I settant`anni del franchetti

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I settant`anni del franchetti
IL LICEO GINNASIO STATALE “RAIMONDO FRANCHETTI” PRESENTA:
ANNO IX N°1
In
questo
numero:
Gli ex
studenti
raccontano
Dal banco
alla
cattedra.
Il liceo
da occhi
nuovi
e molto
altro
ancora...
DICEMBRE 2010
I settant’anni del
franchetti
E‟ un compleanno di tutto rispetto, quello
che celebra il nostro Liceo quest‟anno, e
anche noi, a modo nostro, abbiamo voluto celebrarlo dedicandogli questo primo
numero del Camaleonte.
Ad alcuni ex studenti abbiamo chiesto di
raccontarci dei loro anni passati al Franchetti, ma anche quale importanza ha avuto nella loro vita l‟aver frequentato un
liceo classico. Ai nostri insegnanti, ex studenti del liceo, abbiamo chiesto che effetto fa “essere dall‟altra parte”. Infine, le
impressioni di una “quartina”: è poi così
diverso essere studenti oggi, rispetto al
passato?
Il compleanno del Franchetti cade in un
momento particolare per la scuola italiana: da quest‟anno prende il via il riordino
degli studi della secondaria superiore, novità che va ad aggiungersi ad un‟altra, introdotta già lo scorso anno, ma passata un
po‟ sotto silenzio: la certificazione delle
competenze. Luci e ombre, come sempre
accade quando intervengono dei cambiamenti: è opportuno incrementare lo studio delle materie scientifiche in un liceo
classico, a scapito di insegnamenti come
l‟italiano, la storia, la geografia? E ha senso parlare di competenze e di valutazione
In redazione:
delle competenze in una scuola come un
liceo classico? In questo numero abbiamo
dato voce ad alcune opinioni possibili
sull‟argomento, ma ci piacerebbe sentirne
altre.
Infine, c‟è la scuola che frequentiamo tutti
i giorni, e c‟è la scuola che vorremmo, che
immaginiamo più interessante, meno
noiosa: ad esempio quella che ci propone
un film che ha già vent‟anni, ma che vale
ancora la pena di vedere, L’attimo fuggente.
E c‟è chi, coraggiosamente, accetta la sfida
dell‟ignoto e va a vedere come si vive
dall‟altra parte del mondo, in Canada.
Il numero si chiude con un commento
che vuole provocare una riflessione. Abbiamo deciso di accettare la sfida e di parlarne più diffusamente nel prossimo numero.
Anna Baldo (V D), Virginia Barelli (IV D), Giada Bozzelli (IV D),
Tommaso Bortolato (V D), Laura Carraro (V C), Edoardo Cecchinato (I C), Pietro Della
Sala (III C), Anna Fortunato (II C), Eleonora Marangon (V C), Sidorela Mecaj (V D),
Lucia Nicoletti (IV D), Elena Pantaleoni (IV B), Ginevra Rocchesso (II C), Elena Viggiani (V C), Serena Voltan (V C), Irene Zuin (V C).
Impaginazione: Lorenzo Manzoni (IV C), Nicolò Alvise Ferron, Francesca Trevisan (IV B).
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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
Gli ex studenti raccontano...
L'8 dicembre 1940 veniva solennemente inaugurato il Liceo Ginnasio Statale “Raimondo Franchetti”, che raccoglieva tutti gli studenti provenienti da gran parte della provincia di Venezia. Sono passati settant‟anni da quel giorno: quanto sono cambiate le cose? Abbiamo raccolto le
testimonianze di prima mano per scoprire com‟era il Franchetti “da giovane” attraverso diverse interviste a ex franchettiani, di cui la maggior parte si sono diplomati intorno
al 1970.
Senza contare che “frequentare il classico dava lustro e si
veniva considerati come quelli che avevano fatto una scuola più
impegnativa”, come ci ricorda la nostra intervistata più
anziana.
Alcuni erano attratti dalla fama del Franchetti, altri erano limitati dalla scarsa possibilità di scelta: dopo la guerra, infatti, “o facevi l’istituto commerciale o il Franchetti, lo
scientifico non c’era a Mestre”; il Bruno infatti venne inaugurato solo nel 1968.
CHI FREQUENTAVA IL FRANCHETTI?
Nei primi anni dalla sua apertura, al Franchetti giungevano ragazzi prevalentemente di ceto medio-alto; solo dagli
anni '60 iniziarono ad iscriversi giovani di ogni classe sociale, dai figli di operai ai figli di imprenditori, pur predominando ancora la medio-alta borghesia.
Agli inizi numericamente prevalevano i maschi, anche
perché alcune ragazze, dopo aver completato il ginnasio,
abbandonavano gli studi per sposarsi; poi però furono
superati dalle femmine.
Per quanto riguarda il rendimento, invece, nessuno degli
intervistati si sbilancia nel dare un giudizio: uno giustamente dichiara che “il rendimento dipende dalla testa, non dal
sesso”.
Alcuni studenti abitavano nei pressi della scuola, altri invece percorrevano molta strada ogni giorno, tutti però spinti
da uno scopo comune: l‟Università. Un tempo infatti il
Franchetti (e il liceo classico in generale) era l‟unica da
Giurisprudenza a Filosofia, da Lettere a Medicina, sebbene
il salto da un liceo classico ad una facoltà scientifica fosse
molto duro: una delle nostre intervistate ricorda in particolare il primo esame di fisica, così difficile da essere definito scherzosamente dagli studenti “il Fisicone”, che venne
in seguito diviso in due parti. Alcuni studenti però, un po‟
come oggi, si ponevano anche degli obbiettivi più immediati come “finire...possibilmente bene!”
UNA SCELTA DECISIVA
Tutti i maturati classici da noi intervistati si dichiarano
felici della loro scelta e sono ben consapevoli che sia stata
decisiva per il loro futuro, anche se non necessariamente
in termini positivi, specialmente messi a confronto con
una facoltà universitaria di tipo scientifico, sicuramente
più semplice da affrontare con una base di studi differente.
Un'ex franchettiana, oggi avvocato, alla domanda
“Rifarebbe questa scelta?” ammette “Decisamente sì. Col
pensiero sì, ma di fatto non credo proprio!”
PERCHE' SI SCEGLIEVA IL CLASSICO?
Allora, come ora, i motivi che spingevano a una formazione classica erano principalmente l‟amore per la cultura e il
desiderio di apprendere: “Mi è stata consigliata essendo una
scuola che fa pensare, in cui si ragiona tanto, aprendo la mente a
tutti i problemi”.
Tutti gli intervistati affermano che il liceo classico ha contribuito in modo determinante allo sviluppo delle loro
abilità logiche e di ragionamento: l‟acquisizione di una
forma mentis è infatti uno dei fondamenti su cui si basa
l‟insegnamento di questa scuola.
Per molti invece il percorso classico era una tradizione di
famiglia: genitori, fratelli e persino nonni, che avevano
frequentato il classico, spingevano le nuove generazioni a
percorrere la loro stessa strada. Altri, al contrario, provenienti da famiglie non agiate, venivano spinti proprio dai
genitori verso un futuro diverso dal loro.
COS' É CAMBIATO? (COM'ERA IL FRANCHETTI
“FISICAMENTE”?)
La nostra scuola nel tempo ha ovviamente subito diversi
mutamenti. Innanzi tutto la nostra intervistata più anziana ricorda la vecchia sede in via Caneve, in cui ha trascorso i primi tre anni di liceo. Questa era una piccola
casetta strutturata su due piani, con due o tre aule per
piano, dalle cui finestre talvolta entravano le galline, provenienti da un pollaio vicino.
Ci racconta poi che nella sede attuale era stato allestito
un rifugio sotterraneo per i bombardamenti, nel quale ci
si recava al suono dell'allarme; poi, cessato il pericolo, si
tornava in classe e si riprendevano le lezioni. “Ricordo
ancora che camminando per strada vedevo le villette cadute da
cui estraevano i morti.” Inoltre la sede per un paio d'anni
era stata spostata a Venezia per via dei troppi bombardamenti.
La guerra ha quindi influenzato molto anche l'aspetto
scolastico della vita di molte persone. Una donna ci racconta: “un giorno per pochi minuti ho perso il tram Veneta.
Allora mi sono quasi arrabbiata: il tram successivo infatti sarebbe passato più di un'ora dopo. Tornando, piuttosto irritata, vidi
a Ponte di Brenta ciò che restava del tram che avrei dovuto
prendere: era stato bombardato e stavano estraendo i morti”.
Alcuni franchettiani rammentano invece quando ancora
era d'obbligo per le ragazze indossare il grembiule, mentre per i ragazzi lo era una giacca, che dovevano abbottonare durante le interrogazioni; un tempo addirittura
affacciandosi alle finestre si potevano vedere galline e
contadini che lavoravano i campi durante la primavera,
mentre d'inverno bambini che correvano tra i prati innevati. Il Franchetti inizialmente era l‟unico fabbricato,
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c‟erano solo vecchie casette e all‟angolo fra via Tasso e via
Cappuccina c‟erano fossi e prati, che si attraversavano per
venire a scuola. Nelle giornate più fredde “il Franchetti
veniva riscaldato con stufe a carbone”; un'ex alunna ricorda
una giornata di sciopero studentesco per la mancanza della
legna necessaria a scaldare la scuola, durante la quale
“siamo andati a Venezia a fare un giro e... abbiamo preso molto
più freddo di quanto non ne avremmo avuto stando in classe!”
come seconda lingua durante tutti e 5 gli anni scolastici,
mentre un tempo veniva abbandonato al termine del
ginnasio. Molti infatti, dovendo scegliere una materia da
sviluppare maggiormente, pensano subito a questa lingua.
Per quanto riguarda le riforme, gli ex studenti sperano
che aiutino la scuola italiana a seguire il modello europeo: “Alcune volte basterebbe copiare...”.
RAPPORTO DOCENTI-ALUNNI
Anche il rapporto con i professori è mutato: un tempo era
più formale e distaccato, non c'era possibilità di confronto, “si aveva addirittura paura di parlare”; qualcuno ricorda
professori seri e preparati, qualcun altro ci racconta di un
professore talmente paranoico da venire sospeso.
HA ANCORA SENSO STUDIARE GRECO?
Tutti ritengono che lo studio del greco sia una delle caratteristiche principali del liceo classico: “Il problema di
togliere il greco è: se tolgo il greco ho sempre una scuola che
ragiona?”; “gli studenti di oggi imparano cose che noi abbiamo
conquistato lentamente e andando avanti così avremo ottimi
personaggi, ma esperti solo in determinati settori” dice un altro
intervistato, mentre il più critico di tutti: “La scuola sta
peggiorando, si crea troppa confusione negli studenti, si vuole
insegnare troppo e si finisce per non insegnare nulla. I docenti
dovrebbero tirare fuori le unghie e ricordarsi che il ruolo che
hanno è fondamentale. La cattedra è un palcoscenico e ci sono
degli occhi puntati su di loro. Quegli occhi si ricorderanno sempre di loro... Nel bene … o nel male.” Per quanto riguarda i
politici che vogliono cambiare la scuola, consiglia:
“Qualche ministro dovrebbe leggersi o rileggersi “Il gioco delle
Perle di Vetro” di Herman Hesse, E poi dovrebbe fare uno
sforzo… per capirlo.”
LA FIGURA DEL PRESIDE...
Una figura da sempre fondamentale all'interno del Franchetti è quella del Preside; un‟ex franchettiana lo descrive
come “un uomo duro e burbero, ma presente: la mattina si
metteva davanti al portone d'ingresso per controllare chi arrivava
in ritardo”. Alcuni parlano dei loro ex presidi come “il gran
capo”, temuto da tutti gli insegnanti; altri dicono che erano invece i professori, di fatto, a gestire la scuola; un altro
ancora dice:“Oggi diremmo che aveva le “palle”. Ricordo con
affetto la figura del Preside don Angelo Favero, un prete sui generis, che aveva la capacità di trattare alunni e docenti sullo stesso
piano. Il concetto era: gli errori possono essere commessi da entrambi, ed entrambi devono essere ripresi”.
In tempo di guerra la figura del Preside si ricorda così: “Il
Preside era il professor Zerbetto, un buon uomo, anche se era un
fascista convinto, forse troppo: faceva propaganda per la guerra a
scuola, anche quando la guerra stava per finire e stava diventando sempre più chiaro che eravamo dalla parte sbagliata. Addirittura alcuni studenti si sono arruolati, e non sono più tornati.”
…E I BIDELLI
Anche i bidelli sono stati delle figure significative: soprattutto vogliamo ricordare Grazioso, citato da più intervistati, “che era un’’istituzione’ del Franchetti, era solidale con gli
studenti, complice e gentile con tutti; Me lo ricordo sempre sorridente”. Con i bidelli si rideva, si scherzava e gli si chiedeva
di far suonare la campanella qualche minuto prima; da
alcuni di loro poi dipendevano le merendine: erano loro a
portare agli studenti il pane con l'uvetta.
Per quanto riguarda i bidelli della prima sede ci parlano di
una donna che aveva molti figli ed era molto materna, e
così veniva chiamata “la chioccia”.
COSA CAMBIERESTE?
Secondo alcuni ex franchettiani la scuola di oggi “trascura
la formazione dello spirito critico, privilegiando troppo le materie
che non ne permettono la crescita; le nozioni sono importanti ma
la capacità di analisi lo è molto di più, e sta venendo a mancare
il gusto di approfondire, talvolta frenato da quegli insegnanti che
alla domanda „Perché?‟ rispondono ‘Perché è così’ ”.
Si riconosce anche l'importanza dello studio dell'inglese
BURLE&DIVERTIMENTI
Tra i banchi del liceo classico però non si studiava soltanto: “Di burle ne facevamo: ricordo, ad esempio, che un giorno
avevamo girato tutti i banchi all’incontrario ai danni di una
supplente annuale di biologia: restò scioccata nel vedere che
tutti ci eravamo alzati al suo ingresso rivolti però verso il muro.
Non sapeva se arrabbiarsi, se prendere provvedimenti, se ridere;
una faccia impagabile.” Un altro ricorda: “Il 1° aprile, da
sempre c’era la tradizione dello scherzo: classi scambiate, studenti nascosti nei bagni, pesci d’aprile attaccati alla schiena dei
docenti...e poi i gavettoni dell’ultimo giorno di scuola.”.
Tra le attività più gettonate della scuola vi era il giornalino, “Ginnasiali pazzi”, scritto da 5\6 ragazzi; ma la cosa
che si faceva più volentieri era lo sport: “Era obbligatorio
che in ogni scuola ci fosse un gruppo sportivo, io ero in quello
di atletica leggera (da qui è nata la COIN!). Sono arrivato
anche in nazionale e dovevo fare le Olimpiadi ma ho rinunciato per laurearmi. Mi piaceva molto, non lo facevo per soldi ma
per divertirmi. E’ importante che ci sia lo sport.”
I pochi che dopo il Franchetti andavano a lavorare, soprattutto i più bravi in ginnastica, avevano la possibilità
di diventare insegnanti di educazione fisica senza andare
all'università.
Laura Carraro e Irene Zuin
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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
DAL BANCO ALLA CATTEDRA
Non finisci mai di imparare anche quando fai dell’insegnamento la tua professione, anche quando vivi di
lettere, numeri e parole, di pagine e libri, e spesso sono gli stessi tuoi alunni ad offrirti una visione differente della vita, perché in fondo anche tu hai trascorso i tuoi anni migliori, seduto sui banchi di scuola a ripassare quella lezione difficile all’ultimo secondo o con il terrore di osservare negli occhi il professore.
Non vi siete mai chiesti cosa si nasconde dietro le maschere impenetrabili dei vostri insegnanti? Quali esperienze hanno vissuto da giovani e qual era il loro rapporto con l’istituzione scolastica? Scopriamo
com’erano e come sono i docenti che lavorano ed hanno frequentato il liceo Franchetti, che sono stati intervistati da noi e ci hanno svelato i loro più profondi segreti. State attenti, però, potreste finire per cambiare idea su di loro: non sono poi così malvagi...
MARIA ANGELA GATTI
ANNO DI MATURITÀ: 1978-1979
La professoressa ci racconta che al ginnasio per le diciotto ore di lettere vi era
un‟insegnante unica che sembrava molto anziana, distaccata e rigorosa: per
questo il rapporto con lei era piuttosto formale: “Al triennio ricordo di aver
cambiato sei professori in due anni. Nella sezione G vi erano insegnanti giovanissimi
che venivano cambiati ogni due o tre anni e sostituiti da supplenti annuali. Erano “di
sinistra”, ci si dava del tu e si fumava insieme. Interessante è la sua riflessione
riguardo all‟educazione e la politica: “oggi ci poniamo molto il problema educativo. Ci interessa che i ragazzi imparino a vivere, ad essere cittadini, a comportarsi
bene. Anni fa le agenzie educative erano principalmente le famiglie e le parrocchie,
ma anche i partiti avevano un peso. Gran parte degli studenti era iscritta alle associazioni dei partiti e l’educazione era data per scontata. Oggi esiste la scuola in opposizione alla televisione, altra agenzia educativa anche se non può essere propriamente
definita così. Noi insegnanti sentiamo forte l’esigenza educativa degli alunni. Una
volta i genitori non si preoccupavano di ciò perché i figli erano attivi socialmente: la
scuola era politica. Oggi vi è un’ossessione dell’idea che non si debba fare politica a
scuola, siamo ridotti alla condizione delle mummie”. È diventata insegnante per
caso e necessità ed è capitata qui come succedeva alla maggior parte delle
persone si laureavano in lettere classiche. “Sono convinta che qualunque cosa la
sorte ci assegni, se si cerca di portarla a termine al meglio, finisce per piacerci –ci
confessa– non serve ribellarsi inutilmente alla realtà che si vive! Sono una persona
fortunata: insegno ciò che amo”. Termina dicendo: “il classico non è paragonabile
alle altre scuole: chi lo sceglie decide di andare contro corrente, compiendo una fatica
inenarrabile, ma costruendosi un’esperienza che non ha eguali”.
DANIELA PERIS
ANNO DI MATURITÀ: 1969-1970
Laureatasi a ventidue anni, la professoressa iniziò ad insegnare l‟anno successivo con una supplenza di tre mesi al
liceo Franchetti, al quale fece ritorno all‟età di venticinque anni, dopo un periodo trascorso a San Donà. “Quando
sono tornata in questa scuola –ci racconta– desideravo che la situazione che avevo vissuto frequentando l’istituto come alunna,
fosse diversa. All’epoca ai docenti non interessavano gli alunni e viceversa; vi era inoltre un pessimo rapporto con i compagni:
avendo frequentato il ginnasio in F ed esistendo al triennio soltanto le classi A, B e C, venni assegnata alla sezione D, appena
creata, e, di conseguenza, mescolata e poco amalgamata. Non vi era attenzione a come fossero insegnanti e alunni realmente: è
per questo che in classe voglio delle persone e non degli scolari”. Non desiderava tuttavia diventare una professoressa, ma
aveva conseguito una laurea in archeologia: “dovevo scegliere tra una carriera ricca di punti di domanda ed un lavoro sicuro
che mi avrebbe garantito una certa indipendenza economica. Sono tuttavia soddisfatta della mia scelta perché sono convinta che
stare con i ragazzi sia un’opportunità senza pari”.
I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
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SILVIA TALLURI
ANNO DI MATURITÀ: 1976-1977
“Esiste solo questa scuola e devo ammettere che si tratta di un limite: sono
una sorta di memoria storica del Franchetti! –afferma l’insegnante, ridendo– Durante il liceo mi sono divertita molto: erano gli anni della contestazione, al triennio un giorno si andava a scuola, gli altri si partecipava a manifestazioni o occupazioni. Sicuramente sulla carta studiate maggiormente e la
maturità è molto più difficile. Il mio esame è stato ridicolo e il sei politico era
assegnato con più facilità tuttavia era un altro modo di vivere, eravamo certamente più autonomi”. Ricorda che i docenti erano molto giovani, aperti
alle novità, disponibili, fin troppo sul piano della parità degli studenti. Avevano tutti meno di trent‟ anni ed assegnavano il sei con maggior facilità: “Disponevamo certamente di molto più tempo per dedicarci a
ciò che ci piaceva”. Alla richiesta di un confronto con i propri alunni
risponde: “Ho notato che siete molto maleducati. Al ginnasio ci alzavamo
sempre in presenza degli insegnanti. Tuttavia la differenza si riscontra soprattutto nei genitori: ai miei tempi non avrebbero mai osato lamentarsi con il
preside per un’insufficienza. Tendono a giustificare e a proteggere i figli che
sono quindi più fragili, iperprotetti e non sopportano le sconfitte”. Ci confessa, infine, di essere soddisfatta del proprio lavoro e di essersi resa conto di non essere la sola: “Preferirei che l’insegnante fosse più pagato ma
secondo me è un bellissimo lavoro: i ragazzi sono motivati e motivanti”.
GIOVANNI BURIGANA
ANNO DI MATURITÀ: 1970-1971
Si sarebbe aspettato un livello culturale più elevato, più dignitoso
per un liceo classico, provenendo dal Morin, ma così non è stato:
“Vi è una tendenza a svolgere più attività che risultano così non riuscite ed
approfondite come, ad esempio, l’aumento della matematica. Non sono
d’accordo con l’ampliamento del POF perché non si svolgono al meglio altre
materie quali letteratura, filosofia e storia”. Afferma che questo istituto
dovrebbe sentirsi superiore: “in passato ricordo una sorta di “snobismo”
nei confronti degli studenti degli altri licei. L’importante, a mio parere, è che
ogni scuola decida il proprio indirizzo”. Per quanto riguarda la riforma,
gli sembra non estremamente nociva per i licei: non condivide alcuni aspetti della politica ma a livello scolastico è abbastanza favorevole
ad essa. Conclude dicendo: “La scelta di diventare insegnante è stata
obbligata: non avrei potuto fare altro alla luce della mia passione per la
letteratura. Ora non sono molto soddisfatto della mia professione”.
FLAVIA BOATO
ANNO DI MATURITÀ: 1970-1971
“Appena arrivata, ho provato una sensazione di flashback continui –ci racconta la professoressa–, provo un forte
senso di appartenenza al percorso scolastico, una sorta di complicità collettiva. Qui ritrovo una grande famiglia con cui
posso vivere il sociale al di fuori della quotidianità scolastica”. Ricorda che vi era un filo conduttore soltanto con il
liceo Giordano Bruno con il quale esisteva un maggior terreno di scambio, essendo comuni le materie quali
filosofia e latino: “il Franchetti era una scuola esclusiva, caratteristica non molto positiva”. Originale è stata la sua
scelta di insegnare una materia linguistica, avendo studiato in questo liceo: “Avevo progetti diversi ma ho accettato la mia professione e mi è piaciuta. È incredibile come io abbia potuto scegliere lingue, avendo fatto inglese solo al
ginnasio, durante il quale ho studiato molto”.
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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
GIOVANNI MILLINO
ANNO DI MATURITÀ: 1988-1989
“Trovare i professori che ho avuto come colleghi provoca una sensazione strana; le aule del resto mi rievocano moltissimi ricordi” afferma il professore. Pur essendo tra i più “freschi maturandi” egli nota inoltre come al ginnasio ci fosse molta più distanza
nel rapporto con gli insegnanti: “si registra un atteggiamento di sufficienza rispetto ad una volta: come linea di tendenza generale
riscontro un certo menefreghismo, ma ciò che è cambiato maggiormente è il mondo circostante; i ragazzi oggi sono molto più distratti,
fanno fatica a concentrarsi perché hanno troppi stimoli che sono paradossalmente una fatica in più per gli stessi studenti”. Deduciamo
quindi una certa vicinanza del prof. al mondo giovanile che è infatti uno degli interessi che l‟ha spinto ad intraprendere
questo lavoro: “Ho provato il dottorato di ricerca –ci spiega– e mentre stavo per finirlo c’è stato l’ultimo grande concorso per insegnanti e sono passato: ciò che voglio sottolineare è che la mia condizione attuale non è assolutamente un ripiego poiché sono contento di
questa scelta che è senz’altro significativa dal momento che mi è sempre stata a cuore l’educazione dei giovani. Mi manca l’aspetto della
ricerca ma posso ritenermi molto soddisfatto, anche grazie agli studenti che incontro”.
LUCA ANTONELLI
ANNO DI MATURITÀ : 1984-1985
“Un tempo l’edificio sembrava più piccolo –racconta il professore– anche se la scuola è effettivamente la stessa: non è cambiata eccetto
la disposizione di qualche aula e la palestra nuova”. A proposito del rapporto tra alunni e insegnati significativo è ciò che osserva il professore: “Una volta sotto la cattedra c’era la pedana che stava ad indicare una certa distanza che ora pare non esistere più
almeno non in modo così marcato; è l’immagine di autorevolezza dei professori ad essere cambiata se non in certi casi ad essere venuta
meno”. “La scuola inoltre –continua– un tempo era sentita come un dovere di primaria importanza mentre oggi è uno dei tanti doveri;
quando frequentavo il Franchetti poi, questo era considerato un istituto di eccellenza anche rispetto agli altri non solo per la preparazione
che forniva ma anche perché era un luogo di discussione riguardo moltissimi e vari argomenti, anche di politica, cosa che oggi avviene
sempre meno. Al giorno d’oggi vi è, inoltre, una certa rivalità tra le scuole, tra gli stessi licei: una volta per esempio un mestrino non sarebbe mai andato al Foscarini o al Marco Polo”.
NADIA LINDAVER
ANNO DI MATURITÀ: 1969-1970
Molto bella è l‟immagine che la professoressa Nadia Lindaver ci offre del Franchetti definendolo un “locus amoenus” come se fosse un nido, afferma, dal quale ha preso il volo ed è ritornata ora che la sua carriera sta volgendo al termine. “E’ come tornare all’inizio –spiega la professoressa– il che provoca un forte impatto emotivo perché qui
ho trascorso la mia adolescenza, durante un periodo piuttosto turbolento per le scuole: l’anno in cui ho sostenuto l’esame di
maturità era da poco entrato in vigore un nuovo ordinamento secondo cui spettava al singolo studente scegliere le materia da
portare all’esame. Inizialmente si pensava non fosse necessario portare materie scientifiche (o forse non si voleva credere!),
essendo il Franchetti un liceo classico, ma tra i docenti della commissione orale vi erano ovviamente insegnanti di tutte le
materie: portare una materia scientifica significava per noi studenti compiere una “mossa azzardata”, ma qualcuno doveva
pur farlo. Spettò quindi al coordinatore di classe cercare di assegnare all’interno della classe il carico di lavoro affinché vi
fosse tra i ragazzi una distribuzione equa delle materie: si trattò quasi di un lavoro diplomatico che vide collaborazione e
cooperazione tra docenti e ragazzi”. “Qui ho studiato –aggiunge infine– e torno a studiare con i miei alunni e personalmente tendo a rendere la scuola più alla portata degli adolescenti mentre una volta era necessario adeguarsi ai ritmi”.
“Sta’ attento a non voler diventare prima maestro e poi allievo, prima ufficiale e poi soldato. Sta’
attento a non imboccare una strada mai percorsa se non c'è chi ti insegni. Potrebbe essere una strada
sbagliata. Nessun'arte si può imparare senza maestro. Ti occorrerà molto tempo per imparare ciò
che devi insegnare”. (S. Girolamo)
Ginevra Rocchesso e Anna Fortunato
I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
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Il liceo da occhi nuovi
Ho iniziato la scuola circa tre mesi fa, e mi è stato
chiesto di dire come è stato l‟approccio con le nuove
materie, come sembra il liceo classico Franchetti a,
passatemi il termine, “occhi nuovi”.
Forse conoscendo diverse persone che hanno frequentato e frequentano tutt‟ora questa scuola e documentandomi capisco che non so granché di come
funzionano le cose qua.
Suppongo ci siano un po‟ troppe lamentale da parte
mia e dei miei coetanei sul lavoro da
svolgere a casa e sulla complessità delle
lingue antiche, in
particolare, stranamente, del greco.
Penso però che questo sia solo l‟inizio e
che, per sentito dire,
sia anzi la parte più
facile.
Quindi forse non
credo di essere in
grado di dare un
giudizio obbiettivo
riguardo le difficoltà
e l‟impegno che bisogna mettere negli studi.
Riguardo invece l‟approccio coi compagni,
l‟organizzazione della scuola e i professori, forse c‟è
qualcosa in più da dire.
I compagni, come in tutte le classi di tutte le scuole,
sono diversi tra loro. C‟è sempre qualcuno con cui
stare, con cui chiacchierare durante le lezioni invece
di ascoltare, con cui trovarsi al pomeriggio invece di
studiare. Dall‟altro lato della medaglia, c‟è invece chi
non si sopporta, quel qualcuno che fa di tutto per
mettere il bastone fra le ruote a tutti. Ma è un giudizio soggettivo. Personalmente io sto imparando a
conoscere i miei compagni e l‟impressione datami da
loro è generalmente più che buona.
I professori... sono professori. Fino ad ora mi sembra che siano tutti molto colti e che abbiano le competenze necessarie per insegnare. Penso facciano il
loro dovere quasi sempre senza favoritismi, ma è
ovvio che ci sia sempre chi non si guadagna il rispet-
to della classe o chi non è in grado di spiegare ciò
che in realtà sa, o non sa catturare l‟attenzione dei
ragazzi. Ma queste sono eccezioni presenti in tutte
le scuole.
Riguardo al motivo per cui io e i miei compagni
abbiamo scelto questa scuola, penso sia generalmente lo stesso che cinquant‟anni fa aveva spinto
altri ragazzi, diversi forse per cultura e tradizioni da
noi, a frequentare il Franchetti. Elemento essenziale è la passione per
le materie umanistiche: molti per
esempio si sono
lasciati trascinare
nella scelta della
scuola dal proprio
interesse per la
storia
o
per
l‟italiano, anche se
io penso ci debba
essere qualcosa di
più dietro questa
scelta. Per esempio
la curiosità, la voglia di scoprire e
di capire il perché
di tante cose su
cui mai ci siamo interrogati. Non per conoscere
materie nuove, su cui si baserà il progresso scientifico, ma per capire a fondo il modo di pensare
delle civiltà antiche, che forse non insegneranno la
costruzione dell‟ultimo modello iPhone, o del pc
di ultima generazione, ma che invece daranno la
possibilità di capire ciò che ci circonda, insegnando ad appassionarsi ai propri interessi andando a
fondo di questi senza, come purtroppo fanno molte altre scuole, insegnare tanta pratica per poi scoprire negli anni di aver sempre vissuto nella superficialità.
E‟ vero che il liceo classico si basa un po‟ troppo
sulla teoria e che terminati gli studi sarà difficile
trovare un lavoro, ma penso che questa scuola insegni un modo diverso di concepire, capire, e vedere le cose. E‟ un‟ impronta che dà, che resta per
sempre.
Lucia Nicoletti
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I SETTANT’ANNI DEL FRANCHETTI
A scuola di competenze
Alla fine dello scorso anno scolastico, tutti gli studenti italiani di scuola superiore in uscita dal biennio hanno ricevuto
per la prima volta, unitamente alla scheda di valutazione,
anche una certificazione delle loro “competenze di base”,
declinate in ben sedici voci e raggruppate in quattro diversi
“assi culturali”: asse dei linguaggi, matematico, scientificotecnologico e storico-sociale. In calce al documento veniva
inoltre precisato che tali competenze di base erano state
acquisite secondo le “competenze di cittadinanza”: imparare
ad imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, infine, interpretare e acquisire informazioni.
La medesima certificazione di competenze verrà consegnata
anche quest‟anno ai nuovi studenti che avranno concluso il
ciclo di istruzione obbligatoria: ma cosa significa tutto questo? Cosa sono le competenze? Come si pone tale questione
in relazione agli altri paesi europei? Si tratta solo di una
formalità oppure è in atto un cambiamento di prospettiva
nel modo di intendere, progettare e valutare i percorsi scolastici nei vari istituti?
In realtà, ciò che sta accadendo nella scuola italiana non è
altro che un processo di graduale avvicinamento alle indicazioni fornite già da tempo dal Parlamento Europeo e dal
Consiglio dell‟UE, in materia di istruzione; infatti, con la
“Raccomandazione sulle competenze chiave per l’istruzione
permanente”, stilata nel dicembre 2006, l‟Europa ha scelto
di attrezzarsi per affrontare i nuovi scenari della società contemporanea, tra globalità, libera circolazione delle risorse
umane e complessità. Nel fare ciò, non ha imposto agli studenti nuove materie di studio, ma ha semplicemente proposto di raggiungere alcune competenze giudicate basilari per il
cittadino del futuro, attraverso le discipline già presenti nei
vari indirizzi scolastici.
A differenza delle conoscenze (ciò che in effetti lo studente sa)
e delle abilità (ciò che lo studente sa fare), le competenze indicano “ la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e
capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni
di lavoro o di studio, nonché nello sviluppo professionale e/
o personale; le competenze vanno intese in termini di responsabilità e autonomia”. Le singole competenze permetterebbero allo studente di aprirsi ad una certa dimensione
sociale, pubblica, visibile e condivisibile, sia che si tratti di
specifici ambiti (competenze disciplinari), sia che si tratti
invece di ambiti più generali, comuni e “trasversali”, (le
cosiddette “competenze chiave”). Così, a scuola o in contesti
extrascolastici, a seconda dei diversi percorsi formativi intrapresi, le varie attività svolte dovrebbero allenare e preparare i
giovani alla vita adulta, attrezzandoli e rendendoli consapevoli della loro personale crescita culturale, in modo autonomo e continuo.
Vi è poi un altro importante documento con cui il sistema
scolastico italiano si sta rapportando, ed è il “Quadro europeo delle qualifiche per l‟apprendimento permanente” (EQF)”; esso risale al 2008 e rappresenta un punto di
riferimento comune in Europa, al fine di collegare fra loro i
sistemi di qualificazione/istruzione/formazione dei diversi
paesi comunitari. Permette di rendere leggibili e comprensibili, in modo univoco, gli obiettivi eventualmente raggiunti
nelle varie istituzioni scolastiche, promuovendo così la mobilità dei cittadini e agevolandone la crescita professionale e
culturale, durante l‟intero arco della loro vita.
Senza addentrarci troppo nei particolari tecnici di tale documento (scandito in otto livelli, dall‟istruzione dell‟infanzia
fino a quella universitaria) , va ribadito che il suo scopo è
quello di creare un linguaggio condiviso e comune in grado
di rendere maggiormente trasparenti e chiari i risultati di
ogni singolo percorso formativo, i quali saranno di conseguenza fruibili e “spendibili” in egual misura su tutto il
territorio europeo.
Chiarito dunque quale sia il panorama di riferimento entro
cui inserire la certificazione delle competenze al termine
dell‟istruzione obbligatoria, vien da chiedersi: ma è solo
questo? Cambia (o dovrebbe cambiare) qualcosa nella relazione di insegnamento/apprendimento?
La didattica delle competenze si fonda sul presupposto che
gli studenti apprendono meglio quando costruiscono il loro
sapere in modo attivo, attraverso situazioni di apprendimento basate sull‟esperienza o attraverso lo svolgimento di attività in cui si intrecciano diversi ambiti del sapere. Aiutando
gli studenti a scoprire e perseguire interessi, si può elevare al
massimo il loro grado di coinvolgimento e il loro rendimento, valorizzando i loro talenti. Non si tratta solo di costruire
conoscenze; piuttosto le conoscenze sono il terreno di base,
quasi il pretesto, su cui impostare ipotesi di lavoro, attivare
strategie per risolvere problemi, giungere a comprensioni
più profonde, trasferire e usare ciò che si sa e si sa fare, in
contesti sempre nuovi e diversi.
Questa dunque la scuola che dovrebbe preparare al futuro,
consapevole e attenta non solo ai prodotti ottenuti, ma anche e soprattutto ai processi messi in atto.
Sorge allora spontanea un‟obiezione, del tutto lecita: che
dire delle traduzioni dal latino e dal greco che costituiscono
per noi terreno di lavoro quotidiano? Tutto da reimpostare?
Tutto obsoleto e lontano dalle linee guida europee? Per
niente.
Cos‟altro è, infatti, una “versione” di latino o greco, intesa
nel suo processo e non solo nel suo prodotto (semplice traduzione finale), cos‟altro è, dicevamo, se non una palestra
che vede messe in gioco molte delle competenze chiave sopra citate? Gestire la complessità tenendo sotto controllo
molteplici fattori; passare per continui nodi decisionali;
risolvere quesiti e problemi; individuare collegamenti e relazioni; interpretare e acquisire informazioni: queste sono solo
alcune delle competenze sottese all‟operazione di traduzione
dai testi classici, un microcosmo che prepara ad affrontare
realtà ben più complesse, nella società della conoscenza.
Qualcuno potrà non essere d‟accordo su questo modo di
intendere la didattica delle lingue classiche, ma a ben guardare, in relazione anche ad altre materie, la scuola delle
competenze trova proprio nel Liceo classico una formidabile
occasione di sviluppo, il tutto ad altissimo profilo.
prof.ssa Alessandra Artusi
Ci riguarda da vicino...
9
Istruzione: no alla riforma!
Molte volte, sopratutto noi ragazzi, ci chiediamo perché
dobbiamo studiare e andare a scuola. A noi infatti non
sembra importante e siamo portati a valorizzare altre cose
che ci piacciono di più. È giusto e naturale pensare così,
ma dobbiamo ricordarci che esiste anche la scuola e che,
nel corso dei secoli, tante persone hanno lottato per ottenere il diritto all'istruzione. Per capire meglio bisogna
ripercorrere la storia e vedere com'era fatta una volta la
scuola, a chi era riservata e quali erano i metodi di insegnamento.
Nel Medioevo l'istruzione era, all'inizio, riservata solo ai
nobili e al clero, poi ai mercanti e ai ricchi artigiani. Solo
con Carlo Magno (VIII – IX secolo) vi furono le prime
scuole pubbliche. Egli era un uomo analfabeta che, però,
intuì l'importanza dell'istruzione, del saper leggere e scrivere, anche per comprendere i testi sacri. A quel tempo,
le persone più istruite erano i monaci che ricopiavano i
libri; fu per questo che le prime scuole sorsero nelle abbazie.
Un altro uomo che credeva nell'importanza della cultura
fu il filosofo francese Rousseau che visse nel XVIII secolo. Egli scrisse: «Si migliorano le piante con la coltivazione, gli uomini con l'educazione» . Riteneva, infatti, che
l'uomo senza istruzione fosse come una pianta rinsecchita
e destinata a perire, non essendo in grado di sviluppare al
massimo le sue potenzialità.
Fu sempre in Francia che, durante l'Illuminismo, si cominciò a ritenere importante la diffusione della cultura
fra tutti i cittadini e si pensò che fosse lo Stato a doversi
occupare di questo. Fu così che, nel 1794, in Francia fu
istituito l'obbligo scolastico.
In Italia venne introdotto soloa un secolo più tardi, nel
1859, dalla legge Casati, e venne fissato agli otto anni.
Poi, con la riforma Gentile del 1923 venne prolungato
fino ai quattordici.
Durante il Fascismo furono istituite molte scuole, tra le
quali la nostra, istituti per l'infanzia, colonie e campi
estivi in grado di educare bambini e ragazzi. Lo scopo,
però, era quello di formare dei futuri bravi soldati e
servitori/lavoratori del Regime Fascista. L'insegnamento
infatti non era libero: i testi venivano stampati a Roma
ed erano unici per tutta l'Italia con la sola differenza tra
manuali destinati ai centri urbani e quelli per le campagne. Nei centri urbani, infatti, vi erano borghesi che sarebbero divenuti funzionari dello Stato mentre nelle campagne vi erano uomini destinati a diventare solo dei soldati o dei contadini.
Nonostante la creazione di nuove scuole però, l'analfabetismo rimase molto alto fino alla metà del 1900 perché le
leggi non venivano rispettate e a sette/otto anni si andava
a lavorare, soprattutto nelle campagne dove c'era bisogno
di manodopera.
Solo nel 1962 l'istruzione divenne obbligatoria fino ai
quattordici anni; nel 1999, con la riforma Berlinguer,
l'obbligo fu prolungato fino a quindici e, infine, a sedici
anni con la riforma Moratti del 2003.
Anche per me studiare è importante nonostante costi sacrifici e, alcune volte, vorrei pensare ad altro. Ma sono
anche convinta dell‟importanza dello studio, soprattutto di
alcune materie.
La storia, ad esempio, è indispensabile per comprendere
gli errori del passato: ci mostra guerre e rivoluzioni che
l'uomo ha compiuto nei secoli, serve a ricordare e ci insegna a non commettere più atrocità avvenute nelle varie
epoche, che pur se ci sembrano lontane, toccano molto da
vicino anche noi. Importante è anche la geografia che ci
permette di conoscere il mondo e ci invita a rispettarlo.
Inoltre ci consente di conoscere le tradizioni degli altri
paesi e quindi aiuta a diminuire le guerre: esse, infatti,
sono spesso causate dall'ignoranza che porta al razzismo e
alla discriminazione.
Per me, inoltre, sono importanti anche lo studio e la conoscenza delle lingue antiche, come il latino e il greco, che
ci aiutano a capire il passato. Al giorno d'oggi, invece, si dà
più importanza a materie pratiche e utili nel lavoro come
inglese e l'informatica, mettendo in secondo piano materie
come il greco e il latino, che infatti vengono chiamate
“lingue morte” e che saranno destinate ad esserlo sempre
di più se non verranno “coltivate”. La società moderna è
sempre più proiettata verso il futuro e non si volta indietro
ad osservare il passato, dimenticando le tradizioni e le origini, anche linguistiche.
Quante volte ci capita di sentirsi dire : «Fai il Classico? E a
che ti serve? », «Guarda che il greco non serve più a nessuno...», « Non troverai mai lavoro!».
Io sono convinta che sia più importante conoscere il passato e, solo così, riusciremo a conoscere il futuro.
E' per questo che sono contraria alla nuova riforma che ha
diminuito le ore di storia e geografia aumentando le materie scientifiche e la lingua inglese. A parte il fatto che se
uno fa il Liceo Classico è perchè non vuole applicarsi molto in matematica, hanno diminuito proprio le materie che,
come ho scritto in precedenza, ritengo essere le più importanti.
Sarà perché sono le materie che aprono di più la mente
all'uomo e insegnano a vivere? Forse sì. Al giorno d'oggi al
governo fa paura la gente che studia perché lo studio rende liberi, come hanno detto tanti uomini del passato. Un
uomo libero è, infatti, pericoloso perché è capace di pensare con la sua testa e non si lascia condizionare e governare
facilmente.
La riforma, è quindi, solo un pretesto per omologare gli
uomini, riducendo materie che possono formare uomini
poco comodi a chi è al governo, perché capaci di pensare e
difficili da "manovrare".
Anna Baldo
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Qualche idea in più...
L’attimo fuggente
Ennesima conferma d'un sempre talentuoso Peter Weir,
L'attimo fuggente (USA, 1989) dipinge in modo brillante
l'ambiente accademico dell'America di fine anni '50, tra
Cadillac al Drive-in, chiome cotonate e Rock'n'roll dell'Elvis
migliore. In particolare, ne è protagonista una classe del
penultimo anno d'una scuola superiore privata per soli
ragazzi, tra insicurezze interiori, brama d'esperienza e pressioni esterne di genitori che, adducendo a pretesto il bene
del figlio, ne inibiscono la timida autenticità. Certamente,
a gravare sul
morale
degli
studenti contribuiscono, in un
momento
di
fermenti e ribellioni,
anche
l'atmosfera conservatrice dell'accademia e le
esigenze di docenti competenti, ma senz'altro
assenti sul piano
umano.
Ma la presenza
dissacrante del
professor Keating (interpretato da un eccellente Robin
Williams) riesce non solo a sdrammatizzare conformismo e
austerità, bensì, persino,– fatto raro, in verità, tra cattedra
e banchi di scuola – a instillare nei suoi studenti la gemma
dell'interesse sincero per la sua materia, aldilà del sapere
da manuale. Da questa gemma Keating si aspetta sbocci
una profondità culturale da applicare alla vita, nutrita delle inclinazioni innate in ogni suo studente: lui, in contrasto col cinismo generale, dà importanza anche alle opinioni giovani di ragazzi di 16 anni. E viene presto confermato
da chi, come Neal Perry, si sente allora ascoltato e valorizzato. Anzi, il professor Keating riesce a far di più, fa cioè
capire ai suoi studenti che devono dar voce a pensieri e
inclinazioni sincere, per godere con autenticità e pienezza
le opportunità dell'esistenza.
Traduce così l'insegnamento accademico in strumento,
per i suoi ragazzi, di comprensione del loro destino e quindi fa molto di più che insegnare: egli indirizza e forma,
sempre secondo l'irripetibilità del singolo. Diventa mentore e amico, e permette loro di scorgere il tragitto cui il fato
li ha destinati, aldilà di conformismi o inibizioni. Ma la
Titolo:
“L’attimo fuggente”
Regista:
Peter Weir
Anno, Stato:
1989, USA
strada non è però sgombra. Keating è un insegnante geniale, esempio per ogni docente perché in grado d'abbattere, con l'arte e la spontaneità, le barriere di generazione
e professionalità erette tra professore e studente, divenendo guida impagabile. Ma, ciononostante, incombe sulla
sua filosofia di vita il fardello d'una vecchia aggrappata,
con insospettabile tenacia, a tradizione e conformismo,
ovvero la società, che mai gli perdonerà d'aver varcato
limiti inviolabili dell'educazione. J'accuse ella strilla e,
così, morte al
tracotante che
difende la libertà contro la
tradizione.
Infatti, quando Neal Perry,
seguendo
le
indicazioni del
suo insegnante
contro la volontà del padretiranno, vuole
tentare la carriera d'attore in
base alle sue
Robin Williams in una scena del film
inclinazioni,
viene prontamente ostacolato. Ma lui è determinato e
porta segretamente in fondo l'impegno della recitazione,
forse solo come motivo di ribellione al padre, assicurando Keating, invece, d'averne alla fine ricevuto il benestare. Quando il padre lo scopre è il capolinea d'ogni speranza e una vita si spegne in un moto di rivalsa estrema e
d'espressione interiore autentica e vana al contempo.
Nonostante le sorti sfortunate toccate a Keating a causa
d'una società intollerante, tra gli studenti degni del suo
valore nulla della sua unicità va perduto; la scena finale è
infatti tributo supremo al mentore che, per i posteri, è
paradigma dell'insegnamento come missione di formazione e dell'umanità come chiave d'accesso allo spirito dello
studente. E al giorno d'oggi non sarebbe cosa da poco, se,
talvolta, così fosse.
Ancora una volta un inchino a Peter Weir che ha saputo, attraverso un alto esempio dell'arte, far emozionare e
riflettere il suo pubblico, soprattutto tra i ragazzi.
Pietro Della Sala
esperienze
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Guardare il mondo da un altro
Punto di vista
Quest‟estate, in un afoso giovedì d‟agosto, sono partita
per il Canada e in realtà non sono più tornata. Dopo
due lunghi anni di attesa era arrivato il tanto desiderato
giorno in cui sarebbe iniziata per me quella fantastica e
travolgente esperienza che molti altri ragazzi hanno vissuto partecipando ad un programma di Intercultura. Della
mia famiglia ospitante sapevo poco o niente, se non il
fatto che avevano una figlia della mia età e un figlio più
grande di tre anni. A dire la verità poco sapevo anche del
Canada, un paese di cui si sente parlare soltanto nei film
e in televisione, spesso erroneamente associato agli Stati
Uniti. Dopo aver sorvolato l‟oceano in compagnia di
altri dieci ragazzi italiani, sono giunta all‟aeroporto, dove
ho incontrato la mia famiglia ospitante. Le prime due
settimane, che tutti dicono essere le peggiori, per me non
sono state così traumatiche. Ovviamente in questi primi
tempi avevo qualche difficoltà con la lingua e poco capivo di quello che veniva detto; non è stato facile abituarmi
a cenare alle cinque e mezza del pomeriggio, bevendo
latte e mangiando salmone con bacche. Per non parlare
poi di tutte quelle piccole abitudini a cui ognuno di noi è
legato e che, senza rendercene conto, costituiscono le
nostre certezze quotidiane, dei punti di riferimento che
quando vengono a mancare ci sentiamo indispettiti e
smarriti. Non è facile spiegare come ci si possa sentire
quando ci si trova in un paese che non è il tuo, con persone che conosci da poco o che hai appena incontrato,
che parlano una lingua quasi incomprensibile, che hanno delle abitudini che in una situazione diversa e in un
altro contesto giudicheresti quanto meno folli o improbabili. Per il primo mese è però tutto nuovo, bello, diverso,
entusiasmante: conosci un sacco di persone nuove, vedi
posti, città (io ho potuto visitare Toronto e Ottawa) e,
strano a dirsi, ti piace un sacco andare a scuola e non
vedi l‟ora che venga mattina per tornarci. Già, perché per
chi non è abituato a dover indossare una divisa scolastica, ad avere un locker (armadietto) in cui attaccare foto e
poster e a correre per i lunghi corridoi per cambiare aula
ad ogni lezione, può sembrare come vivere in un film o
in un programma di MTV.
La scuola canadese è molto
diversa da quella italiana. Le
lezioni iniziano alle 8.30 e
terminano alle 14.30. Ci
sono solamente quattro materie per quadrimestre che si
ripetono quotidianamente.
Ogni lezione dura un‟ora e
un quarto e ci sono cinque
minuti di pausa tra una materia e l‟altra, per permettere
agli studenti di raggiungere le
varie aule. Sono infatti gli
alunni che si spostano
di aula in aula, dove si
trovano gli insegnanti.
Il piano di studi prevede che ci siano delle
materie obbligatorie e
altre scelte dagli studenti stessi secondo le
proprie inclinazioni e
preferenze. Alcune di queste materie possono apparire
“inusuali” ai nostri occhi: per citarne alcune, cosmetica,
falegnameria, cucina, educazione alla maternità e studio
della natura e campeggio. Tutte le mattine da un altoparlante risuona l‟inno canadese seguito da una preghiera e
dagli annunci delle varie circolari. Il rapporto tra alunni e
insegnanti è molto più informale e amichevole. Le valutazioni sono principalmente scritte e sotto forma di test a
crocette: nessuno copia (non ci pensano proprio!!!). La
scuole sono molto grandi e molto fornite: in tutte le aule
ci sono almeno dieci computer!
In realtà un poco alla volta, col passare delle settimane,
quella comincia ad essere la tua “solita” vita, come quella
che ognuno di noi ha qui a Mestre, che spesso viene giudicata noiosa e monotona. Ecco allora che cominci a renderti conto che lo stile di vita americano non è proprio
come quello dei film, in cui ogni giorno è diverso e c‟è
sempre una novità: le giornate spesso si assomigliano
l‟una all‟altra e ci sono momenti di noia e allegria, momenti di tristezza e felicità, momenti in cui ti senti tutto il
mondo contro e altri in cui non potresti desiderare di
meglio, proprio come ti succedeva quando eri nella tua
vecchia città. Ci sono dei giorni in cui vorresti tornare a
casa tua, perché ti mancano i tuoi genitori e i tuoi amici, e
ti chiedi per quale motivo tu ti sia lanciato in
un‟avventura così totalizzante. Nel corso di questi tre mesi
in Canada ho imparato molte cose e per quanto si siano
alternati momenti belli e momenti brutti, conservo i ricordi migliori di questa esperienza. Imparare ad arrangiarsi e
a sapersela cavare da soli è stata di sicuro un‟importante
lezione di vita, sono cose che non si possono imparare
studiando sui libri. Cominci a guardare il mondo da un
altro punto di vista e ti rendi conto che ciò che hai sempre considerato ovvio e logico non lo è e che bisogna saper cambiar prospettiva nella vita provando a metterti nei
panni degli altri. In Canada ho lascito una famiglia con
cui ho stretto un rapporto fantastico, ho incontrato la
”sorella” che non ho mai avuto e degli amici che mi rimarranno sempre nel cuore, così come tutte le persone
che ho conosciuto. Ora posso dire di avere una seconda
casa: il Canada.
Elena Pezzato
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Nel prossimo numero...
“Non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio
di tutti gli altri”...
Una frase che fa pensare.
CHI è meglio di tutti gli altri?
A me vengono in mente alcuni grandi personaggi della storia e della letteratura, alcuni premio Nobel per la pace e per la
medicina, donne che hanno lottato per la propria libertà, uomini che hanno avuto il coraggio di cambiare il sistema; mi
risuonano nella testa nomi come Ghandi, Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta e tanti altri; posso considerare
migliori di noi quei medici che fanno della propria vita un mezzo di salvezza per gli altri; un padre che dà la vita per il
proprio figlio; un uomo che sacrifica se stesso per ciò in cui crede.
“non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio di tutti gli altri”
Una frase che a ognuno di noi richiama alla mente volti e nomi illustri.
“non preoccupatevi, se siete qui siete comunque meglio di tutti gli altri”
Una frase importante.
“non preoccupatevi, se siete qui, siete comunque meglio di tutti gli altri”
Il saluto che la Marcuzzi ha rivolto ai primi eliminati del Grande Fratello 11.
E allora mi chiedo: come siamo arrivati fino a questo punto? Come siamo arrivati a considerare il meglio della nostra
società i concorrenti di un reality show, che hanno spesso dato prova e dimostrazione di una tanto profonda ignoranza e
superficialità?
Se l‟idiozia è oggi una dote, e l‟intelligenza cosa superflua, mi ritengo fortunata ad appartenere a questa piccola isola felice in cui le persone aspirano a superare “il meglio”.
Eleonora Marangon
Periodico del Liceo Ginnasio Statale «Raimondo Franchetti»
Docente responsabile: Maria Angela Gatti
Corso del Popolo, 82 - 30172 Mestre (VE) tel.: 041/5315531
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