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RASSEGNA STAMPA
venerdì 3 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Huffington Post del 30/06/2015
Italia vs Ue sull'immigrazione. Vinca il
peggiore!
Filippo Miraglia
Vicepresidente nazionale Arci
Vinca il peggiore! Questo potrebbe essere il commento al match tra Italia e Ue a chi si
sottrae di più alle proprie responsabilità sull'immigrazione. Il governo italiano si ispira al
principio per cui i richiedenti asilo si accolgono mentre i cosiddetti migranti economici
andrebbero espulsi e rimpatriati. Ciò avverrebbe attraverso una sorta di "accoglienza
differenziata" fra Nord e Sud del nostro paese. Infatti sparirebbero i centri di primo
soccorso e di accoglienza. Al loro posto vi sarebbero degli hotspot, 5 o 6, che si apriranno
nelle regioni mediterranee, quindi in Sicilia, in Calabria, in Puglia e forse anche in
Campania. Dove più frequenti sono stati gli sbarchi e le tragedie che hanno portato alla
morte migliaia di persone. Dopo 48 ore di permanenza, quando le misure di prima
accoglienza verranno praticate solo se possibili, i migranti verranno spostati negli hub,
ovvero grandi centri di smistamento, divisi in "chiusi" e "aperti". Qui avverrà la suddivisione
tra chi ha diritto all'accoglienza e chi no. Questi ultimi, gli "irregolari" finiranno nei vecchi
Cie, pronti per l'espulsione. Gli altri verranno "accolti" negli hub aperti e nello Sprar, il
sistema di "protezione" dei richiedenti asilo e dei rifugiati affidato all'Anci. Le strutture
aperte saranno situate al Nord, quelle chiuse e che fungono da rampe di lancio per
l'espulsione al Sud. Ovvero i "buoni" nel Nord del paese, i "cattivi" nel Meridione. Difficile
immaginare un sistema più perverso, in cui si fonde la vecchia questione meridionale
nostrana con il nuovo razzismo nei confronti dei migranti.
In questo sistema ogni diritto viene travolto. Alla procedura prevista per legge, che delega
alle Commissioni Territoriali per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato la decisione,
sulla base di elementi seri e concreti, si sostituisce una non meglio precisata divisione tra
possibili richiedenti asilo e non, basata non si sa su quali criteri (forse la supposta
provenienza da paesi ritenuti più o meno sicuri). Si introduce così un elemento di
discrezionalità contrario a ogni legge e a ogni convenzione internazionale.
Si fa peraltro finta di non sapere che anche per ricerca di lavoro, oltre che per richiesta
d'asilo, non c'è alcun canale d'ingresso legale previsto dalla legge. Che se una persona,
qualunque siano le sue ragioni, vuol arrivare in Italia, ha solo la scelta degli scafisti,
imposta dalle politiche di chiusura adottate dai governi europei.
Come si vede Renzi ha poco da alzare la voce in sede Ue, dove peraltro non fanno
meglio. Le conclusioni del Consiglio europeo sono davvero umilianti e vergognose. Si è
litigato, con i paesi dell'Est nel ruolo dei più intransigenti, su 40mila rifugiati già presenti in
Europa da ridistribuire in due anni tra i diversi paesi europei. Cifre indecenti, soprattutto se
si tiene conto che secondo l'Unhcr più di 100mila persone sono giunte in Europa dall'inizio
dell'anno considerando solo quelle che hanno battuto la via mediterranea.
Contemporaneamente la Ue mantiene la missione di pattugliamento e di respingimento
dei barconi, salvo l'obbligo del salvataggio in mare che anche le navi militari devono
operare. Inoltre le procedure di espulsione vengono rafforzate tramite accordi con paesi
retti da dittature o nei quali è ancora in corso un conflitto sanguinoso.
Il Consiglio europeo dimostra ancora una volta di essere del tutto prigioniero della logica
dell'Europa come fortezza. Mentre il governo italiano strizza l'occhio alle pulsioni xenofobe
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e razziste che attraversano il nostro paese, alimentate dai governatori delle regioni in
mano alla Lega, con la risposta dell'accoglienza differenziata tra nord e sud. D'altro canto
non è un mistero per nessuno che gran parte della campagna elettorale per le regionali si
sia giocata proprio sulla questione dell'accoglienza dei migranti. Oggi più di prima
dovrebbe essere chiaro a tutti che questa dell'immigrazione è una questione determinante
per il futuro e l'identità dell'Europa e rappresenta una delle discriminati più evidenti tra la
destra e la sinistra in ogni paese e nel nostro continente.
http://www.huffingtonpost.it/filippo-miraglia/vinca-il-peggiore_b_7696968.html
Del 3/07/2015, pag. 20
Alassio vietata ai migranti senza certificato
medico
MARCO PREVE
GENOVA . «Mi accusano di apartheid sanitaria? Sono disposto a correre il rischio. Qui
bisognava fermare l’assalto alla diligenza». Enzo Canepa sindaco di Alassio con
un’ordinanza choc ha vietato l’ingresso nel suo comune «a migranti sprovvisti di certificato
sanitario che attesti l’assenza di malattie infettive e trasmissibili ».
Nel mirino chi arriva da Asia, Africa e Sudamerica dove «sono ancora presenti numerose
malattie contagiose e infettive, come Tbc, scabbia, Hiv, ed è in corso una gravissima
epidemia di Ebola». Jan Casella, ex consigliere comunale di Rete a Sinistra e membro
dell’Arci parla di «Apartheid sanitaria. Puro razzismo. Me ne vergogno». Chiara Montaldo,
dottoressa di Medici Senza Frontiere, dopo aver lavorato in Guinea è ora in Sicilia, al
centro di Pozzallo :«È allarmismo. Gli sbarchi sono sottoposti a filtri che iniziano dalle
barche a terra. Per Ebola è impossibile un contagio. È più pericoloso chi viaggia in aereo.
Quanto alla scabbia, una doccia e una crema ed è risolta». Canepa non si scompone:
«Abbiamo decine di questuanti provenienti da comuni limitrofi ospitati nei centri di
accoglienza che girano col cappello in mano a importunare i turisti».
Da Repubblica.it del 03/07/15 (Genova)
Alassio, il sindaco: "Divieto d'ingresso agli
stranieri senza certificato sanitario"
Vicino al centrodestra, il primo cittadino non bada alle critiche: "Una
tutela alla sicurezza e alla salute dei nostri cittadini e dei nostri turisti".
Per Jan Casella dell'Arci è "Apartheid sanitario. Puro razzismo".
di MARCO PREVE
Ad Alassio i vigili urbani dovranno controllare i certificati sanitari degli stranieri in transito.
E chi non lo avrà con sé verrà allontanato. Anche se nella sua ordinanza il sindaco Enzo
Canepa non lo chiarisce, l'obbligo di certificato non dovrebbe però riguardare quei ricchi
stranieri che affollano la cittadina che ha il record dei pezzi d’affitto in Italia, bensì i più
poveri, i migranti. Ecco cosa scrive nell’ordinanza.
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“Tutela sanitaria. Art. 50 T.U.E.L. 267/2000”, relativa al divieto di ingresso sul territorio
cittadino di Alassio a migranti sprovvisti di certificato sanitario che attesti l'assenza di
malattie infettive e trasmissibili.
Accertato che già dal mese di giugno è esponenzialmente aumentata la presenza sul
territorio comunale di cittadini stranieri provenienti da diversi stati africani, asiatici e
sudamericani”, si legge nel documento. “Considerato che in detti paesi, sia di origine sia di
transito, in assenza di adeguate misure di profilassi, sono ancora presenti numerose
malattie contagiose e infettive, quali ad esempio TBC, scabbia, HIV, ed è tuttora in corso
una gravissima epidemia di Ebola, come attestato dalla OMS”, il primo cittadino alassino
ha firmato il documento che ordina “il divieto a persone prive di fissa dimora, provenienti
da paesi dell'area africana, asiatica e sud americana, se non in possesso di regolare
certificato sanitario attestante la negatività da malattie infettive e trasmissibili, di insediarsi
anche occasionalmente nel territorio comunale”.
Jan Casella,ex consigliere comunale, membro della Rete a Sinistrae dei consigli
provinciali di Arci e Anpi parla di "Apartheid sanitaria.P uro razzismo. Le origini delle
persone, e il loro status sociale, sono motivo di discriminazione per la Giunta Alassina. Me
ne vergogno".
Il sindaco, esponente di una lista civica vicina al centrodestra, è sicuro della sua scelta:
“Questa disposizione, che serve a tutelare la sicurezza e la salute dei nostri cittadini e dei
nostri turisti, è divenuta necessaria come risposta alla situazione di emergenza e
all'invasione incontrollata del territorio nazionale avvenuta nelle ultime settimane e negli
ultimi mesi, ed è coerente con le misure che il Comune di Alassio ha finora adottato in
materia”.
http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/07/02/news/alassio_divieto_d_ingresso_agli_stra
nieri_senza_certificato_sanitario-118164739/
Da Cronache di Ordinario Razzismo del 27/06/15
Hate speech online: workshop a Firenze
L’hate speech è diventato qualcosa con cui i giornalisti si trovano a fare i conti
quotidianamente. Se i casi d’incitamento all’odio da parte di esponenti politici in radio o in
televisione sono frequenti e mettono il giornalista nella posizione di dover scegliere in che
modo intervenire, ancora più facile è trovare esempi di hate speech tra i commenti alle
notizie, sui social media o sui siti internet delle testate e dei blog. Il fenomeno ha raggiunto
dimensioni tali da non poter essere più ignorato e negli ultimi anni le normative dei paesi
europei hanno iniziato a fare passi avanti, così come le alcune testate giornalistiche hanno
deciso di adeguarsi alla nuova tendenza adottando politiche interne specifiche sulla
gestione dei commenti.
Per analizzare quanto fatto finora a livello legislativo in Europa e in Italia, mettere a
confronto le buone prassi e riflettere sulle responsabilità delle testate giornalistiche e sulle
possibili strategie per il contrasto dell’hate speech online Associazione Carta di Roma e
Arci, con la collaborazione della Robert Kennedy Foundation Europee, di Cospe e di Lsdi
(Libertà di Stampa e Diritto all’Informazione) organizzano a Firenze il seminario «Hate
speech and Freedom of Expression: How to deal with in the daily editorial work».
Rivolto a giornalisti e blogger, il workshop, che avrà luogo a Firenze il 2 luglio, è realizzato
nell’ambito del progetto europeo PRISM – Preventing Redressing and Inhibiting Hate
Speech in New Media e vedrà a confronto cinque paesi europei: Francia, Italia, Regno
Unito, Romania e Spagna.
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Tra gli ospiti della sessione mattutina prenderanno la parola Frank La Rue (Robert
Kennedy Foundation Europe), Elena D’Angelo (Unicri), Lorella Zanardo (scrittrice, attivista
e formatrice) e i giornalisti Nadia Ferrigo (La Stampa), Ricardo Gutierrez (European
Federation of Journalists), Vicent Partal (VilaWeb) e Iulia Rosu (Adevarul).
Il pomeriggio il seminario proseguirà a porte chiuse con la formazione di gruppi di lavoro
nei quali giornalisti, blogger e organizzazioni avranno la possibilità di confrontarsi, con
l’aiuto di Vittorio Pasteris (Lsdi), Anna Meli (Associazione Carta di Roma) e Alessia
Giannoni (Cospe), per produrre idee e strategie d’azione.
Per programma completo e informazioni su sede e orari clicca qui.
La sessione mattutina è aperta a un numero limitato di partecipanti ed è riconosciuta
dall’Ordine dei giornalisti come evento di formazione continua.
Il workshop si terrà in lingua inglese, non è prevista traduzione.
Per iscrizioni (al fine di ottenere crediti formativi) visitare la piattaforma SIGeF.
Per accrediti, scrivere a [email protected].
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ESTERI
Del 3/07/2015, pag. 2-3
Atene,testa a testa nei sondaggi tra “sì” e
“no”, scontro Tsipras-Samaras
Oggi si fronteggiano in piazza destra e sinistra. In rimonta lo
schieramento a favore di un accordo mentre tra i contrari emergono le
divisioni. La Chiesa ortodossa è con Bruxelles
DAL NOSTRO INVIATO ETTORE LIVINI
ATENE . «Il cuore dice no. La testa dice sì». Dimitris Stratopholus, manager di 43 anni,
riassume così i dubbi di tutti i greci a due giorni dal referendum decisivo per il futuro del
paese e – con buona pace di Wolfgang Schaeuble – di tutta l’Europa. Il governo ha
stampato le schede e da oggi lotta contro il tempo per recapitarle nelle isole più lontane
dell’Egeo e per organizzare i seggi elettorali. «Ce la faremo – ha detto il ministro
dell’Interno Nikos Voutsis – E il voto in nome dell’austerity costerà solo 20 milioni ». Alexis
Tsipras ostenta sicurezza: «Se il no vince bene, lunedì sono a Bruxelles e firmo un’intesa
in 48 ore. E le banche riapriranno il giorno dopo», ha garantito in un’intervista tv. Stasera
parlerà al popolo di Syriza davanti al Parlamento. Alla stessa ora, qualche centinaio di
metri più a est verso il monte Imitto, il fronte del Sì, guidato da Antonis Samaras, si riunirà
allo stadio Panathinaikos in un finale di partita al cardiopalma anche per l’ordine pubblico.
«L’esercito veglia sulla stabilità della sicurezza nazionale», ha detto sibillino il ministro
della Difesa Panos Kammenos. I sondaggi danno i due fronti testa a testa. I controlli ai
capitali, le file ai bancomat e la drammatica crisi di liquidità dell’economia reale hanno
aiutato una timida rimonta del sì. I dati della Gpo che davano il cartello pro-euro in
vantaggio 47% a 43% circolati mercoledì sera, però, sono stati sconfessati ieri dagli stessi
(presunti) autori. «Non sono nostri – ha detto la società che sta lavorando per conto della
banca francese Bnp - si tratta di cifre parziali estrapolate da uno studio ancora da
concludere ». Le istituzioni nazionali, preoccupate della tensione con cui si arriva alle urne,
hanno provato a gettare acqua sul fuoco delle polemiche: «Non lasciamo che le divisioni di
queste ore ci avvelenino il cuore», ha detto l’arcivescovo Ieronimos, il leader di una chiesa
ortodossa che sembra essersi schierata per il sì, rompendo la luna di miele con Alexis
Tsipras. Difficile che sia ascoltato. Kyriakos Mitsotakis, uomo di punta del centrodestra di
Nea Demokratia e rampollo di una delle grandi dinastie della politica ellenica, si è
presentato in tv sventolando la banconota da 1 trilione di dollari della Zimbabwe, tanto per
far capire come finirà, secondo lui, la Grecia di Syriza. Il governo ha costruito un sito
bipartisan per il referendum che pare un volantino elettorale per il no. E il Consiglio di
stato, intanto, deciderà oggi se accogliere il ricorso dell’ordine degli avvocati che chiede il
ritiro della consultazione per vizi di costituzionalità. La posta in gioco è altissima e la
tensione all’interno dei due schieramenti si taglia con il coltello. Tre deputati di Anel, il
partner di governo della sinistra, hanno fatto outing dicendo che voteranno sì contro le
indicazione della formazione della destra nazionalista. «Siamo in guerra e chi non ha le
palle per gestirla è meglio che lasci», ha commentato sobriamente il segretario Kammenos
che ha espulso dal partito Costas Damavolitis, uno dei tre apostati. Lo stesso ministro
della difesa si sarebbe scontrato con Tsipras nelle ultime ore rinfacciandogli l’ok ai
creditori per tagliare di 400 milioni il budget dei militari. Costringendo il premier a una
brusca retromarcia. Volano gli stracci anche tra le fila di Syriza e molti ieri parlavano delle
dimissioni del segretario generale del governo Spyros Sagias, dopo un confronto piuttosto
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vivace, per usare un eufemismo, con il super- falco Varoufakis. Tema: l’opportunità di fare
o meno il referendum.
La Chiesa ortodossa non è stata l’unica a voltare le spalle al presidente del Consiglio. Uno
schiaffo è arrivato anche dalla Russia: «Noi non abbiamo mai invitato Atene ad entrare nel
capitale della nuova Banca da 100 miliardi costituita dai paesi in via di sviluppo», ha
confessato il ministro delle Finanze di Mosca Anton Siluanov, tagliando le ali a chi nella
sinistra ellenica sperava di far sponda su Putin dare l’addio alla Troika.
Meglio allora concentrarsi a far funzionare un paese messo in ginocchio dalla drammatica
crisi di liquidità che sta avvelenando la quotidianità delle famiglie elleniche. I trasporti
pubblici sono gratuiti da giorni. Il Comune di Atene ha deciso di congelare il pagamento
dei funerali. Si fanno, la municipalità ci mette tutto quanto serve per la cerimonia. E i
parenti pagano solo quando la nottata sarà passata. Risollevare la Grecia dal buco nero in
cui è finita negli ultimi cinque anni non sarà facile. A fine 2014 il paese sembrava in ripresa
e per quest’anno si prevedeva un aumento del Pil del 2,5%. Ora la tendenza si è invertita
e già si parla di un preoccupante meno 3% che avrà come unico effetto quello di rendere
ancor più costoso da lunedì – qualunque sia l’esito del voto – il salvataggio.
Del 3/07/2015, pag. 7
La sfida di Varoufakis “Il debito va tagliato se
vince il sì lascio”
Il ministro più odiato dai governi europei va all’attacco “Non firmo,
piuttosto mi faccio amputare un braccio”
IL PERSONAGGIO
MATTEO PUCCIARELLI
ATENE. «Piuttosto mi faccio tagliare un braccio». Che a Yanis Varoufakis le mezze misure
non fossero mai piaciute lo so si sapeva. Ma neanche gli ultimi giorni ad altissima
tensione, sbattuto sulle prima pagine di mezzo mondo e indicato come il principale
responsabile del disastro imminente, il cattivo consigliere di un ingenuo Alexis Tsipras, gli
hanno fatto cambiare idea. Il ministro delle Finanze greco sceglie Bloomberg , cioè la tana
del lupo per eccellenza, per ribadire la sua posizione: o dentro l’accordo tra Grecia e
Unione europea ci sarà anche la ristrutturazione del debito, oppure la sua firma sotto al
(possibile) documento non ci sarà. Se Tsipras ha fatto intendere le sue probabili dimissioni
in caso di sconfitta al referendum, seppur senza dirlo chiaramente, Varoufakis è andato
dritto per dritto. Alla domanda «se ci sarà una vittoria del “sì” domenica, lunedì sera lei non
sarà più ministro?», la risposta è stata netta, com’è nel personaggio: «No, non lo sarò. Ma
lavorerò con chi lo sarà», con abbinato sorriso un po’ beffardo. Per il 54enne professore di
Economia con passaporto greco e australiano il voto di dopodomani rappresenta un bivio
dove da una parte c’è tutto e dall’altra c’è il nulla. Detestato dai colleghi di dicastero di
mezza Europa, considerato poco meno di un piantagrane; invidiato da molti compagni di
partito che si sono visti passare davanti questo ex consulente dell’allora primo ministro
socialista George Papandreou, capace di conquistarsi una ribalta mediatica unica e
seconda solo a Tsipras, un po’ per le sue qualità dialettiche e un po’ per l’anticonformismo.
E però amato dalla base di Syriza e beniamino delle sinistre radicali continentali, con il
video di lui che giorni fa diretto in Parlamento arriva in piazza Syntagma a piedi e senza
scorta, tra gli applausi, filmato che fa il giro dei social network. Insomma, appunto,
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prendere o lasciare, o bianco o nero. Anzi, rosso, nel suo caso di marxista convinto.
«Vogliamo disperatamente restare nell’euro e domenica vinceremo», assicura. E le voci
su un possibile ritorno alla dracma vengono state liquidate subito: «Anche volendo gli
stampi sono stati distrutti, l’unione monetaria è irreversibile». Se sia vero fino in fondo è
difficile dirlo, ma la certezza è che i greci sì non vogliono l’austerità e però neanche
vogliono uscire dall’euro. Il ritorno alla vecchia moneta, ormai, è un piano mandato in
soffitta anche dalla sinistra interna di Syriza. Non tanto per convinzione, quanto perché il
consenso generale è tutto per la moneta unica. «Ma con questo referendum in gioco non
c’è la moneta. Vogliamo dimostrare però che si può cambiare il modo di stare in Europa»,
continua sempre Varoufakis. «Il problema adesso non è bancario, non è una crisi del
sistema creditizio. Le banche — aggiunge — sono perfettamente capitalizzate. La crisi è
politica e deriva dalla decisione dell’Eurogruppo di farle chiudere». Una specie di ricatto,
un modo per surriscaldare l’atmosfera, fa capire. Gli istituti di credito «apriranno
regolarmente martedì prossimo». Un problema non da poco finora, con le file davanti a
ogni bancomat della Capitale da lunedì scorso. Fenomeno che però il “cittadino”
Varoufakis non conosce direttamente: la domanda del giornalista è di quelle maliziose (
«Ma lei ha mai fatto la coda in questi giorni?»), il ministro se la cava con un «ma io e mia
moglie facciamo una vita frugale». Se comunque vincerà l’”oki”, il no, inizieranno i colloqui
per una nuova intesa: «Credetemi, l’accordo ci sarà». La questione del debito, per
Varoufakis, è basilare. Lo scriveva già nei suoi libri di economista, quando non aveva ruoli
politici, tiene il punto anche di fronte alla tempesta: semplicemente — ragiona — quella è
una massa di denaro inesigibile, cresciuta a dismisura con l’austerità, e ogni accordo
senza tagliarne una parte è solo un’agonia prolungata per il Paese, strozzato dalle rate e
dagli interessi. «Volete per caso che mi allinei?», ribatte alle domande di Bloomberg . Può
darsi che alla fine a doversi allineare — più di quanto fatto finora, con molta fatica e con
poco successo — sarà proprio Syriza, il suo partito: «Forse ci saranno dei rimpasti al
governo, qualcuno non avrà il fegato per digerire certe imposizioni». E quel qualcuno
magari sarà proprio lui. Il quale, dopotutto, alle montagne russe un po’ si è abituato in
questi sei mesi drammatici: prima quasi esautorato nelle trattative, commissariato dal
viceministro delle Relazioni internazionali, Euclid Tsakalotos. E infine tornato
prepotentemente alla ribalta. Se per restarci, lo sapremo domenica.
del 03/07/15, pag. 1/2
Syriza nelle piazze
Poteri forti con il sì
Reportage. Syriza nelle piazze e nei quartieri per far leva sulla «dignità»,
i sostenitori del sì non si vedono ma si appoggiano ai media amici.
Facendo leva sulla paura
Angelo Mastrandrea
ATENE
Osservato dalla piazza di Labrini, periferia nord di Atene, il referendum che spaventa
l’Europa assume tutt’altra prospettiva rispetto a quella restituita dalle dichiarazioni di
Angela Merkel o di Jean Claude Juncker. Si è appena concluso un dibattito pubblico tra
sostenitori del no e la gente del quartiere, uno dei tanti che si susseguono ogni sera nelle
piazze della capitale ellenica, e si tratta di capire, per quanto è possibile, quale sia
l’orientamento dei diretti interessati: sottomettersi alle misure europee che la maggioranza
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dei greci ha rigettato appena cinque mesi fa votando Syriza e gli altri partiti anti-austerità
oppure far saltare il banco accettando di «navigare in acque sconosciute», per dirla con il
presidente francese Francois Hollande, il leader politico europeo che pare aver deluso più
ancora di Angela Merkel o Jean Claude Juncker?
Tra locali e taverne affollati come al solito, frotte di bambini all’inseguimento di un pallone
e altoparlanti che diffondono canzoni della resistenza greca e italiana, in un clima a metà
tra una vecchia festa dell’Unità e una sagra paesana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato
europeo» per abbattere Tsipras al «volete rovinarci» indirizzato agli esponenti di Syriza,
segno di una polarizzazione, soprattutto in provincia, «che non si vedeva dai tempi della
guerra civile», sostiene chi ha il polso della campagna referendaria. In un angolo, a un
banchetto del Kke si distribuiscono volantini che invitano a mettere sulla scheda due no: al
piano dei creditori e al governo Syriza-Anel, con il risultato di annullare la scheda e, di
fatto, nuocere alle ragioni del no, a differenza di Antarsya, altro partitino della sinistra
radicale fuori dalla maggioranza ma schieratosi a sostegno del referendum voluto dal
governo. Li rivedrò entrambi, Antarsya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a manifestare
separati per le vie del centro cittadino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo
Stato né con la troika.
Divisi a metà
Una rappresentazione plastica della divisione nella società greca è arrivata dalle due
manifestazioni di qualche giorno fa: piena quella del no, altrettanto e forse persino di più
quella del sì. La propaganda mediatica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i
boss della comunicazione in Grecia abbiano mal digerito il governo della sinistra e in
questi giorni si sono trasformati nel megafono del fronte del sì, altrimenti assente dalle
manifestazioni pubbliche, a differenza dei loro antagonisti. Nella fretta di rispondere colpo
su colpo ai discorsi di Tsipras e al quartiere per quartiere degli attivisti di Syriza, sono però
scivolati sulla più classica delle bucce di banana: un sondaggio prontamente smentito
dagli stessi sondaggisti ai quali era stato attribuito. Per rispondere a quello pubblicato dal
quotidiano indipendente (edito da una cooperativa di giornalisti) Efimerida due giorni fa,
che dava il no al 54 per cento, contro il 33 dei sì e un 13 per cento di indecisi, ieri è finito
sul giornale di orientamento conservatore Kathimerini un contro-sondaggio commissionato
dai banchieri di Bnp Paribas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci
voterebbe invece a favore del piano presentato dai creditori, contro il 43,2 per cento che lo
rifiuterebbe (con gli indecisi stimati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smentire tutto è stata la
stessa Gpo (che in passato aveva fornito sondaggi attendibili sull’ascesa di Syriza), che ha
negato di aver partecipato alla rilevazione minacciando di portare il quotidiano in tribunale
e ha ribattuto che i sondaggi devono essere fatti in maniera «responsabile», in attesa della
«critica decisione del popolo greco».
I due fronti
Cercando di costruire una geografia degli schieramenti, finisco a una conferenza stampa
di avvocati, convocata per contestare la decisione del Consiglio dell’ordine di dare
indicazione ai propri iscritti di votare sì al referendum. Non sono i soli: ha fatto altrettanto la
Confederazione generale dei lavoratori greci (Gsee), il più grande sindacato ellenico, e
non è una buona notizia per Syriza anche se la federazione dei metalmeccanici, al
contrario, pur non esprimendosi apertamente a favore del no, si è schierata con il governo.
Ma accade che le decisioni dei vertici siano contestate dagli iscritti, come sta avvenendo
tra i legali, letteralmente imbufaliti perché, spiegano, il loro Ordine non dovrebbe
immischiarsi in questioni del genere, come spiega Sarantos Theodoropoulos, appena
tornato da Berlino dov’è andato a incontrare i deputati della Linke e della sinistra Spd per
spiegare loro dal punto di vista legale la questione dei risarcimenti dovuti dalla Germania
alla Grecia a causa dell’occupazione nazista. Mai come in questo caso, sostengono
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diversi analisti, il voto potrebbe non rispettare le indicazioni delle organizzazioni di
riferimento.
Gli scenari del dopo-voto
Come andrà a finire domenica nessuno è in grado di affermarlo con sicurezza. «Quello
che ha messo in difficoltà il governo è stata la decisione di chiudere le banche per una
settimana», spiegano nella redazione del settimanale indipendente Epohi, vicino alle
posizioni della sinistra radicale al governo. Una decisione estrema che ha consentito di
evitare la bancarotta dovuta al panico e che potrebbe incidere negativamente sull’esito del
voto, anche se ottocento istituti sono rimasti aperti per pagare le pensioni e ieri il governo
ha annunciato la riapertura di tutti per martedì. Tutto sommato, i greci hanno affrontato con
grande calma lo stop al credito (e pure ai tribunali), grazie anche al fatto che esso non è
stato totale e il governo ha garantito pure la gratuità dei trasporti. Ma tutto ciò non basta a
evitare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Grecia si giochi sulla paura,
quella stessa che solo alla fine di gennaio Alexis Tsipras era riuscito a sconfiggere
contrapponendole la «speranza».
Anche gli scenari del dopo-voto rimangono incerti: ieri il ministro delle Finanze Yannis
Varoufakis ha detto ieri di essere pronto a dimettersi se dovesse vincere il sì e lo stesso
Tsipras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le stagioni». Insomma, non ci
sarà un governo Syriza che firmerà l’accordo con i creditori. Ma cosa accadrebbe se
dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime
change sarebbe possibile? Bruciato dai fallimenti del passato l’ex premier di Nea
Democrazia Antonis Samaras, ridotti ai minimi termini i socialisti del Pasok, il candidato
dell’Europa pare essere l’ex giornalista televisivo Stavros Theodorakis, fondatore e leader
della formazione centrista To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità
nazionale, l’unico in grado di far passare un programma ancora una volta lacrime e
sangue. Ma con quali voti un siffatto esecutivo si reggerebbe se l’azionista di maggioranza
Syriza non ci starebbe e men che meno le altre minoranze da sinistra a destra (anche se
tre deputati dei Greci Indipendenti, al governo, ieri si sono schierati per il sì)? In che modo
si riuscirebbe a mettere in piedi un governo che firmi l’accordo con i creditori entro il 20
luglio, in tempo utile per ricevere i soldi del programma e ripagarela rata di debiti con la
Bce? Una sconfitta del no, paradossalmente, rischierebbe di rendere ancora più confusa
la situazione e di aprire un periodo di forte instabilità politica nel paese.
La strategia della dignità
Syriza dal suo canto mira a smontare la strategia del «ci ridurranno in povertà» ricordando
cosa hanno prodotto le politiche di austerità esasperate in Grecia: un tasso di
disoccupazione al 27 per cento, un fortissimo aumento di depressioni e suicidi (uno studio
pubblicato dal British medical journal ne ha censiti 10 mila dal 2008, la maggior parte
avvenuti dopo l’approvazione del contestato Memorandum del 2011), precarizzazione del
lavoro e smantellamento di diritti. Quella catastrofe sociale che ha portato in pochi anni la
sinistra radicale al governo del paese (e alimentato pure l’ascesa dell’estrema destra di
Alba Dorata).
Se dovesse farcela per la seconda volta in un anno, Tsipras ne uscirebbe da trionfatore
nonostante i rischi di default incontrollato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s
e le minacce europee di abbandonare la Grecia al suo destino che rischierebbero di
lasciare il tempo che trovano di fronte a un quadro radicalmente cambiato. Il leader greco
sostiene, forse a ragione, che una vittoria del no gli darebbe più forza negoziale in Europa
e alla paura contrappone un altro sostantivo: dignità. Il messaggio, un pizzico patriottico, è:
non lasciamoci più calpestare.
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Del 3/07/2015, pag. 9
Thomas Piketty. “L’unica soluzione è la ristrutturazione del debito”
sostiene l’economista francese. “Le minacce europee? Non sono
credibili: si dovrà ancora trattare con Atene. Se fossi greco domenica al
referendum voterei no”
“Espellere un Paese non servirà a nulla così
l’Eurozona rischia la catastrofe”
ANAIS GINORI
PARIGI . «Sbaglia chi crede che l’espulsione di un Paese sarà un modo per disciplinare e
stabilizzare l’eurozona. Quelli che pensano così sono degli apprendisti stregoni». Thomas
Piketty risponde indirettamente ai promotori del Grexit, i falchi sempre più numerosi in
Germania ma ormai anche in Francia, convinti che espellere la repubblica ellenica sia
l’unica soluzione per salvare l’unione monetaria. «In verità, l’uscita di un Paese renderà
più fragile l’insieme dell’eurozona. Potrebbe essere l’inizio della fine », spiega
l’economista, 44 anni, autore del bestseller Il capitale del XXI secolo e docente alla Paris
School of Economics. Qualche giorno fa, ha firmato insieme ad altri economisti, tra cui il
Nobel Stiglitz, un appello sul Financial Times per chiedere ai governi europei di aiutare
Atene a pagare 1,6 miliardi di euro al Fmi. La richiesta, come si sa, non è stata accettata.
E dalla mezzanotte del 30 giugno la Grecia è entrata in procedura di default. «Siamo vicini
a una catastrofe», osserva Piketty. «Il Grexit significa aprire un vaso di Pandora. È un
errore drammatico, storico». L’economista francese ricorda che la Grecia è il Paese che
ha più ridotto il suo deficit tra il 2009 e il 2014, sottoponendosi a una cura d’austerità di cui
gli stessi esperti del Fmi sono ormai pentiti. Al di là delle proposte e controproposte delle
ultime ore, resta un nodo cruciale da sciogliere. «Non c’è altra strada che la
ristrutturazione del debito», ripete Piketty che nel suo voluminoso saggio analizza anche
l’evoluzione storica dei debiti pubblici.
Se fosse un elettore greco, voterebbe sì o no al referendum?
«Il piano proposto dai creditori provocherà recessione. Quindi se dovessi pensare solo al
bene della Grecia, la risposta dovrebbe essere chiaramente no. Ma, vedendo la violenza
della minaccia di espulsione dall’eurozona proferita dagli europei e la politica di asfissia
della Bce, capisco che molti greci siano tentati dal votare sì».
La vittoria del no provocherà automaticamente un’uscita della Grecia dall’euro?
«Sono convinto che le minacce dell’Europa non siano davvero credibili: qualsiasi sia l’esito
del referendum, i Paesi europei dovranno rassegnarsi a sedersi di nuovo al tavolo dei
negoziati con il governo di Atene».
Eppure sono Tspiras e il suo ministro Varoufakis che hanno abbandonato le
trattative con i creditori. Non hanno sbagliato anche loro?
«Certo. Bisogna riconoscere che la loro strategia di comunicazione non è riuscita. Penso
soprattutto che avrebbero dovuto dimostrare che trattavano per trovare soluzioni nuove
per tutta l’eurozona e non solo per la Grecia ».
E quali sarebbero le colpe di Merkel e Hollande?
«Nel 2012, i dirigenti europei avevano promesso di impegnarsi su una ristrutturazione del
debito greco appena il Paese fosse stato in una situazione di avanzo primario del bilancio
statale. Nel 2014 il governo greco ha ottenuto questo risultato ma i dirigenti europei hanno
tradito la loro promessa. È questo tradimento che ha provocato a dicembre la caduta
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dell’esecutivo (di Antonis Samaras, ndr ) e poi l’arrivo al potere di Syriza nel gennaio
scorso».
Perché le discussioni con Tsipras non sono andate nel verso giusto?
«Da gennaio i dirigenti europei continuano a rifiutare di mettere sul tavolo il tema della
ristrutturazione de debito, puntando ora a un avanzo primario della Grecia che dovrebbe
essere addirittura del 4% del Pil a partire dal 2017-2018 e per i prossimi decenni. Tutti
sanno che non è un ipotesi realista. Eppure non si affronta la questione, tutti rifiutano di
parlare del vero nodo della questione greca. È davvero avvilente».
Un eventuale Grexit potrebbe avere un effetto contagio su altri Paesi fortemente
indebitati come Italia o Francia?
«Le conseguenze sarebbero negative per tutti: è il motivo per cui Renzi e Hollande
dovrebbero prendere più apertamente posizione contro un Grexit e indicare una via
d’uscita dalla crisi».
Quali potrebbero essere le soluzioni?
«Bisogna convocare una conferenza sul debito che permetta di avviare la ristrutturazione
dell’insieme dei debiti dell’eurozona. Non dobbiamo dimenticare che l’Europa si è costruita
sulla cancellazione dei debiti pubblici del passato per poter investire sul futuro. La
Germania, che non ha mai rimborsato i suoi debiti durante il XX secolo, potrebbe prendere
ispirazione dalla propria storia».
Vede altre strade possibili?
«Creare un parlamento dell’eurozona, con rappresentanti delle Camere nazionali in
proporzione alla popolazione di ogni Paese, che possa regolare in modo democratico il
livello prefissato di deficit e investimenti pubblici, avendo anche la supervisione dell’unione
bancaria e del meccanismo europeo di stabilità. La crisi ha dimostrato l’opacità e
l’inefficacia delle attuali istituzioni europee».
Del 3/07/2015, pag. 9
Renzi e l’asse strategico con Berlino per
rinegoziare il rientro del deficit
L’obiettivo dei tagli alle tasse. S&P: la Grexit vi costa 11 miliardi di
interessi in più
ROMA Ci sono diverse ragioni per cui Renzi è al momento perfettamente allineato alla
Merkel nella posizione sulla Grecia. Ha definito «un errore, un azzardo» la scelta del
referendum adottata da Tsipras, ha dato mandato al ministro Padoan, nei negoziati degli
scorsi giorni, al pari dei tedeschi, e forse anche una punta di più, di adottare una linea
molto rigida nelle concessioni che Bruxelles è disposta ad offrire ad Atene.
Il piano politico è presto detto ed è stato condiviso con la Cancelliera due giorni fa,
nell’incontro che il nostro premier ha avuto a Berlino: se il modo disinvolto con cui il
governo ellenico, che ha cambiato posizione e negoziatori diverse volte, fosse premiato,
alla fine sarebbe un pessimo esempio per quell’Europa delle regole di bilancio che l’Italia
in prima fila rispetta e un assist formidabile a quelle forze antieuropee, da Podemos a
Grillo, che nei Trattati fiscali dell’Unione europea hanno il loro primo obiettivo. Insomma, in
qualche modo, di necessità virtù. «Se non vogliamo spingere Salvini e Podemos al 60%
non ci sono alternative», è quello che raccontano a Palazzo Chigi.
Il piano finanziario, o economico, ha altri risvolti e riguarda direttamente le nostre finanze
pubbliche. Ieri Standard & Poor’s ha detto che la Grexit farebbe aumentare i nostri
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interessi sul debito di 11 miliardi. Ora, è vero che un default greco causerebbe dei danni
alla nostra economia, anche se ieri Renzi ha detto che «l’Italia non avrebbe problemi
particolari», ma è anche vero che al momento esistono altre strade che vengono discusse
fra Bruxelles, Berlino e le altre Capitali: l’auspicio condiviso a più livelli è infatti un
insuccesso della chiamata alle urne del governo ellenico e una sostituzione di Tsipras con
un esecutivo, magari tecnico, maggiormente responsabile verso le offerte sin qui girate ad
Atene. Fra l’altro sempre ieri, lo stesso Renzi, ha affermato al Tg1 che dopo il referendum
«la Grecia in ogni caso dovrà tornare al tavolo delle trattative e farà di tutto per arrivare ad
un accordo».
In questo modo si avrebbe quell’« happy ending della telenovela », come l’ha definita
senza nascondere il suo fastidio lo stesso Renzi, che consentirebbe, anche al nostro
governo, di ricominciare a discutere di misure espansive. Misure che devono essere
approvate da Bruxelles. E per le quali Renzi ha innanzitutto bisogno della Cancelliera,
come si è visto anche sulla vicenda dei migranti, per la quale il premier ha pubblicamente
ringraziato Angela, senza la quale la scorsa settimana probabilmente non si sarebbe
superata la resistenza di Spagna e Paesi Baltici. L’idea di Renzi, che ha condiviso con i
suoi più stretti collaboratori, è quella di negoziare un diverso percorso di rientro del deficit,
rinviando il pareggio di bilancio di almeno due anni: «Con le cifre attuali, l’anno prossimo
deficit all’1,8 del Pil, e quello successivo allo 0,7, non siamo in grado di abbassare le tasse
e questo non ha senso», continuano a Palazzo Chigi. Ecco perché Renzi a Berlino ha
detto chiaro, davanti ad una platea istituzionale ed accademica, che «le regole attuali» del
Fiscal compact «vanno bene per voi, ma non per noi». Fra l’altro al momento, e la vicenda
dei migranti l’ha dimostrato, il migliore alleato di Renzi in Europa è proprio la Cancelliera,
che ancora una volta due giorni fa ha ricevuto da Renzi l’ennesima relazione dettagliata
sulle riforme in corso in Italia e a sua volta non ha lesinato complimenti pubblici per il
lavoro di Palazzo Chigi. Gli altri alleati, in questo momento, latitano: Parigi sulle quote ci
ha chiuso le frontiere, la Spagna ha remato contro, i Paesi Baltici e quelli dell’Est hanno
preso di mira gli obiettivi italiani anche come ritorsione per la posizione del nostro Paese
verso Putin e le sanzioni economiche contro Mosca. Insomma Renzi l’anno prossimo avrà
bisogno di molti decimali in più di deficit per accompagnare e irrobustire la ripresa, e gli
unici che hanno il potere di concedere «disco verde» si trovano a Berlino.
Marco Galluzzo
del 03/07/15, pag. 1/4
Irresponsabilità italiane
Tommaso Di Francesco
È sbagliato pensare che i protagonisti dello scontro sulla crisi greca siano da una parte il
governo di Atene e dall’altra la troika tornata in carica anche nominalmente, rappresentata
da Merkel e Fmi. No, perché c’è anche il terzo «comodo» dell’Italia governata da Matteo
Renzi. Un governo che grazie all’esilarante lavorio «giornalistico» di distratti e accodati
commentatori (da Repubblica al Corriere della Sera, passando per la nuova gestione di
Rainews24) è stato fatto passare addirittura per «mediatore». Un’invenzione di sana
pianta, resa evidente dalle parole del presidente del Consiglio alla conferenza con Merkel.
Così tutti di corsa a scoprire quello che era già luminoso: che il twittatore fiorentino,
presunto mediatore, tra via greca e via germanica pende proprio per la linea dura,
autoritaria e ricattatoria di Angela Merkel.
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In linea del resto con la socialdemocrazia europea, visto che ieri Martin Schulz, presidente
dell’Europarlamento, ha vergognosamente dichiarato a soli due giorni dal referendum:
«Via Syriza dal governo, servono i tecnocrati». E magari tacendo una malcelata
ammirazione per il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker che si è
«democraticamente» rivolto al popolo greco invitandolo a votare sì.
Matteo Renzi non ha neppure bisogno delle rivelazioni di Wikileaks, com’è accaduto in
queste ore per la premier tedesca spiata dalla Nsa americana mentre mostra crepe nelle
sue convinzioni sulla crisi greca.
Renzi ha solo certezze: «Rispetto la decisione del referendum presa dal governo greco,
ma io non l’avrei fatto». Almeno è sincero. Ci troviamo di fronte all’unica decisione
democratica, dentro la crisi del sistema Europa. Una decisione che fa parte della strategia
politica, oltre che del partito di Syriza, di un governo — entrato in carica per volontà
popolare solo 5 mesi fa, dopo il fallimento della destra — che amministra l’esecutivo per
rispondere alle esigenze popolari chiamando a decidere i cittadini.
È sicuro che Renzi «non l’avrebbe fatto»: governa infatti senza mai essere stato eletto
democraticamente (vantando i risultati delle elezioni europee che non riguardavano
l’esecutivo) in virtù dello spirito santo che lo ha nominato dall’alto: l’ex presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano.
Sorprendente poi l’affermazione, fatta sempre all’ombra di Merkel che non sappiamo se
più arrogante o idiota (con tutto il rispetto per la figura mito-poietica dell’idiota): «Appena
avremo finito di parlare della Grecia bisogna parlare dell’economia europea». Come se la
Grecia non fosse Europa. Come se l’esplosione della crisi greca non rendesse evidente
che l’Unione è ormai ridotta solo ad una moneta amministrata dai paesi più forti.
Intanto la crisi di Atene chiama in causa subito altri Paesi passati già sotto i diktat della
troika come Portogallo e Spagna. E immune non è l’Italia che vanta, per bocca dei
colonnelli renziani, di avere fatto «riforme» sulla pelle dei lavoratori e sfotte le cosiddette
«minipensioni» greche: dimentica che anche il governo Renzi propone i prepensionamenti
e che oggi in Grecia, grazie alla cura dell’austerità della Troika accettata dal governo
Samaras le pensioni sono state tagliate quasi della metà, come i salari: insomma sono
diventate tutte minipensioni da fame.
Ultima, in ordine di arrivo, la telefonata di Obama (a tutti i leader europei).
Per l’informazione di Palazzo Chigi è stata su «Grecia, Libia e lotta al terrorismo». Le
parole sono pietre: ecco che la crisi greca viene derubricata e inserita nell’agenda accanto
al prossimo intervento militar-navale in Libia e alla lotta allo Stato islamico. La verità non
velinara è che Obama è seriamente preoccupato che la Grecia, isolata a ovest, diventi
un’Ucraina alla rovescia e possa rivolgersi alla Russia e alla Cina (come ha cominciato a
fare per ora solo economicamente); Obama ha compreso che anche con una deposizione
da Bruxelles di Tsipras (se malauguratamente vincesse il sì, invece della svolta epocale
per tutta l’Europa dell’augurabile vittoria del no) la crisi greca rimarrebbe sempre più
aperta e dentro un precipizio politico e sociale.
Terreno fertile della destra estrema razzista, non solo di Alba Dorata, e della sua ricetta
ipernazionalista e autoritaria come insegna il regime di Orbán in Ungheria, mentre il vento
delle piccole patrie torna a spirare nel Vecchio continente.
del 03/07/15, pag. 3
Angela Merkel «tradita» dagli Usa
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Wikileaks. Pubblicati i dispacci: l’agenzia Nsa intercettava 69 utenze
della cancelleria
Sebastiano Canetta
BERLINO
Angela Merkel fin dall’autunno 2011 (governo George Papandreou del Pasok) era
convinta che con ulteriore austerity la Grecia non sarebbe sopravvissuta al debito. Così
nelle intercettazioni da parte della Nsa, rivelate da WikiLeaks e pubblicate ieri da
Liberation in Francia e da Süddeutsche Zeitung come da Bild in Germania.
Un doppio imbarazzo per la cancelliera. L’intrusione americana nei telefoni cellulari di
governo tedeschi è tutt’altro che un capitolo chiuso. E alla vigilia del referendum di Atene, i
conti — politici prima ancora che economici — della Germania non tornano proprio come
vorrebbe la propaganda (declinata mercoledì a Berlino in coppia con Matteo Renzi).
Così Merkel ha chiesto all’ambasciatore Usa John B.Emerson un incontro urgente per
chiarire «le presunte attività di spionaggio da parte dell’agenzia statunitense Nsa nei
confronti dei ministri tedeschi». WikiLeaks, per altro, documenta come fin dal 1998 (sotto
la presidenza di Bill Clinton) gli Usa hanno «controllato» cancellieri e ministri tedeschi,
perfino in collaborazione con i servizi segreti britannici.
In dettaglio, l’intercettazione più eclatante risale all’11 ottobre 2011. Merkel conversa con il
suo assistente personale. Secondo WikiLeaks, è classificata due livelli al di sotto di «Top
Secret», cioè considerata altamente sensibile. Per di più sarebbe stata messa a
disposizione anche di Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Merkel è in visita ufficiale in Vietnam, ma resta concentrata sulla crisi della Grecia, dal suo
punto di vista che non è quello di alcuni ministri, primo fra tutti quello delle Finanze
Wolfgang Schauble. E nell’intercettazione si farebbero riferimenti espliciti anche ai leader
della Francia e ai vertici della Troika.
«La cancelliera ha preso atto delle perplessità sulla Grecia e (pensa) a cosa sarebbe più
adatto per affrontare la situazione: un nuovo taglio del debito o un ulteriore trasferimento»
riferisce l’assistente personale che la Nsa ascolta. Ma la decisione appare chiara: «Con
altri tagli la Grecia non sarebbe in grado di superare i suoi problemi perché non riuscirà a
far fronte al debito elevato». Negli stessi termini si parla anche del fallimento dei consiglieri
inviati ad Atene per mettere il governo greco sulla giusta strada, cioè quella indicata e
pretesa da Berlino per conto dell’Europa.
Nel protocollo WikiLeaks spicca «il dubbio che l’invio di esperti finanziari per la Grecia
possa essere particolarmente utile per riportare il sistema sotto controllo. All’interno del
ministero delle finanze solo Schaüble sostiene un taglio forte, nonostanti i tentativi della
cancelliera sulla copertura del debito».
Tutte dichiarazioni inedite, visto che Angela Merkel non ha mai dichiarato pubblicamente i
suoi dubbi sulla missione degli advisor economici, come ricordava ieri la Bild. E anche
posizioni controverse all’interno dell’esecutivo teedsco. Sempre nel 2011, la Nsa registra
un’altra telefonata privata. Nel report della conversazione le spie americane segnalano
che «a differenza della cancelliera, Nikolaus Meyer-Landrut (consulente per la politica
europea di Merkel, ndr) era ovviamente del parere che dovrebbe essere inviata una
squadra ad Atene a monitorare la situazione».
Spy story sull’asse Berlino-Washington, dunque. Un caso più che aperto. Eppure il 12
giugno la procura federale di Karlsruhe aveva archiviato l’inchiesta (aperta nel giugno
2014) sulle presunte intercettazioni del cellulare della cancelliera Merkel: le accuse non
potevano «essere dimostrate legalmente nel quadro di una procedura penale». Ma ora
WikiLeaks rende pubblici ed accessibili i dispacci che riguardano ben 69 utenze del
governo tedesco tenute sotto controllo dalla Nsa.
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Gli «scambi d’opinione» sulla Grecia sono soltanto una parte dei dati raccolti dall’agenzia
Usa. Comunque più che sufficienti, e sensibili, perché tra i corridoi della
Bundeswaschmaschine (la «lavatrice federale», come viene chiamata a Berlino la sede
della Cancelleria) più di qualcuno cominci a chiedere di «chiarire se i fatti sono veri oppure
no». Di certo, la narrazione a senso unico della politica tedesca sulla Grecia comincia a
vacillare. Sul più bello…
del 03/07/15, pag. 5
Le vittime sono occidentali ma l’obiettivo è la
Tunisia
DAL BARDO A SOUSSE. Ripensando al «Decennio nero» che
insanguinò la società algerina
Karim Metref
Il primo impatto, per me, dopo la strage di Sousse, è stato un ritorno con la memoria a
quello che chiamiamo in Algeria il «Decennio nero» degli anni ’90. Mi tornarono in mente
le stragi sulle spiagge, nelle città, sulle strade… Le pressioni, il terrore.
Nel 1993, ci furono i primi attacchi dei Gruppi islamici armati (Gia) sulle spiagge. Nel 1994,
un comunicato dei «Gia», che vietava di andare in spiaggia soprattutto in contesti misti e
con costumi «indecenti», era uscito verso fine maggio, poco prima dell’inizio della stagione
balneare.
Giugno arrivò e nessuno osò sfidare quel divieto. Qualcuno andava alle spiagge dei Vip,
chiuse e protette. Ma in quelle popolari, silenzio assoluto. Fino a quando, verso metà
giugno, arrivò una ondata di caldo come quella di questi giorni.
Passammo 2 o 3 giorni di canicola a sudare di giorno per le strade delle città trasformate
in fornace dal sole cocente e le notti a sudare rinchiusi dentro le case a causa del
coprifuoco. Quando arrivò il fine settimana, senza nessuna intesa preliminare né parola
d’ordine, insieme, centinaia di migliaia di persone: uomini, donne e bambini si riversarono
sulle spiagge sin dal primo mattino. Come per dire: «Ammazzateci tutti quanti se volete
ma noi ci rinfreschiamo lo stesso».
Dopo quel giorno, ci furono alcuni altri attentati sulle spiagge, ma non ebbero più l’effetto
voluto. Il Gia capì presto che quella battaglia, almeno nelle zone che non erano sotto il suo
diretto controllo, era persa e che era inutile insistere.
Allora i Gia erano forti in Algeria. A un certo punto si erano anche illusi (o l’esercito glielo
lasciò credere) che fossero in grado di prendere il potere. Ma erano forti solo in Algeria. La
loro agenda immediata era nazionale. Oggi la situazione è del tutto diversa.
Il marchio di fabbrica Isis, Is, o come vogliamo chiamarlo, è in vendita ovunque. La sua
base strategica è non si sa dove, la sua base logistica è in Siria/Iraq. Ma ha una vasta rete
di rivenditori in franchising che sparge in giro per il mondo la sua merce avvelenata. Quello
che colpisce la Tunisia oggi non è una organizzazione, è una idea. Una idea sicuramente
malata ma geniale.
Tutto è cambiato, o no?
La situazione non è la stessa. Tutto è cambiato. Ma pensandoci con calma, mi rendo
conto che, alla fine, gli obiettivi degli attentati sono esattamente gli stessi.
La Tunisia è la nazione che è uscita con il miglior risultato dalla «Primavera araba». Dopo
essere stato uno dei più chiusi e repressivi, è oggi il paese dell’area dove c’è più libertà di
espressione e di iniziativa politica, culturale e sociale.
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Qualcuno dice che è perché è il paese arabo che ha la classe media più colta e che a
sviluppato la società civile più avanzata. Qualcuno fa risalire il segreto della
neodemocrazia tunisina alle antiche usanze dello stato tunisino, dove c’era da molto
tempo una tradizione di dialogo e di confronto tra diversi.
Qualcuno vede le origini di questa eccezione nel fatto che non ci siano grandi interessi
stranieri per la destabilizzazione della Tunisia, perché è un paese piccolo, povero in
risorse naturali e poco importante strategicamente.
La verità sta probabilmente in tutte queste spiegazioni e in altre ancora. Fatto sta che
finora la Tunisia è riuscita a trarre utili lezioni dalle esperienze dei paesi dell’area e a
evitare di cadere negli stessi errori. Non è rimasta immobile come l’Algeria e il Marocco,
non è caduta nella trappola della guerra civile come la Siria e la Libia, e non è ritornata a
una dittatura ancora più dura di prima come è il caso dell’Egitto.
Il bersaglio di tutte le invidie
Ma è proprio questa eccezione che rende il piccolo paese mediterraneo bersaglio di tutte
le invidie e di tutti i rancori. La guardano male i regimi ancora in piedi perché dimostra che
la società araba-musulmana è in grado di vivere in democrazia senza un “grande fratello”
che bada a tutto. E la guardano male le opposizioni integraliste, più o meno, per le stesse
ragioni.
Gli unici a guardarla con approvazione e ammirazione sono i democratici-laici nei paesi
arabi-musulmani. Ma purtroppo, questi ultimi possono portare ben poco aiuto alla Tunisia,
perché contano meno di niente attualmente nella maggior parte dei paesi dell’area. Lo
scacchiere è occupato con prepotenza dal terrore dei salafiti e da quello dei regimi
polizieschi.
Mi dispiace di deludere l’egocentrismo occidentale ma l’attentato sulla spiaggia di Sousse
ha gli stessi obiettivi di quelli sulle spiagge algerine di 20 anni fa: bloccare e terrorizzare un
paese. Non fa parte di una «guerra contro l’Occidente», come gridano le prime pagine di
molti giornali. È vero che le vittime sono occidentali. Ma l’obiettivo strategico è la Tunisia.
L’obiettivo è quello di portare il paese allo stremo tagliando la sua principale attività
economica.
Lo stato nordafricano ha una economia molto debole. Una economia che poggia
principalmente su due gambe: turismo e agricoltura. C’è da dire però che questo
«bipedismo» è un po’ zoppicante perché l’agricoltura è stata trascurata durante il regime
precedente e lasciata a se stessa di fronte alla desertificazione che avanza, alla
mancanza d’acqua e di fronte alle crisi periodiche dovute alla concorrenza spietata con
paesi molto meglio organizzati e attrezzati.
Invece sul turismo si è investito tanto sia a livello privato che statale, facendo di questa
attività, nello stesso tempo, la forza e la debolezza del paese. Perché, come si sa, il
Turismo è una attività che porta entrate facili e veloci in moneta forte, ma nello stesso
tempo è una attività molto fragile che ha bisogno di pubblicità e di stabilità e sicurezza
prima di tutto. Questa è l’eredità pesante che ha ricevuto il paese dal regime di Ben Alì.
Una eredità che concentra tutta la sua ricchezza lungo la costa e taglia fuori tutto il paese
profondo. Una eredità sbagliata che la giovane democrazia tunisina non ha saputo o non
ha avuto modo e tempo di correggere. E gli ultimi attentati vengono per sfruttare questa
debolezza.
Due attentati un obiettivo
L’attentato di Sousse e quello che ha colpito il museo del Bardo poche settimane fa hanno
entrambi lo stesso obiettivo: portare il paese al crollo economico.
La crisi economica va sempre a favore degli estremismi. Lo scontro sociale che
nascerebbe da un crollo dell’economia turistica in Tunisia, con i gruppi armati pronti a
intervenire dalla vicina Libia e con il potente esercito algerino che non accetterebbe mai il
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rischio di una presa di potere dei salafiti a due passi dai suoi confini, porterebbe il paese di
nuovo di fronte alla scelta tra la peste e il colera: oscurantismo religioso o dittatura militare.
Il ritorno a tale situazione annullerebbe del tutto l’eccezione tunisina e riporterebbe la
nazione alla casella di partenza. La farebbe rientrare nella “norma” regionale. Un ritorno
alla normalità che piacerebbe tanto sia ai paesi vicini che ai gruppi salafiti e forse, in fin dei
conti, a tutti quanti… Tranne che ai tunisini stessi.
del 03/07/15, pag. 12
Egitto, anniversario con scioperi
Egitto. A due anni dal golpe militare il sindacalismo indipendente si
impegna su lotte locali dopo il divieto di sciopero imposto dal governo.
L’esercito va all’attacco dei cementifici di el-Arish, mentre il governo
punta su una politica liberista e a favore degli strati più ricchi, come
dimostra l’eliminazione della tassa sui redditi milionari. Si tratta di una
chiara predilezione del regime per i potenti gruppi di affari, a scapito
delle fasce più deboli della popolazione
Gianni Del Panta e Francesco De Lellis
IL CAIRO
Il grande movimento di massa degli ultimi quattro anni in Egitto ha coinciso con imponenti
e diffuse contestazioni operaie. Gli scioperi nelle fabbriche hanno davvero messo alle
strette il regime. Tutti i momenti chiave della storia egiziana recente dalla destituzione di
Mubarak al golpe militare, fino alla fine del primo governo ad interim, sono state precedute
da imponenti mobilitazioni nelle fabbriche.
Neoliberismo
Le cose peggiorano. Jano Charbel, attivista vicino al movimento operaio, boccia il regime
militare senza mezzi termini. «La politica economica di al-Sisi è la più neo-liberista mai
sperimentata dall’Egitto, rappresenta l’apice del processo avviato da Sadat e poi
proseguito negli ultimi disastrosi vent’anni della presidenza Mubarak», ci assicura. Agli
occhi di molti osservatori non è chiaro quanto questa direzione sia frutto di una precisa
strategia del regime militare del Cairo o piuttosto una scelta forzata dalla necessità di
rinsaldare i legami con le élite capitaliste nazionali e internazionali, vitali per attirare
investimenti. Sta di fatto che misure come l’eliminazione della tassa sui redditi milionari e
la riduzione dell’aliquota massima di tassazione al 22,5%, per citare solo le ultime, danno il
polso di una chiara predilezione del regime per i potenti gruppi di affari a scapito delle
fasce più deboli della popolazione.
Il decantato «ritorno alla stabilità», ottenuto al prezzo di migliaia di morti in piazza, arresti e
condanne di attivisti, non si è tradotto in crescita economica, come promesso dagli autori
del golpe, e il clima che si respira oggi, soprattutto tra i giovani che speravano nella ripresa
economica, è di profonda rassegnazione. Gli attacchi del regime ai lavoratori e alle libertà
sindacali sono sempre più determinati. È del 28 aprile scorso la notizia di una sentenza
dell’Alta corte amministrativa che rende illegale lo sciopero e costringe al pensionamento
forzato i lavoratori condannati con questa accusa. Lo scorso 2 giugno, un veicolo militare
ha aperto il fuoco su un sit-in di operai che chiedevano un’ambulanza per un compagno
ferito sul lavoro, in un cementificio di proprietà dell’esercito ad el-Arish, nel Sinai.
L’attacco si è concluso con la tragica morte di un lavoratore e il ferimento di altri tre, e
rappresenta un preoccupante segnale del livello di intolleranza dei militari verso le
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mobilitazioni dei lavoratori. Dopo questo episodio si è tenuta un’assemblea a cui ha
partecipato anche un alto ufficiale che tentava di placare gli animi degli operai. «Quella
divisa che voi portate è di nostra proprietà. Vogliamo un’inchiesta sull’accaduto, vogliamo
essere trattati come esseri umani», gli ha urlato uno dei contestatori.
Crisi e mobilitazioni
«L’esercito vuole far passare il concetto che la rivoluzione sia finita con la caduta di
Mubarak e che oggi le proteste operaie rappresentino solo rivendicazioni corporative
contrarie all’interesse nazionale», aggiunge Charbel. Tale visione è supportata anche dal
sindacato unico Etuf (Federazione egiziana dei sindacati), che in occasione delle
celebrazioni della Festa del lavoro presso l’Accademia di polizia, ha consegnato al
presidente al-Sisi un «codice di condotta» in cui esprime il «rifiuto degli scioperi», si
impegna al dialogo con governo e imprenditori e denuncia la «politicizzazione del
sindacato», con riferimento al movimento sindacale indipendente.
La Federazione egiziana dei Sindacati indipendenti (Efitu — prima nella storia del paese,
fondata simbolicamente in piazza Tahrir a pochi giorni dall’inizio delle rivolte antiMubarak), è già stata protagonista di lunghe stagioni di scioperi e mobilitazioni, ma vive
oggi un periodo di crisi. Uno spartiacque decisivo è stato proprio il golpe del 3 luglio 2013,
apertamente appoggiato da alcuni dei leader più importanti di Efitu. La frattura aperta in
quel frangente si è andata ad aggiungere ad altre difficoltà e limiti preesistenti.
«Nonostante possa contare su una lunga esperienza in scioperi e mobilitazioni, il
movimento dei lavoratori non ha avuto tempo e modo di maturare le capacità necessarie a
costruire e gestire organizzazioni sindacali», ci dice Heba Khalil dell’Egyptian Center for
Economic and Social Rights (Ecesr), think tank dell’avvocato comunista Khaled Ali. A
questo si aggiungono le grosse ambiguità nel quadro giuridico che regola la costituzione
dei sindacati, gli impedimenti burocratici per ottenere un riconoscimento legale, e i
problemi finanziari a cui questi vanno incontro.
«Molti lavoratori hanno paura delle conseguenze economiche per chi lascia la federazione
ufficiale (Etuf): il rischio è quello di perdere le quote versate per anni nelle casse del
sindacato, e con esse dover rinunciare ad una buonuscita che può arrivare anche a
100mila ghinee (l’equivalente di quasi 12mila euro)», considera Nadine Abdallah del
German Institute for International and Security Affairs di Berlino.
Repressione
Difficoltà organizzative e repressione fanno sì che le proteste operaie vengano
organizzate su base locale, con rivendicazioni limitate e a breve termine, senza
l’articolazione di una strategia comune. Anche le accuse di sabotaggio e terrorismo nei
confronti dei sindacati indipendenti si sono fatte frequenti dopo la deposizione di Morsi, ma
in maniera più leggera rispetto a quanto accaduto agli ordini professionali, teatro di vere e
proprie epurazioni ai danni dei sindacalisti vicini alla Fratellanza musulmana. Nonostante
le pressioni sul sindacato, secondo un rapporto del Mahrousa Center, le proteste operaie
nei primi mesi del 2015 sono state 393, un numero che indica sì una flessione rispetto agli
anni precedenti ma che in realtà dimostra un livello piuttosto alto di conflittualità nei luoghi
di lavoro.
La stampa indipendente e le ong che si occupano di diritti sociali riportano ogni giorno
notizie di proteste, marce, scioperi e occupazioni sui luoghi di lavoro, senza contare i
numerosi conflitti aperti nelle campagne tra contadini e gruppi di affari per l’accesso alla
terra e alle risorse idriche. Nonostante la puntuale risposta violenta degli apparati di
sicurezza e la chiusura dello spazio politico, la rilevanza del fenomeno testimonia forse la
più grande conquista della cosiddetta «Primavera egiziana» e dei movimenti sociali che
l’hanno animata: il superamento delle paure e una maggiore disponibilità a protestare e
organizzarsi di fronte alle violazioni dei diritti.
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Per questo si dice ottimista Talal Shokr, tra i primi animatori del movimento sindacale
indipendente, membro del consiglio direttivo della Federazione democratica dei lavoratori
(Edlc). Lo incontriamo nella sede del Centro servizi per sindacati e lavoratori (Ctuws), a
pochi passi da piazza Tahrir. Lo troviamo indaffarato mentre detta il testo di un volantino a
un altro attivista che batte alla tastiera le parole del compagno più anziano. Talal oggi si
occupa di girare in lungo e in largo l’Egitto per tenere seminari di formazione diretti a
lavoratori e contadini che intendono costituire sindacati indipendenti sui posti di lavoro o
nei villaggi. «Il movimento crescerà, sono fiducioso», ci assicura sfoderando un grande
sorriso.
del 03/07/15, pag. 16
Prigionieri del regime di al-Sisi
Egitto. Il paese è al centro di un conflitto contro jihadisti e islamisti
moderati
Giuseppe Acconcia
Sono passati due anni sanguinosi dopo il terribile golpe del 3 luglio 2013, che abbiamo
raccontato su queste pagine dai sit-in islamisti di tutto il paese.
Ma l’Egitto di al-Sisi non si è stabilizzato. Altro che i diritti gridati in piazza Tahrir nel 2011.
Il paese si è trasformato nella culla del sospetto e della repressione dei movimenti giovanili
ma anche nel centro di un conflitto contro jihadisti e islamisti moderati che ha effetti in tutta
la regione.
I morti della guerra nel Sinai sono forse 170 tra civili, soldati, poliziotti e jihadisti soltanto
nei combattimenti di mercoledì. Un vero attacco allo Stato che ha prodotto già nuove leggi
anti-terrorismo, processi per direttissima e potrebbe avvicinare il giorno dell’esecuzione di
Morsi e dei leader della Fratellanza.
Sono stati ben 15 i sofisticati attacchi simultanei a due passi dalla Striscia di Gaza mentre i
droni israeliani sorvolavano la zona. A Sheikh Zuweid ieri c’erano scene di distruzione,
degne di Siria e Iraq, con jihadisti ancora asserragliati in alcuni palazzi, tanto che l’esercito
egiziano ha assicurato che accetterà anche incursioni israeliane se la guerra dovesse
andare avanti. E almeno 22 sono i jihadisti uccisi solo ieri in un raid condotto dall’aviazione
del Cairo su Rafah.
La vigilia dell’anniversario è stata così segnata da una notte intera di manifestazioni e
scontri in molti quartieri del Cairo. Secondo fonti della Fratellanza, a Ein Shams i poliziotti
hanno lanciato gas lacrimogeni all’interno e vicino a celle di detenuti. Questo avrebbe
potuto provocare il loro soffocamento. Ma gli abitanti della zona sono intervenuti giusto in
tempo per bloccare l’attacco.
Tragici sono stati poi i funerali dei dieci politici della Fratellanza uccisi mentre tenevano
una riunione in un appartamento della città satellite di 6 Ottobre. Il medico legale ha
riscontrato segni di tortura e fratture multiple, inchiostro da impronte digitali sulle dita.
Questo significa che gli uomini sono stati arrestati, poi identificati, per essere quindi
torturati e uccisi a sangue freddo. Non ci sono infatti segni di sparatorie sebbene le
autorità egiziane li abbiano accusati di resistenza all’arresto.
Questo attentato potrebbe segnare il ritorno della Fratellanza alle contestazioni. «Il
criminale Abdel Fattah al-Sisi sta preparando le basi per una nuova fase dove non sarà
possibile controllare la rabbia degli oppressi», si legge in un duro comunicato del
principale partito di opposizione, ora fuori legge.
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Questo è il paese del generale che ha visitato mezza Europa e presto sbarcherà in Gran
Bretagna, salutato come il salvatore della pace in Medio oriente. Ma invece dietro la
maschera si nasconde l’uomo che più ha esasperato il conflitto sociale e politico dopo la
fine dell’occupazione inglese in Egitto.
Ha trasformato il Medio oriente in una regione in guerra tra Stato e islamismo politico
come sinonimo di terrorismo, ha reso impossibile l’ingresso nell’arena politica (non
parliamo di elezioni parlamentari che in Egitto non si svolgono da tre anni) dei movimenti
giovanili e dei partiti islamisti, eccetto i suoi solidi alleati salafiti.
Mai dimenticheremo i volti dei giovani che in poche ore, forse quasi in 2 mila, sono morti o
spariti dopo lo sgombero di Rabaa, le sparatorie fuori alla moschea al-Fatah, la
repressione durissima dei movimenti studenteschi, la morte dell’attivista comunista
Shaimaa al-Sabbagh mentre portava una rosa in piazza Tahrir.
Tutto questo (insieme all’immagine di Mahiennour el-Masry ancora dietro le sbarre) ci fa
credere che la rivoluzione non sia finita o forse non ci sia ancora stata in un paese che
deve guidare il Medio oriente verso il cambiamento ma è invece prigioniero di un regime
militare aggressivo, delle lotte di potere tra militari e polizia, della guerra tra giudici, il
centro dei servizi deviati e collusi con l’islamismo radicale.
Del 3/07/2015, pag. 19
Il conflitto. Più di 150 morti nelle ultime 24 ore. Per la penisola sono i
giorni più insanguinati dalla guerra del 1973. La paura lungo il confine
Nel Sinai martoriato dagli “uomini neri”
Israele ed Egitto un fronte contro l’Is
FABIO SCUTO
KEREM SHALOM
LA “ guerra della porta accanto” fa sentire in Israele gli echi delle esplosioni, il rumore degli
elicotteri da combattimento Apache a volo radente, mostra le scie bianche dei caccia F-16
nel cielo blu e le volute di fumo nero che ancora si alzano a Rafah e a Sheikh Zuweid, le
due città che i miliziani dello Stato Islamico nel Sinai hanno attaccato in forze e dove
proseguono gli scontri. Per le sabbie del Sinai sono i giorni più sanguinosi dalla guerra
arabo-israeliana dello Yom Kippur del 1973. Centocinquanta morti in 24 ore, e la quasi
certezza che è solo l’inizio.
Sul lato israeliano della frontiera con l’Egitto i fortini dell’Idf sembrano deserti. Ma è solo un
inganno visivo. In tutto il fronte sud è stato proclamato lo stato di allerta massima, nella
notte sono stati fatti affluire rinforzi con rapidità. Il ronzio dei droni in volo avverte che
israeliani stanno guardando con attenzione a quel accade oltre il confine, nelle case che si
distinguono nettamente a occhio nudo. «Ecco là le torri di Rafah», dice Slomo Elaine, un
agricoltore della fattoria “Cactus”, indicando con il dito l’abitato che si vede oltre la rete
elettrificata che marca il confine, ieri (mercoledì, ndr) abbiamo pensato che erano i nostri a
colpire a Gaza, poi abbiamo capito che tutto avveniva oltre la frontiera egiziana». Sono
diverse le comunità agricole del Consiglio regionale del Negev che vivono a ridosso del
confine, hanno ricevuto l’indicazione di stare lontano dai campi coltivati che costeggiano la
frontiera. Infatti non si vedono in giro né trattori né agricoltori. «Al momento non ci sono
indicazioni particolari, ma dobbiamo restare vigili e ben lontano dal confine», spiega Anan
Shion, il capo delle squadre di emergenza di Kadesh Barnea, «ci sono i nostri soldati che
pattugliano dappertutto, ci sentiamo al sicuro e proviamo a mantenere la nostra routine
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quotidiana ». Ma la preoccupazione dei vertici militari che la “guerra della porta accanto”
possa dilagare anche verso il sud di Israele è concreta. L’offensiva della “Wilaya del Sinai”
dello Stato Islamico, la branca islamista egiziana che ha giurato fedeltà al Califfato, ricalca
quella dei combattenti jihadisti in Siria e Iraq. Uno sciame di attacchi contemporanei per
conquistare un’intera città, stabilirne il controllo, e da lì espandersi nelle aree e regioni
confinanti. E questo hanno tentato di fare quasi trecento miliziani dell’Is a Sheikh Zuweid,
la città beduina, con l’obiettivo di espandersi fino a Rafah e forse entrare nella Striscia di
Gaza, dove i salafiti filo-Is stanno creando molti problemi ad Hamas. E questo potrebbe
spingere il presidente egiziano Al Sisi ad “invitare” Israele – con il quale i rapporti sono
molto buoni vista la sua fermezza contro il terrorismo islamico – ad agire nella Striscia. I
due eserciti potrebbero già essere in fase di coordinamento in preparazione di una simile
eventualità, prospetta qualcuno. Le forze armate egiziane schierate da due anni nel Sinai,
sono state sorprese dalla portata dell’attacco dell’Is che dimostra una lunga pianificazione
e una impressionante capacità di fuoco con i nuovi missili anticarro Kornet, mortai,
contraerea mobile e altri tipi di missili. Le linee di alimentazione di questi gruppi islamisti si
estendono dalla Libia al Sudan, dalla caduta di Gheddafi dagli inesauribili arsenali libici
lungo la strada costiera egiziana è passato di tutto, armi leggere e pesanti. Secondo la
sicurezza egiziana ci sono 2 milioni di armi illegali in Egitto che dopo la destituzione di
Morsi hanno ucciso 700 fra soldati e po-liziotti, la maggior parte dei quali nel Sinai.
L’esercito egiziano credeva di poter bloccare questi gruppi armati tagliando le fonti di
finanziamento e degli armamenti. A Rafah l’esercito ha spianato più di 2000 case lungo il
confine con Gaza dove sta costruendo anche una trincea larga 10 metri per eliminare i
tunnel del contrabbando. Ma queste misure non possono sostituirsi alla caccia sul terreno.
Questa è la difficoltà tattica dei generali del Cairo, anche se con permesso di Israele
stanno usando caccia, elicotteri da combattimento e tank, ci sono grandi difficoltà nel
trovare e colpire le grotte e gli altri nascondigli dei jihadisti del Sinai.
Una delle questioni principali riguarda ora l’atteggiamento della popolazione civile. Il
triangolo tra Sheikh Zuweid, El Arish e Rafah è prevalentemente popolato da tribù
beduine, che per anni sono state ignorate dalla società egiziana e dal governo. Le
promesse di Al Sisi per lo sviluppo della regione del Sinai settentrionale finora non sono
state mantenute. Alcune tribù, come gli influenti Tarabin, hanno promesso di collaborare
con l’esercito egiziano. Ma in molti si oppongono, soprattutto dopo la brutale evacuazione
di oltre 2000 case a Rafah senza indennizzo per gli sfollati. Quasi tutti si sono trasferiti a El
Arish e a Sheikh Zuweid. Possono essere tentati di cooperare con lo Stato Islamico, che è
in grado di pagare stipendi generosi a coloro che si offrono volontari nei suoi ranghi.
Del 3/07/2015, pag. 16
Fatima e gli altri aspiranti jihadisti
La rete dell’Isis nella provincia italiana
L’incontro della convertita con l’albanese che le trovò marito e
l’indottrinamento online MILANO L’incontro avviene per caso, a San Paolo d’Argon,
5 mila abitanti, 10 chilometri da Bergamo. Le due donne col velo che si aggirano tra gli
scaffali della fiera del libro islamico M’arid Al-Kitab sono Maria Giulia Sergio, 27 anni, già
convertita col nome di Fatima, e la sorella Marianna. È la primavera del 2014: quel giorno
conoscono una ragazza albanese, Lubjana G. La donna racconterà di essere stata molto
colpita dalla preparazione religiosa di Maria Giulia, che le ha anche spiegato di essere alla
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ricerca di un marito per unirsi all’Isis. Quel che accade dopo, lo riferisce Lubjana G. a
un’amica: le «ho descritto un fratello musulmano che vorrebbe una moglie per andare al
jihad e non riesce a trovarla. Lei era contenta, è diventata pazza».
Quel matrimonio è stato celebrato in moschea con Aldo Kobuzi, 23 anni, albanese. Due
giovani che non si conoscevano; 5 giorni dopo le nozze si sono uniti al Califfato.
L’inchiesta della Digos e della magistratura milanese è partita da quel matrimonio e ha
portato ai dieci ordini di arresto a carico dei due nuclei familiari. L’indagine rivela questa
nuova dimensione del radicalismo in Italia: non più gli emissari di Al Qaeda e le loro
cellule, ma un’inedita realtà provinciale e pulviscolare, dove alcune reti albanesi stanno
assumendo un ruolo notevole. Basta ripercorrere i luoghi: la prima jihadista italiana viveva
a Inzago (Milano), ha fatto l’incontro casuale che le ha permesso di coronare il suo sogno
a San Paolo D’Argon e s’è sposata a Treviglio (Bergamo), ha passato i primi giorni di
nozze in casa dello zio del marito a Scansano (Grosseto). Il profilo è chiaro: famiglie
albanesi di lavoratori, in piccolissimi paesi di provincia, che sono in grado però di trovare i
contatti, aiutare, fornire supporto e indicare la strada per chi vuole entrare nell’esercito del
Califfato. Lubjana G. e il marito (anche loro residenti a Treviglio) sono ora indagati per
favoreggiamento nell’indagine milanese. Uno scenario molto simile è stato documentato
dalla Digos di Brescia lo scorso marzo: Elvis Elezi, albanese di Ciriè (Torino), sarebbe
l’uomo che ha indottrinato il giovane rapper Anas El Abboubi, residente con la famiglia a
Vobarno (Brescia) e poi partito per la Siria. Questa è la base del nuovo radicalismo di
provincia, dei giovani pronti a morire per il Califfato, o dei lavoratori insospettabili (lo zio
del marito di Maria Giulia — arrestato in Albania — in Toscana faceva il boscaiolo) che
sono però in grado di trovare i contatti per sostenere i combattenti. Questo bacino di
fiancheggiatori e potenziali mujahed sarebbero però quasi inerti senza le strutture
superiori dell’Isis. Le guide sono sia spirituali, sia operative. E si muovono su due piani:
predicatori in pellegrinaggio e maestri che tengono classi di jihad in Rete.
Il caso più noto è quello di Bilal Bosnic, bosniaco, ritenuto a capo di una rete di
reclutamento. Bosnic ha più volte battuto «in trasferta» la provincia italiana (Pordenone,
Cremona, Bergamo, Siena e Roma). Poi Shefqet Krasniqi, imam di Pristina, più volte
arrestato, presente proprio nella zona di Grosseto nel 2013. E infine Bujar Hysa,
colonnello di un gruppo di reclutatori albanesi arrestati nel 2014: non risultano suoi
passaggi in Italia, ma il collegamento con la storia della jihadista italiana è ancor più
stretto. La sorella del marito di Maria Giulia Sergio s’era già unita al Califfato, insieme al
marito e al figlio: il viaggio verso la Siria è stato pagato da Hysa.
Il ruolo di «maestra» spirituale, per le due sorelle Sergio, per la donna albanese di
Treviglio e per altre loro amiche, l’ha invece incarnato Bushra Haik, 29 anni, siriana nata a
Bologna e vissuta in Italia fino al 2012, oggi ricercata. In passato molto conosciuta e attiva
tra il capoluogo emiliano e Milano, da Riyadh (Arabia Saudita) ha gestito gruppi di studio
online con più di 300 donne iscritte. Quando l’Isis mette al rogo un pilota giordano, Bushra
spiega che si tratta di una giusta punizione, «perché un musulmano che si allea ai
miscredenti diventa uno di loro».
del 03/07/15, pag. 5
Ecuador, «sventato un colpo di stato come
quello in Venezuela»
La denuncia. Intervista a Juan Meriguet, dirigente di Alianza Pais
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Geraldina Colotti
Massima allerta, in Ecuador, dopo la scoperta di un tentativo di golpe, denunciato dal
governo. «Il modello – dice al manifesto Juan Meriguet — è quello del golpe blando, il
golpe morbido che è stato progettato anche in Venezuela e che vorrebbe portare a risultati
come quelli che abbiamo visto sei anni fa in Honduras con la deposizione militare del
presidente legittimo, Manuel Zelaya o di Fernando Lugo in Paraguay». Come nel golpe
progettato in Venezuela e sventato qualche mese fa, erano già pronti proclami da
pubblicare sui giornali di opposizione. A tessere le trame, uomini politici delle destre
«legati alla Cia e alle sue agenzie come l’Usaid, e due colonnelli, uno dei quali in
pensione, Mario Pazmino, ex capo dell’intelligence militare, e un altro, César Carrion, che
dirigeva l’ospedale della polizia nel quale il presidente Rafael Correa venne sequestrato
per ore nel 2010. In prima fila, il deputato Andrés Paez».
In questo caso, tutto si è messo in moto con le proteste dell’opposizione, scoppiate
quando il presidente Rafael Correa ha annunciato di aver proposto al parlamento «un
testo di legge per tassare i profitti e l’eredità delle grandi fortune». I golpisti prevedevano
«di accerchiare il palazzo del governo e di bloccare gli aeroporti di Guayaquil e Quito, città
governate dall’opposizione, facendo confluire due diverse manifestazioni: quella
evidentemente capitanata dall’oligarchia e un’altra che avrebbe dovuto assumere
sembianze più larghe, anche di sinistra. Infatti, una delle persone coinvolte appartiene a
un settore indigeno legato alla Conaie, e prima di tutto alla Cia». Però — chiediamo a
Meriguet — esiste davvero un’opposizione che vi contesta dall’ estrema sinistra…
«Nell’arco di forze che appoggia la coalizione Alianza Pais — risponde — vi sono molte
componenti marxiste-leniniste e di estrema sinistra, ma è una dialettica tutta interna al
cambiamento che si è messo in moto con la revolucion ciudadana. Esiste poi una piccola
componente dogmatica che avanza rivendicazioni corporative e che scende in piazza con
l’oligarchia, senza tener conto che la rivoluzione è un processo, si costruisce ogni giorno e
con una rappresentanza vera». Correa stesso — chiediamo ancora — ha però detto che
in Ecuador il 2% possiede oltre il 90% delle risorse del paese. Perché è ancora così?
«Abbiamo realizzato grandi cose. Abbiamo riconquistato la sovranità piena, rinegoziando il
debito con le grandi istituzioni internazionali. Vedete quel che invece sta accadendo in
Grecia. Abbiamo chiuso le basi militari Usa, stiamo costruendo un sistema di più equa
ridistribuzione».
Qualora non fossero riusciti a far cadere il governo, i golpisti avrebbero dovuto comunque
provocare il caos per far fallire la visita di papa Bergoglio, prevista per dopodomani: «Papa
Francesco — spiega Juan — apprezza molto le idee economiche di Correa, lo ha invitato
alla discussione ristretta sull’Enciclica Laudato si’ sull’ambiente. La nostra costituzione è
l’unica al mondo che contempla i diritti della natura, intesa come soggetto».
Ieri, i sostenitori di Correa hanno deciso di farsi sentire, e sono tornati in piazza a migliaia:
«I contestatori — dice ancora Meriguet hanno pieno diritto di manifestare pacificamente.
Sospendendo il testo di legge e invitando tutta la società al dialogo, il presidente ha
riconosciuto che dobbiamo fare un passo indietro. Ma non lasceremo che il popolo torni a
subire il neoliberismo».
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INTERNI
Del 3/07/2015, pag. 10
Per rivedere la legge Renzi aspetta la Corte
“La grana ormai l’ha risolta il tribunale”
IL RETROSCENA
GOFFREDO DE MARCHIS
CARMELO LOPAPA
Dopo il via libera a De Luca, la linea di Matteo Renzi non cambia: la legge Severino non si
tocca. Nel gigantesco gioco del cerino intorno alla norma anticorruzione del governo
Monti, toccherà alla Corte Costituzionale, a fine ottobre, pronunciarsi su regole che
dimostrano, sommerse di ricorsi, una complicata applicazione. Il premier confida ai suoi
collaboratori di avere segnali di «un orientamento della Consulta a correggere la Severino,
a chiarire i termini delle sospensioni». Ma i rapporti del governo con la Corte sono quelli
che sono, come dimostra la sentenza sulle pensioni. Quasi nulli, se non ostili. A ottobre il
presidente della Consulta sarà ancora Alessandro Criscuolo, lo stesso giudice che
secondo i rumors ha orientato il provvedimento contro la mancata indicizzazione degli
assegni previdenziali. Dunque, le voci “rassicuranti” di oggi possono trasformarsi in una
brutta sorpresa domani. Ma il caso Campania è in qualche modo superato e «adesso non
ci sono elezioni in vista, almeno non fino all’autunno, se Dio vuole», dice Renzi
commentando la decisione dei giudici civili di Napoli.
È un punto a favore del premier, quello segnato ieri. La Campania avrà un governo, le
elezioni sono confermate. «De Luca è candidabile, eleggibile e insediabile », disse il
vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini in piena campagna elettorale. Nel caos, ha avuto
ragione. Davanti all’istanza durissima dei legali contro la presidenza del Consiglio, accolta
dai magistrati napoletani, lì dove si dice che il decreto di sospensione era «disinvolto,
destabilizzante, screditante », Renzi anzichè raccogliere la polemica si è fatto una risata.
«Li capisco, con la sospensione immediata abbiamo buttato la palla nel loro campo ed è
toccato a loro decidere se sciogliere la Regione oppure no. Una bella patata bollente ».
Poi, è arrivato l’assist di Raffaele Cantone che ha confermato il suo giudizio: «La legge
Severino presenta delle criticità». Ma questo non smuove Palazzo Chigi: sarà la Consulta
a indicare una rotta. E il Pd starà fermo anche in Parlamento.
C’è una proposta di modifica presentata dal luogotenente salernitano di De Luca, Fulvio
Bonavitacola, ma rimarrà nei cassetti. «L’ho detto anche a lui - spiega il responsabile
giustizia del Pd Davide Ermini - , abbiamo altri provvedimenti molto importanti in ballo, non
ha senso accelerare. Tanto vale aspettare ottobre». E sull’interia materia pesa il fantasma
di Berlusconi. «Come possiamo spiegare un intervento adesso all’ex premier?», ripete da
mesi Renzi. Berlusconi sa che per lui il pronunciamento di ieri non fa testo. Perché non è
un amministratore ma soprattutto perché la sua condanna non è di primo grado, bensì
definitiva, gli ha spiegato Ghedini. In ogni caso, il leader di Forza Italia fin dal mattino
scatena il fuoco di tutto il partito contro la Severino, additata come legge «contra
personam», come sintetizza la portavoce Deborah Bergamini. Per il momento, spiegano i
suoi collaboratori, l’ex premier non farà alcuna mossa, nessun ricorso, nessun atto
concreto. Non potrebbe farne e poi il momento non è dei migliori. Quel che sta
riemergendo dall’inchiesta sulla corruzione in atti giudiziari, il cosiddetto Ruby ter, non gli
fa dormire sonni tranquilli. Berlusconi è indagato e il panico da misure cautelari è tornato a
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impossessarsi di lui. «Non mi danno mai pace, è un accanimento senza sosta, non si
fermeranno finché non mi vedranno in galera» è stato uno degli sfoghi più frequenti di
queste ore. Quanto alla Severino, l’attesa è per la sentenza della Corte Costituzionale.
Soprattutto se rimetterà in discussione il principio da sempre contestato dalla truppa
forzista della retroattività nell’applicazione della norma. Solo in quel caso, è stato spiegato
al Cavaliere, verrebbero meno i presupposti del cartellino rosso con cui nel novembre
2013 è stato espulso dal Senato e dalle cariche elettive almeno per i prossimi tre anni. E
poi c’è la Corte di Strasburgo, alla quale i legali hanno avanzato un ricorso contro la
sentenza di condanna. Ma l’esito (entro l’anno) è tutt’altro che scontato.
In queste ore però l’apprensione per le nuove intercettazioni, le prove dei passaggi di
denaro ai testimoni e dei ricatti subiti dalle olgettine prevalgono su tutto. Tranne che sulla
rabbia di fondo. Alla quale dà voce il governatore ligure Giovanni Toti, prima di
raggiungere Berlusconi ad Arcore in serata: «De Luca e De Magistris sono la
dimostrazione che la legge è uguale per tutti, a patto che non ci si chiami Silvio Berlusconi.
L’avversario più temuto».
Del 3/07/2015, pag. 11
LA RELAZIONE DELL’AUTORITÀ ANTICORRUZIONE
Cantone: “La Severino va cambiata ma senza
toccare la sospensione”
LIANA MILELLA
ROMA . La Severino? Raffaele Cantone non esita: «Una legge utile». Da rivedere? «Non
tanto sugli aspetti della sospensione, ma su molti altri ». Nella sala della Regina, a
Montecitorio, il presidente dell’Anticorruzione presenta la relazione del primo anno di vita
dell’Authority mentre a Napoli i giudici decidono su De Luca. Conclusione giusta o
sbagliata? «Da rispettare, come tutte quelle giudiziarie». Ancora: «Sulla Severino bisogna
aspettare la Consulta che deciderà non a distanza di anni, ma di mesi». Ad ottobre. E
comunque, proprio perché non ci siano equivoci, Cantone rivela «di aver chiesto al
governo di costituirsi in giudizio per sostenere la sospensione, poi sarà la Corte a stabilire
quali sono gli ambiti». Dunque la posizione dell’ex pm di Napoli è chiara, tagliando alle
«criticità » della legge, «obblighi semplificati, potere sanzionatorio rivisitato, conseguenze
punitive per chi non osserva gli ordini dell’Anac». Modifiche anche dei punti «incerti e
contraddittori» in tema di inconferibilità e incompatibilità per gli incarichi dei pubblici
funzionari. Ma la sospensione per chi è condannato non è nell’agenda dei punti da
cambiare. Una relazione di 329 pagine, un discorso di 18, un parterre che raccoglie
Grasso, Boldrini, Bindi in prima fila, Gianni Letta, De Gennaro poco dietro, ministri e capi
delle polizie, Squitieri della Corte dei conti. l’ad di Autostrade Castellucci. Dice Boldrini: «I
politici corrotti vanno isolati e va tolto loro ogni riconoscimento, come abbiamo fatto per i
vitalizi ». Analisi e dati di Cantone sono sconsolanti: «Le indagini della magistratura, che
va ringraziata per l’impegno profuso, evidenziano come la corruzione sia sistemica e
alberghi soprattutto negli appalti pubblici, ma anche in altri “inattesi” come le attività sociali
affidate al terzo settore». La corruzione sta cambiando struttura, «sempre più raramente è
caratterizzata dal rapporto bilaterale tra chi dà e chi riceve e promana da organizzazioni, in
qualche caso mafiose, dove si ritrovano pubblici funzionari, imprenditori e faccendieri, un
sistema gelatinoso in cui si fa perfino fatica a dire chi è il corrotto e chi il corruttore». Serve
una politica «onesta, autorevole, credibile», e un’impresa «che scelga di stare dalla parte
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giusta». Nel futuro ci sono sfide «da far tremare i polsi», a partire dall’ultimo voto sul
codice degli appalti. Nel passato c’è la fotografia di quello che l’Authority ha riscontrato
finora. Innanzitutto «il risultato in chiaro scuro» dei piani anticorruzione. Controlli su 1.300
amministrazioni, voto di «insufficienza» perché la risposta è «burocratica. Flop per le
rotazioni obbligatorie, l’hanno fatte le Regioni per il 32%, 40% le università, 45% le Asl. Va
peggio per il whistlerblower, i pentiti della pubblica amministrazione, «solo il 61% ha
avviato la procedura ». All’Anac sono arrivate 20 segnalazioni. Giudizio positivo di
Cantone sui cittadini che, nel 68% dei casi, hanno scritto all’Anac a titolo personale.
Soddisfatto per il lavoro sugli appalti, a partire da Expo e Mose. Chiusi i controlli in 51 casi,
Metro C di Roma, alta velocità di Firenze, autostrada A4. Nato l’ufficio che vigila sulle
varianti. Decollata la “vigilanza collaborativa” per cui le stesse stazioni parlano con l’Anac.
Undici gli appalti commissariati, 571 le sanzioni pari a un milione di euro.
Del 3/07/2015, pag. 14
Il caso Roma
Città delusa dopo l’inchiesta su Mafia Capitale Il sindaco paga anche il
fatto che gli scandali sono avvenuti “a sua insaputa”
Marino onesto ma troppo debole il 73 per
cento oggi non lo voterebbe
ILVO DIAMANTI
Roma è una città delusa. Forse, disillusa. Perché le indagini del Ros e della Procura
rivelano un grado di collusione fra malavita e politica ampio e desolante. Ma, in fondo,
largamente pre-supposto dai cittadini. Così Marino e la sua giunta appaiono delegittimati.
Difficilmente, oggi, verrebbero rieletti. Anche se il Sindaco, personalmente, viene ritenuto
pulito. Irresponsabile. Ma ciò, in fondo, rischia di diventare una colpa. Guidare una nave
che affonda nella palude. A sua insaputa. Non è una giustificazione, tanto meno un merito.
Per il Capitano. Anche se, sulla piazza, non si vedono nocchieri capaci di emozionare.
Sono alcune, prime, immagini proposte da un sondaggio condotto negli scorsi giorni da
Demos per “la Repubblica”, presso un campione rappresentativo della popolazione
romana. Per tracciare una mappa dell’opinione pubblica nella Capitale in questo momento
particolare. Drammatizzata da scandali e rivelazioni continue, circa il peso delle
organizzazioni e delle pratiche illegali. E del loro intreccio con le attività della politica e
dell’amministrazione.
Quasi 9 romani su 10, secondo il sondaggio di Demos, ritengono la “mafia” – e il suo
sistema – molto oppure abbastanza diffusi a Roma. Per colpa di (quasi) tutte le forze
politiche (secondo l’80%). Mentre per il 15% il principale responsabile sarebbe il Centrodestra e per il 4% il Centro-sinistra.
Il Sindaco, Ignazio Marino, è ritenuto direttamente responsabile da poco più di un quarto
dei cittadini. Una componente delimitata, quindi. Ma una quota di elettori analoga pensa
che, anche se è estraneo al contesto mafioso, si dovrebbe dimettere. Quasi 4 romani su
10, infine, ritengono che Marino dovrebbe restare al suo posto. Perché “ irresponsabile”
della melma malavitosa che invade la città. Questo, però, sembra il vero problema
dell’amministrazione e del Sindaco. L’irresponsabilità. Il fatto che questo sistema di
corruzione e di illeciti sia cresciuto “a sua insaputa”. Così, anche se la maggioranza lo
ritiene “innocente”, Marino appare “colpevole”. Di “omesso governo” e controllo.
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D’altronde, quasi 7 elettori su 10 danno una valutazione negativa sul lavoro svolto
dall’amministrazione. E il 73% dei romani oggi non lo voterebbe, in caso di nuove elezioni
amministrative. La metà dei suoi stessi elettori del 2013 non gli confermerebbe il sostegno.
Il giudizio specifico sulle principali “politiche”, peraltro, risulta negativo. In modo pesante, in
alcuni casi: disoccupazione, manutenzione delle strade, viabilità, immigrazione, gestione
campi Rom, criminalità. Mentre appare più positiva la valutazione sulla qualità dei servizi
sociali e, soprattutto, culturali. Tuttavia, i romani valutano con diffidenza l’ipotesi di
sciogliere per mafia e di commissariare il Comune. (Circa il 50% è contrario, il 43%
favorevole.) Le ragioni, al proposito, sono diverse. La prima: Marino appare, come si è
detto, un sindaco debole, ma non complice del sistema criminale emerso dalle inchieste
dei magistrati. Anche per questo una componente minoritaria, ma estesa, di cittadini, lo
considera in grado di affrontare alcune delle prossime scadenze, particolarmente
importanti per la Capitale. Il Giubileo e la candidatura come sede olimpica, nel 2024.
In secondo luogo: non si vedono, per ora, alternative autorevoli e consolidate. Solo Giorgia
Meloni dispone di un grado di fiducia superiore a Marino. Ma non di molto: 35% a 30%. Le
altre figure testate nel sondaggio di Demos, invece, stanno “sotto” all’attuale sindaco.
Alessandro Di Battista, ma anche Alfio Marchini. Gianni Alemanno, infine, è lontano. Il
passato. Compromesso con il Mondo di Mezzo… Il discorso non cambia – terza ragione –
se si sposta l’attenzione dai candidati ai partiti. O, ancora, alle “parti” politiche. Perché la
frammentazione, in questo caso, risulta particolarmente accentuata. Il M5s, intorno al
30%, è davanti a tutti. In vantaggio di poco rispetto al PD. Il Centro-destra è molto indietro.
Come una possibile lista civica “indipendente”. Ovviamente, è poco plausibile fare stime di
voto se non si sa quando si andrà al voto. Con quali candidati, coalizioni… Al di fuori della
campagna elettorale. Ma i dati del sondaggio di Demos sono, comunque, utili a
comprendere come oggi, almeno, non vi siano ancora alternative chiare rispetto a questo
sindaco e alla sua attuale maggioranza. Perché Marino non sta sicuramente bene, ma il
PD non sta meglio. E, in fondo, non sta bene neppure la città. Ro- ma Capitale. Che
accetta di sentirsi “nomi- nare”, anche se in un’inchiesta giudiziaria, “Mafia Capitale”.
Peggio, molto peggio, di Roma Ladrona. Sopporta, cioè, una definizione che trasforma la
criminalità e la corruzione da un male metropolitano profondo in una patologia. Peggio: in
un sistema di “regolazione” della società, oltre che dei rapporti fra la politica e gli affari.
Magari mi sbaglierò, ma non credo che questa sia la verità. Comunque “tutta” la verità.
Anche se rischia di diventarlo. Perché l’immagine pubblica e mediale, quando, per
interessi faziosi o per pigrizia culturale, non viene messa in discussione, si confonde con
la realtà. E, alla fine, si sostituisce ad essa. Così Roma, per non diventare,
irrimediabilmente e intimamente, “mafiosa”, deve dissolvere il “mondo di mezzo”. Anzitutto
dal punto di vista “narrativo”. Distinguendo, senza indulgenza e senza generalizzare. Tra i
mafiosi e il “mondo per bene”.
Del 3/07/2015, pag. 15
Ora sarebbe un testa a testa Pd-M5S
IL CASO/LE ULTIME RILEVAZIONI DANNO AVANTI DI POCO DI
BATTISTA
FABIO BORDIGNON
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TESTA a testa tra Pd e M5s, al primo turno, e partita aperta al ballottaggio? Lo scenario
che gli ultimi sondaggi sembrano delineare, su base nazionale, a Roma emerge in modo
ancora più netto. Con i 5 stelle avanti di un paio di incollature.
Rapida premessa: la poltrona di Marino scricchiola, e in città si respira un clima preelettorale, ma una “vera” campagna ancora non c’è. E forse neppure ci sarà. Per questo,
gli orientamenti di voto formulati dai romani hanno un valore del tutto indicativo. Anche
perché, necessariamente, i rispondenti al sondaggio Demos si sono espressi su candidati
ancora “senza volto”. I risultati segnalano, tuttavia, un piccolo terremoto, rispetto alle
comunali 2013. In caso di voto anticipato, la maggioranza relativa (il 30%) sceglierebbe un
candidato 5 stelle. Il nome, già virale in rete, è quello di Alessandro Di Battista. Sebbene
sconosciuto a oltre un terzo dei cittadini, il membro del “direttorio” pentastellato
(incandidabile, secondo le regole interne) gode di un consenso personale di tutto rispetto:
con il 28%, si colloca a meno di due punti dal primo cittadino.
Se si votasse oggi, solo il 24% dei romani vorrebbe l’attuale sindaco come successore di
se stesso: il 73% è contrario, il 3% è indeciso. Mentre il 28% è propenso a votare per un
“generico” candidato di centro-sinistra. Lontani i tempi in cui Marino, con il 43%, si avviava
a strappare la fascia tricolore a Gianni Alemanno. Ma lontani anche i tempi in cui il
principale competitor era rappresentato dal centro-destra. L’ex-sindaco è visto con favore
da appena il 14%. E appena il 16% voterebbe per un candidato di centro-destra. Parte
politica che, paradossalmente, esprime la leader più popolare, nella Capitale: Giorgia
Meloni, che, grazie a un mix di radicamento sul territorio e appeal mediatico, guida la
graduatoria delle personalità politiche “locali” con il 35%.
Gli esponenti del vecchio schema bipolare possono ancora puntare ai voti che si collocano
alle proprie estreme estrema sinistra ed estrema destra, accreditate, ciascuna, del 5-6%.
Ma anche al soccorso - magari tra primo e secondo turno - di chi si dichiara “oltre” destra e
sinistra, ma è pronto a dialogare con entrambi i “poli”. É l’identikit di Alfio Marchini,
apprezzato dal 20% dei romani. La base di partenza, per un candidato “indipendente”, è
del 15%: un capitale di consenso che potrebbe modificare gli equilibri generali.
Del 3/07/2015, pag. 22
Tagli alla Sanità, tre Regioni dicono no: salute
a rischio
IL CASO /STRETTA DA 2,3 MILIARDI. AI MEDICI SARANNO DATI DEI
CRITERI PER EVITARE DI PRESCRIVERE ESAMI INUTILI
Nel giorno dell’accordo tra governo e Regioni sul taglio di 2,35 miliardi di euro al fondo
sanitario 2015, viene introdotta una novità assoluta per i medici di base, che dovrebbe
impedire — o per lo meno ridurre — la prescrizione di esami non necessari. E, seguendo
lo stesso principio, anche i ricoveri di riabilitazione inutili. In pratica, per ridurre il costo
della cosiddetta medicina difensiva (per cui si sprecano circa 10 miliardi l’anno), il
ministero della Sanità introdurrà a breve dei criteri cui i medici dovranno attenersi
scrupolosamente quando si troveranno a prescrivere ai pazienti visite specialistiche
ambulatoriali “ad alto rischio di inappropriatezza”. Sulle ricette, quindi, i dottori dovranno
riportare l’indicazione di erogabilità di un esame. Altrimenti rischiano la riduzione dello
stipendio, nella parte del trattamento economico accessorio. Lo stesso dicasi per i ricoveri
di riabilitazione: per quelli che saranno individuati come “clinicamente inappropriati”, quindi
superflui, il rimborso della Regione sarà ridotto del 50 per cento.
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Da questo intervento, il governo si aspetta un risparmio nel primo anno di 200 milioni di
euro. Altri 1,3 miliardi vengono fuori dal taglio imposto del 5 per cento del valore dei
contratti per l’acquisto di beni e servizi e dei dispositivi medici. Quelli in essere, dovranno
essere rinegoziati oppure rescissi. Viene introdotto anche il sistema del “payback”, per cui
se la spesa complessiva per i dispositivi (protesi, macchinari, etc) supererà il tetto del 4,4
per cento del fondo sanitario, le aziende farmaceutiche dovranno concorrere al rimborso
della parte eccedente. Altri 800 milioni, infine, saranno risparmiati con i tagli alla spesa
farmaceutica, «che comunque — sottolineano al dicastero della Sanità — non incideranno
sui farmaci innovativi, tipo quello per l’epatite C».
L’accordo, che riduce il finanziamento statale per il 2015 a 109,7 miliardi di euro rispetto ai
112 previsti, è stato sottoscritto da tutte le Regioni tranne Veneto, Liguria e Lombardia (i
delegati sono usciti durante il voto). Il decreto legge che ne raccoglierà il contenuto sarà
presentato già la prossima settimana dal ministro Beatrice Lorenzin, che così commenta:
«L’intesa è importante perché non consentirà uno stravolgimento dei capitoli di spesa, a
differenza del passato, quando si attuavano tagli lineari». Non la pensano tutti così, però.
Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori finanziari in Conferenza delle Regioni,
dichiara: «Lombardia, Veneto e Liguria non hanno partecipato perché i tagli alla sanità
mettono a rischio l’aspettativa di vita della popolazione ».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 03/07/05, pag. 9
Terzo settore. Alleanza delle cooperative: serve una legge contro
l’evasione fiscale e la concorrenza sleale
Allarme legalità contro le false cooperative
MILANO
Il mondo della cooperazione lancia a Expo l’allarme legalità: “stop alle false cooperative” è
il messaggio che l’Alleanza delle cooperative ha lanciato nel corso dell’assemblea
nazionale di ieri a Cascina Triulza. Sono oltre 27mila le firme raccolte (compresa quella
del ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina) in un mese e mezzo dall’Alleanza,
che riunisce Agci, Confcooperative e Legacoop, per promuovere una legge di iniziativa
popolare contro chi utilizza le cooperative in modo distorto, inquinando il mercato con
massimo ribasso, con l’evasione di tasse e tributi, concorrenza sleale e senza il rispetto
dei diritti dei lavoratori. Alleanza chiede al Parlamento di adottare misure più incisive per
contrastare il fenomeno delle false coop, anche con una cabina di regia dello Sviluppo
economico che coordini i soggetti chiamati a vigilare.
Alleanza delle cooperative (39.500 imprese, 150 miliardi di fatturato e 1,15 milioni di
occupati) reagisce agli scandali di appalti e tangenti e alla collusione con la politica: dalle
cooperative edilizie di Sesto San Giovanni fino alle vicende di Mafia Capitale e Ischia.
Come convincersi che questa raccolta di firme non sia un’operazione d’immagine? «Non
mettiamo la testa sotto la sabbia, siamo in prima linea per fare pulizia - risponde Maurizio
Gardini, presidente dell’Alleanza cooperative -. Gli scandali hanno provocato un calo
reputazionale delle cooperative, in passato sempre ai piani alti nella percezione morale
degli italiani». Cosa chiedete alla nuova legge? «Bisogna innanzitutto alzare le soglie di
accesso - sostiene Gardini - e poi escludere quelle cooperative che non rispettano i nostri
principi, tra cui quello di non finanziare la politica. Poi ci metto il pilastro della revisione
contabile che può essere decisivo nell’individuazione delle false cooperative».
Ieri è stato lanciato anche Coop Up, un progetto di Alleanza per trasformare in cooperative
le idee di giovani under 35 e donne: sono previsti fino a 50mila euro di finanziamento e
coperture fino all’80% delle garanzie. Confcooperative, Federcasse Bcc, Fondosviluppo e
Cooperfidi Italia (con le controgaranzie del Fondo centrale di garanzia) hanno messo a
punto una linea finanziaria per le start–up cooperative giovanili e femminili.
Infine per la Cascina Triulza, sede del Padiglione della Società civile, è tempo di un primo
bilancio. A due mesi dall’apertura, gli eventi ospitati sono stati 220, quindi circa 4 al giorno,
con 20mila persone partecipanti e 200 produttori coinvolti, compreso il mini-caseificio del
Grana Padano. «I risultati sono incoraggianti - conclude Chiara Pennasi, direttore del
Padiglione - .L’operazione è sostenibile grazie a un budget di 3,481 milioni che derivano
per oltre un milione dagli espositori, 1,3 milioni dagli sponsor e un altro milione dai
partecipanti al Mercato».
Emanuele Scarci
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Del 3/07/2015, pag. 20
L’ira della Borsellino: con questa antimafia
non vado in piazza
La figlia del giudice ucciso: “Ho chiuso con la politica
E nell’anniversario di via D’Amelio resterò a casa”
EMANUELE LAURIA
PALERMO. «Ora, se permette, torno a essere “la figlia di”. E la figlia di Paolo Borsellino
alle commemorazioni del 19 luglio non andrà». Dice proprio così, la sobria e misurata
Lucia Borselino, con la voce tirata ma anche il sollievo di chi, finalmente, ne è venuta fuori.
Proprio ieri mattina ha consegnato la sua lettera di dimissioni al governatore Rosario
Crocetta: esce dalla giunta della “rivoluzione” per ragioni «di ordine etico e morale». La
Borsellino aveva affiancato Crocetta, come testimonial di legalità, già durante la campagna
elettorale del 2012. Adesso lascia denunciando «un calo di tensione morale» nel primo
governo siciliano a guida Pd, esprimendo «disagio » per quel rapporto stretto fra Crocetta
e Matteo Tutino, il chirurgo plastico arrestato con l’accusa di aver addebitato al sistema
sanitario pubblico interventi di natura estetica. E non disdegnando una critica non affatto
casuale «all’antimafia di facciata».
Signora Borsellino, lei entrò con entusiasmo in una giunta nata in nome della
discontinuità con il passato di Cuffaro e Lombardo. Cos’è cambiato rispetto ad
allora?
«Si sono persi di vista gli obiettivi, la coerenza rispetto al progetto iniziale. C’è stato un
abbassamento di tensione. Anche morale ».
Non ha sopportato la vicenda di Matteo Tutino, il medico personale di Crocetta
arrestato per truffa, peculato e abuso d’ufficio?
«Io avevo annunciato le dimissioni già a febbraio, in seguito ai continui attacchi del
governo nazionale sulla morte della piccola Nicole. Ho atteso il 30 giugno per offrire al
ministero le dovute risposte sul sistema sanitario siciliano, su una rete di assistenza
materno-inbfantile resa più efficiente. Poi la vicenda di Tutino ha contribuito a rafforzare la
mia decisione. Quella storia ha leso l’immagine di un’intera Regione».
Ma non l’ha sorpresa.
«No, perché il mio assessorato ha fortemente collaborato con la magistratura che
indagava sul dottor Tutino. Non nascondo che il rapporto fra Crocetta e questo primario mi
ha creato forte disagio in questi anni ».
Pensa che il governatore possa aver favorito l’amico chirurgo?
«Dico che quest’amicizia, sempre ostentata da Tutino, ha molto condizionato la vita di una
grande azienda ospedaliera di Palermo»
Crocetta afferma che lei avrà sempre il suo sostegno.
«Lo ringrazio, davvero. Ma in diverse occasioni, durante quest’attività di governo, tale
sostegno non l’ho avvertito».
Adesso che farà?
«Questa è stata la mia prima esperienza politica, sarà anche l’ultima. In questi anni ho
sentito spesso il peso del nome che porto. Sono stata attaccata e tirata per la giacca in
ragione del fatto che mi chiamo Borsellino. Ma la mia famiglia è composta da persone
umili, che non hanno mai inteso sfruttare questo nome. Anzi, le dirò: oggi torno a essere la
figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il
19 luglio, alla commemorazione di via D’Amelio».
Quest’antimafia, insomma,non le piace più.
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«Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un
modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La
legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività»
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WELFARE E SOCIETA’
del 03/07/15, pag. 1
Unioni civili
Governo in sciopero
Eleonora Martini
Non potendo dichiararsi un renziano deluso, Ivan Scalfarotto per intanto si è fatto
Radicale. Assodato che il tempo degli annunci può essere dilatato ma non all’infinito, il
sottosegretario alle Riforme ha inaugurato la stagione degli scioperi della fame come
strumento di governo.
Da lunedì scorso, ha annunciato, «prendo solo due cappuccini al giorno, alla radicale»,
per attrarre l’attenzione pubblica «sul drammatico ritardo dell’Italia in tema di diritti civili».
Smetterà, ha giurato, quando «avrò una data certa di approvazione» del disegno di legge
sulle unioni civili che in Senato, dove è sepolto, rischia di appassire come i Pacs, i Dico, i
Cus e via inventando pur di non pronunciare il tabù del «matrimonio omosessuale».
«Non ce la facevo più a far finta di niente», si sfoga Scalfarotto. E chiama alla lotta, l’uomo
di governo, perché «senza una mobilitazione da fuori» ogni sforzo «rischia di essere
vano» contro gli alleati di Ncd, primo tra tutti «Giovanardi (che) mena colpi tutti i giorni con
la scimitarra».
Eppure il piccolo alleato non sembrava creare problemi al segretario del Pd quando a
metà marzo annunciava: «La legge sulle unioni civili va fatta entro l’estate, prima delle
regionali, non faremo un’altra campagna elettorale parlandone al futuro». E poi, ancora, un
paio di mesi dopo, il premier Renzi affermava sicuro che la «proposta di legge della
senatrice Cirinnà sarà votata tra luglio e settembre. Credo che possa funzionare e avere i
voti in Parlamento».
Certo, Giovanardi e Alfano sono ossi duri in questioni di diritti civili e umani, ma se il
sottosegretario Scalfarotto si dimettesse, come gli ha suggerito il capogruppo di Sel alla
Camera, Arturo Scotto, mostrerebbe la forza di un’altra lotta non violenta, copiata da
nessuno: lo sciopero del potere.
Del 3/07/2015, pag. 19
Divisi (anche) sulla maternità
La Commissione europea ritira la proposta di legge per armonizzare i
congedi dal lavoro Mancava l’accordo da 5 anni
DALLA NOSTRA INVIATA
BRUXELLES Su questo tema non siamo gli ultimi in Europa, però la decisione della
Commissione Ue di ritirare la proposta legislativa sul congedo di maternità perché era
ferma da 5 anni a livello degli Stati membri ha comunque un impatto anche per noi. E
mostra come gli Stati Ue fatichino a trovare un accordo sui temi sociali, come la maternità,
l’immigrazione, l’assicurazione europea per la disoccupazione. O su quelli economico
ambientali come gli Ogm e l’Economia circolare, per un uso più efficiente delle risorse.
Tutti argomenti che coinvolgono in modo forte le opinioni pubbliche nazionali. La
Commissione Ue propone, gli Stati membri frenano.
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La direttiva sul congedo di maternità risale al 2008 e puntava a istituire regole comuni in
tutta la Ue: aumento del periodo di congedo volontario da 14 a 18 settimane, di cui sei
obbligatorie subito dopo la nascita del neonato. Sei settimane pagate al 100% e il resto
all’85%. Due anni dopo è intervenuto l’Europarlamento per portare a 20 le settimane di
assenza dal lavoro. Ma il dossier si è arenato a livello dei singoli Stati. Così la
Commissione Ue ha deciso di ritirare la proposta, seguendo la nuova linea che punta a un
iter legislativo più trasparente. L’esecutivo ha annunciato che nel 2016 presenterà
un’iniziativa più ampia. Sulla durata del congedo l’Italia è avanti, da noi la legge già
stabilisce 20 settimane mentre la retribuzione è all’80% salvo che i contratti di lavoro non
prevedano un’integrazione fino al 100%. La legge europea sarebbe stata un passo avanti.
L’Europa degli Stati frena anche su un’emergenza come l’immigrazione. Infatti il piano
della Commissione ha ottenuto un parziale via libera al Consiglio dei capi di Stato e di
governo, ma i Paesi questo mese dovranno trovare un accordo sulla questione principale:
come distribuire 40 mila richiedenti asilo. Anche l’idea nel 2012 , in piena crisi, dell’allora
commissario al Lavoro Laszlo Andor di uno schema di assicurazione europea per offrire
uno strumento di base a chi perde l’occupazione, finanziato con un bilancio Ue e
incrementato da contributi limitati dei lavoratori, non è riuscito a concretizzarsi nonostante
fosse sostenuta dall’Europarlamento, dal Comitato delle Regioni e avesse incassato pure
l’appoggio del Fmi. Di traverso si misero la Germania e buona parte dei Paesi nordici.
Sugli Ogm la situazione è anche più complicata: gli Stati Ue non sono mai riusciti a
raggiungere una maggioranza né a favore né contro, di fatto non vogliono decidere per
non inimicarsi l’opinione pubblica. Hanno lasciato legiferare la Commissione come previsto
in questi casi.
Francesca Basso
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 3/07/2015, pag. 35
La riflessione del filosofo Anthony Appiah sulle mutazioni che oggi
investono i comportamenti sessuali e sulle discriminazioni contro i gay
Quando le rivoluzioni cambiano la morale
ANTHONY APPIAH
Moltissime tradizioni che oggi scandalizzano le coscienze delle persone civili un tempo
erano pratiche totalmente abituali. I matrimoni in età infantile, il delitto d’onore, la
fasciatura dei piedi per bloccarne la crescita, la lapidazione delle adultere e la condanna a
morte degli omosessuali: ciascuna di queste usanze, in qualche parte del mondo, è stata
approvata dalla legge o dall’uso fino al Novecento inoltrato. Ma, anche se non tutte sono
state completamente sradicate, nella temperie morale complessiva
qualcosa è cambiato. In molti luoghi, i pregiudizi verso il genere e l’orientamento sessuale
che erano alla base di queste tradizioni sono stati spazzati via. Si è anche ripudiata la
mutilazione come forma di pena per un reato.
Nel 1778 Thomas Jefferson, baluardo della razionalità illuministica, contribuì a preparare
un disegno di legge per l’amministrazione statale della Virginia che dichiarava: «Chiunque
sia colpevole di stupro, poligamia o sodomia con un uomo o con una donna sarà punito,
se uomo, con la castrazione, se donna, praticandole nella cartilagine del naso un foro di
almeno mezzo centimetro». Ben pochi degli ammiratori contemporanei di Jefferson
sarebbero pronti a difendere questa proposta (anche se costituiva un avanzamento
rispetto alla prassi in vigore in Inghilterra, dove l’ultima esecuzione pubblica per atti di
omosessualità avvenne solo nel 1835). E nessuno difenderebbe la schiavitù, che invece
Jefferson accettava, o il linciaggio degli afroamericani, che in Virginia continuò fino agli
anni Venti del Novecento. Negli ultimi secoli ci sono statediverse rivoluzioni nella morale
collettiva. A posteriori viene da chiedersi: «Ma che diavolo gli passava per la testa?» Lo
scopo di Jefferson era ridurre il numero di reati soggetti alla pena capitale. E dunque,
paradossalmente, la sua proposta era un gesto progressista... perché Jefferson era
scandalizzato dagli eccessi dei suoi antenati come noi lo siamo dai suoi. E a questo punto
dovremmo chiederci cosa criticheranno i posteri di quelle che per noi sono pratiche
abituali. Di sicuro ci richiameranno dalla tomba per farci rispondere alle loro accuse. Ma
che diavolo vi passava per la testa, ci chiederanno, quando...? Ecco: quando cosa? Quali
delle nostre pratiche abituali risulteranno abominevoli nel giro di un paio di generazioni?
Non si può essere sicuri che tutto ciò che oggi è sotto attacco in futuro verrà
effettivamente liquidato. A volte chi punta alle riforme morali subisce la dura condanna
della storia. Nel 1977, negli Stati Uniti, Anita Bryant — ex reginetta di bellezza
dell’Oklahoma, che negli anni Sessanta aveva portato al successo una sfilza di
canzoncine — si mise alla guida di una fortunata campagna per l’abrogazione di alcune
ordinanze che in Florida proteggevano i gay e le lesbiche dalla discriminazione. Nel 1978,
quando il suo movimento riuscì a far abrogare analoghe ordinanze anche in Minnesota e
nell’Oregon, si sarebbe potuto pensare che la Bryant cavalcasse l’onda della storia. Ma
poi si è capitoche la storia stava andando nel verso opposto.
Quando la Bryant iniziò la sua campagna, solo uno dei cinquanta stati, la Pennsylvania,
aveva una legge antidiscriminazione che tutelava le lesbiche e i gay; oggi, quasi metà
della popolazione degli Stati Uniti vive in stati dove vigono leggi di questo tipo, e altri
milioni di persone vivono in città dotate di analoghe tutele. Nel 1977, nel paese di Anita
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Bryant quasi nessuno avrebbe preso sul serio l’idea del matrimonio fra gay. Adesso più di
due terzi dei cittadini statunitensi sotto i trent’anni sono a favore. E questa opinione è
condivisa in gran parte dell’Europa e delle Americhe. L’Italia è l’unica nazione europea a
ovest della vecchia Cortina di Ferro in cui la legislazione nazionale non riconosce le
coppie gay. Che sono invece riconosciute nella maggior parte dei paesi dell’America
Latina. E dunque, come si fa a capire da che parte tira il vento della morale? La storia ci
insegna a cercare alcuni segnali. Innanzitutto, le argomentazioni morali che hanno
successo non sono nuove. Le tesi contro la schiavitù — o la tortura, o i duelli, o la
fasciatura dei piedi o l’omofobia — hanno circolato per molto tempo prima di portare a un
cambiamento nella pratica. Jefferson e gli altri padri fondatori degli Stati Uniti, che
condussero una rivoluzione sotto la bandiera della libertà, si rendevano conto che la
schiavitù non era esattamente coerente con i loro principi. Un secondo segnale è che i
sostenitori delle tesi contrarie dipendono sempre più da argomentazioni false. I difensori
della schiavitù nel Sud degli Stati Uniti affermavano che in realtà gli schiavi venivano
trattati bene dai proprietari paternalisti delle piantagioni. Gli oppositori della parità
femminile sostenevano che le donne erano incapaci di gestire i propri affari
autonomamente. I nemici della depenalizzazione del sesso gay insistevano a dire che tutti
gli omosessuali di fatto volevano andare a letto con i bambini. E infine, quelli che stanno
perdendo terreno non riescono a difendere le loro tesi in maniera diretta. Dichiarano
piuttosto che stanno difendendo la tradizione. Ai diritti delle donne ci si opponeva in nome
della famiglia tradizionale, i matrimoni gay si rifiutano in nome del matrimonio tradizionale.
Anche la schiavitù era una tradizione. Quando uno è sicuro di essere nel giusto, mette in
campo argomentazioni per dimostrare la validità della propria tesi: non si limita a
proclamare che gli antenati erano dalla sua parte. Ecco dunque alcune tradizioni che
vorrei sottoporre al vostro giudizio: il trattamento degli animali nell’industria
agroalimentare, la nostra sconsiderata distruzione dell’ambiente su scala globale,
l’impiego massiccio delle pene carcerarie, l’accumulo di armi nucleari. Provate ad
applicare i miei tre criteri di valutazione.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 3/07/2015, pag. 1-16
Quell’immensa ombra nera nel mare che ha
cambiato la storia
Erano trascorsi, in quel 2010, 21 anni da un altro disastro che aveva ipnotizzato il mondo,
davanti alla cristallina bellezza dell’Alaska stuprata dalla super petroliera della Exxon, la
“Valdez” da 250 mila tonnellate, incagliata e squarciata nel fiordo del Principe William. La
Exxon era stata condannata a pagare complessivamente 900 milioni di dollari ai 38 mila
abitanti e allevatori di salmone, e il disastro aveva imposto la costruzione di
superpetroliere a doppia chiglia. Da allora, il principio del “chi sporca paga” ha continuato
a radicarsi, almeno negli Stati Uniti. La stessa Exxon, oggi Exxon Mobil, ha concordato
una multa di 250 milioni di dollari con lo Stato del New Jersey, per l’inquinamento di aria,
terra e falde acquifere provocato da una sua raffineria. Neppure i tentativi di allungare il
guinza- glio alle industrie, voluti dalle amministrazioni più tenere con il big business , quasi
sempre repubblicane, e di mettere invece la museruola alla Agenzia per la protezione
ambientale, ha retto completamente. Di fronte alla sempre più diffusa convinzione che il
prezzo umano, immediato e a lungo termine, dell’inquinamento non sia più sostenibile, fra
le eroiche battaglie individuali delle Erin Brockovich in Califonia contro il cromo esavelente
emesso dalla società del gas, o di Lois Gibbs, la madre che condusse la battaglia legale
quando furono scoperte migliaia di tonnellate di rifiuti tossici sepolti nel Love Canal
accanto alle cascate del Niagara, la legislazione si è fatta via via più stringente. E oggi
sono le autorità locali, più che gli individui o le collettività nella “class action”, a chiedere
conto degli scempi ambientali. La battaglia politica fra la Presidenza Obama e i
repubblicani per la costruzione del gasdotto Keystone che dovrebbe portare il petrolio
canadese dallo Stato di Alberta all’Oklahome, che la Casa Bianca contrasta, e il duello
infinito per i permessi di trivellazione nell’Atlantico che oscilla fra permissività e restrizioni
variabili da governo a governo, sono soltanto i momenti di scontro più vistosi, come lo
sono le polemiche sul “fracking” o sulla spremitura degli scisti bituminosi. Sono battaglie
che scuotono interessi giganteschi, ma smuovono insieme pulsioni politiche e
nazionalistiche, perché promettono la prospettiva seducente dell’indipendenza americana
dalle importazioni di greggio. Poi, in un giorno di aprile, nel Golfo esplode una piattaforma
in mezzo al mare e il rovescio dell’abbondanza di petrolio allunga la propria ombra. La
catastrofe di Deepwater Horizon non raggiunse le dimensioni apocalittiche dell’esplosione
a Bhopal dell’impianto della Union Carbide nel 1984, che consumò quattro mila vite
all’istante e, si calcola, almeno altre 30 mila nel tempo. Né ha diffuso il terrore globale che
la piuma radioattiva di Chernobyl stese sul mondo nel 1986, poi riaccesa dal disastro di
Fukushima. La contraddizione fra la fame ancora insaziabile di energia di origine fossile e i
rischi crescenti dell’estrazione e del trasporto rimane a ogni pieno di carburante, a ogni
accensione di lampadina. Ma la stangata record sulla BP- che ancora oggi inonda gli
schermi della tv americana con spot commerciali per convincere il pubblico sulla propria
redenzione ecologica - resterà. Come le immagini soffocanti dell’ombra nera sul Golfo
scattate dai satelliti, a memoria futura.
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INFORMAZIONE
Del 3/07/2015, pag. 25
Telecom fa l’accordo con Mediaset
La pay tv del Biscione si vedrà con la banda larga. Patuano incontrerà i
vertici di Vivendi
L’OPERAZIONE
GIOVANNI PONS
MILANO . Arriva Vivendi nel capitale di Telecom Italia e a breve verrà annunciato un
accordo commerciale tra la società telefonica e Mediaset Premium, la pay tv del gruppo
Berlusconi. «Siamo molti vicini, stiamo ai dettagli per definire l’accordo commerciale - ha
detto l’ad di Telecom Marco Patuano - . La logica è sempre quella di trasformare Telecom
in una piattaforma aperta per la distribuzione dei contenuti premium per raggiungere la
customer base in modo efficiente». Un accordo di questo tipo è già stato avviato da
qualche mese con Sky, e permette di vedere la tv satellitare non più attraverso la parabola
ma con il cavo telefonico che entra fino a in casa degli utenti. «L’offerta con Sky funziona
molto bene, i numeri li daremo con i risultati del 30 giugno», ha aggiunto Patuano che ha
anche annunciato per i prossimi giorni un primo contatto con i vertici del gruppo Vivendi,
«come si incontrano i rappresentanti di un grande azionista. A valle di questi incontri
avremo la possibilità di discutere quali potranno essere i prossimi passaggi ».
I prossimi passaggi, in effetti, sono tutti da scrivere, ma qualche indicazione sta già
arrivando. Vivendi è salita al 14,9% del capitale di Telecom comprando un 6,6% sul
mercato e poi costruendo un “collar”, cioè una protezione dalle variazioni di prezzo al
rialzo o al ribasso, sul 5,6%. Dovrà dichiarare questa salita alle autorità brasiliane dal
momento che Vivendi ossiede anche una partecipazione in Vivo, primo operatore mobile
carioca, e questa potrebbe essere l’occasione per discutere il futuro di Tim Brasil. Di certo
Vincent Bollorè, primo azionista di Vivendi con il 15%, si è mosso in fretta. Assegnando
per tempo un mandato a Mediobanca per comprare le azioni Telecom sul mercato a un
prezzo medio di 1,17 euro. La stessa Piazzetta Cuccia aveva un pacchetto di azioni
Telecom in vendita ma le ha collocate sul mercato al prezzo medio di 0,89 euro. Generali
ha invece chiuso il derivato aperto nel novembre 2014 con Ubs consegnando il 4,6% di
azioni non appena si è sciolta Telco. E anche Intesa Sanpaolo ha collocato le proprie
azioni Telecom sul mercato. Inoltre ieri si è saputo che Telefonica ha parcheggiato presso
la banca Usa Jp Morgan il 6,9% di azioni Telecom al servizio del prestito convertibile
emesso un anno fa e che scadrà nel 2017. Il diritto di voto su quel pacchetto dovrebbe
spettare per il 6% a Jp Morgan mentre lo 0,9% è senza voto.
Fatto questo passo non sembra che a breve Bollorè voglia forzare ulteriormente la mano,
chiedendo di nominare due consiglieri di amministrazione. Forse se ne parlerà più avanti.
Ora si attende di vedere se l’azionariato di Telecom subirà nuovi mutamenti, magari con il
ventilato ingresso della rinnovata Cassa Depositi e Prestiti, volto a garantire un presidio
italiano alla società telefonica passata sotto insegne francesi.
Da l’Espresso del 03/07/15, pag. 43
In tv sarà autunno caldo
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Dopo l’estate sbarcherà in Italia Netflix, la rete senza pubblicità che ha
già 62 milioni di abbonati nel mondo. Mediaset e Sky preparano le
contromosse, ma la rivoluzione on demand cambierà per sempre
l'offerta
Claudio Lindner
IL NOME REED HASTINGS DICE POCO O NULLA agli italiani. Almeno per ora. li signore
in questione ha 54 anni, è originario di Boston, già ufficiale dei marines, studente di
matematica e informatica, vive in California dove ha sostenuto e lavorato con l'ex
governatore Arnold Schwarzenegger. Imprenditore e filantropo, è diventato miliardario
inventando (assieme a Mare Randolph) Netflix, rete on line che ha lanciato "House of
Cards" e sta rivoluzionando la televisione al punto da far paura a personaggi poco abituati
a perdere come Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi. I due tycoon, amici-nemici, durante il
loro vertice ad Arcore, il 29 apri le scorso, avrebbero discusso a lungo degli incroci tvtelecomunicazioni e della minaccia Netflix in arrivo a ottobre. Lo stesso Hastings
interrogato a proposito del summit dalla rivista americana "Wired" ha risposto sornione di
non sapere se la storia dell'accordo fosse vera, ma «ad ogni modo dovrà sicuramente
servire per contrastare qualcosa di molto potente», perché «i consumatori italiani avranno
presto. un'offerta più ampia tra cui scegliere».
La sfida è da Ok Corra!, anzi da Ok Fiction. Lanciato come servizio di streaming nel 2007,
Netflix è oggi la tv on line più diffusa al mondo. Ha 62 milioni di abbonati in oltre 50 paesi e
mette a disposizione più di 100 milioni di ore di show televisivi, serie tv origina li,
documentari, lungometraggi tutto via Internet, godibili dunque su smart tv, tablet,
smartphone, computer e consolle per videogiochi. Ha prodotto in tre anni 320 ore di
contenuti originali, tra cui tre film e 18 serie televisive ottenendo 45 nomination agli Emmy
Award con '16 vittorie (in gran parte per "House of Cards" ), 13 al Golden Globe con due
conquiste (incluso l'attore Billy Bob Thornton per" Fargo" prodotto dai fratelli Coen) e due a
ll'Oscar, senza trofei. L'organico mondiale è di oltre duemila dipendenti e il fatturato si
aggira attorno ai 5,5 miliardi di dollari. È quotata al Nasdaq, dove entrò nel 2002 al prezzo
di collocamento di 15 dollari. Lunedì 29 ne valeva 645. In America può contare su 41
milioni di iscritti, ma ora il mercato internazionale, rivela il manager Joris Evers, cresce più
di quello statunitense e l'obiettivo finale è quello di diventare globali. Il quartier generale
europeo è in Olanda, ad Amsterdam, e al momento il pubblico più ampio è in Inghilterra e
Irlanda, mentre in ottobre avviene lo sbarco contemporaneo nel Sud Europa, quindi Italia,
Spagna e Portogallo.
Alcuni dettagli, tra cui la data esatta di inizio e il prezzo, devono essere ancora annunciati.
Ma è molto probabile che le tariffe oscilleranno dai 7,99 euro al mese della formula Basic
agli 11,99 della Premium, come nel resto d'Europa. Il primo mese di abbonamento sarà
gratuito.
Ma perchè uno abituato al telecomando e a centinaia di canali cv deve andare sul
computer e scegliere Netflix? Ecco la risposta dei diretti interessati: con un solo
abbonamento accedi a migliaia di programmi che puoi vedere ovunque e in qualsiasi
momento, costa poco, non ha pubblicità. L'80 per cento è costituito da programmi
americani il 20 per cento europei o italiani. Se è vero che "House of cards" verrà
trasmesso da Sky Atlantic (alla quale Netflix ha ceduto i diritti dopo averla creata con
successo e stupore dello stesso Kevin Spacey) e che "Orange is the New Black" è stata
presa da Mediaset Premium, il catalogo è comunque molto vario, da "Grace and Frankie"
con Jane Fonda a "Bloodline", da "Chef's table" (con l'Italia rappresentata da Massimo
Bottura dell'Osteria francescana di Modena, puntata andata in onda il 26 aprile in America)
a "Daredevil" a "Marco Polo", con Lorenzo Richelmy nel ruolo principale e Pierfrancesco
Fa vino. Poi "Narcos", una serie tv originale che racconta la storia del traffico di droga del
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cartello di Pablo Escobar e che probabilmente ha qualche analogia con "Gomorra"
realizzata da Sky. E a proposito di prodotti originali italiani, il vertice Netflix dichiara di aver
ricevuto tante offerte che si stanno valutando. Più in là Evers però non si spinge e non
precisa né gli argomenti né gli eventuali autori delle proposte. Resta il fatto che la formula
scelta per l'Italia è la stessa adottata in America e in tutto il resto del mondo: tutto
entertainment, niente news, meteo e sport. L'ottimismo non manca, non si placa né
davanti a un mercato italiano dove la concorrenza della cv è molto forte, né all'obiezione
sull'estensione e la qualità della banda larga in Italia . Il ragionamento di Evers è semplice:
quattro anni fa abbiamo cominciato in America Latina, dove lo streaming era quasi
inesistente e oggi andiamo mo lto bene in quell'area, quindi possiamo farcela anche in
Italia.
L'ingresso sul mercato di Hastings & soci ha spinto gli operatori di casa nostra o
d'importazione a darsi una mossa. A partire da Murdoch: l'arma scelta è Sky Online Tv
box, una scatola nera alta nove centimetri e profonda circa tre realizzata dalla Roku ,
società leader nell'hardware per lo streaming. La "scatola" si potrà collegare al proprio
televisore e al WiFi di casa. Lo streaming di Mediaset si chiama invece Infinity tv, dalla
quale si possono scaricare fìlm e serie per un utilizzo offline. Esiste poi Tim Vision,
servizio di tv on demand di Telecom che una volta si chiamava CuboVision e ha oggi circa
260 mila utenti , in crescita del 64 per cento rispetto a un anno prima. Soprattutto
attraverso l'alleanza con Vivendi il gruppo Telecom sembra offrire notevoli potenzialità in
questo campo e annuncia investimenti in tecnologia e contenuti, che includono lo sport.
Da segnalare infine Google Play film , attraverso cui puoi comprare o noleggiare film da
qualsiasi mezzo, e Chili Tv, azienda spinoff della Fastweb fondata e guidata da Stefano
Parisi.
Un capitolo a parte merita la Rai, più timida quando si parla di online. Una prudenza
incomprensibile a giudicare dalle manovre dei principali concorrenti tv. A febbraio è stata
presentata Ray (indirizzo ray.r:ai.it), una piattaforma unicamente Web studiata per un
pubblico tra 15 e 30 anni e che punterà sulle fiction tipo "Braccialetti Rossi 2" e su
produzioni originali anche di profilo storico-culturale come "Cent'anni dopo" sulla Grande
guerra. Un 'idea di Eleonora Andreana, direttore di Rai Fiction. Al di là di questo e dell
'offerta abbastanza scontata di programmi già passati sulle reti e disponibili on demand, il
gruppo pubblico non pare al momento agitarsi più di tanto. Eppure il debuttante (in Italia)
Hastings è convinto che entro i prossimi vent'anni la televisione sarà interamente sulla
Rete, «anche perché la fibra ottica sta crescendo ovunque», ha sentenziato su "Wired" «e
Internet sta diventando un diritto umano fondamentale, come l'acqua e la corrente
elettrica».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 03/07/15, pag. 7
Scuola, il Pd blinda il «super preside»
Dopo la fiducia
Martedì 7 luglio il Ddl Scuola inizierà la sua parabola conclusiva alla Camera. Ieri la
Commissione Cultura alla Camera ha licenziato il provvedimento, cancellando i circa 140
emendamenti presentati dalle opposizioni. Al termine, ha dato il mandato alla relatrice
Maria Coscia (Pd) di riferire in aula: favorevole la maggioranza, contrari tutti gli altri gruppi.
«Alla faccia del dialogo e del confronto osservano i parlamentari Movimento 5 Stelle in
Commissione Cultura di Camera e Senato nel tempo record di due ore la maggioranza ha
bocciato a priori tutti gli emendamenti.
Tra l'altro, il Pd e compagnia non hanno mai preso la parola per intervenire nel dibattito.
Immaginiamo che a indurli al silenzio sia stato il senso di vergogna per quello che stanno
facendo alla nostra scuola e al sistema d'istruzione». Sulle barricate anche Sinistra
Ecologia e Libertà che critica la blindatura del ddl. «Ripresenteremo i nostri emendamenti
sostiene Annalisa Parmarale e ci prenderemo tutto il tempo per discuterli».
I tempi dell'approvazione potrebbero slittare di qualche giorno. Martedì 7 a Montecitorio
torneranno in piazza tutti i sindacati della scuola che si sono opposti alla «riforma» del Pd
che sarà votata da tutte le componenti, anche quelle di «sinistra», senza fare troppe storie
come invece è accaduto al Senato. A dispetto del gran caldo l'opposizione della scuola
non mostra cedimenti. Si discute sull'efficacia del referendum abrogativo al quale molti
stanno pensando e nel frattempo si scrivono lettere di protesta al presidente della
Repubblica Mattarella, scongiurandolo di non firmare la legge. In 20 mila lo hanno fatto da
Napoli, ma la speranza è davvero al lumicino. Ieri il giudice Ferdinando Imposimato ha
depositato alla Camera una petizione contro il Ddl in cui si chiede l'attuazione immediata
della sentenza della Corte di Giustizia Europea per la stabilizzazione di tutti i docenti
precari e non solo dei 103 mila previsti dalla riforma. All'iniziativa del giudice hanno aderito
tra gli altri Massimo Cacciari, Luciano Canfora, Francesco Guccini, padre Alex Zanotelli.
Secondo uno studio della Flc-Cgil, dal totale predisposto dal governo restano esclusi oltre
70 mila docenti. Sono i posti derivanti dagli spezzoni o autorizzati in organico di fatto
rapportando la somma degli spezzoni a posti interi. Per posto comune sono 25.831
derivanti dagli spezzoni, più quelli autorizzati in. organico di fatto. Per il sostegno ci sono i
30 mila posti autorizzati tutti gli anni in deroga all'organico di diritto, ora consolidato a
89.792 posti. Su questi posti nel 2015/6 saranno effettuate le supplenze, quelle che Renzi
e Giannini avevano promesso di cancellare. Dal prossimo anno buona parte saranno
assegnati ai docenti dell'organico aggiuntivo, rendendo quasi nullo l'organico potenziato,
vale a dire l'oggetto stesso della riforma. «Quello di Renzi è un bluff» commenta il
sindacato. Il tormentato percorso di approvazione parlamentare della riforma che istituisce
il «preside-manager» e la commissione di valutazione dove famiglie e studenti quindicenni
avranno il potere il giudicare i docenti è agli sgoccioli. «Il rischio che si corre sostiene
Marcello Pacifico dell'Anief è quello di incorrere un giudizi condizionati dalla discrezionalità
e dall'inevitabile inesperienza che un giovane studente può avere nel proporre la sua idea
sugli insegnanti del proprio istìtuto». Questi giudizi, insieme a quello del preside, avranno
un peso sul conferimento dei «circa 24mila euro che ogni istituto riceverà» sulla modesta
cifra dei 200 milioni previsti dalla riforma per premiare il merito professionale dei docenti.
L'obiettivo della riforma è archiviare gli organi collegali e il ruolo delle Rsu di istituto. ro. ci.
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Del 3/07/2015, pag. 22
Concorsi,non varrà solo il voto di laurea ma
anche l’ateneo
Rivoluzione nella legge sulla pubblica amministrazione
Subito polemica: “Così il titolo non sarà uguale per tutti”
VALENTINA CONTE
ROMA. Il voto di laurea non basterà più. Per diventare dirigenti e funzionari pubblici,
conterà anche il pedigree dell’università e la sua generosità o meno nei voti.
L’emendamento alla riforma della Pubblica amministrazione, votato ieri alla Camera, è
destinato a terremotare non solo i concorsi pubblici, ma anche il mondo universitario e la
valutazione delle competenze. Tra le polemiche di chi vi intravede, nella possibile
discriminazione tra atenei, un tentativo di abolizione del valore legale del titolo. E chi
invece vorrebbe una classe dirigente più preparata e dunque meglio selezionata.
«Non si tratta di abolire il valore legale della laurea», spiega Ernesto Carbone, deputato
Pd e relatore della riforma Madia. «Piuttosto di stabilire caso per caso quanto vale un titolo
di studio. Se uno fa il concorso in magistratura è giusto che abbia una laurea in
giurisprudenza. Ma perché non può diventare un diplomatico se ne possiede una in
filosofia? O in fisica e magari ha fatto qualche esame in scienze politiche?». Quesiti che in
realtà l’emendamento 13.38, presentato dal deputato pd Marco Meloni e approvato ieri in
Commissione affari costituzionali di Montecitorio, non scioglie. Limitandosi a dire che il
«mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi» non sarà più
sufficiente. Se non «in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al
voto medio di classi omogenee di studenti». In pratica, per accedere alla selezione
pubblica occorrerà non solo ottenere un buon voto finale, ma guadagnato in un’università
ben valutata (da chi e come, non si sa) e che possibilmente non sia di manica troppa
larga. Se ad esempio la media dei voti di laurea assegnati nell’anno, in quell’ateneo e in
quella disciplina, fosse troppo alta, cosa accadrebbe? Il famoso pezzo di carta varrebbe
meno? Non potrei accedere al concorso? Sarei fermato già ai blocchi di partenza?
«Attenzione, si tratta di una norma delega», frena Carbone. Fatta cioè di principi generali
perché inserita in una legge delega che ha bisogno poi di numerosi decreti legislativi del
governo per essere attuata nel concreto. Decreti che poi il Parlamento valuterà, sebbene
con mero parere consultivo. Ma la sostanza comunque c’è. Non a caso ieri il governo
(presente in commissione il ministro della P.a. Madia e il sottosegretario Rughetti) ha
espresso parere favorevole. «Il mio voto di laurea verrà considerato a seconda del voto
medio che viene dato nella mia facoltà», insiste Marco Meloni, autore dell’emendamento.
«Vogliamo impedire che gli studenti scelgano un certo indirizzo solo perché il meccanismo
di valutazione è più generoso». Il voto minimo di laurea per accedere ai concorsi pubblici,
ad oggi, non è previsto da alcuna norma. Ma non è vietato. In alcuni bandi c’è (Bankitalia e
università, ad esempio). Certo qui si va oltre. «In modo surrettizio, si introduce l’abolizione
del valore legale del titolo», ragiona Gianfranco D’Alessio, docente di diritto amministrativo
a Roma Tre. «Se un ateneo dà a tutti 110 e lode allora non conta nulla? Non è
dimostrabile. Magari vuol dire solo che gli studenti sono stati tutti bravi, perché no? ». Non
la pensa così il governo. Qualche mese fa era stato proprio il premier Renzi a dire che
«esistono già università di serie A e di serie B in Italia, dobbiamo avere il coraggio di
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ammetterlo». E che «rifiutare la logica del merito dentro le università e pensare che tutte
siano brave è quanto di più antidemocratico vi possa essere».
Del 3/07/2015, pag. 1-23
L’altra infanzia
Il bambino, 9 anni, è stato immortalato da una ragazza nelle Filippine.
Senza una casa e un papà, si sente fortunato perché va a scuola. Anche
se fa i compiti per strada
Daniel che studia alla luce di un lampione
ADRIANO SOFRI
LA fotografia del bambino filippino che fa i compiti alla luce di un lampione l’avrete vista
quasi tutti, e avrete cliccato “mi piace” e condiviso con più entusiasmo del solito. (Ieri le
condivisioni su Repubblica erano 60 mila). La sera del 23 giugno Joyce Gilos Torrefranca,
una studentessa dell’università di Cebu, l’aveva fotografato e messo su facebook con la
sobria didascalia: “Un bambino mi ha ispirata”.
Adesso raccontiamo la storia intera, che anche dopo essere andata così lontano dalla sua
luce di lampione non perde di poesia. Il protagonista ha 9 anni, si chiama Daniel Cabrera,
il cognome è quello di un padre che la madre non sposò, e si ammalò e morì in galera a
Mindanao. La madre, Maria Christina Espinosa, sbriga qualche lavoretto e chiede la
mancia alla “carinderia” McDonald’s di Mandaue City (quasi 400 mila abitanti). L’insegna
famosa campeggia nella foto — i suoi grandi capi si sono dichiarati orgogliosi dell’aiuto,
“anche piccolo”, che il fast-food ha dato alla famiglia. Piuttosto piccolo, finora, in effetti. La
signora Espinosa arrotonda facendo la lavandaia. Guadagna il minimo indispensabile,
spiega, per tirare avanti con Daniel e il suo fratellino Gabriel, 7 anni, scolaro anche lui: 60
piso, l’equivalente, se ho calcolato bene il cambio, di 1 euro e 20. Altri 4 figli sono rimasti
coi parenti a Mindanao. Daniel fa la terza. Possiede una sola matita, ne aveva un’altra,
dice, gliel’ha rubata un compagno, e perciò ha messo nella cartella un rosario, che
scongiuri un altro furto. Non gli manca niente, dice, tranne l’album per disegnare. Sua
madre glielo comprerà, ha promesso, appena potrà. Due giorni dopo lo scatto di Joyce,
quando già dilagano le condivisioni su fb, il giornalista del sito web filippino Rappler. com,
Dale G.Israel, fa visita al parcheggio di Daniel. Gli chiede che cosa vorrà fare da grande, e
annota lealmente che evidentemente Daniel non ci aveva mai pensato; ora ci pensa, poi
dice: “Il poliziotto. Forse anche il dottore”. L’intervistatore trascrive le risposte in cebuano,
la lingua dei Bisaya, la più diffusa fra le lingue indigene. Frugando in rete grazie alla storia
di Daniel, ho imparato che il primo a documentarne l’esistenza fu il vicentino Antonio
Pigafetta, il grande diarista di bordo di Magellano nella spedizione del 1521. Wikipedia
(che incorre in un perdonabile Pigateffa) riporta esempi affascinanti del Cebuano, ricco di
intrusioni di spagnolo e di inglese, con la traduzione letterale. Per esempio: “Init kaáyo ang
adlaw karon” — Caldo molto il giorno oggi. O: “Hain/Asa ang mga libro?”? In-dove i quei
libri? E il più utile, su fb e fuori: “Higala ta ka” — Sei mio amico. La famiglia di Daniel
dorme pressoché all’addiaccio sotto il muricciolo di recinzione del Mc-Donald’s,
accatastando qualche panca per proteggersi dal freddo e la pioggia. La luce Daniel la
trova dov’è, e anche i quattro legni inchiodati che gli fanno da scrittoio. Quando era più
piccolo, il “Barangay Captain”, il capo della circoscrizione di Subangdaku, Ernie Manatad,
raccolse lui e altri 31 bambini in una scuola domenicale di recupero, per toglierli da una
strada rischiosa per la criminalità e il traffico di camion. “Ne valeva la pena”, dice ora. La
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fotografia è bella e singolare, e però si aggiunge a un intero genere. Vi ricordate quelle
dell’estate scorsa, la gracile ragazzina di Gaza che rovista fra le macerie della sua casa,
ne estrae i libri e i quaderni di scuola, si volta un momento verso la persona che la sta
fotografando senza cambiare l’espressione seria, poi va via con la sua pila di libri slogati. Il
dottor Giomen Probert Ladra Alayon, che era con Joyce quella sera, spiega che il compito
a casa che Daniel stava svolgendo consisteva nell’identificare gli animali illustrati nel suo
libro. Molti commenti alla foto hanno lodato la determinazione con cui il bambino si
prepara un futuro. Forse. Ma sarebbe bello che Daniel si stia contentando dei suoi 9 anni,
e del piacere gratuito di riconoscere gli animali e trascriverne i nomi in inglese. Succede
che i bambini non abbiano affatto pensato a chi e che cosa vogliono diventare da grandi, e
che rispondano — “il poliziotto, il medico…” — perché sono indulgenti, e risarciscono i
grandi che già non sono diventati quello che avrebbero voluto. Da grande, forse, Daniel
verrà in Italia. Ci sono 170 mila filippine e filippini in Italia, molti hanno un prestigioso titolo
di studio, e fanno una quantità di cose, per così dire, insperate.
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 3/07/2015, pag. 36
Premio Strega, vince Nicola Lagioia con il
libro "La ferocia"
Lo scrittore ha avuto 145 voti. Al secondo posto Mauro Covacich con
"La sposa" e al terzo la misteriosa Elena Ferrante con "Storia della
bambina perduta", convinta da Roberto Saviano a proporre il suo
racconto
Nicola Lagioia ha vinto il 69° Premio Strega, edizione 2015, con il suo libro "La ferocia"
(Einaudi). Lo scrittore ha avuto 145 voti. "Dedico a Chiara, mia moglie, la vittoria e questo
libro. Senza di lei 'La ferocia' non sarebbe stato possibile", ha detto Lagioia tenendo in
mano la bottiglia del liquore Strega che ha fatto bere anche alla moglie. Il vincitore ha fatto
anche riferimento alla situazione greca spiegando che: "La ferocia, come il titolo del libro,
è quello che sta accadendo ora ad Atene. Siamo sulla stessa barca, se fallisce la Grecia
fallisce anche la Germania". Al secondo posto Mauro Covacich con 'La sposa' (Bompiani),
con 89 voti, e al terzo la scrittrice misteriosa Elena Ferrante con 'Storia della bambina
perduta' (E/o), 59 voti, in un primo tempo data per vincitrice e che aveva avuto
l'endorsement di Roberto Saviano, che aveva convinto la scrittrice a presentare il suo libro
al Premio Strega. Al quarto e quinto posto pari merito con 37 voti Fabio Genovesi,
vincitore della seconda edizione del Premio Strega giovani con 'Chi manda le onde'
(Mondadori), e Marco Santagata con 'Come donna innamorata' (Guanda). Su 460 aventi
diritto al voto si sono espressi in 368 (l'80,21%), dei quali 276 con voto elettronico e 92
con voto cartaceo; una scheda nulla. A presiedere il seggio Francesco Piccolo, vincitore
della scorsa edizione del Premio Strega che ha dichiarato pubblicamente il suo voto per
l'autrice fantasma con un tweet. "Lo Strega dovrebbe migliorare sulla limpidezza del voto,
ma in fondo lo amo con i suoi pregi e difetti. Anche quest'ultima serata è un baraccone che
un po' ci rappresenta". In una serata molto più ordinata e composta del solito, con per la
prima volta al Ninfeo di Villa Giulia circa 500 ospiti in meno e tutti gli invitati seduti ai tavoli,
anche la proclamazione del vincitore - trasmessa in diretta su Rai Tre con la conduzione di
Concita De Gregorio dalle 23,15 - è avvenuta senza la consueta arena di pubblico,
giornalisti e fotografi sotto il palco e sono mancate anche le stravaganti mise delle signore
della nobiltà romana. Un'altra novità nel Premio Strega, che quest'anno ha rivoluzionato le
sue regole con l'espressione non più di un voto ma di tre per la cinquina, è stata la
scenografia con una pedana di plexiglass e lettere colorate rosse al centro del Ninfeo dove
l'attrice Paola Minaccioni, inviata per un giorno, ha parlato di un premio che "è un pò come
la Notte degli Oscar". Mentre la De Gregorio, in abito lungo su toni del verde, ha voluto
ricordare la situazione greca dicendo: "Salutiamo la Grecia, speriamo bene".
Ai tavoli il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, che
nell'ultimo Premio Strega prima della probabile fusione del gruppo Mondadori-Rcs, la
cosiddetta 'Mondazzoli', ha sottolineato: "Comunque vada la vicenda il Premio resterà lo
stesso. I problemi sono altri, trust, eccetera, non lo Strega". Tra i big dell'editoria Paolo
Mieli, Gian Arturo Ferrari e, seduti ai tavoli, Stefano Rodotà, Luigi Abete, Dacia Maraini,
Melania Mazzucco, Sandro Veronesi, Maria Rita Parsi, Geppi Cucciari e anche Roberto
D'Agostino. Assente il sindaco di Roma Ignazio Marino e il governatore della Regione
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Lazio Nicola Zingaretti. Allegro e sereno per tutta la serata Nicola Lagioia, che nel suo
romanzo complesso ma amato, che è nello stesso tempo un noir, una storia gotica e un
racconto familiare, non pensava di poter "incontrare un pubblico tanto ampio". Piuttosto
tranquillo anche Fabio Genovesi, che con 'Chi manda le onde' (Mondadori), già vincitore
del Premio Strega giovani, porta al gruppo di Segrate una doppia vittoria. Arrivato quarto a
pari merito con Marco Santagata e il suo 'Come donna innamorata' (Guanda), con 37 voti,
Genovesi ha sottolineato: "Sono qui come un turista". Mentre Covacich aveva spiegato:
"Mi lusinga il fatto che Elisabetta Sgarbi abbia voluto investire nel mio libro di racconti, un
genere sul quale non si investe", parlando del suo romanzo 'La sposa'.
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