DISPENSA CORSO di laurea

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DISPENSA CORSO di laurea
DISPENSA
CORSO di laurea
Scienze dell’Educazione
(D.M. 270- nuovo ordinamento)
Corso di
PEDAGOGIA DELLA LETTURA
(6 cfu)
a cura della docente
Silvia Blezza Picherle
Selezione antologica su
Lettura e comprensione dei media
Anno Accademico 2012-2013
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PREMESSA
Il Corso di Pedagogia della lettura è stato suddiviso in due moduli, uno riferito alla lettura dei libri e
alla promozione della lettura attraverso la Letteratura per l’infanzia (produzione e ambito di ricerca
per una fascia d’età-0-16/18) ed uno riferito alla lettura (e comprensione) dei media, in particolare
la Tv.
In questa dispensa sono stati scelti passi antologici che riguardano la “lettura e la comprensione
critica dei media”. A tale proposito di parla di un settore specifico, la“Media Education”, ambito di
ricerca ad attività educativa attiva all’estero già dagli anni ’80 del secolo scorso. Educare ai media
è diventata una vera necessità, direi un’emergenza educativa, in quanto sempre più i media
alimentano l’immaginario infantile e adulto, contribuendo a diffondere un’informazione carente ed
a volte distorta, nonché modelli umani e valori che finiscono per essere assimilati ed assunti
inconsapevolmente, attraverso programmi informativi, spot pubblicitari, serial. Attualmente in
Italia la Media Education è realizzata soprattutto in ambito scolastico ma, come è stato ribadito
durante le lezioni, è necessario che si attui anche in ambito extrascolastico, con bambini, giovani e
adulti, in forma ludica e laboratoriale.
I passi antologici proposti di seguito intendono sollecitare una riflessione su problemi che a volte
non vengono colti o di cui non si è consapevoli, proprio perché la Tv, per la sua intrinseca
“grammatica”, non li rende evidenti.
In questo contesto non si sono potute proporre, invece, strategie operative concrete. Si rimandano
quindi gli studenti ad un approfondimento degli aspetti più operativi della Media Education.
Si consiglia di leggere la breve nota inserita tra parentesi perché spiega il senso del singolo testo e
lo correla agli altri volumi da portare all’esame.
La docente
Silvia Blezza Picherle
Verona, giugno 2013
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MEDIA EDUCATION (di Len Masterman)
Tratto da: P. C. Rivoltella (a cura), A scuola di media. Educazione, media e democrazia
nell’Europa degli anni ’90, , La Scuola, Brescia 1997.
Nel mondo anglosassone, ma anche, in quello latino-americano la Media Education (o Media
Literacy) è un movimento politico oltre che pedagogico, che si è fatto carico della integrazione
curricolare dei media nella scuola (ma anche nell'extrascuola).
Si potrebbe parlare di più tipi diversi di media education:
a) educazione «con» i media: è la concezione strumentalista dei media che finisce per risolvere
l’intervento media-educativo nell’ambito della metodologia didattica e/o della tecnologia
dell’istruzione (usare i media per insegnare le discipline);
b) educazione «ai» media: è il senso specifico della media education, quello che coinvolge le
diverse agenzie educative riguardando la maturazione dei soggetti in età evolutiva; abilita l’utenza,
soprattutto i minori, ad un impatto ottimale con l’ambiente dei media. L’obiettivo principale è:
accrescimento della comprensione dei media, del modo in cui funzionano e di come rappresentano
la «realtà», di come queste loro rappresentazioni vengono interpretate e da chi;
c) educazione «per» i media: riguarda l’area della formazione professionale, e quindi dell'uso dei
media all'interno delle diverse professioni.
(Per gli educatori sembra importante, ai fini del nostro discorso educativo, in particolare il punto
b), in quanto prevede un'educazione ai media nella scuola e nell'extrascuola, studiata e realizzata
in collaborazione sinergica da educatori, docenti ed operatori culturali [nota di S. Blezza
Picherle]).
I Principi base della Media Education
1.1. Il concetto centrale ed unificante della Media Education è quello di rappresentazione.
I media non riflettono la realtà, ma la rappresentano. I media, cioè, sono sistemi simbolici o segnici.
Senza questo primo principio la Media Education non sarebbe concepibile. Se infatti i media
fossero come delle «finestre sul mondo» o semplicemente riflettessero la realtà, studiarli sarebbe
superfluo come studiare una lastra di vetro. Non studieremmo i media in sé e per sé, ma solo gli
argomenti e i contenuti che essi veicolano (per esempio, lo sport, la fiction, ecc.). Lo studio dei
media deve essere invece basato sull’assunto che essi non sono trasparenti, ma anzi sono capaci di
modellare il contenuto dandogli certe forme caratteristiche. Da qui l’idea che i media
rappresentano la realtà e non la riflettono.
1.2. Uno degli obiettivi fondamentali della Media Education è quello di smascherare la falsa
«naturalezza « dei media.
La Media Education sfida la «naturalezza» delle immagini mediali, rivelandone la natura di
costrutto attraverso lo studio: a) delle questioni relative alla produzione; b) delle questioni relative
all’impatto ideologico delle costruzioni mediali presentate come «buon senso»; c) delle diverse
modalità con cui il pubblico «legge» e reagisce dinanzi al contenuto mediale.
1.3. La Media Education è principalmente investigativa. Non cerca di imporre valori culturali
specifici.
Essa mira ad accrescere la comprensione dei modi in cui i media rappresentano la realtà. Il suo
obiettivo è quello di produrre cittadini ben informati che sappiano formulare i loro giudizi sulla base
delle informazioni disponibili. Nel caso dei giudizi di valore, essa cerca di incoraggiare gli studenti
ad esplorare l’insieme dei giudizi riguardanti un dato testo esaminandone le fonti e gli effetti. Non
cerca di imporre alcun preconcetto su ciò che costituisce televisione o cinema o giornali di qualità
«buona» o « scadente».
1.4. La Media Education si costruisce attorno ad alcuni concetti-chiave considerati come
strumenti di analisi e non come contenuto alternativo.
Esiste oggi in Europa un certo accordo su quelli che sono i concetti-chiave in base ai qua1i si cerca
di rendere l’investigazione testuale dei singoli media la più sistematica e rigorosa possibile. Tra essi
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ricordiamo: denotazione e connotazione, genere, selezione, comunicazione non verbale, linguaggio
mediale, naturalismo e realismo, audience, istituzione, costruzione, mediazione, rappresentazione,
codice/codifica/decodifica, retorica, discorso, soggettività. È chiaro che questi concetti hanno gradi
diversi di complessità. Alcuni (selezione e costruzione, per esempio) possono essere facilmente
insegnati sia ai ragazzi che agli adulti, ma altri possono risultare più complicati. L’abilità
nell’insegnare i media sta proprio nella capacita di ridurre una tale complessità a forme più semplici
(e tuttavia sempre intellettualmente interessanti) adottando un curriculum a spirale.
1.5. La Media Education è un processo a lungo termine che dura tutta la vita.
Per la maggior parte dei bambini l’interesse per i media inizia molto tempo, prima che essi vadano a
scuola, e continua anche nella loro vita da adulti. Una Media education che non sappia tenere conto
di questo fatto è destinata a ridurre di molto le sue potenzialità. Pertanto, stimolare un alto grado di
motivazione e coinvolgimento da parte degli alunni, deve essere molto più che un auspicabile
effetto di un insegnamento efficace. Deve diventare un obiettivo primario. Se la Media education
non riesce ad essere un esperienza divertente ed appagante, oltre che istruttiva, gli alunni non
trarranno alcun incoraggiamento a continuare a studiare i media anche dopo aver varcato i cancelli
della scuola.
1.6. La Media Education mira a raggiungere non solo la comprensione critica ma anche
l’autonomia critica
La Media education dovrebbe sviluppare negli alunni/fruitori una fiducia in se stessi e una maturità
critica tali da renderli capaci e disposti ad applicare il loro giudizio critico anche ai programmi
televisivi o agli articoli di giornale che si troveranno davanti in futuro. La prova del fuoco per
valutare la riuscita o meno di un programma di Media education è rappresentata dalla misura in cui
gli alunni/fruitori riescono ad esercitare il loro senso critico nei confronti dei media anche quando
l’insegnante non è presente. L’obiettivo primario di una Media education che si prolunga nel tempo
non è semplicemente quello di conseguire una consapevolezza ed una comprensione critica de
media, ma anche un’autonomia critica (…). Non è più sufficiente che gli alunni rielaborino o
riproducano le idee e le informazioni fornite loro dall’insegnante (come spesso fanno nelle altre
lezioni). Ne è sufficiente che gli insegnanti incoraggino gli alunni a sviluppare il loro senso critico
in classe (sebbene questo rimanga di importanza vitale): il compito veramente importante ed
impegnativo per il media educator consiste nel creare negli alunni sia la capacità che la volontà di
continuare a farlo per il resto della loro vita.
1.7.L’efficacia della Media Education può essere valutata sulla base di due criteri generali.
A) la capacità degli alunni di applicare ciò che conoscono (le loro idee e principi critici) a situazioni
nuove; b) il grado di impegno, interesse e motivazione dimostrato.
1.8. La Media Education parte sempre dall’attualità.
La Media education cerca di illuminare le situazioni della vita quotidiana degli alunni sfruttando
l’interesse e l’entusiasmo suscitato dagli eventi di attualità riportati dai media. Essa usa a scopo
educativo la grande quantità di materiali e di risorse offerta dai media. Sta proprio qui il piacere di
insegnare ed imparare sui media, anche se questo spesso comporta un notevole impegno da parte
dell’insegnante il quale deve saper raccogliere ed organizzare h modo rapido e creativo il materiale
da usare in classe (...). Tuttavia, la Media education non deve limitarsi all’attualità. Essa deve
piuttosto usarla per aprire quelle prospettive politiche e storiche di più ampio respiro che i media in
genere ignorano e per esplorare mondi più vasti (storia, cultura, religione, problemi della giustizia e
della pace, ecc.)». (pp. 71-76)
«Gli otto concetti-chiave che costituiscono il principio organizzatore e il nucleo forte della
programmazione sono quelli sottoindicati.
1.Tutti i media sono «costruzioni». Questo principio è ritenuto il più importante concetto della
Media Literacy. I media non sono il riflesso della realtà esterna (....) ma sono rappresentazioni che
obbediscono a un ampio spettro di condizionamenti e decisioni. Compito primario della scuola ( e
delle altre agenzie educative) è quello di «decostruire» ciò che è stato prodotto secondo punti di
vista e interessi particolari (...).
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2. I media costruiscono la realtà. Ognuno di noi si costruisce una visione del mondo basata sulle
esperienze fatte, le informazioni ricevute, le osservazioni e le intuizioni personali. Il problema è che
oggi molte di queste osservazioni non sono più dirette, ma vengono « precostruite» dai media che
tendono a sostituirsi al pensiero autonomo di ognuno. Si corre il rischio che la televisione si metta a
pensare al posto di tutti.
3. Il recettore negozia il significato dei media. Il ragazzo (ma anche l’adulto) deve capire che nel
gioco della ricezione è lui il negoziatore dei significati. Nel processo di ricezione entrano in gioco:
a) le conoscenze, i bisogni e gli interessi personali, come pure le proprie angosce e i complessi; b) il
background familiare e culturale; c) gli atteggiamenti e i pregiudizi; d) il momento particolare che
ognuno sta vivendo ( di gioia o di paura). La media education vuole rendere coscienti i recettori di
questi meccanismi che sono in gioco.
4. I media hanno implicazioni commerciali. Fanno parte del più grande business in atto nel mondo
contemporaneo. Catturano audience per consegnarla ai pubblicitari.
5. I media trasmettono ideologie e messaggi di valori. Tutti i media sono in qualche modo
adversiting, pubblicità. Promuovono un certo modo di vivere basato sul consumismo, l’esaltazione
del successo e del sesso, ecc..
6. I media hanno implicanze sociali e politiche. La televisione ha cambiato la vita delle famiglie,
può costruire o distruggere un personaggio politico (...).
7. Forma e contenuto sono strettamente collegati ai messaggi dei media. Ogni medium ha una sua
grammatica e codifica la realtà in un modo specifico e lo stesso avvenimento è letto in modo
differente da media diversi.
8. Ogni medium possiede una propria forma estetica. Gli studenti devono essere portati non solo a
decodificare i testi mediatici, ma anche a godere delle specifiche forme estetiche che sono espresse
dai singoli media: musica, cinema, teatro, romanzo, ecc.» (pp. 115-116).
L’INFORMAZIONE INUTILE (di Gianfranco Bettettini)
Tratto da: G. Bettettini, A. Fumagalli, Quel che resta dei media. Idee per un’etica della
comunicazione, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 19 – 48 (passim)
(Questo testo è stato inserito perché si correla a quanto spiegato durante le lezioni e trattato
ampiamente nel volume di Giovanni Sartori in merito alla disinformazione e all’impoverimento del
capire. Si tratta di un fenomeno che, nel corso di questi anni e sino ad oggi, si è ulteriormente
accentuato, generando un serio aggravamento in merito alla diffusione di un’informazione vera e
rilevante. [Nota di S. Blezza Picherle].
Di fatto oggi c’è un sostanziale consenso nella grande maggioranza dei soggetti su almeno alcune
delle più gravi deformazioni del settore giornalistico (…). Paradossalmente, in una società
democratica un’informazione corretta è ancor più necessaria che in una società autoritaria,
dittatoriale. Per la democrazia l’informazione è come il nutrimento, la linfa vitale: è infatti la
premessa perché abbia senso un qualsiasi tipo di discussione e di decisione che riguardi lo spazio
pubblico. L’informazione è un bene primario, ma lo è solo a patto che essa sia vera e sia in qualche
modo “essenziale”, tocchi i temi rilevanti, quelli su cui bisogna decidere, prendere posizione, sia a
livello pubblico che privato (…). L'informazione falsa, la de-formazione è la negazione stessa
dell'informazione.
Apparentemente la nostra società democratica occidentale ha goduto di un’assai elevata crescita
quantitativa dell’informazione, un aumento che sembrerebbe segno di un deciso miglioramento
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qualitativo delle informazioni a disposizione della società, ossia dei singoli cittadini. Eppure questo
straordinario fiorire quantitativo e superficiale di mezzi di informazione (quotidiani, periodici,
telegiornali, servizi televisivi d’informazione) non sembra aver garantito un sostanziale
miglioramento del tasso di informazione (cioè di informazioni vere e rilevanti a disposizione del
singolo cittadino). Non sembra, oggi, essere garantita l'elaborazione di un'immagine del mondo più
fedele di quanto non avvenisse in altri momenti della storia, in altre società. Ci sono a disposizione,
certo, più informazioni su un maggiore numero di avvenimenti, ma il risultato per il cittadino medio
non sembra essere una migliore informazione intesa come migliore comprensione intellettuale del
mondo, dei suoi aspetti e di quanto vi avviene. Non basta la quantità delle notizie, occorre avere
percorsi, guide, occorre poter costruire sentieri di senso. Oggi infatti si continuano a dare molti
fenomeni di costruzione di significati distorti, costruzioni di realtà artefatte, costruzione di
personaggi sostanzialmente virtuali.
I motivi di questo stato di cose sono molteplici.
Anzitutto c’è una fragilità del sistema: è assai difficile la verifica e il controllo delle fonti stesse di
informazione. Spesso questa “circolazione impazzita” (di notizie) non nasce da qualche volontà
esplicita di disinformazione, ma è semplicemente frutto dell’imperizia, dell’imprecisione, della
fretta, della mania dello scoop a tutti i costi, che impera fra i professionisti dell’informazione, del
desiderio di informare sugli avvenimenti in senso reale, dell’accelerazione dei tempi di lavoro del
giornalista. Per cui la prima notizia in qualche modo è sempre vincente ed è incontrollabile. (…)
Quello che più di tutto interessa ai mezzi informativi non è avere la verità su quanto avviene, ma
poter trasmettere delle “belle notizie”, interessanti, colorite, accattivanti. Bisogna dare ogni giorno
una storia da dare in pasto ai media, creare eventi, dichiarazioni, fornire immagini belle e
interessanti. Questo vale in particolare per le notizie televisive. (…) Da qui la moltiplicazione di
chiacchiera e pettegolezzo, che negli ultimi quindici anni ha riempito le pagine dei giornali anche
“seri”, disperdendo l’attenzione del lettore su un’informazione che non ha niente di rilevante dal
punto di vista civile e che nello stesso tempo occupa molto spazio, togliendo invece la possibilità e
l’accesso ad argomenti più seri e rilevanti. (…). Il giornale ( e ancor di più lan televisione), che
dichiara di essere a servizio del lettore, strumento di accesso a ciò che è rilevante, tende sempre più
a lasciar filtrare solo ciò che è curioso. Sembra esserci una mancanza di interesse per quanto sta
realmente avvenendo.
Sussiste inoltre un rapporto perverso creatosi tra informazione e pubblicità, che hanno invertito
la loro relazione. In molti settori che si dichiarano informativi la parte informativa è
surrettiziamente solo un riempitivo del vero messaggio, che è quello pubblicitario. (…) In effetti
un’analisi minimamente accurata del valore informativo di alcune di queste pubblicazioni non può
che rilevare la scarsissima rilevanza della dimensione propriamente giornalistica di testate, che
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cercano solo di trovare storie per intrattenere il loro pubblico nelle poche pagine che inframezzano i
molti annunci pubblicitari o cosiddetti “redazionali”, pagine che si presentano come informative,
ma che di fatto sono curate e pagate da investitori pubblicitari (pp. 35-36).
La chiarezza compiacente degli slogan (di Massimo Baldini)
Tratto da: M. Baldini, Parlare chiaro, parlare oscuro, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 5156 (passim).
(Questo testo è stato inserito per dimostrare la forza persuasiva degli slogan, pubblicitari e non,
che tendono ad essere assimilati acriticamente ed assunti come pensieri e verità inconfutabili. Gli
spot (anche sulla promozione della lettura) proiettati durante le lezioni, sono serviti proprio per
evidenziare questo loro intrinseco potere di “non pensiero”. Ma ciò non accade solo per gli spot,
in quanto nell’informazione e nel parlato quotidiano, perfino nella formazione educativa, oggi
sempre di più si procede per “affermazioni a spot”, senza che vi sia argomentazione o pensiero
critico. Da ciò si evince che è quanto mai necessario pensare percorsi operativi di “analisi delle
formule slogan” per rendere i fruitori dei media dei “lettori” critici e consapevoli. Gli slogan
dominano la pubblicità, la politica ma un po’ tutto il modo di parlare nella televisione e nei media
e sono degli straordinari manipolatori di opinioni.[Nota di S. Blezza Picherle].
Non sempre la chiarezza, come abbiamo già accennato, è un fenomeno totalmente positivo;
accanto ad una chiarezza luminosa esiste anche una chiarezza fittizia, illusoria, compiacente, una
chiarezza — per intendersi — che porta le stimmate della negatività. Accanto ad una chiarezza
luminosa esiste una chiarezza fittizia, illusoria, compiacente. In questo particolarissimo ambito
rientra la chiarezza degli slogan. (…)
Gli slogan fioriscono in tempi di crisi e “manganellano” il pubblico con parole che intrappolano,
che imprigionano il pensiero, con parole che sono vere e proprie armi, con parole-choc. Gli slogan
ci forniscono pensieri “precotti”, intendono impedirci ogni riflessione, pretendono cioè di pensare
per noi.(…)
Lo slogan in primo luogo è una formula concisa. Infatti, «allungare uno slogan non significa
rafforzarlo, ma indebolirlo, in qualche caso distruggerlo; può perdere ogni potere anche per una
sola parola in più. “L'alcool uccide lentamente” provoca la pronta replica: “Dunque non c'è
pericolo immediato!”. Il “vero” slogan sarebbe stato “L'alcool uccide”: asserzione inconfutabile
perché sommaria, sommaria perché concisa».
In secondo luogo, lo slogan deve consistere in una formula facilmente ripetibile: il suo potere viene
dall'essere una formula che possiamo e amiamo ripetere. Contrariamente a quanto si pensa «la
ripetizione non fa mai lo slogan [...], è lo slogan che crea la possibilità e il bisogno della ripetizione».
Gli slogan sono per lo più anonimi. Ed è proprio dall'anonimato che traggono la loro forza d'urto,
«sono i “si dice” che mettono in ombra il mittente e mettono a tacere il destinatario; gli slogan sono
una verifica della teoria americana dello sleeper effect, l'effetto ipnotico: un messaggio tende ad essere
creduto nella misura in cui se ne dimentica la fonte o l'autore. Lo slogan è “suggerito” piuttosto
che “comunicato”».
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Lo slogan è una formula polemica, manichea, semplicistica, dogmatica («sono formule a cui non
si replica, che non ammettono obiezioni»). Quasi mai è menzognero, e se è menzognero lo è
casualmente, sempre però è sommario. Lo slogan, inoltre, è una formula tesa a sollecitare
all'azione; esso fornisce alle pulsioni collettive «una formula semplice e d'effetto che contribuisce
fortemente a convogliarle verso una meta». In breve, è una formula di lotta la cui funzione è quella
di far agire e non di far pensare. Lo slogan, dunque, «è tale, quando l'enunciato comporta non
solamente una indicazione, un consiglio o una consegna, ma una sollecitazione; quando le parole
non hanno lo scopo di informare o di prescrivere, ma quello di far agire; quando cioè la lingua
non serve più a dire ma a provocare altro da quel che dice».
A più riprese Reboul sostiene che la vera forza degli slogan sta nell’ambiguità, legata alla poca
chiarezza. Ad esempio i due slogan pedagogici “Più democrazia nella scuola” e “Educare scolari
che pensino”, possono voler dire cose tanto diverse da essere contradditorie. Il primo può voler
significare: 1. Far partecipare gli scolari all’elaborazione dei programmi dei corsi; 2. Dare a tutti
la medesima istruzione; 3. Educare ciascuno secondo le proprie capacità. E il secondo può voler
dire sia “ritornare allo studio delle materie di base”, come pure” studiare a fondo i problemi
sociali più scottanti” (….).
In altre parole, lo slogan è una formula che fa più di quel che dice e fornisce all’uomo della massa
una giustificazione ovviamente “pseudo-razionale. (…) Dunque il potere degli slogan è duplice.
Grazie alla concisione che lo rende piacevole a ripetersi e distoglie la nostra attenzione dai moventi
per cui ci sollecita, esso ci fa agire senza scegliere. Ma oltre a questo potere, in verità di limitata
importanza, di farci votare, comperare, parteggiare, esso fa un uso di un secondo potere
segnatamente più pericoloso: lo slogan è un “pensiero” che frena il pensiero, lo addormenta, ne
sospende la responsabilità; un pensiero che mi regala il sollievo, la soddisfazione, il piacere di
pensare in mia vece.
Lo slogan ha qualcosa in comune con le formule magiche, è, se vogliamo, un residuo di pensiero
magico, è una formula che seduce il bambino che è in ognuno di noi, che fa sospendere il senso
critico (…). Nello slogan, grazie a questa sua capacità di dissimulazione, la parola diviene un’arma
segreta e in ciò consiste il suo vero pericolo, nel fatto che non solo pensa per noi ma pensa “in un
certo senso alle nostre spalle”. (…)
Solo prendendo coscienza della realtà si potrà discernere il suo potere di persuasione, ripensare il
pensiero che pretende di inculcarci; si potrà riflettere sullo slogan, invece di pensare per slogan.
(…) Se vogliamo passare dal pensiero preconfezionato al pensiero pensante dobbiamo imparare a
smontare i meccanismi che regolano il funzionamento degli slogan e dobbiamo imparare altresì ad
analizzare le loro tecniche persuasive. (…)La demistificazione degli slogan ha luogo quando si
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riesce a mettere in luce il loro potere manipolatorio e la loro capacità persuasiva, nonché la loro
capacità di far leva sulla paura di pensare e sul bisogno di credere”. (….)
Gli slogan possiedono, indubbiamente, fascino e potere; tuttavia il rimprovero fondamentale che
può essere loro mosso è che essi, nonostante la loro chiarezza, spengono il pensiero. (…) Gli slogan
ci forniscono pensieri “precotti”, intendono impedirci ogni riflessione, pretendono cioè di pensare
per noi. Tendono ad impedirci ogni riflessione.
La trasmissione di messaggi valoriali, comportamenti e modelli
(La Tv (come pure altri media), attraverso raffinatissime tecniche, trasmette ai fruitori messaggi
seduttivi che penetrano profondamente nell’inconscio, erodendo ogni capacità di autonomia. La
psicologa Anna Oliverio Ferraris (La sindrome Lolita, 2008) e Loredana Lipperini (Ancora dalla
parte delle bambine, 2007) mostrano come attraverso gli spot televisivi, internet, cartoni animati e
altre narrazioni, si trasmettano modelli femminili e maschili che i bambini e ragazzi tendono ad
imitare nella vita quotidiana. Le bambine, ad esempio, vengono rappresentate in modo seduttivo,
quasi sensuale, mentre pubblicità e programmi vari stanno riproponendo stereotipi e pregiudizi di
genere che risalgono ad un lontano passato.
Questi due brevi testi qui proposti si ricollegano alle lezioni, durante le quali si è discusso di questo
argomento, anche analizzando e commentando spot pubblicitari.
Dalla lettura emergerà come sia necessario predisporre anche in ambito extrascolastico attività
ludico-conversazionali che sollecitino l’analisi dei prodotti mediali e una loro valutazione critica
[nota di S. Blezza Picherle]).
A) Ad erotizzare il corpo infantile contribuiscono oggi stilisti e pubblicitari. (…) In due note
pubblicità di abbigliamento per bambini, le modelle fotografate hanno un'età che si aggira tra i sei
e gli otto anni. In una di esse, le baby-modelle indossano abiti che ricalcano la moda adulta e
guardano dritto nell’obiettivo, quasi a sfidare l'osservatore. Hanno catene è monili che
rappresentano un forte richiamo per le piccole consumatrici. Nell'altra, due lolite in minigonna, in
posa da pin-up, guardano provocatoriamente la macchina da presa. Indossano top e stivali, hanno
vistosi nastri tra i capelli: una è quasi distesa su una sedia, le gambe allungate; l'altra tiene le
mani in tasca, imbronciata. È un'immagine inquietante. Non sono bambine ma piccole adulte.
Dall'espressione dei visi e dagli sguardi si direbbe che abbiano un passato e un'esperienza di
seduttrici consumate.
Da vari documenti emerge che le immagini erotizzate delle bambine stanno diventando sempre più
comuni nella pubblicità. “Corporate paedophilia”, cioè “pedofilia aziendale”, è un modo provocatorio
di segnalare un tipo di strumentalizzazione che sconfina nell'abuso.
Negli Stati Uniti c'è stata una mobilitazione di giornalisti, associazioni per la tutela dell'infanzia,
genitori e psicologi che ha portato alla costituzione di una task force in seno all’American Psychological
Association. Nel 2007 è stato pubblicato un rapporto, dal titolo Task Force on the Sexualisation of the Girls, da
cui emerge che all'erotizzazione del corpo delle bambine non concorrono soltanto pubblicità e mass
media ma anche i genitori e gli insegnanti. Si viene a creare una sorta di “circolo vizioso”: le ricerche di
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mercato individuano alcune tendenze (trend) più o meno volatili; attraverso i mezzi di comunicazione
di massa la pubblicità diffonde, potenzia e fissa queste tendenze; la loro diffusione su vasta scala ha
successivamente l'effetto di imporre gusti e mentalità tra i consumatori più recettivi; prende così il via
una moda che può avere risvolti collaterali non previsti. Per esempio, la preoccupazione per l'aspetto
fisico può creare nei bambini insoddisfazione o imbarazzo quando pensano di essere “inadeguati”.
L’erotizzazione dell'abbigliamento può indurre le bambine ad assumere atteggiamenti provocatori
che attirano l'attenzione dei maschi, in una età in cui non comprendono ancora tutte le possibili
conseguenze di look e movenze che alludono al sesso. Non soltanto le piccole lolite si mettono in
situazioni rischiose, ma l'oggettivazione del corpo e l'imitazione di modelli adulti conducono
facilmente a una rappresentazione del sesso di tipo strumentale, nel senso che la sessualità può essere
considerata alla stregua di una mercé di scambio. Trasformata in oggetto di consumo, la baby-modella,
che, per la gioia dello sponsor e della sua mamma (che in lei si specchia) assume in studio pose
seduttive davanti alla macchina fotografica e occhieggia allusiva dai cartelloni pubblicitari, lancia un
messaggio di disponibilità. (….) Sotto la pressione dei marchi alla moda e dei modelli che trovano
intorno a loro, le ragazzine imparano precocemente l’arte della seduzione, come spiegano i sociologi
canadesi Richard Poulin e Amelie Laprade (2006). «Esse vengono trasformate in oggetti di desiderio.
Diventano prigioniere dello sguardo degli altri per esistere. Si espongono e si formano un’idea della
sessualità e dell’amore centrata sul sesso e sul consumo».
(Tratto da: A. Oliverio Ferraris, La sindrome Lolita, Rizzoli, Milano 2008, pp.33- 37 passim).
B) La moda per bambine non è in nulla dissimile da quella delle sorelle più grandi o delle madri,
ha un corredo di trucchi e optional invidiabile, alle une e alle altre si offrono trousse di ombretti
e rossetti a forma dì caramella, farfalla, fiore, di futile e incantevole assurdità. Giochi, certo. Ma,
ancora una volta, il gioco è tale se se ne conosce la materia prima, e se sì è consapevoli del personaggio con cui si flirta e in cui ci si cala. Ma questa consapevolezza esiste?
Veniamo ai giocattoli. Nessuno, oggi, riterrebbe attendibile l'antica divisione del mondo ludico
in due emisferi distinti: il meccano, e tutto ciò che richiede logica, impegno, concentrazione,
per i maschi; la bambola, che prefigura un destino chiuso e fatale, per le femmine. Eppure è
ancora così: basta tornare a osservare uno dei blocchi pubblicitari inseriti nella
programmazione per ragazzi, e si verificherà che i maschi vengono ancora rappresentati alle
prese con corse di automobiline, scontri di action fìgures (non "bambole", ma riproduzioni
miniaturizzate di personaggi a loro volta di sesso maschile, anche se di natura non umana),
mazzi di carte o cartucce per Game Boy, o giochi intelligenti che consentono di migliorare le
proprie conoscenze scientifiche. Le bambine sono invariabilmente intente a ballare di felicità
per un paio di scarpe nuove o a cullare bambolotti sempre più raffinati in grado di parlare
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muoversi, mangiare ed esigere affetto; o a rispecchiarsi in bambole-ragazza, che siano
l'immortale Barbie, le sue sorelle più sboccate e meno vestite, le Bratz, o la semplice affollata
schiera di fate e maghe che vengono dal mondo del fumetto e del cartone animato.
Una testimonianza certo, che anche in quest'ultimo settore sono aumentate le eroine. A patto di
sapere che il proliferare di sacerdotesse giapponesi, elfe britanniche, streghe italiane va ancora
una volta a coincidere con un destino storico che vede nella donna il tramite privilegiato con il
sacro: e che le consentirà di essere vincente, anzi, presente nella società degli uomini solo se si
rapporta a una trascendenza a cui non le è dato aspirare, ma di cui può solo essere voce, oracolo,
pizia. Quelle stesse eroine sono anche di carta: il mercato italiano dei libri per ragazzi è stato
nell'ultimo decennio un filone fecondo, da arare avidamente anche se, come spesso avviene, con
poca accortezza. Mentre basta sfogliare i libri di testo delle elementari per scoprire che tutto è
rimasto come quarant’anni fa: e che mentre fior di intellettuali ci rassicuravano sul fatto che le
donne sono ricche e vincenti come le amiche di Sex and the City, nella maggior parte dei casi
le figure femminili proposte a bambine e bambini continuano a essere maestre, segretarie,
infermiere.
Non conta, si dirà. Non conta, si diceva trent'anni fa, quando si sottolineava che, senza l'azione
sul mito e sui simboli, una stagione di riflessioni, di battaglie, di entusiasmi, sarebbe rifluita via
come l'acqua. E infatti, anche se non si usano più i grembiulini, è ancora rosa il mondo delle
bambine. Rosa la loro Play-station, i loro telefonini, le copertine dei loro magazine, i capelli
delle Ninja dei cartoni animati, rosa i blog delle dodicenni, rosa la letteratura usa e getta delle
sorelle appena più grandi (anche se ora utilizza, certo giocosamente, la definizione di chick list,
letteratura per pollastrelle). Da quelle piccole esperienze quotidiane si è distolto lo sguardo: e
alloro interno sono riaffiorati gioiosamente gli stereotipie i pregiudizi.
(Tratto da: L. Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 55-58
passim)
Lo schermo di carta1
Tra Letteratura per adolescenti e media audiovisuali
di Roberta Silva
(Questa ricerca, riportata solo per alcuni aspetti, viene presentata per far comprendere come, sia i
romanzi per adolescenti che serial e film, propongano personaggi stereotipati e quindi modelli di
comportamento superficiali ripetuti acriticamente dai giovani. Lo studio sollecita ad effettuare in
contesto culturale extrascolastico un’analisi critica dei media (sit, serial, film) al fine di
comprendere stereotipi e modelli valoriali non rielaborati personalmente. [Nota di S. Blezza
Picherle]).
Nell’ambito della Letteratura per ragazzi2 contemporanea, un settore di studio particolarmente
1
Il presente articolo è frutto di un ampliamento della lecture tenutasi durante la Conferenza Internazione dell’ ISSCL
(Irish Society for the Study of Children’s Literature), il 5 marzo 2010, presso il Trinity College di Dublino.
2
La disciplina oggi viene comunemente delineata come «Letteratura per l’infanzia», anche se la definizione più
completa sarebbe quella di «Letteratura per l’infanzia e l’adolescenza» (Blezza Picherle, 2003, p. 19), poiché essa
11
stimolante è quello che vuole indagare punti di contatto tra la letteratura per ragazzi e i media
narrativi, con particolare attenzione ai media audio visuali quali serial e film. Tale interesse nasce
dalla convinzione che la Letteratura per ragazzi, e in particolare quella per adolescenti (per i quali
l’influenza dei media audio visuali è particolarmente pervasiva) si inserisca all’interno di una sorta
di “catena multimediale”, instaurando contatti profondi con gli altri media (Faeti, 1990, p. 74). (…)
Tra vampiri e pariolini
Partendo dalle teorie di questi studiosi e dalla metodologia di analisi proposta da Silvia Blezza
Picherle3, si è scelto di sottoporre ad analisi due dei romanzi più amati dagli adolescenti: Tre Metri
sopra il Cielo di Federico Moccia e su Twilight di Stephanie Meyer4. Nonostante l’analisi completa
preveda sia elementi stilistici che contenutistici, qui si analizzeranno, a titolo di esempio, solo degli
esempi riguardanti gli aspetti contenutistici tenendo in considerazione la presenza di tematiche
centrate sulle relazioni sociali e interpersonali; l’abbondante uso di cliché nella definizione dei
personaggi, e all’utilizzo di congegni narrativi prevedibili. (…)
In entrambi i romanzi sono presenti congegni narrativi e personaggi stereotipati. Nel romanzo di
Federico Moccia, ad esempio, emergono innumerevoli topoi ricorrenti, che creano una struttura
narrativa riconoscibile e prevedibile. Uno di questi è legato alla scontata rappresentazione del
complesso di Elettra: fin dalle primissime pagine, infatti, vengono tracciati sottili ma continui
richiami tra Step e il padre di Babi (Claudio) attraverso l’uso degli stessi oggetti (come la stessa
marca di sigarette o di birra) o il ricordo di situazioni simili (entrambi ad esempio hanno
abbandonato gli studi dopo il liceo). All’interno di tale prospettiva acquista nuovo senso l’incontro
tra Claudio e Step: durante tale incontro l’uomo, anziché convincere il ragazzo ad allontanarsi dalla
figlia, come la moglie lo aveva esortato a fare, scopre insospettate affinità con il ragazzo, finendo
per trascorre con lui una serata a base di alcol e risse.
“Allora, si può sapere come è andata? Forza racconta!” [chiede la madre di Babi]
“Bene, anzi benissimo. Step è una persona perbene in fondo, un bravo ragazzo. Non c’è da
preoccuparsi.
“Come non c’è da preoccuparsi? […] Ma gli hai detto di lasciar stare nostra figlia? Che non deve
vederla, sentirla, andarla a prendere a scuola?”
“Veramente a quel punto non ci siamo arrivati”
“E che gli hai detto? Cosa avete fatto fino adesso? È mezzanotte?”
Claudio crolla.
“Abbiamo giocato a biliardo.”
(Moccia, Tre Metri Sopra il Cielo, 2004, pp. 276-277)
Appare dunque chiaro come Babi si senta attratta da un uomo che ha molto in comune con suo
padre, anche se quest’ultimo ormai appare “addomesticato” dalla personalità dominante e piuttosto
snob della moglie, definita dall’uomo come “il poliziotto cattivo” di un poliziesco in cui però il
“poliziotto buono […] non esiste” (Moccia, 2004, p. 276). Non è questo l’unico cliché presente nel
romanzo: come già accennato, seguendo un altro luogo comune, alla fine del romanzo Babi si
comprende al suo interno studi riguardanti i prodotti librai sia destinati alla fascia infantile che alla fascia
adolescenziale. Per brevità ci si riferirà con il termine «Letteratura per ragazzi» all’intero corpus della disciplina.
3 La metodologia di analisi proposta da Silvia Blezza Picherle ha un doppio focus, che si articola sia sull’analisi
stilistica che su quella contenutistica. Riguardo invece all’analisi stilistica, essa mira a far emergere la ricchezza,
l’originalità e la complessità delle scelte stilistiche, mettendole a confronto con le scelte più banali, ripetitive e
convenzionali. Riguardo al contenuto, particolare attenzione viene prestata alle tematiche (mettendo in evidenza in
particolare i temi connessi alla complessità sociale e personale) e i personaggi (analizzando in particolare come essi
sono costruiti, quali sono le loro motivazioni e i loro valori). Questo metodo, pur partendo da una metodologia letteraria
e, in parte, narratologica, consente di analizzare i prodotti culturali attraverso una prospettiva educativa, ponendo in
evidenza quelle scelte, sia contenutistiche che stilistiche, che possono incoraggiare una visione soggettiva e una
riflessione personale da parte del lettore (Blezza, 2004, p. 294).
4
Queste opere sono emerse in una recente ricerca come tra le più amate dal campione analizzato, composto da 1.500
studenti tra i 12 e i 16 anni residenti nella provincia di Verona (Silva, 2010, pp. 78-80). L’ipotesi di partenza è che
queste opere abbiano subito in modo particolare l’influenza dei media narrativi audiovisuali. Per verificare questa
ipotesi è necessario analizzare questi due romanzi cercando di verificare se, sia dal punto di vista stilistico che
contenutistico, essi hanno subito l’influsso dei prodotti audiovisuali narrativi, rappresentati da film e serial.
12
adeguerà alle aspettative materne e lascerà Step per scegliere un compagno in possesso di quei
requisiti “sociali” che le hanno insegnato a considerare essenziali, imitano, più o meno
coscientemente, il modello materno. Ma non solo i congegni narrativi, anche i personaggi appaiono
stereotipati e bidimensionali. Babi e Step, i due protagonisti, incarnano infatti due precisi prototipi
narrativi: Babi viene presentata come una “brava ragazza” (p. 53), “bella e studiosa” (p. 213), con la
testa sulle spalle e abituata ad uniformarsi alle aspettative materne, mentre Step viene presentato
come un “spaccone dal cuore d’oro”, in cui l’aggressività è stata scatenata dal pestaggio da parte di
un gruppo di bulli, facendogli affermare che nessuno gli avrebbe mai più messo «le mani addosso.
Mai più senza uscirne malconcio» (p. 26), e in seguito acuita dalla scoperta del tradimento da parte
della madre, verso cui provava una vera e propria venerazione, che ha «annidato qualcosa di cattivo
in lui […] pronto a colpire con rabbia, con cattiveria, figlio della sofferenza» (p. 206). Il loro
incontro appare dunque l’inevitabile incrocio di due cliché.
Il sole sta salendo, è una bella mattinata. Lei sta andando a scuola. Lui non è ancora andato a dormire
dalla notte prima. Un giorno come un altro.
(Moccia, Tre Metri Sopra il Cielo, 2004, p. 10)
Congegni narrativi e personaggi stereotipati fanno la loro comparsa anche nel romanzo di Stephenie
Meyer. Riguardo ai congegni narrativi, un esempio di tale tendenza è rappresentato dal rapporto tra
la protagonista, sedicenne matura e affidabile, e la madre, briosa e sventata quarantenne. In molti
prodotti culturali per adolescenti (romanzi, serial e film) è presente questo tipo di rapporto
“sbilanciato”, in cui le pratiche di accadimento sono spostate dalla madre alla figlia. Ne sono un
esempio il rapporto tra l’adolescente Carmen e la madre nella serie narrativa di Ann Brashares dal
titolo Quattro amiche e un paio di jeans, oppure il legame tra l’effervescente Lorelai e la seria e
studiosa figlia Rori nel serial televisivo Una mamma per amica – Gilmore Girls. Si tratta dunque di
un congegno narrativo con cui i ragazzi hanno grande familiarità, tanto da riconoscerlo e
contestualizzarlo al primo accenno.
Mia madre mi somiglia, a parte i capelli corti e le rughe, Mentre fissavo i suoi occhi grandi, da
bambina, mi prese il panico. Come potevo abbandonare mia madre, così tenera, sventata,
imprevedibile, e costringerla ad arrangiarsi da sé? Certo, adesso c’era Phil, che significava bollette
pagate, frigo pieno, benzina nel serbatoio, e qualcuno a cui chiedere aiuto se si fosse persa. Eppure…
(Meyer, Twilight, 2006, p. 14)
Anche i personaggi principali presenti in Twilight ricalcano dei cliché ben definiti, e ciò appare
particolarmente vero per i protagonisti. Bella viene presentata come il modello della ragazza goffa e
insicura, tendenzialmente chiusa nel suo guscio e soprattutto incapace di vedere le proprie
potenzialità e di percepirsi correttamente.
“Cosa intendi per «ovvietà»?” [chiese Edward]
“Be’, guardami” dissi […] “Sono una ragazza assolutamente normale… Certo, a parte difetti come gli
incidenti quasi mortali e una goffaggine degna di una disabile. E guarda te”. Indicai lui e la sua
stupefacente perfezione. Alzò un sopracciglio, irritato, ma si rilassò all’istante e nei suoi occhi apparve
uno sguardo intelligente.
“Credo che tu non abbia una buona percezione di te”.
(Meyer, Twilight, 2006, pp. 181-182)
Ma anche il personaggio di Edward appare altrettanto stereotipato: risoluto, sicuro di sé e
determinato, incarna perfettamente il ruolo del “maschio alfa dominante”, pur nascondendo
un’anima impetuosa ed appassionata, rigidamente controllata, pronta a scattare solo quando coloro
che ama sono in pericolo.
“Cosa c’è che non va?” la mia voce fu un sussurro.
“Ogni tanto ho dei problemi di impulsività, Bella”. Anche lui parlò sottovoce, e i suoi occhi, mentre
guardava fuori dal finestrino, divennero due fessure. “Ma non sarebbe affatto una buona cosa fare
marcia indietro e assalire quei…” Non terminò la frase, guardò altrove, sforzandosi per un istante di
tenere a bada la rabbia. “Perlomeno” riprese “è ciò di cui sto tentando di convincermi”.
(Meyer, Twilight, 2006, pp. 181-182)
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Tuttavia una caratteristica particolarmente importante, che emerge nel suo rapporto con Bella, è
l’atteggiamento fortemente protettivo che egli ha nei confronti della ragazza, che si ricollega a una
relazione tipizzata rispetto al genere sessuale di appartenenza, di stampo prettamente tradizionale.
Nel legame tra Bella ed Edward infatti è il ragazzo a mantenere il controllo, attraverso un, sia pur
benintenzionato, paternalismo.
Edward: “Non posso mai, mai permettermi di perdere il controllo se ci sei tu. In nessun senso, mai”
(Meyer, Twilight, 2006, p. 262)
Il loro rapporto dunque appare come prevedibile di due cliché strettamente interrelati, ovvero
quello che lega l’uomo forte e autorevole alla donna fragile e bisognosa di sostegno.
Edward: “Starti lontano… mi rende… ansioso”. Il suo sguardo era dolce ma intenso, e mi sciolse.
“Non scherzavo, quanto ti ho chiesto di badare a non cadere nell’oceano o non farti investire, giovedì.
Per tutto il fine settimana sono rimasto in pensiero”.
(Meyer, Twilight, 2006, p. 164)
“Vicino a te mi sento così sicura” confessai, di nuovo in balia del suo sguardo ipnotico.
(Meyer, Twilight, 2006, p. 149).
Dunque analizzando dove dei romanzi di maggior successo tra il pubblico adolescente è possibile
evidenziare come essi abbiano subito gli influssi dei prodotti audiovisuali, con particolare
riferimento a film e serial, sia in termini stilistici che contenutistici. Come evidenziato dagli studiosi
che si sono occupati di intertestualità, non è possibile ignorare i rimandi non solo al “già letto” ma
anche al “già visto” con cui sia gli scrittori che i lettori devono fare i conti. L’uso sapiente di tali
rimandi si riflette sulla popolarità delle opere che sanno sfruttare i legami di intertestualità con gli
altri medi, poiché, come osserva Robyn McCallum, la “metafiction”, ovvero strutture narrative che
stringono coscientemente relazioni con altri media, si rivano particolarmente accattivante per un
utente che è ormai inevitabilmente intermediale (McCallum, p. 397-98). È dunque una necessità
per chiunque si occupi di Young Adult Literature ampliare il proprio sguardo ad un’analisi che
abbracci non solo i fenomeni narrativi ma anche quelli che provengono dal mondo audio visuale,
ponendosi alla ricerca di quegli indizi che consentono di comprendere meglio tendenze e
inclinazioni della Letteratura per adolescenti.
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