Testi Prof. Zinato - Comune di Cadoneghe

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Testi Prof. Zinato - Comune di Cadoneghe
(Gennariello (13 marzo 1975), in Lettere luterane, 1976; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla
politica e sulla società, Milano, Mondadori, 2012, p. 556
7)Il sangue del P. risplendeva per tutto il campo contro la riga vivida dell’orizzonte
del mare molto vicino e attento. I suoi grumi e le sue macchie si sparpagliarono e si
distesero all’aperto in varie formazioni. Solo alla luce alta del mezzogiorno si riordinarono e si prepararono a ricomporsi; come per resistere ancora. Meno di un’ora
dopo infatti, un agente di P.S. accovacciato lì addosso per prendere le misure del
corpo e dell’alone intorno di polvere rossa sorrideva all’obbiettivo del fotografo,
compiaciuto e compunto nella smorfietta moraleggiante per mostrare la prova, e
questa volta ancora più grande, che tutti i pervertiti di quel genere, prima o poi,
famosi o no, ricchi o no, fanno tutti quella fine.Quella fine obbligata e tante volte
ripetuta (come invocata) che deve essere proprio giusta; così giusta che quasi sono
inutili le misure di circostanza e qualsiasi termine del verbale.
(Paolo Volponi Cronaca di una notte dei tempi, 2-3 novembre 1986)
michele stefani
QUARANTA
emanuele zinato
22 ottobre 2015
pasolini saggista
Forse sono io che sbaglio. Ma continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
(PPP, intervista a F. Colombo, 1 novembre 1975)
1)Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla
sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire
una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la
dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul
corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di
prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che
scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del
diventare…A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un
esercizio che mi riesce bene.
Dai Dialoghi con Pasolini su «Vie Nuove» (1961)
2) La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i
frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi
lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori
ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze
[…]. È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti […].
Nota introduttiva a Scritti corsari, 1975; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla
società, Milano, Mondadori, 2012, p. 26
a cura di
6) L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica - in altre
parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale - rende quel ragazzo
corporalmente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. […] Il punto è questo:
la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in atteggiamento critico rispetto alle
“cose” moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare
quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto.
Io potrò cercare di scalfire, o almeno di mettere in dubbio, ciò che ti insegnano
genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono
assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose.
[…] Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare. Quindi, nell’ambito del
linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti
di generazione che la storia ricordi. […] Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. “’O
munno cagna”. E’ vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche
millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto,
totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. Le cose erano
ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di
sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè
personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai
cominciato a vivere tu.
3) Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte
sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto
a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado
nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i
nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione),
non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.
Acculturazione e acculturazione (9 dicembre 1973), in Scritti corsari, 1975; ora in P. P.
Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, Mondadori, 20012, p. 293
4) La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua
tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica
del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture,
perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di
una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un
mondo di morte.Ma è possibile prevedere un mondo così negativo? È possibile
prevedere un futuro come “fine di tutto”? Qualcuno – come me – tende a farlo, per
disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di
poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori
analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza. Questa visione apocalittica
del futuro è giustificabile, ma probabilmente ingiusta.
(…) Sembra folle, ma
un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans “Jesus”: “Non
avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel
canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e
indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità -subito
adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte- faceva troppo
ragionevolmente prevedere. (…) C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e
una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a
lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così
completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente
laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo
valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità
e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme
consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile. (…) Ma l’interesse di questo
slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo un cui la Chiesa
viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in
esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e
quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente,
quello dell’intero mondo tecnologico.
(Analisi linguistica di uno slogan, 17 maggio 1973 in Scritti corsari, 1975)
5)
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è
una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del
1974.
Io so i nomi del «vertice» che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di
golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli «ignoti»
autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi di chi ha gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una
prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e
Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei
colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo)
una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e
per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il
disastro del referendum.
[…] Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si
sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che
succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si
sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la
logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Il romanzo delle stragi (14 novembre 1974), in Scritti corsari, 1975; ora in P. P. Pasolini,
Saggi sulla politica e sulla società, Milano, Mondadori, 20012, pp. 362-363