzo e viveva in via Poli 26, a Roma. Scoprirono così che faceva
il meccanico. Joseph cominciò a chiedere informazioni e scoprì anche che
la sua officina era chiusa da un mese. Molti clienti si lamentavano perché
Franco aveva molti debiti con loro, perché si faceva dare prima i soldi e
poi montava i pezzi sulle auto. Joseph si recò, quindi, a casa di Franco e lì
trovò sua madre Antonina De Santis. Questa gli raccontò molte cose
interessanti sul figlio e soprattutto confermò il fatto che aveva dei debiti
che non riusciva a pagare e poi gli disse che, due giorni prima, erano
andate due persone che indossavano delle magliette con su scritto Car
Center: avevano parlato con Franco e dopo se ne erano andati. Joseph le
chiese se avesse notato qualcosa o se il figlio avesse ricevuto una
telefonata o una lettera che lo avesse spaventato. La madre rispose di no .
Joseph notò che il telefonino del giovane era ancora sulla scrivania, lo
prese e vide che tra i messaggi ricevuti ce n’era uno che si riferiva ad un
incontro alla fontana di Trevi con due persone. Joseph pensò subito che
fossero stati loro ad ucciderlo. Cercò nei Car Center vicino casa di Franco
e trovò presto le due persone che erano state a casa della vittima. Li portò
in commissariato per interrogarli e, nel frattempo, chiamò il dottor Alex
che lo informò che Franco Cozzo era stato ucciso alle 2,35 del mattino.
Così Joseph interrogò le due persone e seppe che uno si chiamava Alessio
e l’altro Enzo. Poi chiese loro dove si trovassero la notte del delitto, alle
2,35. Enzo e Alessio risposero che si trovavano al lavoro perché avevano il
turno di notte e questo era testimoniato anche dal rapporto che avevano
stilato alle 3,00. Joseph adesso non aveva più idea su chi potesse essere il
colpevole. Ad un certo punto però squillò il telefonino della vittima e sul
display comparve un messaggio della stessa vittima che diceva che gli
dispiaceva per quello che aveva fatto e si scusava con tutti per i debiti che
aveva. In quel momento Joseph capì che il giovane si era ucciso perché
non aveva trovato altra via d’uscita e così comprese anche la dinamica
dell’incidente. Franco era salito sulla fontana, sulla parte più alta, e si era
buttato a testa in giù. Così aveva sbattuto la testa.Joseph, un po’
amareggiato, chiuse il caso.
Roberto Giordano.
OMICIDIO IN FAMIGLIA
Saro Falsapella, stimato detective siciliano, venne invitato da Salvatore, un
suo vecchio amico, nella sua casa di Floresta. Salvatore era un uomo molto
ricco, ma non aveva alcuna fiducia nelle sue due figlie che gli sembravano
troppo avide. Giunto a casa di Salvatore, Saro fu accolto calorosamente
dall’amico che lo invitò subito a prendere un caffè nel suo studio. Lì Saro
trovò seduto un altro uomo, un medico, di cui Salvatore aveva grande
stima. L’amico spiegò a Saro i suoi dubbi sulle figlie e lo invitava ad
osservarle con discrezione in quei giorni di permanenza in casa sua. Il
detective lo rassicurò e si fece presentare le ragazze che, effettivamente,
gli parvero un po’ scontrose. La sera, mentre stavano aspettando la cena,
una delle figlie si allontanò furtivamente recandosi in cantina. Saro la
seguì e la vide iniettare del veleno in una bottiglia di vino, ma
all’improvviso qualcuno colpì Saro violentemente alla nuca e perse i sensi.
Nel frattempo la ragazza era tornata in salone dove erano tutti riuniti per
l’imminente cena e offrì un bicchiere di vivo al padre. Egli lo accettò e,
dopo poco, cadde riverso a terra al centro della stanza. Subito le figlie ed il
dottore si avvicinarono all’uomo che però ormai, constatò il medico, era
morto. Ripresi i sensi, Saro risalì al piano superiore e, visto il corpo
dell’amico riverso in terra privo di vita, chiamò la polizia. Gli agenti,
sentito quanto raccontato dal detective relativamente all’episodio di cui era
stato vittima in cantina, perquisirono la borsa della figlia di Salvatore e, in
effetti, trovarono una siringa ed un boccettina di veleno. Venne arrestata
immediatamente. Ma qualcosa ancora non convinceva il detective.
Continuando a cercare delle tracce, si accorse di una telecamera nascosta
dietro un quadro del salone. Saro si precipitò a visionare il filmato della
serata e, con sorpresa, vide il suo amico Salvatore prendere il bicchiere di
vino dalle mani della figlia che glielo offriva, ma anziché berlo, lo versò di
nascosto nel vaso di una pianta. Dopo Salvatore si gettò in terra fingendo il
malore per vedere la reazione delle figlie. Ma Saro si accorse anche che il
dottore si era avvicinato per ultimo al corpo steso in terra e, sebbene
ripreso di spalle, lo vide armeggiare vicino a Salvatore che, in quel
momento, era ancora vivo. Saro capì immediatamente che era stato il
medico ad avvelenare Salvatore, probabilmente d’accordo con l’altra figlia
del suo amico. Saro, risolto il caso, se ne tornò triste a casa sua.
Gabriele Ingegnere
IL MAGGIORDOMO SICILIANO
E’ una sera buia e tenebrosa con lampi, fulmini e pioggia fitta che cade su
una casa spettarle, piena di polvere e circondata da animali notturni. E’
mezzanotte…all’improvviso si sente un urlo…il maggiordomo è stato
ucciso. Arriva subito la polizia, ma nessuno riesce a darsi una spiegazione.
Con il sangue della vittima è stato disegnato uno strano simbolo e il
coltello sporco di sangue è ancora vicino al corpo. Dopo giorni di indagini
si scopre il primo indizio: il giardiniere racconta che, quella notte, aveva
appena finito il suo spuntino di mezzanotte quando, all’improvviso, aveva
sentito un urlo e, subito dopo, il rumore del motore di una motocicletta che
andava via di corsa. Grazie a questa testimonianza si scopre che la moto
dell’assassino è un fuori strada proprio come quello del padrone di casa
che, però, aveva un alibi confermato dalla madre dalla quale diceva di
essersi recato quella sera a cena. L’assassino però ha commesso un errore
disegnando quello strano simbolo: un cuore fucilato, che era raffigurato sul
blasone della famiglia del padrone di casa. Interrogato nuovamente
l’uomo, questa volta confessa che il maggiordomo era siciliano ed era stato
assunto da poco. Il padrone di casa non era a conoscenza delle sue origini,
ma col tempo era venuto a sapere che era stata la famiglia della vittima a
uccidere suo padre e così, furioso, lo aveva detto alla madre con la quale
avevano progettato e messo in atto il delitto. Entrambi vengono subito
assicurati alla giustizia.
Mattia Puglisi
IL COMPLEANNO DI SUSY
In un tranquillo paesino della Scozia vivevano con la loro zia due sorelle,
Susy e Betty, rimaste orfane quando erano molto piccole. La zia Marta era
una donna premurosa e gentile e, rimasta vedova, aveva ereditato dal
marito un’ingente patrimonio che, alla sua morte, sarebbe andato alle
nipoti. Con loro viveva anche una giovane cameriera dall’apparenza
sciocca. Quella sera era il compleanno di Susy e la zia Marta aveva
invitato il suo fidanzato Bobby che poi, data l’ora tarda, era rimasto a
dormire lì. La zia era molto contenta che Bobby dormisse con lei, perché si
sentiva più sicura quando c’era un uomo in casa. La mattina seguente,
quando si ritrovarono tutti a fare colazione, Susy ,Bobby e Betty si
chiesero come mai la zia non si fosse ancora alzata, visto che era sua
abitudine svegliarsi molto presto. Susy andò in camera sua a chiamarla e,
constatando che non rispondeva, entrò. Lanciò un urlo vedendo il corpo
della donna steso sul pavimento con una mano sul petto. Subito si
precipitarono anche Bobby e Betty che pensarono di chiamare subito il
medico, il dottor Sullivan. Il dottore confermò la morte della donna e
richiese un’autopsia per sapere quale fosse stata la causa del decesso. La
camera della zia era in ordine e quindi scartarono l’ipotesi che fosse
entrato un ladro. Bobby, nel frattempo, aveva chiamato un investigatore, il
famoso Peter Land. Trascorsi alcuni giorni, dall’esame dell’autopsia
risultò che la donna era stata avvelenata, ma non riuscivano a capire chi
potesse essere stato a fare una cosa tanto orribile. Le nipoti erano le uniche
eredi, la cameriera aveva sempre vissuto con loro e il fidanzato era molto
affezionato alla zia. L’investigatore aveva subito perlustrato la villa palmo
a palmo, ma aveva trovato tutto in ordine, non mancava niente, quindi il
colpevole doveva essere uno di loro. Nella camera di Betty vide una
boccettina di gocce vuota che lei disse di non aver mai visto né usato. Era
evidente che qualcuno voleva incastrare lei. In camera di Bobby, dietro il
comodino, Land trovò una chiave un po’ particolare che Bobby disse non
appartenergli, poi confidò all’investigatore che, la sera prima, aveva visto
la cameriera molto agitata. Interrogata da Land, la giovane accusò Bobby
di volerla incolpare dell’omicidio perché non la sopportava, infatti non la
salutava mai, neanche quando la incontrava per strada, come era accaduto
qualche giorno prima quando lo aveva visto uscire dallo studio del medico
e aveva fatto finta di non vederla. Bobby negò tutto dicendo che era pazza
e che non era mai stato nello studio del dottore. Questo, interrogato, disse
di non ricordare se l’uomo fosse stato da lui, ma che era certo di avere
visto la vittima una settimana prima e che godeva di ottima salute.
Aggiunse, poi, che non riusciva neanche a immaginare chi potesse averla
uccisa perché Marta era una persona buona e generosa con tutti. Ma
l’investigatore Land era un professionista e con un po’ d’impegno avrebbe
risolto questo caso. Ripensando a tutti gli elementi che aveva e cercando
dei riscontri, scoprì che la chiave che aveva trovato nella camera di Bobby
apriva l’armadietto dei veleni dello studio del dottore il quale, invitato a
controllare che non mancasse nulla, constatò l’assenza di un flacone. Non
c’erano più dubbi: il colpevole era Bobby che voleva far ricadere la colpa
su Betty . Sicuramente avrebbe, in seguito, corteggiato Susy inducendola a
sposarlo così avrebbe ereditato, indirettamente, tutti i beni di Marta.
Purtroppo aveva dimenticato di fare sparire le chiavi e la cameriera, che
sembrava una sciocca, aveva permesso di risolvere il caso.
Salvatore Rizzo
DELITTO IN SVIZZERA
John era in vacanza in Svizzera dove pensava di potersi prendere una
lunga e piacevole pausa dal suo lavoro di detective. Un giorno, mentre
passeggiava lungo un sentiero che fiancheggiava una bella villetta, notò
una cosa che lo inquietò: la porta d’ingresso era aperta e, colpita dal vento,
sbatteva rumorosamente. Possibile che nessuno all’interno della casa
sentisse quell’insistente e fastidioso rumore? Si avvicinò alla porta aperta e
fece qualche passo all’interno della villetta. Subito si accorse del cadavere
di un uomo che stava disteso sul pavimento del corridoio. John informò
immediatamente la polizia che arrivò in pochi minuti. Esaminando
l’appartamento,John notò che la finestra di una camera che sporgeva sul
retro era spalancata: probabilmente l’assassino era fuggito da lì. Il
detective cominciò ad interrogare i vicini di casa della vittima, il signor
Viktor, che di lui avevano un’alta considerazione, anche se sapevano che
aveva dei problemi con alcuni dei dipendenti della sua fabbrica perché , a
quanto si diceva in giro, non li pagava con regolarità. John pensò allora
che l’omicida doveva essere sicuramente qualcuno di essi e, indagando,
scoprì che uno di loro, Adolf Ginsred, era andato a casa di Viktor proprio
il giorno dell’omicidio. John cercò l’uomo e lo interrogò insistentemente
inducendolo a confessare il delitto. John riprese, soddisfatto, la sua
vacanza tra le stupende montagne e valli della Svizzera.
Salvatore Santoro
TRA VICINI DI CASA
Era mattina presto e il telefono squillava sulla scrivania dello sceriffo Bill.
Egli risposee, immediatamente, l’espressione del suo viso cambiò: era
stato commesso un omicidio. Bill, chiuso il telefono, indossò la giacca, il
cappello e disse a John, il suo assistente, di andare con lui perché era
successo qualcosa ad un suo amico, Robert, e alla moglie di questo.
Arrivati a casa di Robert entrarono e trovarono subito all’ingresso il corpo
del figlio colpito a morte da un colpo di fucile alla nuca. Salite le scale con
la pistola in pugno, Bill e John trovarono Robert e sua moglie adagiati
contro la parete della camera da letto, anch’essi morti e coperti di sangue.
Bill, sconvolto e disperato, chiamò la scientifica comunicando il luogo del
delitto per fare subito gli opportuni rilievi. Gli agenti esaminarono con
attenzione il posto cercando tracce, impronte e qualsiasi altra cosa che
potesse metterli sulla strada giusta. Nel bagno trovarono dei capelli nella
doccia e altre tracce di sangue, ne presero qualche campione e inviarono
tutto ad analizzare. Dagli esami si scoprì il dna dell’aggressore che, in
breve Bill identificò con un vicino di casa di Robert. Bill si recò subito a
casa del sospettato e lo interrogò chiedendogli dove si trovasse al
momento del delitto, ma l’uomo sembrava avere un alibi di ferro. Bill non
lo potè portare in caserma, ma quando altre tracce di sangue lo
inchiodarono definitivamente, tornò a cercarlo per arrestarlo. L’uomo,
però, sentendosi braccato era già fuggito dal suo appartamento. Bill, con
l’aiuto dei suoi uomini, riuscì a fermarlo e a farlo confessare: era stata una
semplice vendetta dettata dall’ invidia. Quella famiglia, così serena e
felice, lo irritava così tanto!
Samuele Siroli
IL CORVO
Antonella entrò in casa e trovò tutto in subbuglio, chiamò la figlia, ma non
ottenne risposta. Allora si diresse verso la cameretta della ragazza e lì la
trovò distesa a terra circondata da numerose macchie di sangue. Antonella
cominciò ad urlare e corse in strada chiedendo aiuto. Arrivò la polizia e,
con lei, il migliore detective della zona, il Corvo. Tutta la scena del
crimine venne attentamente esaminata, controllata, fotografata, e poi
vennero messi i sigilli alla casa. Trascorsero alcune settimane e la polizia
non riusciva a trovare il colpevole di quel terribile delitto. Ma il Corvo, in
quelle settimane, aveva indagato sulla vita privata della giovane per
scoprire se qualcuno poteva desiderarne la morte. Venne analizzato anche
il cadavere e il Corvo, dalle fotografie scattate dalla scientifica, dedusse
facilmente che la donna era stata uccisa con tre coltellate al petto. Intuì
anche che l’omicida usava la mano destra e, dalla profondità delle ferite,
che doveva trattarsi di un uomo. Il Corvo decise di tornare all’interno della
casa e, osservando i muri delle pareti un po’ anneriti dal tempo, si accorse
che in basso, sul muro, vi era un piccolo segno bianco. Lo osservò meglio
e arrivò alla conclusione che era proprio una “ C”. Pensò immediatamente
che la vittima aveva tentato di scrivere sul muro il nome del suo
aggressore per cui cominciò a cercare lì intorno qualche oggetto che
poteva essere stato usato a questo scopo. Dopo un po’ notò una lametta per
unghie e, allora, fu certo che era stata proprio la vittima a incidere quella
lettera sul muro. Riprese ad indagare sugli amici della ragazza e scoprì
che, qualche settimana prima, aveva improvvisamente troncato il suo
fidanzamento con un giovane che si chiamava Fabio, ma che lei aveva
sempre affettuosamente chiamato Cucciolo. Nonostante gli indizi
portassero ormai chiaramente in questa direzione, la polizia volle fare dei
riscontri e così furono chiamati i Ris per rintracciare eventuali tracce di
dna che, in effetti, furono trovate e analizzate. Circa dieci giorni dopo
arrivarono i risultati e fu confermata l’ipotesi del Corvo. L’assassino era
Fabio che non aveva accettato l’idea di vivere senza la sua fidanzata. Il
Corvo si considerò soddisfatto della soluzione del caso.
Francesco Torre
OMICIDIO SUL TRENO
Nel 1909, su un treno, fu uccisa una donna di nome Rachele, madre di tre
figli. Il controllore, scoperto il corpo, fece fermare il treno e chiamò il
detective Zoro che, avendo molta esperienza ed essendo un tipo molto
sicuro di sé, pensò che, anche questa volta, avrebbe in breve risolto il caso.
Appena salito sul convoglio, sempre sicuro e sorridente, vide il cadavere
della donna e disse che, sicuramente, si trattava di un omicidio: la signora
era stata uccisa con un colpo di arma da fuoco. Zoro decise di iniziare
subito le indagini, così si mise alla ricerca dell’arma del delitto. Controllò
ogni singola parte del vagone, ma non trovò niente. Rimase però colpito da
una scatola d’acciaio chiusa, come se fosse una cassaforte, nascosta dietro
ad un quadro ormai rovinato dalla polvere appeso nel vano del conducente
del treno. Questo disse che non aveva le chiavi di quella scatola e Zoro,
allora, prese una pinza per tentare di aprirla. Dopo un po’ ci riuscì e
guardandone il contenuto trovò delle vecchie carte e una pistola avvolta
nella carta di giornale. Zoro capì subito che il conducente ne sapeva più di
quanto non avesse detto fino a quel momento. Interrogatolo nuovamente,
l’uomo infine crollò e confessò che, la sera prima, aveva litigato con la
moglie e aveva avuto una sorta di attacco di pazzia. Arrestato il
conducente del treno,Zoro andò via.
Michael Mirco Trimboli