Sognare… al chiaro di luna

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Sognare… al chiaro di luna
Colle...ghiamoci
Rivista letteraria on-line della Scuola Secondaria di
primo grado ” Mastai”, Istituto Colle La Salle
Numero di febbraio-marzo 2015
Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
Sommario
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Pag. 3
Pag.4
Pag. 5
Pag. 7
Pag.9
Pag.11
Pag.13
Pag.13
Pag.17
Pag.19
Pag.21
Pag.23
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Pag.28
Pag.30
Pag.31
Pag.32
Pag.33
Pag.34
Pag.35
Pag.37
Pag.38
Pag.44
Pag.46
Pag.48
Pag.49
Pag.59
Pag.60
Pag.61
Pag.62
Pag.
Editoriale
Parte prima: Sritti…con fantasia
Cos’è per me la scittura. D. Brevetto
La tempesta di mare. F. Salerno
La paura assume varie forme… A. Favaretto
Una nuova Alba. L. Panella
Blade Runner. M. Tarascio
Deckard e gli androidi. F. Percario
Descrivo un pranzo con il gusto e l’olfatto. F. Salerno
Sira lo scriba. F. Percario
Amicizie sbagliate. E. V. Treggia
Un’avventura al buio. E. Pischedda
Parte seconda: scritti… alla Luna
Sogno… al chiaro di Luna. D. Manosperta
Al chiaro di Luna. C. Borfecchia
La sofferenza… al chiaro di Luna
Osservando la Luna. F. Salerno
Sognare… al chiaro di Luna. E. De Carolis
Danzando… al chiaro di Luna
Miracolo… al Chiaro di Luna
Lacrime di Luna
Parte terza. Scritti… mitologici
La musica, il ballo e il canto.E. Borzumato
Mito mesopotamico. E. De Stefano
Giachestolo, l’eroe dei bambini A. Maselli
Il viaggio di Flora. E. Pischedda
Gaius e la musa Letitias. F. Salerno
Nadia la ninfa dell’acqua. E. Santoro
Parte quarta. Scritti… Insieme
La corsa di Maliuk. Gli alunni di terza A
Parte quinta. Scritti… qualche anno fa
Sognando. L. De Carolis
Un piccolo malinteso. L. Urbani
Allo specchio. L. Loffredo
La ribellione. E. Chen
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Editoriale
Care lettrici e cari lettori,
eccoci qui a presentare un nuovo numero del nostro periodico letterario. La primavera ormai
prossima rende inquieti, ahinoi, i nostri ragazzi, ma allo stesso tempo stimola e affina le loro
capacità intellettive e umane. Noi docenti siamo ben felici di non porre limiti alla creatività dei
pargoletti (o, in alcuni casi, pargoloni), esortandoli piuttosto ad abbattere gli ostacoli che si
frappongono alle loro menti in vista di un traguardo che si collochi progressivamente sempre più in
alto.
Cosa troverete quindi in questo nutrito ed eterogeneo numero ? Originali racconti mitologici,
riflessioni sull'attività dello scrivere, narrazioni stimolate da un ascolto musicale o da una visione
cinematografica, una storia scritta in forma collettiva da un'intera classe; persino la descrizione di
una succulenta cena, competente da un punto di vista squisitamente culinario ma soprattutto ben
elaborata a livello letterario. Come ciliegina sulla torta, una breve sezione che oserei definire
"vintage", dedicata ad alcuni ex-allievi di cui abbiamo gelosamente serbato delle preziose
testimonianze scritte.
Un ringraziamento doveroso va rivolto a questi ragazzi, che alleviano la fatica di noi docenti di
lettere e del Prof. Rotunno regalandoci un sorriso, sorprendendoci, confortandoci e facendo,
talvolta, anche sgorgare una lucida lacrima commossa.
Speriamo, nel prossimo futuro, di accogliere una schiera sempre più numerosa e varia di belle
penne.
Prof. Fabrizio Franceschilli
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Cosa è per me la scrittura?
Per me la scrittura vuol dire “vita”; per vivere bene bisogna far capire agli altri come si è dentro,
tirare fuori tutte le emozioni e le idee che ti attraversano la mente e chi può farlo meglio della
scrittura? Se ognuno di noi scrivesse su un diario, in un quaderno o su un semplice foglio ciò che
prova, si sentirebbe meglio, più libero.
Per me la scrittura è come uno specchio, riesce a descriverti e rappresentarti per come sei veramente
nella realtà e non come ti vedono gli altri a volte riesce a restituire un’immagine che neanche tu
conosci.
In alcuni momenti della vita ci vengono dei dubbi e ci poniamo delle domande a cui non sappiamo
dare risposta ma la scrittura spesso è in grado di rispondere a queste domande perché riesce a tirare
fuori aspetti e sfumature di cui non ci rendevamo conto o non sapevamo che ci appartenessero.
A me piace scrivere più che testi fantastici, mi piace descrivere luoghi, oggetti, persone e animali;
l’unica cosa che temo è che fra qualche anno, forse, non ci saranno più carta e penna per scrivere,
avremo a disposizione solo computer, tablet e altri apparecchi elettronici.
Forse mi dovrò abituare a questa nuova realtà ma so già che non sarà la stessa cosa, perché
prendere un foglio, impugnare una penna e incominciare a scrivere ciò che si pensa è
completamente diverso che accendere un computer e spingere dei tasti. L’utilità e velocità del
computer non può compensare la sensazione che può scaturire dallo scrivere sulla carta: “ Solo
l’inchiostro sa quante frasi nascondono i silenzi”- cit. Caparezza
Damiana Brevetto, terza B
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La Tempesta di Mare
Ciao, sono Vana Gogh, e come ogni pittore amo i colori, soprattutto quelli pastello perché sono
caldi e luminosi e sanno suscitare in chi osserva i miei quadri (almeno spero!) sensazioni positive di
calma e di serenità.
Ma questo quadro che voglio raccontarvi è il primo (e forse l’ultimo) di un genere tutto diverso: se
fosse un film o un racconto potrei definirlo “noir”, in cui si rispecchia un momento tenebroso
(“nero” appunto) della mia vita.
Non ricordo se fuori ci fosse il sole o la pioggia, ma dentro avevo la sensazione di una burrascosa
tempesta invernale, capace di offuscare luci e colori. E così, quando mi sono trovata di fronte alla
tela bianca pronta a ricevere i colori classici di una primavera in fiore o di un romantico chiaro di
luna specchiato in un placido mare, ho immerso il pennello nel grigio che, in tutte le sue varianti
cromatiche, domina l’intera parte superiore del quadro.
L’azzurro classico del cielo e il giallo luminoso del sole del giorno sono stati vinti dall’oscurità di
grosse nubi cariche di tempesta che, ostili e minacciose, incombono sulla scena e sembrano dire al
mondo sottostante col tono di un gruppo di bulli arroganti: “Oggi comandiamo noi!”. Addossate
una all’altra, non hanno contorni netti e definiti, ma si confondono con il mare di nebbia che
avvolge l’aria, espandendosi in modo indefinito tra i meandri delle altre nubi gonfie e spaventose.
Il grigio denso e opprimente del cielo diventa un tutt’uno indistinguibile con l’orizzonte, creando
un’atmosfera pesante di tensione e di inquietudine, che sovrasta un mare burrascoso in tempesta,
tinto di un verde scuro e opaco, schiarito solo dalla schiuma bianca delle onde che ora si alzano,
stagliandosi verso il cielo per mettere in mostra tutta la loro possenza, e ora si abbassano,
sommergendosi negli abissi, come se volessero ricaricarsi per poi risalire ancora più in alto.
E’ un mare aperto e profondo, senza coste né scogliere, che sembra impazzito sotto la furia di
un’ira che si scatena implacabile e violenta, degna di quella che accecò Achille di fronte
all’oltraggio del prepotente Agamennone.
Tra i vortici rabbiosi e infuriati dell’acqua si muove una barca sollevata dalla forza delle onde; le
sue vele sono gonfie, piene di vento, e circondate dalle nuvole. Ma, quasi per un miracolo, il veliero
riesce a tenersi saldamente in equilibrio, senza quasi preoccuparsi dell’inclinazione del mare; è
come se la forza della natura abbia deciso di sospendere per un piccolo tratto di spazio la sua
violenza, spinta forse da un profondo rispetto per quel navigante che, con la sua testardaggine, ha
deciso di non tornare in porto, quando tutto intorno lasciava intendere chiaramente che questa era
la cosa più sicura e cauta da fare.
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L’impeto coraggioso con cui la barca ha deciso di affrontare il mare agitato dalla tempesta è degno
di lode e merita di essere premiato, perché esprime la forza che l’uomo, nelle situazioni più difficili,
è in grado di sprigionare, tenendo testa alle nuvole più prepotenti, alla nebbia più densa, al vento
più sferzante.
Così il veliero va avanti senza scoraggiarsi, lottando contro le onde e contro il vento, e si
avventura al largo, senza conoscere bene il cammino e senza seguire le orme di nessuno, ma senza
dubitare della sua capacità di non spezzarsi e di restare a galla. Perché ha la speranza, o forse la
certezza, che presto la tempesta finirà e tornerà a splendere il sole. Vorrei dedicare a quel
navigante una breve poesia:
“Navigante ardimentoso,
che veleggi nel mare tempestoso,
mentre tagli le onde senza timore,
sentiamo battere la forza del tuo cuore.
Forse tu non sarai saggio,
ma al tuo indomito passaggio
la natura applaude il tuo coraggio.
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Anche le onde più burrascose
chinano la testa rispettose,
perché non hai perso mai la speranza
e resti in piedi con orgogliosa baldanza.
Francesca Salerno, Prima B
La paura assume varie forme: può essere una scimmia, un ratto... ma io me
la sono immaginata come un orso.
Mi ritrovai in una foresta non troppo fitta, di un verde scuro. Nel cielo gli uccelli cinguettavano
come se stessero chiacchierando freneticamente...
Nel sottobosco le piccole formiche laboriose scappavano dall'affamato formichiere che con la sua
lingua appiccicosa ne mangiava dieci alla volta, come un aspirapolvere aspira le piccole particelle
di polvere. I lombrichi si sporgevano dal terreno argilloso e bagnato per vedere se fosse notte. Mi
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accorsi di una creatura massiccia, con il corpo ricoperto di uno strato molto folto di color marrone
scuro. Artigli affilatissimi come sciabole di pirati, occhi neri come se non avessero mai visto la luce
e dei denti lunghi tre centimetri pronti a trafiggere qualsiasi cosa... All'inizio rimase immobile,
guardandomi in modo curioso ma poi il suo sguardo si accigliò ed iniziò a corrermi incontro.
Scappai, ma purtroppo mi raggiunse e con un balzo mi aggredì. Il suo pelo era morbido come un
pelouche, ma il suo alito fetido come l'odore delle fogne. Lo colpii più volte con un ramo e lui,
stordito, lasciò la morsa, permettendomi quindi di fuggire. Purtroppo le piante del sottobosco,
minuscole e taglienti come piccole palme, ostacolarono la mia corsa: mi laceravano procurandomi
piccole ferite a fior di pelle. Si fece notte e la foresta venne avvolta dalle tenebre. Gli animali
notturni si svegliarono: i gufi iniziarono a bubolare, i lupi ad ululare e le cicale a frinire. Era un
vero e proprio concerto, purtroppo interrotto dal respiro affannato dell'orso che pieno d'ira mi
caricò. Scappai ma poi mi fermai perché capii che le paure dovevano essere affrontate. Quando si
venne a trovare a pochi centimetri da me, mi scansai; non riuscì a fermarsi e cascò nel burrone.
Avevo sconfitto la mia paura.
O tu, ragazzo impaurito,
la paura non è infinita,
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combattila e vincila.
Questo sarà il tuo premio;
e come ogni eroe che si rispetti
su di te scriveranno un proemio.
Alessandro Favaretto, Prima B
Una Nuova Alba
20 Maggio 2013: nella caserma della polizia statunitense arrivarono i servizi segreti russi.
Rabbia, cattiveria, brutalità, crudeltà: solo questo si vedeva in queste persone. L’agente Deckard
subì i danni peggiori: Colpito con il manico di un fucile si ritrovò in terra, svenuto, con una pistola
puntata alla testa . Proprio mentre il russo lo stava uccidendo, comparve l’ agente Roy che lo salvò
per poi portarlo fuori dall’ edificio attraversando l’ acqua accumulata dagli antincendi .
Tra i due però ci fu un “ cortocircuito”...
“E’ sveglio! E’ sveglio!” “Dove sono…? Commissario, lei mi può spiegare…” “Sì, Deckard”, disse
il signor Stimson, “tu sei andato in coma cinque anni fa. Durante questo tuo sonno è cresciuta tua
figlia, ma sono successe cose molto brutte: Los Angeles, come tutto il mondo, non è più come
prima, tutto ciò che si amava ora non c’è più, il terrore gira per le strade. Un gruppo di replicanti,
ovvero robot con forma e immagine umana, sta distruggendo tutto…” Poi aprì la tenda, dicendo:
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“ Guarda tu stesso”. La faccia dell’agente valeva più di mille parole. Deckard chiese subito di
sapere qualcosa su Roy. Il commissario allora disse: “Ha i capelli corti e di color biondo platino;
uno sguardo freddo e crudele, gli occhi color ghiaccio. Ha guidato gli altri replicanti con le sue
carismatiche doti”. Intanto a Deckard vennero in mente immagini passate di Roy. Lo stesso
giorno, il commissario convocò Deckard nel suo ufficio: “Questa sarà la tua missione, la tua ultima
missione…Se non riuscirai a compierla sarà la fine per tutta la razza umana. I replicanti hanno
preso a distruggere i punti fondamentali della nostra esistenza: scuole, ospedali, giornali e
musei… Hanno in mente di annientare l’intelligenza umana. Trovali, fermali…!!”. Deckard,
senza un piano, con la paura della fine, si gettò nell'incarico anima e corpo. Il suo primo pensiero
fu però la figlia: Annie aveva solo nove anni, era una ragazzina sveglia, i suoi occhi neri
sprizzavano intelligenza e vivacità e lui viveva per lei. Vederla uscire da scuola con lo zaino sulle
spalle e i capelli disordinati gli strappò un sorriso e gli donò il coraggio di correre verso il destino.
Lungo il viale che costeggiava i giardini dietro la scuola, lo sguardo di Deckard si scontrò con due
lame di acciaio: un brivido gli corse lungo la schiena e d’improvviso la sua mente fu invasa da
terrificanti immagini di mondi infuocati, di esplosioni e di corpi scoppiati, di lacrime e di sangue.
Gli occhi di Roy gli trasmettevano terrificanti visioni del passato.
Deckard provò a inseguire lo spietato replicante per individuarne gli intenti: il corpo bionico di
Roy era capace di prodezze impossibili per un umano, ma Deckard riuscì a tenere il suo passo con
la forza della paura. Addentrandosi nel laboratorio di chimica, punto nevralgico della ricerca
sull’energia, sempre all’inseguimento del rivale, il poliziotto si ritrovò spazzato via da una serie di
esplosioni in successione; continuò a correre e a salire un piano dopo l’altro, lontano dal fuoco,
dalle schegge e dal fumo… alla ricerca di aria e di Roy. Ecco, entrambi si ritrovarono sulla
terrazza: sotto di loro il mondo stava bruciando e il panorama mostrava solo distruzione. “
Perché, maledetto, maledetti voi tutti, replicanti senza anima. Perché?” Gli occhi di Roy, brucianti
di ghiaccio, gli si fissarono in volto. Di nuovo una serie di flashback gli aggredi la mente. Roy
parlò:
“Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare, navi da combattimento in fiamme…
Ho visto raggi B balenare nel buio…
E’ tempo di morire…
In voi umani non c’è più nulla da salvare: la vostra anima ha perso l’eternità… La vostra
malvagità ha annientato tutto. Morirete! Moriremo!”
Deckard poteva leggere nella mente di Roy, vedere i suoi terribili ricordi, ma la sua attenzione fu
attratta da un’esile figura accerchiata dalle fiamme. L’unico pensiero fu quello di salvare l’unica
cosa per cui valeva la pena vivere. L’amore per quella bambina lo spingeva a lottare: si lanciò nel
fuoco, dimenticandosi di tutto, anche di Roy e delle sue minacce, ma le travi del palazzo
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crollarono intorno a lui, i muri si sgretolarono, i vetri scoppiarono e raggiungerla sembrò quasi
impossibile. Un boato: un’onda lo investì.
Riaprì gli occhi, era vivo e cercò di vedere quello che aveva dinnanzi a sé: Vide Annie che
piangendo accarezzava i capelli, quasi albini, di Roy, pregandolo di non morire. Il replicante la
guardava come per imprimere nei suoi gelidi occhi quel dolce viso. Il volto della bambina fu
l’ultimo che vide. Il replicante morì per salvare quel piccolo umano e l’alba di un nuovo giorno si
affacciò sulla Terra.
Luca Panella, Seconda A
Blade Runner
Nella Los Angeles del 2019, oscurata da palazzi, macchine spaziali e da una spessa barriera
protettiva che permetteva all’uomo di respirare, viveva uno scienziato. Era un anziano uomo che
per tutta la vita aveva dovuto sottomettere la sua saggezza e le sue conoscenze ai bisogni pratici
della vita quotidiana.
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Un giorno, seduto in poltrona davanti alla finestra del suo studio, fermò lo sguardo sulle facce
tristi delle persone che, quasi senza una meta precisa, andavano da una parte all’altra della città
in una corsa contro il tempo, totalmente immerse nei loro doveri. Pensò allora che l’uomo meritava
una vita libera da ogni impegno, una vita in cui avrebbe potuto fare liberamente ciò che realmente
desiderava. Scese allora nel suo laboratorio, quello che per anni aveva trascurato e cominciò a
scrivere formule e a proiettare immagini di pezzi metallici associati ad un corpo umano. Alla fine,
dopo più di sei mesi di lavoro ininterrotto, creò il suo capolavoro: un robot dalle sembianze umane,
capace di lavorare ininterrottamente senza stancarsi mai. Lo presentò alla sua comunità e in breve
tempo la città di Los Angeles affidò alle mani di questo robot e di tutti gli altri creati a sua
immagine e somiglianza la sua produttività.
Tra le creature dello scienziato uno si dimostrò particolarmente intelligente e soprattutto ribelle: il
suo nome era Roy, un perfetto robot che non voleva accettare la ragione per cui era stato creato,
cioè essere uno schiavo della società umana. Decise allora di parlare con gli altri robots
convincendoli del loro valore. Riunitisi in un gruppo, decisero di capovolgere la situazione:
cominciarono a usare la loro forza per costringere gli uomini a lavorare schiavizzandoli.
Intanto il tempo di Roy stava per esaurirsi e l’unica possibilità di prolungare la sua vita era
risucchiare l’energia vitale di un essere umano.
Gli uomini nel frattempo volevano porre fine a questa situazione di schiavitù e, guidati da
Deckard (un agente di polizia al suo ultimo incarico), iniziarono ad organizzarsi per lo scontro
con i robots.
Roy venne a conoscenza di questo complotto e decise pertanto che l’uomo a cui avrebbe
risucchiato l’energia vitale sarebbe stato Deckard, cioè colui che aveva osato mettersi contro le sue
leggi.
Le due fazioni si incontrarono al centro della città degli angeli: da una parte gli uomini con la
loro consolidata idea della superiorità della loro specie, dall’altra i robots con la loro forza e la loro
rabbia.
Lo scontro però non ebbe luogo tra le due fazioni, bensì tra i loro capi: chi fra Deckard e Roy
avesse vinto sarebbe stato il governatore supremo e assoluto della città.
Roy era molto forte e in grado di evitare anche i colpi mortali delle armi di Deckard. Alla fine
l’agente disarmato e stremato cadde a terra. Il replicante allora, mentre era in procinto di compiere
la mossa finale per appropriarsi definitivamente dell’energia vitale del suo nemico, guardandolo
negli occhi vide tutto il vissuto di un uomo fragile che aveva dedicato la sua vita in difesa dei più
deboli per ottenere giustizia.
A quel punto provò un sentimento a lui del tutto sconosciuto: il perdono. Decise inaspettatamente
di farsi da parte e di lasciare la città alle persone che da sempre l’avevano abitata con il patto
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supremo di una pacifica convivenza tra le due fazioni. Lo sguardo stupito e incredulo di Deckard
fu rivolto al robot che, messa da parte la sua rabbia, assunse sembianze del tutto umane per pochi
istanti prima di chiudere gli occhi e spegnere per sempre quel meccanismo che lo aveva reso un
invincibile robot ma anche un grande uomo.
Matteo Tarascio, Seconda A
Deckard e gli Androidi
La città, cupa e malinconica, era avvolta dalle tenebre. L’unico faro in quell’oscurità era la luce
argentea della luna piena. Le persone sparivano nella fitta nebbia che avvolgeva Los Angeles. Le
strade erano quasi deserte e la forte umidità offuscava i vetri delle poche auto presenti.
A rendere ancora più desolante la situazione fu la notizia, ormai diffusa da tutte le stazioni
radio, di uno scontro tra la polizia e due androidi. Gli androidi erano forse riusciti a fuggire dalla
Android Corporation dove il Prof. Carter aveva fatto i suoi esperimenti? Eppure il professore
aveva assicurato ai cittadini che il suo tentativo di creare degli androidi dal basso quoziente
intellettivo e in grado di svolgere lavori massacranti al posto dell’uomo non era andato in porto.
“Come mai allora due androidi dotati di un’ intelligenza nettamente superiore a quella dell’uomo
stavano terrorizzando la città?” Il Prof. Carter aveva già ricevuto diverse critiche perché i suoi
esperimenti non erano piaciuti affatto. La gente di Los Angeles non si fidava più di lui.
I due androidi, RoyH21 e RoxanaH22, furono avvistati dall’agente di polizia Deckard e dal suo
collega Forder. Roy era molto alto, dotato di grande forza fisica; indossava una tuta bianca e nera
attillata ed il suo sguardo trasmetteva terrore perché aveva gli occhi rossi come il fuoco. Anche
Roxana era alta e robusta ma i suoi occhi erano di un blu intenso come la notte. Gli androidi
avevano già distrutto la fabbrica e provocato numerose vittime. Per la polizia era giunto il
momento di fermarli.
Il combattimento fra i due detective e gli androidi fu molto cruento e si svolse lungo la ferrovia
che collegava Los Angeles con Pasadena. RoyH21 affrontò Deckard mentre RoxanaH22 si
scontrò con Forder. I due androidi si spostavano con grande velocità da una parte all’altra della
ferrovia. Sembrava che volassero per quanto erano agili. I due agenti cercavano di colpirli con le
loro armi ma invano: la tuta li proteggeva dagli attacchi esterni. “Cerchiamo di resistere fino
all’arrivo delle pattuglie che stanno venendo in nostro aiuto” disse Deckard all’amico Forder, che
aveva di fronte a sé Roxana. Approfittando di una momentanea debolezza della donna, riuscì a
catturarla e a bloccarla sulle rotaie della ferrovia. Roy, accortosi della difficoltà in cui si trovava
Roxana, pregò Forder di non ucciderla. Deckard, impietositosi, ordinò al collega di catturarla ma
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non di sopprimerla. Ma questi, il quale aveva intuito che la testa dell’androide conteneva il
meccanismo che trasmetteva i comandi alla donna, con grande sicurezza e spavalderia, senza
ascoltare i consigli di Deckard, puntò la sua arma contro la testa di Roxana e sparò. Questa cadde
a terra morente e rivolse il suo ultimo sguardo verso Roy. RoyH21, che provava dei sentimenti
verso di lei, si infuriò e, come il leone osserva le sue prede prima di attaccarle, così cominciò a
studiare i suoi nemici. Avevano ucciso la sua compagna e la sua intenzione era quella di
vendicarla. Ma la sua ira e il suo odio erano diretti principalmente verso Forder, colui che aveva
ucciso Roxana. I due agenti erano numericamente più forti, ma Roy non era da meno. Alla vista
del treno, l’androide cercò di spostare il combattimento sulla ferrovia e spinse entrambi sulle
rotaie. Ad un tratto comprese che le sue forze erano ormai giunte al termine perché il Prof. Carter
li aveva progettati per avere comunque una breve vita. Visto che il treno si avvicinava sempre di
più, Roy prese una decisione immediata: quella di salvare Deckard che era stato più comprensivo e
che non aveva manifestato l’intenzione di uccidere Roxana. All’arrivo del mezzo Roy spinse
Deckard fuori dalle rotaie, mentre, avvinghiato a Forder, lasciò che il treno oltrepassasse i loro
corpi.
Federica Percario, seconda A
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Descrivo un pranzo con il gusto e l’olfatto
Sono una vera maga nell' indovinare, perfino a occhi bendati, quale sarà il piatto forte (di regola
unico, abbondante e a base di pasta) del pranzo del week-end. E così anche sabato scorso mi è
bastato qualche accordo odoroso che si diffondeva dalla cucina per distinguere le note del profumo
della specialità di casa Salerno: LA CARBONARA DI SALMONE.
In realtà, è tutta questione di allenamento, perché l’olfatto funziona un po’ come i muscoli: più lo
alleni e più diventa sensibile. Ho letto che un naso allenato può distinguere fino a diecimila aromi
diversi, dando così un bell’aiuto alla lingua che riconosce solo quattro o cinque sapori: insomma,
per gustare al massimo una pietanza ci vogliono sia naso che bocca buoni!
Tornando al piatto che mi attendeva fumante nella sala da pranzo, anche stavolta non mi
sbagliavo. Mi sono seduta a tavola e, nonostante non avessi ancora addentato nulla, già
pregustavo la delizia della collinetta di rigatoni che avevo davanti: l’effluvio inebriante
dell’intingolo a base di pesce che la cospargeva si spandeva nell’aria in giravolte di fumo che
arrivavano dirette alle mie narici, facendomi venire la classica “acquolina in bocca”! Ho annusato
intensamente l’odore inconfondibile, ma ingentilito dall’uovo e dal latte, del salmone affumicato
che mi stuzzicava sempre di più l’appetito, facendomi ricordare il piacere che provo ogni volta che
mangio questa delizia.
Ma, come ha detto una volta lo chef Cracco in una puntata di Hell’s Kitchen, “l’olfatto è un
desiderio, mentre il gusto è un risultato raggiunto”. Dunque non ho resistito, ho rubato un bel
rigatone con le dita, l’ho portato alla bocca e l’ho addentato. Era tiepido al punto giusto cosicché
ho potuto percepire la sua superficie scanalata, particolarmente rugosa, quasi grezza (sarà quella
marca, Voiello o De Cecco, trafilata al bronzo che compra sempre mia madre) che gli ha permesso
di catturare un bel po’ di condimento, con parti solide e altre fluide.
A questo punto, non mi restava altro che masticare per assaporare il boccone fino in fondo; il
morso si è serrato sulla consistenza pastosa del rigatone, tenera all’esterno ma ancora leggermente
dura all’interno (cottura al dente perfetta!). Masticavo lentamente per distinguere meglio i vari
ingredienti che ormai avevano raggiunto tutte le papille gustative sparse qua e là sulla lingua: al
primo impatto, mi è sembrato lievemente sciapo, ma l’equilibrio del sale è diventato subito perfetto
non appena ha incontrato il gusto saporito del salmone che, sminuzzato a dadini sottili, si è
insinuato in abbondanza nell’ampia cavità del rigatone. Ho percepito il retrogusto dolce della
cipolla bianca, così finemente tritata e imbiondita nell’olio che era quasi completamente disciolta.
Il tutto era perfettamente amalgamato da una cremina vellutata e fluida che sapeva di uovo
sbattuto (ma non di frittata!); il calore della pasta lo aveva leggermente intiepidito e quindi, pur
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essendo semi-crudo, in bocca non era per niente viscido. A rendere il condimento delicato e fluido
al punto giusto ci aveva infine pensato il latte, ultimo magico ingrediente che ho percepito.
Ormai il rigatone era un semplice bolo, pronto per essere ingoiato e presto seguito dalla collinetta
che mi aspettava.
Non so se sono riuscita raccontarvi l’odore appetitoso e il sapore goloso di questo piatto (che ha
fatto da pranzo). A parole non è stato facile descriverli, ma se non avete percepito quanto era
buono l’unico modo veramente efficace è quello di farvelo assaggiare!
Francesca Salerno, Prima B
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Sira lo Scriba
Sira stava passeggiando per le ricche bancarelle del mercato quando ad un tratto vide una grande
folla dirigersi verso la riva del fiume Nilo. Anche la ragazza decise di accodarsi ad essa. Iniziò a
chiedersi il perché di quell’insolito gruppo di gente e intuì che stava per arrivare il faraone Sethy I.
Sira cercò di superare quelle persone per vederlo. La barca del faraone camminava leggerissima
accarezzando l’acqua del fiume e creando delle leggere onde. La sua imbarcazione era stupenda e
variopinta: rossa come il fuoco, gialla come il sole, blu come la notte. Davanti alla prua era
rappresentata la figura dello scarabeo, simbolo della terra d’Egitto. Era presente anche un
baldacchino per proteggere il faraone dai raggi gialli e luminosi del sole. Una volta arrivato alla
riva, tutti si inchinarono in segno di sottomissione. Sira rimase sconvolta da tutto quel lusso e
quella bellezza. Sethy I indossava il nemes, dove era disegnato un cobra, un collare d’oro e
turchese, un gonnellino di lino e il bastone ricurvo del pastore. Il faraone scese dall’imbarcazione
con il suo seguito. Sira, respirando quell’atmosfera, disse: ”Come vorrei essere una scriba !” Era
una fanciulla di circa venti anni, coraggiosa, forte e molto determinata. Aveva gli occhi grandi,
neri e lo sguardo profondo; i capelli corti e neri, che le circondavano il volto. Una cosa che sapeva
fare perfettamente era incidere le tavolette: questa tecnica l’aveva imparata dal nonno che la
insegnava ai suoi allievi. La ragazza chiese al faraone, appena entrato nella folla, se lei, con vari
studi accurati, potesse diventare uno scriba reale. Intervenne il Visir del Basso Egitto il quale le
rispose che le donne non potevano diventare scribi reali. Sira insistette dicendo che lei aveva
imparato a incidere le tavolette e che era molto brava in quelle tecniche. Ma Sethy I le fece capire
che il regolamento della Scuola degli Scribi Reali non poteva essere modificato. Lei allora andò via
con una grande tristezza e pensò tra sè e sè: “Il mio sogno non si avvererà mai!” Intorno a lei c’era
tutta la grande e rumorosa folla che la accerchiava. Il faraone riuscì a fuggire da tutta quella
gente, e andò nel suo palazzo reale, con tutte le sue guardie. La ragazza intanto continuava a
comprare le cose che servivano nelle bancarelle intorno. Acquistatele, le portò nella sua casa e le
consegnò al padre, il capo famiglia, per sistemarle. Il padre di Sira era una persona molto
coraggiosa e adorava sua figlia la quale, per passare il tempo, iniziò a incidere le ultime tavolette
che le erano rimaste.
Un giorno, il faraone con i suoi soldati decise di fare un’uscita in barca lungo il fiume Nilo. Fu
una giornata molto piacevole. Al suo ritorno, Sethy I, mentre stava scendendo dalla struttura, per
sbaglio scivolò. Stava per cadere nel Nilo, pieno di coccodrilli. Per fortuna, il padre di Sira, che si
trovava lì per caso, riuscì ad afferrarlo in tempo e lo salvò. Lo portò alla riva, lo distese e lo aiutò
a riprendere fiato, dopo quello spavento. Lui in prima persona e tutte le sue guardie lo
ringraziarono dal profondo del cuore. Il faraone disse: “Cosa posso fare per lei? Qualsiasi cosa lei
mi chiede io la farò. Tutto per avermi salvato la vita”.
O potente faraone, che governi sull’Egitto
metti alla prova Sira nel suo scritto
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
uomo o donna che sia
l’importante è l’armonia
Il padre di Sira rispose: “Potente faraone, potresti mettere alla prova Sira, mia figlia, nella
scrittura, visto che lei vorrebbe diventare uno scriba reale!”. Il faraone annuì e convocò la
fanciulla nel suo palazzo. La fanciulla, entratavi, rimase meravigliata dalla bellezza e dal grande
sfarzo. Venne chiamato il Grande Maestro della Scuola degli Scribi Reali per giudicare i lavori di
scrittura della ragazza, la quale li svolse con grande sicurezza. Il Gran Maestro si stupì della
precisione della ragazza: nessun allievo era riuscito a svolgere un lavoro così complicato. Sira
venne giudicata in modo molto positivo. Il faraone si complimentò con lei, le assegnò la tavolozza
d’oro per i grandi meriti raggiunti nella sapiente arte dello scriba e annullò il regolamento di
ammissione alla Scuola degli Scribi Reali, inserendo anche le donne.
MORALE:
Non c’è differenza tra maschi e femmine. Entrambi sono in grado di svolgere lavori impegnativi
che richiedono passione e concentrazione.
Sira è una persona molto coraggiosa che non si ferma davanti a nulla: qualsiasi cosa le accade
comunque lei agisce sempre con grande determinazione.
Federica Percario, seconda A
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Amicizie Sbagliate
Il suo sguardo era accusatorio, come se la colpa fosse solo mia.
Sì, lo ammetto, ero stato io a rubare la borsa a quella signora…
Ma adesso? Cosa avevamo ottenuto? Tanti soldi da non poter sperperare in alcun modo, rimorso e
una bella vacanza in gabbia.
“Perché ha deciso di confessare tutto?”
“Mi piace pensare che non avessi nulla da perdere.”
-“Dai, digli la verità!”- e sta zitta, per una buona volta!
- “Non posso, sono la tua coscienza, ed è mio compito metterti sulla buona strada. Sii sincero, su,
che ti costa!” – e va bene, stavolta hai vinto tu…
In realtà ciò che dissi fu, appunto, la verità: “Avevamo tanti soldi, ma non era quello che volevo.
Questo peso che mi tenevo dentro era immenso, e l’unica cosa che mi proibiva di esternarlo era la
paura.”
“Di chi aveva paura esattamente?”
“Dei miei amici, se così possono definirsi… Di uno in particolare, il capo: l’Innominato.”
“Lei è a conoscenza del vero nome dell’Innominato?”
“Si, e probabilmente sono l’unico. Si chiamava Luca. Eravamo molto uniti, fino al giorno della
rapina…”
“Può raccontarci la storia della vostra amicizia?”
“Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria.
Noi eravamo molto amici sin da piccoli; poi arrivò il periodo dell’adolescenza e lui iniziò a farsi
amicizie sbagliate, a frequentare persone nel giro della droga. Io gli dissi molte volte di smetterla,
ma lui non mi ascoltava. Ha iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti, nonostante avesse
appena 15 anni, e a commettere svariati furti più o meno gravi. Era solito colpire a Via dei Colli,
dove si era formato una vera e propria banda nella quale mi invitò ad entrare. Io rifiutai e da quel
giorno incominciò a trattarmi come un traditore.”
“E’ vero che è stato lei a commettere il furto, e non Luca?”
“No.”
-“Sii sincero!” Ancora quella vocina nella testa!
Uffa, ma tu sempre qui? E prenditi una vacanza!
-“Non posso!” – d’accordo…
“In realtà, si. È tutta colpa mia.”
“Perché, se il vostro rapporto era in frantumi da tempo, Luca chiese a lei di compiere il furto?”
“Questo non l’ho ancora capito, probabilmente perché ero l’unico tanto ingenuo da lasciarmi
ingannare… Ricordo ancora come fosse ieri che mi telefonò un venerdì sera; era in lacrime e mi
implorò di fargli un favore: l’indomani sarei dovuto andare davanti ad una gioielleria ad
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aspettarlo, lì mi avrebbe spiegato tutto. Io ero abbastanza confuso, ma acconsentii
ingenuamente.”
“Ci racconti cosa avvenne il giorno della rapina.”
“Era sabato sera, e si sa che il sabato sera sono tutti schiavi della polvere, come gli acari. Io ero
puntuale davanti alla gioielleria ad aspettarlo. Verso le 22:30 lo vidi arrivare, accompagnato da
altre tre losche figure; camminavano, con i pantaloni calanti e la T-shirt larga, con i capelli a
ciuffo e masticando la gomma, per Via dei Colli, senza curarsi degli sguardi sprezzanti che gli
adulti gli rivolgevano. Una caratteristica dei giovani era vestirsi tutti uguali, non c’era la minima
libertà di espressione; chi non seguiva il gregge, veniva deriso ed emarginato. Luca aveva già
organizzato tutto, a mia insaputa: all’arrivo della vittima,loro l’avrebbero circondata senza
lasciargli via d’uscita e a me sarebbe spettato il lavoro sporco; avrei dovuto colpirla dove fa più
male, al portafogli. Mi si avvicinò e mi intimò il piano, persuadendomi che saremmo diventati
ricchissimi. Io mi feci ingannare dal diavolo tentatore…”
“Cosa accadde quando arrivò la polizia?”
“Fuggirono tutti come agnellini impauriti, chi sul motorino, chi a piedi, Luca compreso. Rimasi
solo io. Circondato da poliziotti, con la borsa in mano. Nel vedere Luca allontanarsi con assoluta
nonchalance, mi scese una lacrima, che mi rigò il volto lasciando una fredda scia sul caldo pelo del
mio passamontagna. Successivamente Luca disse un’ultima cosa; non ricordo quale fosse, ma so
che mi provocò un’altra lacrima, la quale scese fino alle mie labbra, bagnandole al centro. Più i
poliziotti mi minacciavano con le pistole, più io ero fermamente convinto che ormai non avrei più
potuto far nulla. Sarei potuto rimanere lì, in silenzio, a lasciare che l’inverno facesse effetto in
tempo, che anticipasse gli agenti; esatto, piuttosto che questo, avrei preferito morire. Avrei
preferito che la voce del vento fosse stata l’ultima cosa che le miei orecchie avrebbero udito, per
non dimenticarne il silenzio; che una piccola parte del profumo della vittoria proveniente da chi
era riuscito a scappare mi avesse raggiunto, fino a stordirmi; avrei preferito che il sapore del
disprezzo fosse stata l’ultima cosa da me assaggiata, in modo da essere pronto a tutto, anche a
questo; avrei preferito che l’ultimo denaro da me toccato fosse stato il prezzo della vergogna, per
imparare l’umiltà; e che Luca fosse stato l’ultima cosa che i miei occhi avrebbero visto, per non
dimenticarne la totale freddezza, la quale superava di gran lunga quella dell’inverno stesso.”
“Okay, per oggi può bastare con le domande. Andiamo.” un secondino mi tirò per un braccio e ci
dirigemmo verso la mia fredda e buia cella.
Prima di uscire dall’enorme salone affollato, diedi un ultimo sguardo a quel gruppo di giornalisti
soddisfatti delle mie dichiarazioni. Qualcuno dall’ultima fila di sedie mi salutava timidamente, io
non indossavo gli occhiali, ma mi sforzai di mettere a fuoco; la vista si appannò nuovamente, per
via delle lacrime che mi salivano agli occhi: era Luca.
Emma Virginia Treggia, Terza A
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Un’avventura al buio
Sono le ore 23:00 ed io, come tutte le volte, dovrei essere a letto. Invece mi trovo, in piena
notte, nel bosco. Vi racconto la mia avventura …
Il 22 luglio, ieri, io e la mia famiglia siamo partiti per l’Abruzzo. Avevamo prenotato un
albergo vicino a Teramo ed io mi ero ostinata a voler andare nei boschi per una gita di piacere.
Ovviamente, mia madre me lo ha proibito ed io ho passato l’intero pomeriggio a preparare un
“piano” per uscire di soppiatto dall’hotel. La sera successiva ero pronta: sono uscita e mi sono
avventurata in questi meravigliosi boschi.
Ecco perché mi trovo in questa situazione. Sono in un bosco immenso e sconosciuto, non so
dove debba proseguire.
Con la torcia accesa, entro in una piccola radura piena di rocce e pendii di erba fresca che,
ondeggiando al vento, producono un fruscio. Si possono udire persino molti uccelli che cantano
come se volessero formare un coro, tra cui fringuelli e pettirossi. Alzo lo sguardo e vedo un falco:
vola intorno alla luna, questa sera tonda, piena e bianca come il latte. Mi siedo ad ammirarla e le
mie mani toccano l’erba fresca e soffice. Alla fine della radura, trovo una grotta: è ampia con
alcune spaccature e crepe (graffi di orsi ed altri animali) ed odora di selvatico, il che crea un sapore
amaro, percependolo con il gusto. La parte superiore (della grotta) è coperta da muschio, verde e
vellutato. Profuma di erba e rugiada fresca. Controllo se dentro non vi sia qualcuno. Nulla: solo
buio pesto ed otto cunicoli che si diramano, come bracci di un candelabro. Ispeziono un’ultima
volta la radura per vedere se vi sia un animale in agguato, ma non vedo nulla, tranne gli sguardi
austeri dei pini e degli abeti. Sto per andarmene, ma inciampo in una radice spuntata nel terreno e
cado. La torcia nel frattempo mi scivola e si rompe. La mia caduta finisce all’ingresso della grotta.
Vi è un’oscurità completa che mi crea pesantezza nel cuore, ben presto sostituita dal panico: non
vi è modo di uscire perché le pareti sono troppe alte e scivolose!!!! Attendo qualche minuto, nella
speranza che qualcuno mi venga a cercare, ma percepisco solo il latrato dei lupi ed il cinguettio
degli uccelli. Cercando di trovare un’uscita, all’improvviso, mi ricordo degli otto cunicoli. Inizio a
tastare: pareti dure, stalattiti e stalagmiti da cui cadono gocce d’acqua ..….. Trascorsa mezz’ora,
sono ancora lì a tastare pareti a casaccio. Un filo di luce entra improvvisamente nella caverna,
come a voler squarciare le tenebre. Riesco ad orientarmi e trovo l’entrata del primo cunicolo.
Percorro un lungo corridoio e, intanto, mi domando: “UN FILO DI LUCE? NEL BUIO? CHE
STRANO!” Attraverso il cunicolo in un totale silenzio, riempito soltanto dal suono prodotto dalle
gocce d’acqua che cadevano dal muschio e dallo squittire dei topolini. Intanto, persisto ad
indagare sul misterioso raggio: era mandato da qualcuno? Giungo alla fine del cunicolo in una
stanza completamente oscura. Trovati dei bastoncini sottili, li sfrego; subito si accende un fuoco
scoppiettante che dà luce alla “stanza”: appare circolare, ampia e piena di angoli con mille oggetti,
una rete sottile ed intrecciata, una ciotola leccata con salmoni e lische (all’interno) … Emana
odore di mare e mi fa tornare alla memoria i ricordi delle vacanze passate in spiaggia. Sento un
miagolio e mi giro: scorgo un gatto con la pelliccia color rame, occhi gialli come fari e una coda
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pelosa; odora di selvatico ed è di sicuro un randagio. Lo accarezzo: il pelo ispido, la coda morbida
…
Che piacevole sensazione! Trascorriamo la notte lì e anche la mattina seguente vola in un
lampo. Mangiamo anche i salmoni, dall' odore gustoso e dal sapore ottimo. Il pomeriggio termina
lasciando il posto alla sera. All’improvviso, mi viene un’idea: scrivo un biglietto con calligrafia
chiara e sottile: “ AIUTO, SONO BLOCCATA IN UNA GROTTA. QUESTO GATTO VI
CONDURRA’ NEL LUOGO IN CUI MI TROVO.” Il gatto lo afferra fra i denti bianchi ed
aguzzi e, con un balzo agile, salta fuori dalla grotta. Trascorsa un’ora, ormai senza più speranza,
mi vedo apparire ad un tratto qualcuno davanti agli occhi: un uomo alto in compagnia di una
donna magra (mia madre). Mi aiutano ad uscire da lì e mi riportano in hotel.
Ormai sono passati molti anni. La gatta è entrata a far parte della famiglia ed aspetta un
cucciolo. Ogni anno, torniamo in vacanza lì in Abruzzo e, passando davanti alla grotta, ricordo i
momenti vissuti e quel misterioso raggio di luce che mi ha aiutato.
Elisa Pischedda, Prima B
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Sogno…al chiaro di Luna
Lontano dal paese, un uomo solo cammina verso l’orizzonte seguendo la via delle stelle fino a
poter volare e toccarne una facendola brillare ancora di più, per poi allontanarsi verso la luna.
Quando sorge il sole l’uomo ritorna gioiosamente a casa, mangia e riparte verso il museo nel quale
lavora; corre per non fare tardi, arriva, si mette al suo posto e scrive discorsi per le guide del
museo. Dolcemente si stende sulla scrivania prima della fine del turno; ritorna a casa stanco di
andare di corsa tutto il giorno, si siede sulla poltrona e pensa insistentemente a quella stella. Poi il
piccolo smemorato prepara la cena e finalmente mangia.
Terminata la cena, esce nuovamente fuori dal paese e correndo correndo è di nuovo lì; si sdraia
impaziente della venuta della notte.
Calato il sole, può rilassarsi mentre una mandria di mucche al pascolo sta passando sola e
indisturbata.
L’uomo torna a volare nel suo mondo di stelle incantato per chi ha ancora il cuore e la testa di un
bambino o ha sempre avuto quelli di un adulto. Quel mondo pieno dei disegni e delle passioni di
ogni persona che non li ha seguiti; si vedevano gli sguardi della gente che aspettava il ritorno di
quei sogni meravigliosi senza tregua e senza smettere di sognarli. Si vedeva in lontananza una
farfalla che volava sui sogni accendendoli di passione e colori brillanti, senza fermare la sua
danza, come una ballerina su un palco: il palco dell’immaginazione. Aspettando il sorgere del sole,
la farfalla si posa sulla stella toccata dall’uomo la sera prima; l’uomo non vuole più svegliarsi ma
appena si abitua a quello spettacolo, la farfalla scompare e con lei anche i colori.
Il sole sta sorgendo, lui corre fino a nascondersi nei sogni macabri delle persone. Scampato all’alba,
l’uomo non trova più la porta che può riportarlo indietro, resta intrappolato nel suo mondo ma è
guidato dal suo cuore che lo spinge fino alla porta che avrebbe spezzato il legame tra lui ed il suo
mondo perfetto senza fine. Tenta di uscire ma il suo cuore e la sua testa lo costringono a restare a
forza.
Il mondo perfetto era infinito e lui non ne sarebbe uscito finchè non lo avesse visto tutto, quindi
spezza la porta con una mazza di ferro.
Restava solo il paradiso che fino al venir della luna avrebbe potuto godersi tutto da solo.
Non appena torna la notte, i colori si riaccendono; questa volta arrivano due farfalle che aprono le
porte dell’immaginazione: si vede in lontananza un cavallo che mangia l’erba ed un altro che beve.
Quando iniziano a muoversi, escono dalla porta ed iniziano a volare come unicorni. L’uomo
lentamente abbandona quel meraviglioso mondo, dopo aver guardato la luna con occhi
impressionati e meravigliati dallo splendore della sua luce.
Tornando al paese, appare più felice di tutti gli altri e porta con sè la gioia dei sogni visti nella
mente delle persone, in attesa di interrompere quelle visioni grigie e impenetrabili a favore di colori
accesi e splendenti.
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Tutta la gente si dirige di nascosto verso il mondo magico ma nessuno riesce a vederlo finché
l’uomo non arriva ed inizia a volare per toccare tutte le stelle che avrebbero illuminato la porta;
ma non appena entra, viene seguito da tutti gli abitanti sognatori del paese.
Vedono finalmente quel paradiso continuando a sognare il loro mondo ma non sanno come
comportarsi; il mondo perfetto gli si rivolta contro senza permettergli più di avervi accesso.
Ovviamente non esistevano eccezioni per l’uomo spaventato da quella forza sopravvalutata del
mondo della luna. Continua a sognarlo tutte le notti ed a pensarlo tutti i giorni fino a che le
farfalle non avrebbero acceso il suo sogno facendolo avverare di nuovo.
Così, la sera successiva, gli animali della luna si sarebbero ricoperti di stelle e sarebbero andati a
trovare quell’uomo riportandolo nel mondo perfetto.
Dalila Manosperta, seconda A
Al chiaro di luna …
La penna di uno scrittore che inizia a scrivere un romanzo.
Accarezza il foglio con delicatezza, e lo bacia.
Non si sa quali idee gli verranno: fatti brutti, fatti belli. Non si sa, scriverà e basta.
Dipinge il foglio di mille parole: una storia felice sta scrivendo, di due innamorati, che si
incontrarono ad una fiera di paese per poi perdersi di vista; si incontrarono poi una seconda volta,
si diedero un bacio carico di amore e passione, si guardarono intensamente negli occhi che
risplendettero di felicità e di gioia.
L’amore è come una melodia, che ti avvolge nelle sue tenere braccia e ti culla dolcemente, fino a
che non ti stancherai; ma, fino a quel momento, lei ti circonderà con il suo calore, rilasserà la tua
mente, ti ispirerà con il suo melodioso canto, ti accompagnerà con le sue note melodiose e vellutate
nella tua mente; ti farà sognare, immaginare, amare, dipingere, raccontare, vivere la sua melodia,
si inchinerà, ti ringrazierà ed infine sparirà …
Lo scrittore rincorre le parole e la penna corre accanto a loro, le sfiora e le accarezza. Egli ha mille
pensieri, si fa trascinare dalle parole, dal loro canto e dal loro apparire.
Scrive senza fermarsi, si lascia cullare dal loro canto, scorrono davanti a lui come l’acqua di un
torrente…
Si ferma un attimo a pensare, si accorge che il romanzo rispecchia la sua vita, le sue avventure,
amori, malinconie, dolori. I romanzi non sono solo un mucchio di pagine rilegate, ma opere d’arte;
ognuno di essi racconta una storia che viene dal profondo del cuore. Proprio come questo.
Caterina Borfecchia., Seconda A
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La sofferenza… al chiaro di luna
La sinfonia mi sta facendo riflettere e mi dice di ricordare la Shoah. Questa melodia così cattiva e
cupa mi fa immaginare le urla delle donne che soffrivano per i figli sottratti alle loro calde braccia.
Questi piangevano rinchiusi dentro sé stessi e trasportati sui treni con forza senza la
consapevolezza di cosa stesse succedendo. Penso ai malati, che hanno patito ancora di più,
vedendo confermato il loro destino. Ma ora si ringiovanisce la melodia, facendomi immaginare i
festeggiamenti e le cene di lusso riservate alle SS che tenevano sotto braccio le mogli vestite di
abiti pieni di diamanti, che con la luce risplendono come i cristalli Swarovski, e con i cappelli
colorati abbelliti con grandi piume. Adesso tuttavia si incupisce di nuovo l’atmosfera: mi viene in
mente quando le SS facevano svestire i detenuti togliendogli tutti i beni e anche dei semplici
oggettini; il momento in cui gli sottraevano l’identità, quando gli tagliavano i capelli; e i pianti
che si nascondevano sotto quelli delle donne; i passi degli stivali delle guardie che sfioravano i
nudi piedi degli ebrei; il terrore che questi provavano quando gli passavano davanti chiamandoli
per nome.
Penso alle donne che lavoravano nelle fabbriche dei tessuti perché se commettevano qualche errore
nel lavoro venivano picchiate. Ora invece rifletto su quelle giornate intere passate in piedi per
testare la propria resistenza. Immagino il loro respiro così affannato, pesante e impaurito, l’amore
che c’era e l’impegno che profondevano per continuare a vivere. Ripenso ai momenti in cui i
bambini dimostravano la loro ingenuità cogliendo i rari momenti liberi, giocando tra di loro.
Tutto questo mi ha fatto meditare molto sul mio rapporto con la musica. Grazie ad essa riesco a
pensare alle cose che mi rimangono impresse nel cuore.
Serena Toti, Seconda A
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Osservando la luna
Ho corso tutto il giorno tra sport e studio; finalmente è sera, anzi fuori è già scuro e credo che sia
iniziata la notte. Vado in giardino per rilassarmi all’aria fresca anche se con un po’ di timore e mi
accorgo che tutto è avvolto da una luce soffusa, fioca, ma sufficiente per allontanare il buio nero
corvino della notte, che mi fa così paura.
Alzo gli occhi all’insù e nel cielo limpido vedo la luna, colorata di un pallido giallo; sta lì
silenziosa, ma non è sola perché tutto intorno brillano le stelle che, come tante lucciole, le fanno
compagnia.
Mi sento pervasa da un senso di pace e di tranquillità e penso a come sia diverso il sole e le
sensazioni che mi trasmette. Certamente sono parenti, Fratello e Sorella diceva San Francesco:
tutte e due sono rotondi e vivono in cielo, dandosi il cambio per illuminare la terra. Eppure sotto
tanti aspetti non si assomigliano affatto: il sole è il Re degli astri e il simbolo di forza;
accompagna le nostre giornate indaffarate trasmettendo tutto il calore e l’energia necessari per
vivere.
La Luna invece è più discreta e anche un po’ volubile (lunatica direi!), può variare aspetto in base
al suo umore: piena, a tre quarti, a metà, fino a diventare sottile sottile. La sua luce è timida e a
volte può perfino arrossire.
Arriva quando ormai la giornata è finita e ci sentiamo più stanchi. Sono questi i momenti in cui
capita più spesso che ci fermiamo un po’ a pensare a quello che abbiamo fatto o a quello che faremo
o vorremmo fare il giorno dopo o dopo ancora.
Proprio come stasera. E’ arrivata in punta di piedi e sta lì serena a consolarmi, ad ascoltare, nel
silenzio, i miei pensieri e magari a guadare i miei sogni quando fra un po’ andrò a dormire, come in
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TV. Ho letto su un libro un’antica leggenda che racconta che ogni sera una Luna-fanciulla
raccoglie tutti i sogni e i ricordi che abbiamo dimenticato in un calice d'argento e poi ogni mattina
prima di scomparire li riporta sulla Terra nelle gocce di rugiada.
Proprio perché è la protagonista dei paesaggi notturni la Luna ha mi fa pensare anche all’amore e
all’atmosfera romantica e magica che sa creare quando si specchia nel mare (quale innamorato non
ha immaginato un bacio al chiaro di luna …) con l’abilità di una vera fata. La sua magia è tale
che la scienza ci insegna che è lei a regolare le maree e ho sentito dire che può anche influenzare le
nascite dei bambini e i periodi di semina e di raccolto, e anche che alla sua luce si svegliano persino
i lupi mannari (ma spero che accada solo nella fantasia!).
Questa magia ha ispirato tanti poeti e anche io voglio dedicarle una piccola poesia:
Cara Luna, piena di magia,
mi porti quiete e non malinconia;
se ci sei tu mi sento più sicura
e questo buio mi fa meno paura.
Lanterna della notte, che insieme alle tue stelle
tutte le cose sai rendere più belle,
colme di luce morbida e fatata,
accompagni dolcemente ogni serenata.
Un giorno vorrei venire lassù
e sdraiarmi con te su quel grande lenzuolo blu.
Francesca Salerno, Prima A
Sognare… al chiaro di luna
Ero al chiaro di luna, pensando a ciò che mi circondava. Ad un tratto vidi una stella cometa: ebbi
l'impressione che quello potesse essere solo un sogno e che non mi sarei più svegliato. Osservavo la
grande luna sulla spiaggia; volevo andar via, ma ogni volta che mi alzavo la guardavo e mi sedevo
di nuovo. Non riuscivo neanche a respirare, come se la luna mi chiamasse. Mi trasmetteva delle
emozioni molto forti. Per far qualcosa mi misi a suonare una sinfonia per lei con la mia arpa. La
luna era la mia vita dopo la morte della mia famiglia, non riuscivo più ad allontanarmi da lei.
Mi faceva provare sentimenti mai vissuti, con la sua bellezza. Non potevo credere che fosse così
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lontana, perché a me sembrava vicina. Non riuscivo più a suonare, riuscivo solo ad ammirarla.
Mi rendeva felice, sebbene in parte fossi ancora triste per la morte dei miei due figli e di Priscilla,
mia moglie. Grazie a quel corpo celeste riuscii a riprendere coraggio per continuare la mia vita da
musicista, anche se mi mancavano i loro visi, i loro sorrisi e i bei momenti trascorsi insieme. Mi
alzai e mi misi a camminare lungo la spiaggia, mentre sentivo l’infrangersi dalle onde sulla
sabbia in riva al mare. Davanti a me si parò un sasso, di cui tuttavia non mi accorsi; inciampai
battendo la testa e svenni. Quando mi svegliai mi trovai nel paradiso, accerchiato da angeli
bianchi con una corona d’oro. Mi alzai e mi misi a cercare la mia famiglia: la trovai tutta riunita
a giocare con un cane defunto. Li abbracciai, felice di rivederli. Sulla terra rimase solo la mia arpa.
Eleonora De Carolis, Seconda A
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Danzando… al chiaro di Luna
Due giovani, distesi sull’erba, assaporano gli ultimi raggi di sole. Con stupore, notano che dagli
alberi escono delle note dolci e delicate che li avvolgono completamente. I due ragazzi timidamente
avvicinano le loro mani e cominciano a danzare, accarezzando il prato verde e lasciandosi
trasportare dal suono della musica, che li conduce in un mondo incantato e meraviglioso. Una
scalinata trasparente fa da palcoscenico al loro ballo. Cercano di seguire il suono della musica, che
li porta in fondo alla scala dove vi è una porta che emana una luce aurea. Attraversano il
passaggio magico ed entrano in un mondo fatato.
Una pioggia di polvere dorata trasforma i loro vestiti in meravigliosi abiti da ballo. Quella musica
così emozionante penetra in loro: chiudono gli occhi ed immaginano alberi con foglie d’oro, soffici
tappeti con fiori-gioiello, un lago scintillante attraversato da una barca dorata con la prua a
forma di cigno. La fanciulla danza leggiadra da una pietra all’altra. Da ogni pietra che tocca con
le sue fragili scarpette escono soavi note della dolce melodia. Le sua giravolte sono molto
aggraziate e i suoi saltini sembrano quelli di un cerbiatto. Il ragazzo accompagna la fanciulla
sorreggendola nei suoi movimenti, con fermezza e forza fisica. Per loro la danza è tutto e
potrebbero ballare all’infinito senza stancarsi mai. Sembrano delle libellule che con le loro ali
danzano e volteggiano senza toccare il terreno. Ma la notte si avvicina e la luna, con la sua luce
argentea, fa da cornice all’incantevole paesaggio. È un chiaro di luna bellissimo: i due giovani
sono soli immersi nella natura con il profumo degli alberi e dei fiori che li abbracciano. Sembra che
la luna chiami a sé le stelle, a proteggere i due ragazzi e a fargli compagnia.
Continuano a danzare tra magia e realtà vicino alla sorgente di una fiume e la fanciulla con la sua
grazia e delicatezza appare come una ninfa mitologica che vive nei boschi.
Ma ad un tratto l’incantesimo svanisce e vengono trasportati nella realtà: ai loro piedi un tappeto
di fiori bagnati dall’umidità della notte. Nei loro cuori rimarrà per sempre quel momento magico
dedicato alla danza che li ha fatti volare in un’atmosfera magica. Chissà, forse un giorno un’ altra
melodia aprirà un altro mondo magico davanti ai loro occhi.
Federica Percario, Seconda A
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Miracolo… al chiaro di luna
Oggi, 29 ottobre, rivedrò te, mia piccola bambina. Tutti lì a fissarmi, mentre piangevo per la tua
scomparsa, mentre disperata cercavo di ritrovarti nei miei sogni, mentre ti cercavo nel profondo del
mio cuore. Sono stata per anni a immaginarci in una vita felice: tu ed io abbracciate sul divano a
mangiare popcorn e a guardare film strappalacrime. Ma niente: il telefono rosa, che a te piaceva
tanto, non squillava mai. Tutti i giorni a cercare di essere felice, ma … proprio quando riuscivo a
stare calma, arrivava un profondo dolore che mi tramortiva. La notte del 25 luglio io e te soli in
una spiaggia isolata; tu avevi solo 5 anni, eri piccola, docile. Quando ti avvicinasti a me
dicendomi : “Ti voglio bene”… io scoppiai a piangere e ti iniziai a stringere così forte che tu mi
sussurrasti con quella vocina innocente: “ Basta piangere, andiamo a fare il bagno.” Ci buttammo
ed io, come una stupida, mi dimenticai di togliermi le scarpe e a quel punto scoppiammo a ridere.
Uscimmo perché l’acqua era gelata e di un blu così scuro che mi misi paura. Scappammo in
macchina, salendo in fretta e in furia. Arrivati a casa, ci addormentammo subito sul lettone degli
ospiti. Tu avevi un viso d’angelo, dormivi beata senza problemi. Quella giornata di luglio è il
ricordo più bello che conservo di te, della tua bellissima voce, dei tuoi occhi verdi e delle tue labbra
rosso fuoco. Ho colto per te quel fiore che tu amavi tanto, “ La bella di notte", quella di un blu
cobalto bellissimo. Ormai da 8 anni non ti vedo; finalmente è arrivato il 29 ottobre, giorno in cui ti
rivedrò. Era una notte al chiaro di luna, quando io, te e tuo padre ci recammo in quel parco che a
te piaceva tanto, che ti faceva impazzire. Ti portammo alle macchinette a scontro, dove tu
estasiata per la gioia iniziasti a scontrarti con tutto quello che vedevi davanti ai tuoi bellissimi
occhi. Ad un tratto non vidi tuo padre, e, presa dalla paura, iniziai a cercarlo non ricordandomi di
te. Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo… Tuo padre faceva parte dei servizi segreti: era
una spia. Un lavoro importante ma allo stesso tempo rischioso; lo faceva per mantenere la
famiglia, perché non c’erano più soldi. Dopo ritornai a cercarti ma eri scomparsa; e lì, su quella
macchinina rossa, c’era solo la tua borsetta rosa, quella che tu adoravi tanto. Chiamai subito la
polizia che tardò ad arrivare. Spiegai ai poliziotti tutto quello che era successo; loro all’inizio non
mi credettero, poi si sforzarono di farlo. Ma ora non voglio rovinare il trucco che ho elaborato per
questa giornata speciale. Sono le 16:00 e davanti alla mia casa ci sono moltissimi bambini che
escono da scuola. Chiudo il portone di legno e salgo in macchina. Nel fare questo ripenso alla
morte di mio marito che è stato decapitato. Con l'automobile mi fermo davanti al distretto di
polizia, faccio un respiro profondo ed entro. Aspetto un’ora ,due ed ecco ,proprio quando stavo per
andarmene, vedo il comandante del distretto entrare con mia figlia .… sì, proprio lei; si vede che è
cresciuta, è bellissima. Sono rimasta a bocca aperta. Ha sempre quegli occhioni da cerbiatto, viene
e mi abbraccia. Non stavo piangendo, ma ridendo dalla gioia e dallo stupore. Il mio tesoro è
ritornato: ti voglio bene, bambina mia!
Silvia Russo, Seconda A
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
Lacrime di luna
Sento come una spina nel cuore,
guardo fuori per lenire il malore.
Nessuna voce, nessun colore,
solo un pallido, muto chiarore,
senza luce di stella a far compagnia.
Notte di solitaria malinconia.
I tuoi modi son spenti stasera,
la tua mano smunta e leggera
scivola silenziosa
dentro al buio che avvolge ogni cosa.
Una lacrima sfugge, come scheggia d’opale,
traccia sopita di un recondito male.
Resta con me a cullar quest’affanno,
a carezzare lieve il mio viso.
Chiuderò gli occhi con il tuo sonno:
domani arriverà con passi di sorriso.
Francesca Salerno, Prima B.
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La musica, il ballo, il canto
Dopo la vicenda del vaso di Pandora, il leggendario contenitore di tutti i mali che si
riversarono nel mondo dopo la sua apertura, la terra diventò crudele e colma di violenze.
Euforico (questo è il nome del nostro eroe) fu l’unico a conservare ancora dentro di sè la
speranza. Alto, biondo, occhi scuri ed una grinta da far invidia a chiunque, Euforico rispecchiava
a pieno titolo il suo nome! Egli viveva nell’isola di Creta con suo padre Cautta e sua madre
Giselle, i quali erano maligni e prepotenti, l’uno nei confronti dell’altra. Per questo motivo il dio
Actuta (dio dell’aria), chiese a Euforico di trovare qualcosa che riuscisse a riportare pace tra le
popolazioni del mondo.
La prima cosa che ad Euforico venne in mente fu la musica, quale elemento puro e capace
di donare gioia e serenità a tutta la collettività. Ma… aspettate un momento… Come poteva la
musica riunire lo spirito delle genti? Spinto da Actuta, Euforico cominciò a muovere il suo corpo,
ad ascoltare ogni singola nota che il suo cuore gli dettava seguendo una melodia che gli veniva
dall’anima. Inizialmente, fu ispirato da piccoli movimenti delle gambe, timidi accenni che non
potevano certo identificarsi con un vero e proprio ballo! Poi, trascinato da quella melodia che gli
era innata, continuò a muoversi, facendo passi sempre più significativi, fingendo inoltre di avere
accanto a sé una partner immaginaria.
Solo dopo aver avuto questa brillante idea, andò nella sua città e invitò tutta la
popolazione a ballare con lui. Purtroppo, però, la gente non capì da subito le intenzioni del nostro
eroe e reagì a queste sue performances allontanandolo e schernendolo senza tregua. La folla
inferocita lo fermò con l’intento di ucciderlo, ma Euforico, nonostante lo spavento, tenne duro e
come reazione cominciò a intonare un canto melodioso:
“Sentite amore nell’aria,
sentite amore nell’aria,
rimanete uniti e fidatevi del vostro cuore!!
Oh oh oh, respirate amore nell’aria,
cantate con me e fidatevi del vostro istinto…
Oh oh oh!”
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
A quel punto, la gente smise di aggredirlo e rimase paralizzata da quelle bellissime parole.
Euforico fu assalito da un’energia interiore che nemmeno lui in quel momento riuscì a controllare e
il corpo prese il sopravvento sulla mente e sulla ragione. Le sue braccia iniziarono a volteggiare
nell’aria e le sue gambe erano incontrollabili. I passi di danza, che l’aitante uomo eseguiva,
attirarono altra gente intorno a sé; tutti cominciarono a lasciargli quello spazio di cui aveva
bisogno per manifestare tutto se stesso. Accorsero uomini, donne e bambini, tutti incantati dai
suoi movimenti inarrestabili. I bambini in particolare cercarono di imitarlo come potevano,
coinvolgendo a loro volta i padri e le madri che gli erano accanto. Nulla poteva più trattenere quel
pubblico improvvisato ed attento dall' imitare ogni movimento del corpo fatto da Euforico.
Da quel momento in poi, nonostante fosse impossibile fermare il male che circondava le
persone, la musica e il ballo di Euforico riuscirono a portare gioia e speranza nei cuori della gente.
Pandelena
Elena Borzumato, Prima B
Mito Mesopotamico
Lo scriba Esseridat era appena entrata nella stanza sacra del Dio Amal, quando,
inginocchiatasi davanti all’altare, iniziò a pregare. Intorno a lei fiaccole lucenti illuminavano,
nella penombra, le statue dorate delle divinità.
Essa osservava con curiosità le sue mani, esili e scure, e attendeva il responso divino. Dopo
quella notte la sua vita non era stata più la stessa: ripensava a quel sogno strano in cui il dio
RAHHL l’aveva presa per mano e le aveva mostrato paesaggi sconosciuti. Poi le aveva detto: “
Donna , nelle tue mani è il destino del tuo popolo”.
Ormai era quasi giorno e la luce del sole illuminava l’ingresso e il colonnato del tempio.
Esseridat però, aspettando la voce del Dio, si era addormentata. I lunghi capelli neri erano
raccolti dietro la nuca con fermagli preziosi e la sua tunica era arricchita con collane e amuleti.
Ad un tratto un volo di uccelli la fece svegliare e le fece aprire gli occhi.
Era già tardi ed il re sacerdote la attendeva al Palazzo Reale. Lei era stata scelta come
sacerdotessa per presiedere ai riti di passaggio dei più giovani della tribù all’età adulta. Era un
onore per lei, donna, raccontare la storia del suo popolo e partecipare ai riti sacri.
Esseridat, giunta di fronte al re, gli baciò i piedi e le mani e attese in silenzio le sue parole. “Nobile
sacerdotessa, figlia del sacerdote Sheridart e di Casserthia, ti affido il compito di lasciare al mondo
la testimonianza del nostro popolo. La nostra fine è vicina: presto i fiumi della vita, il Tigri e
l’Eufrate, diventeranno per noi fiumi della morte”.
Allora Esseridat cavalcò fino al bosco, si sedette su una pietra e si mise a piangere. Ma il
fruscio del vento le portò vicino il Ka di suo padre. “ Figlia mia", le disse, "non sei sola: io ti
aiuterò e ti darò la Forza, il Coraggio e l’Amore” .
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Nulla era perduto: tra le montagne, il suo popolo avrebbe potuto trovare una via di
salvezza. Non c’era molto tempo, alla piena dei fiumi mancavano ormai pochi giorni. Esseridat
prese della terra rossastra e se ne cosparse il viso. E di nuovo il Dio le apparve e le disse: “Donna ,
nelle tue mani è il destino del tuo popolo”.
Bisognava costruire degli argini potenti attorno alle sponde dei due fiumi e convincere tutti
a lasciare le proprie abitazioni e a trovare rifugio sui monti, intorno alla Ziqqurat sacra del Dio
Amal. Come poteva una donna sola salvare un popolo intero?
Tornò dal re e gli rivolse queste parole: “Possente e meraviglioso sovrano, custode del tuo
popolo, io parlo al tuo cuore, alla tua forza e al tuo coraggio, e ti chiedo di seguire i miei consigli,
perché è in essi che il Dio parla”. E in quell’istante la sua persona venne avvolta da una luce
abbagliante: il dio Amal era su di Lei. Il re rimase a guardare sbalordito e credette alle sue parole.
Poi ordinò al suo popolo di fare quello che era stato detto e tutti ubbidirono. Giunse il giorno
della piena dei Grandi Fiumi, ma la gente era al sicuro nei pressi della Ziqqurat. L’acqua distrusse
ogni luogo, sommerse i villaggi e portò via alberi e animali. Quando i fiumi ritornarono nel loro
letto, gli uomini offrirono sacrifici agli Dei, ringraziandoli di essere ancora vivi.
Allora Esseridat prese della terra rossastra e se ne cosparse il viso. Da quella terra
sarebbero nati altri villaggi e da questi villaggi città e la storia del suo popolo non sarebbe finita.
Quella stessa notte iniziò a scrivere il Libro della Rinascita, che ancora oggi è conservato e
protetto in un luogo sacro e misterioso della Mesopotamia
Proserpina
Emanuela De Stefano, Prima B
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Giachestolo, l’eroe dei bambini
In un’ isola del Mediterraneo, poco conosciuta agli uomini, Nirland, viveva, in perfetta
armonia con la popolazione, uno straordinario eroe: Giachestolo, soprannominato l’Eroe Buono.
Giachestolo aveva la fortuna di avere un padre che era una forza della natura, il dio “ Vento”, e
questo gli consentiva di non avere mai problemi di tifoni o di altre intemperie sull’isola.
La madre, Selen, era una donna unica al mondo per la sua bellezza: Giachestolo aveva
preso da lei la corporatura esile, il volto ovale con il naso perfetto e la carnagione chiara. Aveva
una forza smisurata, nonostante la sua corporatura, ed il grande potere di trasformare il suo corpo
in esseri superiori a qualsiasi creatura sulla terra ed invincibili. Il suo carattere gentile e l’animo
sensibile lo portavano ad emozionarsi davanti alle suppliche della gente. Amava in particolar
modo i bambini; adorava in loro l’animo gentile, sano e puro che purtroppo il divenire adulti porta
un po’ a perdere.
I loro occhi innocenti sprigionavano gioia verso la vita, verso l’amore e verso gli altri; con
tutto ciò che rappresentavano, erano profondamente odiati da Mostricum, un essere cattivo e
spregevole.
Per Giachestolo, Mostricum era il più grande problema: la sua cattiveria ed il suo potere
avrebbero potuto distruggere quella luce positiva e quella energia che gli occhi dei bambini
riuscivano a trasmettere e di conseguenza gettare il mondo nella tristezza e nel buio. Giachestolo
sapeva che Mostricum, con il potere di rendere cieche le persone, avrebbe fatto di tutto per
distruggere quegli occhi.
Mostricum, rispetto a Giachestolo, aveva una corporatura tozza come il padre, il dio
Ochirus; la sua carnagione era scura come quella della madre, la ninfa velenosa di Monu Velas. Il
suo volto aveva un aspetto equino; il suo carattere, odioso, invidioso e vendicativo, non gli
permetteva di avere amici e il suo sguardo, dotato di una luce accecante, portava per sempre nel
buio le persone.
Un giorno, mentre Giachestolo allenava il suo corpo, un bambino gli si avvicinò piangendo
disperatamente. L’eroe intuì subito cosa fosse accaduto dal tipo di pianto e ne ebbe la conferma
guardando il bimbo sul volto: i suoi occhi non c’erano più! Al loro posto due fori scuri che
sembravano non avere fine. Questo era troppo! Mostricum non meritava di vivere.
Chiamò i suoi fedeli amici, il cavallo bianco Alan e il cane nero Bladi, e partì alla ricerca di
Mostricum. Il Vento, suo padre, lo sollevò e gli diede la possibilità di volare alla ricerca dell’ essere
malvagio da distruggere. In lontananza vide delle luci, come due fari, che provenivano da
un’isola: quelle che gli occhi malefici di Mostricum sprigionavano.
Suo padre, Vento, delicatamente lo adagiò in una parte dell’ isola riparata e lì avvenne la
trasformazione di Giachestolo: dal suo corpo cominciarono ad uscire tanti tentacoli, come quelli di
un polipo. I suoi occhi furono ricoperti da una membrana sottile, impossibile da penetrare. Al
termine dei tentacoli, delle tenaglie taglienti si aprivano e chiudevano ripetutamente.
Del ragazzo esile e delicato non era rimasto più nulla.
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
Grazie all’ olfatto del cane Bladi, giunse nella radura dove riposava Mostricum e lì nel buio lo
assalì, colpendolo ripetutamente con le sue affilate tenaglie ed avvolgendolo fino a stritolarlo, con
i suoi tentacoli. Mostricum non avrebbe più potuto fare del male a nessuno.
Vittorioso, Giachestolo tornò nella sua isola felice, dove tutti i bimbi accorsero per
abbracciarlo e ringraziarlo di avere, una volta per tutte, ucciso un essere così malvagio. Quella sera
una grande festa fu organizzata in onore dell’eroe dei bambini con sacrifici di animali, danze e
cibo a volontà per tutti.
Dea Alis
Alice Maselli, Prima B
Il Viaggio di Flora
Vi era un tempo in cui esisteva il Bosco delle ninfe, situato nell’isola di Fysi, circondata
dal mare limpido e cristallino sul quale si rifletteva solo lo scintillio del sole. Sulla superficie,
volavano bassi i gabbiani e le pulcinella di mare che riempivano l’aria con i loro stridii. Le onde si
infrangevano su una piccola striscia di sabbia, dove si potevano trovare conchiglie dai riflessi
rosati e violacei. Dietro la spiaggia, c’era una piccola collina punteggiata da fiori splendidi e da
molte farfalle che volavano posandosi su di essi. Vicino a questa collina si disegnava un paesaggio
stupendo: un bosco di alberi molto fitti, animali e piante di ogni genere.
In questo bosco vivevano degli esseri che proteggevano la natura: le ninfe. Una di esse,
FLORA, era la figlia del re Fysi, che governava su tutta l’isola, e di Demetra, la dea del raccolto,
sorella di Zeus. Ogni giorno Flora andava ad esplorare il suo regno con la sua amica FIORE.
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
In quel bosco tutto era pace e serenità, quando, un brutto giorno, una tempesta devastò
l’isola. Gli abitanti fuggirono e chiesero aiuto a Zeus. Arrivati sull’Olimpo, Demetra disse al suo
popolo di rimanere con Apollo, il Dio del Sole, mentre lei sarebbe entrata nel tempio con la sua
famiglia. Esso era sovrastato di colonne altissime e in un angolo si poteva scorgere il Carro di
Apollo. il quale confidò a Demetra che Zeus li stava aspettando per comunicare loro una cosa
molto importante. 4
Nei corridoi era tutto un brulichio di dei che si affrettavano a sbrigare i loro compiti
quotidiani. Demetra e la sua famiglia arrivarono finalmente nella Sala del trono dove in cima ad
una lunga scala d’oro li aspettava Zeus seduto vicino a sua moglie Era. Appena vide sua sorella,
Zeus l’abbracciò e la ringraziò per essersi recata nel suo tempio. Dopodiché disse:” Ho da dirvi una
cosa importantissima. Poco fa, abbiamo ricevuto questa lettera da Perla, la figlia di Medusa!
Vuole distruggere l’Olimpo e dominare sulla Terra.” Tutti si ammutolirono e, dopo un lungo
silenzio, Flora fu la prima a parlare: “Poco fa una tempesta ha distrutto il nostro bosco. Pensi che
sia stata lei??” Zeus rispose: “Credo che tra i due fatti ci sia un collegamento. Ad ogni modo
dobbiamo fermarla. Ma chi sarà così coraggioso per arrivare fino all’Isola degli inferi?” Flora
rispose: “ Potrei partire io!” Demetra la guardò e disse:” Cosa? Tu? No, no non te lo permetterò!”
Dopo vari litigi, giunsero ad una conclusione e Zeus disse: “ Va bene, puoi andare, a patto
che ti accompagni qualcuno. Ti darò tutto ciò che ti occorre e ti aspetterò sull’Olimpo domani con
il tuo accompagnatore.” Era, a quel punto, intervenne: “Zeus caro, non hanno più una casa!
Permettimi di ospitarli qui all’Olimpo, assieme al loro popolo, fino a quando sulla loro isola non
tornerà quel meraviglioso paesaggio di pace e serenità.” Zeus accettò e ordinò di far preparare le
loro dimore. Flora, intanto, era andata a chiedere alla sua amica Fiore se aveva piacere di partire
con lei. L’amica entusiasta della proposta accettò. Flora, allora, andò a riferire la bella notizia a
Zeus, che esterefatto disse:” Va bene, partite pure, ma prima voglio regalarvi due cose. Seguimi!
La prima è una spada e il secondo è Dasaki.” “Chi??” domandò Flora. “Dasaki è il cavallo alato
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
della natura” rispose Zeus. Negli occhi di Flora apparve un luccichio che esprimeva tutta la sua
gioia e riconoscenza. Raggiunsero le stalle e si fermarono davanti alla terza recinzione dove,
all’interno, vi era un cavallo che ruminava paglia e fieno. Aveva il manto nero e una bellissima
criniera verde. Flora nel vedere quella meraviglia disse: “E’ bellissimo!! Ma c’è un problema ……
cosa cavalcherà la mia amica Fiore?” E Zeus rispose: “Nessun problema, c’è una altro cavallo
della natura, Roz. Seguimi”. Questa volta si fermarono davanti alla decima recinzione e stavolta
all’interno c’era una cavallina di color rosa con una criniera color pesca. Flora disse: “ Fiore sarà
contentissima!!! Ora li sello.” Terminata questa operazione Zeus esortò Flora a portarli fuori e a
consegnare Roz alla sua amica. Fiore, quando vide il suo bellissimo cavallo, rimase a bocca aperta
e chiese: “E’ bellissimo!!!Chi te lo ha dato?” “Zeus” rispose Flora. “Come si chiama?” “Roz, ed è
una femmina!” Consegnato il cavallo, Flora tornò da Zeus:” Zio, come riusciremo a sconfiggere
Perla?? Esiste una pozione, un rimedio……..” “Non so, ma puoi chiedere a Efesto, il fabbro che
vive nella prima casa ai piedi dell’Olimpo. “ “Grazie di queste preziose informazioni.” Flora
raggiunse nuovamente Fiore e in sella ai loro cavalli arrivarono alla casa di Efesto. Era una
piccola officina situata nel bel mezzo di un bosco di betulle e appena bussarono alla porta venne
ad accoglierle Efesto. Era un vecchio fabbro, zoppo e sordo, che teneva sempre in mano uno strano
corno.”Chi siete?’” “Siamo Fiore e Flora, la figlia di Fysi e Demetra.” “Ah, sì!! Zeus mi ha sempre
parlato di te……e finalmente ti conosco. Come posso esserti utile?” “ O Efesto, lo zio Zeus mi ha
mandato da te perché conosci il modo per poter sconfiggere Perla.” “ Credo di conoscerne uno, che
serve proprio a combattere la cattiveria! La pozione della Bontà!”. Incuriosita Flora disse:” Come
si prepara?” “Servono sette ingredienti speciali……. Leggete qui!” E consegnò loro un foglietto su
cui c’era scritto:
5 specie di serpenti;
1 litro di acqua dei morti;
6 varietà di frutti particolari;
5 litri di acqua di mare;
Cera d’ ambra;
Ali di gorgone;
Piume di tre cavalli della natura che non appartengano a Dasaki: aria, acqua e fuoco.
Flora allora disse: “Non sarà una ricerca facile!! Dove troveremo tutte queste cose?” Efesto
intervenne:” Qualche suggerimento ve lo posso dare, ma per il resto dovete chiedere a Zeus.
Dunque… le 5 varietà di serpenti potete trovarli sull’isola Serpentina, l’acqua dei morti negli
inferi e le sei varietà di frutti sull’isola Eea, dalla maga Circe. Perla, invece, è nascosta sull’isola
di Triscele.” “Grazie, divino Efesto.” Le due amiche partirono verso l’Olimpo e riferirono a Zeus
quanto appreso da Efesto. Il Dio disse:”HMMM, Ah sì. Credo di sapere dove si trova il resto
della ricetta magica…. l’acqua dei mari potete trovarla nel Golfo di Scilla e Cariddi, la cera
nell’isola dei Ciclopi, le ali di gorgone a Cnosso e le piume dei cavalli della natura in tre luoghi:
inferno, oceano e paradiso.” “Grazie, zio Zeus!””Vi auguro buon viaggio! E ora andate e portate a
termine la vostra missione.” Flora e Fiore uscirono dalla sala del trono e mentre decidevano il
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
luogo da dove iniziare il loro viaggio capirono che avevano bisogno di una mappa. Andarono da
Apollo che gliela consegnò. Iniziarono a consultarla e Fiore disse: “Dunque, il primo ingrediente
sono le cinque specie di serpenti e per raggiungere la loro isola ci occorre un giorno. Perciò partiamo
subito!” “ Aspetta!” rispose Flora. “L’acqua, il cibo per affrontare il viaggio dove li troveremo?
Chiediamo a mio padre.” Andarono da Fysi che disse loro:” Mie care, vi consegno questa borraccia
e questo paniere magico. Quando avrete bisogno di rifocillarvi si riempiranno da soli.””E dove
dormiremo? Ha anche delle tende??” aggiunge timorosa Fiore. “Certo! Eccole!” “Grazie”. Misero
tutto in una bisaccia e partirono. “Buona Fortuna!” dissero gli dei in coro, sventolando dei
fazzoletti bianchi. In quel momento, iniziò il viaggio di Fiore e Flora.
…………………………………………………………………………….
Appena si allontanarono dall’Olimpo, videro sotto di loro scorrere il paesaggio, finchè non
giunsero all’oceano. Era vasto e di un blu molto intenso. Sfrecciarono nell’aria in sella ai loro
cavalli mentre il vento scompigliava i loro capelli. Alla sera, si addormentarono sotto un cielo
pieno di stelle e quando si svegliarono il giorno dopo, apparve ai loro occhi: l’ISOLA
SERPENTINA. Il mare era tumultuoso e le onde si infrangevano su una scogliera rocciosa. Tutto
il paesaggio era brullo, qualche erba secca e, più in là, intravidero una fitta foresta. Si poteva
sentire il sibilo di milioni e milioni di serpenti. Flora e Fiore scesero dai loro cavalli, li nascosero
in una caverna ed iniziarono a scalare la scogliera. Arrivate in cima, Fiore disse:” Da che parte
andiamo?” e Flora rispose:” Credo da quella parte!” indicando la foresta che si trovarono davanti
a loro. “Ma come riusciremo a catturare le cinque specie di serpenti?” “Facile! Useremo la spada
che ci ha dato in dono lo zio Zeus!” “Buona Idea!!!”aggiunse Fiore. “Ma abbiamo un problema!!!
Il suolo sarà pieno di bisce!!!””Non preoccuparti!!! Ho portato con me due paia di stivali. Li
indosseremo e attraverseremo tutto il prato” disse Flora per rassicurare l’amica. E così fecero. Ma
al di là del prato, trovarono a terra uno strano piatto.” Che cosa sarà?” chiese Fiore. “Vediamo sul
foglio di Efesto …… Dunque…….E’ un oracolo!!! Dobbiamo offrire come tributo alla Dea dei
serpenti una biscia tagliata.”” Vai tu!!! Io ho troppa paura!!!” Flora si addentrò e subito, con la
spada donatale da Zeus, riuscì ad infilzare una biscia nera. La depose in quello strano piatto che
improvvisamente si ruppe e formò una scritta: SIATE LE BENVENUTE NELLA
FORESTA!!! Titubanti e anche impaurite, entrarono nel fitto bosco dove furono immediatamente
colpite da un odore di fresco e dal forte sibilo dei serpenti. Infilzarono una anaconda, un boa e un
serpente corallo. Poi Fiore disse:” Non c’è più niente qui, proseguiamo più avanti!” Videro un
fiumiciattolo e, nascosto tra le canne, le ninfe infilzarono un mamba nero e un cobra. “Missione
compiuta!” gridarono contemporaneamente. Flora aggiunse: “Efesto mi ha detto che dobbiamo
trovare un’altra uscita.” “E come?” chiese Fiore. “Io mi arrampico su quell’albero e vediamo cosa
trovo”. Dalla cima dell’albero Flora urlò: ”L’ho trovata!!! E’ un canale alla fine del
fiumiciattolo.””Quindi dobbiamo tuffarci?””Sì!!” Senza riflettere le due ninfe si tuffarono;
l’acqua era fredda, ma la corrente le portò velocemente lontane. Fiore, ad un certo punto, disse:
“Una cascata!!! AIUTOOOOOOO!!!!!!”. Fecero una discesa pericolosissima e giunsero al
canaletto. Aggrappandosi ad una roccia, uscirono dall’acqua, si asciugarono ed iniziarono a
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
preparare ciò che avevano conquistato secondo le indicazioni della pozione di Efesto. Tagliarono i
serpenti e li nascosero in una sacca. Poi Flora disse:” Ora partiamo per gli inferi.””Quanto ci
impiegheremo ad arrivare???”chiese Fiore. ”Due ore”rispose Flora. ”Allora, muoviamoci!!!!" la
esortò l’amica. Chiamarono i loro cavalli, salirono in sella e partirono. Giunsero nel bosco degli
incubi; gli alberi dotati di rami taglienti erano avvolti da una leggera foschia, e di lì a poco
raggiunsero il regno degli inferi. Era una profonda caverna con tre zone. Entrarono nella prima:
un corridoio buio dove galleggiavano le anime dai volti tristi; poi passarono alla seconda: un fiume
di lava con un ponte di corda sospeso. Fiore disse:” Flora, ma questo ponte è sicuro??””Non lo
so!!!”rispose Flora. Lo attraversarono senza problemi, riuscendo così ad accedere alla terza zona:
un grande lago pieno di morti. C’erano delle lunghe scale di roccia ed in cima due troni, su cui
sedevano Ade e Persefone. Erano due vecchi dagli occhi rossi. Vedendo le due ninfe Ade disse:”Chi
siete?””Siamo Flora e Fiore ed avremmo bisogno di un litro di acqua dei morti”. Ade aggiunse:”Per
avere quanto vi occorre dovrete superare tre prove. La prima è Cerbero, la seconda sono le Arpie e
la terza è Salamandra. Tutto si svolgerà nella quarta zona. Seguitemi!” Entrarono in una stanza
enorme dove in un angolo quasi nascosto vi era Cerbero, un cane a tre teste. Alla vista di quel
mostro, Flora esordì:” Divino Ade, cosa mangia questo mostro?””Ossa di Drago. Se riuscirete a
domarlo, vincerete.” Allora Flora aprì il paniere, ricevuto in dono da Fysi, trovò le ossa di drago
che prontamente lanciò contro Cerbero. Il mostro, alla vista del suo cibo preferito, rimase
immobile nell’angolo più oscuro della stanza. Ade si voltò verso le due ninfe e le invitò a seguirlo;
era giunto il momento di affrontare la seconda prova. Si trovarono davanti, questa volta, le Arpie,
donne con ali di aquila. Flora anche questa volta domandò cosa mangiassero ed Ade prontamente
rispose:”Sangue”. Allora Flora aprì nuovamente il paniere dove trovò una grossissima coppa di
sangue che anche questa volta lanciò verso le donne. Come Cerbero, le donne si avventarono su
quanto lanciato da Flora e scomparvero. Ade, allora, disse: “Terza ed ultima prova: la
salamandra”. “Siamo pronte!!!”rispose Flora. “ Se riuscirete a superare anche questa prova, come
promesso vi consegnerò il litro di acqua di morto.” Davanti a loro si presentò una salamandra
enorme, una creatura simile ad un serpente gigantesco ed anche questa volta Flora chiese di cosa si
nutrisse quell’essere così mostruoso. Ade rispose: “Uova di rospo.” Flora per la terza volta aprì il
suo paniere e lanciò una consistente manciata di uova di rospo piccole e lucide. Ade, sorpreso
dalla bravura delle due ninfe, si arrese e disse: “Avete vinto. Ecco quanto da voi chiesto, ma
attente: ora cercate un’altra uscita.” Flora e Fiore riuscirono ad uscire e fuori ad attenderle vi
erano Dakasi e Roz. In sella ai loro cavalli alati, si misero di nuovo in viaggio per raggiungere
l’isola di Eea che distava circa cinque ore di volo. Eccola apparire: splendeva come un’aurora e lì
tutto era proprio come sull’isola di Fysi. Atterrarono su una caletta bianca e Fiore chiese:” La
ricetta di Efesto dice che tipo di frutti dobbiamo trovare?” “Si” rispose Flora, “Frutto del Drago,
Mirtillo Siberiano, Banana Montana, Mini Kiwi e Mapo.””Cosa?” “Lo so, non sai cosa sono.
Beh, nemmeno io, ma andiamo a cercarli!!”. Si incamminarono e, dopo qualche ora, trovarono il
Frutto del Drago, un frutto dalla buccia rossa e la polpa dolce; il Mirtillo Siberiano, frutto blu
scuro; la Banana Montana, frutto con buccia sottile e polpa cremosa; il Mini Kiwi, frutto piccolo
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piccolo e dal colore verde intenso; il Mapo, un agrume dalla buccia arancio acceso. Fiore
disse:”Questi frutti sono bellissimi!! E stavolta è stato tutto molto facile!!!” Rispose Flora:”Già.
Allora mettiamoci subito in viaggio verso il Golfo di Scilla e Cariddi, per raggiungerlo occorrono
circa cinque giorni.””Cosa??””Eh già!!!” Dopo cinque giorni e cinque notti, finalmente giunsero a
destinazione, approdarono in un golfo con acque scure e tumultuose dove regnavano Scilla e
Cariddi. Scilla era un mostro con sei teste di cane mentre Cariddi era una lampreda che formava
gorghi di continuo. Flora, in sella al suo Dakasi, sfiorò quasi l’acqua; Scilla ne uscì e allora Flora
prontamente le tagliò la testa. Cariddi, per vendicare la sua amica, si avventò contro Flora che
non si fece sorprendere e, con la spada dello zio Zeus, gli tagliò il petto. Presero l’acqua del mare e
si allontanarono velocemente per raggiungere l’isola dei Ciclopi. Qui trovarono un paesaggio brullo
e triste, con caverne disabitate e colme di ossa di pecora. Entrarono nella grotta di Polifemo, il
Ciclope. Qui c’erano mucchi di pelli di pecora e numerosi vasi dalla forma allungata. Da una
porta, sbucò il Dio Pan per metà fauno e metà uomo che chiese:”Cosa volete?” E Fiore
rispose:”Cerchiamo la cera d’ambra.””Sì. Ma chi siete?””Io sono Fiore e lei è Flora.””Vi darò
quello che cercate, solo se ascolterete la mia storia. Un tempo io ero un giovane e bla, bla bla, bla
bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla bla, bla…" Due ore dopo, il
racconto finì e vedendo che le due ninfe lo avevano ascoltato attentamente, le premiò consegnando
loro la cera d’ambra che cercavano. “Grazie, O Dio Pan!”
Flora e Fiore ripresero il loro viaggio e giunsero in poco tempo sull’isola di Cnosso,
fermandosi presso il Palazzo del Re Minosse. Tutto era in silenzio e si sentiva solo il rumore di
uno schiavo che macinava olive nei campi. Entrarono nel Palazzo, nella sala del Trono, nel
magazzino, e in tutte le stanze del palazzo che risultarono vuote. Controllarono i campi e chiesero
allo schiavo dove potessero trovare le ali di gorgone. Lo schiavo indicò loro il labirinto che era
difeso da un essere che russava tremendamente. Fiore e Flora si avviarono e tra mille curve e
svolte arrivarono finalmente al centro del labirinto, dove vi erano due esseri che russavano
davvero tanto. Erano Steno e sua sorella Euriale che rappresentavano la perversione. Dormivano
una sull’altra ignare delle due ninfe che, quatte quatte, tagliarono loro le grosse ali dorate.
Uscirono velocemente dal labirinto, ringraziarono lo schiavo e dopo aver riposto le ali nella sacca
insieme a tutti gli altri ingredienti, ripresero il loro viaggio verso l’inferno. Era una terra
infuocata, abitata da esseri orrendi. Subito si diressero da Fotià, il cavallo alato del fuoco, che
aveva uno splendido manto nero e una splendida criniera di fuoco. Sedeva su un trono che
emanava vapore ed ubbidiente alla due ninfe si fece strappare una delle sue piume di colore rosso
sangue che emanava bagliori arancioni e gialli. Proseguirono verso il regno Oceanico nel blu
intenso delle acque con coralli e mille pesci colorati. In quel regno marino, dominava il cavallo
acquatico Thalassa: aveva una criniera di spuma bianca e un manto azzurro come le acque del suo
regno. Anche lui ubbidiente si fece strappare una delle sue piume, azzurre come il cielo, che
emettevano piccole bollicine trasparenti. Riposta anche la seconda piuma, ormai la loro missione
era giunta quasi al termine: mancava solo la piuma del cavallo del regno del Paradiso. Qui
trovarono un regno di pace situato tra nuvole bianche come la panna. Dominava Pegaso, il cavallo
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Alato di Perseo, dal manto bianco e la criniera dorata. Si ripetè nuovamente ciò che era avvenuto
prima con i suoi fratelli. Questa volta però la piuma era candida come la neve ed emanava bagliori
lucenti. Pegaso augurò alle due ninfe buona fortuna, concedendo loro di fermarsi lì per la
preparazione della loro pozione. Presero la sacca contenente tutti gli ingredienti che
faticosamente erano riuscite a conquistare ed iniziarono il lavoro. Li unirono, li fecero bollire in
un’ampolla e subito dopo la pozione assunse un colore argentato. Pegaso regalò loro uno scudo, e
si raccomandò:” Non guardate mai Perla, proteggetevi con questo scudo e gettate la vostra
pozione su di lei.” Fiore e Flora lo ringraziarono e partirono verso l’isola di Triscele. Era molto
simile a quella Serpentina, e una volta nascosti i loro cavalli, si misero alla ricerca di Perla.
Seguirono il consiglio di Pegaso, e coprendosi il volto con lo scudo si incamminarono. Finalmente
incontrarono Perla: era una bellissima ninfa degli inferi, con i capelli neri e gli occhi viola. Perla
non fu sorpresa di vederle, come se le stesse aspettando. Iniziarono a combattere; Perla sembrava
avere una forza e una resistenza fisica maggiori di quelle di Flora e Fiore. Ma improvvisamente
Fiore approfittò di una distrazione di Perla e le gettò la pozione che con tanta fatica erano
riuscite a preparare. Si sollevò un fumo dai mille colori e non appena esso svanì si accorsero che
Perla era svanita assieme a tutto quel fumo. La missione era compiuta!!! Stanche ma felici,
salirono in sella ai propri cavalli e fecero ritorno all’Olimpo. Qui vennero accolte da mille
festeggiamenti in loro onore e soprattutto l’isola di Fysi era magicamente tornata splendida e
rigogliosa come un tempo. Zeus accolse le due ninfe nel suo tempio e dopo essersi complimentato
per il loro coraggio,la loro forza e la loro perseveranza si raccomandò di conservare sempre il
grande significato di questo viaggio: IL POTERE NON SI CONQUISTA MAI CON LA
FORZA E LA CATTIVERIA!!
Pegaso
Elisa Pischedda, Prima B
Gaius e la Musa Laetitias
Dall’alto della sua sontuosa dimora, sulla sommità del monte divino, Zeus guardava il
mondo dei mortali e un impeto d’ira avvampò dentro di lui.
Ripensò ai tempi lontani, quando, assiso sul trono maestoso, aveva ammirato, soddisfatto,
insieme agli altri undici olimpi, la sua creatura che aveva fatto plasmare dal fango a loro
immagine e poi animare con il fuoco divino, perché potesse regnare sulla terra nel bene e nella
giustizia.
Aveva già punito una volta tutta la stirpe, ma quel duro castigo era stato ormai
dimenticato: dovunque posasse lo sguardo, da levante a ponente, vedeva lotte, violenze e
distruzioni. Gli uomini avevano nuovamente dimenticato gli dei e adoravano solo potere,
ricchezze, avidità. “Presto proveranno a scalare l’Olimpo”, pensò infuriato.
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Ma qualcosa trattenne la sua mano già pronta a scagliare il fulmine distruttore contro gli
uomini traditori. Un barlume di umana pietà …
Il suo pensiero andò al giovane e valoroso Gaius. “Tutto suo padre”, amava ripetere Zeus
tra sé e sé. Perché nessuno sapeva che anche lui era suo figlio (Era stavolta non lo avrebbe
perdonato!). Gaius era nato dall’unione con Kalè, la più leggiadra delle donne mortali; dalla madre
aveva ereditato l’incantevole bellezza con i folti capelli colore del grano, e soprattutto un animo
sensibile e pio, mentre la forza e l’eccezionale coraggio, come anche l’intelligenza e la saggezza,
erano l’impronta del padre.
E così decise di riporre in lui quel granello di fiducia che ancora gli era rimasta per il genere
umano. Quella notte Gaius ebbe un sogno: una grande carestia aveva seminato morte e
distruzione; restava solo una terra desolata, popolata di pallidi fantasmi che vagavano lamentosi.
Un presagio, un monito celeste? Con l’animo inquieto, decise di pregare la potenza celeste e
di chiedere aiuto all’oracolo di Zeus nel bosco delle querce sacre di Didona. Inginocchiato sui
gradini del tempio, chiese: “Oh Zeus, tu che conosci il passato e il futuro, questa sarà la nostra
fine? So che dinanzi al volere del Fato siamo come invisibili gocce nell’oceano sconfinato. Come
potrò mai impedire la rovina della nostra specie?” Il responso sussurrato dal dio nel fruscio delle
foglie fu “Ricorda che l’oceano non è altro che una moltitudine di gocce”.
Gaius rimuginò per giorni su quelle oscure parole finché tutto fu chiaro: come le gocce
d’acqua insieme formano un oceano di immane potenza, così anche gli uomini uniti avrebbero
sprigionato una forza mille e mille volte maggiore di quella di ognuno.
Senza indugio convocò il consiglio dei saggi e con un po’ di timore portò il messaggio di
Zeus. In pochi ne furono scossi; molti pensarono: “E’ solo un giovane visionario …” e non diedero
peso alle sue parole. Già erano pronti a tornare alle loro più degne faccende, quando un feroce
ruggito ammutolì tutti. Provarono a fuggire, ma orami era troppo tardi: le fauci del felino
affamato erano pronte a sbranare le sue prede.
Gaius con un balzo repentino e la spada levata attirò a sé la belva, per ingaggiare con essa
un duello mortale corpo a corpo. Il gesto d’immenso coraggio di quel giovane pronto al sacrificio
intenerì la pietra dura che aveva preso posto nel cuore dei saggi del consiglio. Nessuno si sottrasse
alla sfida; un nuvolo di frecce e lance si scagliò contro la belva che si accasciò a terra morente.
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Insieme avevano sconfitto quel mostro (forse mandato da Zeus …) e insieme ancora nei
giorni che seguirono affrontarono pericoli e difficoltà.
L’ira di Zeus si placò; era così il mondo che aveva immaginato. Nessuna funesta carestia
annientò la terra, anzi giunse in dono dal cielo un’incantevole musa. Il suo nome era Laetitias,
perché le note melodiose del suo flauto portarono la gioia nel cuore degli uomini. Quella musica
soave ci ha insegnato a sorridere.
Celestia Cillena
Francesca Salerno, Prima B
Nadia la ninfa dell’acqua
Tanto tempo fa, negli abissi del Mar Mediterraneo, viveva il dio Nereo con sua moglie
Talia, dea dei coralli. Nereo e Talia ebbero una figlia, Nadia, ninfa protettrice del mare. Nadia era
una fanciulla bellissima con coda da sirena e piccole ali d’angelo; aveva lunghi capelli color oro
raccolti in una corona di perle e conchiglie, occhi azzurri e profondi e labbra carnose. Sin da
piccolina era curiosa e allegra, crescendo diventò decisa e forte. Credeva fortemente nel rispetto
dell’ambiente marino e di tutti i suoi abitanti. Aveva guadagnato così il ruolo di protettrice del
mare. I suoi migliori amici erano i delfini: giocavano intere giornate a fare acrobazie e a
nascondersi vicino alla barriera corallina. Il suo migliore amico delfino era Ametista.
Il dio Nereo aveva un fratello di nome Oscurio. Oscurio era il dio degli abissi marini, da
molti anni ormai in lite con suo fratello Nereo, dio della luce marina. La moglie di Oscurio era
Aisy. Anch’essi ebbero un figlio: Petrolius, metà pesce e metà uomo, dotato di enorme forza fisica e
di carattere prepotente e maligno.
Il motivo del contrasto tra i due fratelli era dovuto ad una decisione di Zeus, che da anni
aveva chiesto loro di decidere chi dovesse essere l’unico re a governare l’intero mare.
Ad un certo punto Zeus, vedendo che non si arrivava mai a una conclusione, proclamò re di
tutti i mari Nereo. Si scatenò quindi l’ira di Oscurio e Aisy; Petrolius decise di trasformarsi in
un’enorme massa di petrolio e inquinare tutto l’ambiente marino. Dopo sette giorni il Mar
Mediterraneo era completamente privo di vita: morirono pesci, alghe, coralli…quasi ogni forma di
vita scomparve.
Quando Nadia si accorse del disastro capì che si trattava di Petrolius, suo cugino. Decise
quindi di intervenire usando tutti i suoi poteri di ninfa dei mari : chiamò tutti i suoi amici delfini,
cavallucci marini, pesci e le sue amiche ninfe. Tutti i loro sforzi però non furono efficaci contro il
potere distruttivo di Petrolius. Nadia rimase uccisa nel tentativo di difendere i suoi amici delfini.
Nereo e Talia decisero quindi di chiedere aiuto agli dei dell’Olimpo. Zeus fece imprigionare
Oscurio, Aisy e Petrolius in una delle prigioni degli abissi più profondi; per secoli rimasero nel
buio.
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Decisero di seppellire Nadia nel suo luogo preferito: nelle profondità del mare in cui sin da
bambina giocava con i delfini.
Col passare del tempo il mare si ripopolò grazie all’amore di Nadia: tornò limpido e puro
grazie al suo sangue; dalle sue ossa si rigenerarono i coralli, dalla sua coda tante specie di pesci,
dalle ali la vegetazione marina e dal resto del suo corpo tutte le specie marine.
Dal quel giorno tutti impararono a rispettare l’ambiente marino nel ricordo di Nadia.
Galtea
Elisabetta Santoro, Prima B
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La corsa di Malik
Malik è un ragazzo africano di tredici anni. E’ stato adottato da una coppia milanese al suo
secondo anno di vita. Malik ama l’atletica leggera; in particolare è appassionato della corsa.
Tuttavia suo padre, amante del calcio, lo ha sempre incoraggiato a praticare questo sport. Malik è
molto bravo nel calcio; è invidiato dai suoi compagni di squadra e ricercato dai grandi clubs della
città.
La sua migliore amica è Rosalba con la quale Malik si confida sempre. Lei conosce il desiderio del
ragazzo ed è sempre stata dispiaciuta per il fatto che lui non sia mai riuscito a confessare il suo
desiderio al padre. Infine c’è Mirko, antagonista di Malik nello sport e nel sentimento fino a
quando…Buona lettura! (Elena Cedrini)
Capitolo I
Malik correva. I piedi lo stavano riportando a casa, anche se, nel frattempo, la sua mente vagava
in altri luoghi. Pensava a come sarebbe potuto essere bello poter correre felice ogni giorno per il
resto della vita. Al contrario non avrebbe trovato alcun piacere nel segnare un goal se non quello
di constatare il sorriso lungo e sottile disegnato sulle labbra di suo padre. Il suo quartiere gli
apparve davanti agli occhi distogliendolo d’improvviso dai suoi pensieri. Seppur a malincuore, il
ragazzo aprì il cancelletto blu che delimitava il suo giardino; entrò di corsa in casa chiudendosi la
porta dietro le spalle e salutando in fretta la mamma mentre saliva in camera sua. Alzò la
serranda, accese l’ abat-jour e si stese sul letto. Il sole stava tramontando e suo padre sarebbe
arrivato di lì a poco. Quel giorno era importante perché avrebbe dovuto accettare la proposta del
famoso club calcistico Milan’s Football Center. La sua mente era così frastornata che ci volle un
po’ prima che si rendesse conto che il suo cellulare stava squillando dalla tasca posteriore dei
pantaloni. Malik prese il telefono e rispose, sebbene avesse letto il nome di Mirko sullo schermo:
“Mirko!”, rispose sospirando. “Oggi pomeriggio sei stato con Rosalba, vero? Vi ho visto insieme.”
“Siamo solo A-M-I-C-I. Comprendi il significato di questa parola?” chiese con tono retorico
Malik. “Rosalba è mia” ribatté Mirko. “Ehi, è una ragazza e non un giocattolo. Evita di trattarla
come tale e vedrai che lei ti degnerà ti uno sguardo!”. Poi attaccò. Ecco. Come se non bastasse,
quella telefonata gli aveva trasmesso il cattivo umore. (Mirea Migali)
Di colpo la sua mente tornò al confronto che aveva avuto con Mirko il giorno precedente.
Era passato un mese da quando Malik, tornando da scuola, aveva trovato per terra un
volantino:“Gare di Atletica per giovani dai tredici ai quattordici anni”. Aveva deciso d’iscriversi
senza parlarne con il padre. Da quel giorno ogni pomeriggio, dopo il calcio, scappava dai campetti
per allenarsi di nascosto. Mirko lo aveva notato e, proprio ieri, aveva deciso di seguirlo mentre lui
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andava ad acquistare l’attrezzatura per la gara. Il ragazzo era molto invidioso delle capacità di
Malik sia nel calcio che nell’atletica; per non parlare del rapporto tra lui e Rosalba.
Mirko lo aveva sorpreso mentre ritirava il fratino e il numeretto nella segreteria dello stadio: “E
tu che ci fai qui? gli aveva chiesto con tono retorico. “Cosa ci fai tu qui?!”aveva ribattuto Malik.
“Sai che deluderesti molto tuo padre se praticassi l’atletica?” continuava Mirko. Malik se n’era
andato senza rispondere nulla. Durante il cammino rifletteva. Sarebbe mai riuscito a parlare con il
padre della corsa? Soprattutto avrebbe portato a termine il suo intento? (Andrea Esposito)
Il ragazzo decise di chiamare l’unica persona che, secondo lui, lo avrebbe compreso e sostenuto:
“Rosalba?”
“Malik! Ciao. Allora? Hai deciso?”
“No. E’ proprio questo il problema!”
“Malik, è una tua scelta! Deve essere il tuo cuore a scegliere; mi sembra profondamente ingiusto
che tu non possa vivere la vita che pensi ti si addica di più. Ecco tutto.”
“Grazie, molto rincuorante! Adesso, se non ti dispiace, ti lascio poiché devo riflettere sulla vita
che mi si addice di più”
“Ok, allora ciao!” -Che cafone!- pensò tra sé Rosalba.
“Ciao”.
Malik chiuse la chiamata e si mise seduto sul letto a castello blu.
Inizialmente era infastidito dalla chiacchierata con Rosalba. Lei non gli aveva lasciato un’
indicazione precisa che lo avrebbe potuto aiutare nella sua difficile scelta. Poi si adirò con se
stesso per aver riversato la responsabilità sulla ragazza; infine scese giù dal letto e finalmente,
quasi urlando, esclamò : “Io non voglio giocare a calcio per tutta al vita. Diamine, lo so benissimo
ma non lo voglio ammettere a me stesso ….. IO VOGLIO CORRERE E BASTA ! E’ questo lo
sport che voglio praticare solo che non voglio dirlo a mio padre perché ho paura di deluderlo!”.
(Mirea Migali)
Il ragazzo, sfinito dall’improvviso sfogo, si lasciò cadere sulla poltroncina rossa posta davanti alla
finestra e si addormentò.
Capitolo II
Quanta strada davanti a te, Malik! Guarda bene! In fondo puoi scorgere due direzioni. La prima
è quella della corsa mentre l’altra è quella del calcio.
Malik inizia a percorrere il lungo sentiero davanti a sé; è calmo ma sente il suo battito aumentare
di frequenza man mano che avanza nel percorso. Sente che a breve sarà inevitabile prendere una
direzione. Piccole gocce di sudore gli scendono sulla fronte. Avverte il rumore del suo respiro e il
suono assordante del silenzio davanti a sé. Si ferma, si volta da una parte e poi dall’altra:
solamente due strade. Il resto del paesaggio si dissolve come neve al sole. Malik rimane immobile;
il cuore gli batte così forte che sembra volergli uscire dal petto…
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Comprende che alla sua sinistra potrà percorrere la strada della corsa. La mente lo proietta in
un’altra realtà: quella del Senegal! La Sua Africa adesso è vicina: il cielo limpido, i meravigliosi
colori della savana, la sua abitazione da piccolo “re” del villaggio. I suoi piedi nudi fremono; sa
che a breve sarà avvolto dal vento contro il quale inizierà la sua gara. Correrà con tutto il fiato
che avrà nei polmoni e più veloce di una gazzella. Vincerà sicuramente perché si dedica al suo
sogno con tutta la sua anima come un vero campione. I piedi ormai sanguinano ma l’orgoglio della
vittoria lo ripaga di mille sacrifici. E’ pronto a riprendere la corsa con quel coraggio che solamente
la pratica di uno sport corretto e leale sa infonderti… (Giulia Santecchia)
Malik aprì gli occhi e avvertì di nuovo quella sensazione di attesa: l’ansia di dover scegliere.
L’ansia di dover affrontare suo padre.
Capitolo III
Rosalba non aveva mai sentito Malik così inquieto e confuso. Era ancora dispiaciuta per la
telefonata ma si rendeva conto che ormai era divenuto necessario un suo intervento.
“Ciao papà, scusa il ritardo” disse Malik salutando suo padre mentre riponeva il vecchio pallone
sgonfio nel magazzino per prenderne uno nuovo, “Dai, Malik, non perdere tempo, iniziamo
l’allenamento! Dai, campione!”. Il padre era rientrato puntualmente dal lavoro e non voleva
perdere neanche un minuto in vista dell’imminente e decisiva partita della Dinamo Boys, la
promettente squadra di quartiere per la quale il ragazzo giocava.
Malik sospirò, alzò gli occhi al cielo e si posizionò accanto alla siepe del giardino. “Sai papà…”
iniziò il ragazzo mordendosi il labbro inferiore per il nervosismo. “Sì?” rispose il padre mentre un
velo d’inquietudine si materializzò sul suo volto. Allora Malik rinunciò e colpì il pallone
mandandolo dietro il cespuglio. (Arianna Bartolotta)
Dopo l’allenamento Malik era davvero stanco e nervoso:
“Non ce la faccio più!”
“Male. Un po’ di stanchezza non ha mai ucciso nessuno!”
“Papà, devo dirti una cosa molto importante…” il ragazzo pensava dentro di sé -Diglielo…
diglielo!-.
“Allora?” di nuovo quell’ombra sul viso. (Federico Cipriani)
Eccomi di nuovo qui e, come al solito, il giardino diventa una stanza chiusa e scura. Ci siamo solo
io e lui. Come al solito la mia testa inizia a girare; il mio respiro si affatica e diventa sempre più
pesante come quando corro. Corro per uscire da qui. So che posso rispondere ma non riesco. Le
parole nella mia testa iniziano a girare sempre più veloci. Poi si bloccano d’improvviso e sembra
che anche il mio cuore si sia fermato. Vorrei nascondermi ma non posso; sento le lacrime che
salgono. Le parole riprendono a girare nella mia testa e, senza pensarci, gli rispondo con la prima
frase che mi viene in mente. (Lucrezia Balocchi).
“Niente. Mi sono divertito molto oggi” queste parole gli erano sfuggite mentre guardava gli occhi
di suo padre rasserenarsi.
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“Bene, domani altro allenamento. Preparati per i colpi di testa” il papà rientrò in casa.
Malik sussurrò tra sé e sé -Già, colpi di testa, è proprio quello che dovrei fare-. (Federico Cipriani).
Finalmente lui se n’è andato. Sento il suono di un campanello. D’un tratto la stanza si schiarisce
e tutto torna come prima ma so che lui ritornerà e con lui tornerà quella stanza. (Lucrezia
Balocchi).
“Ciao Malik!” il visetto di Rosalba si materializzò dietro il cancello.
“Ciao Rosalba!”
“Ti va di fare un giro in bicicletta con me?” Rosalba suonò di nuovo il campanello in segno di
festa.
“D’accordo, ma io preferisco correre”
“Ok. Ti piace proprio correre, eh?” constatò con un sorriso rassicurante la ragazza.
“Ciao papà!” Malik si voltò verso la finestra della cucina.
“A dopo. Ah, Malik cosa avresti dovuto dirmi di così importante ?”
“Niente. Non preoccuparti”
“Torna in tempo per la cena. Tra qualche giorno dovrai giocare la partita decisiva del campionato!”
“Va bene. A più tardi”. (Gaia Salerno).
I due raggiunsero di corsa il ponte della tangenziale e si sedettero esausti sulla panchina.
“Mi dispiace per la telefonata di oggi”
“Non preoccuparti… Allora si avvicina la grande partita. Come al solito sarai tu quello che
segnerà il maggior numero di goal. Mio padre ne è certo!” Rosalba cercava di sondare lo stato
d’animo del ragazzo.
“Come se questo potesse rendermi felice. Mio padre è fiero di me perché sono forte a calcio. Ma io
voglio correre! Oggi ho sognato il Senegal. Voglio tornare lì; chissà, magari ritroverò i miei genitori
naturali e... Aiutami, non so più come gestire questa situazione. Non voglio deludere nessuno”.
“Tuo padre è burbero ma in fondo è generoso. Digli la verità e vedrai che non ne resterà deluso.
Che padre sarebbe?” lo incoraggiò la ragazza avvicinandosi a lui “Ora, però, devi concentrarti
sull’ultima partita. Non puoi abbandonare la tua squadra. Senza di te perderanno! Poi penseremo
alla corsa”.
“Se vinceremo e se davvero, come dici, segnerò più goal di tutti, allora tu sarai la ragazza che
griderà più forte” Malik aveva ritrovato l’allegria e la forza di combattere.
“Lo avrei fatto anche se non me lo avessi detto” rispose Rosalba a testa bassa.
“Forse dovremmo immortalare il momento incidendo le nostre iniziali qui” Malik afferrò un sasso.
Rosalba annuì e sorrise mentre il suo volto arrossiva.
“Ecco. Le ho incise al centro. Sono le più importanti di tutte le altre scritte sulla panchina”
affermò fiero il ragazzo.
Rosalba gli diede un bacio sulla guancia e scappò via. (Lorena Di Cesare)
Capitolo IV
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Arrivò il gran giorno. Tutti erano in fibrillazione. Malik era teso. -Rosalba dove si era cacciata?pensava. Fischio d’inizio.
Ecco Mirko dei Dinamo Boys che parte all’attacco; la palla viene subito intercettata dal capitano
dei Cattus che si avvicina minacciosamente alla porta. Sembra che stia per segnare ma Simone dei
Dinamo lo smarca; passa la palla a Malik che è vicino alla porta. Malik è pronto a tirare ma…
che succede? Un suo compagno gli ruba la palla… si tratta di Mirko che ha ormai il completo
controllo sulla partita. Tira e… goooooooooooool!!! (Emma Treggia)
“Bravo Mirko!”
“Forse mi prendi in giro? Sei invidioso del fatto che per una volta io sia riuscito a segnare e non
tu?”
“No, parlo seriamente. Per me hai molto talento!” rispose sorridendo Malik.
“Beh… Grazie Malik, anche tu sei bravo” Mirko chiuse l’alterco nell’incredulità.
Di colpo il ragazzo si ricordò dei primi allenamenti con Malik. Avvertì sullo stomaco un dolore
acuto. Era il rimorso del carnefice…
“Ciao nero!”
“Non puoi proprio smetterla, eh?”
“Sta zitto!”
“Io almeno non insulto”
“E i miei genitori non rubano il lavoro a nessuno!”
“Se è per questo nemmeno i miei che svolgono un lavoro migliore di quello dei tuoi”
“I miei genitori sono italiani almeno”
“Come i miei!”
“E io sono Babbo Natale!”
“In effetti sei un po’ grasso!”
“Che hai detto?”
“E sei pure sordo!”
“Stai zitto!”
“In caso contrario?”
“Ti prendo a calci!”
“Se lo fai sono io Babbo Natale!”
“Sta zitto o lo diventerai presto”
“Oddio che paura!”
“Non ci siamo capiti”
“Io ho capito benissimo invece”
“Che hai capito?”
“Che dici cose in cui non credi solamente per apparire più forte”
“Non ne ho bisogno”
“Invece sì, e ti servirebbe anche essere più intelligente!”
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“E poi sono io che insulto!”
“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te!”
“Fai un po’ meno il saputello!”
“Quando mai ho fatto il saputello?”
“Adesso”
“Di quale malattia soffri?”
“Nessuna, a differenza tua”
“Hai ragione tu!”
“Che fai? Ti prendi in giro da solo?”
“Almeno evito di ascoltarti”
“Meglio ascoltare me che te”
“Ci credo proprio!”
“L’essere di colore è un problema grave, lo sai?”
“A causa dell’esistenza di gente come te”
“Sta zitto!”
“Lo dici a intervalli regolari?”
“Io vado ad allenarmi” (Gabriele Francesconi)
Doveva essere stato molto difficile per Malik subire quei suoi insulti razzisti ma era riuscito a
tenergli testa. Tuttavia lo aveva perdonato.
Ora sembrava che l’astio tra i due fosse svanito. Rosalba non costituiva più un problema per
Mirko. Mirko ora aveva trovato il suo motivo di vanto: il calcio.
Mancavano pochi secondi alla fine della partita e Malik aveva la palla. Stranamente quel giorno
Malik aveva perso diverse occasioni di segnare: Rosalba non era lì con lui.
Il punteggio era 1-1. Il padre di Malik e quello di Rosalba sugli spalti continuavano disperati a
fornirgli consigli tattici. Non sapevano che il ragazzo non aveva nessuna intenzione di toccare
palla.
Finora non c’è stato nemmeno un goal da parte di Malik Rossi, il capitano dei Dinamo. Sarà una
grande delusione per suo padre… Ma ecco che sembra voler tirare; prova un tiro di rovescio e…
nooooo! La palla va fuori. La partita è terminata 1-1. Buonanotte. (Emma Treggia).
Dopo un’ora di silenzioso viaggio di ritorno sulla tangenziale padre e figlio rientrarono a casa e si
sedettero sul divano uno di fronte all’altro:
“Papà…”
“Mi hai deluso”
“Papà, ora lasciami parlare”
“Cosa significa Malik? Cosa ti succede?”
“Io voglio essere un corridore. Ho chiuso con il calcio!”.
La breve discussione terminò bruscamente; il ragazzo corse su per le scale e si chiuse in camera sua.
Il papà, rimasto solo, accese la TV:
“Malik è in piena adolescenza. Gli passerà”.
(Federico Cipriani).
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Capitolo V
Quella notte Malik tornò a sognare. Si trovava immerso in un bosco inquietante, freddo e
senz’aria.
Ad un certo punto vide una figura avvicinarsi. Era l’immagine luminosa di Rosalba sulla fronte
della quale era scritta la parola desiderio. “Malik, non smettere mai di inseguire il tuo sogno!” gli
sussurrò dolcemente.
Il ragazzo si svegliò di soprassalto e guardò fuori dalla finestra: era una bella domenica
soleggiata. (Manuela Ciolli)
Quel giorno accadde la svolta.
Malik si preparò ed uscì con i genitori. La famiglia passeggiava per il centro e chiacchierava senza
che nessuno avesse il coraggio di fare il benché minimo riferimento alla partita del giorno
precedente.
C’era molta confusione. Un ragazzo rapidissimo agguantò la borsetta di una signora e fuggì
cercando di dileguarsi tra la folla. Malik scattò come un ghepardo. Aveva lo sguardo fisso sulle
spalle del ladro; le sue gambe veloci, libere e agili sfrecciavano con grande eleganza. Malik correva
leggero e vigoroso come il vento. La distanza tra lui e il ladro si ridusse rapidamente.
Malik eseguì uno slalom veloce tra le persone ed evitò un cane scavalcandolo con un salto da corsa
ad ostacoli. Scivolò elegantemente sul cofano di una macchina come il più bravo degli stunt-man e
riprese a correre.
Lui sapeva che sarebbe riuscito ad acciuffare il ladro. Sapeva che nessuno sarebbe stato in grado di
batterlo. Sapeva di aver ricevuto il dono della velocità dal cielo e che i doni vanno sfruttati.
Si allungò ancora un po’ verso il ladro e riuscì ad agguantarlo per una spalla strappandogli la
borsetta dalle mani.
Il padre di Malik, incredulo e sconvolto, riuscì solamente ad esclamare: “Sei una freccia!”.
(Federico Cipriani)
Capitolo VI
Malik era disteso sul suo letto. Gli ultimi fatti del fine settimana -la partita, il ladro, il sogno e
l’assenza di Rosalba- avevano rinfocolato in lui quel senso d’inquietudine che sembrava essere
svanito. Dai suoi occhi sgorgavano le lacrime che lui lasciò vagare senza sosta per l’intera stanza.
Quando, però, quelle si fermarono sulla serratura della porta, Malik capì che non avrebbe più
saputo opporsi a suo padre; uno dei suoi occhi azzurrissimi era fermo sulla porta… e poi non c’era
più. Malik corse alla porta e la aprì ma suo padre era già sceso. Quando sua madre gli gridò dal
piano di sotto che la cena era pronta, Malik scese silenziosamente e mangiò allo stesso modo.
Terminata la cena suo padre chiese inaspettatamente al ragazzo di andare a giocare a pallone
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fuori. Uscirono, sempre in silenzio, fuori sul giardinetto e provarono un paio di tiri. Malik segnò
entrambe le volte.
“Malik ?”
“Sì, papà?”
“Cosa provi quando segni un gol?”
“……….”
“Ho capito. Vuoi fare a chi arriva primo al tredicesimo lampione?”
“Mmm mmm”.
Malik corse con tutte le sue forze. L’aria fredda di Milano sul viso, i polmoni che bruciano, il
respiro affannato, il cuore che batte. Il tredicesimo lampione era superato da un pezzo quando suo
padre lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla per fermarlo:
“Cosa provi quando corri, Malik ?”.
Malik aprì la bocca; poi la richiuse e fece così varie volte prima di rispondere:
“Non ci sono parole per descriverlo”.
Il padre gli mise una mano sul cuore e gli disse: “Allora è questo ciò che devi fare, ciò che il cuore
non ha parole per descrivere” e se ne andò a casa. Malik rimase esterrefatto a guardarlo andare via
correndo e una lacrima sincera gli solcò il viso. Ora sapeva cosa avrebbe voluto essere nella sua
vita. (Mirea Migali)
Malik tornò in camera. Si sentiva finalmente sollevato. Ad un tratto nella penombra del giardino
due profondi occhi scuri fecero capolino dalla finestra. Era Rosalba che chiedeva di entrare.
“Chi non muore si rivede” Malik aprì i vetri tentando con maestria di nascondere la sua felicità.
Era arrabbiato con la ragazza.
“Lo so, mi dispiace. Posso spiegarti tutto”.
Rosalba afferrò le braccia tese di Malik e si tirò su per entrare. Una volta dentro, lui le cedette la
sua poltrona rossa e si mise seduto a terra di fronte a lei. Rosalba iniziò a raccontare.
Dal pomeriggio della panchina Rosalba aveva continuato a pensare alle parole di Malik. Non si
trattava semplicemente della corsa. Il ragazzo era richiamato dallo struggente desiderio della sua
patria. La ragazza si chiuse in casa e iniziò a svolgere delle ricerche sul Senegal. Scoprì che lo
stato era stato martoriato da una guerra civile per quindici lunghi anni. Molti furono i morti e i
dispersi. D’un tratto si ricordò che una volta il padre di Malik le aveva accennato alla vicenda
dell’adozione del ragazzo. Il bambino, perduti entrambi i genitori durante la guerra e raggiunta
l’Italia in barcone, dopo varie vicissitudini, era stato assegnato ad un orfanotrofio di Milano.
Rosalba si era recata lì e, scartabellando i documenti dell’archivio, era riuscita a risalire ai dati
anagrafici del ragazzo. Il giorno della partita la ragazza, prima di recarsi allo stadio, aveva
provato a passare al primo centro-rifugiati della città per svolgere ulteriori ricerche. In quel luogo
miracolosamente aveva conosciuto un impiegato che lei aveva scoperto essere un compaesano dei
genitori naturali di Malik. Proprio lui l’aveva messa in contatto con il villaggio. I suoi genitori
erano ancora vivi.
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Malik ascoltava commosso e sconcertato le parole di Rosalba. I due “si tennero negli occhi
aspettando il sole del giorno dopo”. (Manuela Ciolli)
Capitolo VII
“Malik, oggi ci alleneremo in un altro posto. Perché non vai a cambiarti? Mettiti una tuta
comoda!”
“Papà, ma dove stiamo andando di preciso?”
“E’ una sorpresa!”.
Durante il viaggio Malik non fece altro che domandare; non trovava pace e non riusciva a stare
fermo. D’ un tratto suo padre gli chiese di chiudere gli occhi. Lui chiuse gli occhi e aspettò.
“Adesso puoi aprire gli occhi figliolo” Malik non si aspettava una pista da corsa. Avrebbe voluto
dire qualcosa ma suo padre lo interruppe:
“Sshh … Vai a correre, voglio vedere mio figlio che corre là”.
Prima di correre Malik guardò suo padre. Non credeva a tutto questo; asciugò le ultime due
lacrime e si mise in posizione di partenza come fanno gli adulti nelle gare di corsa. I suoi muscoli
pulsavano velocemente; il ragazzo iniziò a correre con le sue gambe lunghe. Mentre correva era al
settimo cielo.
Stava calando il tramonto e, terminata la corsa, i due si avviarono verso casa. Malik quella sera
non riusciva a dormire; si alzò e si sedette davanti alla finestra a guardare il cielo. La luna chiara
si rifletteva sul suo volto sorridente.
Il giorno successivo:
“Ciao Malik, è successo qualcosa di particolare? Ti si legge negli occhi!” Rosalba si avvicinò a
Malik che si stava cambiando per allenarsi con gli altri.
“Ieri mio padre, anziché allenarmi a calcio, mi ha portato in una pista da corsa; non puoi
immaginare quanto fossi felice !”.
“Malik, unisciti a noi e smettila di perdere il tempo per le chiacchiere”, gli ordinò il mister. La sua
voce acida risultava molto fastidiosa. Malik entrò immediatamente in campo e scorse lo sguardo
ormai non più ostile e quasi complice di Mirko.
Quando tornò a casa, Malik non trovò suo padre. Nel giardino tutto era tranquillo. Poté scorgere
solo una palla dietro un vaso di rose. Suo padre tornò a casa tardi ed era stanco. Il ragazzo evitò
in un primo momento di fare domande. Poi si fece coraggio e chiese: “Ti va di fare due tiri?”.
“Scusami, figliolo, ma oggi ho avuto tanto da fare. Devo parlarti” il papà, mentre parlava con
Malik, firmava delle cartelle.
“Cosa sono quelle carte?”
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“Sono per te. Ho deciso di ratificare la tua iscrizione alla gara di corsa che, come sai, avverrà
proprio questo sabato. Te la senti?”
“Sono pronto” Malik abbracciò forte suo padre. D’un tratto tutto gli risultò più chiaro. Era stato
proprio Mirko che, dopo quell’alterco allo stadio, per dispetto aveva rivelato al padre l’iscrizione
alla gara del figlio. Molto probabilmente suo padre proprio in quel momento aveva ceduto.
Dunque Mirko inconsapevolmente aveva contribuito a risolvere la situazione e, ora che l’ostilità
tra i due era scomparsa, ne era felice.
Malik corse a chiamare Rosalba per invitarla alla gara.
“Questa volta sarò lì al tuo fianco. Te lo prometto” fu in quel momento che la ragazza si scoprì
profondamente innamorata di Malik.
Il sabato arrivò. La pista di atletica era piena di persone. Malik era sereno e guardava gli spalti.
D’un tratto si accorse che accanto a Rosalba ed al padre vi era una coppia dalla fisionomia
familiare. Comprese che si trattava dei suoi genitori senegalesi. D’un tratto riaffiorarono tutti i
ricordi di bambino. Corse verso di loro: “Credevo foste stati uccisi!”. “No, figlio mio. Non abbiamo
mai smesso di pensarti!” disse la madre mentre la voce si rompeva in un pianto dirotto. Malik
avrebbe voluto confortare quel pianto ma non poteva. La gara stava per iniziare. Rosalba si
avvicinò a Malik sussurrando: “Loro sono la chiave del tuo sogno. Loro possono accompagnarti
nel tuo desiderio di correre” (Fois Saili).
Malik annuì. Il suo sguardo si rivolse ora verso colui che, nonostante tutto, lui continuava a
sentire come suo padre:
“Figliolo, vai e non pensare a niente. Ti voglio bene”
“Anche io ti voglio bene, papà”
“Buona fortuna Malik” gli augurò Rosalba “Dimenticavo… Ti…” Malik la interruppe.
“Non dire niente per ora, ti prego. Anch’io”.
Tutti sono pronti sulla linea di partenza. Malik prende un mucchietto di terra e inizia a
strofinarla sulla mano stringendone un po’ nel suo pugno. Al via tutti iniziano a correre come una
mandria impazzita. Malik, che è rimasto con gli occhi chiusi, li apre e inizia a correre. Alcuni
ragazzi hanno già il fiatone; tre sono ancora davanti a Malik. Ormai lui è partito veloce e nessuno
riesce più a riprenderlo. E’ rimasto soltanto un avversario da superare, forte quanto lui. Il
traguardo è vicino; prima di tagliare la linea i due sono esattamente pari. Malik raccoglie tutte le
sue energie e riesce a toccare per primo la fascia. Sparge sopra la sua testa la terra che aveva
stretto forte nel suo pugno: ha vinto! (Fois Saili)
Malik spalancò un sorriso meraviglioso e corse ad abbracciare i suoi cari.
La sua famiglia era lì ad aspettarlo. La sua famiglia era il suo desiderio, la sua partenza e il suo
traguardo.
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Sognando
Da giovane ero analfabeta, un semplice contadino il quale viveva in una casupola di legno vicino
al mare, che, però, non avevo mai visto.
Quel giorno mi svegliai molto presto, prima dell’alba. Mi alzai dallo scomodo letto di paglia e
toccai, con mio dispiacere, il gelido pavimento di legno, talvolta tarlato, o umido, a causa di
qualche goccia solitaria di pioggia, che cadeva dalle grosse travi di legno del tetto.
La mia era una casa molto umile, ma fornita di tutto ciò che mi serviva.
Dopo la quotidiana colazione, mi pettinai davanti al grande specchio con la cornice d’ottone, che
tenevo in camera da letto.
Poi, dopo essermi vestito, iniziai a recitare, come al solito, il rosario.
Questo mi era stato regalato da mio padre sul letto di morte; aveva grandi perle celesti, che
rilucevano come gli occhi di Maria e una croce d’ebano, scura come il colore della pelle del Signore.
Uscito dalla mia casupola, vidi, dietro di essa, le grandi montagne rocciose e frastagliate svettare
verso il cielo come per toccarlo. Vidi il mio piccolo orto, che avevo coltivato con tanta fatica, dare
i suoi primi frutti.
Vidi la piccola foresta vicino alla mia casa da cui proviene ogni giorno un odore insolito e
pungente.
Per la prima volta, mi saltò in mente la folle idea di vedere cosa ci fosse al di là del bosco; ciò, per
me, si presentava come una vera e propria avventura e questo accadeva perché, dalla morte di mio
padre, ero rimasto sempre chiuso, circondato da montagne.
Adesso, però, sentivo quella smania di scoprire cosa ci fosse al di là della foresta sempre più forte.
Sentivo quella smania di scoprire da dove provenisse quell’odore pungente e quel rumore continuo e
piacevole, che sembrava il movimento delle fronde degli alberi toccati dal vento. Volevo scoprire da
dove provenisse quel vento pomeridiano, che ogni volta mi spettinava i capelli e mi liberava dalle
arsure estive.
Così, con quel folle desiderio nel petto, mi incamminai nella foresta, la quale si rivelò più piccola di
quanto credessi.
Non si udiva alcun rumore, tutti erano dormienti e filtrava poco chiarore mattutino. Il tappeto di
foglie scricchiolava come un vecchio pavimento di legno e io dovetti stare molto attento ai rovi
spinosi, che, di tanto in tanto, si mostravano nel buio.
Mi ritrovai, quindi, a brancolare senza meta, seguendo solo il mio istinto e quell’odore salmastro
pungente sempre più forte.
D’improvviso, come per magia, la foresta si diradò; poi un po’ di luce tornò, ma, inizialmente, non
vidi bene cosa avessi davanti, a causa delle lacrime sgorgate per il pungente odore, ormai noto.
Sentivo solo che il tappeto di foglie era scomparso lasciando il posto a una piccola zolla di soffice
muschio.
Poi, dopo qualche minuto, le lacrime lasciarono il posto a uno spettacolo stupendo, che io non
avevo mai visto.
Mi sembrava di essere arrivato in paradiso, nel quale vidi l’immagine del Signore.
Scorsi il ….. il mare, sì! Non so come, ma sapevo che era lui: mio padre mi parlava spesso del mare
prima di morire.
Ai miei occhi appariva come una grande massa di ……qualcosa appena increspato del vento.
Da lì proveniva l’odore salmastro e pungente, da lì proveniva quel rumore simile a quello delle
fronde degli alberi mosse dal vento; lo guardai e pensai che era infinito.
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Poi mi accorsi del cielo, che stava divenendo di una tonalità sempre più chiara e il Sole stava per
iniziare a giocare con la Luna a nascondino, dietro le piccole nuvolette rosacee.
D’improvviso, mi resi conto del mio stato d’animo e della mia posizione: in ginocchio, gli occhi
sgranati, ma la vista appannata, l’anima dispersa da qualche parte, la testa con lei. La bocca era
spalancata, i capelli arruffati con qualche foglio di troppo, le ginocchia stanche di poggiare sul
muschio.
Le gambe tremavano, il viso pallido, le pupille come occhi di spillo e il cuore a mille, come se fosse
stato una locomotiva a pieno regime. Poi il sole sorse e io proruppi in un forte pianto; sentivo
lacrime di commozione scorgermi dagli occhi e scorrere come un fiume in piena sulle guance.
Dopo cinque minuti di intenso pianto, che mi parvero un’eternità, mi alzai e guardai il mare; il
sole si rifletteva su di esso e piccole onde si infrangevano sulla costa con un moto regolare.
Di cosa era fatto il mare? Ero per caso uno strano specchio in movimento? O semplice acqua?
Queste le domande che mi ronzavano in testa tra mille altri pensieri.
Mi sentivo un bambino, non sapevo quasi niente del mare, e sentivo quella curiosità tipica dei
bambini, i quali non sanno niente del mondo.
Poi le gambe si mossero da sole e io avanzai brancolando verso il mare.
A mano a mano che mi avvicinavo, percepivo la sabbia, sporca di qualche rametto, sempre più
umida.
In quei minuti, tutti i miei pensieri passarono in secondo piano e mi sentii la testa svuotata.
Poi toccai il mare e mi resi conto che ….. In quel momento mi svegliai di soprassalto, il mio primo
pensiero fu: “Beh, lo scriverò nel tema di oggi, se possibile”.
Luca De Carolis, Terza B 2012-13
Un Piccolo Malinteso
Mi trovo su un aereo dell’Alitalia, o meglio mi sono intrufolato di nascosto nel suo portabagagli.
Sono qui al buio in compagnia soltanto di pesanti valigie. C’è però un chiaro motivo per cui mi
trovo in questa situazione: oggi, all’uscita da scuola, ho cominciato a litigare con il mio amico
Matteo perché pensava che gli avessi rubato il quaderno di storia; io continuavo a ripetergli che si
sbagliava, ma lui non voleva sentire ragione e mi accusava di essere un grande bugiardo. Oggi
dovevo anche andare a casa sua, però me ne era passata la voglia. Matteo era arrabbiatissimo e mi
ha detto: “Non penso proprio di farti venire a casa mia! Ma va a quel paese!” E’ per questo che
ora sono qui per andare a visitare quel paese. Sono sicuro che questo sia l’aereo che mi ci porterà,
perché all’aeroporto ho chiesto alla signorina del chek-in :" Mi scuso, è questo l’aereo che va a quel
paese?", e lei mi ha risposto proprio: ”Va' a quel paese!” L’aereo è decollato da circa due ore,
quindi non penso che manchi molto. Infatti sento la voce del pilota che dice:”Signore e signori,
stiamo per atterrare a Londra; vi prego di allacciare le cinture di sicurezza e di spegnere i vostri
apparecchi elettronici durante la discesa. Grazie per aver viaggiato con Alitalia.” Sento questa
voce e mi prende un colpo: “Come stiamo per atterrare a Londra!? La signorina mi aveva detto che
questo aereo va a quel paese!” L’aereo atterra ma io non scendo, consapevole di non essere arrivato
dove volevo e di dovermi sorbire chissà quant’altro tempo dentro quel portabagagli durante il
viaggio di ritorno a Roma. Dopo altre due ore di viaggio si ripete la stessa storia di prima:
annuncio del pilota, aereo che atterra, passeggeri che scendono. Questa volta me ne vado anch’io e
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una volta sceso percorro a piedi tutta la strada dall’aeroporto fino a via Ambrogio Fusinieri, dove
abito io.
Arrivo a casa verso le dieci di sera e quando busso alla porta, mi apre mia madre che,
arrabbiatissima, mi dice : “Leo! perché sei arrivato così tardi?! Saresti dovuto essere a casa per le
otto! Che hai fatto a casa di Matteo fino a quest’ora?”
Io, dispiaciuto e imbarazzato, le rispondo: “Non sono andato a casa di Matteo, ho provato ad
andare a quel paese, ma non sono riuscito ad arrivarci”. Lei mi guarda come se fossi la persona più
idiota del pianeta:
“Che cosa hai fatto?! Ma Quelpaese non è una città! "Vai a quel paese" è un modo di dire che
usano le persone per dirti che stai rompendo loro le scatole e che devi andartene, o qualcosa del
genere! Comunque ora non voglio più sapere niente. Vai subito a dormire!” Io corro subito a letto
pieno di imbarazzo e mentre sono sdraiato penso a quello che posso aver imparato da questa
esperienza: sicuramente che dovrò studiare meglio la geografia, ma soprattutto che sono un vero
cretino!
Leonardo Urbani, TerzaB, 2012-13
Allo Specchio
La mattina era gelata, le imposte serrate e la solita e bagnata rugiada accarezzava il prato. Era la
classica rappresentazione del mio quartiere all’alba: freddo, solitario, coperto da una fitta nebbia e
immerso nel più totale letargo. I miei “fantastici” incubi erano appena finiti, quando sentii il
suono di quella maledetta sveglia. Pensai: “E' un nuovo giorno, magari oggi potrebbe essere il tuo
giorno fortunato.” Poi ci pensai meglio e mi dissi: “Il mio giorno fortunato? No, non credo: ogni
volta che sono felice me ne pento, perché ogni volta c’è subito dopo un tranello".
Ieri mattina il mio incontro allo specchio è stato pauroso; no, non per quello che pensate voi,
perché magari mi sono spaventata di fronte alle mie occhiaie, ma perché ………. insomma
……… è successa una cosa terribile!
Mi stavo lavando i denti, quando allo specchio non vidi me stessa, ma un’altra persona. Lei era,
beh, diversa: aveva un taglio di capelli molto corto, come quello di Andrey Hepburn, la mia diva
preferita; poi un vestito monospalla molto elegante e beige, e delle scarpe molto sofisticate; mi
colpì molto però una pelliccia finta legata alle spalle: proprio come una diva di Hollywood!
Lo so, in questa parte non sono proprio modesta, anzi: mi comporto proprio come una diva, che
chiede troppo e non si vergogna di quello che desidera, e se chiede, ottiene.
“Ahhhhh !!!!!!” il mio urlo fece svegliare tutto il vicinato, ma avevo ragione: la mia immagine si
era appena catapultata fuori dallo specchio mettendosi a truccarsi. Le chiesi spaventata: “Chi
diavolo sei tu ?!?”. Mi rispose con noncuranza: ”Sono la tua parte nascosta, il tuo opposto
caratteriale ma con tutte le tue capacità e conoscenze. Ora sei contenta?”. “No che non lo sono! E
poi, scusa, non potevi magari apparirmi in sogno? Sono sicura che oggi mi farai cacciare in un
sacco di guai! Ma, aspetta, mi devi venire sempre dietro?”.
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
Lei rispose: “Si, certo: io sono te! Dove tu vai io vado. Ora andiamo a scuola. Se non sbaglio, oggi
ci sono le audizioni per il musical della scuola. Non me lo posso proprio perdere!” Mentre disse ciò
schioccò le dita proprio come una persona famosa chiama il cameriere: una cosa che non farei mai
nella mia personalità esterna. Poco prima dell’audizione mi sentivo morire anche perché non sono
molto sicura di me stessa, anche se la mia lo è troppo, e anche se tutti mi dicono che canto
benissimo, forse anche troppo! La sosia disse: “Sei agitata! Non devi: se vuoi canto io! Tanto
abbiamo la stessa voce”. Poi pensai tra me e me: “Magari …… sì, tanto lei è sicura di sé e mi può
aiutare”. Risposi: “Va bene, ma ti prego. comportati bene”.
La Laura numero due entrò nell’aula e cantò per più di mezz’ora brani su brani … avevo paura
che crollassero le pareti … quando la vidi ritornare, mi presentai davanti a lei e, con un sorriso
beffardo, mi disse: ”Tranquilla: è andata bene!”
Mi precipitai in bagno per asciugarmi le lacrime di commozione, quando una folla di ragazze
varcò la soglia della porta e mi spinse fino all’angolo del bagno; mi domandarono in coro
continuamente: “Come hai fatto? Hai barato? “ Poi le loro urla si accentuarono quasi a diventare
dei lamenti: la mia doppia personalità stava sconfiggendo a suon di insulti le mie assalitrici.
Secondo me infatti un insulto fa più male di un dolore fisico! Dopo averle stese tutte, Laura due
mi disse: “Hai capito? E’ giusto essere come te, ma almeno una piccola dose della mia autostima fa
bene”. All’improvviso mi prese la mano ed entrammo nello specchio, catapultate nel bagno di casa
mia, consapevole che una persona giusta vive senza vanità, ma anche che la fiducia in sè stessi a
volte serve.
Laura Loffredo, Terza B, 2012-13
La Ribellione
Cenere. Macerie. Resti umani.
Sono queste le uniche cose che vedo davanti a me, mentre sono seduto su quello che sembra il resto
della fornace di un fabbro.
Ho il corpo irrigidito dal freddo, ma non è questo che mi blocca; forse nemmeno io ne conosco la
causa..
Follia.
Semplice follia.
Secondo me è questa l' unica cosa che si possa trovare nella testa di quell’ uomo che ha
schiavizzato tutto il pianeta. E’ quasi paradossale che per colpa della Terza guerra mondiale non
si sappia cosa ci fosse prima di noi; tuttavia ho sentito dire da qualche parte (non ricordo dove) che
questa politica esisteva già: la chiamavano regime del terrore, ovvero chiunque fosse considerato
ostile veniva immediatamente ucciso.
Mi alzo, anche se con la slogatura al piede non è facile, e mi incammino verso il luogo della
riunione di guerra.
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Colle…ghiamoci, numero 3, febbraio-marzo 2015
Dopo circa due ore di cammino inizio a vedere il fumo di un fuoco tra gli alberi e un vociare molto
acceso arriva alle mie orecchie.
-OH, eccoti; com' è che ci hai messo tanto? – dice Vatius, il capo della fazione ribelle.
-Una slogatura- dico, indicando il piede gonfio.
-Beh, direi che il Consiglio può iniziare. Allora, questa è la nostra situazione: lo scorso attacco ha
causato 2 morti e 6 feriti, tuttavia siamo riusciti a espugnare la loro fortezza e..
– Cos’ abbiamo nell’ arsenale? – chiedo io.
– Ecco, abbiamo ancora 276 fucili carichi, dieci dozzine di granate varie, una ventina di missili a
ricerca di calore e 5 teleguidati.
-Senza contare quello che abbiamo recuperato dalla fortezza-risponde uno dei ribelli specializzato
in attacchi informatici.
– Cosa! Mi vorreste dire che abbiamo sprecato metà del nostro arsenale, solo per conquistare un
avamposto di periferia!?
-Si, ma …. Cerca di controbattere Vatius
-Dobbiamo elaborare una strategia, scegliere il momento giusto per attuarla.. Non sparare a
qualsiasi cosa si muova! – Non appena finisco di parlare me ne vado via nero di rabbia.
Mi sto allenando al lancio dei coltelli quando sento una mano afferrarmi la spalla, e dato che il
mio nervosismo è alle stelle, mi volto di scatto e sto per puntare il coltello alla gola a chiunque mi
stia dietro, quando mi accorgo che è Fince, solo il mio caro amico Fince.
-Ti hanno mandato qui perché sperano che mi calmi, vero?
- Ma so già quale sarà la risposta. Beh, sai com' è: insomma Mikos, ci conosciamo da quando
abbiamo quattro anni. Qualcosa di te saprò no?
Starei quasi per rispondergli sarcasticamente quando vedo Jambe de Bois, lo zoppo che si occupa
dei feriti, correre a perdifiato con il terrore impresso negli occhi e intento a farfugliare qualcosa.
Io lo fermo, gli faccio riprendere fiato, e poi chiedo un po’ esitante cosa stia succedendo.
Lui, che sembra davvero stravolto, mi risponde con voce tremula: – Hanno mandato una flotta di
aerei, e se il radar non si sbaglia, sono caricati con testata nucleare.
Non serve altro.
Avviso Fince, perché Jamba de Bois non è in condizione di comunicare,e da solo non riesco a
portarlo; e poi iniziamo a correre più lontano possibile mentre tutti sono nel panico (anche se la
mia slogatura non è di aiuto).
Cade la prima bomba.
In un millesimo di secondo l' esplosione ci raggiunge,e qualche attimo prima di essere spazzato via
dall’onda d’ urto della stessa, mi concedo il lusso di chiudere gli occhi.
Ma proprio in quel momento un pensiero si insinua in me: io non ero nemmeno nato quando erano
state usate bombe atomiche prima di adesso; l' ultima volta era accaduto settant’anni addietro,
quando i ribelli stavano per vincere.
Questo vuol dire una cosa sola: siamo riusciti a smuovere nell’anima del dittatore qualcosa che gli
ha suscitato grande paura, fino al punto di optare per la soluzione più drastica.
E’ arrivata la mia ora, ma morirò felice perché siamo riusciti a stampare il marchio dei ribelli nella
mente contorta di quel tiranno.
Follia.
Semplice Follia.
Edoardo Chen classe terza B, Anno scolastico 2012-2013
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