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Università degli studi di Padova Dipartimento Scienze dell’Antichità XII Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medioevo ARCHEOLOGIA DELLE STRUTTURE SOCIALI NELL’ITALIA ALTOMEDIEVALE (V- IX SECOLO) ABSTRACTS 29 settembre – 1 ottobre 2005 Padova – Palazzo del Bo (Aula Nievo) b. cominciare a proporre nuovi ambiti e nuove piste sia di analisi sia di interpretazione, per studiare l’organizzazione sociale non solo nei manufatti, ma anche nella gerarchizzazione degli spazi (quali i “paesaggi di potere”) e nelle relazioni, fecondamente utilizzati da antropologi e da archeologi preistorici; c. indagare le “mappe mentali” dell’uomo altomedievale, il suo punto di vista nella definizione dei simboli e dei ruoli sociali: un pattern psicologico-mentale, un’attitudine di vita con sovrastrutture ideologiche che cambiano lentamente, mentre, ad un livello inferiore, i modi di produzione, gli stili degli oggetti mutano più rapidamente (Daim 1999, pp. 79-80). Introduzione al convegno Aspetti sociali dell’altomedioevo attraverso l’archeologia Gian Pietro Brogiolo 1. Premessa 1.1. Nell’archeologia medievale italiana, a. i dati sono nella maggior parte dei casi il prodotto di interventi di emergenza, il che non significa che dobbiamo rifiutarli, ma che vanno valutati e calibrati prima di inserirli nella catena documentaria utilizzabile per proporre interpretazioni più generali e modelli storiografici; b. anche nelle ricerche programmate, la raccolta dei dati è standardizzata e non sempre finalizzata ad affrontare specifici problemi storiografici (ad es. i simboli e i significati sociali recuperabili attraverso gli studi sulle sepolture, sulle architetture, sulla gestione delle risorse alimentari ecc.); c. nella maggior parte dei casi, i pochi accenni agli aspetti sociali sono frutto di osservazioni per le più empiriche, disancorate dai modelli teorici costruiti dalla sociologia e dall’antropologia culturale sulla base delle osservazioni sulle comunità attuali. 1.3. È peraltro necessario essere consapevoli che: a. I resti archeologici sono pieni di codici, con un gran numero di informazioni sulla società, sulla sua evoluzione, sui suoi valori e sui modi di percepirli. Per cui occorre abbandonare i modelli semplicistici, consci della complessità e della mutevolezza della società umana, anche se i gruppi di valore ricavabili dai dati archeologici rischiano di essere tanto numerosi quanto i criteri applicati ed è forse impossibile sviluppare metodi oggettivi di indagine. E ancor più complicato è collocare questi valori nell’evoluzione delle mediazioni di potere (come capacità di stabilire le regole del gioco) tra chi produce (ed esprime capacità tecnologia e organizzativa) e chi consuma (ha cioè accesso alle risorse) in rapporto alla sua posizione nelle differente classi sociali (la Chiesa, l’esercito, i funzionari, i contadini, i proprietari), stabilendo a priori quali oggetti hanno un significato di 1.2. Obiettivo di questo convegno è di mettere a confronto le interpretazioni (e i modelli) sinora costruiti in Italia con le tendenze attive in Europa (tramite alcune relazioni e le introduzioni alle singole sezioni), allo scopo di: a. verificare le potenzialità e i limiti dei percorsi sinora intrapresi; 2 quando occupava la cattedra vescovile, per ottenere il permesso di praticare l’eremitismo in terra bresciana. La leggenda, riscritta probabilmente nell’XI secolo dai monaci dell’abbazia di Leno nel momento dell’affermazione della loro presenza nella Riviera benacense, in concorrenza con altri importanti monasteri quali Santa Giulia di Brescia e San Pietro in monte Ursino di Serle (Ibsen 2002), non ci dice nulla del valore ideologico e della ricaduta sociale di questa esperienza. E nulla ricaviamo dal dato materiale, anche perché la chiesa che ospitò la sua sepoltura ai piedi della grotta è stata distrutta nel secolo scorso. distinzione sociale per l’uomo altomedievale, presupponendo che ve ne fossero tanti quanti ve ne sono oggi; b. anche nel caso dei simboli che si sono espressi attraverso oggetti, l’archeologia ha un limite ben preciso: documenta solo ciò che si è conservato. Raramente, ad esempio nel caso delle sepolture, è in grado di recuperare i vestiti (qualche eccezione, come nei cimiteri egiziani: ad es. la tunica funeraria del cimitero di Antinoe con rappresentazione di Daniele fra i leoni: Ant. Tard., 12, 2004) o le cerimonie funebri (delle quali rimangono per lo più solo resti di cibo). Vestiti e cerimonie sono molto meglio documentati nelle raffigurazioni delle catacombe romane e napoletane (Martorelli 2000, 2004); c. non sempre un ruolo sociale, anche rilevante, si esprime attraverso simboli materiali verificabili archeologicamente, come confermano i casi dei santi eremiti, il cui ruolo non è testimoniato dagli oggetti materiali ma dall’aura di santità che li circondava e di cui parlano le fonti scritte. Per avere un’idea di quale fosse il ruolo sociale dei santi eremiti tra VI e VII secolo, e come tale ruolo venisse costruito consapevolmente in una Vita, attraverso delle testimonianze e producesse, a sua volta, simboli ideologici e materiali, dobbiamo rivolgerci altrove, ad esempio alla vita di Emiliano (473-574), eremita spagnolo, studiata da Santiago Castellanos (1998). Autore della Vita è Braulio, figlio del vescovo Gregorio, fratello del vescovo Giovanni e dell’abate Fronimiano e a sua volta vescovo di Saragozza tra 631 e 651: un bell’esempio di famiglia che si è ritagliata un importante ruolo sociale. La sua fonte è la tradizione orale testimoniata da quattro personaggi (Cotonato, Sofronio, Geronzio e Potamia). La Vita racconta di come Emiliano attirasse multitudines, in quanto incarnava la tradizione escatologica neotestamentaria, e creasse consenso sociale per le sue capacità taumaturgiche e per la sua autorità morale di uomo santo: a lui si rivolgevano senatores, artifices, servi, appartenenti a diverse categorie sociali nella vita reale, ma unanimi di fronte alla figura del santo. La vita, letta nella messa commemorativa in occasione della festività del santo, è uno dei simboli che ne perpetuano le virtù e producono il consenso sociale; ma ad essa si aggiunge ben presto il simbolo materiale: la fondazione del monastero di 2. Simboli ideali e materiale 2.1 Simboli ideali Sulle sponde occidentali del lago di Garda, dalla fine degli anni ‘90 stiamo studiando alcune grotte abitate a partire dall’età altomedievale: una (San Giorgio) con più celle e una chiesa ricavata in un anfratto nella roccia; quattro frequentate per un breve periodo, in un arco cronologico che il C14 e le ceramiche fissano tra metà VI e metà VII e che non è chiaro né perché né quando siano state denominate “covoli delle streghe”; altre due, infine, che la tradizione locale attribuisce, rispettivamente, a sant’Ercolano, vescovo bresciano vissuto poco dopo la metà del VI secolo, e al suo discepolo. Secondo la leggenda, formatasi nel nucleo più antico entro il VII secolo, il presule si sarebbe ritirato in una grotta seguendo l’esempio di un diacono di Costantinopoli che a lui si era rivolto, 3 longobarda almeno fino alla fine del VII secolo. Il solo vescovo di rilievo in quel lungo primo secolo dopo la conquista è Barbato di Benevento, ricordato per aver combattuto il paganesimo degli invasori. Solo tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII riemergeranno vescovi in grado di costruirsi un’aura di prestigio, utilizzando i consueti strumenti di autorappresentazione, come Damiano di Pavia, morto nel 711 e celebrato nell’iscrizione funeraria (Panazza 1953, n. 61, pp. 252-53) per aver restaurato la chiesa di San Nazario e Celso e costruito le terme e l'episcopio. Ma senza il conforto della fonte scritta, questi significati emergono raramente dal dato materiale, al pari di tutte le cerimonie che, lungo la vita di un individuo, servivano a rappresentare un rango: il battesimo (Adaloaldo a Monza), il matrimonio, le ricorrenze religiose con le processioni alle quali i fedeli partecipavano con i simboli del loro status (vedi ingresso di reliquie nel rilievo con la famiglia imperiale nel circo di Costantinopoli, le processioni ad Arles e a Merida), o le riunioni annuali dell’esercito presso il cimitero di Santa Maria alle Pertiche di Pavia. San Millian della Cogolla sulla grotta dell’eremitaggio. Questo esempio rende espliciti tutti gli ingredienti che servono a ricostruire ideologicamente la vita di un santo secondo la tradizione agiografica tardoantica, plasmata dalle aristocrazie tramite un progetto che manipolava la realtà con uno specifico fine sociale: il controllo dei loca sacra, che rappresentavano una speranza per i gruppi meno favorevoli, suggerivano l’eliminazione delle barriere tra mondo terreno e mondo celeste e creavano una unanimitas sociale, base del potere per l’aristocrazia (ecclesiastica e laica). Sia le grotte degli eremiti sia le cattedrali dei vescovi testimoniano come nell’Occidente la Chiesa abbia giocato un ruolo fondamentale nella stabilizzazione del potere e della struttura sociale, in una società, come quella altomedievale, ad alta mobilità (di insediamento, di gruppo, di livello sociale). Ruolo che peraltro non va esagerato, sminuendo il ruolo delle alte gerarchie laiche. Non è casuale che la produzione di simboli sia sovente legata alle fasi di contrasto o di forte tensione politica nel momento in cui si propongono o si affermano nuovi poteri. Come nelle opere di Ennodio di Pavia al tempo del dominio di Teodorico, o di Sabino, Eufrasio e di Massimiano, vescovi rispettivamente di Canosa, Parenzo e Ravenna durante la guerra greco-gotica, schierati a fianco dei vincitori Bizantini o di Callisto e Paolino, vescovi di Cividale, rispettivamente al momento del contrasto al vertice del potere tardolongobardo e dell’affermazione dei Carolingi. 2.2. Simboli materiali Compito degli archeologi, anche in assenza di fonti scritte, è di decodificare il significato degli oggetti nel contesto di rinvenimento, avendo come guida gli studi antropologici che ci suggeriscono come i modelli di rappresentazione abbiano lo scopo di stabilizzare la società dai livelli più generali (come nel caso dei simboli religiosi usati per costruire una unanimitas ideologica, sui quali mi sono soffermato poc’anzi) a quelli che attengono allo status dell’individuo e della sua famiglia. Simboli, questi ultimi, che servono a marcare la propria appartenenza e, per converso, a distinguersi da altri individui e gruppi: ad esempio le armi, particolari tipi di gioielli, certi materiali o vestiti restituiti dalle sepolture testimoniano una distinzione, Esempi che dimostrano come per costruire una forte immagine siano necessari uno stretto rapporto, anche dialettico, con l’autorità civile, un impegno evergetico e il dominio dei mezzi di comunicazione (i sermoni e le epistole, le epigrafi, le Vite). Ingredienti che mancano nell’Italia 4 contatto tra pubblico e privato” (Augenti a proposito dell’edilizia residenziale di Roma e Ravenna a partire dal VII-VIIII secolo). Il luogo delle relazioni sociali si sposta in tal modo dalle aule di rappresentanza interna, alle quali si perveniva attraverso percorsi gerarchici dall’atrio al peristilio, ad un ambiente aperto all’osservazione del pubblico. Il che non significa, probabilmente, un allentamento delle barriere tra le diversi classi sociali, ma forse, in periodo di maggior instabilità sociale, il desiderio di mostrare più frequentemente il proprio rango ad un pubblico più ampio possibile. Analogamente le residenza aristocratiche dei grandi proprietari romani dell’VIII-IX secolo (Santangeli Valenzani 2004) si articolano in edifici intervallati da spazi aperti, come nella curtis di Largo Argentina con domus, stalle e chiesa disposti su una superficie di 5000 mq, o nella residenza carolingia di 190 mq (10 x 19 m) del foro di Nerva, addossata al muro di fondo del foro e provvista di portico, scala esterna, stalle e magazzini. Case costruite con blocchi di peperino di recupero e con tecniche costruttive che caratterizzano anche le chiese coeve, a testimoniare il ricorso alle medesime maestranze e risorse materiali, oltre che disponibilità di denaro, di artigiani specializzati, di materiale da costruzione. Agevolazioni, riservate alle aristocrazie, che ritroviamo, in area longobarda, anche nel Memoratorium de magistris commacinis. sulla quale tornerò più avanti, che presuppone sempre un rapporto dell’individuo o di un gruppo familiare o di un gruppo sociale con differenti livelli della società. E dunque le domande che ci dobbiamo porre sono: a quale segmento sociale è intenzionalmente, o inconsapevolmente, rivolta l’esibizione? A quale audience, privata, familiare, di gruppo o di gens si rivolge? Ad esempio l’abbigliamento personale (per il quale si rimanda a Ant. Tard. 12, 2004) e la residenza privata attengono, in prima istanza, al ruolo dell’individuo e del suo gruppo familiare allargato, ma il loro raggio di penetrazione sociale è ben diverso a seconda del rango: la residenza e l’abbigliamento di un duca (come Arechi II nel palazzo Salerno) avevano un’audience più ampia rispetto a quella di un piccolo proprietario (ad esempio il longobardo di Mombello Monferrato, sepolto con un corredo di armi). E pur entrambi utilizzavano codici di distinzione sociale. Almeno quattro sono i principali ambiti nei quali l’archeologo può intervenire: (1) le residenze, (2) l’alimentazione e l’accesso alle risorse, (3) il rito funerario, dal quale si ricavano informazioni anche sull’abbigliamento e sugli ornamenti personali, (4) i luoghi di culto. (1) Le residenze Le ville e le domus delle aristocrazie tardoantiche erano grandiose, con percorsi e gerarchie degli ambienti che si sviluppavano all’interno di edifici nettamente delimitati rispetto agli spazi circostanti, a testimoniare una rigida separatezza delle élites rispetto alle altre classi sociali, non diversa da quella che palesano i palazzi rinascimentali. Un simile pattern distributivo testimoniano gli edifici rurali coevi, come quelli della fase curtense dei castelli toscani, dove accanto ad un’area difesa da fossato (Miranduolo) o palizzata (Montarrenti), sono attestati un edificio di maggior dimensione (la longhouse di Poggibonsi, le grandi capanne di Scarlino e Miranduolo) accanto ad abitazioni minori, magazzini, granai, cortili, stalle e recinti, zone per lavorazioni artigianali. Nell’altomedioevo il portico che nell’età classica era riservato ai monumenti e agli spazi pubblici, in primis al foro, assume un ruolo rilevante anche nelle abitazioni private come spazio di “estensione e di 5 Verona dell’VIII secolo la presenza di anfore provenienti dal territorio bizantino, non ha probabilmente riscontro, in quel secolo, in un ambito rurale. E occorre anche chiedersi se questa disponibilità fosse di tutti i giorni o riservata alle occasioni importanti (quali battesimi, matrimoni, funerali e ricorrenze religiose) come ancora avveniva nelle società contadine del secolo scorso. Cerimonie alle quali potevano talora accedere anche le comunità, per espressa volontà del defunto, nel caso delle distribuzioni di cibo confermate da legati testamentari, o per tradizioni, come ancor oggi avviene nelle cerimonie del battesimo della Chiesa ortodossa. Momenti dunque di socializzazione che coinvolgevano l’intera comunità. Bisognerà attendere i villaggi di IX-X secolo, quali quelli di Piadena e Sant’Agata bolognese, per trovare un’edilizia più compatta, con edifici urbanisticamente organizzati, mentre la residenza signorile si colloca in un luogo separato (la motta a Sant’Agata). (2) L’alimentazione La differente distribuzione dei resti alimentari tra un edificio e l’altro del medesimo insediamento viene interpretata come una distinzione di rango e ricchezza che si traduce in un differente accesso alle risorse. Nel caso del castello di V-VI secolo di Monte Barro, lo studio dei resti zoarcheologici e paleobotanici ha suggerito che l’insediamento si approvvigionasse nell’area circostante, forse attraverso il pagamento di tasse come sembra suggerire una pratica testimoniata dal Codex Thedosianus. Mentre al suo interno chi abitava nell’ala privilegiata del palazzetto, che una corona pensile fa ritenere fosse il capo dell’insediamento, aveva, oltre che una dieta più variata e più ricca di carne, una maggiore disponibilità e varietà di oggetti di arredo. (3) Il rito funerario tra privato e pubblico Le necropoli costituiscono il campo d’azione privilegiato e più approfonditamente analizzato da chi si è proposto di ricavare interpretazioni sociali dalla cultura materiale, percorso quantomai complesso, nel quale occorre abbandonare le interpretazioni semplicistiche, sia di stampo etnico sia sociali. Siamo passati negli ultimi decenni (e in Italia con indubbi attardamenti) dalla “culture history” (corredi di sepolture come identità etnica) alle sepolture come espressione del rango del defunto, per approdare ora ad una interpretazione del funerale come momento di rinnovate e periodiche mediazioni sociali che avvengono localmente. Negli insediamenti d’altura toscani, il variare dell’alimentazione ha suggerito cambiamenti di ordine sociale e il manifestarsi di una gerarchizzazione come nel caso della fase curtense di Poggibonsi, dove il dominus avrebbe provveduto a distribuire la carne, con qualità e quantità via via inferiori, sulla base del ruolo dei dipendenti e dei collaboratori (Valenti 2004). Come altre cerimonie simboliche che segnano i più importanti passaggi della vita (il dono delle armi per entrare nell’età adulta, l’ornamentazione con gioielli delle giovani ad opera delle madri; il taglio dei capelli) il rituale funerario costituisce un momento di socializzazione (con la distribuzione di cibo e lo scambio di doni tra un funerale e l’altro) e di conservazione dello status sociale, soprattutto in occasione di una morte immatura di un adulto maturo, prima che il suo erede Se da un lato è evidente che il controllo della produzioni determina un rango di ricchezza e potere, occorre peraltro chiedersi quale fosse il reale significato di queste differenziazioni nei differenti contesti. La maggior disponibilità e varietà di cibo, celebrata nel Versus de Mediolano civitate del 739, che significa un’apertura a mercati anche lontani come conferma nella 6 testimonia una stabilità sociale di un gruppo radicato localmente; (2) nella proprietà del cimitero: (a) privata (di una singola famiglia, di alcune famiglie, di un gruppo sociale ristretto), (b) pubblica (di una comunità, di una chiesa); (3) nella struttura dei cimiteri e nel significato delle distinzioni che si possono leggere: le tombe dei fondatori, la posizione delle donne rispetto a quelle dei maschi e dei bambini (perché ad esempio a Collegno, come in altre necropoli longobarde, una netta maggioranza di maschi adulti? dove erano sepolti donne e bambini?); (4) nei differenti oggetti che possiamo ritrovare in una tomba, pertinenti all’abbigliamento, al rituale (in prevalenza contenitori di cibo e doni), al gruppo che partecipava al funerale; (5) nei caratteri antropologici, palepatologici e nella dieta degli inumati (si vedano le sepolture con alterazione artificiale del cranio rinvenute a Herdonia (Foggia) e Avicenna (Campobasso) e riferite ad uno specifico gruppo etnicoculturale; altre che presentano un’evoluzione della dieta tra VII e VIII secolo, come a Collegno, altre che mostrano peculiarità patologiche che indicano una recente immigrazione, come a Quingentole): aspetti sui quali è necessario che discutano in primo luogo antropologi fisici e paleopatologi e, una volta chiarita l’attendibilità di queste interpretazione, ne diano un’interpre-tazione plausibile anche storici ed archeologi. avesse rinsaldato la sua posizione nella società, di una giovane donna sposata (magari con prole) che metteva in crisi i rapporti tra due famiglie, di un giovane adulto, guerriero e potenziale erede (Halsall 1998, pp. 332-33). Ma una tomba (struttura e contenuto, ideologicamente e deliberatamente predisposti) va vista in rapporto con un rituale, che non è necessariamente il riflesso della gerarchia di una determinata società (Haerke 2001, p. 94) “and without an understanding of their mechanisms the result (the burial) cannot be interpreted” (Daim 1999). È piuttosto il risultato delle credenze religiose (l’individuo dopo la morte, nella società e nella famiglia), delle idee del morto, dei suoi desideri e della sua autopercezione, delle idee della famiglia e della società attorno a lui: il funerale come dimostrazione della ricchezza e dell’influenza degli eredi. Alcuni elementi del rito hanno vita lunga e areale sovraregionale (ma con influenza diversa da zona a zona), altri sono espressione del gruppo locale (e pure possono persistere a lungo) o anche del singolo individuo (Daim 1999, p. 88). Il quadro è particolarmente complesso per la coesistenza di differenti modelli: (1) nella ubicazione della sepoltura: (a) di un singolo individuo presso una residenza (un capo: l’ignoto personaggio sepolto sotto la scala del palazzetto di Monte Barro, il re Alboino sotto la scala del palazzo di Verona, il cosiddetto Gisulfo nel palazzo di Cividale) o di un gruppo famigliare (a Brescia, Trento e in altre città); (b) in campo aperto in un cimitero a file, come negli esempi di Sacca di Goito con quattro necropoli dal 400 al VII secolo, con corredi che vanno dalla cultura di Cerniakov a quella longobarda del pieno VII secolo; (c) in un mausoleo nei pressi di una chiesa battesimale, come a Garlate Santo Stefano, con una continuità di utilizzo dalla metà del V al VII secolo che Differenze, occorre ribadire, che non dipendono da una linea evolutiva da un modello all’altro, ma da una compresenza di gruppi con differenti ideologie, riti funerari, status sociale, che testimonia della complessità del periodo che va dal VI al VII secolo. (4) I luoghi di culto Mi sono già soffermato nel paragrafo 2 sui modi della costruzione ideologica dei simboli collegato ad un luogo di culto. 7 nelle cripte, assicurando in tal modo l’attenzione dei fedeli per i nuovi edifici. La celebrazione dell’impresa evergetica è affidata al testo epigrafico: scolpito in marmo o tracciato sugli affreschi, serve a tramandare ai posteri l’impresa costruttiva, come nelle iscrizioni scolpite nel marmo e con lettere di bronzo, del San Pietro a Corte nel palazzo di Arechi II a Salerno, composta da Paolo Diacono con lettere in bronzo e del San Vincenzo Maggiore a San Vincenzo al Volturno (Quaeque vides ospes pendencia celsa vel ima / Vir Domini Iosue struxit cum fratribus suis), come in quelle che accompagnavano gli affreschi del San Salvatore di Brescia, che io credo siano dell’età di Desiderio al pari dello straordinario testo composto da Paolo Diacono, previsto per la tomba di Ansa e che riassumeva il disegno politico di Desiderio nel momento del suo massimo fulgore; c. i valori simbolici espressi da un luogo di culto possono cambiare nel tempo; i luoghi di culto hanno infatti la peculiarità della lunga durata: alle origini esprimono il rango e le convinzioni di chi li ha costruiti, ma poi di chi le utilizza generazione dopo generazione. Contengono dunque una sequenza di simboli sociali che va stratigraficamente distinta e interpretativamente decodificata. Ad esempio, parte dei simboli disseminati da Ansa e Desiderio nel San Salvatore di Brescia vengono recuperati, centocinquant’anni dopo, da Berengario per la costruzione di un mito (quello di Ansa legato al recupero delle reliquie di S. Giulia), volto a valorizzare la tradizione longobarda ancor viva nel territorio centro padano dove era la base del suo potere; d. più che in altri contesti storici, le chiese altomedievali esprimono forti significati simbolici; non si limitano a riflettere la società del loro tempo; ma, in un clima di forte competizione politica e sociale, vengono deliberatamente costruite per creare consenso e rafforzare il potere del fondatore. Aggiungo ora altre osservazioni per quello che appare come un concentrato di valori simbolici e sociali: a. i luoghi di culto assumono valori differenti se sono realizzati da un possessore con un ambito di relazioni locali, come nel caso di San Zenone di Campione, o da una comunità, i cui termini di riferimento sono costituiti dai villaggi vicini, o se invece sono stati fondati da un’autorità superiore con un orizzonte di potere ben più ampio, come nel caso del San Giovanni di Monza che non aveva forse, al momento della sua costruzione, il significato di luogo di culto nazionale dei Longobardi che gli attribuisce Paolo Diacono, ma che plausibilmente Teodolinda aveva eretto come chiesa dinastica, ad imitazione di quanto avevano fatto i re dei Franchi; b. i segni del potere (e del privilegio) si manifestano: (1) nella disponibilità di materiali provenienti da edifici pubblici e nella capacità (al contempo, tecnica e politica) di spostarli anche a grande distanza, come fecero Liutprando con le colonne romane destinate alla chiesa del suo palazzo di Corteolona, Desiderio e Carlomagno con i materiali architettonici antichi provenienti da Ravenna, l’imprecisato committente della cappella di San Zeno nella corte regia di Meleto a Bardolino, la nobile famiglia Wanga nella chiesa di San Pietro di Quarazze (entrambe di IX secolo); (2) nel controllo di maestranze specializzate (dai magistri commacini di età longobarda a quelli che operano nelle costruzioni carolingie ed ottoniane) in grado di proporre architetture innovative sia per le piante, sia per le soluzioni tecnologiche che comprendono la produzione di laterizi, la lavorazione della pietra, non sempre di riutilizzo, ma talora recuperata ex novo da una cava, artifici costruttivi per la realizzazione di volte, colonnati, cripte, capacità di decorare gli edifici con mosaici e affreschi; (3) nella capacità politica di ottenere reliquie da collocare negli altari e 8 capacità di attrarre fedeli, commisurata al numero e all’importanza delle reliquie dei santi che vi erano conservate. Disegnavano una topografia del culto intrecciata e sovrapposta a quella istituzionale, che sarebbe interessante cominciare a dipanare. Nel ducato di Benevento, ad esempio, fino a pochi anni orsono vi erano itinerari processionali che univano luoghi di culto di origine altomedievale assai distanti tra loro. Sarebbe dunque limitativo fermarsi agli aspetti architettonici e liturgici, o indagarne esclusivamente il rapporto con l’insediamento circostante; occorre capire le chiese con gli occhi della cultura, delle ideologie e della mentalità dei personaggi che le hanno costruite. Individui che si trovarono al vertice della società e seppero interpretarne le aspettative, tessendo con le loro imprese evergetiche una fitta trama di relazioni segnata dalla sfera di influenza dei singoli luoghi di culto, spazi e contesti, più ideali che reali, che non coincidono con quelli ecclesiastici; bensì con gli orizzonti psicologici dell’uomo altomedievale. 3. Per una geografia del sociale Nel paragrafo precedente ho ricordato singole categorie di manufatti (le residenze, l’abbigliamento, le sepolture, le chiese) come espressione di simboli con significato sociale. Occorre ora esaminare come questi simboli si distribuissero nello spazio, per ricostruire una “geografia del sociale” tra tarda antichità e altomedioevo. Un tema questo non ancora affrontato dagli archeologi, al quale possiamo avvicinarci, iniziando a porci delle domande sulle quali lavorare nei prossimi anni: Come ha rimarcato Dick Harrison (1992, 2000), nell’altomedioevo gli spazi ideologicamente significativi non sono solo i luoghi “politici” (le sedi delle assemblee, come quella generale del regno che si teneva a Pavia presso il cimitero della Pertica, i fiumi e i confini), ma i più importanti sono quelli evocati dalle reliquie dei santi. Le chiese del Santo Sepolcro a Gerusalemme e di San Pietro a Roma avevano un bacino di audience esteso all’intera cristianità. Nella basilica di San Giovanni di Monza e nella rupe di San Michele sul Gargano si riconosceva, nell’VIII secolo, l’identità di un intero popolo, quello longobardo. La presa di coscienza di un’identità cittadina, tra VIII e IX secolo, come testimoniano i componimenti poetici dedicati a Milano (739) e Verona (attorno all’800), recuperando modelli ideologici della tarda antichità trovava dei saldi punti di riferimento nelle chiese urbane e suburbane ove erano venerate le reliquie dei santi, muro invisibile di protezione della città. a. qual era la composizione sociale dei diversi centri demici (una città, piuttosto che un castello, o in campagna tra insediamento sparso e agglomerati? Capire dove abitassero le differenti classi di contadini, possessores, funzionari è un tema chiave che va valutato caso per caso, anche se è prevalente, tra gli archeologi, l’idea che la città nell’altomedioevo fosse divenuta un prevalente centro di potere (laico ed ecclesiastico) con una scarsa presenza dei ceti medi. Che pure in alcune città le fonti scritte (a Ravenna nel VII come a Lucca nell’VIII secolo ad esempio) e quelle materiali (a Roma nell’VIII-IX secolo: case del Foro di Nerva, curtis di Piazza Argentina) attestano. Del resto risulta difficile pensare che le iscrizioni pubbliche, apposte sulle facciate dei Anche nelle campagne, oltre alle chiese plebane che con l’età carolingia si caricarono di prerogative istituzionali (Castagnetti 1976, Violante 1982), vi era una pluralità di oratori, monasteri, santuari, ciascuno con una propria distinta 9 strategie più generali che videro coinvolti i vertici delle gerarchie amministrative, politiche e religiose. Quelli fondati tra V e VI secolo in Italia settentrionale, quale sia stata lo loro origine (siano stati costruiti, per iniziativa delle aristocrazie locali come propria residenza o dallo Stato, per necessità, imminenti o preventive, di difesa), furono centri nei quali, tra VI e VII secolo, viveva un’élite (militare e civile) che disponeva di surplus ad un grado nettamente superiore rispetto a chi viveva in altri tipi di insediamento, come testimonia il rinvenimento di moneta (Arslan 2001a, 2001b, Rizzolli 2005): (1) gota, dagli inizi del VI al periodo della guerra greco-gotica, fino a Vitige (a Monte Barro, San Giovanni di Riva, Garda, Sant’Andrea di Loppio, San Martino di Lundo, Castel Beseno, Portolo-castrum Anagnis, Pergine), (2) bizantina del periodo della riconquista (Sant’Andrea di Loppio, Portolo-castrum Anagnis, Doss Trento), (3) bizantina o di imitazione longobarda degli inizi del VII secolo (San Martino di Campi, San Pietro in Val di Non). A questo periodo, e precisamente all’attacco franco bizantino del 590, è da riferire anche il tesoretto di Aldrans (5 solidi, 32 tremissi di Giustino II (565-578), Tiberio II (578-582) e di Maurizio Tiberio (582-682) e 32 conii longobardi). Oltre alle monete, nei castelli sono stati rinvenuti pesi monetali (Sant’Antonino di Perti, Castelseprio, Portolo ecc.) che servivano a controllarne il peso e prodotti di importazione, in particolare sigillate africane e anfore africane e orientali, che si ritiene siano state veicolate attraverso l’annona militare. monumenti ancora nel VII-VIII secolo (Sannazaro c.s.), avessero un’audience sociale limitata alla sola classe dirigente. Non solo quelle su edifici religiosi, rivolte ad un pubblico di fedeli, ma anche quelle su edifici civili, come a Roma l’iscrizione dedicatoria sulla base della colonna di Focas e a Terracina un’iscrizione bilingue, forse del 663, su due colonne del portico del foro, che ricorda la risistemazione della piazza ad opera di un Georgius consul et dux. Su edifici pubblici erano plausibilmente anche l’iscrizione di Ravenna con un decreto di Maurizio relativo all’acquedotto e quella di Porto Torres che celebra la vittoria del duca Costantino sulla flotta longobarda (la cui datazione oscilla tra VII o VIII secolo). Nel regno è invece di VIII secolo quella, di cui rimane il testo, di Liutprando per la fondazione di Cittanova. b. quali meccanismi e quali gruppi o autorità si fecero promotori dei cambiamenti nei modelli del popolamento tra V e X secolo? Un tema questo al centro del dibattito tra archeologi italiani, relativamente a due aspetti: l’origine dei castra e le modalità dell’accentramento della popolazione in villaggi: (1) la costruzione dei castelli, tra V e VI secolo è stata attribuita da alcuni studiosi (tra gli altri Bierbrauer e Settia) all’iniziativa delle aristocrazie locali, da altri (Brown, Murialdo, Arthur, il sottoscritto) prevalentemente allo Stato, che pur si avvaleva di risorse locali e di una compartecipazione delle aristocrazie rurali, almeno fin da quando Valentiniano III nel 440 aveva stabilito (Nov., 9) che i civili dovevano autodifendersi, prassi questa (si vedano le lettere di Cassiodoro per Verruca e Tortona), sovente coordinata dalle autorità religiose (Gregorio Magno, i vescovi di Aquileia nella fondazione di Grado ecc.). Nel Trentino-Alto Adige, ad una presenza aristocrazia sono da riferire anche le sepolture privilegiate di VII-VIII secolo, per corredo o per la deposizione in un mausoleo privato, in rapporto a castelli (Piedicastello, Vervò, Predonico, Tesino, Doss Trento) e a siti d’altura (Santi Cosma e Damiano di Settequerce, San Vigilio al Virgolo sopra Bolzano, San Vigilio (già Nei castelli si intrecciavano dinamiche sociali ed economiche locali, nel quadro di 10 prevalevano il pascolo a scapito della cerealicoltura intensiva. La medesima interpretazione è stata proposta per la Britannia da Faulkner 2000, ma rigettata da Ward Perkins (2005). Ritengo peraltro che questi modelli vadano verificati a livello regionale, nel quadro della rete gerarchica degli insediamenti (Brogiolo 2005), chiedendosi: Santa Barbara) di Castelfeder, chiesa inferiore di Sabiona) (Cavada 2004, p. 214). Appaiono dunque evidenti: (1) una dipendenza dai sussidi dello stato, (2) uno stretto rapporto con le vicende politico militari del VI secolo (nella guerra greco gotica e, dopo la riconquista, nel cinquantennio che vide lo scontro tra Longobardi, Bizantini e Franchi), (3) la presenza di élites che erano le sole a disporre di abbondante moneta di fresco conio, ricavata forse non solo dal pagamento di prestazioni ma anche da attività di scambio, come si è ipotizzato per il castello ligure di Sant’Antonino di Perti (Murialdo 2001). Si ritiene infatti che fosse una base per i commerci con l’entroterra longobardo, gestiti dallo Stato bizantino, ipotesi che in potrebbe estendere anche ad altri castra bizantini, come Comacchio che intratteneva ancora nell’VIII secolo regolari commerci con la pianura longobarda sulla base del noto trattato con Liutprando del 715. Ma per i castra di area longobarda è più plausibile che derivasse da rapporti con il territorio circostante dal quale ricavavano rendite e forse pagamenti per tasse, in una nuova gerarchia economica e sociale. Il che significa che, conclusa la fase militare dei castelli, vi abitava un’aristocrazia la cui base di ricchezza dipendeva dalle risorse delle campagne circostanti. c. quali interrelazioni (di natura sociale ed economica) esistevano tra i differenti centri demici? Se osserviamo la distribuzione delle principali necropoli longobarde rispetto alle città (Sovizzo a otto chilometri da Vicenza; Povegliano e Zevio ad una decina da Verona; Testona e Collegno ad altrettanti da Torino; in un raggio di una ventina di km quelle di Calvisano e Leno, rispetto a Brescia, e di Castelli Calepio e Fornovo San Giovanni rispetto a Bergamo) risulta evidente che si trovano a distanze che permettevano un regolare rapporto con il centro urbano, sia sociale sia economico. Rapporto testimoniato anche in territorio bizantino, dove la sopravvivenza dell’organizzazione agricola delle campagne attorno a Ravenna e Rimini appare in funzione dell’approvvigionamento della città. Napoli nell’altomedioevo diviene una città stato-emporio, anche per l’entroterra longobardo del ducato di Benevento: un central-place di tipo dendritico, situato in un angolo della regione, che controlla lo scambio di oggetti di prestigio (vestiti di porpora, oreficeria, libri e prodotti artigianali di qualità, e konw-how) e altri prodotti (legno, schiavi, vino, armi, lino) e mantiene un rapporto diretto con la campagna circostante (un’isola rispetto al collasso del territorio della Campania nel V secolo) dalla quale la Chiesa e le autorità civili e militari traggono le risorse, non (2) Per quanto riguarda le modalità dell’accentramento della popolazione, R. Francovich, R. Hodges (2003) e M. Valenti, sulla scia di C. Wickham 1981, hanno proposto, per la Toscana meridionale attorno alla metà del VI secolo, una fase definita “caotica” nella quale vengono meno rapporti sociali gerarchici e nelle campagne si aggira “ una massa di individui tendenzialmente liberi per brevissimo tempo” (Valenti 2004, p. 70) che prende l’iniziativa di vivere in agglomerati, per costituire una “massa biologica” di un centinaio di individui in grado di gestire un nuovo modello di sfruttamento delle risorse rurali, nel quale 11 La fine del sistema fiscale tardoantico, introdotto da Diocleziano e riscosso dai governatori provinciali attraverso le curie cittadine, nei territori longobardi significò, secondo i più (tra cui Wickhm 1984), la fine della tassazione fondiaria, in quelli bizantini il suo affidamento, entro la metà del VII, ai vescovi. Questi erano i soli che nell’Italia altomedievale avevano le competenze tecniche per censire le proprietà e registrarne i pagamenti. O quantomeno per un controllo sulla raccolta delle tasse, come emerge nella Hispania visigota, dove la legislazione e i concili assegnano loro un ruolo fondamentale nell’organizzazione fiscale del regno. Si veda a questo proposito il documento noto come De fisco barcinonensi del 592 (Vives, p. 54), che ci informa dettagliatamente su quanto dovessero sborsare i contribuenti per ogni modio (9 silique) e quanto spettasse ai vescovi, sia per la raccolta (1 siliqua) sia per convertire in denaro contante il pagamento che veniva effettuato in natura (4 silique). Per i vescovi “la difesa dei contribuenti di fronte agli eccessi dell’amministrazione imperiale e l’assunzione di responsabilità nel rifornimento annonario, si coniugavano perfettamente con i doveri pastorali di protezione degli umili e di sostentamento dei poveri” (Cosentino c.s.). Ma non solo, significava anche l’affermazione di vincoli sociali tra i proprietari della terra e il vescovo e dunque di rapporti economici e gerarchici tra la campagna (che produceva surplus) e la città (dove questo surplus veniva raccolto). Vincoli rafforzati dalla triplice identità del vescovo: pastore di anime, collettore di tasse per lo Stato, dispensatore di assistenza per i ceti più deboli. solo per il loro sostentamento (la Chiesa per mantenere i monasteri e fornire assistenza ai poveri; lo Stato dal VII sec. per distribuire, in cambio di servizi, terra in sostituzione di una paga), ma anche per produrre un certo surplus da commercializzare (Arthur 2002, p. 139) Il quadro che emerge in molti territori, allo stato della ricerca, sembra delineare una riorganizzazione del popolamento delle campagne in rapporto ad una nuova funzione economica e sociale delle città e all’affermarsi, come centri demici intermedi, dei grandi castra. Senza escludere che alcune aree marginali possano aver avuto evoluzioni simili a quelle della Toscana meridionale, numerose sono le evidenze che suggeriscono come i cambiamenti siano stati promossi e gestiti dalle autorità laiche coadiuvate, almeno in parte, da quelle ecclesiastiche, sostituitesi alle aristocrazie tardoantiche nel controllo dell’economia. In un quadro dunque accentuatamente gerarchico che legava le campagne a città e castelli. In un paesaggio di potere nel quale emergevano città di antica fondazione e castelli, le campagne appaiono, salvo casi di marginalità, gerarchicamente subordinate e la tendenza, soprattutto nei territori longobardi, ad una concentrazione dell’insediamento, accompagnata da un radicale cambiamento delle strutture abitative, cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, appare legata a nuovi modelli economici, se non imposti dall’alto, plausibilmente legati alle strategie insediative degli invasori, che, non dimentichiamolo, costituivano la nuova classe dirigente e alle strategie dell’impero bizantino, nelle quali ha una parte rilevante la fiscalità. 4. Conclusioni Tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, il teatro dell’eterna negoziazione tra gruppi e individui e ordine sociale che stabilisce il sistema dei valori e dei significati, cambia radicalmente: (a) nei modelli insediativi: da un rapporto città – campagna gestito dalle aristocrazie dei possessores che avevano residenza in d. quali le ricadute sociali delle differenti strategie (rispettivamente del regno longobardo e dei territori dell’impero bizantino) nella raccolta fiscale? 12 per smantellare un sistema complesso e sofisticato qual era quello romano e sostituirlo con un nuovo ordine, non solo più semplice ma al contempo fondato, con adattamenti e soluzioni locali, più sui rapporti personali (e sociali) che non su quelli pubblici. Un mondo al quale gli archeologi, e gli storici, devono guardare con una rinnovata epistemologia, rivisitando con nuove domande tutte le fonti disponibili, materiali e scritte. entrambe, ad una nuova gerarchia, nella quale si inseriscono i castelli; (b) nella fiscalità e nell’economia: da un’economia sofisticata e specializzata qual era quella romana, ad una più semplice e con orizzonti locali, che alcuni archeologi ritengono fosse tornata a livelli protostorici (Carandini 1993, Francovich, Hodges 2003), se non addirittura, in alcune regioni, all’età del Bronzo (Ward Perkins 2005); (c) negli individui: le città tardo antiche e altomedievali erano cosmopolite ancor più di quanto lo siano le moderne città occidentali: non solo quelle degli stati romani barbarici dove si erano insediati invasori ed immigrati, ma anche in quelle rimaste sotto l’Impero: ad esempio a Napoli abitavano Greci di varia provenienza, nord europei, compresi goti e longobardi, rifugiati dall’Africa conquistata dai Vandali, ebrei con una propria sinagoga, armeni testimoniati nel X secolo; un terzo dei documenti è stato scritto in latino, ma con caratteri greci (Arthur 2002, p. 23); (d) nei valori: dalle necessità di difesa, non solo delegate ai militari professionisti, ma anche con il coinvolgimento dei civili, alla Chiesa, che, erede del sistema burocratico e amministrativo romano, aveva assunto un ruolo centrale nella società e offriva nuovi modelli e simboli di comportamento sociale: dal vescovo pastore ed evergeta (da Ambrogio a Severino, Eufrasio, Paolino ecc.) coincidente talora con il grande funzionario dello Stato, dal quale derivava modelli di comportamento e simboli di potere, al monaco al servizio della comunità in particolare per l’assistenza ai poveri, all’eremita, come Emiliano, che rifiuta il mondo ma diviene peraltro un simbolo che può essere capitalizzato dalle aristocrazie per costruire l’unanimitas che serviva da base al loro potere. Una pluralità dunque di fattori e di risposte per un cambiamento di civiltà in un processo di lungo periodo, necessario 13 interazione tra questi due diversi sistemi di gerarchizzazione sociale. SEZIONE I VECCHI E NUOVI PROTAGONISTI 2. Definizione dell’oggetto di studio 2.1. Problema del variare del ruolo e del “peso” relativo delle diverse aristocrazie nella società in trasformazione: se si dovesse indicare una linea generale di tendenza - per quel che possono valere in quest’epoca le generalizzazioni – verrebbe da dire una progressiva diminuzione del ruolo dell’aristocrazia fondiaria cui si contrappone una crescita del ruolo delle gerarchie militari, religiose e burocratiche. Grandi proprietari, ecclesiastici, burocrati e militari: salire e scendere nella scala sociale Enrico Zanini 2.2. Qui entrano però in gioco un complesso di fattori che non possono essere ignorati. Esistono per esempio elementi di asincronia su base regionale (il fenomeno della “continuità” di ruolo socio-economico dell’aristocrazia fondiaria in alcune regioni dell’Italia meridionale, per es. la Puglia); oppure fenomeni di specificità locale (la burocrazia amministrativa esercita ovviamente il suo ruolo sociale soprattutto nelle città, che continuano ad essere intese essenzialmente come centri amministrativi e di gestione fiscale della prefettura bizantina d’Italia). 1. Avvertenze preliminari 1.1. A dispetto di un titolo ambizioso, il mio contributo non intende offrire risposte, ma essenzialmente porre questioni, principalmente di natura metodologica circa il rapporto tra ricerca archeologica e storia sociale. 1.2. Non ho la competenza per affrontare il tema proposto in tutte le sue articolazioni e nelle differenti prospettive poste, per esempio, dall’intrecciarsi di modelli di organizzazione sociale assai diversificati nell’Italia dei secoli VIVIII (“Italie” longobarda e bizantina, ma anche diverse “Italie bizantine”). Mi limiterò quindi a qualche riflessione sui processi che mi pare di vedere in atto nelle regioni italiane rimaste più a lungo sotto il controllo bizantino. O ancora elementi di diacronia e di variazione all’interno delle singole classi: l’affermarsi del ruolo egemone della chiesa è un fenomeno evidentemente in divenire, che ‘esplode’ all’epoca di Gregorio Magno; il ruolo dei militari non è evidentemente lo stesso all’epoca della guerra greco-gotica, dove le gerarchie militari sono l’espressione forse più alta dell’organizzazione statale bizantina (p.e. ruolo sociale ed economico dell’annona militare), e nel VII-VIII secolo, quando il potere militare tende invece a “localizzarsi”. 1.3. Nonostante i suoi limiti oggettivi, questa prospettiva mi pare non di meno interessante, giacché tira in ballo una delle questioni credo centrali per la comprensione di alcuni dei meccanismi sociali dell’età della transizione: quello del rapporto con la continuità dell’organizzazione socio-economica e di gestione del potere propria della tradizione romana, nella sua “interpretazione” bizantina. I concetti stessi di proprietà fondiaria, gerarchia ecclesiastica, burocratica e militare hanno infatti evidentemente accezioni assai diverse nel mondo bizantino e nel mondo longobardo e uno dei caratteri dominanti del panorama italiano nella lunga fase della transizione, mi pare possa essere individuato proprio nella 2.3. La profonda trasformazione delle curie urbane, con la “fuga” dei ceti più elevati dai munera sempre più pesanti e la progressiva affermazione di singoli o di gruppi di potere (potentiores) all’interno delle assemblee. Un processo che trasforma dapprima in “piramidale” poi in “insulare” (ci sono cioè dei nuclei che detengono il potere effettivo) il 14 individuo), che saranno trattati in altre sessioni di questo convegno. modello di funzionamento di un organismo che era in epoca antica sostanzialmente egualitario o quantomeno scandito in fasce orizzontali su base delle funzioni ricoperte protempore. Io vorrei invece cercare di orientare la mia riflessione sulla possibilità di conferire visibilità archeologica alla presenza e all’attività di diversi gruppi sociali a partire da indicatori collettivi, spostando l’attenzione dall’analisi ‘quantitativa’ e genericamente ‘obiettiva’ dei presunti ‘dati’ archeologici alla possibilità di leggere ed interpretare in maniera più articolata e complessa le singole tracce, alla luce di un raffinamento della domanda storica che sta alla base di qualsiasi conoscenza archeologica. 2.4. Le altre classi in ascesa. Accanto alle aristocrazie tradizionali e a quelle “nuove”, anche nell’Italia bizantina – come del resto accade un po’ in tutto l’impero – si coglie uno svilupparsi il ruolo sociale di altri gruppi (alcune frazioni dei “ceti medi”: artigiani, commercianti, funzionari pubblici di medio livello), che conquistano progressivamente visibilità sociale e spazi di azione che erano loro tradizionalmente negati nel mondo romano. 3.2. Una prima riflessione potrebbe riguardare per esempio le forme di rappresentazione e autorappresentazione delle vecchie e nuove aristocrazie. 2.5. L’impressione generale è quella non tanto di classi o gruppi che salgono o scendono nella scala sociale, quanto di un sostanziale ampliamento del numero e della “varietà” di coloro che esercitano una qualche forma di potere e che hanno quindi un ruolo socialmente attivo. La disposizione piramidale e la prospettiva gerarchica nella base dell’obelisco di Teodosio I a Costantinopoli costituiscono l’esempio più chiaro di una nuova concezione del potere che non discende tanto dalla appartenenza o dalla funzione esercitata, quanto dal grado di vicinanza al supremo potere imperiale. Una sorta di “kinship estesa” – su base dell’appartenenza a un gruppo comune, quello dei detentori del potere -, che troverà la sua esplicitazione nel proliferare, nel mondo bizantino dei secoli successivi , delle cariche ad personam. A questo fenomeno corrisponde poi una condizione di sempre più marcata “personalizzazione” del potere. L’esercizio di un ruolo sociale discende sempre meno dalla appartenenza del singolo a una classe o a un gruppo (o anche dal ricoprire cariche elettive) e sempre più dallo status sociale individuale, quale che siano le vie (di sangue, economiche, di funzione) attraverso cui esso è stati conseguito. La rappresentazione del potere personale: nel pannello di S. Vitale a Ravenna, compaiono fianco a fianco l’immagine del potere costituito e che non ha bisogno di ulteriori definizioni, se non quelle fisionomiche e derivanti dall’abito cerimoniale (Giustiniano), e quella del potere personale del vescovo Ecclesio e dell’argentario Giuliano reso esplicito da una didascalia con il nome o da un ritratto fisiognomicamente definito. 3. Il problema della visibilità archeologica 3.1. Fenomeni complessi come quelli cui si è appena accennato pongono una questione fondamentale di visibilità archeologica, vale a dire di individuazione di indicatori archeologici più o meno univocamente riferibili alla presenza e all’attività individuale o collettiva di appartenenti a un gruppo sociale o comunque di detentori di uno status sociale individuale. 3.3. Una seconda riflessione potrebbe riguardare il ruolo che i vecchi e i nuovi poteri hanno nella definizione e nella ridefinizione degli spazi urbani. Da questo punto di vista esistono ovviamente alcuni territori privilegiati della ricerca (epigrafia, archeologia funeraria e più in generale tutti quegli ambiti in cui l’oggetto di studio è la traccia lasciata dal singolo Fenomeni interessanti in questa prospettiva non mancano certamente: 15 sono tendenzialmente generali e polisemantici come quelli dei reperti mobili. a. Nella Costantinopoli del V secolo, la collocazione delle residenze di prestigio degli alti funzionari dell’amministrazione statale negli immediati dintorni del Grande Palazzo imperiale, in una sorta di proiezione urbanistica della “kinship estesa” messa in scena nelle sculture del basamento dell’obelisco di Teodosio. Va infatti da sé che i reperti mobili (in particolare la ceramica) sono strumenti preziosissimi per costruire una storia di grandi linee e di grandi numeri - ovvero di fenomeni di grande portata e di lungo periodo – ma sono in buona misura inadatti per ricostruire la storia di singole classi sociali e ancor di più di singoli gruppi all’interno di classi non precisamente strutturate. b. Parallelamente, nella Roma del V secolo – ma anche in molte città di tradizione antica in Oriente – il fenomeno della privatizzazione di spazi pubblici da parte di esponenti delle élites. Un fenomeno formalmente contrastato sul piano legislativo, ma evidentemente dilagante, che ridisegna la mappa di interi quartieri della città (per esempio sul Palatino, ma anche in settori del Campo Marzio) e che apre di fatto la strada alla costituzione di quei nuclei “insulari”, spesso anche difesi, che costituiranno il tratto dominante di molte città italiane nei secoli dell’Alto Medioevo. Da questo punto di vista si tratta dunque di esplorare i confini della disciplina, di evidenziare le aree di ricerca comune con le altre discipline storiche e di cercare in queste aree gli strumenti concettuali per superare le difficoltà poste dalla natura del sistema delle fonti archeologiche. Una delle strade possibili è a mio parere quella della valorizzazione della polisemanticità degli indicatori archeologici in relazione ai diversi contesti di produzione, distribuzione, uso, scarto del singolo manufatto. A partire dalla considerazione – senz’altro ovvia, ma troppo spesso dimenticata – che la produzione, l’acquisto, l’uso e lo scarto di un oggetto sono espressione di una serie di comportamenti complessi in cui entrano in gioco numerosi fattori, tra cui spesso anche quello dello status sociale del soggetto che opera. c. La trasformazione del ruolo “urbanistico” della Chiesa nel passaggio tra la Tarda Antichità e l’Alto Medioevo. La cristianizzazione estensiva “deforma” le città antiche, nel senso che cambia profondamente la loro forma fisica e le loro infrastrutture. Soprattutto con la conquista dei centri monumentali antichi (tra V e soprattutto VI/VII secolo) le chiese vanno a costituire i nuovi punti focali intorno a cui si riorganizza l’impianto urbano: cambiano i percorsi all’interno della città e questo avviene non solo nelle città in crisi, in cui spesso la nascita di nuovi tracciati urbani è determinata dalla crisi del sistema edilizio antico (rovesciamento pieni-vuoti a Roma), ma anche in città che sono tutt’altro che in crisi (caso di Gortina). Il manufatto – ovvero la ‘filiera’ della/e sua/e vita/e – come possibile indicatore di un atteggiamento mentale ‘aristocratico’, come indicatore di una percezione di sé come detentore di uno status, che può/deve essere ‘rappresentato’ all’esterno ma anche in qualche misura introiettato. d. L’ingresso dei militari in città e i suoi molteplici riflessi su l’impianto urbano. Fenomeni differenti ma paralleli che si riscontrano in tutte le città bizantine e che possono in qualche misura essere letti anche nelle città italiane. 3.5. Un esempio può rendere forse più comprensibile la questione. Ritorniamo sulla “vexata quaestio” della distribuzione in Italia delle merci di importazione e sulla complessità dei problemi che stanno dietro a questo fenomeno. 3.4. Una terza – e assai più complessa – riflessione potrebbe riguardare la possibilità di utilizzare in funzione della risposta ad una domanda storica così complessa, indicatori che È – credo – evidente che sarebbe riduttivo e in buona sostanza poco utile continuare a ragionare in termini di continuità/discontinuità. In un mondo in così 16 polisemanticità, per provare a leggere dietro i meccanismi generali come quelli della produzione, della distribuzione e del consumo, i processi in cui entrano in gioco comportamenti complessi come quelli umani, che riflettono – in quest’epoca ben più chiaramente che non nel mondo antico – non solamente elementari necessità di sussistenza, ma anche e soprattutto atteggiamenti mentali che molto hanno a che fare con la consapevolezza, l’affermazione e la rappresentazione esterna del proprio status. profonda trasformazione come quello dell’Italia e del Mediterraneo nell’età della transizione il perpetuarsi di una traccia archeologica non significa necessariamente – anzi oserei dire non significa praticamente mai – il perpetuarsi di un dato archeologico. Le tracce – più o meno labili, ma questo è un altro discorso – ci dicono che ceramica da mensa e anfore di importazione continuano ad arrivare (in misura più o meno consistente, ma anche questa è un’altra prospettiva) un po’ in tutti i distretti dell’Italia del VI e del VII secolo. Quel che resta da comprendere sono i meccanismi che regolano questi afflussi, meccanismi che sono evidentemente diversi tra le due macro-aree (bizantina e longobarda) e che rischiano anche di essere piuttosto diversi anche all’interno di queste macro-aree che sono tutt’altro che omogenee. 4. Conclusioni 4.1. Si tratta di una linea di ricerca ancora allo stato embrionale; di un gioco complesso, per il quale l’archeologia deve trovare buoni compagni di strada. Giacché la questione di un approccio olistico alla comprensione dei singoli contesti (con ciò intendendo il paradigma interpretativo che rende possibile trasformare una traccia archeologica in un dato storico confrontabile e quindi realmente utilizzabile) passa inevitabilmente per forme assai strette di integrazione tra le diverse prospettive di ricerca. Merci che qualche secolo prima erano presenze costanti sui mercati sono ora diventate – in misura ovviamente differente tra le due macroaree e all’interno di esse – merci rare e costose, merci di prestigio e quindi immediatamente anche indicatori di status sociale (proprio quegli indicatori che andiamo cercando). 4.2. A partire, per esempio, dalla possibilità di rovesciare i termini tradizionali del rapporto tra dato archeologico e interpretazione storica, che vede spesso l’utilizzo delle fonti extra archeologiche in funzione della ricerca di conferme/spiegazioni per i “dati” archeologici assunti nella loro postulata oggettività. Nel viaggio che le porta dai luoghi di produzione, a quelli di consumo, di riuso e di scarto, le merci si arricchiscono via via di significati e vedono ampliarsi, insieme con il loro valore venale, anche il panorama dei loro significati simbolici. Solo per fare un esempio: il signore longobardo che decide di farsi seppellire con uno spatheion africano come corredo sta dichiarando un preciso valore simbolico aggiunto a un oggetto che nasce per l’uso comune: il contesto conferisce a una semplice traccia archeologica (la presenza dello spatheion) il valore di dato interpretato; ciò genera una possibile chiave interpretativa per comprendere meglio anche la presenza di materiali analoghi in contesti diversi. L’idea è che se il problema storico si fa più complesso (cioè se si fanno più complesse le domande storiche che intendiamo porre, e l’archeologia sociale è per definizione uno dei luoghi della massima complessità) si possa pensare ad un processo conoscitivo in qualche misura inverso, che parta da una domanda storica articolata, generata da una lettura attenta e puntuale delle fonti, alla ricerca di una lettura possibile del dato archeologico. Al di là di casi così espliciti come quello appena citato, anche sotto molti altri punti di vista, i manufatti di uso comune possono essere interrogati – all’interno dei loro diversi contesti di rinvenimento – esaltando la loro Per un’epoca complessa e magmatica come quella dell’età della transizione, si tratta – io credo – in primo luogo di cominciare a costruire un regesto delle fonti, una sorta di 17 indice dei problemi aperti (e tra essi in primo luogo quello dei tanti ruoli delle tante aristocrazie delle Italie di questi secoli) intorno a cui orientare la riflessione e il riesame interpretativo dei dati archeologici disponibili. È con questa “lista dei problemi” ben chiara in mente che possiamo forse pensare con qualche maggiore ragionevolezza di tentare di rileggere le tracce archeologiche alla ricerca di un nuovo filo rosso che ce ne spieghi meglio l’origine e ci consenta di “rintracciarvi” i segni lasciati dalla complessità dei comportamenti individuali e sociali degli umani. Si tratta, insomma, di muoversi ancora una volta nell’ottica di quel continuo “cambio del metodo al bivio della conoscenza”, che Tiziano Mannoni indicava qualche anno fa come uno strumento concettuale fondamentale per tentare di affrontare questioni così complesse a cui non è possibile pensare di fornire una soluzione se non ricorrendo a forma più alte e raffinate di confronto e integrazione fra sistemi di fonti e metodi per indagarli. 18 svolto nella riorganizzazione degli assetti urbani e rurali. Il ruolo dei vescovi nei processi di trasformazione del paesaggio urbano e rurale Questo ritardo riguarda in particolare l’ambito archeologico, poiché, al contrario, il ruolo fondamentale di quello che può essere considerato il vero protagonista (anche se non certamente l’unico artefice) di questo fenomeno, il vescovo, era stato già colto, sia pur in maniera pionieristica, dai primi studiosi della città tardoantica e altomedievale, come G. Mengozzi e H. Pirenne, nonostante un’attenzione quasi esclusiva agli aspetti giuridici e storici. Fino a tempi recenti, pertanto, sulla definizione della funzione del vescovo si sono avuti prevalentemente studi di carattere storico-giuridico, mente gli aspetti materiali e insediativi sono stati a lungo trascurati; solo da poco gli archeologi hanno cominciato ad approfondire questi temi, per cui è ora auspicabile che si affermi finalmente un approccio realmente globale nella lettura delle trasformazioni dei paesaggi urbani e rurali in età tardoantica e altomedievale. Giuliano Volpe L’argomento della relazione è estremamente ampio e complesso, anche perché di fatto si sovrappone al più generale tema della cristianizzazione delle città e delle campagne. La prima difficoltà è relativa allo stato della documentazione, al momento ancora molto poco sistematica, assolutamente non paragonabile, ad esempio, a quella disponibile in Francia grazie in particolare al progetto, avviato negli anni Settanta, sulla Topographie chrétienne des cités de la Gaule. Da alcuni anni però l’argomento è entrato, finalmente impostato su basi nuove, nel vivo del dibattito sulla transizione dall’Antichità al Medioevo, con il superamento di antichi steccati, quasi invalicabili (e spesso legati solo a logiche accademiche) proprio tra gli studiosi del Tardoantico e Altomedioevo, che hanno provocato dannose separazioni di ambiti disciplinari e indotto letture incomplete o addirittura distorte: infatti, sul versante dell’archeologia cristiana ‘tradizionale’ ci si è a lungo limitati all’analisi degli aspetti storico-artistici, iconografici e liturgici e allo studio degli edifici di culto, dei cimiteri e dei manufatti ascrivibili alla committenza cristiana, pubblica e privata, spesso considerati come realtà isolate e separate rispetto al contesto storico e insediativo delle città e delle campagne tardoantiche e altomedievali; sul versante degli studi archeologici tardoantichistici (la cui tradizione è peraltro alquanto recente) e medievistici ha a lungo prevalso una grave sottovalutazione del ruolo morfogenetico che proprio gli edifici di culto, e più in generale il cristianesimo, ed in particolare l’iniziativa vescovile, hanno In generale l’attenzione si è finora concentrata maggiormente sugli edifici religiosi e sulla cristianizzazione delle città (Testini, Cantino Wataghin, Pani Ermini 1989; Pani Ermini 1998), in particolare nell’Italia settentrionale (Cantino Wataghin 1992, 1995, 1996), e solo molto recentemente l’attenzione si è rivolta anche alle campagne (Violante 1982 e Fonseca 1982; ma cfr. ora Pergola ed. 1999; Brogiolo ed. 2001, 2003). Lo stesso vale, più specificamente, in relazione al ruolo vescovile, di cui vari studi hanno sottolineato la centralità nelle vicende urbane, con approfonditi studi storici (Lizzi Testa 1989) ed anche con convegni monografici (Rebillard, Sotinel eds. 1998). I vescovi non furono solo i garanti del mantenimento di una vita cittadina a livello istituzionale e amministrativo, di fatto salvaguardando le funzioni della civitas, ma anche a livello materiale. Nonostante la persistenza formale delle 19 e nelle campagne, si venne ad attuare un processo di forte cristianizzazione della vita quotidiana urbana e rurale, con la creazione di una nuova gerarchia sociale, nonché di un vero e proprio sconvolgimento delle strutture mentali, in particolare grazie all’azione dei vescovi. In questo processo occupò un posto di rilievo la chiesa episcopale o meglio il complesso episcopale, che costituiva anche uno spazio di socializzazione per le numerose funzioni che vi si esplicavano (istruzione della catechesi, l’arruolamento dei neofiti, l’assemblea dei fedeli, l’episcopalis audientia, la promessa degli sposi, la colletta, le distribuzioni ai poveri e le altre attività caritatevoli, l’ospitalità ai pellegrini e ai viaggiatori, l’ordinazione dei chierici, l’elezione dei vescovi, ecc.). La progressiva istituzione di chiese parrocchiali e di quelle martiriali e/o cimiteriali andò articolando il quadro di una completa cristianizzazione dello spazio urbano e suburbano, in cui l’azione vescovile fu sempre determinante: da una fase iniziale in cui le scelta dei luoghi per gli edifici di culto appare dettata da fattori casuali e contingenti si passò infatti a scelte più mirate e strategiche, in modo da creare nuovi ‘baricentri’ del potere rispetto a quelli precedenti, stabilendo una sorta di rete cristiana e, quasi, una cortina protettiva della città. In tal senso i vescovi più che semplici eredi della tradizione classica cittadina si presentano come creatori di nuove morfologie dello spazio urbano, suburbano e rurale. Tutto apparentemente doveva sembrare immutato, perché tutto potesse cambiare radicalmente. curie cittadine, i vescovi, pur privi di effettive funzioni pubbliche (Gaudemet 1958), dopo l’istituzione da parte di Costantino dell’episcopalis audientia che conferiva loro grande autorità per i processi civili, in particolare dal V secolo in poi, vennero assumendo il carico dell’amministrazione cittadina, anche con la nomina dei defensores civitatis (Mannino 1984; Frakes 2001) e diventando i responsabili della raccolta fiscale e delle uscite, dell’approvvigionamento e delle distribuzioni alimentari, con la gestione, di fatto nelle proprie mani, di due casse formalmente separate, quella municipale e quella ecclesiastica (Durliat 1990 e 1996). Il vescovo inoltre assunse anche una funzione di patronato nei confronti della città (Lepelley 1998), delle cui esigenze si faceva interprete e rappresentante anche nei confronti del potere politico e in tutte le occasioni di difficoltà e di pericolo, soprattutto in caso di guerra: sono numerosi gli esempi documentati a tale proposito dalle fonti. È per questo che la funzione vescovile finì per essere fortemente ambita anche dagli esponenti delle aristocrazie locali, che videro in questa carica un esito importante del proprio cursus. Inoltre, va sottolineato come tutte queste funzioni, associate a quelle propriamente ecclesiastiche, tra cui non era irrilevante l’assistenza ai pauperes (uno dei compiti principali dei vescovi tardoantichi) ed anche ai mendicanti (Neri 1998), necessitassero di strutture e spazi adeguati. In tal modo gli edifici episcopali si andarono ingrandendo, acquisendo la fisionomia di veri e propri complessi multifunzionali e assumendo il ruolo, non solo a livello topografico, di nuovi centri del potere cittadino. Questo fenomeno è verificabile in molte città. A parte alcuni casi precoci risalenti al IV secolo (ovviamente Roma e Milano e, ad esempio, Aquileia), il fenomeno ebbe il suo momento di consolidamento tra V e VI secolo, che rappresentano senza dubbio la fase di affermazione del vescovo quale figura centrale nella vita delle città e delle campagne. Con la progressiva conquista del tempo (la celebrazione domenicale e la definizione del ritmo liturgico ebdomadario, l’Epifania, l’Avvento, la Pasqua, la Pentecoste, le celebrazioni dei martiri, ecc.) e dello spazio (Pietri 1993), prima nelle città poi anche nei vici Nella consapevolezza dell’ampiezza del tema e dell’impossibilità di fornire un quadro esaustivo, la relazione si occuperà di alcuni casi esemplari che possano illustrare gli aspetti generali e più significativi del fenomeno, 20 Si è potuta inoltre riscontrare un’associazione ricorrente, che pare particolarmente significativa per spiegare il fenomeno, tra le sedi episcopali sorte in vici e la presenza di ampie proprietà imperiali (De Fino 2005), a volte trasferite al patrimonio ecclesiastico e organizzate nella forma della massa fundorum (Vera 2001). È questo il caso di Albano, Ad Baccanas, Lorium, Vicohabentia, Tropea, Nicotera e del saltus Carminianensis in Apulia. Le chiese rurali, poste spesso lungo arterie viarie importanti, fungevano da fulcro di abitati, con una chiara funzione di catalizzatore del territorio rurale e di luogo di mercato (nundinae) e un ruolo rilevante per la produzione agricola e artigianale, lo stoccaggio dei prodotti agricoli e il pagamento delle imposte: attività queste nelle quali l’iniziativa vescovile risultava assolutamente significativa. L’esempio più emblematico è forse proprio quello del saltus Carminianensis, un’estesa proprietà imperiale nell’Apulia, afferente in età tardoantica all’amministrazione sacrae lartitiones (e poi forse confluita in età gotica nelle patrimonio della domus regia e successivamente recuperata alla proprietà imperiale dopo la guerra greco-gotica) nella quale si insediò nel tardo V secolo una diocesi, la cui sede episcopale è stata riconosciuta nel monumentale complesso paleocristiano di San Giusto (Volpe 1998, 2001, 2004). In questo caso, è stato possibile verificare, all’interno di un territorio ben definito, la Valle del Celone, intensamente sfruttato a fini agricoli e caratterizzato da un fitto popolamento rurale, articolato in grandi e lussuose ville, in piccole fattorie e in villaggi, la presenza di almeno altre due chiese paleocristiane rurali poste a pochi chilometri da San Giusto, entrambe collocate all’interno di due vici tardoantichi: si potrebbe pertanto configurare in questo caso una certa organizzazione parrocchiale della diocesi rurale. escludendo le città capitali (Roma, Milano e Ravenna, oggetto peraltro di specifiche relazioni) e soffermando l’attenzione, per quel che riguarda l’ambito urbano, su città di piccole-medie dimensioni e, per l’ambito rurale, in particolare sugli abitati secondari e specificamente sul fenomeno delle diocesi rurali, con particolare riferimento alle regioni dell’Italia meridionale. Le diocesi rurali, particolarmente diffuse in Italia, illustrano bene infatti, meglio ancora delle chiese poste nelle villae e nei vici (particolarmente significativi quelli legati alla viabilità terrestre e marittima), la forza dell’iniziativa episcopale. È infatti una peculiarità del processo di cristianizzazione delle campagne italiane la presenza di un certo numero di vici promossi a sede episcopale: un’evoluzione non rara nella prassi, anche se fortemente contrastata dalla gerarchia ecclesiastica (con precise disposizioni nei concili di Serdica e poi di Laodicea, Cartagine, Costantinopoli e Calcedonia). Il fenomeno appare quasi eccezionale nell’Italia Annonaria con solo due casi (Sabiona e Vicohabentia), mentre risulta molto più esteso in area centromeridionale (Lorium, Aquaviva sulla via Flaminia, Tres Tabernae sull’Appia, Ad Quintanas, Albano, Aufinum, Cluentum Vicus, Trani, Carmeianum, Tropea, Nicotera, Cerillae, Myria), sia per la maggiore diffusione in queste regioni del sistema vicano (vari abitati secondari acquisirono la dignità di sedi vescovili, sia per la particolare vitalità dell’economia agraria di queste regioni durante il Tardoantico. È particolarmente significativa, in alcuni casi (Trani, Tropea, Nicotera, Albano) l’evoluzione urbana del vicus, per cui si è sottolineata in questi casi la cosiddetta ‘funzione poleogenetica del vescovo’. La breve durata e l’abbandono nel corso dell’Altomedioevo di altre diocesi rurali dimostrano però come l’iniziativa vescovile non potesse essere sufficiente, in mancanza di altri fattori (in particolare la collocazione su grandi arterie e soprattutto in siti portuali), a garantire sempre un’evoluzione in senso urbano. 21 di osservare la costruzione culturale, all’interno di un dato contesto sociale e cronologico, delle caratteristiche ‘maschili’ e ‘femminili’ dei suoi membri. Come ha di recente sottolineato Julia Smith (2005), le differenze di genere sono infatti, in particolare nella società altomedievale, le categorie di base di organizzazione dell’ordine sociale: difficilmente mutabili nel corso della vita di un individuo, le caratteristiche di genere sono perciò un elemento di maggiore fissità rispetto ad altre modalità – assai più variabili e fluide - che regolavano l’appartenenza degli individui a gruppi sociali, determinando l’accesso alle risorse e alla creazione dell’identità, quali il rango, l’appartenenza etnica e il credo religioso. Se le ricerche di Janet Nelson, Leslie Brubaker e ancora Julia Smith hanno dimostrato la rilevanza delle differenze di genere nella gestione della proprietà fondiaria, nel raccordo con il gruppo familiare di origine, nelle strategie familiari di riproduzione dei gruppi e nelle fondazioni religiose, sottolineando – in tutti questi casi – il progressivo irrigidimento delle possibilità del genere femminile verificatosi in età carolingia; le ricerche di G. Hallsall e Irene Barbiera hanno invece considerato l’aspetto archeologico delle evidenze sui generi, prendendo in esame anzitutto l’evidenza delle necropoli. Tratterò di questo tema alla fine. Prima mi concentro sul tema degli oggetti funerari in rapporto al potere e ai legami pubblici e privati. Storia dei generi e archeologia dell’alto medioevo: il dibattito europeo Cristina La Rocca Storia dei generi, storia delle donne? Problemi di alterità culturale Nella storiografia italiana, pervasa per tradizione dalla tradizione filologica di matrice positivista e da quella economico giuridica, la storia sociale e, la storia dei generi in particolare, ha avuto una fortuna limitata sia sotto il profilo degli studi che sono stati dedicati a questo tema, sia sotto il profilo dei risultati. Innanzitutto, abbiamo assistito, a partire dagli anni ’70 a un certo numero di lavori dedicati genericamente a tracciare vaghi profili di identità femminili – intendendo quindi implicitamente che fare storia dei generi significasse fare ‘Storia delle donne’ – concentrandosi sulle attività femminili e creando – nell’immaginario collettivo – un tempo medievale in cui le donne avevano aperte mille possibilità senza considerare che – a dispetto di questo – il controllo delle loro attività e dei processi produttivi in genere è rimasto in mano maschile. Questa caratterizzazione tra storia di genere e storia delle donne ha causato l’irrigidirsi delle posizioni degli storici delle istituzioni: la storia di genere è fatta normalmente da studiose donne è vi è ancora chi, con grande cautela, se ne allontana ritenendolo un campo di studi marcatamente ideologico, attivato e praticato dalle femministe (o ciò che ora di esse rimane): un orto conchiuso negli scopi e negli obiettivi e quindi anche da evitare con cura. Trattare di storia del genere (maschile, femminile, neutro) non significa però né limitarsi a studiare le donne, né tantomeno a osservare i rapporti tra i sessi semplicemente sotto il profilo biologico: è stato giustamente messo in rilievo (a partire dai primi anni’70) che utilizzare la terminologia ‘Storia dei generi’ permette Nella seconda metà del X secolo, il sodale di Ottone I, Liutprando da Cremona, nel comporre un ritratto totalmente negativo dell’aristocrazia italica di ascendenza carolingia, utilizzò, rovesciandolo, il genere retorico del panegirico imperiale, per dimostrare, in forte contrasto, i presupposti morali su cui era invece fondata la legittimità della nuova dinastia ottoniana. Nonostante il riferimento testuale derivi indubbiamente dagli Anecdota (o Storia Segreta) di Procopio di Cesarea - che appunto comparvero per la prima volta come testo coerente soltanto nella 22 guardò e vide pendere dalle natiche della donna la parte finale della cintura. Willa, dice Liutprando, aveva nascosto la cintura preziosa nella propria vagina. La rappresentazione dell’atrocità compiuta da Willa è quindi duplice, agli occhi del sostenitore di Ottone1: metà del X secolo, Liutprando scelse di esemplificare l’indegnità dei discendenti dei Carolingi attribuendo loro caratteristiche di azione di genere femminile, quali anzitutto la calliditas (cioè l’astuzia nel perseguire i propri fini con discorsi ingannevoli), la cupiditas (cioè il desiderio insensato di potere), e infine l’organizzazione di clientele politiche non tramite gli usuali vincoli di natura pubblica di reciproca fedeltà, fondati anzitutto sul sostegno militare, bensì attraverso una serie di legami segreti e privati, che prendono anzitutto forma in una frenetica attività sessuale. Proprio perché in quest’opera genere maschile e genere femminile risultano volontariamente alterati, per rendere in modo grottesco la corruzione politica complessiva, l’Antapodosis risulta un buon punto di partenza per osservare tre aspetti: il genere e gli ornamenti, poi il genere e il corpo e, infine, il genere e l’appartenenza sociale. 1 LIUTPRANDI, Antapodosis, IV, 11-12, pp. 110-111. “Harum (cioè le figlie di Berta e Adalberto di Toscana) Willa, Berengarii huius, qui nunc superest, vere marita, hoc effecit, ne genitrix sua omnium esset mulierum nequissima. Ut autem non per longas ambages eius acta ponamus, uno turpissimo descripto, quae et quanta in ceteris fuerit, animadvertere poteris. XII. Vir ipsius Boso mirae longitudinis et latitudinis aureum habuerat balteum, qui multarum et pretiosarum splendebat nitore gemmarum. Hunc, cum Boso caperetur, super omnes gazas eius iligenter rex iussit inquiri; sumptisque divitiis uxorem eius quasi profanam et sceleris totius auctricem turpiter de regno Italico praecepit expelli atque in Burgundiam, de qua oriunda fuerat, duci. Verum cum diligenter omnia perscrutati balteum non reppererint, cetera nuntii reportantes sunt ad Hugonem reversi. Tum rex: 'Revertentes', inquit, 'falerarum eius omnem apparatum, pulvinar etiam, quod equitando premit, evertite. Et si nec ibi quidem balteum poteritis repperire, vestimentis omnibus eam exuite, ne alicubi super se possit latere; novi enim, quantum callida quantumque sit cupida'. Igitur illis redeuntibus regisque iussioni parentibus cum requisitis omnibus nil invenissent, vestimentis eam omnibus nudaverunt. Hoc denique tam turpe facinus atque inauditum cum avertentibus oculis proborum nemo conspiceret, servorum quidam directo obtutu purpuream secus natium speroiden vidit dependere corrigiam, quam inpudenter arripiens foediterque trahens, e secretiori corporis parte eam secutus balteus est egressus. Servus itaque isdem non solum inverecundus, sed eo ipso turpi facinore hilarior redditus: 'Há! há! hé!' ait, 'quam peritus obstetricandi miles! Ruffus puer est natus herae; quaeso, ut sit superstes. O me fortunatum, immo omnibus feliciorem, si tales saltem duos uxor mea mihi pareret natos, hos quippe Constantinopolim dirigerem nuntios, quoniam quidem, ut institoribus narrantibus agnovi, huiusmodi libenter imperator nuntios suscipit'. Talibus praeterea Willa confusa sermonibus lacrimis effusis latentem sub corde aperit cunctis dolorem. Servus autem, ut eorum suum est, eius deiectione non solum non inclinatus, verum etiam animatus haec ad exaggerandum doloris vulnus adiecit: 'Willa quid insanis? aurum quod condere caecis Versus. Incipis in membris? pro non audita cupido! Allecto furiis gemmas in corpore condis. Matribus insolitum tales producere partus, Hinc tibi nulla decem tulerant fastidia menses. Alma parens, tales nobis haud desine foetus Edere, qui nati superent te aetate parentem!' Genere e ornamenti Non voglio soffermarmi qui sugli ornamenti che più ovviamente sono riconducibili al genere maschile e femminile: rispettivamente a orecchini e collane e all’armamento (anche se su quest’ultimo aspetto farò in seguito un breve accenno). In questo contesto, vale la pena ricordarvi un episodio giustamente famoso, da cui intendo prendere le mosse per trattare il tema degli studi di genere e l’archeologia dell’alto medioevo. Narra infatti Liutprando che alla morte del conte Bosone di Provenza, anziché restituire – come di norma – al re Rodolfo il balteum – la cintura - ornato di pietre preziose che rappresentava materialmente l’ufficio pubblico detenuto dai conti, la moglie Willa aveva trafugato l’oggetto e se l’era portato con sé. Incaricati di recuperare a ogni costo il balteum sottratto, i fedeli di Rodolfo si recarono da lei e, dopo una vana ricerca nel suo palazzo, giunsero infine a denudare Willa, così come il re aveva loro ordinato: di fronte a Willa nuda i nobili distolsero lo sguardo dallo spettacolo di umiliante degradazione di un proprio pari; un servo, invece, non obbligato dalle regole sociali del rispetto dell’onore dei propri pari, la 23 pur essendo una donna ha desiderato tenere tutto per sé il potere, raffigurato dalla cintura, tutto per sé; in secondo luogo, pur essendo donna, la sua cupiditas e la sua aviditas le hanno permesso di progettare a una trasmissione autonoma del potere rappresentato dalla cintura stessa. Nel X secolo, quindi, appropriarsi di un balteum da parte della moglie di un funzionario pubblico poteva essere presentato come una autentica mostruosità: sia per l’usurpazione del potere pubblico che impadronirsi di tale oggetto comportava, sia per il profondo snaturamento implicato dall’utilizzo di una cintura pubblica da parte di una donna. Si può quindi affermare con una certa tranquillità che le cinture adorne di oggetti preziosi erano diventate, nel corso del X secolo, un ornamento maschile, cariche di implicazioni sotto il profilo del loro significato: esse, alla stregua dei regalia, diffusi nell’Europa carolingia a partire dall’inizio del IX secolo, significavano una posizione sociale e funzionariale stabilmente acquisita e delegata dal sovrano, e la loro trasmissione nel corso delle generazioni era un processo di cui il sovrano stesso doveva essere parte attiva. Altri due esempi da Liuprando a proposito cinture. prerogative, anche materiali, che lo ponessero nella condizione di essere nominato ufficiale pubblico. Per esempio, Everardo donò al suo primogenito Unroch la sua cintura con decorazioni auree, insieme con una spada dall’elsa d’oro e un pugnale decorato d’oro, un manto di seta e un’armilla aurea che tutti insieme prefiguravano il nuovo ruolo che Unroch avrebe potuto avere al mometo della morte del padre. Essi contrastavano palesemente sia con gli oggetti elencati nello stesso testamento per gli altri fratelli maschi di Unroch (Berengario, futuro re d’Italia e imperatore, Rodolfo e Adalardo), ma soprattutto con quelli destinati a formare il patrimonio delle sorelle: pur avendo in comune parecchie tipologie di oggetti – anzitutto i libri – ivi compresi i codici delle leggi nazionali-, le stoffe, i paramenti ecclesiastici e gli utensili anche preziosi – le cinture non figurano nell’elenco dell’eredità di nessuna delle figlie di Everardo e di Gisla, figlia dell’imperatore Ludovico il Pio. Se confrontiamo questi dati con quelli forniti dalle fonti scritte per il periodo precedente, lo stacco che separa il IX secolo dal periodo precedente è molto sensibile: al momento della loro monacazione, per esempio, sia Radegonda – moglie di Clotario I – sia Baltilde – figlia di Pipino II e di Itta – deposero sull’altare (secondo le rispettive Vitae vita composta all’interno del monastero regio della Ste-Croix di Poitiers nella seconda metà del VI secolo e del monastero pipinide di Nivelles durante il secolo VIII) le proprie cinture preziose, significando così – almeno dal punto di vista simbolico – la loro rinuncia agli honores del loro stato laicale per entrare appieno nel sistema di simboli di rinuncia e di abnegazione del loro nuovo status monacale2. Fino all’inizio del secolo VIII, dunque, le cinture erano un simbolo di autorità condiviso La progressiva ‘genderizzazione’ al maschile delle cinture è infatti un processo in cui dati archeologici e fonti scritte possono agevolmente condurci, permettendo di delineare alcuni tratti significativi. Nel corso della seconda metà del IX secolo, i testamenti di Everardo del Friuli (864) e di Eccardo, conte di Mâcon (858), indicano con chiarezza che le cinture decorate con pietre preziose erano ormai diventate il simbolo dell’autorità comitale e che, come tali, esse potevano venire trasmesse alla generazione successiva nel tentativo di conferire a un figlio dele 2 . De vita sanctae Radegundis, p. 369: “Mox instrumentum nobile, quod celeberrima die solebat, pompa comitante, regina procedere, exuta ponit in altare et blattis, gemmis ornamentis mensam divinae gloriae tot donis onerat per honorem. Cingulum auri ponderatum fractum dato opus in pauperum”; Vita sanctae Baltildis, p. 491: “Etiam suum ipsum regale , quo ipsa cingebatur, cingulum, desupra sacros lumbos suos devote abstulit et fratribus in elemoniam ipsum direxit”. Talia cunctanti collum percusserat unus Impiger ac verbis ipsum culparat amaris. His ita peractis balteus regi adducitur eaque in Burgundiam destinatur. Utrum tamen, quae abscondit, an qui eo inquirere iussit, foedius egerit, michi quidem videtur amphibolum. Liquet tamen, quod uterque nimia sit auri gemmarumque cupidine animatus. 24 re, che dovevano essere restituiti al momento della morte del re stesso, che non coincidevano – come da tempo i diplomatisti hanno sottolineato, con i sigilli che gli stessi referendari regi apponevano – questa volta sì per delega regia, sulle carte e sui diplomi. dalle élites maschili e femminili, mentre in età carolingia esse appaiono strutturarsi – in rapporto a una più rigida organizzazione degli honores. Una volta acquisito un significato formale e istituzionale che superava la dimensione domestica e privata, caratteristica del genere femminile, le cinture sono quindi genderizzate al maschile. Genere e corpi, genere e ciclo vitale, genere e eticità Un processo inverso accade invece per le fibule: simbolo dell’autorità pubblica fino al VI secolo, le fibule perdono tale connotazione e si trasformano in oggetto di ornamento femminile, perdendo – insieme con il genere maschile – anche qualsiasi significato ufficiale (Dominc Janes). Le ricerche di Guy Hallsall e Irene Barbiera hanno dimostrato un aspetto importante nell’analisi dei siti funerari rispettivamente dell’area di Metz (V-VII secolo); necropoli ungheresi attribuite ai Longobardi e necropoli dell’area di Cividale. Invece tale processo non riguarda altri ornamenti privati che mantengono la loro funzione di ornamento de-genderizzato e individuale, anzitutto gli anelli personalizzati: se nel VII secolo, il gruppo di anelli con rappresentazione del proprietario e recanti il suo nome appaiono condivisi da uomini e da donne, di recente riesaminati da Silvia Lusuardi Siena, accostabili a una serie di attestazioni documentarie che legano indissolubilmente gli anelli all’individuo che li indossa dal punto di vista esclusivamente privato, a differenza delle cinture, gli anelli personalizzati possono essere trasmessi da uomini e da donne nei testamenti del secolo IX: il conte Eccardo di Mâcon (867), privo di eredi, poté infatti donare i propri anelli – ornati di gemme antiche – ai propri parenti; così come due secoli prima Erminetrude poteva donare a un monastero dell’Ile de France il proprio anello recante il proprio nome, e, ancora prima, il re Clodoveo poteva donare in segreto il proprio anello personale alla sua futura sposa Clotilde, per rappresentare la promessa formale della loro futura unione matrimoniale. Non si trattò quindi, mai, di anelli intrisi di una funzione pubblica delegata dal potere regio e tale funzione di legame privato e non di legame istituzionale di delega ufficiale: anche gli anelli che il re merovingio donava ai propri referendari erano anelli privati del L’analisi della topografia cimiteriale rispetto al genere ha infatti evidenziato – in entrambi i casi – due fasi: la prima in cui uomini e donne sono sepolti in aree separate, senza che si riesca a individuare altro termine di aggregazione individuale, che non sia costituito dalla scelta del luogo funerario. A partire dal sec. VI e in Italia, con la migrazione dei Longobardi a Cividale, tale struttura è abbandonata e le necropoli si trasformano e si articolano in aree di sepoltura in cui si presentano gruppi di uomini e donne, insieme. Questa nuova disposizione ha fatto ritenere che l’enfasi funeraria sia posta nei confronti dell’organizzazione di gruppi familiari, di cui uomini e donne si dispongono insieme, materializzando il concetto dell’unione parentale in vita che continua dopo la morte. Tale nuova configurazione è dunque da mettere in rapporto con la nuova configurazione dei gruppi sociali in Italia, e con la trasformazione delle identità sociali in proprietari fondiari. Nella fase più antica, per ciò che riguarda i corredi, l’importante osservazione riguarda il valore conferito a uomini e donne, rispetto al le diverse fasi del ciclo vitale: le fasi in cui il genere femminile è dotato di corredi con oggetti sessuati (cioè 25 dalla Pannonia a Cividale trasformano assai rapidamente sia le strutture funerarie, sia l’organizzazione delle necropoli, certo in rapporto con l’elaborazione di paradigmi condivisi localmente e perciò ben comprensibili al pubblico e alla società locale. comuni solo alle donne) è limitato alla sola età fertile, e si riduce drasticamente in età adulta matura e in età infantile. Gli individui di genere femminile ricevono corredi femminili prima, rispetto agli individui di genere maschile, ma la loro rilevanza sociale di genere è considerata del tutto sminuita con la fine dell’età fertile. Gli uomini ricevono invece corredi di genere ‘maschile’ in età più avanzata (circa 20-25 anni), ma li conservano fino alla piena maturità. Questa differenza ben esprime le differenze ‘della perdita’ avvertite da un gruppo familiare a seconda dell’età e del genere del defunto: gli individui maschili conservano la propria autorevolezza indipendentemente dalla loro età di morte, dimostrando perciò il carattere perdurante della loro importanza all’interno dei gruppi familiari. Questa importanza diversa per fasce d’età è dimostrata, nelle fonti normative, dai diversi wergeld di uomini e donne a seconda della loro età di morte e delle loro condizioni. Le identità sociali si esprimono in modo diverso localmente: questo dipende indubbiamente non tanto dalla presenza di ‘tradizioni ancestrali’, ma dall’influsso delle tradizioni locali. Esempio di Bojano e le sepolture con cavalli, il cui valore di ‘certificazione’ di status elevato è ampiamente documentato nelle fonti scritte di area beneventana (Vita Barbati, armiscara.) Le identità sociali maschili si esprimono, variabilmente, con un corredo di armi: di esse non fa parte la spada, che nelle fonti scritte è presentata come lo strumento di identificazione visiva di ogni uomo libero, e quindi può essere indossata anche nei periodi di sospensione delle faide; portano armi tutti i liberi, in quanto la possibilità di partecipare all’esercito (nei termini di privilegio di partecipare alla spartizione del bottino) è un diritto degli uomini liberi: che essi combattano davvero o no. Heirich Härke ha portato diversi esempi di uomini malformati con sepolture con armi, e ora l’esempio di Collegno costituisce un altro dato nella stessa direzione: anche individui fisicamente impossibilitati a combattere (perché storpi, gobbi) non per questo perdevano la loro identità di genere maschile e quella sociale ad essa collegata. Gli individui di genere ‘neutro’, cioè quelli non caratterizzati da nessun corredo o da oggetti non sessuati, dichiarano – attraverso queste caratteristiche, la fine del loro ruolo sociale legato al proprio sesso. Nella fase più recente, invece, gli equilibri tra corredo ed età sono corretti in funzione della prossimità dei corpi dei defunti con un antenato riccamente abbigliato. Lo sforzo e l’enfasi dei nuovi gruppi di proprietari fondiari va parallelamente nella direzione di un ampliamento delle possibilità femminili nel trasmettere patrimonio e status sociale: come dimostra, tra l’altro, anche l’evoluzione delle possibilità conferite ai membri femminili nelle fonti normative (Leggi Liutprando, Astolfo, in rapporto a quelle di Rotari). Le identità sociali appaiono ben più rilevanti di quelle etniche: come ha dimostrato Irene Barbiera, i gruppi di Longobardi che migrano 26 la jerarquización cada vez mas rígida de los distintos grupos sociales. El fenómeno ha sido estudiado por historiadores, sociologos e historiadores del arte. El importante libro de Thorstein Veblen, The Theory of Lesiure Class, publicado por primera vez en 1899 establece claramente la importancia del vestido como elemento esencial para denotar rango:" Para reclamar y mantener la estima de los hombres, no es suficiente con ser rico o tener poder: es necesario exteriorizarlo ya que es solamente a la exteriorización lo que cuenta en la estima". El vestido significa prestigio, rango, y en palabras del propio Veblen "conspicous cosumption". SEZIONE II OSTENTARE IL RANGO IN VITA E IN MORTE Ostentar el rango en vida y muerte: introducción Javier Arce El tema de esta sesión ha merecido un creciente interés en los últimos años entre los investigadores de la antigüedad tardía. Recordaré de forma rápida los coloquios organizados por la Universidad Paris X Nanterre "Costume et societé dans l'Antiquité et le Haut Moyen Age" (Paris 2003); "Tissus et vêtement dans l' Antiquité Tardive" (número monográfico de la revista AnTardive, 2004); "The Clothed Body in the Ancient World" (Oxford 2005) o el coloquio de la Universidad de Paderborn "Kleidung und Repräsentation in Antike und Mittelalter" (en prensa). Estos coloquios se ocupan principalmente del vestido como signo de rango social en el periodo que nos ocupa principalmente desde el punto de vista romano. El mundo bárbaro no ha merecido tanta atención en este aspecto, aunque hay que destacar entre los trabajos recientes el estudio de W. Pohl, Telling the difference: Signs of ethnic identity, publicado en Strategies of Distinction de la serie TRW (Leiden, 1998) con abundante bibliografía. El vestido denota diferencia de clases, actividad productiva o lo contrario, produce respeto o pánico, denota pobreza o riqueza, cultura o ignorancia. Esta palabras están escritas pensando o son el resultado de una reflexión sobre la sociedad norteamericana de fines del siglo XIX, momento de eclosión económica y del nacimiento de los barones de la industria y del desarrollo y crecimiento de sus ciudades. Pero son aplicables igualmente al mundo romano ( y a otras épocas de la historia en muy diversas sociedades: la Francia de Luis XIV, la Rusia de Pedro el Grande, Byzancio, China, India etc). Salviano de Marsella, escribiendo en la mitad del siglo V, señala explicitamente: " Cuando un hombre cambia sus vestidos, inmediatamente cambia su rango" (De Gub. 4.7). De todos es sabido que los romanos se definian por su vestimenta. El historiador Suetonio señala la preocupación del Emperador Augusto porque los ciudadanos romanos llevasen la toga, signo de distinción: "Ordenó a los ediles que no permitieran a nadie entrar en el espacio del Foro o en sus cercanías sin que se hubiesen quitado el manto y llevasen la toga" (Suet. DAug. 40). Significativamente, y coincidentemente, las mayoría de las imágenes (estatuas, relieves, pìnturas) de la época de Augusto son imágenes de togati. Estrabón, Para el mundo romano las cosas están relativamente claras. Es obvio, desde el punto de vista sociológico, que la vestimenta indica rango y estatus. Y este hecho se acentúa, como destaco en su dia un articulo pionero de Ramsay MacMullen, en el periodo de la antigüedad tardía como consecuencia de 27 o de signos externos de rango, pudiera originar conflictos entre las distintas clases sociales y estaba destinado a evitar intento de usurpaciones o delitos de maiestas. A ello se corresponden las leyes recogidas en el titulo 14 del Codex Theodosianus de habitu quo uti oportet intra urbem, que se analizaran en la presentación. escribiendo en época de Tiberio, opone el horrible y negro vestido de los celtíberos (el sagum) al civilizado y romanizado bético togado. Y un famoso pasaje del Agricola de Tácito señala que los habitantes de Britannia se transformaron en admiradores de los romanos y poco a poco se acostumbraron a llevar su vestimenta: Unde etiam habitus nostri honor et frequens toga (Tac. Agr.21). Con el paso del tiempo se observa un creciente interés por regular el tipo de vestido en Roma y diferenciar los ordines que constituían la sociedad romana. A partir de la Constitutio Antoniniana, que extendió la ciudadanía romana a todos los habitantes del Imperio, se intensifica más ese empeño en diferenciar las clases sociales por medio del vestido y sus signos exteriores, como ha observado R.R.R. Smith estudiando las esculturas de Afrodisias. Ello acaba reflejándose en la legislación. Y por ello surgen las leyes recogidas en los códigos y en algunos textos como la Historia Augusta. Fue al parecer Severo Alejandro (222-235) quien estableció la norma de diferenciar los grupos sociales utilizando diferentes tipos de vestido para cada uno de ellos. El texto que nos transmite esta noticia procede de la Historia Augusta y por tanto es sospechoso de que se refiera no a Severo Alejandro, sino que sea un reflejo de la situación de la épocas en la que escribe el autor, esto es, a fines del siglo IV. En cualquier caso la HA dice que Severo decidió asignar un tipo especifico de vestido a cada miembro de su séquito y a los funcionarios imperiales y no sólo a los distintos rangos de los mismos, sino a los esclavos, de forma que fueran fácilmente reconocibles. Los funcionarios se debian distinguir por sus vestidos (ut a vestitu dinoscerentur), los esclavos se debían identificar sin dificultad por su vestimenta. Este control del vestido, señala el autor de la Vita Severi, se hizo para evitar eventuales seditiones. En esta legislación, en este afán de señalar el rango y controlar la vestimenta, subyace la idea de que el uso inapropiado de los vestidos La importancia del vestido en la sociedad romana como signo de distinción o estatus esta igualmente presente en las artes visuales (las pinturas de Silistria, los mosaicos de Centcelles, las estatuas, los relieves, miniaturas, missoria etc). Mucho mas difícil es señalar cuales eran los signos de distinción de los pueblos bárbaros que se instalaron progresivamente en las provincias del Imperio a partir del s. V. Los textos a este propósito son contradictorios y es difícil distinguir en ellos los elementos etnográficos transmitidos y estereotipados e incorporados después a las descripciones de historiadores o poetas y su aplicación real. Un texto de Salviano (De Gub. V, 21-22) parece indicar que existía una diferencia clara entre la vestimenta de romanos y bárbaros: "Y aunque ellos [ los romanos] se diferencian de aquellos [los bárbaros] a quienes se pasan por lo que se refiere a la religión y la lengua, y aunque sientan repulsión por el mal olor de los vestidos y cuerpos de los bárbaros...prefieren llevar una vida a la que no están acostumbrados que sufrir la injusticia salvaje entre los romanos". Se trata del conocido tema de la preferencia de los provinciales romanos por convivir con los nuevos inquilinos, separándose de la administración romana, tema que se encuentra también en Orosio. Salviano señala las diferencias: religión y lengua, pero la referencia al vestido es bien poco explicita y seguramente un tópico mas de la visión del bárbaro en la historiografía romana. Por otro lado, nos gustaría saber cómo iban vestidos los bárbaros que entraron en Ilerda en el año 418 para vender los libros que 28 los ojos de los vivos, son colecciones invisibles, para utilizar la terminología de Krysztof Pomian, pertenecen solo a los muertos y están destinados a ser "vistos" por un espectador virtual. habían robado en el camino a Severo según relata la carta de Consencio a Agustín. Nadie se sorprende de su presencia, tratan con comerciantes y hasta son recibidos por el obispo Sagitius que al final se queda con los manuscritos. Mas significativo es un texto de Isidoro en su Historia Gothorum 51. Isidoro señala que el rey Leovigildo (569-586) fue el primero entre los suyos en vestir vestimenta real (primus inter suos regali veste operuit) y en sentarse en un trono (solio resedit).Y añade: "antes de él, vestido y asiento eran iguales para el pueblo y para los reyes". Este texto, muy discutido, puede significar que no habia elementos especiales de distinción entre los reyes y el pueblo godo. Pero en cualquier caso demuestra que los signos de distinción y rango los tomaron , al menos los godos, de los romanos, lo cual se expresa en las imágenes oficiales que conservamos de los reyes godos en las monedas. En esta misma dirección se expresa el texto del Anonymus Valesianus: "El pobre romano imita al godo, mientras que el rico godo imita al romano"(Anon. Val. 12.61: Romanus miser imitatur Gothum, el utilis Gothum imitatur Romanum). Aunque en los textos hay referencias a los elementos distintivos de rango en algunos pueblos bárbaros hay que subrayar que "el vestido sirve como marca de identidad social más que como distinción étnica" (W. Pohl). El significado de los objetos depositados en las tumbas del periodo ha sido abundantemente tratado por los arqueólogos que especifican que se trata, en ocasiones, signo de rango o prestigio o de origen étnico. Estas conclusiones han sido puestas en duda recientemente entre otros investigadores por Falko Daim e incluso D. Claude reconoce que a partir del siglo VI los visigodos son irreconocibles arqueológicamente en Hispania lugar de su asentamiento. En todo caso y para terminar, los eventuales signos de prestigio y rango o status social enterrados en las tumbas estan destinados a no ser vistos, a estar ocultos a 29 During Migration Period and in the Early Middle Ages the treasuries of kings and nobles could be full of gold, silver and precious stones, in form of coins, ingots, neckrings and bracelets, different kinds of ornaments as fibulae and belts, table-ware of gold, silver and with enclosed precious stones, crowns and jewellery, but also liturgical vessels and vestments and more and more relics and books were accumulated in palaces, courts and churches. Historiography, hagiography and poetry on the one hand, archaeological finds on the other hand demonstrate, that this material was used for royal and noble representation, the exchange of gifts, as marriage portions and dowries, as donations to saints and churches, to pay tributes and to support followers. It is evident more and more that not the material alone but the special character of some artefacts as objects of memory6 was the reason of the importance of treasures for the early medieval kingdoms and aristocrats. The accumulation of wealth in early medieval aristocracies Matthias Hardt During the last decade interdisciplinary research on early medieval treasures has taken progress in several works. On the one hand, hoards in an archaeological sense were topics of various essays, and on the other hand the treasures of kings and nobles, bishops and monasteries were objects of investigation. While there is still no answer to the question, if hoards oftener were hidden by reasons of wars or political instability or by religious intentions3, it seems that the meaning of treasures kept in a more public, non hidden way can be interpreted in a more certain way as instruments of power4 and as visualisation of sanctity5. 3 While royal treasures could commemorate the times of glory of tribes and kings by preserving prominent objects of war looty, signs of victory or of interethnic relations, aristocratic treasures7 could visualise the relations to kings and saints, the connections of noble families and their status in past and present. Visigoths around 630 defended a golden set of tableware which the frankish king Dagobert had been promised by the visigotic king Sisenand for help against an usurper8. The set had a special meaning, because, as it was told, it had been given Matthias Hardt, Verborgene Schätze nach schriftlichen Quellen der Völkerwanderungszeit und des frühen Mittelalters, in: Archäologisches Zellwerk. Beiträge zur Kulturgeschichte in Europa und Asien. Festschrift für Helmut Roth zum 60. Geburtstag, ed. by Ernst Pohl, Udo Recker und Claudia Theune (Internationale Archäologie 16), Rahden/Westfalen 2001, pp. 255-266; Helmut Geißlinger, Odysseus in der Höhle der Najaden – Opfer oder Schatzversteck ?, in: Das Altertum 47, 2002, pp. 127-147; Helmut Geißlinger, Nichtsakrale Moordepots -– dänische Beispiele aus der frühen Neuzeit, in: Germania 82, 2004, pp. 459-489; Sauro Gelichi, Condita ab ignotis dominis tempore vetustiore mobilia. Note su archeologia e tesori tra la tarda antichità e il medioevo, in: Tesori. Forme di accumulazione della ricchezza nell‘ alto medioevo (secoli V-XI), ed. by Sauro Gelichi e Cristina La Rocca, (Altomedioevo 3), Roma 2004, pp. 19-45; Monica Baldassari, Maria Chiara Favilla, Forme di tesaurizzazione in area italiana tra tardo antico e alto medioevo: l‘ evidenza archeologica, pp. 143-205. 4 Matthias Hardt, Royal Treasures and Representation in the Early Middle Ages, in: Strategies of Distinction. The Construction of Ethnic Communities, 300-800, ed. by Walter Pohl and Helmut Reimitz (The Transformation of the Roman World 2), Boston, Leiden, Köln 1998, pp. 255-280; Stefano Gasparri, Il tesoro del re, in: Tesori, pp. 47-67; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft. Die Schätze europäischer Könige und Fürsten im ersten Jahrtausend (Europa im Mittelalter 6), Berlin 2004. 5 Francois Bougard, Tesori e mobilia italiani dell‘ alto medioevo, in: Tesori, pp. 69-122; Cristina La Rocca, Tesori terrestri, tesori celesti, in: Tesori, pp. 123-141. 6 Matthias Hardt, Silverware in Early Medieval Gift Exchange: Imitatio Imperii and Objects of Memory, in: Franks and Alamanni in the Merovingian Period. An Ethnographic Perspective. Ed. by Ian Wood (Studies in Historical Archaeoethnology 3), Woodbridge 1998, pp. 317-342. 7 Pierre Riché, Trésors et collections d’ aristocrats laiques carolingiens, in: Cahiers archéologiques 22, 1972, pp. 3946. 8 Fredegar IV/73, p. 157f.; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, pp. 286f. 30 to king Thorismud by the Roman general Aetius after the victory over the Huns at the Catalaunian fields in 451. A comparable meaning must have had the missurium ad exornandam atque nobilitandam Francorum gentem, that the merowingian king Chilperic had designed for the greater glory and renown of the Frankish people in the second half of the 6th century after the report of Gregory of Tours9. The most well known piece of art with this meaning is the drinking-cup, which the lombard king Alboin had ordered to make from the scull of hid gepid rival and father-in-law Kunimund, whom he had killed in a battle in 567. This drinking cup was showed in the lombard treasury still in the middle of the 8th century by king Ratchis (744-749)10. The treasure of count Eberhard of Friaul and his wife Gisela, listed up in their testament in the second half of the ninth century (863-864), included signs of rulership, paradeweapons carrying within them the virtues of the ancestors (nine swords, four of them adorned with gold and silver, six daggers (facila), four courts of mail, three helmets, one hauberk, greaves, four golden spurs, four gauntlets and seven baldrics)11, tableware and the fitting of his chapel as books and liturgical apparatus. The will reflects the position of the aristocratic family with close connections to the house of the carolingian emperors and the hope on more political influence of their heirs12. The gold, the silver and the precious stones which were the basis of all these objects still came from Roman resources, had been brought to the germanic regna from the treasuries of Roman or Byzantine emperors, their administration or from private owners inside the Empire. Germanic kings and their followers were the successors of late antique tax and toll collectors13, kings as Alaric I. and Geiseric I. had plundered Rome and received lots of annual payments, tributes and ransoms. Clovis I. set up his kingdom by military strikes against other frankish chiefs and the burgundian and visigothic kings, taking over the treasures of the defeated enemies. The history of the kingdoms of the early middle ages is full of struggle about treasures, and still in the eighth century, when the influx of gold to the western world ceased more and more, the only possibility to accumulate a stock of gold was to capture the treasures of neighbouring rulers. So Charlemagne could bring the treasures of the lombard king Desiderius and the bavarian duke Tassilo III. into his ownership, his troops plundered gold and silver from pagan sanctuaries in Saxonia (Irminsul), and the most successful of his military raids hunting treasures was the attack on the so called “Ring of the Avars”, where the khagans had accumulated the gold and silver they had plundered on the balkanpeninsula and in Italy centuries before. According to an account in the Northumbrian Annals, in the autumn of 795 alone a total of fifteen carts, each drawn by four oxen, were dispatched to the Frankish kingdom from the Pannonian plain, laden with gold, silver and silks. It was presumably the treasure of the Avars that made possible the imperial coronation of Charlemagne on Christmas Day 800. At Rome, in repetition of imperial practices of late antiquity, besides a quantity of other 9 Gregory of Tours, Historiae VI/2, p. 266; VII, 4, p. 328; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, p. 287. 10 Paul the Deacon, Historia Langobardorum II/28, pp. 104f.; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, pp. 287f.; Stefano Gasparri, Kingship Rituals and Ideology in Lombard Italy, in: Rituals of Power. From Late Antiquity to the Early Middle Ages. Ed. by Frans Theuws and Janet L. Nelson (The Transformation of the Roman World 8), Leiden, Boston, Köln 2000, pp. 95-114, here p. 105. 11 Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms and Rituals of Power: Continuity and Change in the Carolingian Period, in: Rituals of Power, pp. 281-309, here p. 290f. 12 Cristina La Rocca, Luigi Provero, The Dead and their Gifts. The Will of Eberhard, count of Friuli, and his wife Gisela, daughter of Louis the Pious (863-864), in: Rituals of Power, pp. 225-280. 13 Chris Wickham, The other Transition: from the ancient World to Feudalism, in: Past and Present 103, 1984, pp. 3-36, here pp.19-22; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, pp. 136-157. 31 gifts he gave a large gold paten with various jewels, with the inscription “Charles”, weighing 30 pounds14 to the church of St. Peter. Rome, and to cathedrals throughout his Empire. In this way the materials of the royal treasures, given as gifts, were necessary to open aristocratic careers, because mobilia as ornaments, belts and weapons or tableware of royal provenience were able to demonstrate status and rank of their carriers17. The display of material wealth to mark an aristocratic life-style was possible only by military success as a follower of a king or emperor. From them one could get positions in administration, offices as functions as dux, count or directly inside the royal entourage. In the vicinity of the royal court and the treasury aristocrats could find the high specialised workshops of gold- and silversmiths and those who were able to cut precious stones to produce the special objects of aristocratic distinction. The banquets in the king’s hall were taken as models for noble feasting, and the royal chapel with its liturgical apparatus was imitated in aristocratic house-chapels. Perhaps at the kings residences there were too the officinae which produced the swords, the byrnies (bruniae) and the helmets, which signed the military outfit of the warriors. The royal palace was a distributor of wealth, which itself was imitated more and more in the provinces of the regna at the courts of margraves, bishops, abbots and counts, who themselves built up clienteles and followers with bonds of fidelty by the practice of gift-giving18. Not only royal representation was the point of use of the treasures in the ownership of emperors and kings, but to establish relationship between them and their immediate environment too. Tacitus, in his Germania, describes vassal relationships in which one of the things that characterised the bond between master and man was the distribution of gifts by the liege lord to his retainers15. Opulent endowments from the king to his army and followers run like a read thread through the history of the Early Middle Ages, from the false gold bracelets that Clovis bestowed on the followers of his rival Ragnarchar of Cambrai, through the the portions of the looted treasure of the Avars that Charlemagne handed out to his victorious troops. The monk Notker of St. Gallen reports, that Louis the Pious gave gifts to all servants of his palace, each of them after his rank: “sword-belts, arms and very rich clothes for the most noble, and for those lower down the scale, Frisian cloaks of various colours”16. Rich gifts were also a feature of the kings relationship with supernatural forces. Following his victory over the Visigoths in 507, Clovis donated part of the spoils in a solemn offertory to the church of St. Martin in Tours. In 762, Pippin did the same for the Monastery of Our Saviour at Prüm, and Charlemagne dispatched much of the treasure of the Avars to St. Peter’s, During the ninth century with the dryingup of Rome’s gold the problems to get an income in precious metals increased more and more. Plundering raids of Normans, Hungarians and Sarracens diminished the treasuries of all, especially of kings and churchmen. This might be the reason that the meaning of land as a royal gift became 14 Liber pontificalis, Vita Leonis III, c. 24. Tacitus, Germania 14, 1. 16 Notker, Gesta Karoli II, 21: In qua etiam cunctis in palatio ministrantibus et in curte regia servientibus iuxta singulorum personas donativa largitus est, ita ut nobilioribus quibuscumque aut balteos aut fascilones precisiosissimaque vestimenta a latissimo imperio perlata distribui iuberet; inferioribus vero saga Fresonica omnimodi coloris darentur; porro custodibus equorum pistoribus et cocis indumenta linea cum laneis semispatiisque, prout opus habebant, proicerentur. See Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 294f. 15 17 Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 286f. Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 287-291, 293f. 18 32 more important now than in times of migration and in the Merovingian period. A process of feudalisation began, in which the property of land and the ownership of large estates by warriors were granted by the kings as a counter-gift for loyal service. Fiscal properties often were alienated now as a result of the reduced power of kingship, which had lack both on gold and land soon19. As a conclusion, it seems to be necessary to discuss 1) if early medieval aristocrats climbed up by accumulating mobile wealth in close relationship to the treasures of kings and emperors, whose gifts made them able to demonstrate rang and status and 2) the question what happened, after the system of tax-collection as a resource of gold in royal income had collapsed and war, plundering-raids and tributes no longer could fill up the treasuries of kings and the family-hoards of aristocrats and nobles. The royal gift of land-property and the predominance of feudal ties with its contribution of rents, which had coexisted since late-antiquity, in the ninth century seems to have prevailed as a consequence of the lack of gold as an instrument of power. 19 Chris Wickham, The other Transition, p. 29. 33 Rappresentatività sociale epigrafi tra IV e X secolo delle importante veicolo di affermazione sociale delle élites. Si possono verificare adattamenti locali della scrittura, ma non cambiano i motivi che inducono a scrivere per le élites o dalle élites (intese come committenti). Il filo rosso che unisce i secoli della tarda antichità e medioevo alto non sembra interrompersi. Esso consiste, tanto in ambito laico, tanto in quello ecclesiastico nell’affidare alla epigrafe un testo che deve essere letto, ma anche riconosciuto mediante precisi “formalismi” (indicatori grafici o ornamentali, o entrambi, riconoscibili come univoci e qualificanti di determinate e precise élites) come strettamente collegato alle classi egemoni. Le iscrizioni hanno continuato a rappresentare, così come per il mondo classico, attraverso la scrittura, l’impaginazione, la eventuale decorazione, non solo coloro che le hanno fatte realizzare, ma eventualmente anche il rango di appartenenza del committente stesso. Flavia De Rubeis L’indagine sulla rappresentatività sociale delle epigrafi lungo l’arco cronologico che va dal IV al X comporta un tipo di approccio su livelli tra di loro distinti: scrittura, testo e committenza. Ho scelto di verificare se sotto il profilo della produzione epigrafica sia lecito parlare di rappresentatività sociale dei manufatti epigrafici, in quanto testimoni delle società e dei vertici di queste società. Tradizionalmente, per i primi secoli della cronologia qui presa in esame, viene individuata una crisi epigrafica che avrebbe progressivamente coinvolto l’intera produzione fino a giungere ad una radicale trasformazione di questa, lasciando salva una produzione, numericamente in progressiva diminuzione, legata ai vertici delle società, ecclesiastici e laici. È stato già osservato come questa crisi sarebbe stata indotta in parte da quei gruppi provenienti da aree dell’Europa settentrionale non avvezze all’uso della scrittura e caratterizzate inizialmente dalla assenza di pratiche di trasmissione della memoria funeraria in forma scritta. A queste motivazioni di ordine culturale, si aggiungono poi considerazione di altro ordine, quali il progressivo analfabetismo, le crisi economiche, le crisi delle città, e via dicendo. Se questo fenomeno di crisi, con le motivazioni addotte a sostegno, è vero per la gran parte delle produzioni epigrafiche nel loro complesso, non è altrettanto vero per quel che concerne quei manufatti legati alle alte gerarchie delle società alto medievali in generale. Una pratica funeraria scritta rimase a caratterizzare con espedienti grafici e ornamentali le gerarchie alte, trasformando, diversificando o adattando preesistenti modelli epigrafici, testuali e grafici. Ho scelto di esaminare, per confronto, due differenti ambiti: Roma, da una parte; dall’altra l’Italia settentrionale interessata a più riprese da avvicendamenti insediativi differenti: Goti, Longobardi e quindi Franchi. Per la città di Roma, i secc. IV e V rappresentano una prima importante tappa sotto il profilo epigrafico: la nascita e lo sviluppo delle scritture “damasiane”, legate alla figura del papa e all’opera del suo copista Furio Dionisio Filocalo, volte alla celebrazione della memoria dei martiri e realizzate mediante l’impiego di un sistema grafico molto ben identificabile, danno inizio ad una ininterrotta, almeno fino al secolo IX ex., divaricazione tra produzione legata ai vertici della società romana e una produzione legata invece ai pontefici, intendendo quei manufatti epigrafici fatti realizzare o su committenza diretta dei pontefici medesimi, o realizzati per questi, come le iscrizioni funerarie. Muta il rapporto che a partire dal secolo V lega tra di loro produzione epigrafica, sepolture, classi sociali di appartenenza in termini di impoverimento numerico e qualitativo. In una indagine La scrittura ha costituito, al pari di quanto accaduto già nel mondo romano, un 34 Lorenzo. Presso le basiliche di San Pietro in Vaticano, di San Paolo fuori le Mura sono documentate iscrizioni di carattere familiare relative ad appartenenti alle più alte gerarchie ecclesiastiche: in San Paolo fuori le mura trovò collocazione la tomba familiare del futuro papa Felice III e lì viene sepolta anche la moglie di Felice, quando ancora era diacono, Petronia, forse della gens Anicia e forse trisavola di Gregorio Magno (come sembrerebbe da un passo dei Dialogi, IV, 16) (ICUR II, 4964). E all’interno delle aree monumentali, sulla scorta della grande epigrafia damasiana, celebrativa dei martiri appunto – e quindi di quella particolare aristocrazia della cristianità costituita dai campioni della fede – compaiono anche i carmi celebrativi. Sarà una ricerca vana e infruttuosa quindi cercare nelle grandi aree cimiteriali comunitarie testimonianze di altrettanta ampia memoria celebrativa scritta legata alle classi meno in vista, ai morti “comuni”. In tali sepolcreti il ruolo svolto dal monumento familiare assume un significato nuovo, o ne rinnova uno vecchio: nelle aree cimiteriali comunitarie, quali le catacombe, tornano le tombe gentilizie a separare i meno abbienti dai più abbienti. condotta sul rapporto tra inumati e iscrizioni nella Roma tra i secoli IV-VI, Carlo Carletti ha tradotto in numeri questo impoverimento: nell’area cimiteriale dei Santi Marcellino e Pietro sulla via Labicana, su 22.500 sepolture, solo il 10% risulta corredato di iscrizioni a fronte delle rimanenti anepigrafi; stessa situazione nel cimitero di estensione media di Sant’Agnese sulla Nomentana, dove su 5.753 inumati, solo 826 presentano testo scritto. All’interno di tali cimiteri vasti ed affollati, non vi sarebbero distinzioni di classi sociali, o di tipo economico. A fronte di queste aree cimiteriali, povere nelle espressioni scritte, si contrappongono le aree cimiteriali che sorgono presso le basiliche circiformi, edificate a Roma verso la metà del secolo IV. Presso la basilica Apostolorum, situata lungo la via Appia, tra il 340 e i primi decenni del V secolo vennero inumati circa 1000 individui. L’incidenza delle iscrizioni che corredano queste sepolture è pari al 60 %, tradotto in numeri, 586 tombe risultano corredate da testo scritto. E ad una più attenta analisi rispetto al mero dato numerico, risulta cambiata anche la tipologia delle persone cui si fa riferimento: si tratta di un cimitero ipogeo prevalentemente adibito a sepolture familiari importanti, come inequivocabilmente indicano, ad esempio, i viri clarissimi, le clarissimae feminae, o destinate a funzionari e dignitari. Esse testimoniano – cito qui le parole di Carletti - della “ascesa di una intraprendente classe emergente che occupa ruoli sempre più rilevanti nell’ambito della curia pontificale”, individui per i quali “prestigio, estrazione e potere si perpetuano anche nell’ultima dimora”; a queste sepolture si aggiungano le tombe di individui appartenenti alla aristocrazia romana convertita o alla aristocrazia ecclesiastica. Per questo gruppo la perpetuazione della memoria, unitamente alla necessità di evidenziare il prestigio della famiglia, il potere, si traduce anche nella necessità di scegliere il luogo destinato alle sepolture: le grandi basiliche dei grandi martiri, quali quelle cimiteriali della via Cornelia, dell’Ostiense, della Tiburtina accanto ai santi di maggiore “prestigio”, quali Pietro, Paolo, La scrittura damasiana, nella sua interpretazione successiva, sarà ripresa dalle gerarchie ecclesiastiche e da quelle urbane per essere utilizzate all’interno delle iscrizioni funerarie, unitamente all’uso dell’elogium: l’iscrizione del prete Marea, dell’anno 555, conservata nell’atrio di Santa Maria in Trastevere, ricorda il defunto celebrandone con un elogium esteso la memoria ed utilizzando per la realizzazione una capitale damasiana priva di apicatura. Questa scrittura, dal modulo schiacciato, è destinata ad essere sostituita, per la città di Roma, da una maiuscola, di base capitale, dal modulo oblungo, all’interno della quale possono apparire frequenti intrusione della scrittura libraria onciale. Diversamente, per i pontefici si ricorre all’impiego della capitale epigrafica in via i 35 costituito da tre iscrizioni dedicatorie eseguite sotto Adriano I. La prima è incisa nella trabeazione della pergula di Sant’Adriano; compressa lateralmente, secondo i dettami delle scritture epigrafiche coeve, essa non mostra alcuna apertura alle forme derivanti dall’onciale. Le lettere, rigidamente scandite all’interno del listello posto sotto le onde correnti, sono equidistanziate fra loro con regolarità. La medesima scrittura, ancorché meno curata nell’esecuzione compare in un prodotto legato forse allo stesso pontefice, la pergula di Santa Martina dove la capitale, sebbene trascurata nell’impaginazione, presenta forme analoghe a quelle viste nell’iscrizione di Sant’Adriano. A fronte di queste iscrizioni, precise espressioni del patrocinio papale, una epigrafe tradita da un frammento di cornice (una pergula?), ancora conservata presso i depositi in Santa Maria in Cosmedin e dedicata al medesimo pontefice Adriano I, mostra una fortissima apertura verso l’onciale: le lettere D, E, ed M , la A viene coronata da un pesante tratto orizzontale. Il committente non è un pontefice: è un certo Gregorius, non meglio identificato, forse un notaio. A parità di cronologia, l’iscrizione si presenta come un prodotto di livello medio, con un sistema grafico ben strutturato (non mancano esempi già nel secolo precedente), ma certamente diversificato rispetto alle iscrizioni utilizzate per papa Adriano I. verticalizzazione nel modulo, per distinguere anche attraverso la scrittura il rango di appartenenza del committente. Il fenomeno di divergenza “epigrafica” si consolida fino a divenire pratica costante. Nella iscrizione dedicatoria di Giovanni VII (705-707) in Santa Maria Antiqua l’eleganza formale delle lettere corrisponde pienamente al valore monumentale della scrittura: le lettere, chiaroscurate dal contrasto di pieni e filetti, si stagliano nitide a tinta rossa sul fondo bianco. L’iscrizione corrisponde pienamente ai criteri di programma di esposizione grafica espressi già dalle iscrizioni in greco volute dal medesimo pontefice, con citazioni veterotestamentarie, presenti nella medesima struttura, sull’arco di trionfo: il testo greco così come le iscrizioni didascaliche che corrono lungo le teste dei santi affrescati all’interno della medesima chiesa, rispondono, come è stato precisato, ad un definito programma di esposizione grafica realizzato mediante l’utilizzo della scrittura di apparato dei codici di lusso. Ma basta spostarsi di poco, sempre all’interno della medesima Santa Maria Antiqua, per percepire appieno la diversità di usi scrittori tra iscrizioni “pontificie” e iscrizioni legate a membri dell’alto clero o dell’alta gerarchia sociale romana. L’iscrizione dedicatoria di poco successiva rispetto a quelle di Giovanni VII, del primicerio Teodoto, affrescata in Santa Maria Antiqua prima del 752, anno di morte del papa Zaccaria ivi raffigurato come vivente, è eseguita in maiuscola di tipo capitale che si differenzia tuttavia dalla dedicatoria di Giovanni VII per il modulo e per lo sviluppo delle lettere che appaiono infatti scarne e complessivamente disordinate nell’allineamento, nonché , presentano tutte le curve spostate verso le estremità (come nella S); le traverse e gli occhielli sono posti nella parte superiore del corpo delle lettere (come nelle M ed N): modelli tutti che caratterizzano la produzione epigrafica romana di medio e alto livello del secolo VIII, ad eccezione di quella pontificia. Un esempio eclatante di questa dicotomia nell’uso della scrittura è Come ho già anticipato, il giro di boa dell’epigrafia romana, in termini di diversificazione e articolazione su piani differenziati per ceti sociali, è costituito dal secolo IX, fine del secolo IX. È tradizione, nella letteratura epigrafica, come l’iscrizione funeraria di papa Adriano I, voluta da Carlo Magno, abbia costituito un precedente illustre per far tornare in auge la capitale epigrafica di tradizione romana. In realtà questa associazione non corrisponde pienamente a quanto verificatosi a Roma nel secolo IX. Oggi esposto nell’atrio della Basilica di San Pietro, l’epitaffio, incorniciato da un ricco 36 gruppo delle iscrizioni di media committenza. A fronte, sempre riferibile al medesimo pontefice Leone IV, l’iscrizione del ciborio conservato in San Giovanni in Laterano inscrive lettere di modulo ridotto in altre di modulo maggiore, ed è meno curata nell’esecuzione e irregolarmente allineata. fregio, è eseguito in capitale epigrafica pura. L’esame condotto sulle iscrizioni posteriori e quindi fino al secolo successivo, non ha evidenziato alcun fenomeno diretto di imitazione di questa scrittura. Al contrario, la produzione successiva alla lastra di Adriano, non dimostra in alcun modo di aver recepito il modello adrianeo della scrittura: la presenza costante della C quadra nelle iscrizioni pontificie funerarie, quale quella ad esempio di papa Adriano II, dimostra al contrario di avere assorbito i moduli di una scrittura di tipo capitale con presenza pressoché costante di C quadra. Già è stata osservata la mancata influenza che almeno fino alla metà del secolo IX questa iscrizione avrebbe sofferto. Essa in realtà veniva ad inserirsi in una continuità dell’uso della capitale strettamente legata, come si è visto, alle figure o alle opere volute dai pontefici. Si ha l’impressione che l’epigrafe non abbia rappresentato un modello da imitare, ma si sia inserita in una tradizione grafico culturale già consolidata, andandola semmai a rinforzare. Una dicotomia grafica che sembra continuare ancora per qualche tempo, come sembrerebbero indicare le epigrafi di seguito citate. La prima è incisa su un ciborio proveniente da Porto, e reca una dedicatoria a Leone III papa da Stefano, che, pur essendo di elevata committenza, non raggiunge la qualità delle iscrizioni pontificie: sono infatti presenti O a rombo e H onciali. La seconda, sull’architrave del portale d’ingresso alla cappella di San Zenone in Santa Prassede, viene eseguita per il pontefice Pasquale (aa. 795-816): qui la capitale è pura, regolare, con lieve restringimento laterale del modulo, così come era comparsa nella trabeazione in Sant’Adriano di pochi anni precedente. Anche le iscrizioni leonine presso le mura della civitas leonina, di committenza pontificia, presentano una regolare maiuscola di tipo capitale, ad eccezione della iscrizione relativa alla milizia Saltisina, che invece sembra appartenere al Una novità compare nel secolo IX: l’introduzione delle lettere dal disegno quadrato nella capitale epigrafica (come la C o la G). L’epitaffio di Nicola I (morto nell’anno 867) indica questa innovazione nel disegno geometrico tendente al quadrato delle lettere C e G; con l’iscrizione funeraria del suo successore, Adriano II, i modelli quadrati delle lettere appaiono bene affermati. Ma in questo momento, la capitale epigrafica è tornata ad essere patrimonio di più ampi strati della cultura epigrafica urbana. L’epitaffio di Leone cubicolario, proveniente dai Santi Cosma e Damiano, attribuito al secolo IX, elegante nell’allineamento, in capitale priva di elementi librari con le lettere che tornano ad essere meno sviluppate in senso verticale e meno affastellate, ne è eloquente esempio: esso non appartiene al gruppo legato alle figure e alle volontà dei pontefici, ma di questo possiede tutte le caratteristiche. È il momento in cui la divergenza tra iscrizioni pontificie e iscrizioni di medio o alto rango si fondono fra di loro, eliminando quella distanza che era stata impostata con le scritture damasiane e che si era protratta nei secoli. Per l’Italia settentrionale, al di fuori delle produzioni legate alle gerarchie ecclesiastiche, in ambito laico il fenomeno di identificazione da parte delle gerarchie laiche mediante le scritture esposte appare in perfetta sintonia con quanto già visto per la città di Roma. Prescindendo dalle iscrizioni gote, le quali tradiscono pienamente l’adesione formale ai modelli della scrittura epigrafica di tradizione romana, l’impiego della scrittura esposta 37 filetti). Le lettere sono ombreggiate da lievi apicature e il testo è circondato da cornici variamente ornate. Iscrizioni che non sono solo da leggere, ma anche da guardare nel loro aspetto decorato. diviene rapidamente appannaggio anche delle nuove élites costituite dai gruppi longobardi insediatisi a partire dalla fine del secolo VI nei territori settentrionali. La creazione di un modello epigrafico e scrittorio aulico riservato appare una precoce preoccupazione dei Longobardi medesimi. È noto, o comunque appartiene alla letteratura paleografica consolidata, come i Longobardi al loro primo apparire di qua dalle Alpi nei territori italici, fossero sostanzialmente analfabeti . Ma è altrettanto nota la loro rapida acquisizione della scrittura nel suo complesso, intendendo qui produzione libraria, epigrafica e documentaria, senza immaginare ovviamente alle spalle del fenomeno una nazionalità tutta longobarda degli scriventi fin dai primi esitanti passi della produzione scritta italo-settentrionale. Non torno qui sull’importanza di questo processo di rapida integrazione culturale con le preesistenti popolazioni italiche, tema già altrove trattato, né sulle motivazioni che spinsero i Longobardi ad appropriarsi di questo potente veicolo di insediamento capillare costituito dalla scrittura stessa. Quello che intendo sottolineare, ancora una volta, è il precisarsi di forme grafiche utilizzate in esclusivo ambito epigrafico per ben precise categorie sociali, quelle delle élites. Le iscrizioni funerarie longobarde, così come le iscrizioni dedicatorie, celebrative e via dicendo da questi stessi fatte produrre e ostentate nei principali luoghi del potere corrispondono pienamente, negli intenti, a quanto evidenziato per la città di Roma: i Longobardi hanno dato vita a un tipo di epigrafia estremamente caratterizzata, in cui al recupero di forme antiquarie si affiancano fenomeni grafici assolutamente originali. Con il secolo VIII, gli inizi dell’VIII, la tipologia delle iscrizioni funerarie auliche longobarde viene compiutamente a definirsi: elementi caratterizzanti sono la scrittura esile, dal modulo compresso lateralmente; esile anche il solco, quasi ad evocare le eleganti e slanciate forme della capitale libraria (sebbene con minore accentuazione dei contrasti tra pieni e A Pavia, la capitale del Regnum longobardo, lo sviluppo di un modello epigrafico funerario riservato si caratterizza nella scrittura e nell’apparato decorativo tanto da aver consentito l’individuazione di un’epigrafia pavese. Qui l’alto rango dei personaggi trova nella capitale la scrittura idonea ad assicurare l’importanza e la solennità dell’iscrizione. Si tratta di una scrittura di tradizione capitale, anche se estremamente esile nelle forme e articolata in moduli fortemente verticali, dalle lettere canonizzate in modelli precisati: per questa tipizzazione scrittoria credo si possa parlare non di semplice evocazione di modelli tardo antichi, ma di vera e propria “capitale longobarda”. L’iscrizione funeraria del re Cuniperto costituisce una significativa tappa di questa epigrafia riservata longobarda, sebbene non manchino già per il secolo precedente esempi illustri di scritture esposte auliche. L’iscrizione, conservata presso i Civici Musei del Castello Visconteo di Pavia e proveniente dal monastero di San Salvatore, sintetizza il linguaggio figurativo e testuale di questa scuola pavese: tre croci sovrastano il testo; la scrittura, dal modulo compresso lateralmente e sviluppata verso l’alto, è allineata con gran cura all’interno dei binari costituiti dalle rettrici; i modelli grafici sono quelli caratterizzanti della capitale longobarda (M, N e R; da osservare la A con la traversa obliqua o spezzata e la presenza di nessi; sulle lettere è presente apicatura). Anche per la figlia di Cuniperto, la badessa Cuniperga, viene eseguita una iscrizione funeraria solenne, attualmente conservata a Pavia, presso i Musei Civici del Castello Visconteo, attribuita alla metà circa del 38 delle élites distribuita nel tempo e nello spazio lungo i territori di dominazione longobarda. L’iscrizione di San Pietro in Valle a Ferentillo, del duca Ilderico, pur non presentando quelle caratteristiche grafiche di elevata qualità ravvisabili delle produzioni delle officine pavesi, risponde tuttavia alle medesime intenzioni di fondo: celebrare, attraverso un prodotto di qualità, decorato e iscritto, la provenienza del committente e l’appartenenza ad un ceto elevato. Ritengo infatti che ai medesimi intenti celebrativi del re Cuniperto, o del re Liutprando o chi per loro, rispondano anche le iscrizioni di media qualità grafica distribuite nei territori longobardi. Il filo che le accomuna rimane comunque il medesimo; il problema semmai riguarda la qualità delle manovalanze e degli “operatori” della scrittura. Una officina isolata che pratichi l’epigrafia in una remota valle appenninica, ancorché destinata a produzioni elevate, raramente potrebbe produrre manufatti della medesima qualità grafica ed espressiva di una officina pavese. Ciononostante, gli intenti celebrativi rimangono i medesimi: qualificare il committente mediante la scrittura. Anche qui si tratta di indagare la produzione epigrafica mantenendo come punto di riferimento stabile gli intenti, e quindi, in seconda battuta, qualificarne la scrittura. Ribaltare il ragionamento porterebbe a pericolose storture nelle conclusioni le quali inevitabilmente comporterebbero una qualificazione al negativo delle iscrizioni medesime, e quindi potrebbero implicare il ricorso al concetto della crisi delle élites evidenziata dalla media o bassa qualità del manufatto. È evidente che una produzione periferica, per esempio rispetto alle officine pavesi, o ai manufatti di Cividale del Friuli, tradisce spesse volte anche qualità differenti. Ma è altresì evidente che tali diversità devono necessariamente essere ascritte alle officine stesse piuttosto che ad una supposta crisi complessiva culturale delle élites. Il ricorso alla scrittura rimane comunque un secolo VIII. L’impaginazione, le forme grafiche, la distribuzione del testo su due colonne con le righe chiuse singolarmente (almeno nel frammento conservato) da distinguenti, la cornice a tralci e foglie e grappoli inscritta tra due sottili listelli a riquadrare il testo: anche nell’iscrizione di Cuniperga tutto riporta alla produzione riservata delle élites. La produzione complessiva longobarda legata alle alte gerarchie sociali rivela nell’insieme il medesimo intento autocelebrativo, e comunque denota una incisiva determinazione ad affermare l’appartenenza del committente, o del ÈÈÈpersonaggio ricordato, mediante il ricorso a precise norme scrittorie e decorative. Elementi questi che, come già si è osservato per la città di Roma, non sembrano potersi ravvisare nelle produzioni epigrafiche rimanenti. Mi riferisco qui ad esempio alle iscrizioni funerarie – peraltro estremamente rarefatte nel panorama epigrafico longobardo – legate a personaggi legati alle strutture ecclesiastiche o a laici non altrimenti identificabili. Questa particolare produzione, pur facendo ricorso agli stilemi grafici di tipo longobardo qui in precedenza ricordati, non rivela tuttavia la medesima qualità grafica né tanto meno il medesimo ricco apparato decorativo. Una diversità che ha fatto parlare in tempi lontani da Nicolette Gray di differenti scuole grafiche, un concetto messo a più riprese in discussione e attualmente ritenuto superato. Certamente una diversità scrittoria è ravvisabile tra le iscrizioni di alta produzione e le iscrizioni legate a quel brulichio di personaggi non identificabili ricordati dalla stessa studiosa. Ma questa diversità, a mio avviso, risiede ancora una volta nella committenza che riserva, credo consapevolmente mediante il ricorso a precise officine, una peculiare tipologia scrittoria solo per sé medesima. Ma anche qui è necessaria una precisazione. Le diversità grafica non è indice di una crisi 39 scrittura utilizzata con la fine del secolo IX non è più l’esile capitale longobarda in lastre incorniciate da bande a tralci. Il sistema scrittorio, pur rimanendo nell’ambito della capitale, è un’epigrafica di tipo carolino, ossia quel particolare sistema elaborato e recuperato con gusto antiquario dalla cultura carolingia, tratto dai modelli epigrafici o dalle scritture d’apparato dei codici: una scrittura da modulo quadrato, sostanzialmente priva di apicature. elemento di qualificazione significativo, così come significativa è la sproporzione numerica che distanzia le alte gerarchie sociali dal rimanente complesso umano che intorno a queste gravitava. La capitale longobarda, esile nei tratti e dal modulo stretto e verticale è soppiantata dalla capitale epigrafica carolina, la quale reimpone i modelli dell’antica epigrafia classica (quella dei secoli I e II), nelle elaborazioni librarie dei codici tardo antichi e attraverso la diretta imitazione delle epigrafi romane presenti nei territori di dominazione carolingia. Le iscrizioni eseguite secondo i modelli longobardi, che identificavano anche attraverso l’impaginazione delle scritture il contesto d’appartenenza (e di emanazione), e che dichiaravano la committenza attraverso gli elementi che qui si è cercato di definire, al cadere di questa ultima cessarono di aver ragione di essere; un equilibrio formale destinato a durare fino a quello che, con felice espressione, è stato definito da Saverio Lomartire“il giro di boa dei recuperi classici” fortemente voluto dai carolingi. Anche nei testi delle iscrizioni bresciane lo sviluppo epigrafico sembra il risultato di una frattura e di un abbandono della tradizione longobarda: non un solo riferimento all’epitaffio della regina Ansa, la moglie dello sconfitto re Desiderio, che pure aveva ispirato a Paolo Diacono la composizione di un carme funerario. Al contrario, nell’epitaffio del prete Tafo, datato 897, rinvenuto nel 1885 e conservato presso i Civici Musei di Brescia, i confronti si possono stabilire con Alcuino e con Venanzio Fortunato, autore tanto amato dalla poesia carolingia. Nell’epitaffio del vescovo di Brescia Landolfo I, vissuto alla fine del secolo IX, il cui testo è tramandato da una copia del 1609 eseguita da Gian Francesco Fiorentino, compaiono nuovamente richiami ad Alcuino, a Lucano, e ancora, a Venanzio Fortunato. Per l’Italia settentrionale, nel secolo IX la tipologia epigrafica individuata per le produzioni d’alto livello è destinata a subire un drastico cambiamento nel giro di tempi molto brevi. Tuttavia sarà necessario attendere quasi un secolo prima che la capitale carolina diventi pienamente scrittura epigrafica canonizzata, come altrove al contrario si era già verificato. Sotto il profilo grafico, le iscrizioni conservate a Brescia presso i Civici Musei, in parte legate alle badesse del monastero di San Salvatore si presentano povere nell’impaginazione, disordinate nell’esecuzione della scrittura (anche qui una capitale epigrafica di tipo carolino). Si ha l’impressione che venendo meno la classe dominante longobarda sia andato perduto anche il significato di schemi culturali da questi prodotti. Nell’iscrizione di Ermingarda, attribuibile al secolo IX, rinvenuta nel 1979 presso il chiostro sud occidentale del monastero di Santa Giulia a Brescia e conservata presso i Civici Musei della città, il testo viene disposto nei quadranti costituiti dai bracci della Esempi d’iscrizioni di legate a figure appartenenti, o comunque legate, alla classe dominante franca sono documentati a Brescia, dove sono conservati epitaffi di abati e di badesse del monastero regio di San Salvatore. Qui il mutamento grafico è immediato, segni dell’avvenuta ricezione del nuovo sistema si possono già vedere con la metà del secolo IX, sebbene non sia del tutto abbandonata la capitale longobarda. La 40 Carlo, morto nell’anno 806, a Bernardo, re d’Italia, ucciso nell’anno 811. E rifacimenti quattrocenteschi sembrano anche essere le iscrizioni di Ludovico II, morto nell’875 e quella del vescovo Ansperto, morto nell’881. Su tutte, ritenute a lungo opere di elevata qualità grafica originarie, grava dunque - più di un sospetto. croce. Qui il testo, allineato con poca cura, sale con le ultime due lettere lungo il potenziamento del braccio; la G è quadra, la M ha le traverse alte e la N presenta la traversa attaccata ai vertici delle aste; il modulo pur essendo ancora sviluppato verso l’alto, tende a divenire quadrato (vedi la lettera A con la traversa scesa verso il basso). Si tratta, in definitiva, di una iscrizione “di transizione”. La rivoluzione grafica ed epigrafica dei secoli VIII e IX legata ai Franchi in Italia settentrionale sembrerebbe aver avuto, come conseguenza, l’immissione di forme nuove rispetto ai modelli precedenti; questa immissione tuttavia non ha prodotto sistemi misti, o elaborazioni locali, derivanti dalla commistione delle due tipologie epigrafiche (capitale longobarda e capitale epigrafica carolingia). Al contrario, l’impatto di modelli differenti nel modulo e, conseguentemente, dissimili nel tratteggio determina l’allontanamento dai modelli precedenti; al contempo sembra incapace di produrre alternative. L’analisi grafica delle iscrizioni che ci sono pervenute, restituisce l’immagine di un sostanziale impoverimento della produzione epigrafica: la rivoluzione grafica carolingia, almeno per il secolo IX e per questa regione dell’Italia, non sembra aver dato esiti paragonabili, ad esempio, alla splendida capitale carolina delle iscrizioni di Lorsch della Torre civica, o di quelle pictae meno belle ma sicuramente già ben stabilizzate nel canone carolino della capitale epigrafica - nella cripta della chiesa di Saint Germain di Auxerres, dai moduli quadrati, dalle M con le traverse discendenti fino al rigo di base, dalle R con tratto obliquo fermamente diritto, dalle O tonde. Appartiene alla medesima tipologia l’epitaffio di un abbate di Leno, attribuito al secolo IX, rinvenuto nel 1835 presso il monastero di Santa Giulia, ma già riutilizzata intorno alla metà del secolo XVIII come parte di una fontana. L’iscrizione, è sì inserita nei quadranti della croce, ma è allineata parallela al lato maggiore, con chiaro fraintendimento dello specchio di corredo. La scrittura ha il modulo tendente al quadrato (si vedano le lettere M e R). La C alterna la forma quadra a quella tonda e la G è quadra. La Q ha la coda riassunta all’interno. Modelli grafici analoghi compaiono in una iscrizione funeraria di una badessa del monastero di San Salvatore, datata al secolo IX rinvenuta nell’atrio quattrocentesco di San Salvatore negli anni 195262. Il manufatto, forse la porzione inferiore dell’epitaffio, presenta una cornice a intreccio. Da notare qui il tratteggio della lettera B con gli occhielli staccati, identico a quello dell’iscrizione dell’abate di Leno già citata. Entrambe le iscrizioni recano le lettere G e C quadre. Diversamente, testimonianze epigrafiche apparentemente di elevata committenza italo settentrionale legate alla nuova classe dominante franca e conservate a Milano, non possono essere utilizzate per una ricostruzione puntuale della tipologia dei modelli importati. Si tenga presente, infatti, che le iscrizioni funerarie del secolo IX legate alle alte gerarchie franche, sono state di recente riconosciute come rifacimenti tardi. In particolare ci si riferisce alle iscrizioni di Pipino, figlio di Una destrutturazione grafica non priva di significato, se solo si pensi alla cosiddetta rinascita carolingia, la quale sembra avere prodotto in Italia settentrionale una profonda crisi – questa volta sì - in ambito epigrafico, progressiva e irreversibile, fino a quando la nuova scrittura non avrà la capacità di imporsi come definitivo modello scrittorio. Come già per 41 Roma, sarà anche qui il secolo IX a dichiarare una avvenuta crisi e una trasformazione verso nuove forme di scrittura. Non è un adattamento o una elaborazione all’interno di un processo di trasformazione della scrittura. Si tratta di una radicale trasformazione, la quale presuppone, perché giunga a compimento, un processo di crisi determinato dall’imposizione, dall’ alto, di nuovi modelli scrittori. Un processo che doveva avere avuto il gusto amaro dell’imposizione, se i ritardi grafici palesi in ambito epigrafico dimostrano una sorta di resistenza culturale dei modelli longobardi. E in ogni caso, sarà la nuova scrittura, la capitale carolina, a rappresentare le nuove gerarchie sociali, mentre la capitale longobarda, già a suo tempo testimone delle gerarchie longobarde, è destinata a trovare in Italia meridionale, in ambito longobardo, un rinnovato vigore. In conclusione. Così come la scrittura ha rappresentato, per il mondo romano, un elemento di visibilità e di ostentazione di rango, del pari per le élites medievali esse hanno costituito un valido mezzo di riconoscimento di rango. I passaggi tra gruppi sociali e l’avvicendarsi di differenti dominazioni non ha alterato questa percezione della scrittura; l’elaborazione sistematica di modelli grafici “riservati” costituisce, sotto questo profilo, un evidente fattore di rappresentatività sociale. 42 Dress, burial and identity in late antiquity and the early middle ages interesting details are much more interesting for modern archaeologists than for the early medieval contemporaries, because they noticed mainly striking colours and obvious patterns. The position of the accessories in the grave gives indications for the cut of the costume – if for instance brooches really closed the dress. This is not every time the case, as the position of many bow fibulae of the late 5th and the 6th century in Western Europe show, which mainly were found on the stomach or the pelvis of the buried women. Sebastian Brather Dress and burial (especially dress accessories of bronze and iron and grave goods) are the main sources, on which archaeology tries to analyse late antique and early medieval identities. A lot of textual and iconographic evidence should be added, if one wants to achieve a reliable result. It is possible to make direct parallels between the imaginative representations and the archaeological finds, and with burials it is not quite different. Literary sources report about dying, mourning and procession, and cemeteries and burials demonstrate, what is left from feasting and rituals. Both aspects – dress and burial – have to be seen on the basis of literary, iconographic and archaeological sources. German Archaeologists often use the term “Tracht” instead of the neutral “dress” or “costume”. This phrase suggests a conservative, only slowly changing and regionally limited clothing – in contrast to a flexible urban “fashion”. The folkloristic costumes of the 19th century were seen today as a specific effort to cover the rising social differences inside modern societies by regional demarcation to the outside. “The Tracht as regional uniform probably never and nowhere existed, because even regional textiles and cuts were formed by economic and aesthetic influences, which came from trade, craft and intraregional mobility.” In fact Tracht “presented the social order of the villages and stabilised it mostly.” Modern research in folklore conceptualises therefore the Tracht as a specific dress of the 19th century – and not as the normal case of regional costume. Archaeological observations show many locally specific features in late antiquity and the early middle ages, as female graves of the 4th and 5th centuries south of the North Sea make clear. This aspect demonstrates that mainly social contexts within local societies should be expressed, depending on the specific circumstances and opportunities. 1. Dress and difference Dress can show social differences very well. Because clothing is worn directly on the body, it forms a means of demonstrating belonging and differentiation par excellence. Dress is a signifier par excellence. Because it is worn directly on the body, costume can demonstrate belonging and distinction, differentiation and identity very explicitly. Besides clothing, its colours, patterns, design and cut, the individual appearance is determined by hairstyle (including beards), jewellery (women) and weapons (men). The four aspects have to be looked at together, when the effect of dress and appearance is studied. Only seldom textiles themselves can be the basis materials for the archaeological study of dress, and mostly they form just a few small pieces. Therefore metal dress accessories are the main source, even if their typologically and chronologically Normative texts seem to underline the interpretation. Many regulations – ranging from antique laws against luxurious burials to early modern dress rules – were 43 the Romans indirectly. These laws contained no insinuation about the “barbarian” or even “Germanic” characteristics of the banned dress. They prohibited its use only in the “venerable” and “holy” city of Rome – and this means, in specific “official” contexts trousers, a special kind of boots and furs or long hair were not acceptable, besides that this outfit did not attract any attention in other situations. The Roman who was conscious of old traditions wore the toga at official circumstances – or at least he had to, according to conservative traditionalists (already Augustus made publicity for the toga), but this costume was very impractical and complicated. A different dress could be named as “barbarian” in order to show that it is inappropriate in specific situations. Probably we could read a passage of Victor of Vita in this way, who fundamentally criticised the fact that Catholics in the Vandal kingdom went into the Catholic churches while wearing the habitus Vandalorum of the king’s court. In this manner – regardless of existing connections – one could handle with literary topoi of barbarians and operate with shimmering insinuations of “foreigners”. In reality, this kind of costume was wide-spread among Romans in the Mediterranean in contexts of military and hunting, sometimes connected with a literary “barbarian” appearance. published to make social differences visible. Belonging and distinction within a given society were regarded – and to be emphasised and respected. Dsepite several regional variants, in antiquity dress and its accessories were not totally different in Central Europe and the Mediterranean. Since the pre-Roman Iron Age barbarian women wore a dress, which was closed by a brooch on both shoulders. During the imperial age noble Roman woman had the stola (corresponding to the male toga) with special clasps of leather, textile or metal, and at the end the stola was closed even by small fibulae. Mainly in Gaul, but in several other regions too the Romans knew “celtic” trousers. Despite the similar clasp at the shoulder, Romans as well as barbarians had belts with a buckle, of which a big number of types and objects were produced in Mediterranean workshops; only because of the funeral ritual they are found mostly along the northern periphery of the Imperium Romanum. Single, small brooches were used by both sexes, and with the Romans as well with the barbarians, for closing a cloak or cape (paludamentum, chlamys). The “objective” distance with respect to the dress could be bridged – no surprise as one looks at the long history of mutual relations. In the Mediterranean the officially worn costume consisted of draped and sewed dress (toga/stola, tunica and pallium/palla, chiton and himation), which was worn without metal accessories (brooches, needles). The draped garments were replaced more and more by tailored clothing (paenula etc.). Since the 3rd century stola and toga were restricted to official occasions, so that the toga was just the official costume of the senators at the end. Romans were buried within their dress as well as the barbarians, but this can be observed only seldom because of the absence of metal accessories. Around 400 the emperor had forbidden a specific dress, and this confirms its use by Some pictorial representations can be used to underline this hypothesis. Throughout the whole Mediterranean hunting scenes on mosaics in late antique villas often show hunters in “barbarian” trousers. In opposition to older views which saw the represented men as barbarians, it is now believed that elitist landowners demonstrated themselves in a specific context. The representation of a imaginative, barbarian other-world would have found no place in such villas. The analysis of meaning has to consider the context of the images to get a plausible 44 feasting remains. The reconstruction of symbolic acts, carried out during the burial, has to be based on written sources mainly. interpretation. This can be shown by a second example. Stilicho, patricius and magister utriusque militiae, is shown in a Mediterranean habitus (if the identification of this anonymous representation) including a cloak with a brooch. The military aspects is shown by sword, shield and lance. The second plate probably shows Stilicho’s son Eucherius and his wife Serena (niece and adopted daughter of Theodosios) in a Roman costume as well; the belt buckle is similar to so-called “Gothic” ones, which instead mostly are produced in the Mediterranean. Whether the man is Stilicho or not – shown is a high-rank military officer and not a barbarian. Burials do not represent a totally “realistic” picture – they do not reproduce social structures directly. And they could not be seen as a perfect mirror of life, but as a distorting mirror. Burials are a staging, which were performed in front of the mourning community. From this perspective burials can be described by a concept of literary studies. Form and contents of a text depend on three factors, arranged within a triangle: 1. the author, 2. die potential readers, and 3. the story to be told. Transferred to burials there are the following three participants: 1. the burying group (family), 2. the local community, and 3. the dead. The burial represents the dead und his or her potential desires as well as the ideas of those, who (as a family) bury him or her, and last but not least the expectations of the neighbourhood. The existing background is interfered with idealised concepts, the retrospective on the identity of the dead is complemented by a prospective positioning which goes to the future of the family and the local community. On one hand the aspired “idealisation” of social situations could be seen as a analytical problem, if one directly looks for realities, but on the other hand it is a promising aspect, if we look for subjective perceptions and ideas of the contemporaries. 2. Burial and local society Burials are remains of complex actions. In antiquity five phases of burial rituals were known, and they are named with the ancient terms by modern researchers: Greek 1. próthesis Latin collocatio 2. ékphora pompa funebris sepultura monumentum, sepulcrum rosalia, parentalia, lemuria 3. taphos 4. tymbos, sema 5. mnéme actions lay out and lamentation funeral procession funeral grave memory It is the family and the neighbourhood, where social relationships are important and where belonging and distinction, equality and priority are demonstrated in an idealised manner. This is true for gender and age groups as well as for elitist awareness, for families, for “professional” activities or religious ideas. The local community represents in some sense the screen, on which attributions and identities were projected. Regional differences in the furnishing of graves go back to this reason, i. e. different social structures. The social structure is complex Archaeology can analyse the grave at first (4). Its arrangement is connected with the burial and the rituals during the ceremonies (3), and therefore these actions may have left some material traces. Only occasionally some archaeological evidence can be seen as a reflection of the other three “phases” – collocatio (1), pompa funebris (2), memoria (5). Indications can be fire places at some row grave cemeteries, which could be connected with funerary feasting of the community, purifying rituals or even the simple disposing of 45 demonstrate and to reclaim social positions within a limited framework. There one could impress by three aspects: 1. the burial in a “rich” costume, 2. a lavishly furnished grave, and 3. by a monumental grave. For this reason row grave cemeteries can be seen as a typical development in peripheral regions of the disintegrating empire, where a dichotomy of Romans and Germans was not of central importance. even in “traditional” societies, and therefore we should expect several social groupings, overlapping each other, and this makes their analytical study a skilful task. Elites refer to “themselves” at other places and by doing so they put their position into a wider regional framework. Social positions could be demonstrated during burial, but they must not be demonstrated. Since the 8th century lavishly furnished graves became uncommon. Instead donations for the church were made – pro anima (for the salvation). This fundamental change was not due to a strengthened Christianisation, but was a new form of social representation. Therefore grave goods did not reflect a “pagan underground” inside Christian societies during Merovingian times. Instead they show that status demonstration was important during burial rituals, because only then grave goods could be exhibited, before they were taken away from the eyes of the contemporaries forever. 3. Groups and identities Social groups are identity groups. It is not “objective” characteristics, which constitute them. Instead they are subjective ascribed affiliations to individuals and groups, which can be made from inside and from outside – by the in-group or the out-group. Identities can be established only in front of “the others”, and they can be different social opponents – as far as “foreigners”. From this perspective social groups appear flexible and changeable, and objective criteria of affiliation cannot be expected. The same is true for ethnic frontiers, which are made by selected cultural characteristics. Heiko Steuer described the considerable social mobility in late antiquity and the early middle ages by the term dynamic ranked societies. The emergence of row grave cemeteries, which were characterised by lavishly furnished burials, can be explained by this perspective. Since the 5th century burials became more and more a central stage for the demonstration of social belonging. This meant an important change compared with the circumstances before, because neither in the Roman world nor in the barbarian milieu traditions can be seen. Because row grave cemeteries concentrate along the periphery of the antique imperium – and especially within the frontier lines – it must have been of importance there. The ongoing regionalisation of the empire had taken away Rome as the stage of representative and competitive self-performance for the local elites. The “frontier societies” were confronted with radical social change, and therefore they sometimes were seen as “stressed”. In regional and mostly in local contexts publicly performed burials seemed to be a good chance to Social memberships were more than just flexible. Their emphasis depends on specific situations. The main reason is each individual’s different social roles. Gender and age, family and possession, profession and religion form different social groups in a given society. The many differentiations make it impossible to demonstrate them all at the same time. It is the specific context, which stresses one or the other social role and its demonstration. Therefore “subtle distinctions” were expressed depending on the given situation – in all cases, when its emphasis can constitute differentiation. Anyway, they are situational constructions. 46 During childhood and youth the number of grave goods increased steadily (perhaps with some exceptions for children between four and eight years), and old people again did not get exceptional rich burials. This does not mean that “rich” people did not get old, but that they were not buried “rich” any more. From this perspective the age was much more important than vertical social hierarchies, and therefore Christlein’s “quality groups” can be used only within one age-group. If one compares the age-specific grave goods with the early medieval wergeld (money which has to be paid if one had killed somebody) in the leges barbarorum, it becomes clear that they are connected with different roles in society. Especially the Frankish Lex Salica and the Lex Ribvaria knew such differences (and the Leges Alamannorum did not), which can be paralleled with the furnishing of burials in Merovingian times. Apparently there were very high fines for the killing of babies, but “rich” graves appeared only for more then three year old children. The main reason for that discrepancy should have been the high mortality of babies; only behind that age the family could made such an “investment” into a well furnished grave of the deceased child. If individuals fulfil different roles, then some social groupings overlap each other. To understand the complex structures, a concept by Guy Halsall may be helpful. Halsall distinguishes three separations in societies: 1. a vertical one, which differentiates between the two sexes or genders; 2. a horizontal one, which means differences between “rich” and “poor”; and 3. “diagonal” ones, which lay sideways across the two mentioned above. The term “diagonal” describes another dimension systematically, but is hard to imagine. Therefore a graphic visualisation implies some problems. Studies of early medieval cemeteries are looking mostly at one social aspect – die differentiation between “richly” and “poorly” furnished graves. Some thirty years ago Rainer Christlein developed a scheme for the reconstruction of social “hierarchies” from “rich” (group D) to “poor” (group A), and he named them “quality groups” or “property gradation”. These hierarchic differences were often and insufficiently understood as “social structures”, despite the fact that much more has to be looked at. A second and often studied aspect takes into consideration the distinction between the “indigenous” population and “foreigners”; in this case regional distributions of metal dress accessories are the main argument. A reduction to both the mentioned perspectives would mean a clear simplification of the complex structures of early medieval societies. Indications reflecting profession and religion, seems to have been not very frequent in the burials. Parts of a plough or craftsmen’s implements were put into the graves only sometimes. In most cases these implements are found in combination with “rich” and extensive grave goods, and both the small number and the “wealth” suggest that they expressed more than just specific activities of the deceased. In that case every farmer and every smith had to be furnished with such things. Perhaps agrarian implements should have demonstrated manorial power (plough) and clearance (axe); tools of a smith could have presented the power and its disposal over craft and craftsmen. Even Christian symbols – for instance the This can be shown if one looks at the age of the buried people. Anthropological analysis of the age at death can not reflect social roles directly, but they give us important and independent scientific indications. Besides the simple distinction between children and adults, grave goods show clear correlations with the age of the buried (fig. 6). The most extensive and the best grave goods got middle-aged men and women – between their 20’s and 40’s. 47 well-known gold-foil crosses – are rare in early-medieval burials, at first-hand surprisingly in Christian societies. But probably exactly this is the reason for the absence of these signs: religious symbols were not able to demonstrate any distinction in face of the common belief. In the end some points have to be made. In late antiquity and the early middle ages dress as well as burials were used to express social status. The emphasis on differences was centred on distinctions within local societies; they dominated in every-day live and therefore the fundamental conditions. To meet “foreigners” were possible and not exceptional in specific situations, but especially during funerals the audience came from the local society only. Because of this reason representations had to focus on actual, existing conditions of power and social belonging; only secondarily they alluded to somebody’s origin, if this could became of importance for social positions. In this case the “origin” could have changed into an argument for social distances. “Ethnic” differences, which were described in written sources or seen as such differences today, have to be interpreted by looking at that background. The question is not, if there were ethnic identities, but if and if so, how were they demonstrated in the graves. 48 imperiale, che per loro stessa natura si sono conservati in casi del tutto eccezionali: le sete (holoserica) e i tessuti di porpora. Maggior fortuna hanno invece avuto le guarnizioni in fili d’oro delle vesti (le cosiddette paracaude), effettivamente note grazie ad un certo numero di ritrovamenti presenti in Italia centrosettentrionale; nonostante la loro bellezza e preziosità questi materiali, attestati nel periodo considerato solo in un limitato numero di sepolture infantili, offrono tuttavia un punto di vista estremamente parziale. Abbigliamento e rango tra V e VI secolo in Italia settentrionale Elisa Possenti Il tema “Abbigliamento e rango tra V e VI secolo in Italia settentrionale” impone in primo luogo di chiarire quale accezione verrà attribuita, in questo intervento, al termine “rango”. Tenuto conto dell’ambito geografico di riferimento (l’Italia settentrionale a nord del Po) e del periodo storico (il V e il VI secolo, con qualche anticipazione nella seconda metà del IV e l’esclusione dell’ultimo trentennio del VI per i territori divenuti longobardi), verrà innanzi tutto inteso come “rango” il ruolo che il singolo ricopriva all’interno dello stato tardoantico, e quindi, ostrogoto e bizantino; in secondo luogo, ulteriore e conseguente punto di riferimento sarà la posizione occupata dall’individuo rispetto ai ceti dirigenti e ai loro privilegi; privilegi e convenzioni, spesso codificati da leggi, che, più o meno esplicitamente, intendevano tutelare e conservare un assetto sociale ritenuto sinonimo di stabilità politica. Una maggiore rappresentatività sembra invece attribuibile a due classi di materiali che, al contrario, sono per lo più riferibili ad individui adulti di sesso maschile per i quali è percentualmente alta la probabilità di una loro appartenenza (o del loro nucleo familiare alla luce delle leggi promulgate da Diocleziano) alla compagine amministrativa e/o militare dello stato: le fibule a testa di cipolla e alcuni tipi di guarnizioni di cintura. La loro presenza, nell’arco di tempo considerato, è infatti riferibile a vesti e complementi di abbigliamento quali, rispettivamente, la clamis (clamide) e il cingulum (cintura), più volte indicati nelle fonti scritte come elementi distintivi della militia, definizione questa con la quale si indicava il personale amministrativo “civile” dell’impero (militia) e l’esercito (militia armata). Questi criteri hanno un valore generale e sono giustificati dalle caratteristiche della società tardoantica; in quanto tali sono comunque utili anche per affrontare il tema dell’abbigliamento quale segno esteriore che testimonia lo status. Le fonti a disposizione, relativamente numerose, sono già state occasione di studi approfonditi soprattutto per quanto riguarda l’ambito giuridico; in questa occasione si farà invece essenzialmente ricorso al dato archeologico, eventualmente confrontato con altri tipi di dati desunti dalle fonti iconografiche, narrative o legislative. Come è già stato messo in evidenza in altre sedi è necessaria una certa attenzione nell’utilizzare i dati offerti da queste classi di reperti che, come tutti i complementi di abbigliamento possono aver visto, nel periodo di tempo in cui sono stati in uso, un cambiamento rispetto al significato simbolico originario, alterato da processi imitativi e/o più strettamente funzionali. Tale prudenza trova del resto riscontro nelle stesse fonti scritte se teniamo conto che, già in una fase piuttosto precoce, una legge di Teodosio del 382 vietava l’uso del cingulum a coloro che non Le fonti giuridiche menzionano con una certa frequenza materiali, esclusivi delle élite, se non addirittura della casa 49 per l’appunto dell’oro, e dalla montatura su una striscia di cuoio rosso. Se pensiamo al numero di cinture in lamina ripiegata bronzea note in tutta l’Italia settentrionale di cui non abbiamo traccia del supporto organico (era rosso, verde, al naturale o che altro?) si deduce che la versione bronzea di questo tipo di cintura, se non associato ad altri materiali rappresentativi, non può essere utilizzato se non in modo generico, come imitazione, non meglio specificabile, di modelli aurei usati dalle alte gerarchie dello stato e dell’esercito. facevano parte dell’amministrazione pubblica o dell’esercito (una tale interferenza sembrerebbe invece non attestata per le fibule a testa di cipolla). Per quanto banale un altro elemento fondamentale da tener presente è costituito dal tipo di metallo utilizzato per realizzare gli oggetti in discussione. Sostanzialmente vale infatti il principio che più un metallo è prezioso meno rischi ci sono di trovarsi davanti ad un uso o ad un significato “improprio” dell’oggetto. Ciò vale a dire che è altissima la possibilità che una fibula a cipolla d’oro o delle guarnizioni dorate siano state fatte per funzionari, civili o militari, dello stato. Maggiormente connotate appaiono invece altri tipi di guarnizioni riferibili, anche se sempre con una certa dose di attenzione, al cingulum militiae: le placche a forma di elica e le guarnizioni in stile militare, note in gran numero lungo il limes renano e danubiano ma attestate anche in Italia settentrionale, quasi esclusivamente nelle regioni orientali (Trentino, Veneto, Friuli). Tale affermazione è confermata dall’ iconografia e dalla documentazione archeologica; quando rinvenuti con altri materiali, i reperti in oro o comunque dorati, sono infatti generalmente associati ad oggetti di pari livello, pecuniario e simbolico. Tale è il caso ad esempio della fibula in oro a testa di cipolla dal tesoro di Desana (Alesandria), rinvenuta in un deposito in cui, oltre a un paio di fibule a staffa di tipo ostrogoto, gli elementi maggiormente rappresentativi erano costituiti da alcuni oggetti di oreficeria di alta qualità e da suppellettile in argento. Diversamente invece, nel caso dei materiali in bronzo (il discorso vale soprattutto per le cinture), va considerata la possibilità che possa anche trattarsi di imitazioni e/o materiali usati impropriamente come nel sopra menzionato editto di Teodosio. Alla luce di queste osservazioni si sono perciò raccolte le testimonianze relative alle fibule a testa di cipolla, alle placche a forma di elica e alle guarnizioni di cinture militari in un arco di tempo compreso tra la metà del IV secolo e la fine del VI. Solo in una fase successiva ci si è chiesti se questi elementi possono essere utilizzati come indicatori di status e, in caso affermativo, a quale tipo di status devono essere relazionati. In sintesi i dati possono essere analizzati sotto tre punti di vista tra loro complementari: cronologico, territoriale e legato al tipo di metallo con cui sono realizzati. A quest’ultima osservazione va quindi aggiunto un ultimo appunto, ovvero che non sempre la parte metallica, da sola, è sufficiente ad illustrare l’eventuale significato dell’oggetto. Questa prudenza nasce da un passo del De Magistratibus di Lidus (490-554?) in cui è descritta la cintura del prefetto del pretorio: si tratta di una cintura, in questo caso “ovviamente” in oro, estremamente frequente nella versione bronzea in lamina ripiegata, i cui elementi distintivi sono costituiti dall’uso, Dalla comparazione delle carte di distribuzione emerge che nella fase più antica, collocabile tra la metà del IV secolo e i primi due decenni del V secolo, ci fu una massiccia presenza di reperti bronzei (sia fibule che elementi di cintura) nelle aree gravitanti sulla Postumia nel tratto tra Vicenza e Aquileia; in particolare in queste zone si constata una grossa concentrazione 50 oltre che ad Aquileia, è infatti attestato, esclusivamente con esemplari con tracce di doratura, a Concordia e, lungo la Postumia, a Bedriacum/Calvatone; un altro esemplare proviene inoltre da Casaleone (VR). di materiale altrove quasi per niente testimoniato: fibule a cipolla del tipo Pröttel 3/4 D (330/410), guarnizioni di cintura a Kerbschnitt (ultimi decenni del IV-inizi V) e placche a elica (IV secolo). Da evidenziare che questi materiali sono, con pochissime eccezioni, tutti in bronzo, di qualità non elevata, provenienti tanto da contesti urbani che rurali e, infine, per lo più attribuibili a abitato anche se talora attestati in sepolture. Il tipo Keller 6, già considerato da più autori (Buora, Bolla) come un fossile guida per l’individuazione di comandi militari è invece attestato con pochissimi esempi, alcuni con doratura, ad Aquileia (ben 10 esemplari), Invillino, Sirmione e Tortona Museo archeologico. Una variante è infine presente a Desana nel deposito a cui si è già accennato. Degno di nota è che il tipo Keller 6 sia quello indossato da Silicone e da suo figlio nel notissimo dittico del tesoro di Monza realizzato entro la fine del V secolo. Sovrapposta all’area definita dalle fibule di tipo Pröttel 3/4 D, dagli elementi con decorazione a Kerbschnitt e dalle placche ad elica (comunque non necessariamente associati gli uni agli altri) è quindi una seconda area, più vasta, nel cui ambito è presente un numero piuttosto modesto di esemplari apparentemente non vincolati ad un territorio definito. Ci si riferisce in primo luogo alle fibule tipo Pröttel 3/4 B (350/410) la cui distribuzione, pur segnando una concentrazione maggiore nelle regioni orientali, interessa comunque anche le aree più occidentali quali la Lombardia (3 esemplari a Goito) e Aosta; quindi al tipo Pröttel 3/4 C (330-410), di cui gli esemplari con doratura sono relativi ad aree ben distinte territorialmente (tre da Aquileia e uno nel museo di Mantova senza indicazioni di provenienza). Alla luce dei quadri di distribuzione e volendo relazionare i materiali all’eventuale significato di status sociale ad essi sotteso, appare abbastanza verosimile che le fibule Keller 5 e 6 possano essere effettivamente appartenute a funzionari pubblici che, in quanto tali, erano dislocati in più punti dell’impero. Va comunque specificato che alla luce dei materiali superstiti i proprietari degli oggetti giunti fino a noi dovevano far parte dei ranghi medi o, tutt’al più, medio-alti. L’unica eccezione è certamente costituita dalla fibula d’oro di Desana che, come già ricordato, era stata deposta con suppellettile in argento (cucchiai), un paio di fibule con cloisonné a legante sabbioso (la cui qualità si pone quasi ai vertici delle produzioni di VI-VII secolo), una croce pettorale in oro di un tipo simile a quelle deposte nelle sepolture con fili d’oro di Treviso e Aquileia (collezione di Toppo nel museo di Udine), un orecchino in oro a castone fisso confrontabile per tipologia a quelli indossati dall’imperatrice Teodora nel mosaico di S. Vitale a Ravenna e, infine, numerosi anelli l’uno dei quali con monogramma. Un criterio di distribuzione analogo, che non appare vincolato a unità territoriali definite, è ravvisabile anche per i tipi più tardi delle fibule a testa di cipolla, ovvero il tipo Keller 5 (350-415, nella datazione più ampia proposta da Pröttel) e il tipo Keller 6 (390-460, secondo le datazioni più recenti proposte da Pröttel e convalidate da Buora). Queste fibule diversamente dalle precedenti, per quanto in bronzo, presentano spesso una doratura sulle superfici che ne aumenta certamente il valore; da rilevare è inoltre la provenienza da siti spesso in corrispondenza della viabilità principale e/o presso importanti centri urbani di antica fondazione e notevole significato strategico. Il tipo Keller 5, L’assenza di documentazione archeologica relativa ai ranghi più alti della società contemporanea è confermata dalla mancanza 51 di fibule di tipo Pröttel 7 (460-50, ma forse fino al 550), il cui riscontro iconografico più vicino è offerto dai dignitari che attorniano gli imperatori Giustiniano e Teodora a Ravenna. L’esemplare geograficamente più vicino è infatti quello nel tesoro di Reggio Emilia, la cui composizione è comunque molto significativa: ancora una volta accanto alla fibula a testa di cipolla in oro sono presenti un piccolo encolpio in oro del tipo già visto a Desana, anelli (alcuni con monogrammi) e, poi, altri gioielli che per fattura richiamano un gusto pienamente mediterraneo. Un ultimo punto è relativo alla situazione delle regioni orientali nella seconda metà del IV secolo, caratterizzate, oltre che da materiali di un certo pregio (le fibule tipo Keller 5 e 6 distribuite pur con pochi esemplari in tutta l’Itala settentrionale) da un gran numero di oggetti di minor valore. Anche se come ipotesi di lavoro, da verificare con ricerche future, la sensazione è che questa fenomeno non possa essere esclusivamente legato ad un fattore di moda, privo di implicazioni culturali. In questo senso appaiono significativi: la datazione dei materiali in rapporto alle vicende politiche che coinvolsero queste regioni a partire dall’età costantiniana fino perlomeno alla caduta di Silicone; la quantità e qualità di manufatti che presenta interessanti analogie con la cultura materiale testimoniata lungo il limes fino al 401/402; i numerosi ritrovamenti di gruzzoli monetali in tutta la Venetiae t Histria; le attestazioni di prefetture di Sarmati nella Notitia Dignitatum cui fanno eco numerosi riscontri toponomastici; la supposta “libertà” di costumi dei federati barbari rispetto alle consuetudini e leggi legate all’abbigliamento (Sommer); la trasmissione ereditaria del titolo di soldati ad intere famiglie per effetto delle leggi dioclezianee; non da ultimo, infine, il gran numero di cinture in lamina ripiegata che abbiamo definito prive di connotazioni tipologiche specifiche (v. sopra) ma che forse, nell’insieme dei dati raccolti, non sono più così insignificanti come quando esaminate singolarmente. 52 corredi era legata all’età di morte degli individui (le donne ricevevano corredi femminili se morivano in età fertile, mentre gli uomini ricevevano corredi maschili se morivano in età adulta e matura), nelle necropoli friulane e slovene considerate (S. Stefano di Cividale e Romans d’Isonzo in Friuli e Kranj Lahj in Slovenia) il numero di sepolture con armi e fibule era molto esiguo e non pareva tanto legato all’età dei defunti. Quello che mi è sembrato invece rilevante è che in queste necropoli le poche sepolture con armi appartenevano ad una fase sola di utilizzo delle necropoli, le prime fasi a S. Stefano e a Romans, una fase successiva a Kranj. Inoltre, la loro distribuzione spaziale entro le necropoli sembra suggerire che queste fossero le prime sepolture interrate, attorno alle quali sarebbero state deposte, nelle fasi successive, sepolture dai corredi più semplici. In molti casi (A S. Stefano, e in alcune aree di Romans e Kranj) sono individuabili nuclei di sepolture distanziati l’uno dall’altro, il cui nocciolo è rappresentato da sepolture con corredi dai connotati di genere. Queste deposizioni e questa disposizione delle sepolture in nuclei, spesso chiaramente individuabili spazialmente, sembrano suggerire la volontà di creare la figura di antenati fondatori, deposti con corredi che mettessero in risalto il loro status e anche la loro mascolinità o femminilità. La maggioranza degli individui, deposti nelle fasi successive, era invece sepolta con corredi nutri e più semplici, ma spazialmente vicine ai loro antenati. I guerrieri e le loro mogli. Genere e identità nell’Italia Longobarda Irene Barbiera Secondo una tradizione avviata in Friuli negli anni ’80 (Brozzi, 1989), le necropoli altomediveali scavate in regione vengono ancora oggi attribuite a gruppi di longobardi o di “autoctoni” sulla base dei corredi in esse ritrovati. In particolare, necropoli in cui sono emerse armi e fibule sarebbero state utilizzate dai Longobardi, migrati nel 568 d.C., mentre necropoli prive di tali corredi vengono attribuite al “sostrato indigeno”. Corredi tipici di quest’ultimo gruppo sarebbero più poveri, caratterizzati da fibbie, coltelli, pettini, vasi in ceramica grezza, bracciali e così via. Nel corso di recenti indagini, su un campione di necropoli datate al periodo longobardo, in Ungheria, Slovenia e Italia (regione Friuli), ho potuto rilevare come la presenza di alcuni elementi di corredo, tra i quali i più significativi erano appunto fibule e armi, sembrava rivolta a sottolineare il genere maschile e femminile dei defunti (Barbiera, 2005). A tale proposito ho utilizzato il metodo adottato da Guy Halsall (Halsall, 1995) per testare se e quali corredi erano significativi nella rappresentazione dei generi. Le indagini condotte hanno messo in rilievo che, nella maggioranza delle necropoli considerate in ambito merovingio e longobardo, sono individuabili tre gruppi di elementi di corredo, due che non si associano mai tra di loro, l’uno comprendente armi deposto in sepolture maschili e l’altro gioielli, associato a individui femminili, e il terzo invece di corredi che potevano essere associati sia con corredi maschili che femminili. Si è potuto così confermare che i corredi avevano connotati di genere, ma mentre nelle necropoli Ungheresi (Hegykő, Szentendre, Tamási e Kajdacs) la rappresentazione del genere attraverso i Questo tipo di costruzione funeraria è stato rilevato in tre necropoli soltanto, di cui una scavata in area Slovena (qui citata a titolo di confronto). Purtroppo, la stragrande maggioranza del materiale friulano è stato scavato verso la fine dell’800 primi del ‘900, fase in cui venivano raccolti solo gli oggetti che erano ritenuti più significativi, nella fattispecie armi, senza alcuna divisione per tomba e 53 senza menzionare il restante materiale andato poi disperso. Una necropoli estesa (comprendente 115 sepolture) scavata recentemente è la necropoli di Lovaria (Pradamano), ora in fase di studio e non pubblicata interamente. Dai primi dati editi risulta che anche qui ci fossero dei nuclei di sepolture ben visibili, anche la presenza di tombe con armi, datate ai primi decenni del VII secolo è documentata. Bisogna però attendere che tutto il materiale venga sistematicamente pubblicato per chiarire se anche qui è possibile rilevare il tipo di costruzione funeraria visibile nelle necropoli sopra menzionate. parte non ancora investigata della necropoli, o fossero state rubate in antico, come si potrebbe suggerire per Bagnaria Arsa, dove quasi tutte le tombe mostrano tracce di saccheggio. Per altre necropoli, invece, l’estensione e il numero delle sepolture scavate sembra indicare che, di fatto, in alcune delle necropoli mancassero “antenati dai corredi speciali”. Come mai? Quali possibili spiegazioni per la presenza di sepolture con armi e fibule presso alcune comunità e la mancanza presso altre? Si tratta veramente di diversi gruppi etnici? o è piuttosto il riflesso di diverse concezioni funerarie legate a diverse esigenze sociali? Esiste poi un numero di necropoli, quelle tradizionalmente definite di “autoctoni” dove, data la mancanza di armi e fibule, non è stato possibile rilevare la presenza di gruppi di corredi dai connotati maschili e femminili. Tutti i corredi sono risultati neutri e potevano essere deposti in sepolture sia di uomini che di donne (compresi corredi come bracciali e orecchini a cerchio). Qui i corredi sono analoghi ai corredi neutri delle necropoli sopra descritte, ma ciò che manca sono le sepolture di “antenati armati o antenate con gioielli”. Per cercare di spiegare questo fenomeno tenterò di considerare la distribuzione cronologica e speziale delle necropoli e la loro relazione con gli insediamenti, le rotte viarie e altre tracce di popolamento. Innanzitutto va precisato che i dati sono molto frammentari, dunque non sarà in alcun modo possibile formulare conclusioni definitive ma soltanto delineare alcune tendenze che potrebbero rappresentare lo spunto per ulteriori ricerche future. Le necropoli che non contengono sepolture con armi sono in generale datate tra il VI e il VII secolo, solo in pochi casi è documentata una continuità di utilizzo dall’età romana (l’incompletezza dei dati relativi a queste necropoli non permette poi di chiarire se si tratta di una continuità senza interruzione. Per la necropoli di Villanova di Farra, in uso dal II sec. d.C e il VII, Giovannini ha ipotizzato che non ci fosse soluzione di continuità, Giovannini, 2000). Le necropoli contenenti defunti armati e donne con fibule sono, in quanto ritenute di longobardi, datate a partire dal 568 fino al VII secolo (più frequentemente entro la prima metà di questo). Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di necropoli di nuova fondazione, anche se nel caso della necropoli Cella, a Cividale (scavata però purtroppo agli inizi del Un primo problema relativo a queste necropoli è che spesso si tratta di frammenti di necropoli solo parzialmente investigate, come nel caso della necropoli di Bagnaria Arsa (11 sepolture scavate, Lopreato, 2002), di Pozzuolo del Friuli (10 sepolture, Vitri, 1987), Erto (numero di tombe non chiaro, Brozzi, 1989), Farra d’Isonzo (11 sepolture, von Hessen, Brozzi, 1973), Grizzo (18 sepolture, Vitri, 1993), Tramonti di Sotto (6 sepolture, Villa, 2002), per citare solo alcuni esempi. Data la bassa frequenza di sepolture con armi nelle necropoli investigate (3 tombe su 43 a S. Stefano, 13 su 246 a Romans e 16 su 647 a Kranj), non é escluso che in alcune delle necropoli definite di “autoctoni” le sepolture con armi si trovassero in una 54 altri casi invece gli scavi e le testimonianze di Paolo Diacono (Historia IV, 37) sembrerebbero testimoniare una continuità di frequentazione e di importanza, ed è in corrispondenza di alcuni di questi siti che sono state ritrovate sepolture con armi. Si potrebbe quindi ipotizzare che, almeno in alcuni casi, la perdita di importanza dei siti nei secoli VI e VII potrebbe spiegare la mancanza di sepolture più ricche in queste fasi. Resta comunque un dato da verificare, data la scarsa documentazione relativa. ‘900), è documentata la presenza di sepolture di età romana nell’area di nord ovest, e di età longobarda a sud-est (Ahumada Silva 1997). Dunque, i due tipi di necropoli, neutre e con armi, sembrano essere state utilizzate nelle stesse fasi e, nonostante i pochi casi mal documentati, parrebbe che entrambi i tipi potevano essere in continuità con fasi precedenti. La distribuzione spaziale delle necropoli in regione sembra abbastanza omogenea nell’area orientale del fiume Tagliamento: necropoli con armi sono spesso in prossimità di necropoli dove non sono state ritrovate armi, ed entrambe potevano essere o meno lungo importanti percorsi viari. Nell’area ad ovest del Tagliamento prevalgono invece nettamente necropoli dai corredi neutri. Anche se ciò potrebbe essere attribuito alla scarsità di dati in quest’area, potrebbe d’altra parte anche essere il sintomo di un diverso sviluppo di quest’area nei secoli VI e VII, come sembrano dimostrare ricerche recenti e approfondite nell’area dell’alto Livenza (Rigoni, 1992). Una più consistente documentazione é disponibile per le chiese tra tardo antico e altomedioevo per il Friuli (Cagnana, 2001; Cagnana, 2003; Villa, 2003). Delle chiese fondate tra IV e V secolo (23 chiese), circa la metà ha restituito tracce di sepolture relative, datate allo stesso periodo, mentre solo in due casi si sono trovate sepolture di VI-VII secolo. C’è poi un numero molto esiguo di chiese che pare siano cadute in disuso intorno al VI secolo (Cagnana, 2002), in nessuno di questi casi sono state ritrovate sepolture relative. In relazione alle tredici chiese fondate tra VI e VII secolo, in quattro casi sono state ritrovate necropoli o sepolture neutre (uno di questi é il caso della chiesa di S. Giovanni a Cividale dove nel 1752 sono emerse tre sepolture che, stando alle descrizioni, contenevano ricchi oggetti in oro andati dispersi), in tre casi con armi (due in relazione a fondazioni private, una in relazione ad una chiesa battesimale). Le necropoli ritrovate entro il raggio di un chilometro circa rispetto a queste chiese sono in tutti e sei i casi con armi. Naturalmente c’è poi un cospicuo numero di necropoli con armi e neutre nelle vicinanze delle quali non sono testimoniate chiese, i dati che qui vengono discussi sono quindi parziali e i risultati dovranno essere confermati da ulteriori ritrovamenti e ricerche. Ad ogni modo, questa prima analisi sembra mostrare, almeno per quanto riguarda l’area collinare a alpina del Friuli orientale che é quella meglio indagata, che le chiese svolsero il ruolo di polo attrattivo per le sepolture a partire dai secoli IV e V e parrebbe che questa funzione La relazione tra sepolture e insediamenti fortificati o fortezze, nonostante la scarsezza dei dati, offre alcuni spunti. Non si registra il ritrovamento di sepolture adiacenti o relative a strutture fortificate, con due sole eccezioni (Grizzo e Caneva), in cui le sepolture erano tutte neutre. Nel caso di insediamenti fortificati sono documentati entrambi i tipi di necropoli neutre e con armi, ma i dati sono piuttosto scarsi per permettere di trarre delle conclusioni definitive. Ad ogni modo, un dato certo é che nella maggioranza degli insediamenti fortificati e delle fortezze interessati a scavi archeologici, si é riscontrata una frequentazione dei siti a partire dall’età romana o addirittura da quella preistorica, e in alcuni casi le fasi di VI e VII secolo corrispondono a una fase di degrado o abbandono (Piuzzi, 1999). In 55 Forse non é un caso che, là dove c’è documentazione è più completa, questo tipo di sepolture si potevano trovare o in diretta relazione con le chiese di VI-VII sec., o in aree dove le chiese non sono documentate, ma mai nelle vicinanze ad esse. Forse l’essere deposti in prossimità di una chiesa rappresentava di per sé un privilegio e non sempre si riteneva necessario in questi casi depositare armi od oggetti preziosi affianco ai defunti. Chi, sempre all’interno di queste comunità, non voleva o non poteva essere deposto in prossimità della chiesa veniva interrato nel cimitero delle vicinanze, dove forse lo status e l’appartenenza ad un determinato clan familiare era messo in risalto attraverso i corredi e la vicinanza spaziale agli antenati. In altre comunità, invece, che spesso parrebbero satelliti delle precedenti, non c’erano particolari differenziazioni sociali da mettere in risalto o competizioni per il controllo e il potere, dunque nessun antenato veniva deposto con corredi di valore. attrattiva venisse esercitata soprattutto nelle fasi più vicine al periodo di fondazione della chiesa. In relazione alle chiese fondate tra VI e VII potevano essere deposti individui con o senza armi e spesso (con l’eccezione di due casi), là dove non sono state ritrovate armi nelle sepolture prossime alla chiesa, necropoli con individui armati sono riscontrate nelle immediate vicinanze. I dati relativi alle chiese e quelle degli insediamenti, sebbene piuttosto frammentari, sembrerebbero indicare anche per il Friuli-Venezia-Giulia una situazione analoga a quella rilevata in altre zone d’Europa (Theuws, Alkemande, 2000), e cioè che sepolture con armi sembrano piuttosto in relazione ad aree dove si registrano nuovi sviluppi (riscontrabili nell’ampliamento degli insediamenti e soprattutto nella fondazione di nuove chiese) nei secoli VI e VII. Dunque, come é stato già in altre occasioni evidenziato, anche alla luce di questi dati, mi pare si possa affermare sempre con maggior sicurezza che le sepolture con armi non sono l’espressione di gruppi di longobardi in contrapposizione ad autoctoni, quanto semmai l’espressione di gruppi aristocratici (autoctoni, longobardi, o altro che fossero) che si andavano affermando o riaffermando in aree interessate da nuovi sviluppi sociali (Gasparri, 2002; Harrison, 2002). L’uso di deporre armi fu caratteristico di un limitato periodo storico (interessò circa due generazioni, o al massimo tre) e sembrava rivolto, almeno nei casi meglio documentati, ad evidenziare la figura di antenati fondatori, forse coloro che assunsero nuovi ruoli di controllo o potere. La mancanza di queste sepolture in diverse necropoli potrebbe essere dovuta o alla mancanza di necessità (forse là dove le aristocrazie e i ruoli di forza si erano già stabilizzati) o alla mancanza di possibilità (nel caso di comunità più povere). E forse, entrami le cause potrebbero essere state alla base di tale mancanza, a seconda delle situazioni. Questa interpretazione andrebbe supportata da ulteriori dati, ho cercato qui di tracciare alcune linee interpretative che mi paiono plausibili alla luce di questi nuovi risultati. 56 quello dei Longobardi, sicuramente dalla struttura aperta e dinamica, fluida e duttile, ma con una fisionomia incisiva, in rapida evoluzione nella direzione della costruzione di una società nuova, secondo dinamiche ancora in gran parte da mettere a fuoco e da definire sotto il profilo materiale. Luoghi e segni della morte in età longobarda: tradizione e transizione nelle pratiche dell’aristocrazia Caterina Giostra Con il presente intervento ci si propone di indagare alcuni aspetti che possano contribuire a una migliore definizione delle scelte operate dall’aristocrazia del Regnum in relazione alle pratiche funerarie: i modi dell’ostentazione e dell’autorappresentazione, permeati dal costante rapporto dialettico del persistente legame con la “cultura tradizionale”, precocemente affiancata e che gradualmente trascolora in pratiche e simboli recepiti dal cristianesimo. Qualche considerazione sul metodo In questa breve nota si coglie l’occasione per qualche spunto di taglio metodologico, che non sarà possibile esporre durante l’intervento orale; seguirà una sintetica traccia degli argomenti che si intende presentare, che in sede di convegno verranno articolati e argomentati più puntualmente con l’ausilio delle immagini. Si sono assunte come filone guida le tombe con “ricco” corredo (o alcune tipologie di manufatti ritenute “indicatori di rango”); l’ambito geografico è quello dell’Italia centro-settentrionale. L’indagine è stata regolata da due costanti metodologiche: 1) la serrata correlazione fra le caratteristiche tipologiche dei reperti e i dati disponibili circa il contesto di rinvenimento (oggetti in associazione, età di morte degli inumati, struttura tombale, tipo di necropoli, contesto insediativo e altro ancora), entrambi espressione di scelte operate in relazione a uno stesso inumato e quindi a una stessa identità sociale (da qui “luoghi e segni della morte”, intesi in stretta correlazione fra di loro); 2) l’individuazione di peculiarità costanti, una sorta di ‘comuni denominatori’ che legano contesti sepolcrali anche distanti tra loro sotto il profilo geografico o cronologico, evidentemente espressione di componenti culturali così significative e pregnanti da essere ampiamente condivise e da superare variabili dettate da modelli locali e scelte individuali o familiari. Si tratta di possibili aspetti portanti della mentalità e della cultura di un popolo, Se il corredo funerario costituisce, a tutt’oggi, una delle componenti più indicative nella valutazione di una necropoli di età longobarda, non solo sotto il profilo cronologico, ma anche per un più ampio inquadramento del sito stesso, credo si debba riconoscere che le nostre conoscenze, soprattutto in Italia, sui singoli oggetti deposti, come anche sulle loro combinazioni e sull’articolazione complessiva delle offerte sono molto limitate. Da un lato infatti l’approccio classificatorio, preliminare e imprescindibile e che si avvale di una rigorosa impostazione filologica, decisamente non esaurisce la conoscenza di un manufatto; dall’altro, sono stati da tempo evidenziati, soprattutto in relazione alle formulazioni più rigide, i limiti dei modelli tradizionali con i quali a lungo la critica ha interpretato i sepolcreti di età longobarda, basati su sicure corrispondenze tra la qualità del corredo e lo status dell’inumato, e l’ambito produttivo dei monili e l’etnia del defunto, alterate solo da graduali, ma pressoché lineari processi di acculturazione e di cristianizzazione. A questo punto, allora, a fronte di una ricerca storica che ormai da qualche decennio ha sviluppato un articolato dibattito incentrato sui più diversi 57 manufatti, il loro portato simbolico, le modalità d’uso e di trasmissione. aspetti che interessano le popolazioni germaniche nell’età delle migrazioni e nella formazione dei regni romano-barbarici, l’archeologia funeraria, a mio avviso, si scopre non ancora in grado di apportare nozioni e conoscenze inedite, dati e valutazioni proprie, rischiando anzi di essere condizionata (e non solo stimolata, come sarebbe forse più corretto) dalle acquisizioni già raggiunte dalle discipline storiche, prima ancora di aver condotto in modo autonomo e spregiudicato un’analisi matura e adeguata allo stato attuale del dibattito. Il confronto fra le caratteristiche ricavabili da una sistematica schedatura del materiale (tutti gli esemplari di una determinata classe) e la capillare registrazione dei dati relativi al contesto di rinvenimento può far emergere abbinamenti ricorrenti o assenze che difficilmente possono essere imputati al caso e che, piuttosto, sembrano espressione di logiche coerenti. Mirate verifiche circa particolari associazioni di dati possono lasciar intravedere logiche insospettate o avvalorare opinioni consolidate, ma mai validamente provate. Si pensi, a livello puramente indicativo, al grado di usura dell’oggetto e all’età di morte del possessore, un rapporto che potrebbe essere indicativo circa possessi strettamente personali o piuttosto beni trasmissibili; alla concentrazione o dispersione di monili di provenienza allogena e alla coerenza dei reperti in associazione, che potrebbero suggerire le dinamiche sottese alla circolazione ad ampio raggio dei manufatti (mobilità individuale, circuiti commerciali, donativi personali…); alla distribuzione di tipi e varianti morfologiche e stilistiche tra le necropoli di uno stesso sito o tra i vari nuclei di una stessa necropoli che potrebbe riflettere scelte deliberate e logiche di distinzione; un’analisi qualitativa e quantitativa delle armi che accompagnano personaggi che si presume abbiano svolto ruoli e attività differenti, come le tombe di armati sepolti presso fortificazioni e quelle nelle basiliche urbane o suburbane o quelle contenenti anelli-sigillo, per evidenziare eventuali differenze e soppesarne il significato; una valutazione sistematica dei contesti che hanno restituito “indicatori di rango” o di potere economico (punte di lancia traforate, croci in lamina d’oro, cinture, scudi da parata…) per una migliore definizione sociologica del loro potenziale informativo, al momento assai generico; Nella convinzione che il corredo funerario offra un potenziale informativo assai ricco, anche se sfuggente e di difficile decifrazione, ancora sostanzialmente inespresso, a mio avviso l’archeologia funeraria è ora chiamata a compiere un salto di qualità, nella ridefinizione dei suoi approcci metodologici e dei percorsi analitici da sviluppare. Una possibile direzione, promettente ma non esclusiva, già suggerita in passato ma che non ha ancora trovato decisa attuazione, potrebbe essere quella di una sistematica e mirata correlazione fra i dati intrinseci al manufatto (caratteri materiali, dimensionali, morfologici e stilistici, grado di usura ed eventuali riparazioni,…) e tutti gli elementi noti circa il contesto di rinvenimento, pertinenti l’inumato, il corredo e la struttura tombale, la necropoli, il sito; questo, non tanto perché fattori quali, per esempio, l’età e la causa di morte dell’inumato possono aver determinato varianti nel rituale funerario (e nella composizione del corredo), ma soprattutto per correlare le varie componenti che possono aver avuto un rapporto di dipendenza o che esprimono scelte coerenti in relazione a una determinata fisionomia sociale e culturale, insomma elementi a volte in grado di spiegarsi reciprocamente. Se finora si è tendenzialmente usato il corredo per meglio comprendere un sito, ora bisognerebbe provare a usare sistematicamente i diversi contesti archeologici per meglio conoscere i 58 gruppo; soprattutto a partire dalla generazione successiva, poi, sono note tombe maschili isolate eccezionalmente ricche o piccoli nuclei nobiliari che distano alcune centinaia di metri dal più ampio sepolcreto del resto della comunità. Tali tendenze permangono nel corso del sec. VII, ma assai precocemente si affermano anche altri modelli, che prevedono la stretta connessione con edifici di culto cristiani: in prima battuta (già dagli anni intorno al 600) le sepolture di personaggi preminenti sembrano legate a chiese con cura d’anime e/o funerarie, soprattutto paleocristiane, a molte delle quali i personaggi stessi devono aver rivolto il loro mecenatismo. Già nel corso della prima metà del sec. VII e soprattutto a partire dalla metà del secolo si avvia con successo anche la pratica di fondare oratori funerari destinati al proprio nucleo familiare, che in qualche caso si pongono in continuità con precedenti necropoli a file, a volte monumentalizzandone in senso cristiano una precisa porzione. Più scarni sono i dati materiali attualmente in nostro possesso circa le deposizioni di esponenti del ceto dominante in relazione alle sedi di potere dove essi stessi avevano espletato il loro ruolo pubblico. anche i numerosi soggetti raffigurati in particolare sulle croci in lamina d’oro (effigie imperiale, monogramma, intreccio zoomorfo,…), che risultano ancora di interpretazione assai ambigua e sfuggente, potrebbero essere visti sotto nuova luce se letti in rapporto ai destinatari e al sepolcro per loro apprestato; e gli esempi potrebbero continuare. Ne emergerebbero primi dati da evidenziare e da intrecciare, sui quali si potrà tentare di avanzare qualche ipotetica chiave di lettura: minuti frammenti di una mentalità lontana nel tempo, recuperati però in modo spregiudicato, che potrebbero presentare aspetti inediti e apportare nuova linfa a questioni assai complesse sulle quali le pur prolungate analisi tipologiche e stilistiche hanno prodotto visioni ancora controverse e aleatorie, quando non insoddisfacenti. I risultati di tali analisi archeologiche potranno, finalmente, essere passati al vaglio dell’imprescindibile confronto con gli storici (nonché con studiosi di antropologia culturale, etnoarcheologia e altre discipline ancora), un dialogo nel quale al momento gli archeologi spesso non sono ancora in grado di presentare chiare sintesi e decise quanto motivate consapevolezze: forse non si è ancora ‘superato’ in modo deciso un orizzonte metodologico ampiamente ritenuto ‘superato’ e i reperti archeologici, in quanto tali e quindi con metodi propri, nelle loro specificità non sono ancora stati adeguatamente interpellati. In relazione a queste diverse tendenze nella scelta dei luoghi e dei tipi di sepolcreti, dei quali si cercherà di tratteggiare a grandi linee i tempi e le modalità più peculiari anche considerando i differenti contesti insediativi (urbano, rurale, castrense), verrà calibrata l’analisi dei corredi più prestigiosi, in particolar modo quelli maschili con armi che esprimono un legame più marcato con la tradizione guerriera longobarda. Al di là di un loro inquadramento complessivo, le domande intorno alle quali si articolerà l’analisi saranno le seguenti: quali differenze si ravvisano tra i corredi rinvenuti nelle necropoli ‘aperte’ e quelli di tombe in connessione con luoghi di culto? Quali gli eventuali indicatori forse riservati esclusivamente ai ceti preminenti L’aristocrazia ‘longobarda’ tra cultura tradizionale e cristianizzazione: una traccia Circa la prima fase di stanziamento longobardo in Italia, ampie necropoli ‘a file’ si connotano in genere per la presenza di una o più “sepolture privilegiate”, intorno alle quali gravita il resto del 59 Anche i soggetti raffigurati sugli umboni di scudo da parata, divisi tra motivi zoomorfi di matrice chiaramente germanica e appliques cruciformi, a volte circondate da simboli di tradizione paleocristiana, mostrano, a un’attenta lettura dei contesti e del loro inquadramento cronologico, una significativa evoluzione. Invocazioni cristiane, a volte associate a convulsi intrecci zoomorfi forse ormai solo decorativi, sono chiare acquisizioni dall’ambiente cristiano, ma sono precedute e in parte affiancate cronologicamente da oggetti con incisioni pseudo-epigrafiche, espressioni di un diverso valore (magico?) dato ai caratteri alfabetici: testimonianze epigrafiche precoci e di carattere non monumentale, che ci restituiscono qualche elemento in più circa il rapporto, multiforme oltre che incerto e contraddittorio, che i L. e in particolare i gruppi insediati lontano dalle città e più legati alla cultura tradizionale ebbero con la scrittura. e quindi distintivi di rango, al di là di una eloquente quanto generica preziosità degli insiemi di reperti? Quali le espressioni più forti di un legame con la cultura tradizionale e quali i cambiamenti e le nuove acquisizioni dovuti all’integrazione con il sostrato autoctono, cristiano? Le croci in lamina d’oro attualmente note sono quasi 340, rinvenute in relazione a individui sia maschili che femminili di ogni età, in corredi con livello di ricchezza piuttosto vario, in tutti i tipi di necropoli e contesti insediativi sopra menzionati, per un periodo che va dalla prima generazione di L. in Italia agli inizi dell’VIII secolo; e se nelle caratteristiche di massima (materiale, dimensioni, forma, posizione,…) esse presentano una certa omogeneità – fatte salve alcune lievi variabili che seguono tendenze regionali – il campionario dei motivi decorativi e dei soggetti iconografici adottati è decisamente il più ricco ed eterogeneo, nonché variamente combinato, presente sui reperti dei corredi di età longobarda. Più arduo, poi, è capire se, e in che termini, uno stesso oggetto deposto per un ampio arco di tempo, in concomitanza con le rapide e radicali trasformazioni intervenute nelle pratiche funerarie abbia visto mutato anche il suo portato simbolico e rimando culturale (per es. le bottiglie in vetro): anche in questo caso i cambiamenti che connotano il corredo e i luoghi di sepoltura potranno essere più indicativi di un’analisi tipologica incentrata solo sul reperto in sé, specie quando questo ha un carattere morfologico marcatamente conservativo. Considerate in genere spie di ceto benestante e dell’avvenuto contatto con il cristianesimo, in relazione a questioni molto complesse come la distinzione sociale in una compagine sempre più articolata e la graduale e tutt’altro che lineare cristianizzazione – con i suoi risvolti politici – l’attuale valutazione di questi reperti certo non soddisfa, soprattutto nella piena consapevolezza che la loro deposizione nelle tombe doveva avere un portato simbolico ben più puntuale e ricco di valenze. Operando una stretta correlazione fra i motivi raffigurati e i contesti di rinvenimento, emergono alcune circostanze ricorrenti che sembrano tutt’altro che casuali: decori assenti in sepolture connesse a luoghi di culto o presenti solo in questi, e di particolari contesti insediativi; repertori iconografici attestati unicamente in tombe maschili di ceto elevato e su crocette di dimensioni alla media. Primi dati dall’interpretazione ancora non univoca, ma inediti e che ci avviano verso una conoscenza più concreta e approfondita delle classi di oggetti. Alcuni dati, insomma, circa il complesso rapporto fra la cultura tradizionale e la cultura acquisita dall’ambiente romanobizantino, dai quali non si vogliono ricavare linee interpretative conclusive, bensì limitati esempi del ricco potenziale della fonte in analisi (corredo funerario/contesto di rinvenimento) e dei possibili passaggi analitici utili ad acquisire nozioni inedite da introdurre nell’attuale dibattito storiografico. 60 Anzi, la non-coincidenza dei due tipi di fonte costituisce in se stessa un elemento potenzialmente ricco: le deformazioni, volontarie o incoscienti, dovute al condizionamento culturale e sociale, se individuate grazie allo scavo vanno allora a costituire una parte integrante della valutazione storica delle evidenze archeologiche. SEZIONE III STRATIFICAZIONI INSEDIATIVE E STRATIFICAZIONI SOCIALI Stratificazioni insediative stratificazioni sociali Comunque, anche cercando di affrontare i dati del terreno al di fuori di ogni presupposto legato alle nostre conoscenze, ci si riferisce per forza a modelli già evidenziati, e nei quali entrano le informazioni ricavate dai testi: così le tracce di una organizzazione collettiva dello spazio possono significare la forza di una comunità, contadina per esempio, o il potere di un signore e la presenza, in un villaggio qualsiasi, di un edificio di dimensioni notevoli va interpretata quasi automaticamente da un protostorico come “struttura collettiva”, da uno studioso dell’Antichità romana come edificio amministrativo e da un medievista come “struttura aristocratica” o comunque pertinente allo ceto economicamente dominante. e G. Noyé Stando alla maniera nella quale è impostata il titolo di questa sezione del convegno, si tratta di esaminare come e quanto lo studio delle stratificazioni insediative è in grado di informarci sulle stratificazioni sociali ad esse legate. Ma il processo è un po’ quello del serpente che si morde la coda, perchè molto spesso, e in particlolar modo quando si tratta dei ceti sociali inferiori, ci si tenta di capire le realtà insediative utilizzando le informazioni ricavate dalle fonti scritte. A priori, si tratta di due serie di dati che si riferiscono a campi diversi: da una parte la “storia”, per rimanere nello schema politically correct, con il quale non sono per niente d’accordo, e dall’altra, le strutture archeologiche. Si vedrà in questa introduzione che nella maggior parte dei casi sono i dati scritti, nonostante la loro scarsità, che forniscono la chiave d’interpretazione. Oltre che indirizzato dalla sua propria formazione, l’archeologo dipende pure da altri tipi di selezione, culturale o casuale, nella trasmissione delle evidenze materiali: si pensi per esempio all’alta percentuale di residualità che si verifica sempre di più nella ceramica del nostro arco cronologico. Per rimanere nel campo insediativo, solo nel caso di una distruzione violente e improvisa una struttura insediativa si può considerare conservata con quasi tutti gli elementi che la caratterizzano. Sul sito della curtis di Charavines, a causa della risalità repentina delle acque del lago di Paladru, presso Grenoble, gli occupanti delle tre case si sono salvati a prezzo di abbandonare tutto, comprese le armi, i gioielli e tutti i tipi di attrezzature in grado di consentire Non si può respingere la testimonianza dei testi per il motivo che essa è, per forza, di “seconda mano”: è vero che le informazioni possono essere travisate da chi le trasmette, e anzi lo sono inevitabilmente, ma proprio per questo le fonti scritte vanno in ogni caso passate al vaglio della critica esterna ed interna che costituisce il lavoro basilare di chi intende utilizzarle per qualsiasi tipo di ricostruzione storica, compresa quella fondata prevalentemente sull’archeologia. 61 (equitazione, guerra, gioco, musica), Michel Collardelle, direttore dello scavo, ha identificato gli abitanti come “cavaliericontadini”. In quanto depositari di un sapere tecnico (lavorazione del legno e del cuoio) e amministrativo (scrittura), essi non potevano essere altro che schiavi, exintendenti di demani, affrancati dal loro padrone e mandati come colonizzatori di aree boschive, a qualche decina di kilometri della loro regione originaria. Molti particolari combaciavano con tale ricostruzione, come l’importare ceramica dalla loro area geografica di provenienza, relativamente lontana, mentre alcuni documenti testimoniavano dalla necessità per il loro presunto signore di creare dei punti d’appoggio militari nella zona montagnosa indagata. La posta in gioco era però troppo importante, dal momento che si trattava nientemeno che illustrare la vexata questio della mutazione del mille; d’altra parte Michel Collardelle non si dimostrò del tutto imparziale nella sua prima presentazione dei dati archeologici: a guardarci bene infatti, delle differenze esistevano tra le tre strutture, come il tipo di alimentazione o la qualità degli oggetti, e gli attrezzi artigianali erano piuttosto cantonati nei due fabbricati che si dimostravano anche inferiori dal punto di vistà delle techniche di costruzione. I storici “non-mutazionisti” preferirono quindi il termine “piccolo demanio schiavistico”. D’altre parte i storici dell’ambiente naturale e del clima negarono l’esistenza del “sole di Charavines” ovvero la contemporaneità di condizioni eccezionalmente favorevoli. poì all’archeologo di poter identificare la loro condizione. In altri casi meno fortunati, l’abbandono metodico di un abitato o la distruzione mirata ad un rifacimento programmato fanno si che scompaiono tutti gli oggetti che sono appunto considerati come utili o preziosi. In ogni caso, si può comunque considerare che le strutture insediative ci trasmettono una imaggine insieme più oggetiva e meno ricca della società, che quella fornita dalle inumazioni con il loro forte peso sovrastrutturale e autorappresentativo. Proprio per questa ragione probabilmente, l’archeologia funeraria si è azzardata per prima a ragionare in termini così complessi come la famiglia, la gerarchia sociale e il potere politico, come se fosse necessario a tale impresa l’aiuto del corpo, della sua parure e degli oggetti depositati. Il problema dei rapporti tra fonti scritte e fonti archeologiche è più che altro quello dei rapporti tra “storici” e archeologi. Troppo spesso il ragionamento storico si è limitato, nelle pubblicazioni archeologiche, ad un capitolo introduttivo o conclusivo, dove il suo rapporto con i dati materiali non è realmente affrontato. E’ vero che l’interpretazione di alcuni testi richiede una formazione specializzaziata e una certa esperienza, ma non per questo il loro uso deve essere abbandonato ai studiosi dello scritto. L’unico ostacolo è l’eventuale assenza di formazione tecnica dell’archeologo nel campo della paleografia o della diplomatica, non la sua facoltà di costruire modelli storici fondati su entrambe le fonti. Fu un peccato perchè Charavines e i suoi “cavalieri-contadini” erano stati, al pare dell’incastellamento, l’occasione di un vero dibattito storiografico. Ma fu anche la dimostrazione che l’archeologo poteva e doveva dimostrare la stessa inventività dello storico dei testi nel costruire e scomporre le sue interpretazioni. L’esperienza di Charavines è un tentativo interessante di risoluzione di problemi storici particolarmente delicati come la “mutation” dell’anno mille e la fine della schiavitù in Francia. Partendo dalla costatazione che l’occupazione dei tre edifici difesi da una palizzata sulla riva del lago si caratterizza dall’uso congiunto di attrezzi agricoli o artigianali e di oggetti pertinenti alla “panoplia signorile” 62 due piani, di dimensioni maggiori e di pianta generalmente quadrata, e quelle rettangolare dove l’unico piano è diviso in due ambienti. Il terzo tipo, sul modello dell’aula absidata, appare invece eccezionale. Tale situazione, socialmente equilibrata, potrebbe essere legata al persistere, nella pianura di Sibari, di un ceto di proprietari di media entità, fondato su una cerealicoltura tradizionale. In altre zone del Bruzio, la confisca del saltus sicuramente, e lo sviluppo ulteriore di una viticoltura commerciale probabilmente, avrebbero favorito lo sviluppo delle massae. Le stratificazioni sociali possono essere di ordine economico e riprodurre la gerarchia delle richezze e dei modo di vita, o di natura giuridica, come quella che separa lo statuto di schiavo dalla condizione di libero. Nella prima classificazione va considerata l’estensione della proprietà immobiliare: ci sono quelli che possiedono la terra (possessores, piccoli proprietari) e quelli che la gestiscono a diversi livelli: intendenti, conductores e coloni. Entrano pure nella stratificazione le attività “professionali”: chierici, funzionari pubblici, civili e militari, negotiatores, artigiani, coltivatori o qualche caratteristica peculiare come la condizione di curiales. Molte corrispondenze esistono tra queste gerarchie: a priori i ricchi sono quelli che possiedono la terra o gestiscono la terra altrui insieme ai loro propri possessi e infatti i conductores si confondono spesso con i possessores; i curiales invece s’identificano ai proprietari di media e piccola importanza, esposti agli abusi fiscali dei precedenti; infine la precarietà economica dello statuto di colono è un fenomeno stranoto. Qualche anno fa, quando s’incominciava ad organizzare tematicamente questo incontro, si era rinunciato a dedicare una sezione ai ceti sociali inferiori, in mancanza di materiali. I programmi in corso sono infatti dedicati alle elite a al loro patrimonio, mentre nell’ambito strettamente archeologico, le relazioni dei recenti convegni di Foggia sulle campagne dell’Italia meridionale tra tardoantico e altomedioevo e quelle del convegno di Ravenna sulle città hanno prevalentemente trattato dell’aristocrazia. Si tratta chiaramente di un problema di fonti, e di produttori di fonti sia scritte che archeologiche. Una eccezione è stato il convegno organizzato a Montreal nel 1999 sul “piccolo popolo”, il cui arco cronologico e geografico risultava, per ovvie ragioni, molto ampio. L’apertura del programma di questo incontro è quindi una notevole novità. Ma è un fatto altrettanto dimostrato che, tra le diverse categorie, alcune non si sovrappongono e in particolar modo lo statuto economico e quello giuridico. Una lettera di Cassiodoro (Var. IX, 4) è al riguardo sorprendente: una donna e i suoi figli devono essere cancellati de albo curiae per figurare tra i possessores; dovranno allora sopportare quello che i curiales infliggono ai possessores terrorizzati con il loro orrendo viso di collettori delle imposte. L’episodio si svolge in Lucania e dimostra, alla pari dello scavo di alcune stationes come Metaponto, quanto i rapporti di forza tra curiales e possessores possono essere diversi a secondo degli equilibri produttivi del territorio. Lo stesso si può dire di Thurii in quanto lo scavo, tramite lo studio delle tecniche murarie e della morfologia delle case, da l’immagine di una società urbana sostanzialmente egalitaria, mentre l’indagine mette in evidenza l’assenza quasi totale di grande villae nel comprensorio. Le case urbane sono prevalentemente di due tipi: quelle a L’espressione “stratificazioni insediative” si deve intendere come gerarchie evidenziabili all’interno di un gruppo di strutture pertinenti allo stesso complesso, e non come stratificazione dei stessi insediamenti (città e villaggi per esempio), almeno che si trattì di insediamenti specifici di un ceto sociale. Il campo di osservazione di tali stratificazioni può essere orizzontale o verticale: nel primo caso si tenta di afferare una eventuale 63 gerarchia ad un momento ben preciso in un intero villaggio o all’interno di un complesso di tipo villa o praetorium, ad un certo momento della sua esistenza, una specie di instantané quindi, visione statica che permette un confronto valido sulla base di dati quantitativi. E’ di solito il caso di una esperienza di scavo. In casi fortunati, si tratta dello studio di tutti gli insediamenti di un certo tipo in una circoscrizione amministrativa o comunque in una area non priva di significato geografico o politico. edilizio, costituito da unità di pianta rettangolare: si tratta di un fabbricato con funzione abitativa e agricola, associato ad un cortile delimitato da un muro. Il pianterreno, che si affaccia sul cortile mediante un portico, serve allo stockaggio, alla stabulazione e contiene il frantoio per l’olio o il vino. Il primo piano è riservato alle stanze residenziali che si aprono su un balcone poggiato alla copertura del portico. Ogni casa è costituita da una o più unità (fino a tredici), che possono essere allineate o distribuite attorno al cortile, secondo uno schema poligonale. Le singole case sono raggruppate in isolotti, e il villaggio è costituito da alcuni isolotti separati da viuzze di larghezza variabile. I villaggi sono nati, al di fuori di ogni programmazione, dallo sviluppo di isolotti accentrati sulle prime aziende agricole, le case più tarde essendo rigettate alla periferia. Anche i santuari, pagani poi cristiani, sono impiantati sul margine dell’agglomerato senza che si verifichi mai una organizzazione accentrata su strutture comunitarie. Piano verticale sarebbe invece a dire lo studio di una struttura insediativa attraverso tutta la sua storia, in grado di mettere quindi in evidenza una dinamica nel senso positivo o negativo, individuando uno sviluppo economico o una promozione sociale, o al contrario una crisi o un impoverimento progressivo. Al piano orizzontale si riferisce l’indagine di Georges Tate sui villaggi in Siria tra Antichità romana e periodo 20 protobizantino . Il gran numero di villagi databili dal II al VII secolo d. C. nella zona calcare che occupa il nord del paese, e il notevole stato di conservazione delle case, per la maggior parte conservate in elevato fino al livello del tetto, hanno consentito uno studio statistico, eccezionale per il periodo e il tema affrontati. Il postulato di base è quello della conservazione di tutti i villaggi, e della possibilità di evidenziarli tramite una semplice indagine di superficie; la densità delle case all’interno dei singoli complessi, e l’alto livello delle tecniche di costruzione hanno d’altra parte suggerito l’ipotesi della conservazione di tutte le componenti all’interno di ogni insediamento. Secondo Tate, le singole unità erano databili sulla sola base degli avanzi della decorazione delle facciate, capitelli o cornicioni, e della tecnica di costruzione, in associazione con le poche iscrizioni inserite nei muri. I due tipi edilizi evidenziati prevedevano l’uso di grossi blocchi di calcare squadrati (apparecchio ortogonale) o di conci di dimensioni minori solo sbozzati: mentre quest’ultimo poteva essere messo in opera da manovalanza non qualificata, il primo necessitava di una attrezzatura specifica e dell’intervento di muratori, e quindi dell’esistenza di un surplus monetario. Lo studio del materiale di superficie, peraltro poco abbondante, è stato invece del tutto episodico. 46 siti su 700 sono stati selezionati per il loro discreto stato di conservazione. Il conteggio delle unità ha consentito di classificare le case, distribuite in tre categorie: il primo gruppo è formato dalla casa a una o massimo due unita Aldilà delle differenze nell’organizzazione e le dimensioni delle case, esse appartengono tutte ad un unico tipo 20 G. Tate, Les campagnes de la Syrie du Nord du IIe au VIIe siècle, I, Paris, 1992 (Institut français archéologique et historique de Beyrouth, 133). 64 catastazione. La peste del 250 marca una stasi nella progressione, seguita da una seconda fase: dal IV alla metà del VI secolo, l’espansione demografica ed economica prosegue ed anzi si accelera; il numero delle unità è molteplicato per 4,5 e i disboccamenti sono indicati dalla riduzione dalla quantità di unità che distingue il grande villaggio dal piccolo agglomerato. Il rapporto tra il numero delle unità e l’estensione del territorio dimostra inoltre che la terra sfruttata dalle singole aziende diminuisce, ma la sostituzione della muratura ortogonale a quella media indica allora una intensificazione della produzione, produttrice di ulteriori ricchezze. Infine, per soddisfare ai bisogni crescenti del mercato, sono sviluppate le colture commerciali, e in primo luogo gli uliveti, che necessitano di una manodopera numerosa: le grandi case con frantoi si molteplicano. Lo studio, più recente, delle anfore da trasporto siriane sta a confermare la correttezza del ragionamento. La terza ed ultima fase, tra fine VI ed inizio VII secolo, si caratterizza dalla fine delle costruzioni e ristrutturazioni edilizie: l’espansione agricola del villaggio, in preda all’aumento del prelievo fiscale e religioso, non segue più la crescità demografica: si tratta di “un mondo pieno”, reso ormai vulnerabile ad ogni tipo di crisi. (quella della familia mononucleare); la sua individuazione, grazie ad una epigrafe dei primi del III secolo che attribuiva una casa di tre unità a tre fratelli, ognuno con la sua familia, ha fornito la base metodologica dell’indagine; la seconda categoria, quella della famiglia larga, si caratterizzava dall’esistenza di tre unità; infine la casa polinucleare poteva ospitare fino a tre generazioni della stessa familia ed eventualmente la manovalanza, identificata come servile sulla base dei testi. Si osservava inoltre che la casa, una volta impiantata, poteva essere ingrandita, come succedeva spessissimo o, essere restaurata per esempio in seguito ad un terremoto, ma che ogni unità risultava comunque occupata fino all’abbandono del villaggio. L’ingrandimento di una casa testimoniava dell’aumento delle richezze perchè, lungo dall’ammucchiare i nuovi membri della familia su uno spazio ristretto s’investiva nella costruzione per ospitarli decentemente. Allo stesso modo, le modificazioni del pianterreno indicavano un aumento delle attività agricole, mentre l’assenza di qualsiasi traccia di mantenimento edilizio attestava una situazione economica deficitaria. La fotografia aerea, mediante i muretti di delimitazione dei campi, gli ammucchiamenti di pietre e talvolta l’individuazione di parcellari fossili ha consentito di studiare il territorio e di collegare certi tipi di sfruttamento del suolo a certe categorie di case: quelle di dimensioni maggiori corrispondevano ai territori agricoli più grandi, dedicati alla cerealicoltura e ai frutteti, e all’oleicoltura In una prima fase, dal I al III secolo, le case del primo gruppo predominano: la progressione delle costruzioni risulta lenta e regolare, in parallelo con una economia fondata sull’allevamento e la policoltura. Il contesto è quello della pax romana, della costruzione delle grandi città (Antiochia ed Apamea) e delle strade, nonchè della E ovvio che il lavoro di Georges Tate e le sue conclusioni prestano il fianco a tante critiche, di ordine soprattutto metodologico. Nell’assenza di qualsiasi scavo, la datazione delle unità abitative e l’identificazione delle attività agricole rimangono ipotetiche, come la funzione residenziale del primo piano delle case. La corrispondenza tra una casa e le dimensioni della area coltivata o del tipo di sfruttamento agricolo merita anche qualche sfumatura. Tuttavia ho scelto questo esempio perchè Georges Tate è stato il primo a mettere 65 - l’eventuale fortificazione - la vicinanza degli assi stradali o di un porto - tutti elementi che vanno possibilmente studiati nella lunga durata. l’accento sulla prosperità ed addiritura la crescità economica delle campagne nell’Antichità tarda. La sua ricerca rimane una tra le poche indagini di questo tipo sui villaggi dell’epoca protobizantina, che ha avuto inoltre il coraggio, forse dovuto all’incoscienza, di affrontare un discorso storico: l’assenza di ogni indicatore archeologico significativo di differenziazione sociale è stata da lui giustamente interpretata, non come una lacuna dell’indagine, ma come indizio di una società rurale quasi egalitaria, comunque aperta alla mobilità tra i diversi ceti. I villaggi siriani stanno così ad illustrare le fonti scritte che documentano il raggruppamento, a partire dal 332, di contadini proprietari liberi in vici indipendenti, coresponsabili di fronte alla fiscalità. Tale situazione si ritrova, mutatis mutandis, in Italia meridionale nella quale l’abitato raggruppato rappresenta la forma predominante dell’insediamento rurale che l’archeologia dimostra, almeno per quanto riguarda il Bruzio/Calabria, ancora in via di sviluppo nel sesto secolo inoltrato. Last, but not least, in uno dei pochi villaggi che presentano marcati segni di stagnazione, una epigrafe providenziale indica che alcune comunità sono raggruppate su un unico demanio, proprietà di un unico personaggio: il colonato corrisponderebbe quindi all’impossibilità di svilupparsi. Va sottolineato che tutta la costruzione storica di Georges Tate e un libro di 400 pagine risultano fondate su due epigrafi, quest’ultima e quella pertinente ai tre fratelli... Solo i villaggi siciliani contemporanei, come quello di Kaukana, si avvicinano a quelli siriani, per le tecniche murarie che usano blocchi e conci di calcare lavorati, per l’ampiezza dei raggruppamenti e per la loro strutturazione attorno alle chiese. Per il resto, le strutture insediative rurali della penisola, prevalentemente costruite in legno e in terra cruda su semplici zoccoli di pietra, non consentono uno studio del genere. E peraltro ovvio che le condizioni nelle quali si svolge attualmente l’indagine archeologica, almeno in Calabria, difficilmente consentiranno l’evidenziazione di una gerarchia sociale. Qualcosa pero si può fare; nonostante l’importanza della grande proprietà in Italia meridionale, non è escluso che molti vici almeno per il IV secolo, siano abitati da piccoli proprietari; ho tentato per conto mio di classificare i vici del Bruzio, secondo l’assenza o meno di una grande villa o di un praetorium ancora funzionante nelle vicinanze, con tutte le dovute precauzioni, nel caso frequentissimo di informazioni molto parziali ricavate quasi esclusivamente nel quadro di saggi di emergenza o osservazioni non sistematiche di superficie. Allo stesso modo si poteva L’indagine sulla Siria, oltre che mettere l’accento sulla necessità di lavorare su serie di dati, utilizza i diversi criteri che potrebbero consentire anche in altre regioni qualche ipotesi sulla condizione sociale delle popolazioni rurali tra Antichità tarda e altomedioevo. Si tratta per le singole strutture: - delle tecniche di costruzioni - delle dimensioni e della morfologia - e degli elementi decorativi - e, per i raggruppamenti, entrano in considerazione - il sito - la densità demografica - la morfologia e l’organizzazione delle varie unità - l’esistenza di strutture collettive, religiose od altre - la sociotopografia - il territorio - ai quali verrebero aggiunti 66 fiancheggiavano dall’origine una grande villa, e continuano a prosperare durante l’intero VII secolo. tentare una classificazione delle stesse villae a secondo dei materiali edilizi importati e della partecipazione probabile alle diverse fasi di costruzione di manodopera specializzata chiamata dall’estero. Le fornaci per anfore di trasporto del IV secolo sono perloppiù installate in vici che sembrano dipendere da una grande villa vicina e funzionano fino alla seconda metà del VI secolo, periodo che potrebbe corrispondere all’anientamento definitivo dei possessores del Bruzio ad opera dei Longobardi. Altre botteghe, come quella scavata a Pellaro, nell’assenza di qualsiasi struttura di tipo aristocratico, potrebbero corrispondere a vici pubblici e non privati; essi scompaiono invece presto nel V secolo, fallimento che potrebbe corrispondere alle razzie vandale, più pesanti per il piccolo viticoltore o imprenditore che per i possessores-negotiatores, quelli che hanno intensificato consapevolmente a fine commerciale una coltura a rischio come la vite. L’evoluzione morfologica dell’anfora calabrese Keay LII potrebbe allora risultare di una ristrutturazione delle botteghe meridionali, sempre nell’area di produzione tradizionale indicata dalle analisi petrografiche, ma su siti ancora da indagare. L’esaurimento finale della Keay LII e dei suoi nipoti averrebbe dopo la conquista longobarda, con la promozione di altre zone rimaste sotto il controllo bizantino, che sono d’altronde le uniche dove sono attestate alcune villae fino alla fine del VII secolo (pianura di Sibari). Anche la schiavitù può essere evidenziata dall’archeologia, con un certo numero però di criteri scientifici ben precisi: sul sito delle “Ruelles de Serris”21, a trenta kilometri ad est di Parigi, un gruppo o una familia aristocratica con i suoi contadini si stabilisce verso la fine del VII secolo, in un contesto di colonizzazione agricola, stimulata qualche decennio prima dalla fondazione dell’abbazia di Lagny-surmarne. In una prima fase, la residenza aristocratica appare suddivisa in due parti: una lavorativa e una residenziale, costituita da due edifici in pietra, di cui il più grande comprende una aula e una camera. In una seconda fase, databile al VIII secolo, una galleria è costruita lungo la facciata del grande edificio, che prende così un carattere decisamente “palaziale” o curtense, mentre l’area di servizio si organizza con la costruzione di tre grandi fabbricati attorno ad un cortile; tale nuovo complesso, sede di un mercato o luogo di percezione delle pensiones è dedicato ad attività agricole e monetarie. Il villaggio stesso è costituito, come sempre succede in epoca merovingia e carolingia, da più nuclei: ognuno raggruppa alcune unità agricole o “manses”, costituite da due case rettangolari. All’inizio, solo il gruppo aristocratico è dotato della propria necropoli, accanto allla cappella; nella seconda fase, le inumazioni del villaggio, prima impostate a fianco dei singoli nuclei o “hameaux”, si trasferiscono pure loro “ad sanctos”. D’altra parte, il modello archeologico siriano del villaggio vincente conforta l’ipotesi di una certa rinascità del vicus nella Calabria bizantina. I raggruppamenti di fattorie occupate da quelli che, da piccolo proprietario, erano diventati coloni, cioè affittuari liberi della terra in seguito ad un indebitamento, ricuperano la loro indipendenza colla scomparsa del possessor. Alcuni villaggi ben documentati del Bruzio sembrano infatti risparmiati dai Longobardi, anche quando Tuttavia 62 sepolture di donne e bambini sono ancora installate accanto al secondo edificio in pietra del nucleo “signorile”: di 21 B. Foucray, Les Ruelles de Serris-Habitats aristocratique et paysan du haut Moyen Age (fin VIIe –Xe siècles), in Ruralia I. Conferenze Ruralia I, 8th-14th september 1995, Prague, 1996 (Pamatky archeologické, suppl . 5), pp. 227-241. 67 nelle città o il mantenersi della funzionalità delle villae. L’importanza delle importazioni è un fenomeno del tutto relativo che può essere valutato solo con percentuali precise nel contesto di una stratigrafia ininterotta e che andrebbe confrontato con i dati quantitativi delle altre strutture vicine o degli altri raggruppamenti insediativi del comprensorio. Allo stesso modo, il rapporto delle importazioni con la qualità di chi le usa è complesso: in un periodo di crescità economica come il IV secolo, tutti i ceti partecipano al benessere generale. Con i primi segni della recessione, a partire del VI secolo soprattutto, sono ovviamente i ceti meno agiati ad usare prevalentemente i manufatti regionali o strettamente locali. Ma è chiaro che in alcune città del Bruzio, come Scolacium, l’arrivo di vasellame da tavola in alcune domus del IV-VI secolo si accompagna dall’arrivo di ceramiche da cucina nelle case vicine. D’altra parte un villaggio che pratica una monocoltura come quella della vite nel Bruzio del IV-VI secolo o i grani nelle massae siciliane della Chiesa romana all’epoca di Gregorio Magno, è costretto a comprare fuori le derrate indispensabili alla sua sopravvivenza. Solo un fenomeno di rottura, come la scomparsa repentina di pezzi importati in una struttura di tipo aristocratico può significare la sostituzione di un nuovo gruppo sociale a quello precedente. pianta quadrata e senza suddivisioni definite, esso si caratterizza inoltre dalla densità delle tracce di attività domestiche. Il complesso è stato interpretato come il centro di una curtis appartenente ad un esponente dell’aristocrazia fondiaria: le donne e i bambini sepolti a fianco della residenza rappresenterrebbero invece un gruppo di schiavi domestici o mancipia, gli unici servi ancora non casati, che erano alloggiati nello stesso fabbricato dove lavoravano. L’interesse di tale esempio è di mettere l’accento sulla necessità di utilizzare, quando si cerca di studiare le stratificazioni sociali, tutti i dati pertinenti all’abitato, comprese le sepolture annesse. Qualche anno fa, dopo un lungo dibattito con l’amico Riccardo Francovich a proposito dell’organizzazione di una serie di incontri proprio sul tema di oggi, si era deciso di prendere successivamente in considerazione una serie di aspetti specifici come le tecniche di costruzioni, etc. Ma il primo incontro aveva dimostrato che una struttura insediativa può essere corettamente valutata solo affrontandola complessivamente, con i suoi consumi e possibilmente la sua necropoli. Va ricordato a tal proposito che lo scavo del villaggio merovingio di Brebières (negli anni 60), situato nel nord della Francia è stato l’unico in grado di individuare diversi livelli economici tra i schiavi che costituivano gli unici abitanti dell’enorme agglomerato studiato. Tale stratificazione era fondata sulle dimensioni dei fondi di capanna e sulla presenza di metalli diversi dal ferro e di oggetti di vetro. Tra i materiali archeologi significativi figurano ovviamente quelli pertinenti all’alimentazione, che spesso non sono abbastanza valutati in questa specifica prospettiva. L’integrazione dello studio dei reperti osteologici è stata la chiave dell’interpretazione definitiva di Charavines; in ambito urbano, lo scavo di Thérouanne, città del nord-ovest della Francia, ha evidenziato per l’epoca merovingia delle differenze marcate tra l’alimentazione della parte alta della città, nelle vicinanze della cattedrale, e quella L’associazione di un punto di vista verticale o diacronico rimane però il più favorevole. Stando alla bibliografia, la ceramica, in quanto parte integrante della vita domestica, e in particolar modo le importazioni costituiscono uno dei criteri favoriti, di chì intende per esempio verificare la permanenza, tra tardoantico ed altomedioevo, di un ceto sociale agiato 68 sottodella città moderna di Tropea, ha messo in evidenza una serie di tombe del V-VI secolo, accompagnate da epigrafi e di un corredo funerario, ma senza stratificazione sociale percettibile, neanche nel caso della condutrix della massa. In questo contesto di possessi ecclesiastici, la condutrix è di rango modesto, gli affittuari della terra appartengono ad uno ceto ragionevolmente agiato e la società è abbastanza aperta per permettere al figlio di una schiava di sposare prima una colona, poì una esponente libera della familia ecclesiastica e perfino a pretendersi membro dell’ordo. Nel territorio della vicina Vibona, futura Vibo Valentia invece, la quadrettatura di ricche villae individuabili nel IV secolo, risulta progressivamente abbandonata nel corso dei due secoli successivi, mentre si osserva il venir meno dei legami organici tra la città e il suo porto, fonte della sua importanza commerciale, che diventa ormai il centro autonomo di smisttamento delle derrate alimentari da convogliare verso Roma e di ridistribuzione delle merci agli insediamenti promossi dalla massa. La questione è: cosa sarebbe avvenuta dell’interpretazione di tale stratificazione insediativa senza il sopporto del Liber pontificalis e dell’epistolario dei pontifici del V-VI secolo? E quanto sarebbe stata significativa l’osservazione archeologica limitata ad un dato periodo e al di fuori del contesto socio-economico del Bruzio? della parte bassa, per quanto riguarda i tipi di carne e i modi di cucinare. A modo di conclusione, o piuttosto di introduzione, i diversi ceti sociali sono evidenziabili solamente attraverso i loro rapporti reciproci e all’interno di un sistema socio-economico specifico. Prendo un ultimo esempio, calabrese perchè si parla decisamente in modo più convincente di quello che si conosce bene: si tratta della massa trapeiana, donata alla Chiesa romana nel IV secolo e che si sviluppa nel V-VI secolo. Una lettera di papa Pelagio I ci insegna, verso la metà del VI secolo, come il figlio di una ancilla ecclesiae, una schiava, sposa prima una donna in ecclesiae possessione genitam ex colonis, una colona, che le trasmette un peculium notevole dove figura tra l’altro un agellum; il personaggio riesce poì, blanditiis atque suasionibus, a sposare una famula della massa pontificia di Tropea, vale a dire una libera della familia ecclesiastica, prima di abbandonarla, dopo un certo lasso di tempo ad declinandam debitam servitutem, e allo scopo di curialis sibi nomen usurpare. La lettera trova un puntuale confronto nell’imaggine dei vici individuati nel massicio del Poro, tramite le vecchie, ma utilissime segnalazioni della fine XIX/ inizio XX secolo o oggetti di una indagine recente. Tali comunità si caratterizzano dall’esistenza di una chiesa di ottimo livello architettonico, servita da un clero residente sul posto, nonchè dalla presenza di alcune case in pietra e di importazioni africane. Il territorio probabilmente alla massa è anche ricco di residenze di tipo aristocratico che possono essere attribuite ai ricci enfeutici ben documentati dall’epistolario di Papa Gelasio verso la fine del V secolo: la lussuosa villa di Trainiti è così fiancheggiata da una grande necropoli, testimone dell’importanza del vico ad essa legata, da due fornaci e da un complesso artigianale per la lavorazione del tonno, con un suo proprio porto. Infine, lo scavo della necropoli riferibile al centro di gestione della massa al di Aristocrazie e società a Ravenna tra tarda Antichità e alto Medioevo Andrea Augenti Con la mole di informazioni disponibili, tra fonti scritte ed archeologiche, e la recente crescita del dato archeologico, Ravenna costituisce un osservatorio privilegiato per seguire le vicende delle 69 aristocrazie di area bizantina tra la tarda Antichità e l’alto Medioevo. Innanzitutto occorre tenere presente che le fasce più elevate del corpo sociale ravennate risultano, anche alla luce degli ultimi studi di carattere prosopografico, un’entità variegata e composita. A parte i vertici delle gerarchie laica ed ecclesiastica, è stata infatti messa in luce la presenza fin dal V secolo, accanto agli esponenti dei ceti più elevati, di una classe di artigiani e piccoli proprietari terrieri che svolge un ruolo non indifferente nelle vicende locali. In seguito si registra il consolidarsi delle grandi famiglie (come i Traversari) che si espanderanno nel territorio appoggiandosi ai solidi caposaldi costituiti da una rete di castelli, perlomeno a partire dal X secolo. In questa occasione si cercherà di seguire le tracce di questi ceti dirigenti relativamente alle loro modalità di incidenza sullo sviluppo del paesaggio urbano e rurale. In particolare si tenterà di individuare le strategie che presiedettero alla loro partecipazione alla costruzione degli edifici di culto a Ravenna e Classe, nonché alla distribuzione degli edifici palaziali e delle abitazioni private all’interno dell’area urbana. Una particolare attenzione sarà inoltre data alla gerarchizzazione degli spazi e delle tipologie edilizie, seguendone l’evoluzione nel corso del tempo (VI-X secolo). Si cercherà infine di verificare le ulteriori modalità di autorappresentazione delle aristocrazie ravennati, soprattutto a partire dai dati relativi all’archeologia funeraria. A tale proposito si prenderanno in considerazione le informazioni in nostro possesso per l’età gota e le epoche successive, nonché l’evoluzione delle consuetudini funerarie dei vescovi e degli altri membri dei ceti dirigenti. 70 portugueses, que suele ir refrendada por pruebas arqueológicas. De las domus tardoantiguas a las residencias palaciales omeyas en Mérida (Hispania, siglos IV-IX) Este panorama se deduce de intervenciones arqueológicas centradas en zonas muy selectivas de la ciudad; por regla general donde se concentraban los edificios públicos: el foro, las zonas de espectáculos y en la proximidad de las avenidas principales. La transformación de estos espacios sustenta la decadencia de la vida urbana, sin embargo, paralelamente, los documentos históricos parecen trasmitir normalidad y hasta una nueva etapa de esplendor según las fuentes eclesiásticas para ciudades como Mérida. Miguel Alba Augusta Emerita se funda con el grado de colonia en el año 25 a C., y pasa a ser la capital provincial de la parte occidental de Hispania: la Lusitania. En el siglo IV es sede del vicario hispaniorum; se convierte en la capital del reino suevo en el siglo V y un importante arzobispado durante toda la etapa visigoda. Desde el comienzo de la época islámica es una de las tres capitales de frontera (de la Marca Inferior) junto con Toledo (Marca Media) y Zaragoza (Marca Superior). Resulta comprometido defender la “continuidad” de la ciudad romana en época visigoda sin entrar en contradicción con los datos que ofrece el registro arqueológico y viceversa. Según qué información utilicemos la argumentación nos llevará en un sentido o en otro. Con respecto a la vivienda (y a la calle) se podría afirmar que desde el punto de vista del aspecto externo la ciudad es heredera de todo un patrimonio constructivo que sigue cumpliendo la misma función que en el pasado. Las casas fueron construidas a lo largo de un proceso de reformas especialmente dinámico en época romana, sensible a incorporar las novedades que impone la moda, y es en ese mismo marco doméstico donde se desarrollará la vida cotidiana en el segmento temporal del siglo V al IX. Los espacios siguen vigentes para un uso doméstico, pero se introducen indicios en el registro arqueológico que delatan unos modos de vida muy diferentes para el grueso de la población respecto al mundo anterior. En nuestra intervención se hará una reflexión sobre las transformaciones del ámbito doméstico de Mérida en cuatro secuencias: la Altoimperial, la Bajoimperial, la de época Visigoda y durante los dos primeros siglos de presencia islámica. Nos centraremos de forma especial en las dos últimas por aportar más novedades a la documentación arqueológica. Para explicar desde la arqueología la evolución existencial de las ciudades de Hispania durante la Tardoantigüedad y Alta Edad Media es frecuente hablar de decadencia, recesión, colapso, crisis del Bajo Imperio, descomposición urbana, repliegues y hasta abandonos completos. Todo lo cual sirve para explicar la despoblación de la ciudad (a favor del campo) desde el siglo III al V, acentuada por la llegada de los invasores germánicos, que prosigue su caída desde el siglo VI al VII, tendente a convertirse en entidades rurales y finalmente se agrava su situación con la llegada de los árabes que provocan la desaparición de muchos de los núcleos urbanos que quedaban (s. VIII y IX). En síntesis esa es la explicación más divulgada entre autores españoles y Argumentando esa idea de continuidad se engloba tanto el Bajo Imperio como la etapa visigoda con el mismo epígrafe de tardoantigüedad, pero es un mundo muy diferente el de partida y el de llegada. Así mismo hay importantes novedades bajo el dominio islámico en todo lo referente al ámbito doméstico. A través de la vivienda 71 (tanto la humilde como la de las clases privilegiadas) veremos cuales son los elementos de continuidad y cuales los de novedad para aproximarnos a las transformaciones de la ciudad a lo largo de la secuencia aludida. Nos basaremos en datos arqueológicos documentados en el área de Morería (solar intramuros de 12.000 m2) para ilustrar la secuencia de ocupación, si bien recurriremos a otros ejemplos del yacimiento emeritense para ofrecer una visión de conjunto. 72 - 9 insediamenti minori (abitati in grotta e singole abitazioni di V-metà VI secolo; rispettivamente 5 e 4); - 12 chiese (alle quali si aggiungono gli edifici religiosi inseriti in villaggi e castelli per un numero di 9 e tre monasteri); Aristocrazie deboli e aristocrazie forti nella Toscana tra VI e X secolo Marco Valenti Introduzione Infine, quasi tutte le città toscane, pur non al centro di progetti di ricerca sistematica, propongono un panorama sufficiente di dati (in alcuni casi anche di notevole spessore) per potere ipotizzare tendenze diacroniche delle loro trasformazioni urbanistiche e socio-economiche. L’analisi dei secoli compresi tra il crollo dei paesaggi tardo romani e la formazione del paesaggio dei castelli è da oltre vent’anni uno dei temi di maggior dibattito in Toscana e recentemente una serie di contributi ha fatto il punto sullo stato di avanzamento raggiunto. I modelli interpretativi proposti si basano su una strategia di ricerca articolata nella compenetrazione tra ricognizione di superficie e scavo registrati su piattaforma GIS, ai quali si aggiunge la schedatura e la georeferenziazione della conoscenza pregressa. Come è già stato ricordato in occasione del convegno di Gavi, possiamo quantificare la base dati sulla campagna come segue: Esplorando la campagna e smontando le colline: tra aristocrazie deboli ed aristocrazie in affermazione Questa strategia di ricerca mostra come la ricognizione di superficie combinata allo scavo di ville, insediamenti agglomerati tipo mansiones o vici e, in alcuni casi, di chiese fornisce soprattutto dati sulla fine dei paesaggi tardoromani e la transizione verso l’alto medioevo, mentre lo studio dell’incastellamento si propone come la strategia più redditizia per comprendere i caratteri e le vicende diacroniche del popolamento altomedievale. Lo smontaggio di intere colline (rimuovendo e indagando migliaia e migliaia di metri cubi di terra) ha portato ai risultati più significativi in questa direzione*. - le province di Siena e Grosseto hanno visto sino al 2004 la battitura di 1979 kmq (quasi il 9% della Toscana) con un totale complessivo di 10.110 aree archeologiche individuate, mentre il censimento georeferenziato dell’edito sulle altre province, attualmente in progress, conta già 5.363 segnalazioni; - 18 scavi di ville con frequentazione sino alla tarda antichità; - 5 villaggi aperti con fasi tardoantiche e di inizi alto medioevo (Callemala, FilattieraSanto Stefano, Luscignano, San Genesio, Pantani-Le Gore; a questi possiamo aggiungere gli scavi in un contesto particolare come Vada Volaterrana); - 3 insediamenti fortificati interpretabili come piccoli castra (Cosa, Talamonaccio, Filattiera-Montecastello); - 51 scavi di castelli (19 condotti dall’Università di Siena) con più del 60% dei villaggi composti da capanne rintracciati nei depositi più antichi; I dati raccolti sembrano mostrare una Toscana al centro di un'evoluzione economica di lunga durata le cui tappe principali sono una crisi della città più o meno generalizzata, che ha inizio nella maggior parte dei casi nel III secolo, contemporaneamente ad una prima selezione di centri produttivi nelle campagne; un marcato deterioramento Quanto esposto in questo breve testo fa parte di riflessioni svolte in comune con Riccardo Francovich durante continui confronti e discussioni. La calzante definizione di “smontare le colline” ed i concetti dei quali si permea (metodologici, di strategia della ricerca, di significato storico) si devono a lui * 73 incardinò su una rete di popolamento già stabilizzata nell’alto medioevo, sulla cui ossatura si era modellata nel tempo l’organizzazione del lavoro contadino. I castelli del X secolo rappresentarono una tappa dell’evoluzione di un gran numero di realtà insediative preesistenti che, nelle loro vicende urbanistiche ed economiche, lasciano intravedere l’esistenza di aristocrazie urbane e rurali che non hanno costantemente un ruolo predominante ed una progettualità: periodi di aristocrazie deboli e di aristocrazie forti. della città nel V secolo contestuale ad una vitalità ristretta anche nelle aree rurali pur di fronte ad alcuni brevi tentativi di ripresa; una decomposizione di entrambi gli habitat nel VI secolo con alcuni centri ancora dotati di una qualche vitalità in particolare nella Valle dell’Arno e nella Valle del Cecina: eccezioni numericamente scarse in un panorama economico nel quale il trentennio della guerra grecogotica sembra fungere da discrimine. Tra VI e VII secolo le città toscane raggiungono forse il punto più acuto della recessione, diversificandosi per l’essere scelte o meno come centri a vocazione militare; sono state ricondotte a due modelli essenziali: città "frantumata" (Lucca, Pisa, Firenze, Siena, Volterra ed Arezzo) e città fortezza (Cosa, Roselle, Chiusi, Fiesole). Gli scavi mostrano comunque centri urbani che presentano lo stesso tipo di edilizia povera della campagna, la medesima tendenza verso lo spopolamento, con ampie zone desertate alternate a spazi di agglomerazione; in nessun caso (nè in città nè in campagna) sono riconoscibili strutture che sottolineano la presenza di famiglie od individui che si distinguono materialmente (per le loro case e sepolture od i corredi domestici ed ornamentali) come tenore economico, anzi la vita sembra essere livellata molto verso il basso. Non è dato riconoscere la presenza di un mercato significativo o di flussi commerciali ed attività economiche che mostrino relazione con il territorio. Il rapporto con quest’ultimo sembra interrompersi apparentemente per oltre un secolo. In estrema sintesi, si osserva un deciso scollamento tra campagna e città dalla metà del VI secolo, collateralmente ad aristocrazie lungamente incapaci di realizzare progettualità: i primi segni di un controllo delle forme economiche e insediative rurali, indizi di una serie di investimenti nelle campagne, si hanno a partire dall’VIII secolo. Quali sono gli indicatori materiali di potere o di “non” potere? I nostri sforzi sono stati indirizzati soprattutto nell’individuare una serie di indicatori materiali che permettessero di elaborare chiavi interpretative concernenti la natura socioeconomica dell’insediamento nella diacronia e comprendere le modalità di affermazione dei poteri locali. L’analisi dei centri di popolamento si è pertanto incentrata sulle caratteristiche delle abitazioni, sulla destinazione d’uso degli edifici e degli spazi aperti ad essi contigui, sull’urbanistica dei centri stessi, sulle attività artigianali e sulle tracce riconoscibili di attività produttive, alimentazione e distribuzione del cibo. I diversi fattori elencati e le loro combinazioni nello spazio e nel tempo, permettono di individuare la tipologia delle forme di popolamento, la loro vocazione produttiva, il contesto economico in cui si inseriscono e la presenza di gerarchie interne tra età gota ed età carolingio-ottoniana. Dopo la lunga agonia del sistema delle ville ed una profonda crisi economica e demografica, la popolazione rurale, sino dai decenni intorno alla guerra grecogotica, si raccolse in forme insediative comunitarie: ebbero successo, costituendo le basi per una riorganizzazione della campagna in cui si osserva l’esistenza di disegni progettuali solo dalla matura età longobarda. Sulla base della documentazione archeologica possiamo quindi affermare che l’incastellamento si 74 rispecchiare una reazione alla crisi delle politiche di produzione intensive, impiantando un diverso modello economico (pastorizia e sfruttamento di minima dell’agricoltura) guidato da proprietari che lasciarono la campagna e cambiarono le proprie strategie di investimento? Questa interpretazione si scontra con dati diffusi non solo nella Toscana centro-meridionale (ma anche in quella settentrionale) che mostrano una severa recessione e l’inesistenza di un disegno progettuale; il critico tasso demografico delle campagne manifestato da un’innumerevole quantità di sedi desertate, la bassa qualità delle strutture abitative, il loro numero esiguo e la loro dislocazione spaziale estremamente allargata (ricordiamo pari ad una media di 1 abitazione per 10 kmq) sono piuttosto la prova di un disegno economico inesistente e, se presenti, di imprenditori privi di forza reale. Si tratta in realtà di forme residuali di vita dopo il crollo dei paesaggi tardo romani. In quest’ottica assumono grande importanza sia lo studio dei resti archeobotanici sia, e soprattutto, quello dei resti archeozoologici. La loro analisi occupa un posto fondamentale nell’elaborazione di modelli di popolamento per il periodo compreso tra metà/fine VI secolo e X secolo; proprio il controllo economico, la disponibilità e la distribuzione delle derrate alimentari ci forniscono non solo il quadro delle attività produttive ma anche le caratteristiche della “ricchezza”; in tale direzione deve essere ripensato il ruolo delle fonti archeologiche tradizionali, come la ceramica, combinandole con i “nuovi” indicatori. È riconoscibile una progettualità economica nella campagna della Transizione? Il campione di 1.979 kmq indagati nelle province di Siena e Grosseto sottolinea la tendenza regionale ad un progressivo calo demografico e di un lungo processo di trasformazione delle forme di produzione e di gestione della campagna. La regione era caratterizzata da alti indici demografici sino al III secolo (presenza media di 1,27 siti per kmq) mentre una marcata selezione avvenne tra la metà e la fine del V secolo (mediamente 1 sito per 4 kmq) sino a raggiungere valori minimi (media di 1 sito per 10 kmq) nel corso del VI secolo con un’accentuazione progressiva del fenomeno in pochi decenni. L’andamento dei rinvenimenti databili tra alto e basso Impero mostra quindi l’esistenza di un popolamento regionale ben radicato sul territorio che, nello spazio di circa 300 anni, discese verso valori mai toccati precedentemente, disponendosi nelle maglie molto larghe di una rete insediativa composta da poche case sparse e piccoli nuclei degradati. Pensare ad un qualche ruolo attivo nel controllo del popolamento da parte dei castra (ereditati dalla guerra greco-gotica poi rioccupati da contingenti longobardi) ipotizzati nella parte centro-meridionale della regione, non sembra utile. I casi indagati archeologicamente mostrano pochi centri di piccole dimensioni (nient’altro che caserme), il cui impatto sulla popolazione rurale resta tutto da dimostrare. Anche un contesto particolare come Vada Volaterrana, che per tutto il VI secolo e sino agli inizi del VII secolo (pur decaduto e caratterizzato da buche di palo e sepolture ricavate negli edifici del quartiere) continuò ad avere una qualche vitalità commerciale, non pare proponibile come un eventuale centro con funzioni direzionali. Ugualmente, il tentativo di collegare la presenza di chiese nel V e nel VI secolo in coincidenza di ville o grandi complessi, spesso in disuso o degradati, ad un ruolo ancora attivo di grandi e medi proprietari nel controllo della popolazione e della produzione non trova L’esito finale della realtà insediativa del VI secolo potrebbe rappresentare, seppur in decenni difficili, non la fine ma il perdurare degli assetti antichi? Potrebbe 75 sembra, abbandonati da poco tempo. La scelta di ripercorrere dei luoghi una volta insediati e decaduti potrebbe trarre in inganno, leggendo nella sovrapposizione con gli agglomerati di capanne l’esistenza di alcuni possessores ancora attivi nel riordinare i resti delle loro proprietà. Questa soluzione ci lascia molto dubbiosi, sia sulla base di indicatori archeologici e antropologici sia per la debolezza di poteri ancora in gestazione nelle città toscane e nelle campagne tra metà VI secolo e inizi del VII secolo. riscontri archeologici probanti. Sembra trattarsi invece di un’evidenza di debolezza delle aristocrazie e dell’imprenditoria. Tali chiese sorgono in coincidenza di insediamenti dove ogni funzione abitativa ed economica era cessata e non disponiamo infatti di alcun indizio di popolazione stabilitasi intorno alla chiesa o di un edificio contemporaneo di tipo distintivo. La scelta di luoghi in disuso (coincidenza spesso riscontrata) non sembra andare oltre la cava di materiali utili alla costruzione; in questo senso il supposto tentativo di ereditare il ruolo di riferimento che la villa aveva sembra ormai fuori luogo; le chiese esistenti servivano invece una rete insediativa circostante che progressivamente, con il procedere della crisi, diminuiva nelle sue componenti. E ci domandiamo comunque: quante sono queste chiese che vengono fondate tra V e VI secolo? Allo stato attuale della ricerca, l’archeologia sembra confermare il modello di Violante (datato al 1982) fornendo la percezione di una scarsa diffusione del processo di cristianizzazione, a cui si legava una rete di insediamenti religiosi di basso profilo e disarticolata. Il proseguio e l’intensificarsi delle indagini confermerà o smentirà questa ipotesi. Le fasi d’età longobarda di Scarlino e Poggibonsi per esempio attestano la presenza di una popolazione priva di differenze sociali ed economiche come sottolineato dall’uniformità delle abitazioni (capanne tutte uguali), della cultura materiale ad esse legata e delle attività lavorative (pastorizia). Non sono presenti edifici che possano far pensare a proprietari residenti o ad un actor. Questi avrebbero potuto vivere nelle città oppure essere proprietari consumatori itineranti tra i diversi villaggi, ma quali elementi archeologici abbiamo per sostenerlo? Il villaggio si dovette formare seguendo la logica di un’esistenza meno incerta e vennero privilegiati quei luoghi in cui lo spazio fisico, seppur decaduto, era già predisposto per la costruzione di nuove abitazioni e per recuperare con pochi sforzi delle superfici agricole caratterizzate da processi di rimboschimento appena agli inizi. Come si riconosce una progettualità economica nella campagna tra la metà del VI secolo ed il VII secolo? Il processo di costituzione della nuova rete insediativa sembra avere inizio più o meno intorno agli anni della guerra grecogotica e proseguire nei primi decenni della conquista longobarda. Sul suo sviluppo dovettero interagire le difficoltà economiche e militari di questi decenni e soprattutto la necessità di governare meglio, tramite la forza collettiva, una terra deteriorata e riconquistata dalla natura. Quattro casi indicano le modalità di formazione dei villaggi: vennero privilegiate soprattutto le aree di sommità (Scarlino, Poggibonsi, Donoratico) e talvolta gli spazi pianeggianti (San Genesio), ripercorrendo dei siti che più o meno stabilmente erano stati oggetto di frequentazione in età tardoantica e, come La riorganizzazione delle basi economiche iniziò quindi come un processo lento, innescatosi già prima del dominio longobardo, collateralmente ad un assetto istituzionale in definizione e probabilmente senza l’intervento di aristocrazie urbane nascenti e di aristocrazie rurali ancora ben lontane dal delinearsi. È riconoscibile una progettualità economica nella campagna dall’VIII secolo? La stabilizzazione del potere delle aristocrazie rurali sembra essere stato un 76 Tali spazi costituiscono l’area centrale e più importante del villaggio; è legata ad una famiglia dominante in grado di razionalizzare prelievi sulla produzione agricola e di accumulare scorte (come a Montarrenti, Poggibonsi, Miranduolo e probabilmente a Scarlino), di accentrare le strutture per la fabbricazione di beni (forge e fornaci: soprattutto Montarrenti e Poggibonsi, Rocchette e Cugnano, probabilmente Donoratico e Staggia) o per il trattamento dei prodotti alimentari (forni per essiccazione dei cereali, strutture per la macinatura, edifici per la macellazione e la lavorazione della carne: Montarrenti, Poggibonsi, Donoratico). lungo processo, del quale riusciamo a cogliere archeologicamente i segni dalla matura età longobarda, attraverso le tracce di un’articolazione più complessa sia interna al villaggio sia nell’organizzazione del lavoro: tra VIII e IX secolo infatti il villaggio si trasforma dando luogo ad una nuova urbanistica ed a un tipo di insediamento diverso. Nella quasi totalità dei casi si osservano dei cambiamenti che con l’età carolingia vengono definitivamente a compiersi. In generale possiamo evidenziare soprattutto quattro macro indicatori: (a) differenziazione interna con dualità tra uno spazio distinto ed uno spazio più ampio occupato dal resto delle famiglie contadine; (b) attività economiche che evolvono con uno sviluppo marcato dell’agricoltura e pratiche pastorizie in trasformazione; (c) alimentazione che si differenzia notevolmente tra le famiglie della stessa comunità; (d) tracce di un potere che coordina le famiglie del villaggio. (b) La definizione di un’area distinta si affianca alla definitiva trasformazione delle attività produttive. In tal senso, lo studio delle ossa animali fa luce sulle diverse strategie economiche succedutesi e sui cambiamenti ai quali andarono soggette; per esempio a Poggibonsi si nota l’evoluzione progressiva da nucleo di pastori-allevatori sino a centro agricolo con una minore importanza finale dell’allevamento. Il costante aumento della frequenza di bovini a scapito delle altre specie domestiche, accompagnato dalla presenza di granai e di magazzini, testimoniano l’emergere di un’economia spiccatamente agricola, alla quale si affianca un allevamento che va specializzandosi (come a Poggibonsi, dove sopravvive quello dei caprovini, che non a caso meglio si adatta ad un territorio a vocazione agricola). (a) L’urbanistica del villaggio mostra la presenza di una zona che (gradualmente nei casi di maggior chiarezza) si distingue attraverso dei caratteri peculiari. Tali spazi si presentano come un complesso organizzato e di frequente separato “fisicamente” dalle case dei contadini; vengono spesso dotati di elementi di fortificazione (palizzate o muri e fossati: Montarrenti, Scarlino, Donoratico, Miranduolo, probabilmente Staggia) od evidenziati nella loro centralità attraverso infrastrutture (a Poggibonsi la lunga strada in terra battuta e le grandi aie) e edifici di servizio (Poggibonsi, Montarrenti e forse Rocchette). Al loro interno si concentrano un’abitazione che per dimensioni e posizione appare come una residenza di tipo “padronale”, strutture destinate all’immagazzinamento ed all’accumulo di derrate alimentari, le principali attività artigianali riconoscibili; inoltre due esempi su tutti (Montarrenti e Poggibonsi) sembrano indicare una gestione forse esclusiva degli animali impiegati come forza-lavoro; in un caso è presente una chiesa da intendere probabilmente come cappella privata (Scarlino). Dall’VIII secolo e soprattutto tra IX e X secolo, il controllo degli animali, come abbiamo già sottolineato, pare divenire in molti casi esclusivo (in particolare per i caprovini e per le specie adatte al lavoro nei campi), rappresentando una prerogativa della famiglia dominante. A Poggibonsi ed a Montarrenti gli animali venivano gestiti rigorosamente negli spazi “del potere”, mentre alcuni centri, come Campiglia o come il resto 77 estremità dei rispettivi segmenti anatomici che compongono gli arti sia anteriori che posteriori dell’animale, appartenenti a soggetti generalmente anziani. Infine, alle famiglie residenti nelle altre capanne erano riservati unicamente gli scarti e nella fattispecie le sole estremità degli arti. dell’insediamento che si legava al centro direzionale di Poggibonsi, svolgevano un tipo di allevamento specializzato (nei due casi citati si tratta di suini). A Miranduolo le tracce di un controllo degli animali sembrano evidenziati dalle restituzioni di un magazzino posto nell’area cinta dalla palizzata; il magazzino conteneva sia scorte destinate all’uomo sia grandi quantitativi di pastoni per gli animali. Anche il consumo di carne capriovina evidenzia anomalie associabili ad una diversa concezione della qualità della carne. Nella capanna 1, ad esempio, è attestata la presenza quasi assoluta di ossa dell’arto anteriore e nelle restanti abitazioni la distribuzione anatomica appare più omogenea. Era invece appannaggio quasi esclusivo della famiglia dominante la carne di capre e di pecore abbattute tra il primo ed il secondo anno di vita (mentre i soggetti più anziani venivano equamente distribuiti). Sintetizzando, la famiglia dominante mangiava molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti più stretti accedevano a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione a tagli di terza scelta. Anche la distribuzione delle spalle di maiale (presenti soprattutto nella longhouse) mostra un accentramento di tale “bene” ed una parziale redistribuzione fra gli stessi dipendenti. Le considerevoli restituzioni archeobotaniche di Miranduolo attestano anche, tra età carolingia ed ottoniana, un’economia agricola tesa a impiegare intensivamente tutto il territorio di catchment tramite campi seminati a cereali (grano duro, segale, orzo) e legumi (favino e cicerchia), coltivando vite, olivo, peschi e noci, sfruttando le risorse di boschi (castagne e ghiande) e di probabili piantumazioni nel loro insieme composte da querce, castagni, carpini, eriche, aceri, olmi, frassini e pioppi. Un’indagine ancora in corso (svolta da un team di specialisti in archeobotanica, geoarcheologia e palinologia) sta per il momento lavorando su un’ipotesi di strategia mirata e ben definita di impiego del territorio. (c) Il consumo di carne si rivela importante per individuare l’esistenza di rapporti di tipo gerarchico ed economico. Indicativo in tal senso è il tipo di distribuzione quasi piramidale che, nel caso di Poggibonsi, effettua la famiglia residente nella longhouse verso le famiglie residenti nelle capanne circostanti, con un ulteriore collegamento riconoscibile fra qualità della carne e diverso ruolo o posizione rivestiti dai riceventi. L’alimentazione si propone come un segno di potere; il consumo dei tagli di bue qualitativamente migliori ed in notevoli quantità (provenienti da soggetti sia giovani sia anziani) appare come una prerogativa della famiglia dominante; ad esso si aggiungeva il cavallo, l’asino e particolari pennuti da cortile come l’oca. Nella vicina capanna a “T”, si ritrovano, invece, tagli di seconda scelta ed in particolare quelli relativi alle (d) Le trasformazioni urbanistiche, le caratteristiche ed i rapporti spaziali nella giacitura delle ossa animali, la collocazione degli edifici e delle strutture di accumulo forniscono un quadro di massima sul tipo di potere che la famiglia dominante del villaggio esercitava, conseguentemente i diritti che deteneva. Tali individui sono in grado di intercettare ed accentrare specifiche parti della produzione e, come abbiamo già visto, redistribuirle, gestire l’apporto degli animali e lo svolgimento delle attività artigianali, di esigere anche opere dai propri contadini ed avere sufficienti rendite per assoldare maestranze specializzate. L’erezioni di palizzate o di muri e l’escavazione di fossati (Montarrenti, Miranduolo, forse Scarlino e Staggia) sembrano essere state svolte dagli 78 Bibliografia essenziale stessi abitanti del villaggio; sono essi che, dietro l’imput della famiglia dominante, trasformano l’aspetto del centro creando una zona privilegiata e definita in molti casi da segni di potere inconfondibili; rientra in questa categoria anche la disponibilità di risorse per fare arrivare nel villaggio professionalità specifiche, probabilmente esterne, per interventi particolari non eseguibili dalla popolazione (per esempio la costruzione della chiesa di Scarlino od i primi tentativi di costruire cinte con base in pietra ed elevato in terra od altri materiali deperibili: Miranduolo, Montarrenti, probabilmente Staggia). FRANCOVICH R. 2004, Villaggi dell’altomedioevo: invisibilità sociale e labilità archeologica, in VALENTI M., L’insediamento altomedievale nelle campagne toscane. 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La riscossione di corresponsioni in carne lavorata si verifica a Poggibonsi dove sono presenti le sole spalle del maiale fra le restituzioni; mentre a Campiglia Marittima, al contrario, questi generi venivano portati al centro domocotile di riferimento: dalle restituzioni le spalle sono in percentuale ben maggiore della coscia. L’assenza di reperti osteologici legati ad animali selvatici pare indicare invece un uso limitato dei boschi per la caccia come a Montarrenti, Poggibonsi, e Campiglia, che sembra quindi rappresentare un’attività probabilmente esclusiva e riservata alla famiglia dominante: un elemento distintivo e di prerogativa. Le analisi archeobotaniche forniscono invece solo indicazioni indirette sull’esistenza di canoni in prodotti agricoli che sono riconoscibili soprattutto nella presenza delle strutture di accumulo (gli edifici destinati alla conservazione delle derrate agricole sembrano rappresentare un chiaro indizio del versamento di quote della produzione), mentre fanno luce sul tipo di agricoltura in atto sulla cui articolazione e programmazione c’è ancora molto da lavorare per verificare o meno l’esistenza di politiche economiche progettate. http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/INSEGNAMEN TO/nov/nov56.html. 79 controllando su un campione territoriale ristretto quali consuetudini siano patrimonio esclusivo delle singole comunità e quali aspetti riflettano invece tendenze e mutazioni culturali di più ampia portata, gerarchie sociali e funzioni specifiche degli insediamenti nel loro divenire, nell’ambito di un’area prossima all’importante sede ducale e alla frontiera delle chiuse della valle di Susa verso i Franchi. Longobardi da guerrieri a contadini. Le ultime ricerche in Piemonte Luisella Pejrani Baricco Già in occasione del Convegno di Ascoli Piceno del 1995 sull’Italia centro-settentrionale in età longobarda era emerso un quadro territoriale molto complesso e variegato per l’area dell’attuale Piemonte, fondato sul censimento critico dei vecchi ritrovamenti, ma anche su un buon numero di indagini in estensione condotte con metodi aggiornati e supportate da analisi archeometriche sistematiche. Più che ritornare sulle grandi necropoli “storiche” - purtroppo assai mal note - come quelle di Testona, Carignano e Borgomasino, si era cercato di mettere a fuoco problematiche diverse, come nel caso delle fasi cimiteriali di Centallo connesse con le vicende della chiesa paleocristiana, che presentavano caratteristiche apparentemente ibride rispetto ai modelli interpretativi più correnti, dato l’avanzato grado di osmosi culturale con il sostrato locale rivelato dalla comunità sepolta. L’insediamento altomedievale di Collegno si collocava nei pressi del ponte o del guado sulla Dora, lungo uno dei percorsi connessi con la grande arteria stradale che dalla città di Augusta Taurinorum conduceva ai valichi alpini della Val di Susa e alle Gallie, e a meno di un chilometro dalla basilica paleocristiana di S. Massimo ad quintum, importante ente ecclesiastico in rapporto privilegiato con la sede episcopale che a quel tempo probabilmente polarizzava un abitato erede di un’antica e ricca villa di età imperiale. Nel VI secolo, a breve distanza dalla chiesa, ma apparentemente in forma autonoma, si insediò un funzionario o un capo militare goto con la sua famiglia, identificabile in un ridotto nucleo di tombe di personaggi di alto rango inumati a poche decine di metri a sud di un’area residenziale. La qualità delle sepolture e l’estensione delle strutture abitative rendono assai probabile un ruolo pubblico di questo gruppo aristocratico, che ancora rivela evidenti legami con la propria cultura tradizionale ad esempio nella pratica della deformazione cranica riscontrata dalle recenti analisi antropologiche sull’individuo maschile della tomba privilegiata monumentale e in un bambino. In altri siti si sono riconosciuti nuclei sepolcrali gentilizi isolati, come a Borgo d’Ale, o gruppi famigliari fondatori di un oratorio privato come a Mombello, forse investiti di un ruolo pubblico, o ancora presenze longobarde nei castra, secondo una molteplicità di forme e funzioni degli insediamenti che trovano riscontri sempre più numerosi nelle regioni limitrofe dell’Italia settentrionale. Da allora i dati archeologici si sono significativamente accresciuti grazie alle indagini in corso sull’insediamento di Collegno, individuato durante gli scavi per la metropolitana torinese nel 2002, ma anche sulla necropoli di Rivoli - corso Primo Levi, scavata nell’estate del 2003 e in attesa di completamento e delle analisi antropologiche. Questi nuovi siti permetteranno di rileggere i risultati di scavi precedenti, come quello di Rivoli - Perosa, La successiva sostituzione di un presidio longobardo nei confronti del precedente goto attesta la rioccupazione di una sede del potere, secondo un fenomeno ben noto per le città, ma assai meno documentato archeologicamente sul resto del territorio e che costituisce perciò un dato rilevante e ancora inconsueto. 80 presumibilmente databili alla fine del VII secolo. In pochi altri casi pertinenti all’ultima fase di utilizzo della necropoli si osservano inclinazioni più marcate nordovest/sudest e una sola sepoltura disposta nord/sud. L’abitato goto-longobardo presenta tipologie costruttive variate con strutture in pietra a secco, in pisé e in legno, tra le quali si distinguono alcune capanne con fondo ribassato appartenenti al periodo di occupazione longobarda. Non si è riconosciuta, per il momento, una gerarchia degli edifici che permetta di identificare un centro di potere nel villaggio, ma va tenuto in conto che si è probabilmente esplorata soltanto la zona periferica di un insediamento molto più grande, che i prossimi lavori di ampliamento del cimitero comunale permetteranno forse di accertare nel suo reale sviluppo. Esaminando la topografia della prima fase cimiteriale (570 - primi decenni del VI secolo), la fascia più orientale risulta riservata agli esponenti della famiglia egemone che fondò precocemente la necropoli in evidente concomitanza con l’insediamento della fara in date corrispondenti alla conquista di Torino e del suo territorio. Tra questi personaggi eminenti, i soli a esibire - in quattro casi - le crocette auree sul velo funebre, doveva collocarsi la tomba del capo della comunità, purtroppo perduta, ma indiziata dalla deposizione del suo cavallo decapitato. Alle sue spalle, verso ovest, fu sepolta l’unica donna con le fibule a staffa (la moglie?) e poi via via i discendenti e anche i subalterni che completavano la composizione sociale del gruppo. A questi erano spesso destinate le posizioni periferiche a nord, sempre comprese però nelle fasce di terreno assegnate ai rispettivi clan. A circa trecento metri dal villaggio si trova la necropoli longobarda, di cui si sta avviando l’ultimo intervento di scavo e dove le campagne del 2004-2005 hanno aggiunto altre 66 tombe alle 73 già oggetto di una prima proposta di inquadramento tracciata in occasione della presentazione al pubblico e dell’edizione di una selezione di 11 corredi restaurati. L’area funeraria risulta ora più che raddoppiata (m38 N/S per 68 E/W) e si sono raggiunti probabilmente i limiti perimetrali, ma resta da completare l’indagine in profondità del quadrante nord-occidentale con possibile incremento delle tombe del primo periodo. Le considerazioni che seguono sono quindi provvisorie, ma si avvalgono già del primo esame dei nuovi corredi in corso di restauro e seguono la metodologia sperimentata nella prima fase del lavoro. Gli uomini in armi del primo periodo assommano ora a 9: 3 appartenenti alla famiglia egemone, dotati di spatha e scudo, più lancia traforata e sperone in un caso (T 53) e sax in un altro (T 70); un adulto armato del solo sax (T 41); 3 nuovi guerrieri con armamento completo di spatha, lancia e scudo (TT 86, 93, 97); uno con lancia e scudo in frammenti, perché violato in antico, e quindi con possibile equipaggiamento completo (T 129), e uno infine con la sola lancia (T 92). Nessuno di questi ultimi possiede oggetti da cavaliere e le cinture per la sospensione della spada non sono ageminate, confermando il carattere militarmente e socialmente distintivo - almeno nell’ambito del gruppo - della lancia traforata, dello sperone, degli scudi “da parata” e delle cinture decorate La scansione in tre periodi dall’ultimo trentennio del VI secolo all’VIII compreso si dimostra valida anche per i settori recentemente esplorati, dove pure si conferma l’organizzazione pianificata dell’area funeraria per file, ciascuna formata da un gruppo di sepolture pertinente a una famiglia, con le tombe orientate est/ovest e i defunti deposti supini con il capo a ovest, con rare eccezioni ai margini meridionale e occidentale, dove compaiono tre inumazioni inversamente orientate, 81 sepolture con file talvolta meno ordinate in cui si verificano anche parziali sovrapposizioni: verso oriente l’addensamento delle tombe sembra determinato dalla prossimità del confine dell’area funeraria, mentre la distribuzione verso occidente è a fasce più intervallate e rade, con una lunga fila sviluppata da sud a nord e un nucleo nel settore nordoccidentale, a file corte, che include le tombe già indagate nel 2002. di cui erano invece dotati gli esponenti della famiglia egemone. Non solo insegne del potere, anche le armi più pregiate erano effettivamente usate, come è confermato dallo sfondamento da fendente dell’umbone dello scudo “da parata” della T 53 e dalla notevole incidenza percentuale di morti violente o di traumi cranici da combattimento, ora saliti a 4, di cui 3 subiti da armati e uno rilevato su resti scheletrici molto frammentari che non escludono la presenza di armi nella tomba distrutta. Lo stile di vita bellicoso e l’esercizio delle armi emerge anche dalle analisi antropologiche, che evidenziano, soprattutto per gli individui maschili, gli esiti di un notevole sviluppo muscolare a livello della spalla e dell’arto superiore, favorito dall’allenamento fisico e da una buona alimentazione durante l’infanzia e l’adolescenza, senza il sovraccarico di lavori pesanti. Nelle modalità di deposizione dei corpi si osserva il perdurare della disposizione tradizionale con gli arti distesi e non ravvicinati da eventuali sudari costrittivi perché i defunti erano ancora “vestiti”, come indica la presenza delle cinture, per lo più militari e quindi maschili. Le donne, nella seconda metà del VII secolo, compaiono in soli 3 casi sui 12 già determinati maschili dalle analisi e su altri 4 indiziati dagli oggetti di corredo o dalle prime osservazioni antropologiche raccolte durante lo scavo, mentre per i restanti 13 adulti ancora da determinare nessun oggetto – tra i pochi che ancora accompagnano gli inumati – si caratterizza come femminile. Il numero delle donne delle prime generazioni è aumentato di un solo individuo (T 90) abbassandone ulteriormente la percentuale a meno del 25% rispetto a quella maschile, mentre salgono di 5 unità le sepolture infantili, che comprendono ben tre ampie fosse del tipo pannonico a “camera lignea” con pali angolari adottato per gli “individui privilegiati”: ora se ne contano complessivamente 11, oltre ad alcune varianti prive di pali, ma molto grandi e profonde e probabilmente rivestite di legno. La percentuale delle sepolture femminili a Collegno potrà dunque raggiungere numeri definitivi per le tre scansioni temporali dell’evoluzione della necropoli senza ricorrere a ipotesi basate solo sui corredi; per il momento la carenza di donne, già marcata nella prima generazione immigrata, non solo non pare attenuarsi durante la sedentarizzazione del gruppo, ma sembra toccare l’apice del fenomeno proprio nella seconda metà del VII secolo. Se si può ormai escludere l’esistenza di un settore della necropoli riservata alle donne, che peraltro non troverebbe altri confronti, anche l’eventualità di una selezione dovuta al carattere militare del piccolo stanziamento contrasta in parte con la presenza non trascurabile di sepolture infantili disposte accanto ai maschi adulti. La presenza di elementi di corredo o di complementi dell’abbigliamento ricorre complessivamente in alta percentuale nelle tombe integre del primo periodo e si colma la lacuna precedente relativa alla deposizione di vasellame tipico con la scoperta di due tombe con vasi decorati a stampiglia della prima fase cimiteriale e un’altra forse assegnabile alla seconda. A queste sepolture paiono associarsi altri indicatori di offerta alimentare, in attesa di conferme dalle analisi faunistiche e botaniche. Tra le caratteristiche che distinguono il secondo periodo si era già evidenziata l’espansione topografica di nuovi nuclei di 82 della sostituzione dello scramasax alla spatha durante la seconda metà del VII secolo e poi della scomparsa delle armi verso la fine del periodo, quando il corredo si riduce alla sola cintura militare. Gli esami sui resti umani ci dicono che questi armati della seconda metà del secolo VII esercitavano ancora una notevole attività fisica, con conseguente sviluppo muscolare, ma con meno rischi per la vita, dato che non si registrano più morti violente o traumi sicuramente riconducibili a scontri in battaglia Si ripropone quindi al confronto con altri siti l’ipotesi che le donne non andate spose in altri villaggi e madri dei bambini, rimaste vedove, abbiano scelto di essere sepolte presso la chiesa - presumibilmente S. Massimo - cui potevano aver affidato la propria tutela giuridica e i loro beni, seguendo un modello sociale ben documentato per le classi più elevate a partire dal VII-VIII secolo, al termine del processo di conversione al cattolicesimo. L’evoluzione tipologica delle tombe si innova con l’abbandono delle camere lignee e l’introduzione delle casse in muratura destinate a scomparire nel periodo successivo che continuano però ad affiancare con equivalente prestigio sociale le sepolture terragne, a fossa progressivamente più ristretta. Anche la distribuzione in più nuclei degli uomini dall’armamento leggero, dove spiccano come elementi di distinzione soltanto le cinture ageminate, suggerisce una sorta di appiattimento sociale del gruppo nel passaggio dalle prime generazioni, in cui si distingueva una famiglia nettamente egemone. In Piemonte almeno un caso suggerisce una simile dinamica e riguarda Testona, che presenta qualche punto di contatto con il sito in esame, e dove la recente indagine sulle fasi cimiteriali preromaniche della chiesa di Santa Maria ha rivelato la presenza di donne con caratteri antropologici affini a quelli di gruppi umani analizzati in necropoli longobarde, mentre a breve distanza la grande necropoli a file ha restituito un numero esiguo di corredi femminili e per contro corredi maschili tardi, fino alla fine del VII - inizi VIII secolo, e tante sepolture prive di oggetti verosimilmente relative a una estensione dell’uso del cimitero nell’VIII secolo, piuttosto che a una composizione mista della popolazione inumata, come proposto in passato. Permangono invece i segni delle relazioni parentali in una serie di gesti consuetudinari e simbolici tra i quali la trasmissione da una generazione all’altra di qualche elemento di guarnizione della cintura, confermando il valore coesivo delle tradizioni del gruppo e l’importanza dei legami di sangue. Tornando a Collegno, è comunque provato dalle tombe con sax ritrovate nei vecchi scavi che S. Massimo esercitò attrazione su parte della popolazione longobarda e forse le attenzioni della stessa corte regia, attestate da un frammento di epigrafe dedicatoria, a prova di una certa libertà e mobilità delle persone sulla scelta del proprio luogo di sepoltura, secondo processi culturali complessi che di fatto consentirono anche l’ingresso di deposizioni con armi nello spazio sacro di una chiesa sicuramente pubblica e battesimale. Per quanto riguarda ancora le tombe maschili, nessun altro Saxträger è comparso tra le nuove sepolture, e rimangono confermati i fenomeni Ma sono i dati forniti dall’ultima fase cimiteriale a supportare l’ipotesi di interpretazione della completa trasformazione da guerrieri a contadini degli appartenenti alla comunità qui vissuta per molte generazioni e trasformatasi gradualmente da postazione militare a semplice villaggio rurale, come dimostrano anche i caratteri fisici degli ultimi inumati dell’VIII secolo, privi di corredo ma datati con analisi al radiocarbonio, che rioccupano le fasce rimaste libere nelle parti centrali dell’area 83 genetici discontinui indicativi di stretti rapporti di parentela e quindi di omogeneità del gruppo e di elevata endogamia. Gli esiti di traumi e stress provano che le attività lavorative erano divenute gravose ed intense, i pesanti carichi portati sulle spalle potevano indurre fratture alle clavicole, mentre inadeguate calzature erano la probabile causa di frequenti traumi e distorsioni. L’alimentazione risulta più scadente, con scarsi consumi di carne e valori che in genere denunciano un peggioramento del livello economico del gruppo. funeraria. Erano trascorsi più di 130 anni, ma abitavano ancora nello stesso luogo e continuavano a utilizzare la necropoli dove erano sepolti i loro avi, seguendo le antiche regole di ripartizione dei lotti per famiglie, rispettando gli orientamenti e i confini tracciati nel VI secolo. Fatto questo che presuppone interventi di accurata e costante manutenzione dei sepolcri in superficie e forse di siepi o steccati di recinzione dei campi del cimitero. In serie inizialmente ancora ben allineate costituite da fosse in piena terra, prevalentemente scavate di stretta misura del corpo, si alternano individui adulti maschili e femminili con proporzioni reciproche ora meno squilibrate, ma con una sottorappresentazione dei bambini dovuta alla fragilità dei resti e soprattutto alla minore profondità delle fosse, che le espose all’erosione superficiale e alle distruzioni agricole. Tutti questi dati non segnano tuttavia una discontinuità rispetto ai due periodi precedenti. Non si può dire che queste persone non fossero i diretti discendenti dei Longobardi insediati nel loro stesso villaggio fin dal tempo della conquista d’Italia, perché continuavano a seguire significative consuetudini, con uno spiccato culto degli antenati che imponeva non solo il rispetto per le tombe di tutti i membri della società, ma anche la manutenzione delle sovrastrutture di segnacolo, eseguita ininterrottamente per periodi che potevano superare il secolo. Assai rilevante per le implicazioni sociali e religiose è il passaggio dall’inhumation habillée alla deposizione del corpo avvolto soltanto nel sudario, che si manifesta senza più dubbi nelle sepolture dove si osservano la posizione molto ravvicinata dei piedi, delle braccia strettamente raccolte contro il tronco o ripiegate sul petto e le spalle incurvate, con clavicole verticalizzate. Proprio questi aspetti ci pare dimostrino la consapevolezza di identità e di appartenenza di questo gruppo a una ben definita discendenza, malgrado le variazioni che nel susseguirsi delle generazioni investirono molti aspetti degli usi funerari stessi, ma anche lo stile di vita delle persone e persino alcuni caratteri genetici. Il controllo che si sta compiendo su altri cimiteri coevi piemontesi correttamente indagati, permette di conferire una crescente attendibilità di indicatore cronologico a questa evoluzione della composizione dei corpi in atteggiamenti di umiltà e raccoglimento di ispirazione cristiana, peraltro da tempo delineata per l’VIII secolo in area franca. Le osservazioni raccolte sull’evoluzione della necropoli longobarda, ma anche sulle vicende della chiesa di S. Massimo, ci hanno indotto a ipotizzare che da un’aggregazione multietnica di nuclei separati formatasi nel VI secolo, si siano attivati nel VII progressivi scambi, pur senza cancellare la coesione e l’identità delle diverse componenti del popolamento rurale, che portarono gradatamente a stemperare e annullare la valenza militare della fara dislocata sul territorio in fase di Le ultime generazioni sepolte nella necropoli evidenziano tendenze alla mutazione di alcuni caratteri genetici – come ad esempio la riduzione della media delle stature – dovute ad apporti esterni, ma nel contempo continuano a condividere molti caratteri 84 tempo del suolo d’uso di 30/40 cm per apporti alluvionali e conseguente variazione delle quote di partenza per lo scavo delle fosse. Al momento è proprio questo dato a distinguere le fasi cimiteriali in due periodi, ma occorrerà procedere a una verifica caso per caso quando i dati saranno completi. conquista finché, nell’VIII secolo inoltrato, l’abitato divenne poco distinguibile dai centri rurali contermini. A seguito della riorganizzazione delle pievi, la chiusura della necropoli longobarda e il probabile definitivo trasferimento delle sepolture al cimitero di S. Massimo, ci fanno perdere infine le tracce di questa comunità, mentre l’erosione subita dai depositi stratigrafici ci impedisce di seguire la sorte del villaggio, che in ogni caso non sembra essere sopravvissuto a lungo, forse assorbito dalle dinamiche insediative locali, di cui riemergeranno gli esiti indiretti soltanto nella documentazione scritta della metà dell’XI secolo, riguardante la distribuzione delle chiese. Con la prudenza dovuta all’attuale mancanza di riscontro con datazioni assolute, si osserva come le deposizioni paiano originare dalle file orientali, dove si allineano fosse ovoidali abbastanza ristrette, senza tracce di bare o strutture lignee, in larga percentuale chiuse da lastre lapidee generalmente irregolari ottenute con lavorazione grossolana da scisti e micascisti probabilmente ricavati localmente da trovanti e massi erratici depositati dal trasporto fluvioglaciale. Il sostegno delle pesanti coperture in alcuni casi si avvale di un espediente per ora non noto in altri siti, adottato per evitare lo sprofondamento delle lastre, consistente nell’inserimento di mattoni (sesquipedali, interi o segati, o di modulo emisesquipedale) perpendicolari ai tagli delle fosse. La necropoli di Rivoli – corso Primo Levi si trova alla periferia sud-orientale dell’abitato di Rivoli, al piede delle colline dell’anfiteatro morenico, su terreni in leggera pendenza da NW verso SE. La località dista poco più di un chilometro dall’antica pieve detta “ai campi” di Rivoli, dedicata a san Martino di Tours, e precocemente trasferita nell’abitato intorno al 1200: sembrano dunque ricorrere rapporti topografici simili a quelli di Collegno, anche se la dedica della pieve suggerisce questa volta una fondazione più tarda in relazione con le dominazioni longobarda e franca. Procedendo verso ovest compaiono anche casse in muratura e al centro dell’area indagata tre tombe presentano coperture con mattoni romani di recupero disposti a doppio spiovente e lavorati al colmo, secondo una tipologia di copertura diffusissima nelle prime fasi cimiteriali della cattedrale torinese a partire dalla fine del VII-VIII secolo. Le tombe attribuite al secondo periodo comprendono invece quasi esclusivamente fosse terragne semplici, raramente coperte con lastre lapidee, anche se è possibile che la loro quota di affioramento più superficiale ne abbia determinato la perdita. Tra le tombe più recenti, situate presso il limite meridionale, si segnalano due casi di impronte scure ellittiche intorno ai bordi delle fosse, interpretabili come residui di sovrastrutture in legno di eventuale contenimento del tumulo, con funzione forse analoga a quella dei filari superficiali di pietre osservate intorno ad altre fosse, L’area di scavo comprende un settore A già completato con 85 tombe su 680 mq, e uno B ancora in attesa di ultimazione con il quale si è raggiunto il numero provvisorio di 110 tombe. I confini nord e sud della necropoli furono forse segnati da due piccoli canali di deflusso delle acque meteoriche orientati come le tombe, ma scavati in tempi diversi e poi superati dall’ampliamento del sepolcreto. La distribuzione delle sepolture è molto ordinata, a file composte da 2 a 12 tombe, senza sovrapposizioni, malgrado possibili obliterazioni date dall’accrescimento nel 85 cui è prematura qualsiasi ipotesi di identificazione etnica, si sia stabilita nei pressi della necropoli nel corso del VII secolo, con funzioni non militari, ma forse pubbliche affidate a personaggi distinti dalle decorazioni in oro dell’abito, che le precedenti leggi suntuarie romane e bizantine riservavano alle più alte cariche civili e militari sotto il controllo imperiale. Dopo alcune generazioni, ma non troppo oltre gli inizi dell’VIII secolo, anche questo cimitero rurale chiude, forse trasferito alla nuova pieve di S. Martino. che indiziano la materializzazione di segnacoli sul suolo della necropoli. La posizione dei corpi vede prevalere nettamente quella con gli arti superiori distesi e le mani spesso portate sul bacino, mentre mancano le posizioni con avambracci ripiegati osservate nella fase più tarda di Collegno e anche l’uso del sudario, indicato dagli arti inferiori molto ravvicinati, sembra ipotizzabile in pochi casi. Ma le peculiarità di questa necropoli consistono nella pressoché totale mancanza di oggetti di corredo, ad eccezione di un pettine a doppia fila di denti deposto in una tomba del primo periodo (T 79), e di complementi di abbigliamento, ridotti a una sola fibbia di ferro (T 7) e a un elemento non ancora identificabile (T 90), in condizioni tuttavia di violazione delle sepolture che possono aver asportato altri oggetti. Notevole è invece la presenza di fili aurei di broccato in ben 4 casi, riferibili a veli posti sul capo o a bordi di casacche all’altezza del bacino. Il catalogo dei ritrovamenti di questo genere di vesti preziose, non riscontrate a Collegno e prevalentemente attribuite al VII secolo, comprende i siti piemontesi di Pecetto di Valenza, dove ricorre la mancanza di corredi, e a Mombello, nel cimitero di un gruppo famigliare probabilmente investito, come si è detto, di cariche pubbliche. Se a Mombello le violazioni hanno risparmiato frammenti di almeno un ricco corredo d’armi, a Rivoli non esiste traccia della deposizione di armi, ma alcuni traumi, anche cranici, osservati in fase di scavo, potrebbero derivare da scontri in combattimento. Un’ultima inconsueta particolarità riguarda l’alta incidenza percentuale delle 7 tombe bisome, con deposizioni simultanee o pochissimo distanziate nel tempo, che riguardano anche bambini e adolescenti e fanno pensare a reiterati episodi epidemici o a gravi eventi climatici. Come ipotesi di lavoro si può dunque immaginare che la comunità di Rivoli, di La necropoli di Rivoli – La Perosa, scavata nei primi anni Novanta e pubblicata in contributi preliminari, offre oggi la possibilità di nuove interpretazioni in base alle precisazioni cronologiche acquisite in seguito con la datazione al radiocarbonio dei resti scheletrici. Una delle ultime sepolture (T 29) del secondo gruppo di inumati, privi di corredo, è risultata compresa tra il 678 e il 778, e ancora più tarde quelle di due individui femminili deposti accanto e all’interno di una tomba a cassa in muratura del primo periodo (T 25: 792-985; T 20: 692-799). Dal piccolo nucleo orientale delle 7 tombe a cassa in muratura, di cui due infantili, vanno quindi espunte le rideposizioni successive, mentre la cronologia della prima fase resta affidata ai pochi oggetti di corredo risparmiati dalla sistematica violazione dei sepolcri, tra i quali è compresa una placchetta con estesa placcatura in argento e almandini degli ultimi decenni del VII secolo proveniente dalla T 2, che i confronti con la cintura della T 17 di Collegno permettono ora di attribuire al tipo “a cinque pezzi”, anche a Rivoli in associazione con un sax di cui restano unicamente i chiodi del fodero. Soltanto nella vicina T 13 forse permangono i resti, comunque sconvolti, delle sepolture originarie di due individui maschili di età matura, entrambi dolicocranici, dei quali uno si distingue per la più alta statura rilevata in tutta la necropoli. L’individuo 13/A presenta 86 si possa delineare anche in questo caso un’evoluzione delle condizioni di vita e di lavoro tendente all’integrazione nel mondo rurale locale, ma ancora di più si evidenzia in ogni caso la tenace persistenza dell’identità autonoma di questa piccola comunità, così a lungo fedele al proprio luogo di sepoltura. inoltre gli esiti mortali di una aggressione alle spalle che lo colpì alla nuca e che ancora una volta può ricondursi all’impegno militare del piccolo nucleo famigliare fondatore della necropoli, collocata sul sedime abbandonato e interrato dell’antica via pubblica, e in significativa vicinanza delle chiuse. Ragioni di potenziamento delle difese e del controllo del territorio presso la frontiera potrebbero aver indotto, in epoca assai più tarda che a Collegno, lo stanziamento della Perosa, ma è interessante valutarne archeologicamente gli esiti nelle generazioni successive, rappresentate dal più numeroso gruppo di sepolture terragne che ora risultano scalate per tutto l’VIII secolo e oltre, le cui caratteristiche tipologiche con fosse strette e posizioni degli arti superiori ripiegate sul petto richiamano direttamente quelle della terza fase di Collegno. Tornano anche le percentuali relative ai due sessi, non troppo sbilanciate a favore dei soggetti maschili e quindi compatibili con una normale comunità di villaggio, e si comprendono le cause della maggiore variabilità dei caratteri metrici del neurocranio (dati dalla presenza più consistente di brachicrania e mesocrania) rispetto ad altri siti longobardi piemontesi, evidentemente connesse al progressivo incremento nel tempo di apporti genetici dalla popolazione locale. Per contro l’elevata frequenza dei “caratteri discontinui” in un campione così piccolo è indice attendibile di legami di parentela tra gli individui. L’elaborazione dei dati antropologici della necropoli di Collegno è stata tuttavia impostata diversamente, lasciando in secondo piano i più consueti aspetti paleodemografici e di “inquadramento etnico” a favore di un’analisi più puntuale sulle variazioni dello stile di vita dei singoli individui e dei ristretti gruppi delle generazioni in sequenza temporale, che meglio mettono a fuoco proprio le trasformazioni sociali che qui interessano: i dati registrati alla Perosa saranno dunque da ricontrollare in quest’ottica, per verificare se 87 presbiteri), mentre l’intervento di membri delle classi sociali meno elevate nella fondazione dei tituli (comunque filtrato dallo strumento della “colletta”, cioè del finanziamento collettivo) è stato ipotizzato in un numero assai limitato di casi: in quelli (i soli), secondo una interessante proposta del Pietri, in cui la intitolazione della chiesa non si ricollegava (come in tutti gli altri casi) direttamente al nome del fondatore, bensì ad un toponimo o al santo cui le chiese erano dedicate (si tratta probabilmente del titulus Fasciolae, del titulus Apostolorum, di S. Crisogono e di altri). L’intervento dell’aristocrazia nel campo dell’evergetismo monumentale fu assai meno importante nel suburbio: nei numerosissimi santuari martiriali dislocati lungo le vie consolari, esso si limitò, stando alla documentazione, alla donazione di elementi di arredo liturgico, all’abbellimento delle tombe dei santi o degli spazi circostanti; nessuna chiesa martiriale (delle 46 esistenti alla fine dell’antichità) venne edificata grazie al finanziamento di un privato; qui fu direttamente l’iniziativa dei vescovi (o in casi eccezionali degli imperatori), dopo l’eccezionale stagione costantiniana, a promuovere le costruzioni, destinate a celebrare le “glorie” della più antica comunità cristiana della città. A Roma, ancora, entro l’epoca di Gregorio Magno (limite cronologico che abbiamo dato alla nostra inchiesta), si registra l’intervento delle classi aristocratiche nella costruzione di due chiese di carattere devozionale (S. Agata dei Goti, S. Andrea in Catabarbara, edificate, intorno alla metà del V secolo, dal senatore goto Valila e dal generale Ricimero, anch’egli di origine germanica, patricius ed ex console), di un nosocomio (quello istituito dalla nobildonna Fabiola), di tre xenodochi (quelli dei Valeri, degli Anici e quello fondato dal generale bizantino Belisario) e infine di tre monasteri (realizzati dalle patriciae Galla e Barbara e, forse, da Anicio Severino Boezio). SEZIONE IV CHIESA E SOCIETÀ Il ruolo dell’evergetismo aristocratico nella costruzione degli edifici di culto di Roma e del Lazio Vincenzo Fiocchi Nicolai 1. Il ruolo fondamentale svolto dall’evergetismo aristocratico nel dotare la Chiesa di Roma di edifici di culto funzionali allo svolgimento della sua missione nel territorio urbano è stato da tempo evidenziato, grazie soprattutto ai noti studi, ancora insuperati, di Charles Pietri. La generosità dei ricchi benefattori, appartenenti all’élite della società romana, si sostituì, a partire dalla metà del IV secolo (da quando la conversione dell’aristocrazia si fece vieppiù capillare), a quella dell’imperatore (Costantino), che, come è noto, a partire dal 313, aveva largamente finanziato la costruzione delle prime chiese cristiane della capitale. Il campo in cui si dispiegò maggiormente l’evergetismo monumentale aristocratico a Roma fu senza dubbio, come si sa, quello delle chiese parrocchiali, i tituli, chiese di quartiere, dislocate con una certa regolarità nelle quattordici regioni augustee (e nelle sette ecclesiastiche, in funzione dalla metà del III secolo), edifici che svolgevano il ruolo di veri centri propulsivi della missione, della pastorale e dell’assistenza ai poveri. Alla fine del V secolo, i tituli romani erano 25: di questi, ben 16 erano stati edificati grazie all’iniziativa di benefattori laici, che, quando vengono ricordati dalle fonti storiche, si rivelano, appunto, appartenenti all’aristocrazia. Solo poche chiese titolari vennero realizzate per iniziativa di ecclesiastici (il vescovo stesso, alcuni 2. Nel Lazio il ruolo svolto dall’evergetismo aristocratico nel dotare le 88 fondazione dei tituli romani, è il caso della basilica di S. Stefano al III miglio della via Latina, alle porte di Roma. Qui fu la nobildonna Amnia Demetrias, un esponente di spicco della famiglia degli Anici, a far edificare, all’epoca di papa Leone Magno (440-461), “in predio suo”, come ci informa il Liber Pontificalis, una chiesa dedicata al protomartire Stefano. Si tratta dell’unico caso di chiesa parrocchiale rurale ricordata dalle fonti di cui possediamo anche un’ampia documentazione archeologica. L’edificio, come è noto, venne alla luce nel 1857 insieme alla villa di Demetrias, nel cui cuore era stato costruito. Nelle indagini si rinvenne anche l’iscrizione commemorativa della fondazione religiosa. Essa ci informa che papa Leone Magno aveva dato attuazione al proposito di Demetrias, espresso ex voto in punto di morte, di edificare una chiesa nella sua proprietà (“ut s[a]crae surgeret aula d[omus]”); essa fu dedicata a S. Stefano, il protomartire di Gerusalemme, di cui probabilmente accolse reliquie, che la stessa Demetrias doveva essersi procurata nel suo lungo soggiorno in Africa, e fu edificata sotto la stretta sorveglianza del prete romano Tigrino (“Tigrinus, p[resbyter instans]”). Proprio questo particolare avvicina fortemente le modalità di fondazione della chiesa a quelle delle parrocchie urbane (i tituli), la cui costruzione, finanziata da privati, era tuttavia spesso eseguita materialmente, come è noto, sotto il controllo di preti della Chiesa romana. Lo stesso Tigrinus, del resto, svolse incarichi simili in vari altri luoghi, stando a quanto riporta il suo epitaffio metrico, letto nell’altomedioevo in uno dei cimiteri paleocristiani della via Latina (“diversis reparo tecta sacrata locis”). Leone Magno era stato depositario della donazione di Amnia Demetrias, come attesta l’iscrizione; tale donazione, tuttavia, come in altri casi, è assai probabile fosse stata in qualche modo sollecitata (orientata) dallo stesso vescovo, come sappiamo avvenne, per esempio, nel caso dell’intervento dell’ex console e prefetto della città Mariniano a S. Pietro, autore della decorazione musiva della facciata della chiesa (l’iscrizione commemorativa comunità cristiane di edifici di culto fu altrettanto importante; esso tuttavia è stato poco indagato e valorizzato (e su questo vorrei soffermarmi in questo intervento). Le informazioni deducibili dalla documentazione letteraria, d’altra parte, sono qui enormemente meno abbondanti; esse permettono tuttavia osservazioni di un certo interesse. Il Lazio, come si sa, fu oggetto di un processo di cristianizzazione assai precoce e capillare. Già nel 313-314 (all’indomani della pace religiosa), ben 9 centri (città, ma anche insediamenti minori) erano sedi diocesi; entro la fine del VI, ben 42 saranno le sedi vescovili attestate nella regione. Le fonti agiografiche, spesso antiche ed affidabili, e le testimonianze dell’archeologia documentano la diffusione dei santuari martiriali di origine precostantiniana sia nelle città che nelle campagne. Le aree funerarie, numerose e talvolta anche notevolmente estese, confermano la presenza capillare di comunità cristiane nella regione durante il IV e V secolo. Il processo di cristianizzazione toccò precocemente anche le campagne: lo attestano la documentazione archeologica e le fonti letterarie. Fu tuttavia solo a partire dal V secolo che, come in altre regioni della penisola, in ambito rurale, le Chiese locali organizzarono più compiutamente la missione attraverso una rete capillare di edifici di culto. Già nei primissimi anni del V secolo, come sappiamo da una lettera di papa Innocenzo I (401-417), la diocesi di Nomentum registrava un’organizzazione del territorio per paroecias. Proprio in ambito rurale il ruolo dell’evergetismo aristocratico nella fondaione di edifici di culto si rivela nel Lazio particolarmente incisivo. Qui, delle 8 notizie che riguardano la fondazione di chiese, 5 fanno riferimento all’intervento di ricchi benefattori appartenenti all’élite (e tre a quello diretto dei vescovi di Roma). Particolarmente interessante, per la sua antichità e per i raffronti istituibili con la 89 parrocchiale (ed è probabile che la stessa carenza abbia spinto, tra la metà del V secolo e gli inizi del VI, i papi a promuovere direttamente altre chiese sull’Aurelia, sulla Labicana e forse la Prenestina). dell’intervento recitava “debita vota quae precibus papae Leonis... provocata sunt”). La prassi di orientare le donazioni in rapporto alle necessità pastorali (nel nostro caso il bisogno di dotare di una chiesa le numerose comunità rurali esistenti nel settore del suburbio romano attraversato dalla Latina) si rivela del resto ampiamente diffusa, anche in altri contesti. La chiesa di Demetriade, come è del tutto evidente, doveva svolgere una funzione di cura d’anime. Lo mostrano, come si rilevava, la stessa somiglianza del suo atto fondativo a quello dei tituli, il coinvolgimento diretto nell’impresa del papa, soprattutto il fatto che l’edificio venne dotato di un ambiente battesimale, che gli scavi della metà dell’800 e la rilettura delle strutture di R. Krautheimer hanno mostrato costruito contemporaneamente alla chiesa, da cui aveva accesso diretto. La forma particolare della vasca (ottagonale all’esterno e circolare, con gradoni ad estremità ricurve, all’interno) fu adottata, del resto, anche, e proprio in quegli anni, nella chiesa parrocchiale urbana di S. Crisogono. La basilica di S. Stefano aveva dimensioni discretamente rilevanti (m 29 per 19), che consentivano di accogliere un numero consistente di fedeli; si presentava divisa in tre navate ed era dotata di un avancorpo e di un cripta, certamente destinata ad ospitare le reliquie di S. Stefano. Il fatto che l’edificio fosse stato fatto oggetto, a quanto pare, di una limitatissima utilizzazione funeraria, e per giunta in epoca molto tarda, conferma (essendo ben noti i divieti papali, di poco posteriori, circa l’introduzione di sepolture in chiese aperte alla processio comunitaria) il suo carattere di chiesa pubblica. È probabile che la scelta del sito, tra le numerose proprietà che gli Anici avevano a disposizione nel circondario della città, sia, come si diceva, da ricollegare alle esigenze pastorali di quel settore del suburbio romano, particolarmente ricco di insediamenti nella tarda antichità. D’altra parte, è forse significativo che proprio questa zona fosse, alla metà del V secolo, del tutto sprovvista di chiese martiriali, che, come sappiamo, svolgevano certamente, in quell’epoca, anche una funzione di tipo La lacunosità dei dati in nostro possesso sugli scavi ottocenteschi e il metodo con cui essi furono condotti non ci consentono, purtroppo, di sapere se, e in quali settori, la villa, nella quale venne edificata la chiesa, continuasse ad essere utilizzata, e con quale destinazione d’uso. Si può solo rilevare che una porzione importante della residenza, così come è nota dalle indagini dell’’800, fu destinata all’impianto della nuova chiesa; e che la scelta della sua collocazione cadde nell’antico peristilio della villa, comodamente accessibile, attraverso l’ampia corte rettangolare antistante, dalla via Latina. Una scelta che è evidentemente in linea con il carattere pubblico della basilica. Altri quattro edifici di culto rurali finanziati da membri dell’élite sono ricordati dalle fonti tra la metà del V e gli inizi del VI secolo. Circa una quindicina di anni dopo la fondazione di Demetriade, fu questa volta un generale di origine germanica, probabilmente gota, Valila, divenuto senatore col nome di Flavius Theodovius, a promuovere la realizzazione di una chiesa nei dintorni di Tivoli. Si tratta del medesimo personaggio che, come si è accennato, aveva donato alla Chiesa di Roma un’”aula” di una prestigiosa domus situata sull’Esquilino, già appartenuta al console Giunio Basso, perché fosse trasformata in chiesa dedicata all’apostolo Andrea. La propensione del goto a mettere a disposizione i suoi averi (“praedia”) per la comunità era esaltata del resto dall’iscrizione dedicatoria dell’edificio urbano. Come il generale germanico Ricimero, anch’egli promotore in quegli anni della costruzione di una chiesa nella Suburra, forse destinata all’uso della comunità ariana (S. Agata dei Goti), anche Valila, attraverso lo strumento 90 in quegli anni da Demetriade sulla Latina). D’altra parte, la carta di fondazione ci informa che l’edificio era dotato di una confessio, cioè di una piccola struttura o vano destinata ad ospitare reliquie, evidentemente quelle del protomartire. consolidato dell’evergetismo, mirava ad integrarsi pienamente nell’élite dell’aristorazia senatoria romana. Della basilica che Valila fece costruire nei suoi possedimenti tiburtini conosciamo, come è noto, la carta di fondazione, pervenutaci nel Regesto della Chiesa di Tivoli. Già Louis Duchesne sottolineava le straordinarie vicinanze di questo documento a quelli riportati dal Liber Pontificalis a proposito della fondazione di chiese urbane di epoca costantiniana o posteriore: come in quei casi, all’edificio che si andava a realizzare si assicuravano, da parte del fondatore, arredi e proprietà immobiliari, che garantivano il funzionamento e il mantenimento della chiesa, nonché il sostentamento del personale addetto. Proprio la menzione, nella carta, di un presbitero, di diaconi e chierici minori, al servizio della basilica e stabilmente residenti presso di essa (per gli ecclesiastici Valila aveva previsto appositi “habitacula”), oltre che, come si diceva, l’affinità del meccanismo fondativo a quello delle chiese pubbliche di Roma, assicura del carattere di edificio di culto comunitario, regolarmente aperto alla pubblica processio, della chiesa di Valila. D’altra parte, questa è ricordata nella carta di fondazione come basilica, un termine che in quel periodo sottolinea, di norma, l’importanza e l’ufficialità di un edificio di culto. Nella mancanza assoluta di informazioni circa il contesto topografico in cui venne edificata la chiesa di Valila, ancora i dati desumibili dal documento tiburtino risultano determinanti. Essi rivelano che la basilica era sorta nell’area di una villapreatorium dello stesso Valila, di cui questi si riservava l’utilizzazione. Gli habitacula destinati al clero confinavano proprio con il praetorium, che continuava ad essere in disponibilità del personale addetto. Un esempio che ci viene dalle fonti di sicura continuità d’uso di una villa in relazione ad un edificio di culto costruito nella sua area; di compenetrazione tra strutture religiose e residenziali nell’ambito di un medesimo contesto insediativo; un modello, seguito, come si vedrà, anche in altri casi nel Lazio, che sottolinea ulteriormente il ruolo di centro di aggregazione sociale svolto nella tarda antichità dalle grandi ville. Un’altra chiesa con funzione di cura animarum doveva essere, come quella di Valila, l’edificio che, alcuni anni più tardi, nel 496, ai tempi di papa Gelasio, la spectabilis femina Megetia aveva fondato, “in possessionibus propriis”, nel territorio di Sora (Lazio meridionale); tuttavia la donna vi aveva collocato impropriamente alcune sepolture, ed il papa, in una lettera inviata al vescovo locale, ne aveva proibito la frequentazione pubblica (“publica frequentatione et processione cessante”). Regolare ruolo di parrocchia rurale dovevano svolgere invece la “basilica” dedicata a S. Pietro che, all’epoca di papa Simmaco (498-514), il prefetto del pretorio ed ex console del 493, Fausto Albino, della nobile famiglia dei Decii, aveva fatto edificare, “de proprio”, insieme alla moglie Glaphira, al XXVII miglio di una via di discussa identificazione (probabilmente la Prenestina, nel tratto che portava a Treba Augusta (Trevi)), Della chiesa tiburtina di Valila, come si sa, non possediamo purtroppo alcun riscontro monumentale, e persino la sua ubicazione risulta incerta. L’intitolazione della basilica resta parimenti imprecisata. Tra quelle ipotizzate sulla base della documentazione di archivio di epoca più tarda, la dedica a S. Stefano sembra largamente preferibile, considerando il successo che ebbe il culto di questo santo a Roma e nel Lazio, dopo il noto episodio dell’invenzione delle sue reliquie, avvenuto a Caphargamala nel 415 (si pensi alla medesima dedica della chiesa voluta 91 possedimenti della Sabina e della Tuscia. Si tratta della patricia Galla, figlia del console del 485 Quinto Aurelio Simmaco; la donna, nota da una lettera di Flugenzio di Ruspe, fu fondatrice con ogni probabilità a Roma di un monastero presso la basilica vaticana: il monastero di S. Stefano “cata Galla patricia”, ricordato da Gregorio Magno. L’attività di benefattrice della pia donna nelle terre laziali è registrata solo nel X secolo da Benedetto Monaco del Soratte, nel suo Chronicon. Alla generosità di Galla, secondo Benedetto, si doveva l’erezione di ben sette chiese nei territori situati subito ad ovest e ad est del Tevere: S. Andrea “iuxta ipso flumen” (S. Andrea in Flumine, sulla via Tiberina), S. Lorenzo “in agro Pontianello”, S. Giovanni Battista “iuxta qui dicitur Terega” (S. Giovanni de La Tregia, presso l’Amerina), S. Pietro “in territorio Collinense”, S. Pietro “in Ascuto”, S. Valentino “infra massa qui dicitur Cornicle, quae vulgo dicitur Septimiliana” (S. Valentino a Stimigliano), S. Pietro “in Tarano”. L’attendibilità di Benedetto è tuttavia, come si sa, assai discutibile. Se, e da quali tipi di fonti, egli abbia tratto le sue informazioni è oggetto di dibattito. È comunque da notare che, almeno nel caso della chiesa di S. Giovanni presso il fiume Treja, i dati di Benedetto hanno trovato riscontro nelle evidenze archeologiche, almeno per quanto attiene all’epoca di costruzione dell’edificio ed al contesto insediativo. La chiesa è stata infatti rimessa in luce negli scavi, ben noti, condotti da Tim Potter a Mola di Montegelato, su un diverticolo della via Amerina. Le esplorazioni hanno appurato che l’edifico fu fondato nel V secolo nell’ambito di una villa ristrutturata nel IV; la funzione battesimale della chiesa (peraltro dedicata a S. Giovanni Battista) agli inizi del IX secolo è assicurata dalla istallazione di un fonte, posizionato a ridosso dell’edificio, anch’esso ricostruito in quell’epoca. Già l’indimenticato Tim Potter ipotizzava che la realizzazione della chiesa fosse stata promossa da un privato, nonché la chiesa dedicata a S. Lorenzo che, una cinquantina di anni dopo, fu costruita dal “vir magnificus Theodorus” in un suo possedimento del territorio di Gabii. Da una lettera inviata da papa Pelagio I (di cui Theodorus era consiliarius) nel 559 al vescovo di quella città, sappiamo infatti che questa chiesa rurale era rimasta sprovvista dell’”officium praesbyterii” e che a questa mancanza il vescovo di Roma invitata a ovviare immediatamente (sollecitando l’ordinazione di un ex monaco di provata rettitudine morale di nome Rufino, proposto da Theodorus) affinché, nelle imminenti festività pasquali, vi si potessero celebrare regolarmente i “sacra mysteria”. Informazioni che, in modo molto eloquente, assicurano del carattere di edificio pubblico, comunitario anche di questo edificio rurale. Oltre a queste notizie sulla edificazione di chiese rurali da parte dell’aristocrazia nel Lazio, altre, di attendibilità però meno certa, si traggono da fonti di epoca medievale. Una bolla di papa Innocenzo III del 1201 fa menzione del monastero di S. Andrea a “in Silice”, al XXX miglio della via Appia (nel territorio di Velletri), e lo dice fondato, prima della invasione vandalica del 455, da un tal Narcissus patricius “inclite recordationis”. Tuttavia il monastero è documentato solo dal X secolo; la chiesa di S. Andrea, invece, risulta ricordata già da Gregorio Magno in una lettera del 592; nell’epistola non si fa però alcun cenno all’esistenza del monastero, mentre l’edificio di culto vi si evidenzia come di notevole importanza, sede temporanea dei vescovi di Velletri. Sorge, dunque, il dubbio, sempre che la notizia contenuta nella bolla pontificia abbia un qualche fondamento, che sia stata proprio la chiesa (più che il monastero, sconosciuto a Gregorio) ad essere eventualmente edificata grazie alla generosità del patricius Narcissus. Un altro membro del patriziato romano è ricordato da fonti medievali come particolarmente attivo nel promuovere la costruzione di chiese nei suoi 92 sull’argomento, per ottenere meriti ai fini della ricompensa eterna. il proprietario della villa (anche se poi lo studioso inglese ha preferito l’ipotesi, più seducente, che si trattasse di edificio di culto fatto erigere direttamente dalla Chiesa di Roma su una sua azienda agricola). Al di là della veridicità dell’attribuzione, da parte di Benedetto, della costruzione della chiesa alla patrizia Galla, i più affidabili dati archeologici permettono di rilevare almeno un fatto interessante: che la chiesetta, come quella di Flavio Valila, era stata edificata a ridosso della villa (in un angolo del suo antico cortile, in un settore marginale) e che la sua facciata era rivolta, non verso la villa, bensì verso la strada pubblica che conduceva ad un vicino villaggio: una collocazione che sembra significativa del ruolo pubblico dell’edificio, la cui fruizione il fondatore, evidentemente, condivideva con le comunità dei dintorni. D’altra parte, la presenza dell’edificio di culto faceva della villa, come nel caso già citato della chiesa tiburtina di Valila, il centro anche della vita religiosa della zona, incrementando così il prestigio del suo fondatore (collocazione analoga caratterizzava anche la basilica, più o meno coeva, rinvenuta a Castelfusano sulla via Severiana: essa era ubicata immediatamente fuori dal recinto di un villa prestigiosa e in vicinanza della strada). La prassi, benchè in modo meno diffuso, è attestata nel Lazio anche in ambito urbano, in alcune delle città episcopali. In tre dei soli quattro casi di centri urbani per i quali possediamo notizie antiche circa la fondazione di chiese, il ruolo dell’élite viene a confermarsi. Ad Ostia fu un certo Gallicano, come attesta il Liber Pontificalis, a contribuire alla fondazione della chiesa cattedrale da parte di Costantino, con la donazione di alcuni terreni le cui rendite servivano al mantenimento della chiesa (si tratta della basilica dei SS. Pietro e Paolo e Giovanni Battista, recentemente rinvenuta dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma). Una passio del VI secolo fa di Gallicano l’unico protagonista dell’impresa costruttiva ed anche l’autore di altre attività benefiche nei confronti della comunità ostiense. È possibile, come si è proposto, che egli vada identificato con il Flavius Gallicanus console del 330. A Ferentino (Lazio meridionale) si deve alla moglie di un Valerio Gaio la riedificazione “de suis propriis” di una “basilica”, forse anche in questo caso la chiesa cattedrale, distrutta, come attesta un’epigrafe assegnabile al IV secolo, “a saevissma persecutione”. A Fondi fu addirittura il ricchissimo burdigalense Meropio Ponzio Paolino, già consularis Campaniae (cioè S. Paolino di Nola, ritiratosi a vita ascetica, come si sa, nel 394, presso il santuario di S. Felice), a far erigere, dieci anni più tardi, una chiesa – ancora quasi certamente la cattedralededicata agli apostoli. Come egli ci informa in una lettera, fu proprio il fatto di possedere una grande tenimento nella zona di Fondi a spingerlo verso questo atto di generosità, improntato ad un sentimento di “civica caritas”. 3. La stragrande maggioranza delle fonti scritte evidenzia, dunque, il ruolo svolto dall’evergetismo aristocratico nel garantire, nelle campagne, la presenza di edifici di culto utilizzabili per le necessità cultuali e pastorali (chiese parrocchiali). Le Chiese locali, come quella di Roma e come quelle di altre regioni della penisola, mettevano a profitto le possibilità economiche dei ricchi possesores per dotare le campagne di strutture idonee allo svolgimento della propria missione. I fondatori ricorrevano volentieri, come in antico, all’evergetismo per ostentare il proprio rango sociale, ma anche, ormai, come hanno chiarito i numerosi studi Come a Roma, ed è fatto da rilevare- anche nel Lazio non si registrano interventi significativi dell’élite nei santuari 93 martiriali. Qui l’evergetismo monumentale aristocratico, sia nelle città che nelle campagne, si limitò alla donazione ex voto di elementi di arredo liturgico, all’abbellimento di tombe di martiri, alla donazione di terreni per il sostentamento di un santuario. In questo campo fu direttamente l’intervento del clero, e segnatamente dei vescovi, a promuovere la costruzione di basiliche martiriali. Ciò che pare comune ad altre regioni del mondo antico e che può spiegarsi piuttosto agevolmente con la volontà, sempre fortemente mostrata dai vescovi, di un controllo diretto del culto dei santi. Il pericolo di una appropriazione delle devozioni, di una loro “privatizzazione”, con le deviazioni cultuali che ne potevano seguire, può giustificare la diffidenza delle gerarchie ecclesiastiche nell’accettare il coinvolgimento diretto di privati laici nella realizzazione dei grandi santuari. È esemplare, in questo senso, il caso del santuario di S. Alessandro nella diocesi di Nomentum, alle porte di Roma: fu grazie alla donazione ex voto della clarissima femina Iunia Sabina e di un tal Delicatus che si costruì l’altare che conteneva le spoglie dei martiri Alessandro ed Evenzio; ma fu direttamente il vescovo Urso, come attesta una grande iscrizione dedicatoria, il protagonista del grande intervento di ristrutturazione che, agli inizi del V secolo, mutò l’assetto dell’importante santuario. negli anni venti del secolo scorso, si configurava come un grande recinto a cielo aperto, contenente sepolture scavate sul piano di campagna (due di esse erano coperte con iscrizioni lapidee che recavano le date del 381 e 385). Ai ricchi fedeli appartenenti all’élite rimase, tuttavia, la possibilità di promuovere la creazione di un’area funeraria comunitaria, un cimitero, come sappiamo avveniva a Roma, in seno alla comunità cristiana, sin dalla più alta antichità, ed al fine di garantire ai più poveri dei “fratelli” una adeguata sepoltura. Il caso di Faltonia Hilaritas che, presso la mansio Ad Sponsas della via Appia (territorio di Velletri), fece realizzare un “coemeterium”, “a solo, sua pecunia”, per i correligionari (“huic religion donaviti”), è eloquente; l’area funeraria, come hanno appurato gli scavi condotti 4. Due parole di conclusione. A Roma e nel Lazio risultano attivi, soprattutto tra la metà del IV secolo e la metà del VI, talvolta i medesimi personaggi appartenenti all’élite aristocratica (Pammachio, Flavio Felice, Valila, Galla): segno di una prassi comune in seno alle comunità, che interessava la città e il suo hinterland. Gli evergeti, stando alla documentazione, sembrano intenti soprattutto a promuovere la costruzione di chiese con funzione di cura animarum (tituli, paroeciae), forse nel quadro di una strategia comune delle gerarchie ecclesiastiche, attestata anche in altre aree, Il coinvolgimento delle classi sociali più modeste nella costruzione di edifici di culto nel Lazio (come già a Roma) risulta, come è ovvio, scarsamente documentato. Ad un atto di generosità verso la comunità, in misura ovviamente commisurata alle proprie risorse, erano, come si sa, in effetti tenuti anche i meno abbienti, sempre nell’ottica dell’acquisizione di meriti nella prospettiva della vita ultraterrena. I semplici nomi di offerenti che si leggono nei pavimenti musivi di molte chiese dell’Italia del nord e della Dalmazia sono stati a ragione messi in relazione dal Caillet, appunto, con i membri delle varie comunità appartenenti agli strati sociali più modesti (come confermano, talvolta, specifiche informazioni sui mestieri da essi svolti in vita). In qualche modo assimilabile a questa documentazione è possibile sia da ritenere, nel Lazio, quella fornita da due iscrizioni su capitelli reimpiegati, conservati in una chiesa di carattere parrocchiale ad Interocrium (Sabina), citata nei “Dialoghi” di Gregorio Magno: i semplici nomi sui due elementi dell’arredo architettonico testimoniano, forse, la partecipazione di membri di rango sociale meno elevato alla costruzione della chiesa. 94 che mirava ad utilizzare la prodigalità dei possessores per garantire alle comunità soprattutto strutture cultuali di base. Nel Lazio, l’ampia diffusione del fenomeno in ambito rurale può spiegarsi agevolmente, come ha proposto di recente Luce Pietri, con la presenza, nella zona, della maggior parte delle grandi proprietà delle famiglie di origine aristocratica (ma anche, forse, con la maggiore libertà che i possessores godevano, nelle campagne, nel fondare e poi utilizzare le chiese). Se le città furono i luoghi dove più precocemente si manifestò nell’élite la prassi di realizzare edifici di culto per la comunità, le campagne paiono investite dal fenomeno soprattutto dalla metà del V secolo fino alla metà del VI; epoca che coincide con la grande stagione della cristianizzazione e dell’organizzazione del culto dei territori rurali in Italia ma anche con l’ultimo periodo in cui l’antica aristocrazia ebbe modo di manifestare la propria liberalità per ostentare, in linea con la più genuina tradizione dell’evergetismo classico, il proprio rango sociale. 95 significative preesistenze romane. Anche in Lombardia, dove la mancanza di un corpus impone cautela sulle conclusioni, la relazione tra reperti scultorei ed edifici pievani o monastici appare evidente e in questo contesto assume un valore emblematico l’eccezione rappresentata dall’oratorio dei Santi Primo e Feliciano a Leggiuno (Varese), fondato dal vasso regio Eremberto nell’846, che lo dotò di reliquie e di arredi in marmo proconnesio di fattura bizantina. Tra clero e aristocrazie: tracce per uno studio della committenza della scultura liturgica nel territorio Monica Ibsen Questo intervento si propone di analizzare le dinamiche della committenza degli arredi liturgici nello specifico contesto del territorio, rinunciando ad affrontare in questa sede lo scenario urbano. Focalizziamo in primo luogo l’attenzione sugli oratori per cogliere la temperatura della commmittenza privata in quello che è, a tutta prima, il suo terreno di manifestazione privilegiato. Una verifica su un un’area campione come il Garda veronese – dove la trasmissione di oltre 120 frammenti nel territorio di otto distretti pievani offre una certa attendibilità statistica – consente alcune valutazioni sulla distribuzione della scultura liturgica, che appare concentrata nelle chiese battesimali o in centri, come Garda, sede di magistrature pubbliche, nonché nelle chiese monastiche. Il ricorso all’arredo scolpito sembra dunque subordinato a precise condizioni legate in primo luogo alla funzione dell’edificio e allo status sociale del committente. San Vito di Cortelline, presso la rocca di Garda, mette chiaramente in luce i meccanismi della committenza: nell’ oratorio oltre ai frammenti di una recinzione si conserva la lastra di chiusura di una nicchia reliquiario recante l’iscrizione dedicatoria dei committenti, Ieroldo prete con il fratello Rotperto e con Gaidiperto: sembra evidente una commissione nell’ambito di una cappella familiare, in cui la presenza di reliquie è destinata a garantire una sepoltura ad sanctos e, dunque, la salvezza ultraterrena per i donatori. In questo caso, l’arredo liturgico sembra dunque chiamato ad accentuare la presenza numinosa delle reliquie e l’epigrafe dedicatoria sull’oggetto più importante dell’edificio di culto diviene chiara manifestazione di una volontà di autorappresentazione e di celebrazione familiare. Dei 120 frammenti 63 provengono da chiese battesimali, 43 da cappelle monastiche o da fondazioni nell’ambito di corti regie – un’oscillazione legata alla situazione complessa di San Zeno a Bardolino – mentre solo 8 elementi appartengono a oratori campestri di sicura fondazione privata. Una situazione che trova conferma dall’analisi di altre aree dell’Italia settentrionale: nell’intera area veronese, i complessi scultorei sono connessi a edifici pievani o a fondazioni monastiche, un scenario in cui s’inquadrano anche episodi di evergetismo di altissimo livello, come quelli di Audone, arcidiacono e futuro vescovo, o di Audiberto abate di Santa Maria in Organo, attivi nel secondo quarto del IX secolo. Nel territorio piemontese è stata evidenziata una concentrazione dei reperti in edifici battesimali, santuari e chiese monastiche, mentre un numero minore di testimonianze sembra interessare edifici posti lungo gli assi viari o gli insediamenti con Alla luce dell’identità dei donatori, San Vito sembra accostabile ai tanti casi noti nella Tuscia dell’VIII secolo di esponenti del ceto medio terriero che si ritirano a vita religiosa adattando ad usi liturgici ambienti della propria casa o costruendo una chiesa presso di essa, per mettere al riparo se stessi e la discendenza da violenze e spoliazioni. La presenza di reliquie, poi, era destinata a 96 Nel V e VI secolo certamente non tutti gli oratori sono consacrati o luogo di celebrazioni liturgiche pubbliche: lo attestano la lettera di Gelasio al vescovo di Sora con cui si concede la sola celebrazione di riti funerari nella chiesa fondata da Magetia spectabilis femina, e quella di Pelagio I sull’esclusiva possibilità di celebrare messe private, escludendo messe pubbliche anche dalla cerimonia di consacrazione: tuttavia queste restrizioni valgono, probabilmente, negli anni di Gregorio magno ma difficilmente possono essere invocate nell’VIII secolo, per i quali al momento non abbiamo risposte. attirare donazioni e offerte da parte dei fedeli e a conferire prestigio e si rivelava quindi un investimento efficace sul piano economico e sociale almeno quanto sul piano spirituale. Gli elementi della recinzione sia sul piano stilistico sia su quello esecutivo si rivelano di ben modesto livello: non è solo l’affastellamento dei motivi ma la rinuncia ad abbassare e a finire il piano di fondo, che denuncia un lavoro condotto con modestia di mezzi che contrasta con la scelta – eccezionale – di marmo: si è davanti ad evidenza ad un lavoro condotto con economia di tempi, e ad un committente di ridotte competenze culturali nella capacità di valutare il lavoro fornitogli e forse con disponibilità economiche che non consentivano ulteriori fasi di lavorazione dell’arredo stesso. Caratteri che non trovano riscontro in nessuno dei frammenti di arredo provenienti da chiese battesimali. Va anche tenuto in considerazione che le risorse potessero essere dirottate su altri aspetti dell’arredo liturgico: il polittico di Santa Giulia attesta inequivocabilmente la presenza di tessuti, oreficerie e libri nelle cappelle delle curtes, e la loro menzione negli inventari manifesta anche il rilevante valore economico di tali dotazioni. La presenza delle reliquie in questo caso suggerisce una motivazione alla commissione di una recinzione liturgica scolpita, che dipende da una serie di variabili: certamente la presenza di recinzioni lignee obbliga a riflettere sulle motivazioni economiche che dovevano precludere la commissione di sculture in pietra alla maggior parte dei fondatori di cappelle private. L’alto costo non può essere tuttavia l’unica spiegazione: questo almeno sembrano dimostrare alcuni edifici legati a gruppi familiari di un certo rango in cui non è stata trovata traccia di arredo, come Mombello, in Piemonte. Non è da escludere che una recinzione fosse vista come accessoria nel caso di un oratorio familiare, e che invece venisse approntata qualora la chiesa servisse una sia pur ristretta comunità, oppure che fossero determinanti motivazioni liturgiche, legate alla natura delle celebrazioni o alla presenza di reliquie. Ad esempio San Gervasio di Centallo, ancora in Piemonte, venne ricostruita tra VI e VII secolo ma dotata di una recinzione in pietra solo nell’VIII. La fondazione e dotazione di oratoria nei propri possedimenti non doveva esaurire le modalità di intervento delle aristocrazie presso gli edifici di culto. Ci si deve chiedere quale fosse la relazione delle elites con le pievi: non è plausibile che l’evergetismo dei grandi possidenti che aveva condotto alla fondazione di edifici battesimali entro ville o al finanziamento partecipato dei mosaici pavimentali delle basiliche episcopali e funerarie si sia esaurito nel VI secolo: il tessuto pievano nel VI e VII secolo era ben lontano dal raggiungere l’articolazione che emergerà nell’VIII, e dunque, con modalità che tuttora sfuggono, nel periodo tra la fine del VII secolo e i primi decenni del IX deve collocarsi un processo di promozione di luoghi di culto di fondazione privata o vescovile a centri battesimali. In territori in cui non siano presenti fondazioni monastiche in grado di attirare donazioni pro remedio animae e di innescare iniziative di committenza, è 97 intervento all’interno dei complessi pievani: le espressioni “cum suis” e quelle più circostanziate che ricordano i parenti nella dedica di arredi da parte di ecclesiastici, sono da leggere come testimonianza del coinvolgimento dei gruppi familiari aristocratici nella promozione artistica delle chiese battesimali, che ben si spiega attraverso le modalità di reclutamento del clero minore. La formazione fin dall’infanzia nella chiesa battesimale, la frequente elezione da parte del popolo dei fedeli, la nomina da parte del fondatore o di un suo erede in caso di chiesa privata, attestate almeno dal VI secolo e fino all’età carolingia, dovevano certamente favorire la relazione tra l’ufficio presbiterale o diaconale e le famiglie notabili locali; è possibile allora ipotizzare che il presbiter da un lato orienti l’evergetismo dei familiari, dall’altro divenga il canale attraverso cui le élites possono intervenire nelle chiese battesimali. Per altro verso la relazione con le strutture diocesane e l’ambiente delle cattedrali potè favorire una preparazione culturale del clero pievano tale da renderlo in grado di commissionare opere d’arte, elaborare o valutare modelli e schemi e dettare tituli ed epigrafi. probabile che questo ruolo, almeno in una certa misura, sia stato assolto dalle pievi, dove i grandi possidenti locali avevano modo di imitare l’azione dei grandi dignitari del regno, sia pure con modalità peculiari, commisurate al contesto. Un esempio tardoantico di coinvolgimento delle élites nella promozione artistica delle chiese locali è fornito dal mosaico della pieve di Inzino (Bs) e l’esempio bresciano del sarcofago di Mavioranus nella pieve di Gussago (VIII secolo) testimonia come gli esponenti di una piccola aristocrazia guerriera e terriera radicata sul territorio, potessero imitare i comportamenti della grandi elites del regno nelle chiesa battesimali. Qui l’iniziativa privata poté trovare espressione attraverso alcuni canali precisi: 1) donazioni di reliquie con strutture per la loro deposizione ed esposizione; 2) donazione di arredi di prestigio; 3) monumenti funerari. Un capitolare di Pipino del 782 riconosceva del resto l’obbligo di provvedere ai restauri nelle chiese battesimali e negli oratori a coloro che fino allora se ne erano fatti carico, stabilendo inoltre la permanenza dei poteri che vi avevano sino allora esercitato tanto la corte regia, quanto i privati: è un dato che, se non consente di precisare le modalità, attesta esplicitamente che l’intervento dei laici non era confinato alle chiese di fondazione privata. L’intervento di Teupo si inquadra senza equivoci nell’ambito dell’evergetismo ecclesiastico, su cui è disponibile una discreta serie di episodi documentati anche nel contesto delle chiese battesimali, sia nei territori della Langobardia, sia nella Romania: si pensi alle epigrafi di Invillino, di San Giorgio Valpolicella, di Ravenna, Cortona, Bagnacavallo, Budrio, ecc. tutte legate ad arredi databili entro il primo quarto del IX secolo. Ancora nel Garda orientale, l’evergetismo privato in un contesto battesimale sembra sotteso alla fondazione del sacello di San Pietro presso la pieve di Cisano: di esso un’iscrizione del X secolo – che in parte copia un’epigrafe più antica – ricorda l’edificazione votiva e la deposizione di reliquie di san Pietro da parte di un presbitero, il cui nome è perduto, “cum suis”, e il restauro da parte di un altro prete, Teupo, che interviene “pro anima sua et parentibus suis”. L’episodio più antico attesta la stretta relazione tra élites e clero locale e la possibilità per le prime di La scansione cronologica di queste testimonianze epigrafiche, che coincide pienamente con la documentazione su altri ambiti di committenza ecclesiastica, sembra peraltro suggerire che il “vuoto del VII secolo” corrispose ad un momento di stasi nell’attività evergetica all’interno del 98 del ceto di possidenti abbia seguito l’esempio dell’aristocrazia e sia entrato nei quadri ecclesiastici, non solo dei monasteri, ma anche della chiesa locale, utilizzando quest’ultima come rifugio per le proprie ricchezze? Nonostante l’elevato grado di continuità rilevato nella società longobarda, che mantenne e talora incrementò i propri beni dopo la sconfitta del 774, è possibile ipotizzare anche per esponenti del “ceto medio terriero” la messa in atto di strategie affini a quelle dell’aristocrazia? La documentazione dell’VIII secolo, con le numerose fondazioni di oratori vincolate al diritto di nominare il rettore tra i propri discendenti, sembra indicare una tendenza in questo senso: se questo atteggiamento, che tradisce la preoccupazione di assicurare la trasmissione del patrimonio ad una linea di discendenza, negli anni del passaggio dal regno longobardo alla dominazione carolingia si fosse radicato, si potrebbe individuare un altro dei canali che assicurarono alle chiese battesimali risorse per la provvista di arredi che si evidenzia negli ultimi decenni dell’VIII secolo. Questo potrebbe divenire anche una delle radici della continuità figurativa che si riscontra in aree come quella veronese, dove fino agli anni quaranta del IX secolo non si avverte traccia del linguaggio figurativo carolingio. tessuto medio della società laica ed ecclesiastica, evidentemente non in grado (per mancanza di risorse, per difficoltà nella stessa pratica religiosa) di imitare gli esempi di evergetismo della corte di Pavia e di alcuni vescovi: d’altra parte già dalla fine del V secolo le lettere di Gelasio I, e, soprattutto, nel VI l’epistolario di Gregorio magno mettono in luce la penuria di sacerdoti nelle chiese battesimali, una crisi che appare superata tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII, quando la rete pievana apparirà finalmente consolidata e stabile. Le numerose sottoscrizioni di presbiteri – per la maggior parte titolari di chiese pievane – consentono di leggere l’attività del clero locale come riflesso e corrispettivo di quella dei vescovi nelle chiese episcopali, ma si deve riflettere sulla posizione del clero stesso rispetto all’ordinamento diocesano e alle aristocrazie locali: la documentazione epigrafica, con l’evidente uniformità delle pratiche evergetiche del clero della Langobardia e della Romania, definisce un contesto in cui non pare avere alcuna influenza il quadro politico e in cui gli ecclesiastici si orientano verso commissioni prestigiose e ne lasciano memoria, associando spesso al proprio nome i familiari. La frequente enumerazione delle autorità civili ed ecclesiastiche indica, inoltre, una sicurezza del proprio ruolo e una consapevolezza del valore dell’opera realizzata, quasi una personale dichiarazione di appartenenza al rango delle autorità. In conclusione nel contesto della committenza di arredi liturgici mi sembra possibile individuare proprio nel clero l’elemento trainante, in primo luogo per competenze culturali, in grado di coagulare le risorse economiche e le energie delle aristocrazie locali, il cui intervento comunque appare massiccio e determinante. D’altra parte, la legislazione ecclesiastica destinava al rettore della pieve non trascurabili risorse, utilizzabili per interventi evergetici e non è da escludere che, agli inizi del IX secolo, la legislazione carolingia sulla decima, offrendo garanzie di stabilità e continuità di risorse liquide, abbia in qualche modo favorito le iniziative di rinnovo degli arredi liturgici, contribuendo all’escalation della produzione scultorea dei primi decenni del IX secolo. La complessità dello scenario e delle motivazioni può essere illustrata al meglio da un ultimo esempio: Santa Giustina di Palazzolo conserva un’ingente serie di arredi scultorei, realizzati in fasi successive ma ravvicinate; tra questi ci sono due singolari lastre con ogni probabilità destinate a chiudere dei depositi reliquiario nella muratura. Queste lastre furono realizzate sullo scorcio dell’VIII secolo insieme con altri In relazione esclusivamente all’Italia longobarda, s’impone un’altra osservazione: è possibile che, almeno in parte, il livello medio 99 elementi: è plausibile che sia stata proprio la presenza di importanti reliquie a consentire alla chiesa di assumere dignità battesimale a scapito della pieve di Sandrà, cui sottrasse un modesto lembo di territorio, a ridosso della via Gallica. La provvista di arredi potrebbe coincidere con la promozione dell’edificio a chiesa pievana: il contrasto tra la ricchezza degli impianti liturgici e l’esiguità di risorse che un territorio così limitato poteva assicurare al rettore sembra offrire la conferma di un intervento delle aristocrazie cui ricondurre l’intera operazione. 100 sterminata e comprende opere che costituiscono vere e proprie “pietre miliari” della medievistica italiana – o di argomento italiano dell’ultimo quarantennio. Basti pensare a quella di Del Treppo sul Molise, del 1968, di Toubert sul Lazio, del 1973, di Castagnetti e di Settìa sull’Italia padana, rispettivamente del 1982 e del 1984 nonché i lavori di Kurze sulla Toscana meridionale, distribuiti tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, di Wickham sull’Etruria Meridionale e sull’Abruzzo interno, apparsi tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. Questo aspetto si riconferma pienamente, ad esempio, con i più recenti lavori di Martin sulla Puglia, del 1993, di Feller sull’Abruzzo costiero, del 1998 e di Adele Cilento sulla Calabria, pubblicato nel 2000. La gestione dei patrimoni fondiari della Chiesa (domuscultae papali e curtes monastiche)** Federico Marazzi L’argomento del mio intervento, indicato nel titolo che avevo inizialmente proposto, si è rivelato di gran lungo troppo ambizioso per poter essere appropriatamente trattato nel tempo e nello spazio disponibili all’interno del programma del convegno. In ragione di queste considerazioni, ho deciso di scegliere un “taglio” che lo delimiti entro un preciso terreno di riflessione. Più appropriatamente, quindi, l’oggetto di questa comunicazione si potrebbe intitolare: “La rappresentazione dei patrimoni monastici nella documentazione scritta e l’evoluzione del tessuto insediativo rurale fra IX e XI secolo dell’Italia centrale e meridionale. Riflessioni preliminari a partire da alcuni prvilegi di confirmatio bonorum imperiali e papali”. La rilevanza delle intersezioni tra la ricerca sulle fonti scritte ed il crescente lavoro sul campo condotto dagli archeologi, a partire dalla fine degli anni ’70, per la definizione dei processi evolutivi delle forme insediative altomedievali, è altrettanto ben nota. È d’uopo sottolineare come un’indiscussa centralità, per la concretizzazione questo fecondo incontro, abbia rivestito il tema della comprensione di tempi e morfologie di formazione dell’ insediamento nucleato, nell’arco di tempo compreso fra VIII e XI/XII secolo. L’apporto delle fonti scritte per la conoscibilità delle forme d’uso del territorio nell’alto medioevo – con particolare riguardo alle forme dell’insediamento ed alla storia agraria - si nutre in gran parte delle informazioni fornite dai cartulari di origine ecclesiastica; tra questi, quelli riferibili ad enti monastici rivestono un ruolo senza dubbio di tutto rilievo. La bibliografia che dimostra questo assunto, quasi ovvio da ribadire, è È forse superfluo, di fronte ad un pubblico composto in buona parte da medievisti, rievocare quando e per opera di chi si sia verificato il compiersi questi destini incrociati, ma forse vale la pena rammentare che alcuni di essi sono stati costruiti in vitro, con l’intento di confrontare viste diverse sullo stesso problema e – perché no – sperando che i diversi percorsi potessero mutualmente corroborarsi. ATTENZIONE: in questa stesura provvisoria del testo, le citazioni delle fonti e della bibliografia sono state lasciate “en abrégé”. Le citazioni dei diplomi pontifici, regi e imperiali sono dati in generale solo in rapporto alle edizioni delle cronache monastiche dalle quali tali documenti sono stati tratti nell’ambito della presente ricerca; le loro citazioni nell’ambito delle più recenti edizioni critiche saranno fornite in sede di redazione definitiva del testo. Chiedo di voler scusare le eventuali vischiosità espositive di questo testo, dovute alla compressione dei tempi della sua stesura ** Vengono immediatamente in mente esperienze come quelle avviate da Martin e Noyé sugli insediamenti della Puglia tra bizantini e normanni, da Wickham e Hodges sull’alta valle del Volturno, da Francovich e Ceccarelli Lemut, sulla Maremma Grossetana, 101 comparativi tra i dati delle fonti scritte e quelli delle fonti archeologiche. principalmente in rapporto scavo di Scarlino e mi permetto di ricordare anche la personale esperienza di studio, sulla scia di più illustri predecessori quali Luttrell, LLewellyn e ancora Wickham, sull’insediamento nel territorio a nord di Roma, in connessione con lo scavo di Mola di Monte Gelato, sotto la direzione del compianto Tim Potter. Va detto tuttavia che tali progressi sono dovuti più che altro agli stimolanti esiti delle indagini condotte su pochi siti (e su ancora meno pubblicati in modo sufficientemente ampio), che sono assurti a riferimenti paradigmatici su scala nazionale, come Brucato, Invillino, Montarrenti, Poggibonsi. In realtà, la comprensione del fenomeno dell’incastellamento è ben lungi dall’essere pienamente focalizzata nei diversi quadri regionali, e molti di essi sono ancora totalmente oscuri. Peraltro, negli ultimi anni, si è anche notato un certo affievolimento dell’interesse nella prosecuzione del confronto fra storici ed archeologi, per la prosecuzione del comune lavoro nella lettura comparata delle testimonianze che, nelle rispettive discipline, possano contribuire ad accrescere le conoscenze sulla evoluzione delle morfologie insediative nell’Italia dell’alto medioevo, ed in particolare della parte finale di esso. In particolare, ricchezza e densità d’informazioni rilevabili sia sul territorio che nelle fonti scritte – per l’alto medioevo generalmente già edite – relative agli insediamenti castrali, e la capacità che tale soggetto di ricerca possiede di sollecitare collegamenti con altri temi storici di grande rilievo, come quello degli equilibri tra poteri locali e tra questi e le istanze politiche a dimensione sovraregionale, hanno giocato senza dubbio un ruolo decisivo per conferire ad esso una indubbia centralità nella medievistica italiana o di argomento italiano, soprattutto tra la seconda metà degli anni ’70 e la prima metà dei ’90 del XX secolo. Dunque, in virtù delle peculiari modalità di conservazione delle fonti scritte, il nesso tra conoscenze sui patrimoni monastici e dati sulle morfologie insediative altomedievali appare profondissimo. Ciò ovviamente non significa, di per sé, identificare nelle istituzioni monastiche le uniche entità propulsive, soprattutto in ambito rurale, di investimenti, riorganizzazioni e trasformazioni della rete insediativa fra VIII e XI secolo, bensì solo riconoscere doverosamente che attraverso quanto sopravvive sulla documentazione della loro gestione patrimoniale, costituisce un punto di vista privilegiato sulla leggibilità di questi fenomeni. Con il presente intervento, vorrei cercare di offrire un contributo che possa servire a riaprire la riflessione su tale “fronte congiunto” di ricerca, prendendo le mosse dalla rilettura di un particolare tipo documenti, presente in più o meno tutti i principali cartulari monastici dell’Italia centromeridionale: i privilegi di confirmatio emessi per questi enti particolarmente dai rappresentanti pro tempore delle due autorità universali per eccellenza del medioevo occidentale: gli imperatori (o i re d’Italia) e i romani pontefici; ad essi si accostano, in taluni casi, documenti di analoga natura emessi dai principi di Benevento. Mi concentrerò principalmente sulle evidenze documentarie di questo tipo relative a Farfa, Montecassino, San Vincenzo al Volturno, Santa Sofia di Benevento e, sia pure solo indirettamente, di San Clemente a Casauria. Parlando in particolare della fenomenologia del villaggio accentrato altomedievale, i progressi recenti dell’esplorazione archeologica hanno ampliato notevolmente le vedute sull’estensione cronologica e le tappe formative di tale tipo insediativo, fornendo piani di lettura che hanno messo profondamente in discussione la possibilità di costruire comodi automatismi 102 livello di autenticità del singolo documento nel suo complesso e nelle sue singole parti. L’entità di tale problema è stata recente risollevata da Zielinski, nell’analisi dei falsi precetti longobardi e carolingi per Montecassino e San Vincenzo al Volturno (CDL IV,1, pp.*85-156). Ricordo solo di sfuggita, infatti, che questi corpora documentari non sono quasi mai costituiti da carte originali, ma sono frutto di trascrizioni e sono stati inseriti all’interno di compilazioni di vario tipo, redatte generalmente fra XII e XIII secolo, con il precipuo scopo di difendere la memoria del rilievo politico di queste istituzioni e, contestualmente, proprio la capacità di controllo sull’asse patrimoniale, accumulatosi in molti secoli di storia. Non mi dilungherò in questa sede (lo farò se mai al momento di redigere il testo definitivo della presente comunicazione) a ricordare nel dettaglio l’opera di Leone Ostiense o Pietro Diacono a Montecassino, del monaco Giovanni a San Vincenzo al Volturno, di Gregorio da Catino a Farfa, di Giovanni di Berardo a San Clemente a Casauria o dell’anonimo compilatore del chronicon di Santa Sofia di Benevento. Ciascuna di queste opere segue un suo metodo, ma alla base di tutte vi è il pesante intervento di revisione, selezione e ricostruzione del patrimonio documentario – vecchio talora di quattro secoli – conservato presso gli enti in cui essi lavoravano. Il mio obbiettivo è quello di portare l’attenzione sui criteri di definizione delle proprietà monastiche presenti all’interno di questo tipo di documenti, e di proporre delle suggestioni relative alla utilizzabilità di tali criteri per un arricchimento delle possibilità di comprensione delle gerarchie insediative all’interno dei patrimoni monastici. Tali documenti, importantissimi per la storia religiosa e delle relazioni politiche delle istituzioni monastiche cui si riferiscono, hanno goduto forse di minor considerazione nell’ambito delle ricerche relative non tanto alla storia patrimoniale delle stesse, quanto alla morfologia dell’insediamento che all’interno delle pertinenze abbaziali si è sviluppato durante i secoli dell’alto medioevo. A questo fine, infatti, maggior rilievo è stato conferito agli atti privati, considerati da questo punto di vista più efficacemente descrittivi, e quindi più densi di informazioni sulla struttura e sull’organizzazione produttiva dell’insediamento, ma anche sulla posizione sociale e i ruoli operativi delle persone che vi abitavano, sulle politiche gestionali dei beni patrimoniali e sugli eventuali interlocutori scelti o in vario modo utilizzati dagli amministratori monastici per l’attuazione di tali politiche. I documenti pubblici di confirmatio bonorum, rivestono invece una certa importanza per la storia patrimoniale per se degli enti monastici, in quanto di frequente contengono le liste, talora anche abbastanza lunghe e dettagliate, delle loro pertinenze patrimoniali, che gli abati – o i loro delegati – facevano avallare dalle autorità cui si rivolgevano, affinché il possesso di tali beni venisse loro riconosciuto sine molestia. I diplomi di confirmatio imperiali e papali si occupano grosso modo di due ordini di problemi, peraltro intrecciati tra loro: la definizione dello status giuridico dell’abbazia, nei confronti dei poteri temporali e spirituali, e la ricognizione della sua base patrimoniale. Sfortunatamente non possediamo serie di diplomi simmetriche per tutti gli enti monastici presi qui in esame. I dati farfensi sono quelli che possiamo seguire per un periodo di tempo più lungo e sono apparentemente i più affidabili sotto il profilo diplomatistico: possediamo infatti documenti autentici già per il tardo VIII Questi documenti sono certamente quelli che pongono i maggiori problemi di esegesi all’interno dei corpora documentari cui appartengono, e ciò in virtù dei molteplici e complessi piani di lettura cui si prestano: primo fra tutti quello squisitamente diplomatistico, relativo all’accertamento del 103 ovvero come casalia o ancora come curtes. Non a caso il documento papale utilizza però l’altra denominazione. Attraverso di essa, infatti, si vuole certificare la propria capacità di riferirsi ad un ordinamento antico del territorio sabino, della cui conoscenza la Chiesa Romana è detentrice, in virtù del fatto che essa ha ereditato la sovranità sui territori laziali - di cui la Sabina tiberina viene ritenuta parte integrante - precedentemente sotto il controllo dell’Impero Romano d’Oriente. Lo strumento per gestire tale sovranità è la sottoposizione, dell’insieme dei territori interessati al progetto, alla rete dei patrimonia papali, che originariamente designavano i beni tenuti dalla Chiesa Romana in regime di proprietà privata. Il patrimonium si territorializza andando ad includere tutto un comprensorio geografico, sul quale vengono esatti dei censi a titolo non di pensio, bensì di tributum. A Farfa viene quindi imposto il censo annuo, come se il possesso delle sue proprietà le venisse “accordato” (concessum) dietro preventivo riconoscimento di una loro originaria appartenenza ad un publicum che è in capite al papato. secolo, e la serie si estende sino all’inizio del XII secolo. Per gli altri monasteri, sfortunatamente, vi sono maggiori dubbi sull’autenticità dei praecepta confirmationis che li riguardano, il che comporta che l’esame delle condizioni giuridiche cui il monastero è sottoposto e della sua geografia patrimoniale è effettivamente possibile solo a partire dal X secolo, con pochi frammenti di evidenza per le fasi carolinge. Inizierò quindi dalla serie dei documenti farfensi, nella quale il primo documento di confirmatio bonorum che riporti una precisa menzione di beni oggetto di conferma da parte di un sovrano, è un privilegio rilasciato da Ludovico il Pio nell’815, che menziona nominativamente solo una serie di quattro monasteri (due presso Spoleto, uno presso Rieti, uno nel territorio di Fermo), una chiesa (presso Rieti), nonché un gualdo e due curtes in Sabina. Poco dopo, nell’817, il papa Stefano IV emette per Farfa un preceptum che è concessionis et confirmationis dei beni fondiari elencati. Esso comprende una lunghissima lista di beni, costituita da 170 fundi, 2 gualdi e 13 casales, tutti ricadenti in area sabina, il cui possesso viene sì riconfermato all’abbazia, ma per il quale essa dovrà corrispondere alla Chiesa Romana un censo ricognitivo annuo, in quanto parte del patrimonium sabinense della Chiesa Romana. Farfa, come è noto, rifiuta recisamente tale impostazione del problema. Nello stesso 817, morto Stefano IV e salito al soglio Pasquale I, l’abate sabino Ingoaldo ottiene l’esenzione dal censum, quantunque l’atto di Stefano IV dovesse essere stato l’ultimo di una serie che risaliva probabilmente ai tempi di Adriano I. È interessante notare che il privilegium confirmationis di Pasquale (RF 225) assume un aspetto affatto diverso da quello del predecessore, caratterizzandosi come un intervento sostanzialmente a difesa delle prerogative di libertà spirituale del cenobio farfense all’interno non più dei patrimonia su cui la Chiesa reclamava il proprio controllo politico, ma all’interno di tutti quei comitatus italici – quindi le circoscrizioni pubbliche carolingi – all’interno dei quali Farfa vantava delle pertinenze patrimoniali. Per evidenziare ciò, la lista delle pertinenze farfensi viene stilata definendo le stesse “alla romana”, cioè come un elenco costituito in schiacciante maggioranza (circa il 92%) da beni definiti come fundi, citando perfino – quando non fossero stati detenuti per intero dall’abbazia - quante unciae di essi fossero effettivamente in possesso di Farfa, come se le notizie ad essi relative fossero state tratte da formae censuales romane perfettamente aggiornate, di cui la cancelleria papale avesse la disponibilità. Nei documenti farfensi precedenti all’817 tali beni erano solo di rado definiti in questo modo, ma li troviamo menzionati piuttosto come generici loci, Il regesto di Farfa e il Chronicon Farfense riportano traccia degli interventi imperiali, sollecitati dall’abate Ingoaldo durante gli 104 pure l’imperatore conferma la pertinenza a Farfa, ma solo dopo averglieli formalmente riconcessi. I beni del publicum restano tali per sempre agli occhi del sovrano, e la disponibilità per il monastero deve essere da lui riconfermata, in quanto – in linea di principio – tali beni potrebbero essere ricollocati a favore di altri. Tale costume era certamente vigente nel mondo franco, ma non mancano esempi di analoghe decisioni anche in ambito longobardo (Grossi, Le abbazie, pp.59-61). Così, ad esempio, avevano operato nell’VIII secolo, il duca Gisulfo II di Benevento nei confronti di beni che il suo predecessore Godescalco aveva donato a San Vincenzo al Volturno (RDIM, 331 e 344) e Arechi II nei confronti di quello di San Giovanni a Porta Aurea di Benevento (RDIM, 368). Questo modus operandi derivava da tradizioni proprie già del fisco imperiale tardoantico e i papi lo avevano certamente applicato nell’ambito della gestione dei patrimonia beati Petri in epoca bizantina, ben prima che questi si trasformassero nello strumento per costruire una nuova ipotesi di controllo territoriale sul Lazio (Marazzi, Patrimonio, pp. 152 – 153). anni ’20 del IX secolo, al fine di riportare l’abbazia fuori dalle panie in cui l’amministrazione pontificia voleva incastrarla, ribadendo la sottoposizione del cenobio esclusivamente all’autorità imperiale. Peraltro Farfa – non dissimilmente da altri monasteri – vedeva le proprie pertinenze fondiarie, anche nei confronti del potere imperiale, sottoposte a diversi regimi giuridici. Chiarisce il problema il privilegio di conferma dei beni farfensi emesso da Lotario I nell’840 (RF 282), a sanatoria finale della diatriba con il papato, riapertasi ancora con ulteriori iniziative di Pasquale I. L’intervento imperiale ricorda la revestitio di Farfa della proprietà dei beni posti in questione dalla Chiesa romana tam in territorio sabinensi quam et in Romania sitas, ma ribadisce la tuitio imperiale sul cenobio, così come avveniva sin dai tempi dei re longobardi e poi di Carlo Magno. Ma l’abate Ingoaldo vuole di più e chiede che la conferma della quieta possessio dei beni avvenga, da parte dell’imperatore, nominatim et singillatim, onde evitare futuri tentativi da parte di chiunque (ma del papato in primis) di mettere in questione i diritti abbaziali. Così viene compilata una lunghissima lista di beni che si apre con la ripetizione della lista di fundi contenuta nella confirmatio di Stefano IV; all’arcaizzante elenco pontificio viene associato il gruppo di chiese e monasteri a suo tempo confermato da Ludovico il Pio e poi un lungo elenco di res conferite al monastero, con i nomi che ad esso le avevano condonatae, senza descriverne in alcun modo l’effettiva consistenza ed articolazione patrimoniale sul terreno. Dunque, si capisce perfettamente sotto quali spoglie il papato avesse tentato di presentarsi all’abbazia di Farfa e perché gli imperatori fossero stati così solleciti nell’intervenire per ripristinare le loro prerogative sull’assiette foncière del cenobio sabino, appena le circostanze politiche lo avevano consentito alla morte di Stefano IV. La lista di fundi del territorio sabinense ricompare ancora, pressoché tale e quale, in un ulteriore privilegio di confirmatio bonorum emesso per Farfa da Ludovico II fra 857 e 859 (RF 300). Nel frattempo, se guardiamo alla successione degli atti che il Regesto Farfense contiene, riscontreremo sempre più chiaramente che essa si configura come un fossile, laddove l’effettiva morfologia dei patrimoni abbaziali vede prevalere una dimensione Alla fine, il documento si chiude con un’importante precisazione, secondo la quale si differenzia il regime entro il quale il monastero detiene i beni conferitigli dalle autorità pubbliche nel corso dei decenni della sua esistenza, per i quali 105 Per quanto riguarda invece la descrizione delle pertinenze patrimoniali, si ha in primo luogo la riproposizione della lista di fundi proveniente originariamente dal privilegio di Stefano IV, per descrivere l’articolazione dei beni fondiari nell’area più prossima al monastero, mentre compare per la prima volta un lungo elenco di possessi dislocati in varie aree geografiche dell’Italia centrale, interessate da un patrimonio ormai notevolissimo, benché forse non pienamente efficiente, a causa di alcuni decenni di conflitti interni alla comunità monastica. Questo elenco di beni “lontani” da Farfa si presenta con la caratteristica di essere articolato in monasteri, chiese e curtes. Tra queste ultime (40 su 53, dunque tre su quattro), prevalgono nettamente quelle la cui denominazione è costituita da un agionimo, e che quindi – assai presumibilmente – erano a loro volta denominate a partire dalla chiesa che si trovava all’interno del centro di coordinamento domaniale. Quindi, su 68 proprietà elencate, 54 (il 79 %) sono identificabili attraverso il luogo di culto principale che vi domina. di generale superamento delle partizioni fondiarie di origine antica. Non entrerò qui nel profondo del dibattito sulla natura più o meno conforme a modelli ultramontani di una gestione di tipo curtense del patrimonio del monastero sabino, ma è certo che prevalesse un tipo di sistema che prevedeva l’esistenza di centri di coordinamento domaniale di parti di esso, definibili come cella o curtis. Il documento RF 270 dell’829, ad esempio, è un giudicato per la restituzione a Farfa di alcuni beni: in esso se ne menzionano alcuni, elencati anche nel privilegio di Stefano IV come fundi, che appaiono invece in quest’ultimo come curtes. Il quadro descrittivo dei beni farfensi propone persistenze ma anche significative mutazioni con il privilegio di confirmatio bonorum emesso da Ottone I nel 967 (RF 404). Le persistenze sono da riscontrarsi su due piani: quello della definizione delle condizioni giuridiche di detenzione dei beni, e quello della modalità descrittiva degli stessi. Per quanto concerne il primo aspetto, vengono ripetute – esattamente come nei privilegi di età carolingia – tutte le formule relative alla protezione imperiale sulla libertà del monastero, ma anche alla detenzione dei beni fiscali in regime di concessio et confirmatio, cui si aggiunge la menzione (già presente a partire da un privilegio di Carlo il Calvo dell’875 – RF 318) dell’intento imperiale di restituire al monastero quicquid vero de predicti monasterii possessiones fiscus noster acquirere poterat, affinché ciò possa essere utilizzato per i poveri che il monastero sostiene (in alimonia pauperum) e per gli stessi monaci. Per brevità mi limito solo a segnalare – senza entrare nel dettaglio – l’analogia della destinazione in alimonia pauperum delle rendite fiscali con formule di documenti pontifici di VIII – IX secolo relative alla destinazione delle rendite di beni fondiari. Con il privilegio di Ottone III per Farfa del 998 (RF 425) si cambia definitivamente registro: le proprietà farfensi sono costituite solo da un elenco di 73 proprietà, suddivise per territoria e comitatus, idetificate come curtes (52), ecclesiae (17) e monasteria (2), più due terrae. Delle curtes, 34 sono identificate da un agionimo. Sommate alle ecclesiae e ai monasteria, arriviamo ad un totale di 53, che costituisce quasi il 73% del totale: un quadro non dissimile da quello del diploma di Ottone I. Sono scomparse tutte le liste di res, inserite a partire dal diploma di Lotario dell’840, nonché la lista di fundi comparsa per la prima volta nel diploma di papa Stefano IV, ma probabilmente risalente a una trentina di anni prima. È interessante notare che, effettuando un censimento complessivo dei toponimi 106 imperatori franconi nel 1084 (Enrico IV, RF 1099) e nel 1118 (Enrico V, RF 1318), dove si elencano ben 323 luoghi di culto dipendenti dal monastero, tra cui anche il monastero di San Vincenzo al Volturno! È interessante che 134 di questi si trovano in Sabina, territorio per il quale il diploma menziona solo due castelli, sui 29 in tutto di cui si cita il nome, quasi tutti curiosamente collocati in aree periferiche (zone di Todi e di Offida) rispetto ai tradizionali ambiti di gravitazione degli interessi patrimoniali farfensi. pertinenti le proprietà incamerate da Farfa nel corso dell’VIII e del IX secolo, si ottiene non solo che chiese e oratori costituiscono una minoranza nell’insieme della documentazione (siamo al di sotto del 20% del totale dei toponimi), ma che spesso sono citate come elemento interno alla proprietà di cui trattasi, vale a dire che normalmente si ha menzione del tale locus, o fundus, o casalis o ancora curtis o massa, cum ecclesia, e non viceversa, come appare predominante nei privilegi di epoca ottoniana, in cui la chiesa sembra essere l’elemento identificativo della curtis, quando non denominante un intero insieme proprietario. Sappiamo bene, dagli studi di Toubert (Structures, pp. 883 - 893) e Feller (Abruzzes, pp. 815 - 825), come la proliferazione delle chiese, dovuta soprattutto all’iniziativa dei privati (anche se poi frequentemente incamerate dai monasteri), sia un fenomeno che conosce un’accelerazione, per le aree laziali e abruzzesi, nel periodo postcarolingio, del resto non differentemente da altre aree d’Italia (Sergi, L’aristocrazia, pp. 3 – 22). Ma è un dato di fatto che il periodo compreso proprio tra i regni di Ottone I e di Ottone III sia quello, per Farfa, della nascita degli insediamenti castrali (Del Treppo, Terra, pp. 45 – 52; Fabiani, La terra, I, pp. 157 – 171; Toubert, Dalla terra, pp. 52 – 72). Tra i privilegi di Ottone I e Ottone III, ve ne è uno del secondo sovrano di questo nome, datato al 981 (RF 413) assai più sintetico. I beni non sono partitamente elencati, ma sono solo ricordati i distretti pubblici in cui ricadono. Fa eccezione un gruppo di nove chiese e una curtis nominate individualmente, delle quali tre nel territorium sabinense, e le altre sette che quasi sembrerebbero citate per coprire i principali territoria nei quali tradizionalmente Farfa deteneva beni fondiari. Questo privilegio è il primo nel quale, tra gli annessi delle pertinenze possedute nei vari ambiti territoriali, vengono genericamente citati anche i castella, ma non è ad essi riconosciuta alcuna particolare rilevanza nella definizione, vis-à-vis dell’imperatore, dei patrimoni monastici. Tale stato di fatto, definito dal privilegio di Ottone III, si riconferma e si consolida nei privilegi emessi per Farfa dagli Questa organizzazione descrittiva del patrimonio monastico, basata su chiese, monasteri e curtes identificate con chiese, appare come un dato assolutamente nuovo, che è però destinato ad affermarsi e che trova riscontri precisi anche nei privilegi di conferma di beni emessi per San Vincenzo al Volturno, Montecassino e Santa Sofia di Benevento, proprio a partire dall’età ottoniana. Mi asterrò qui dall’esaminare dettagliatamente tutti i documenti noti per i tre monasteri, cosa che riservo per la stesura definitiva del presente testo, e mi imiterò a rievocare i complessi problemi relativi alle interpolazioni che possono essere presenti nelle liste di dipendenze che compaiono in ciascuno di essi, solo quando sia strettamente necessario. Per San Vincenzo al Volturno e Montecassino disponiamo, oltre che di privilegi imperiali, anche di analoghi documenti emessi da pontefici. Le prime liste di conferme di pertinenze patrimoniali sono estremamente succinte per ambedue i cenobi. Iniziano alla fine del IX secolo per Montecassino, con un privilegio di Giovanni VIII (882), e con un privilegio di Marino II (944) per San Vincenzo al Volturno. Le dipendenze in essi citate (rispettivamente 7 e 9) sono costituite da chiese e monasteri dalla storica connessione con la casa madre. Con l’epoca ottoniana, per ambedue i cenobi, si assiste ad una crescita significativa nelle 107 Certamente, non tutto l’universo delle proprietà monastiche degli enti qui presi in esame è ugualmente coinvolto dalla “ristrutturazione dell’habitat per castra” (Toubert, Dalla terra, p. 52), e che in molti ambiti tale fenomeno sembra anzi essere largamente marginale. Per portare un caso concreto, basti pensare alle proprietà di san Vincenzo nella media valle del Volturno, tra Venafro e Capua, al di là del blocco fondiario dell’alta valle noto come terra Sancti Vincentii. Tuttavia, non si riesce ad evincere con chiarezza, dalla documentazione privata, come agisse, nella pratica concreta della gestione dei patrimoni monastici di X e XI secolo, il ruolo ordinatore e coordinatore delle ecclesiae, ovvero dei monasteri dipendenti e delle curtes comunque organizzate intorno a delle chiese. Probabilmente uno sforzo d’analisi della struttura di tali patrimoni a cavallo del mille, che non si limiti solo a considerare la vita all’ombra dei castelli è d’uopo venga promosso. elencazioni di dipendenze all’interno dei diplomi imperiali, costituite sempre da chiese e monasteri, ovvero da celle (Ottone II, CV 143 del 982), che sono però noti, da altri documenti, sempre come enti di natura ecclesiastica. Con un diploma di Ottone III per Montecassino (RPD 125) e con uno di Enrico II per San Vincenzo al Volturno (CV 185, del 1014), la lista delle pertinenze si accresce in maniera esponenziale, giungendo a 35 per quesrt’ultimo e a 63 per Montecassino. In queste liste, che si incrementano ulteriormente sotto gli imperatori della casa di Franconia e i primi papi della riforma, nella seconda metà dell’XI secolo, superando le 100 dipendenze per Montecassino e le 60 per San Vincenzo al Volturno, permane costante e immutata la caratteristica di veder elencate solo pertinenze di tipo ecclesiastico, talora definite come cellae. È praticamente assente – tranne eccezioni numericamente insignificanti - qualsiasi menzione di altre tipologie di beni, castelli compresi, che pure sappiamo essere presenti in modo cospicuo nelle pertinenze dei due monasteri. La serie di documenti contenuta nel Chronicon di Santa Sofia di Benevento non contiene praecepta confirmationis imperiali o privilegi pontifici che presentino liste di pertinenze anteriori rispettivamente a Ottone I (CSS, IV 1, 972) e Leone IX (CSS, V 2, 1054). Del resto, è proprio a partire dalla metà del X secolo che Santa Sofia diventa monastero autonomo da Montecassino. I criteri compositivi delle liste delle pertinenze di questo monastero sono quelli già visti per gli altri cenobi e così sono anche i ritmi di crescita del numero delle chiese dipendenti tra X e inizi XII secolo. La discrasia tra il quadro offerto sulla struttura proprietaria dei grandi monasteri dalla documentazione emessa dalle autorità sovrane, rispetto a quello che emerge dalla lettura della documentazione di origine privata non potrebbe essere più profonda. Ma se la documentazione pubblica conferisce a queste entità patrimoniali un’evidenza così esclusiva, dovevano esistere, per giustificare tale orientamento, ragioni forti, in base alle quali doveva costruirsi proprio l’ascendente sociopolitico di cui i grandi monasteri godono sul territorio tra X e XI secolo. Sfortunatamente, le fonti esaminate non forniscono indizi diretti rispetto alle scelte che presidevano alla modalità di descrizione dei patrimoni dei maggiori enti monastici nella maniera che abbiamo sin qui visto. La ricerca va probabilmente orientata cercando di comprendere la funzione delle chiese dipendenti, in relazione all’assetto giuridico di base delle grandi fondazioni monastiche. Su questo tema voglio perciò formulare qualche ipotesi di lavoro, da sottoporre comunque ad un ulteriore vaglio critico. Come si è accennato, trattando dello specifico caso di per Farfa, queste grandi abbazie crescono fra epoca longobarda e 108 delle discrasie tra questa lista e quelle che appaiono nei documenti di X secolo, ciò che interessa è notare la somiglianza tra la tipologia delle liste di questi due documenti e quella dei primi privilegi papali di esenzione dalla giurisdizione dell’ordinario per San Vincenzo al Volturno e Montecassino. carolingia su una base patrimoniale di partenza costituita da terreni fiscali. Questo dato è certo per la fondazione di Santa Sofia di Benevento da parte di Arechi II e per San Clemente, per opera di Ludovico II. La documentazione per Montecassino e San Vincenzo al Volturno adombra la medesima condizione di partenza, riaffermata dalla sottoposizione diretta all’imperatore dei due cenobi al momento della divisio ducatus beneventani dell’849, anche se vi è purtroppo una debolezza di fondo dell’affidabilità dei documenti pubblici di epoca longobarda e carolingia concernenti i due cenobi. Secondo un’analisi condotta da Giovanni Vitolo nel 1984 (Vitolo, Caratteri, pp. 19 – 28 e n. 52), è plausibile affermare che il piccolo nucleo di monasteri che troviamo aggregati a Montecassino e San Vincenzo al Volturno a partire dalla seconda metà del IX / prima metà del X secolo avesse a sua volta un’origine pubblica. Su questa embrionale “famiglia monastica”, almeno nel caso di Montecassino, interviene il papato, probabilmente già con Nicola I, e certamente con Giovanni VIII, dichiarandone l’esenzione dall’intromissione vescovile e la possibilità di svolgere un ruolo pastorale pubblico. La sanzione dell’indipendenza della “famiglia ecclesiastica” vulturnense, come si è detto, si materializza con certezza nel corso della prima metà del X secolo, anche se è plausibile ipotizzarne un’ulteriore antichità, risalente allo stesso Giovanni VIII (Picasso, Il pontificato, pp. 238 – 239; Houben, Potere politico, pp. 192 – 193). Vi è comunque un documento più antico di confirmatio bonorum, conservato nel Chronicon Vulturnense, risalente al regno di Ludovico il Pio (a. 819), del quale si considera sostanzialente l’impianto, quantunque viziato da interpolazioni (Zielinski, CDL IV/2, p. 104*; RDIM 584). Questo documento ci riconduce all’analogo emesso dallo stesso sovrano per Farfa nell’815, che si ricordava all’inizio; si tratta di un privilegio di conferma di una breve lista di possessiones (8 in tutto, contro le 5 di Farfa): si tratta di chiese e cellae e non chiese e monasteri, come nel caso del documento farfense, delle quali viene dichiarata la titolarità al monastero. Al di là L’ipotesi interpretativa che se ne può trarre è che si formi, già nel IX secolo, un nucleo sottoposto ad un particolare regime di libertà, tutelato dall’autorità imperiale, costituto dalla casa madre e da alcuni enti ecclesiastici dipendenti. Su questo (ma solo in alcuni casi particolari) s’innesta la concessione della libertà dall’ordinario territoriale, da parte del pontefice. In epoca ottoniana, di tale nesso – con le sue prerogative giuridiche è sperimentata l’espandibilità verso la “periferia” del patrimonio monastico, creando vaste reti di figliolanza spirituale tra l’abbazia madre e le istituzioni ecclesiastiche alle sue dipendenze, delle quali è parimenti garantita l’indipendenza nei confronti dell’ordinario territoriale. Che anche la tipologia della curtis o cella cum ecclesia avesse rilevanza, all’interno del sistema sin qui descritto, soprattutto in relazione alla presenza di quest’ultima, ce lo dice un privilegio di papa Gregorio VI per Farfa (RF 1239), del 1045 – 1046, importantissimo per la sua chiarezza, in cui si sancisce la libertà di convocare qualsiasi vescovo per consacrare gli altari delle chiese, non tantum in comitato Sabinensi, sed etiam in Marchia et in omnibus cellis suprascripto cenobio subiectis, vel ubicumque aiiquam possidet possessionem ecclesiasticam. Questo sistema, che come dice giustamente Vitolo, ha radici autoctone, si aggancia, nella seconda metà del X secolo, allo sviluppo che in Europa, in questo stesso periodo, presso le più importanti abbazie andava affermandosi, anche sulla scia dell’esperienza cluniacense, oltre che in direzione di un’assunzione di 109 (RF 877), ma ciò non significa che l’abate di Farfa sia mai stato ufficialmente insignito con titolature di tipo episcopale. Così come non avviene per gli abati di San Vincenzo al Volturno, che nell’iconografia degli inizi dell’XI secolo (Frammento Sabatini) sono ancora rappresentati con il bastone “a tau”, e non con il pastorale, che compare sicuramente nelle miniature del Chronicon Vulturnense agli inizi del XII secolo. Quello che interessava era l’indipendenza e l’unitarietà della gestione della rete ecclesiastica dipendente dalle grandi fondazioni per tradizione legate ai sovrani, affinché essi potessero contare, in tempi non facili, da questo punto di vista, su uno strumento in più di ancoraggio al territorio. Probabilmente – ma lo dico solo in via del tutto congetturale – l’incoraggiamento di un sistema di configurazione del patrimonio monastico attraverso una rete di rapporti tra casa madre e chiese dipendenti, poteva aiutare a istituire una forma unitaria di controllo di beni incamerati per varie vie e detenuti sotto regimi giuridici diversi da quello della pertinenza al fiscus della casa madre stessa. E che i sovrani ottoniani intendessero esercitare da vicino il proprio controllo su questi monasteri e i loro patrimoni ce lo dicono ad esempio l’intervento di Ottone I di ascrizione del monastero di Sant’Angelo di Barrea alle pertinenze cassinesi, e la sostituzione dell’abate di San Vincenzo al Volturno da parte di Ottone III nel 998. prerogative di tipo signorile nella gestione dei patrimoni fondiari, anche di un esercizio de facto della cura delle anime che risiedevano al loro interno. Su questo terreno, com’è stato di recente puntualizzato da Paolo Cammarosano (Nobili e re, pp. 303 – 319), s’innesta il più vasto progetto riorganizzativo e riformatore delle grandi fondazioni monastiche italiane, sostenuto direttamente da Ottone I e dai suoi successori, che coinvolge direttamente centri come Farfa, Bobbio (Piazza, Monastero e vescovado, pp. 33 – 43) e Nonantola. Gli Ottoni, nel loro progetto di ricostruzione del controllo imperiale sulle terre italiane sostengono ed anzi incoraggiano questo tipo di sviluppo delle prerogative delle fondazioni monastiche tradizionalmente legate al potere imperiale, e sull’assetto delle quali gli imperatori ritengono di avere margini di intervento particolarmente incisivi. Per Casauria, nota Feller (Les Abruzzes, pp. 830 – 831) che la definitiva asserzione della libertà monastica nei confronti del potere vescovile è associata all’intervento, nel 967, di Pandolfo Capodiferro, che è il principale vettore nell’Italia del sud dell’iniziativa politica di Ottone I, ed è effettivamente a partire da questo periodo a cavallo rea X e XI secolo che il monastero abruzzese vede moltiplicarsi la “famiglia” di chiese dipendenti, incoraggiando donazioni individuali – principalmente aristocratiche in tal senso, incanalando nell’alveo dei patrimoni monastici il fenomeno della proliferazione delle chiese private. Per concludere, lo sviluppo di quelli che Vitolo (Caratteri, p. 21) molto efficacemente ha definito “embrioni di congregazioni”, si accompagna alla rivoluzione insediativa del X secolo, ma la travalica, a mio avviso, per il fatto d’imporsi come elemento politicamente più rilevante, per definire l’identità organizzativa dei grandi monasteri e dei loro patrimoni. Il processo qui rievocato non finisce però per omologare de iure abati a vescovi. Si preferì mantenere nell’ambito della fattualità l’evoluzione delle prerogative territoriali degli abati dei grandi monasteri, che talora nello stesso periodo si sono peraltro molto espanse nell’ambito dell’esercizio dei poteri stricto sensu signorili. Almeno dal 1027 il papa aveva concesso all’abate di Farfa ex integro pontificale ornamentum cum baculo proprio La ricerca sull’articolazione topografica di queste reti ecclesiali tra X e XI secolo, sulla 110 struttura materiale delle singole entità che le componevano, e quindi sulle funzioni socio-economiche e la rilevanza in termini di investimento che esse rappresentavano è ancora assai indietro. Pochi grandi lavori, come quello di Bloch su Montecassino e alcuni – peraltro preziosi – inquadramenti generali di Feller sull’Abruzzo e di Martin sulla Puglia, che spero di poter presto personalmente contribuire arricchire di nuovi dati sui possessi vulturnense tra Molise e Campania, permettono oggi solo di avviare una riflessione su questo visage caché dell’insediamento altomedievale. Credo che la sfida sia interessante e, come dicevo all’inizio, potrebbe costituire una buona ragione per rilanciare l’appetibilità di uno sguardo incrociato – tra diversi approcci epistemologici – sugli equilibri socio-politici che caratterizzano il territorio nella fase conclusiva dell’alto medioevo. 111 Per quanto la documentazione materiale resti del tutto inadeguata, ancora, per sviluppare compiute osservazioni su tutti questi problemi, scopo principale di questo intervento sarà quello di operare una verifica sulle capacità o meno che hanno i documenti archeologici (o alcuni di questi) di descrivere tali fenomeni. Una valutazione effettiva del loro carattere e del loro significato, infatti, può essere utile, sia per evitare di usare tali documenti in maniera sbagliata (o anche solo esornativa e complementare rispetto ad altre serie di fonti), sia per orientare meglio le osservazioni e indirizzare opportunamente le risorse. SEZIONE V GESTIONE E SIGNIFICATO SOCIALE DELLE PRODUZIONI, DEI COMMERCI E DEI CONSUMI Gestione e significato sociale delle produzioni, dei commerci e dei consumi: una introduzione Sauro Gelichi L’intervento, inteso come introduttivo ad una sezione, si prefigge lo scopo di analizzare le relazioni tra i sistemi della produzione, l’organizzazione e i caratteri della distribuzione e, infine, le connotazioni sociali dei consumi. Si cercherà di affrontare queste tematiche analizzandole in prima istanza separatemene, attraverso le principali categorie di manufatti che hanno visibilità nel record archeologico, come ad esempio la ceramica, il vetro, il metallo, e per il nord Italia, anche la pietra ollare. Si analizzerà dunque la produzione (come è organizzata, chi sono i produttori etc.); poi si affronterà l’aspetto della distribuzione, cercando di comprendere qual è il sistema che garantisce la diffusione di determinati prodotti; infine si tenterà di capire se esiste (e, in questo caso, in che cosa consista) una differenziazione sociale nei consumi (tra città e campagna, ad esempio, ma anche tra categorie sociali differenziate). Questo approccio terrà conto di alcune limitazioni. La prima sarà di ordine cronologico, nel senso che si discuterà essenzialmente la situazione a partire dall’età longobarda (cioè dal VI-VII secolo), anche se non mancheranno riferimenti alla situazione precedente. L’altra limitazione è che utilizzeremo preferibilmente le fonti archeologiche. Questi fenomeni sono stati infatti sufficientemente analizzati (per quanto è possibile sulla base del grado di conservazione delle fonti) attraverso i documenti scritti. Sul versante archeologico, invece, l’approccio ha fino ad oggi prodotto una documentazione frammentata e poco coerente. Gli archeologi si sono spesso limitati a verificare l’esistenza di un fenomeno e a descriverlo (ad es. la circolazione della pietra ollare, i caratteri qualitativi della produzione ceramica, la presunta scomparsa dei contenitori anforici etc.), piuttosto che tentare di spiegarne il senso in relazione ai contesti sociali ed economici che l’hanno prodotto. Alla fine si cercherà mettere a confronto il quadro complessivo della situazione con i vari modelli di tipo economico prodotti fino ad oggi dalla storiografia (connessioni con l’economia di tipo curtense, rapporti con i mercati cittadini etc.). 112 Distribuzione ed utilizzo moneta tra V e IX secolo proprio la conquista del Regnum Langobardorum ebbe sul sistema monetario complessivo di Carlo Magno, sia tutta la successiva evoluzione della monetazione medievale in Italia. della Andrea Saccocci Sulla base delle evidenze archeologiche, lo sviluppo monetario dell’Italia centrosettentrionale, durante l’Alto Medioevo, sembra presentare un andamento anomalo rispetto al resto dell’Occidente Europeo. Se il punto di partenza (l’Italia Goticobizantina) e quello di arrivo (i secoli immediatamente successivi al “Mille”) sono caratterizzati da un’economia monetaria perfettamente dispiegata, probabilmente senza confronti al di fuori di Bisanzio, in tutta la fase centrale la moneta sembrerebbe aver assunto nell’area un ruolo secondario, limitato alla funzione di riserva di valore, se non di puro prestigio. Tale andamento, non riscontrabile ad esempio nel regno dei Franchi Merovingi, appare difficile da spiegare, al punto da porre la questione se la sola “moneta coniata ufficiale” possa sempre e comunque ritenersi spia (o “termometro”, secondo la definizione di Marc Bloch) del reale stato dell’economia monetaria e quindi dello sviluppo degli scambi. Indagando i rinvenimenti monetali e le caratteristiche della moneta ufficiale in ambito longobardo e poi franco e confrontando tali dati con quelli provenienti da aree rimaste soggette all’Impero bizantino, in effetti, sembra di poter concludere che in particolari condizioni la moneta “di Stato” può non rappresentare un termometro dello sviluppo economico reale. In questo senso appare probabile che le transazioni monetarie, in senso lato, non siano mai scese nelle regioni Italiane centrosettentrionali ai livelli molto bassi ipotizzati in passato, ma che al contrario abbiano mantenuto un certa vitalità, tale da giustificare sia l’enorme impatto che 113