Introduzione. “Buoni” e “cattivi” genitori?

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Introduzione. “Buoni” e “cattivi” genitori?
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Introduzione.
“Buoni” e “cattivi” genitori?
Quali caratteristiche fanno di un genitore un buon genitore? Alcune sono ampiamente condivisibili: amore, rispetto, pazienza, attenzione, vicinanza, comprensione. Su altre, invece, è aperto un aspro
dibattito a molteplici livelli: sociale, economico, giuridico, formativo, etico, religioso. Per essere una buona madre o un buon padre
bisogna essere sposati? Ed esserlo stabilmente? Essere eterosessuali? O
essere donne e uomini nati in corpi femminili (per le donne) e
maschili (per gli uomini) e che non hanno mai messo in discussione (almeno pubblicamente) la relazione culturalmente approvata
tra genere e sesso nel percorso di costruzione della propria identità?
In altre parole, la capacità genitoriale è funzione diretta e crescente
di un determinato stato civile, corpo sessuato o di un preciso orientamento sessuale?
Queste domande, per noi cruciali, costituiscono il punto di partenza della riflessione e del confronto tra le due autrici (una sociologa e
una psicologa, esperta in psicologia giuridica) che ha dato vita a
questo volume. Esso si propone di mettere a fuoco alcune importanti dimensioni dei rapporti tra generazioni alla luce delle profonde trasformazioni subite dalla famiglia e dei crescenti intrecci e
interscambi tra identità di genere e orientamento sessuale: monogenitorialità, omogenitorialità, transgenitorialità.
Con monogenitorialità intendiamo l’essere genitori “soli”, cioè
famiglie consistenti di una madre o un padre non stabilmente conviventi con il partner/coniuge e di almeno un figlio dipendente. Chiaramente, i genitori “soli” possono essere portatori di differenti
orientamenti sessuali (omosessualità, bisessualità, eterosessualità) o
di inedite combinazioni tra essi.
Tra le famiglie monogenitore, la figura della madre sola costituisce,
ancora oggi, un elemento di sicura centralità. Ciò per ragioni sia
storiche sia sociodemografiche, oggetto di riflessione nel capitolo 2.
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Alcune anticipazioni. Innanzitutto, la figura del genitore “solo” ha
storicamente coinciso con quella di “ragazza madre”, “madre nubile”, “donna sedotta e abbandonata”. Non va inoltre dimenticata la
considerevole sproporzione numerica tra madri e padri soli a favore
delle prime, riconducibile a molteplici fattori: la tendenza ad affidare alle madri la custodia dei figli in caso di separazione o divorzio; il
più elevato tasso di mortalità tra gli uomini; la più elevata propensione al secondo matrimonio da parte degli uomini divorziati
rispetto alle donne; la tendenza presentata dai figli nati al di fuori
del matrimonio a vivere con le madri.
Anche i padri soli rappresentano una significativa – sebbene scarsamente esplorata – dimensione del mutamento che ha colpito identità di genere e genitorialità (Zajczyk, Ruspini, 2008). Poco (o
nulla), infatti, si sa dei nuclei monogenitore a capofamiglia uomo,
un fenomeno spesso definito marginale perché di scarsissima
evidenza numerica – ma in costante crescita: tra il 1998 e il 2003 i
padri soli non vedovi sono cresciuti del 31%, passando da 102.000 a
134.000 (Rosina, Sabbadini, 2006) – dal momento che, in seguito a
separazione o divorzio, la madre è considerata, nella stragrande
maggioranza dei casi, il genitore “più adatto” per l’affidamento dei
figli. Come è noto, l’affidamento esclusivo alla madre è (ed era)
molto diffuso e il diritto di visita da parte del padre è (ed era) solitamente limitato: la classica regolamentazione del regime di visita
prevede un pomeriggio infrasettimanale e due week-end al mese a
settimane alterne; metà delle vacanze natalizie e di quelle pasquali;
2-3 settimane anche non consecutive durante le vacanze estive.
Tali decisioni (che riflettono evidenti stereotipi di genere e sulle
“funzioni” materne e paterne), per lungo tempo non oggetto di
discussione, cominciano invece a essere considerate potenziali generatrici di processi di esclusione sociale “al maschile”. In questo
quadro culturale, è significativa la tendenza a livello europeo che si
concretizza con il regolamento n. 2201/2003 del Consiglio dell’Unione Europea del 27 novembre 2003 «relativo alla competenza, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale». Tale regolamento
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garantisce il diritto del minore di mantenere contatti diretti con i
due genitori, dopo il divorzio, anche qualora questi vivano in Stati
differenti: si tratta, dunque, di una legislazione sempre più attenta a
garantire la parità dei ruoli genitoriali. In particolare, sulla base del
principio della bigenitorialità, che attribuisce uguale importanza al
ruolo paterno e materno come soluzione più idonea per la crescita
del minore, si sta progressivamente diffondendo il modello di affidamento condiviso (un’espressione che sottolinea il principio della
condivisione di responsabilità tra i genitori per l’educazione dei
figli): anche in seguito alla cessazione del vincolo matrimoniale, le
responsabilità di entrambi i genitori non vengono alterate, affiancando o addirittura sostituendo il modello in cui, in caso di separazione e divorzio, vi è un unico genitore affidatario, che nella
maggior parte dei casi è la madre.
Anche in Italia, almeno sul versante legislativo, alcuni passi importanti – oggetto di intensa riflessione nei prossimi capitoli – sono stati
recentemente compiuti. Nell’ultimo decennio un movimento esteso di padri separati (più raramente madri separate e genitori) ha
posto all’ordine del giorno l’obiettivo dell’“affidamento condiviso”.
La richiesta principale delle varie associazioni di padri separati – che
ha assunto toni anche molto forti – è stata proprio l’affidamento
condiviso sulla base della parità di diritti e doveri dei genitori, per
combattere quella che è stata definita “disparità di trattamento nelle
cause di separazione e affido dei minori”.
È peraltro anche sulla spinta di tali rivendicazioni che ha visto la
luce la legge 8 febbraio 2006, n. 54, Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli: intervenendo
sulla normativa esistente nelle pratiche di affidamento dei figli in
caso di separazione o divorzio dei genitori, essa cerca di privilegiare
l’affido condiviso tra i genitori, anziché quello in via esclusiva (che
di norma vede come unica affidataria la madre), favorendo in tal
modo il mantenimento di relazioni continuative e stabili con
entrambi i genitori.
Più spinosa, ma non per questo meno interessante e attuale, è la
questione – tutt’oggi scarsamente dibattuta – della relazione tra
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genitorialità, identità di genere e pluralità di orientamenti sessuali.
La letteratura scientifica che si occupa delle diverse forme di genitorialità, tra cui quella espressa dalle persone omosessuali, bisessuali,
transessuali, rimane ancora povera e circoscritta. Nel panorama
italiano, in particolare, sono ancora molto scarsi gli studi centrati
sul ruolo genitoriale, inteso come repertorio di funzioni e competenze suscettibile di assumere una specifica configurazione a
prescindere dal genere sessuale di appartenenza (Luciani, 2008).
Eppure, il fenomeno dell’omogenitorialità – un termine che generalmente designa tutte le famiglie nelle quali almeno un adulto, che si
autodefinisce omosessuale, è il genitore di almeno un bambino
(Gross, 2003) – costituisce da qualche tempo una realtà emergente
in molte società occidentali, soprattutto a seguito della crescente
visibilità delle madri omosessuali che convivono con le loro partner
e con i propri figli (cfr. cap. 3 per approfondimenti). L’omogenitorialità deve essere osservata da più angolature. Infatti, non va considerato il solo desiderio di maternità e di paternità nei gay e nelle
lesbiche, ma anche la responsabilità paterna e materna di tutti
quegli omosessuali che nelle loro storie precedenti (anche eterosessuali, quindi) hanno “procreato”.
L’esperienza di essere genitori e avere relazioni con persone dello
stesso sesso non è ovviamente nuova, ma ricerche realizzate soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gettano luce su alcuni
importanti cambiamenti (Mallon, 2004). Se nel passato i figli erano
frutto generalmente di una precedente relazione eterosessuale, ora
la scelta di diventare genitori è sempre più sganciata dall’eterosessualità, con le possibilità aperte dalle tecniche di riproduzione assistita ma anche con l’accesso all’adozione (Shanley, 2002; Bertone,
2005). In Italia, però, i figli sono quasi sempre frutto di un’unione
eterosessuale: data l’impossibilità dell’adozione e la difficoltà di
accesso a tecniche di riproduzione assistita, sono quindi molto limitate le possibilità per una coppia omosessuale di vivere crescendo un
figlio.
Altrettanto attuale e importante è la relazione tra genitorialità,
transgenderismo e transessualità. Possiamo parlare di transgenito10
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rialità quando in una famiglia almeno un adulto, madre o padre di
almeno un bambino, sta compiendo la transizione da un genere
all’altro, oppure l’ha già conclusa. Anche in questo caso, non deve
essere considerato solo il desiderio di maternità e di paternità nelle
persone transgender o in transizione, ma anche la responsabilità
paterna e materna di tutte quelle persone che nel loro passato hanno
procreato.
Generalmente si pensa che la transessualità di uno dei due genitori
possa essere fonte di disagio e di malessere per i minori. Il principale timore è che il genitore transessuale, in ragione delle sue “problematiche identitarie”, possa ingenerare nel figlio confusioni, problemi di identificazione con il genere sessuale d’appartenenza o disturbi
dell’identità di genere (Luciani, 2008). Molti genitori, dunque, si
separano nella convinzione di porre rimedio alla questione, ignari
del fatto che il progressivo allontanamento del padre o della madre
che sta effettuando la transizione crea più problemi di quanti non
ne risolva (per un approfondimento, cfr. cap. 4).
Le coppie omosessuali e quelle composte da un genitore che ha
sperimentato la transizione da un genere all’altro (e quelle conviventi più in generale) sono oggi oggetto di palese discriminazione
sul versante del diritto alla genitorialità. Se, ad esempio, sul fronte
dell’adozione nazionale e internazionale, è vero che, in linea teorica, la richiesta inoltrata da un genitore che abbia concluso l’iter di
rettificazione non ostacola l’adozione (al pari di qualsiasi persona
che faccia istanza in questo senso; la sua idoneità genitoriale dovrebbe essere infatti valutata in base a criteri standard unanimemente
riconosciuti e applicati), la richiesta avanzata da una coppia regolarmente coniugata, in cui uno dei componenti abbia ottenuto la
riconversione chirurgica e anagrafica, viene normalmente rigettata.
Il rifiuto viene giustificato adducendo l’assenza dei criteri che soddisfano la legge 4 maggio 1983, n. 184 (legge che disciplina l’adozione
e l’affidamento dei minori) e le successive modifiche apportate dalla
legge 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983,
n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo viii del libro primo del codice civile), in virtù delle
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quali il minore ha diritto a crescere all’interno di un contesto familiare che possa accompagnarne i percorsi di sviluppo, assolvere i
corrispondenti compiti educativi e assumere precisi doveri genitoriali.
Sono queste le ricche premesse che fanno da sfondo al percorso di
riflessione delle autrici di questo lavoro.
Il volume si apre con l’esposizione di alcuni concetti necessari per la
comprensione del processo di differenziazione delle convivenze e
dell’impatto di tale processo sul versante legislativo: in particolare,
le definizioni di genitorialità, buona genitorialità, genitorialità meritevole e migliore interesse del minore anche alla luce della passata e
presente normativa italiana.
Nel secondo capitolo verranno prese in esame alcune caratteristiche
e peculiarità delle famiglie monogenitore in Italia: madri e padri
“soli” a confronto.
Scopo dei capitoli terzo e quarto è fornire una guida per la riflessione in tema di omogenitorialità e transgenitorialità (e, più in generale, sulle forme di genitorialità lgbt, acronimo utilizzato per riferirsi
a persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Si tratta di “fattori
di rischio” in età evolutiva o, invece, di occasioni per moltiplicare
esponenzialmente le dinamiche affettive tra componenti della famiglia, una moltiplicazione necessaria per smussare tensioni, distorsioni e stereotipi di genere – anche in termini di ostacoli culturali posti
nei processi di transizione all’età adulta – di cui è portatrice la cultura familista italiana? E, magari, per aprire nuove strade di collaborazione e interscambio tra madri e padri?
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