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Università degli studi di Padova
Dipartimento Scienze dell’Antichità
XII Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medioevo
ARCHEOLOGIA DELLE STRUTTURE SOCIALI
NELL’ITALIA ALTOMEDIEVALE
(V- IX SECOLO)
ABSTRACTS
29 settembre – 1 ottobre 2005
Padova – Palazzo del Bo (Aula Nievo)
b. cominciare a proporre nuovi ambiti e
nuove piste sia di analisi sia di interpretazione, per studiare l’organizzazione sociale
non solo nei manufatti, ma anche nella
gerarchizzazione degli spazi (quali i
“paesaggi di potere”) e nelle relazioni,
fecondamente utilizzati da antropologi e da
archeologi preistorici;
c. indagare le “mappe mentali” dell’uomo
altomedievale, il suo punto di vista nella
definizione dei simboli e dei ruoli sociali:
un
pattern
psicologico-mentale,
un’attitudine di vita con sovrastrutture
ideologiche che cambiano lentamente,
mentre, ad un livello inferiore, i modi di
produzione, gli stili degli oggetti mutano
più rapidamente (Daim 1999, pp. 79-80).
Introduzione al convegno Aspetti
sociali dell’altomedioevo attraverso
l’archeologia
Gian Pietro Brogiolo
1. Premessa
1.1. Nell’archeologia medievale italiana,
a. i dati sono nella maggior parte dei casi il
prodotto di interventi di emergenza, il che
non significa che dobbiamo rifiutarli, ma
che vanno valutati e calibrati prima di
inserirli nella catena documentaria
utilizzabile per proporre interpretazioni
più generali e modelli storiografici;
b. anche nelle ricerche programmate, la
raccolta dei dati è standardizzata e non
sempre finalizzata ad affrontare specifici
problemi storiografici (ad es. i simboli e i
significati sociali recuperabili attraverso
gli studi sulle sepolture, sulle architetture,
sulla gestione delle risorse alimentari ecc.);
c. nella maggior parte dei casi, i pochi
accenni agli aspetti sociali sono frutto di
osservazioni per le più empiriche,
disancorate dai modelli teorici costruiti
dalla sociologia e dall’antropologia
culturale sulla base delle osservazioni
sulle comunità attuali.
1.3.
È
peraltro
necessario
essere
consapevoli che:
a. I resti archeologici sono pieni di codici,
con un gran numero di informazioni sulla
società, sulla sua evoluzione, sui suoi valori
e sui modi di percepirli. Per cui occorre
abbandonare i modelli semplicistici, consci
della complessità e della mutevolezza della
società umana, anche se i gruppi di valore
ricavabili dai dati archeologici rischiano di
essere tanto numerosi quanto i criteri
applicati ed è forse impossibile sviluppare
metodi oggettivi di indagine. E ancor più
complicato è collocare questi valori
nell’evoluzione delle mediazioni di potere
(come capacità di stabilire le regole del
gioco) tra chi produce (ed esprime capacità
tecnologia e organizzativa) e chi consuma
(ha cioè accesso alle risorse) in rapporto alla
sua posizione nelle differente classi sociali
(la Chiesa, l’esercito, i funzionari, i
contadini, i proprietari), stabilendo a priori
quali oggetti hanno un significato di
1.2. Obiettivo di questo convegno è di
mettere a confronto le interpretazioni (e i
modelli) sinora costruiti in Italia con le
tendenze attive in Europa (tramite alcune
relazioni e le introduzioni alle singole
sezioni), allo scopo di:
a. verificare le potenzialità e i limiti dei
percorsi sinora intrapresi;
2
quando occupava la cattedra vescovile,
per ottenere il permesso di praticare
l’eremitismo in terra bresciana. La
leggenda, riscritta probabilmente nell’XI
secolo dai monaci dell’abbazia di Leno nel
momento dell’affermazione della loro
presenza nella Riviera benacense, in
concorrenza con altri importanti monasteri
quali Santa Giulia di Brescia e San Pietro
in monte Ursino di Serle (Ibsen 2002), non
ci dice nulla del valore ideologico e della
ricaduta sociale di questa esperienza. E
nulla ricaviamo dal dato materiale, anche
perché la chiesa che ospitò la sua sepoltura
ai piedi della grotta è stata distrutta nel
secolo scorso.
distinzione
sociale
per
l’uomo
altomedievale, presupponendo che ve ne
fossero tanti quanti ve ne sono oggi;
b. anche nel caso dei simboli che si sono
espressi attraverso oggetti, l’archeologia ha
un limite ben preciso: documenta solo ciò
che si è conservato. Raramente, ad esempio
nel caso delle sepolture, è in grado di
recuperare i vestiti (qualche eccezione, come
nei cimiteri egiziani: ad es. la tunica
funeraria del cimitero di Antinoe con
rappresentazione di Daniele fra i leoni: Ant.
Tard., 12, 2004) o le cerimonie funebri (delle
quali rimangono per lo più solo resti di
cibo). Vestiti e cerimonie sono molto meglio
documentati nelle raffigurazioni delle
catacombe romane e napoletane (Martorelli
2000, 2004);
c. non sempre un ruolo sociale, anche
rilevante, si esprime attraverso simboli
materiali verificabili archeologicamente,
come confermano i casi dei santi eremiti, il
cui ruolo non è testimoniato dagli oggetti
materiali ma dall’aura di santità che li
circondava e di cui parlano le fonti scritte.
Per avere un’idea di quale fosse il ruolo
sociale dei santi eremiti tra VI e VII secolo,
e come tale ruolo venisse costruito
consapevolmente in una Vita, attraverso
delle testimonianze e producesse, a sua
volta, simboli ideologici e materiali,
dobbiamo rivolgerci altrove, ad esempio
alla vita di Emiliano (473-574), eremita
spagnolo, studiata da Santiago Castellanos
(1998). Autore della Vita è Braulio, figlio
del vescovo Gregorio, fratello del vescovo
Giovanni e dell’abate Fronimiano e a sua
volta vescovo di Saragozza tra 631 e 651:
un bell’esempio di famiglia che si è
ritagliata un importante ruolo sociale. La
sua fonte è la tradizione orale testimoniata
da quattro personaggi (Cotonato, Sofronio,
Geronzio e Potamia). La Vita racconta di
come Emiliano attirasse multitudines, in
quanto
incarnava
la
tradizione
escatologica neotestamentaria, e creasse
consenso sociale per le sue capacità
taumaturgiche e per la sua autorità morale
di uomo santo: a lui si rivolgevano
senatores, artifices, servi, appartenenti a
diverse categorie sociali nella vita reale,
ma unanimi di fronte alla figura del santo.
La vita, letta nella messa commemorativa
in occasione della festività del santo, è uno
dei simboli che ne perpetuano le virtù e
producono il consenso sociale; ma ad essa
si aggiunge ben presto il simbolo
materiale: la fondazione del monastero di
2. Simboli ideali e materiale
2.1 Simboli ideali
Sulle sponde occidentali del lago di Garda,
dalla fine degli anni ‘90 stiamo studiando
alcune grotte abitate a partire dall’età
altomedievale: una (San Giorgio) con più
celle e una chiesa ricavata in un anfratto
nella roccia; quattro frequentate per un
breve periodo, in un arco cronologico che
il C14 e le ceramiche fissano tra metà VI e
metà VII e che non è chiaro né perché né
quando siano state denominate “covoli
delle streghe”; altre due, infine, che la
tradizione locale attribuisce, rispettivamente, a sant’Ercolano, vescovo bresciano
vissuto poco dopo la metà del VI secolo, e
al suo discepolo. Secondo la leggenda,
formatasi nel nucleo più antico entro il VII
secolo, il presule si sarebbe ritirato in una
grotta seguendo l’esempio di un diacono
di Costantinopoli che a lui si era rivolto,
3
longobarda almeno fino alla fine del VII
secolo. Il solo vescovo di rilievo in quel
lungo primo secolo dopo la conquista è
Barbato di Benevento, ricordato per aver
combattuto il paganesimo degli invasori.
Solo tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII
riemergeranno vescovi in grado di
costruirsi un’aura di prestigio, utilizzando
i consueti strumenti di autorappresentazione, come Damiano di Pavia, morto
nel 711 e celebrato nell’iscrizione funeraria
(Panazza 1953, n. 61, pp. 252-53) per aver
restaurato la chiesa di San Nazario e Celso
e costruito le terme e l'episcopio.
Ma senza il conforto della fonte scritta, questi
significati emergono raramente dal dato
materiale, al pari di tutte le cerimonie che,
lungo la vita di un individuo, servivano a
rappresentare un rango: il battesimo
(Adaloaldo a Monza), il matrimonio, le
ricorrenze religiose con le processioni alle
quali i fedeli partecipavano con i simboli del
loro status (vedi ingresso di reliquie nel rilievo
con la famiglia imperiale nel circo di
Costantinopoli, le processioni ad Arles e a
Merida), o le riunioni annuali dell’esercito
presso il cimitero di Santa Maria alle Pertiche
di Pavia.
San Millian della Cogolla sulla grotta
dell’eremitaggio.
Questo esempio rende espliciti tutti gli
ingredienti che servono a ricostruire
ideologicamente la vita di un santo
secondo
la
tradizione
agiografica
tardoantica, plasmata dalle aristocrazie
tramite un progetto che manipolava la
realtà con uno specifico fine sociale: il
controllo
dei
loca
sacra,
che
rappresentavano una speranza per i
gruppi meno favorevoli, suggerivano
l’eliminazione delle barriere tra mondo
terreno e mondo celeste e creavano una
unanimitas sociale, base del potere per
l’aristocrazia (ecclesiastica e laica).
Sia le grotte degli eremiti sia le cattedrali
dei
vescovi
testimoniano
come
nell’Occidente la Chiesa abbia giocato un
ruolo fondamentale nella stabilizzazione
del potere e della struttura sociale, in una
società, come quella altomedievale, ad alta
mobilità (di insediamento, di gruppo, di
livello sociale). Ruolo che peraltro non va
esagerato, sminuendo il ruolo delle alte
gerarchie laiche. Non è casuale che la
produzione di simboli sia sovente legata
alle fasi di contrasto o di forte tensione
politica nel momento in cui si propongono
o si affermano nuovi poteri. Come nelle
opere di Ennodio di Pavia al tempo del
dominio di Teodorico, o di Sabino,
Eufrasio e di Massimiano, vescovi
rispettivamente di Canosa, Parenzo e
Ravenna durante la guerra greco-gotica,
schierati a fianco dei vincitori Bizantini o
di Callisto e Paolino, vescovi di Cividale,
rispettivamente al momento del contrasto
al vertice del potere tardolongobardo e
dell’affermazione dei Carolingi.
2.2. Simboli materiali
Compito degli archeologi, anche in
assenza di fonti scritte, è di decodificare il
significato degli oggetti nel contesto di
rinvenimento, avendo come guida gli
studi antropologici che ci suggeriscono
come i modelli di rappresentazione
abbiano lo scopo di stabilizzare la società
dai livelli più generali (come nel caso dei
simboli religiosi usati per costruire una
unanimitas ideologica, sui quali mi sono
soffermato poc’anzi) a quelli che
attengono allo status dell’individuo e della
sua famiglia. Simboli, questi ultimi, che
servono
a
marcare
la
propria
appartenenza
e,
per
converso,
a
distinguersi da altri individui e gruppi: ad
esempio le armi, particolari tipi di gioielli,
certi materiali o vestiti restituiti dalle
sepolture testimoniano una distinzione,
Esempi che dimostrano come per costruire
una forte immagine siano necessari uno
stretto rapporto, anche dialettico, con
l’autorità civile, un impegno evergetico e il
dominio dei mezzi di comunicazione (i
sermoni e le epistole, le epigrafi, le Vite).
Ingredienti che mancano nell’Italia
4
contatto tra pubblico e privato” (Augenti a
proposito dell’edilizia residenziale di
Roma e Ravenna a partire dal VII-VIIII
secolo). Il luogo delle relazioni sociali si
sposta in tal modo dalle aule di
rappresentanza interna, alle quali si
perveniva attraverso percorsi gerarchici
dall’atrio al peristilio, ad un ambiente
aperto all’osservazione del pubblico. Il che
non
significa,
probabilmente,
un
allentamento delle barriere tra le diversi
classi sociali, ma forse, in periodo di
maggior instabilità sociale, il desiderio di
mostrare più frequentemente il proprio
rango ad un pubblico più ampio possibile.
Analogamente le residenza aristocratiche
dei grandi proprietari romani dell’VIII-IX
secolo (Santangeli Valenzani 2004) si
articolano in edifici intervallati da spazi
aperti, come nella curtis di Largo
Argentina con domus, stalle e chiesa
disposti su una superficie di 5000 mq, o
nella residenza carolingia di 190 mq (10 x
19 m) del foro di Nerva, addossata al muro
di fondo del foro e provvista di portico,
scala esterna, stalle e magazzini. Case
costruite con blocchi di peperino di
recupero e con tecniche costruttive che
caratterizzano anche le chiese coeve, a
testimoniare il ricorso alle medesime
maestranze e risorse materiali, oltre che
disponibilità di denaro, di artigiani
specializzati, di materiale da costruzione.
Agevolazioni, riservate alle aristocrazie,
che ritroviamo, in area longobarda, anche
nel Memoratorium de magistris commacinis.
sulla quale tornerò più avanti, che
presuppone
sempre
un
rapporto
dell’individuo o di un gruppo familiare o
di un gruppo sociale con differenti livelli
della società. E dunque le domande che ci
dobbiamo porre sono: a quale segmento
sociale è intenzionalmente, o inconsapevolmente, rivolta l’esibizione? A quale
audience, privata, familiare, di gruppo o
di gens si rivolge?
Ad esempio l’abbigliamento personale
(per il quale si rimanda a Ant. Tard. 12,
2004) e la residenza privata attengono, in
prima istanza, al ruolo dell’individuo e del
suo gruppo familiare allargato, ma il loro
raggio di penetrazione sociale è ben
diverso a seconda del rango: la residenza e
l’abbigliamento di un duca (come Arechi II
nel palazzo Salerno) avevano un’audience
più ampia rispetto a quella di un piccolo
proprietario (ad esempio il longobardo di
Mombello Monferrato, sepolto con un
corredo di armi). E pur entrambi
utilizzavano codici di distinzione sociale.
Almeno quattro sono i principali ambiti nei
quali l’archeologo può intervenire: (1) le
residenze, (2) l’alimentazione e l’accesso alle
risorse, (3) il rito funerario, dal quale si ricavano
informazioni anche sull’abbigliamento e sugli
ornamenti personali, (4) i luoghi di culto.
(1) Le residenze
Le ville e le domus delle aristocrazie
tardoantiche erano grandiose, con percorsi
e gerarchie degli ambienti che si
sviluppavano
all’interno
di
edifici
nettamente delimitati rispetto agli spazi
circostanti, a testimoniare una rigida
separatezza delle élites rispetto alle altre
classi sociali, non diversa da quella che
palesano i palazzi rinascimentali.
Un simile pattern distributivo testimoniano
gli edifici rurali coevi, come quelli della
fase curtense dei castelli toscani, dove
accanto ad un’area difesa da fossato
(Miranduolo) o palizzata (Montarrenti),
sono attestati un edificio di maggior
dimensione (la longhouse di Poggibonsi,
le grandi capanne di Scarlino e
Miranduolo) accanto ad abitazioni minori,
magazzini, granai, cortili, stalle e recinti,
zone per lavorazioni artigianali.
Nell’altomedioevo il portico che nell’età
classica era riservato ai monumenti e agli
spazi pubblici, in primis al foro, assume
un ruolo rilevante anche nelle abitazioni
private come spazio di “estensione e di
5
Verona dell’VIII secolo la presenza di
anfore provenienti dal territorio bizantino,
non ha probabilmente riscontro, in quel
secolo, in un ambito rurale. E occorre
anche chiedersi se questa disponibilità
fosse di tutti i giorni o riservata alle
occasioni importanti (quali battesimi,
matrimoni, funerali e ricorrenze religiose)
come ancora avveniva nelle società
contadine del secolo scorso. Cerimonie alle
quali potevano talora accedere anche le
comunità, per espressa volontà del
defunto, nel caso delle distribuzioni di
cibo confermate da legati testamentari, o
per tradizioni, come ancor oggi avviene
nelle cerimonie del battesimo della Chiesa
ortodossa.
Momenti
dunque
di
socializzazione che coinvolgevano l’intera
comunità.
Bisognerà attendere i villaggi di IX-X
secolo, quali quelli di Piadena e
Sant’Agata
bolognese,
per
trovare
un’edilizia più compatta, con edifici
urbanisticamente organizzati, mentre la
residenza signorile si colloca in un luogo
separato (la motta a Sant’Agata).
(2) L’alimentazione
La differente distribuzione dei resti alimentari
tra un edificio e l’altro del medesimo
insediamento viene interpretata come una
distinzione di rango e ricchezza che si traduce
in un differente accesso alle risorse.
Nel caso del castello di V-VI secolo di Monte
Barro, lo studio dei resti zoarcheologici e
paleobotanici
ha
suggerito
che
l’insediamento si approvvigionasse nell’area
circostante, forse attraverso il pagamento di
tasse come sembra suggerire una pratica
testimoniata dal Codex Thedosianus. Mentre al
suo interno chi abitava nell’ala privilegiata
del palazzetto, che una corona pensile fa
ritenere fosse il capo dell’insediamento,
aveva, oltre che una dieta più variata e più
ricca di carne, una maggiore disponibilità e
varietà di oggetti di arredo.
(3) Il rito funerario tra privato e pubblico
Le necropoli costituiscono il campo d’azione
privilegiato e più approfonditamente
analizzato da chi si è proposto di ricavare
interpretazioni sociali dalla cultura materiale,
percorso quantomai complesso, nel quale
occorre abbandonare le interpretazioni
semplicistiche, sia di stampo etnico sia sociali.
Siamo passati negli ultimi decenni (e in Italia
con indubbi attardamenti) dalla “culture
history” (corredi di sepolture come identità
etnica) alle sepolture come espressione del
rango del defunto, per approdare ora ad una
interpretazione del funerale come momento di
rinnovate e periodiche mediazioni sociali che
avvengono localmente.
Negli insediamenti d’altura toscani, il
variare dell’alimentazione ha suggerito
cambiamenti di ordine sociale e il
manifestarsi di una gerarchizzazione come
nel caso della fase curtense di Poggibonsi,
dove il dominus avrebbe provveduto a
distribuire la carne, con qualità e quantità
via via inferiori, sulla base del ruolo dei
dipendenti e dei collaboratori (Valenti 2004).
Come altre cerimonie simboliche che
segnano i più importanti passaggi della
vita (il dono delle armi per entrare nell’età
adulta, l’ornamentazione con gioielli delle
giovani ad opera delle madri; il taglio dei
capelli) il rituale funerario costituisce un
momento di socializzazione (con la
distribuzione di cibo e lo scambio di doni
tra un funerale e l’altro) e di conservazione
dello status sociale, soprattutto in
occasione di una morte immatura di un
adulto maturo, prima che il suo erede
Se da un lato è evidente che il controllo
della produzioni determina un rango di
ricchezza e potere, occorre peraltro
chiedersi quale fosse il reale significato di
queste differenziazioni nei differenti
contesti. La maggior disponibilità e varietà
di cibo, celebrata nel Versus de Mediolano
civitate del 739, che significa un’apertura a
mercati anche lontani come conferma nella
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testimonia una stabilità sociale di un
gruppo radicato localmente;
(2) nella proprietà del cimitero: (a) privata
(di una singola famiglia, di alcune
famiglie, di un gruppo sociale ristretto),
(b) pubblica (di una comunità, di una
chiesa);
(3) nella struttura dei cimiteri e nel
significato delle distinzioni che si possono
leggere: le tombe dei fondatori, la
posizione delle donne rispetto a quelle dei
maschi e dei bambini (perché ad esempio
a Collegno, come in altre necropoli
longobarde, una netta maggioranza di
maschi adulti? dove erano sepolti donne e
bambini?);
(4) nei differenti oggetti che possiamo
ritrovare in una tomba, pertinenti
all’abbigliamento, al rituale (in prevalenza
contenitori di cibo e doni), al gruppo che
partecipava al funerale;
(5) nei caratteri antropologici, palepatologici e
nella dieta degli inumati (si vedano le sepolture
con alterazione artificiale del cranio rinvenute a
Herdonia (Foggia) e Avicenna (Campobasso) e
riferite ad uno specifico gruppo etnicoculturale; altre che presentano un’evoluzione
della dieta tra VII e VIII secolo, come a
Collegno, altre che mostrano peculiarità
patologiche che indicano una recente
immigrazione, come a Quingentole): aspetti sui
quali è necessario che discutano in primo luogo
antropologi fisici e paleopatologi e, una volta
chiarita l’attendibilità di queste interpretazione,
ne diano un’interpre-tazione plausibile anche
storici ed archeologi.
avesse rinsaldato la sua posizione nella
società, di una giovane donna sposata
(magari con prole) che metteva in crisi i
rapporti tra due famiglie, di un giovane
adulto, guerriero e potenziale erede
(Halsall 1998, pp. 332-33).
Ma una tomba (struttura e contenuto,
ideologicamente
e
deliberatamente
predisposti) va vista in rapporto con un
rituale, che non è necessariamente il
riflesso della gerarchia di una determinata
società (Haerke 2001, p. 94) “and without
an understanding of their mechanisms the
result (the burial) cannot be interpreted”
(Daim 1999). È piuttosto il risultato delle
credenze religiose (l’individuo dopo la
morte, nella società e nella famiglia), delle
idee del morto, dei suoi desideri e della
sua autopercezione, delle idee della
famiglia e della società attorno a lui: il
funerale come dimostrazione della
ricchezza e dell’influenza degli eredi.
Alcuni elementi del rito hanno vita lunga e
areale sovraregionale (ma con influenza
diversa da zona a zona), altri sono
espressione del gruppo locale (e pure
possono persistere a lungo) o anche del
singolo individuo (Daim 1999, p. 88).
Il quadro è particolarmente complesso per
la coesistenza di differenti modelli:
(1) nella ubicazione della sepoltura: (a) di
un singolo individuo presso una residenza
(un capo: l’ignoto personaggio sepolto
sotto la scala del palazzetto di Monte
Barro, il re Alboino sotto la scala del
palazzo di Verona, il cosiddetto Gisulfo
nel palazzo di Cividale) o di un gruppo
famigliare (a Brescia, Trento e in altre
città); (b) in campo aperto in un cimitero a
file, come negli esempi di Sacca di Goito
con quattro necropoli dal 400 al VII secolo,
con corredi che vanno dalla cultura di
Cerniakov a quella longobarda del pieno
VII secolo; (c) in un mausoleo nei pressi di
una chiesa battesimale, come a Garlate
Santo Stefano, con una continuità di
utilizzo dalla metà del V al VII secolo che
Differenze, occorre ribadire, che non
dipendono da una linea evolutiva da un
modello all’altro, ma da una compresenza
di gruppi con differenti ideologie, riti
funerari, status sociale, che testimonia
della complessità del periodo che va dal
VI al VII secolo.
(4) I luoghi di culto
Mi sono già soffermato nel paragrafo 2 sui
modi della costruzione ideologica dei
simboli collegato ad un luogo di culto.
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nelle cripte, assicurando in tal modo
l’attenzione dei fedeli per i nuovi edifici.
La celebrazione dell’impresa evergetica è
affidata al testo epigrafico: scolpito in
marmo o tracciato sugli affreschi, serve a
tramandare
ai
posteri
l’impresa
costruttiva, come nelle iscrizioni scolpite
nel marmo e con lettere di bronzo, del San
Pietro a Corte nel palazzo di Arechi II a
Salerno, composta da Paolo Diacono con
lettere in bronzo e del San Vincenzo
Maggiore a San Vincenzo al Volturno
(Quaeque vides ospes pendencia celsa vel ima /
Vir Domini Iosue struxit cum fratribus suis),
come in quelle che accompagnavano gli
affreschi del San Salvatore di Brescia, che
io credo siano dell’età di Desiderio al pari
dello straordinario testo composto da
Paolo Diacono, previsto per la tomba di
Ansa e che riassumeva il disegno politico
di Desiderio nel momento del suo
massimo fulgore;
c. i valori simbolici espressi da un luogo di
culto possono cambiare nel tempo; i
luoghi di culto hanno infatti la peculiarità
della lunga durata: alle origini esprimono
il rango e le convinzioni di chi li ha
costruiti, ma poi di chi le utilizza
generazione
dopo
generazione.
Contengono dunque una sequenza di
simboli sociali che va stratigraficamente
distinta e interpretativamente decodificata. Ad esempio, parte dei simboli
disseminati da Ansa e Desiderio nel San
Salvatore di Brescia vengono recuperati,
centocinquant’anni dopo, da Berengario
per la costruzione di un mito (quello di
Ansa legato al recupero delle reliquie di S.
Giulia), volto a valorizzare la tradizione
longobarda ancor viva nel territorio centro
padano dove era la base del suo potere;
d. più che in altri contesti storici, le chiese
altomedievali esprimono forti significati
simbolici; non si limitano a riflettere la
società del loro tempo; ma, in un clima di
forte competizione politica e sociale,
vengono deliberatamente costruite per
creare consenso e rafforzare il potere del
fondatore.
Aggiungo ora altre osservazioni per quello
che appare come un concentrato di valori
simbolici e sociali:
a. i luoghi di culto assumono valori
differenti se sono realizzati da un
possessore con un ambito di relazioni
locali, come nel caso di San Zenone di
Campione, o da una comunità, i cui
termini di riferimento sono costituiti dai
villaggi vicini, o se invece sono stati
fondati da un’autorità superiore con un
orizzonte di potere ben più ampio, come
nel caso del San Giovanni di Monza che
non aveva forse, al momento della sua
costruzione, il significato di luogo di culto
nazionale dei Longobardi che gli
attribuisce Paolo Diacono, ma che
plausibilmente Teodolinda aveva eretto
come chiesa dinastica, ad imitazione di
quanto avevano fatto i re dei Franchi;
b. i segni del potere (e del privilegio) si
manifestano: (1) nella disponibilità di
materiali provenienti da edifici pubblici e
nella capacità (al contempo, tecnica e
politica) di spostarli anche a grande
distanza, come fecero Liutprando con le
colonne romane destinate alla chiesa del
suo palazzo di Corteolona, Desiderio e
Carlomagno con i materiali architettonici
antichi
provenienti
da
Ravenna,
l’imprecisato committente della cappella
di San Zeno nella corte regia di Meleto a
Bardolino, la nobile famiglia Wanga nella
chiesa di San Pietro di Quarazze
(entrambe di IX secolo); (2) nel controllo di
maestranze specializzate (dai magistri
commacini di età longobarda a quelli che
operano nelle costruzioni carolingie ed
ottoniane)
in
grado
di
proporre
architetture innovative sia per le piante,
sia per le soluzioni tecnologiche che
comprendono la produzione di laterizi, la
lavorazione della pietra, non sempre di
riutilizzo, ma talora recuperata ex novo da
una cava, artifici costruttivi per la
realizzazione di volte, colonnati, cripte,
capacità di decorare gli edifici con mosaici
e affreschi; (3) nella capacità politica di
ottenere reliquie da collocare negli altari e
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capacità di attrarre fedeli, commisurata al
numero e all’importanza delle reliquie dei
santi
che
vi
erano
conservate.
Disegnavano una topografia del culto
intrecciata e sovrapposta a quella
istituzionale, che sarebbe interessante
cominciare a dipanare. Nel ducato di
Benevento, ad esempio, fino a pochi anni
orsono vi erano itinerari processionali che
univano luoghi di culto di origine
altomedievale assai distanti tra loro.
Sarebbe dunque limitativo fermarsi agli
aspetti architettonici e liturgici, o
indagarne esclusivamente il rapporto con
l’insediamento circostante; occorre capire
le chiese con gli occhi della cultura, delle
ideologie e della mentalità dei personaggi
che le hanno costruite. Individui che si
trovarono al vertice della società e seppero
interpretarne le aspettative, tessendo con
le loro imprese evergetiche una fitta trama
di relazioni segnata dalla sfera di
influenza dei singoli luoghi di culto, spazi
e contesti, più ideali che reali, che non
coincidono con quelli ecclesiastici; bensì
con gli orizzonti psicologici dell’uomo
altomedievale.
3. Per una geografia del sociale
Nel paragrafo precedente ho ricordato
singole categorie di manufatti (le
residenze, l’abbigliamento, le sepolture, le
chiese) come espressione di simboli con
significato sociale. Occorre ora esaminare
come questi simboli si distribuissero nello
spazio, per ricostruire una “geografia del
sociale” tra tarda antichità e altomedioevo.
Un tema questo non ancora affrontato
dagli archeologi, al quale possiamo
avvicinarci, iniziando a porci delle
domande sulle quali lavorare nei prossimi
anni:
Come ha rimarcato Dick Harrison (1992,
2000),
nell’altomedioevo
gli
spazi
ideologicamente significativi non sono
solo i luoghi “politici” (le sedi delle
assemblee, come quella generale del regno
che si teneva a Pavia presso il cimitero
della Pertica, i fiumi e i confini), ma i più
importanti sono quelli evocati dalle
reliquie dei santi. Le chiese del Santo
Sepolcro a Gerusalemme e di San Pietro a
Roma avevano un bacino di audience
esteso all’intera cristianità. Nella basilica
di San Giovanni di Monza e nella rupe di
San Michele sul Gargano si riconosceva,
nell’VIII secolo, l’identità di un intero
popolo, quello longobardo.
La presa di coscienza di un’identità
cittadina, tra VIII e IX secolo, come
testimoniano i componimenti poetici
dedicati a Milano (739) e Verona (attorno
all’800), recuperando modelli ideologici
della tarda antichità trovava dei saldi
punti di riferimento nelle chiese urbane e
suburbane ove erano venerate le reliquie
dei santi, muro invisibile di protezione
della città.
a. qual era la composizione sociale dei diversi
centri demici (una città, piuttosto che un
castello, o in campagna tra insediamento
sparso e agglomerati?
Capire dove abitassero le differenti classi
di contadini, possessores, funzionari è un
tema chiave che va valutato caso per caso,
anche se è prevalente, tra gli archeologi,
l’idea che la città nell’altomedioevo fosse
divenuta un prevalente centro di potere
(laico ed ecclesiastico) con una scarsa
presenza dei ceti medi. Che pure in alcune
città le fonti scritte (a Ravenna nel VII
come a Lucca nell’VIII secolo ad esempio)
e quelle materiali (a Roma nell’VIII-IX
secolo: case del Foro di Nerva, curtis di
Piazza Argentina) attestano. Del resto
risulta difficile pensare che le iscrizioni
pubbliche, apposte sulle facciate dei
Anche nelle campagne, oltre alle chiese
plebane che con l’età carolingia si
caricarono di prerogative istituzionali
(Castagnetti 1976, Violante 1982), vi era
una pluralità di oratori, monasteri,
santuari, ciascuno con una propria distinta
9
strategie più generali che videro coinvolti i
vertici delle gerarchie amministrative,
politiche e religiose. Quelli fondati tra V e
VI secolo in Italia settentrionale, quale sia
stata lo loro origine (siano stati costruiti,
per iniziativa delle aristocrazie locali come
propria residenza o dallo Stato, per
necessità, imminenti o preventive, di
difesa), furono centri nei quali, tra VI e VII
secolo, viveva un’élite (militare e civile)
che disponeva di surplus ad un grado
nettamente superiore rispetto a chi viveva
in altri tipi di insediamento, come
testimonia il rinvenimento di moneta
(Arslan 2001a, 2001b, Rizzolli 2005): (1)
gota, dagli inizi del VI al periodo della
guerra greco-gotica, fino a Vitige (a Monte
Barro, San Giovanni di Riva, Garda,
Sant’Andrea di Loppio, San Martino di
Lundo, Castel Beseno, Portolo-castrum
Anagnis, Pergine), (2) bizantina del
periodo della riconquista (Sant’Andrea di
Loppio, Portolo-castrum Anagnis, Doss
Trento), (3) bizantina o di imitazione
longobarda degli inizi del VII secolo (San
Martino di Campi, San Pietro in Val di
Non). A questo periodo, e precisamente
all’attacco franco bizantino del 590, è da
riferire anche il tesoretto di Aldrans (5
solidi, 32 tremissi di Giustino II (565-578),
Tiberio II (578-582) e di Maurizio Tiberio
(582-682) e 32 conii longobardi). Oltre alle
monete, nei castelli sono stati rinvenuti
pesi monetali (Sant’Antonino di Perti,
Castelseprio, Portolo ecc.) che servivano a
controllarne il peso e
prodotti di
importazione, in particolare sigillate
africane e anfore africane e orientali, che si
ritiene siano state veicolate attraverso
l’annona militare.
monumenti ancora nel VII-VIII secolo
(Sannazaro c.s.), avessero un’audience
sociale limitata alla sola classe dirigente.
Non solo quelle su edifici religiosi, rivolte
ad un pubblico di fedeli, ma anche quelle
su edifici civili, come a Roma l’iscrizione
dedicatoria sulla base della colonna di
Focas e a Terracina un’iscrizione bilingue,
forse del 663, su due colonne del portico
del foro, che ricorda la risistemazione
della piazza ad opera di un Georgius consul
et dux. Su edifici pubblici erano
plausibilmente anche l’iscrizione di
Ravenna con un decreto di Maurizio
relativo all’acquedotto e quella di Porto
Torres che celebra la vittoria del duca
Costantino sulla flotta longobarda (la cui
datazione oscilla tra VII o VIII secolo). Nel
regno è invece di VIII secolo quella, di cui
rimane il testo, di Liutprando per la
fondazione di Cittanova.
b. quali meccanismi e quali gruppi o autorità si
fecero promotori dei cambiamenti nei modelli
del popolamento tra V e X secolo?
Un tema questo al centro del dibattito tra
archeologi italiani, relativamente a due
aspetti: l’origine dei castra e le modalità
dell’accentramento della popolazione in
villaggi:
(1) la costruzione dei castelli, tra V e VI
secolo è stata attribuita da alcuni studiosi
(tra gli altri Bierbrauer e Settia)
all’iniziativa delle aristocrazie locali, da
altri (Brown, Murialdo, Arthur, il
sottoscritto) prevalentemente allo Stato,
che pur si avvaleva di risorse locali e di
una compartecipazione delle aristocrazie
rurali, almeno fin da quando Valentiniano
III nel 440 aveva stabilito (Nov., 9) che i
civili dovevano autodifendersi, prassi
questa (si vedano le lettere di Cassiodoro
per Verruca e Tortona), sovente coordinata
dalle autorità religiose (Gregorio Magno, i
vescovi di Aquileia nella fondazione di
Grado ecc.).
Nel Trentino-Alto Adige, ad una presenza
aristocrazia sono da riferire anche le
sepolture privilegiate di VII-VIII secolo,
per corredo o per la deposizione in un
mausoleo privato, in rapporto a castelli
(Piedicastello, Vervò, Predonico, Tesino,
Doss Trento) e a siti d’altura (Santi Cosma
e Damiano di Settequerce, San Vigilio al
Virgolo sopra Bolzano, San Vigilio (già
Nei castelli si intrecciavano dinamiche
sociali ed economiche locali, nel quadro di
10
prevalevano il pascolo a scapito della
cerealicoltura intensiva. La medesima
interpretazione è stata proposta per la
Britannia da Faulkner 2000, ma rigettata
da Ward Perkins (2005). Ritengo peraltro
che questi modelli vadano verificati a
livello regionale, nel quadro della rete
gerarchica degli insediamenti (Brogiolo
2005), chiedendosi:
Santa Barbara) di Castelfeder, chiesa
inferiore di Sabiona) (Cavada 2004, p. 214).
Appaiono dunque evidenti: (1) una
dipendenza dai sussidi dello stato, (2) uno
stretto rapporto con le vicende politico
militari del VI secolo (nella guerra greco
gotica e, dopo la riconquista, nel
cinquantennio che vide lo scontro tra
Longobardi, Bizantini e Franchi), (3) la
presenza di élites che erano le sole a
disporre di abbondante moneta di fresco
conio, ricavata forse non solo dal
pagamento di prestazioni ma anche da
attività di scambio, come si è ipotizzato
per il castello ligure di Sant’Antonino di
Perti (Murialdo 2001). Si ritiene infatti che
fosse una base per i commerci con
l’entroterra longobardo, gestiti dallo Stato
bizantino, ipotesi che in potrebbe
estendere anche ad altri castra bizantini,
come Comacchio che intratteneva ancora
nell’VIII secolo regolari commerci con la
pianura longobarda sulla base del noto
trattato con Liutprando del 715. Ma per i
castra di area longobarda è più plausibile
che derivasse da rapporti con il territorio
circostante dal quale ricavavano rendite e
forse pagamenti per tasse, in una nuova
gerarchia economica e sociale. Il che
significa che, conclusa la fase militare dei
castelli, vi abitava un’aristocrazia la cui
base di ricchezza dipendeva dalle risorse
delle campagne circostanti.
c. quali interrelazioni (di natura sociale ed
economica) esistevano tra i differenti centri
demici?
Se osserviamo la distribuzione delle
principali necropoli longobarde rispetto
alle città (Sovizzo a otto chilometri da
Vicenza; Povegliano e Zevio ad una decina
da Verona; Testona e Collegno ad
altrettanti da Torino; in un raggio di una
ventina di km quelle di Calvisano e Leno,
rispetto a Brescia, e di Castelli Calepio e
Fornovo San Giovanni rispetto a Bergamo)
risulta evidente che si trovano a distanze
che permettevano un regolare rapporto
con il centro urbano, sia sociale sia
economico. Rapporto testimoniato anche
in
territorio
bizantino,
dove
la
sopravvivenza
dell’organizzazione
agricola delle campagne attorno a
Ravenna e Rimini appare in funzione
dell’approvvigionamento
della
città.
Napoli nell’altomedioevo diviene una città
stato-emporio, anche per l’entroterra
longobardo del ducato di Benevento: un
central-place di tipo dendritico, situato in
un angolo della regione, che controlla lo
scambio di oggetti di prestigio (vestiti di
porpora, oreficeria, libri e prodotti
artigianali di qualità, e konw-how) e altri
prodotti (legno, schiavi, vino, armi, lino) e
mantiene un rapporto diretto con la
campagna circostante (un’isola rispetto al
collasso del territorio della Campania nel
V secolo) dalla quale la Chiesa e le autorità
civili e militari traggono le risorse, non
(2) Per quanto riguarda le modalità
dell’accentramento della popolazione, R.
Francovich, R. Hodges (2003) e M. Valenti,
sulla scia di C. Wickham 1981, hanno
proposto, per la Toscana meridionale
attorno alla metà del VI secolo, una fase
definita “caotica” nella quale vengono
meno rapporti sociali gerarchici e nelle
campagne si aggira “ una massa di
individui tendenzialmente liberi per
brevissimo tempo” (Valenti 2004, p. 70)
che prende l’iniziativa di vivere in
agglomerati, per costituire una “massa
biologica” di un centinaio di individui in
grado di gestire un nuovo modello di
sfruttamento delle risorse rurali, nel quale
11
La fine del sistema fiscale tardoantico,
introdotto da Diocleziano e riscosso dai
governatori provinciali attraverso le curie
cittadine, nei territori longobardi significò,
secondo i più (tra cui Wickhm 1984), la fine
della tassazione fondiaria, in quelli bizantini il
suo affidamento, entro la metà del VII, ai
vescovi. Questi erano i soli che nell’Italia
altomedievale avevano le competenze
tecniche per censire le proprietà e registrarne i
pagamenti. O quantomeno per un controllo
sulla raccolta delle tasse, come emerge nella
Hispania visigota, dove la legislazione e i
concili assegnano loro un ruolo fondamentale
nell’organizzazione fiscale del regno. Si veda a
questo proposito il documento noto come De
fisco barcinonensi del 592 (Vives, p. 54), che ci
informa dettagliatamente su quanto dovessero
sborsare i contribuenti per ogni modio (9
silique) e quanto spettasse ai vescovi, sia per la
raccolta (1 siliqua) sia per convertire in denaro
contante il pagamento che veniva effettuato in
natura (4 silique). Per i vescovi “la difesa dei
contribuenti
di
fronte
agli
eccessi
dell’amministrazione imperiale e l’assunzione
di responsabilità nel rifornimento annonario,
si coniugavano perfettamente con i doveri
pastorali di protezione degli umili e di
sostentamento dei poveri” (Cosentino c.s.). Ma
non solo, significava anche l’affermazione di
vincoli sociali tra i proprietari della terra e il
vescovo e dunque di rapporti economici e
gerarchici tra la campagna (che produceva
surplus) e la città (dove questo surplus veniva
raccolto). Vincoli rafforzati dalla triplice
identità del vescovo: pastore di anime,
collettore di tasse per lo Stato, dispensatore di
assistenza per i ceti più deboli.
solo per il loro sostentamento (la Chiesa
per mantenere i monasteri e fornire
assistenza ai poveri; lo Stato dal VII sec.
per distribuire, in cambio di servizi, terra
in sostituzione di una paga), ma anche per
produrre
un
certo
surplus
da
commercializzare (Arthur 2002, p. 139)
Il quadro che emerge in molti territori, allo
stato della ricerca, sembra delineare una
riorganizzazione del popolamento delle
campagne in rapporto ad una nuova
funzione economica e sociale delle città e
all’affermarsi,
come
centri
demici
intermedi, dei grandi castra.
Senza escludere che alcune aree marginali
possano aver avuto evoluzioni simili a quelle
della Toscana meridionale, numerose sono le
evidenze che suggeriscono come i
cambiamenti siano stati promossi e gestiti
dalle autorità laiche coadiuvate, almeno in
parte, da quelle ecclesiastiche, sostituitesi alle
aristocrazie tardoantiche nel controllo
dell’economia. In un quadro dunque
accentuatamente gerarchico che legava le
campagne a città e castelli.
In un paesaggio di potere nel quale
emergevano città di antica fondazione e
castelli, le campagne appaiono, salvo casi di
marginalità, gerarchicamente subordinate e la
tendenza, soprattutto nei territori longobardi,
ad una concentrazione dell’insediamento,
accompagnata da un radicale cambiamento
delle strutture abitative, cui si è fatto cenno nel
paragrafo precedente, appare legata a nuovi
modelli economici, se non imposti dall’alto,
plausibilmente legati alle strategie insediative
degli invasori, che, non dimentichiamolo,
costituivano la nuova classe dirigente e alle
strategie dell’impero bizantino, nelle quali ha
una parte rilevante la fiscalità.
4. Conclusioni
Tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, il
teatro dell’eterna negoziazione tra gruppi
e individui e ordine sociale che stabilisce il
sistema dei valori e dei significati, cambia
radicalmente:
(a) nei modelli insediativi: da un rapporto
città – campagna gestito dalle aristocrazie
dei possessores che avevano residenza in
d. quali le ricadute sociali delle differenti
strategie (rispettivamente del regno longobardo
e dei territori dell’impero bizantino) nella
raccolta fiscale?
12
per smantellare un sistema complesso e
sofisticato qual era quello romano e
sostituirlo con un nuovo ordine, non solo
più semplice ma al contempo fondato, con
adattamenti e soluzioni locali, più sui
rapporti personali (e sociali) che non su
quelli pubblici. Un mondo al quale gli
archeologi, e gli storici, devono guardare
con
una
rinnovata
epistemologia,
rivisitando con nuove domande tutte le
fonti disponibili, materiali e scritte.
entrambe, ad una nuova gerarchia, nella
quale si inseriscono i castelli;
(b) nella fiscalità e nell’economia: da
un’economia sofisticata e specializzata
qual era quella romana, ad una più
semplice e con orizzonti locali, che alcuni
archeologi ritengono fosse tornata a livelli
protostorici (Carandini 1993, Francovich,
Hodges 2003), se non addirittura, in
alcune regioni, all’età del Bronzo (Ward
Perkins 2005);
(c) negli individui: le città tardo antiche e
altomedievali erano cosmopolite ancor più
di quanto lo siano le moderne città
occidentali: non solo quelle degli stati
romani barbarici dove si erano insediati
invasori ed immigrati, ma anche in quelle
rimaste sotto l’Impero: ad esempio a
Napoli
abitavano
Greci
di
varia
provenienza, nord europei, compresi goti
e
longobardi,
rifugiati
dall’Africa
conquistata dai Vandali, ebrei con una
propria sinagoga, armeni testimoniati nel
X secolo; un terzo dei documenti è stato
scritto in latino, ma con caratteri greci
(Arthur 2002, p. 23);
(d) nei valori: dalle necessità di difesa, non
solo delegate ai militari professionisti, ma
anche con il coinvolgimento dei civili, alla
Chiesa, che, erede del sistema burocratico
e amministrativo romano, aveva assunto
un ruolo centrale nella società e offriva
nuovi modelli e simboli di comportamento
sociale: dal vescovo pastore ed evergeta
(da Ambrogio a Severino, Eufrasio,
Paolino ecc.) coincidente talora con il
grande funzionario dello Stato, dal quale
derivava modelli di comportamento e
simboli di potere, al monaco al servizio
della comunità in particolare per
l’assistenza ai poveri, all’eremita, come
Emiliano, che rifiuta il mondo ma diviene
peraltro un simbolo che può essere
capitalizzato
dalle
aristocrazie
per
costruire l’unanimitas che serviva da base
al loro potere.
Una pluralità dunque di fattori e di
risposte per un cambiamento di civiltà in
un processo di lungo periodo, necessario
13
interazione tra questi due diversi sistemi di
gerarchizzazione sociale.
SEZIONE I
VECCHI E NUOVI
PROTAGONISTI
2. Definizione dell’oggetto di studio
2.1. Problema del variare del ruolo e del “peso”
relativo delle diverse aristocrazie nella società
in trasformazione: se si dovesse indicare una
linea generale di tendenza - per quel che
possono
valere
in
quest’epoca
le
generalizzazioni – verrebbe da dire una
progressiva
diminuzione
del
ruolo
dell’aristocrazia fondiaria cui si contrappone
una crescita del ruolo delle gerarchie militari,
religiose e burocratiche.
Grandi proprietari, ecclesiastici, burocrati e
militari: salire e scendere nella scala sociale
Enrico Zanini
2.2. Qui entrano però in gioco un complesso di
fattori che non possono essere ignorati.
Esistono per esempio elementi di asincronia su
base regionale (il fenomeno della “continuità”
di ruolo socio-economico dell’aristocrazia
fondiaria in alcune regioni dell’Italia
meridionale, per es. la Puglia); oppure
fenomeni di specificità locale (la burocrazia
amministrativa esercita ovviamente il suo ruolo
sociale soprattutto nelle città, che continuano ad
essere intese essenzialmente come centri
amministrativi e di gestione fiscale della
prefettura bizantina d’Italia).
1. Avvertenze preliminari
1.1. A dispetto di un titolo ambizioso, il mio
contributo non intende offrire risposte, ma
essenzialmente porre questioni, principalmente
di natura metodologica circa il rapporto tra
ricerca archeologica e storia sociale.
1.2. Non ho la competenza per affrontare il
tema proposto in tutte le sue articolazioni e
nelle differenti prospettive poste, per esempio,
dall’intrecciarsi di modelli di organizzazione
sociale assai diversificati nell’Italia dei secoli VIVIII (“Italie” longobarda e bizantina, ma anche
diverse “Italie bizantine”). Mi limiterò quindi a
qualche riflessione sui processi che mi pare di
vedere in atto nelle regioni italiane rimaste più
a lungo sotto il controllo bizantino.
O ancora elementi di diacronia e di variazione
all’interno delle singole classi: l’affermarsi del
ruolo egemone della chiesa è un fenomeno
evidentemente in divenire, che ‘esplode’
all’epoca di Gregorio Magno; il ruolo dei
militari non è evidentemente lo stesso all’epoca
della guerra greco-gotica, dove le gerarchie
militari sono l’espressione forse più alta
dell’organizzazione statale bizantina (p.e. ruolo
sociale ed economico dell’annona militare), e
nel VII-VIII secolo, quando il potere militare
tende invece a “localizzarsi”.
1.3. Nonostante i suoi limiti oggettivi, questa
prospettiva mi pare non di meno interessante,
giacché tira in ballo una delle questioni credo
centrali per la comprensione di alcuni dei
meccanismi sociali dell’età della transizione:
quello del rapporto con la continuità
dell’organizzazione socio-economica e di
gestione del potere propria della tradizione
romana, nella sua “interpretazione” bizantina. I
concetti stessi di proprietà fondiaria, gerarchia
ecclesiastica, burocratica e militare hanno infatti
evidentemente accezioni assai diverse nel
mondo bizantino e nel mondo longobardo e
uno dei caratteri dominanti del panorama
italiano nella lunga fase della transizione, mi
pare possa essere individuato proprio nella
2.3. La profonda trasformazione delle curie
urbane, con la “fuga” dei ceti più elevati dai
munera sempre più pesanti e la progressiva
affermazione di singoli o di gruppi di potere
(potentiores) all’interno delle assemblee. Un
processo che trasforma dapprima in
“piramidale” poi in “insulare” (ci sono cioè dei
nuclei che detengono il potere effettivo) il
14
individuo), che saranno trattati in altre sessioni
di questo convegno.
modello di funzionamento di un organismo
che era in epoca antica sostanzialmente
egualitario o quantomeno scandito in fasce
orizzontali su base delle funzioni ricoperte protempore.
Io vorrei invece cercare di orientare la mia
riflessione sulla possibilità di conferire visibilità
archeologica alla presenza e all’attività di
diversi gruppi sociali a partire da indicatori
collettivi, spostando l’attenzione dall’analisi
‘quantitativa’ e genericamente ‘obiettiva’ dei
presunti ‘dati’ archeologici alla possibilità di
leggere ed interpretare in maniera più articolata
e complessa le singole tracce, alla luce di un
raffinamento della domanda storica che sta alla
base di qualsiasi conoscenza archeologica.
2.4. Le altre classi in ascesa. Accanto alle
aristocrazie tradizionali e a quelle “nuove”,
anche nell’Italia bizantina – come del resto
accade un po’ in tutto l’impero – si coglie uno
svilupparsi il ruolo sociale di altri gruppi
(alcune frazioni dei “ceti medi”: artigiani,
commercianti, funzionari pubblici di medio
livello), che conquistano progressivamente
visibilità sociale e spazi di azione che erano loro
tradizionalmente negati nel mondo romano.
3.2. Una prima riflessione potrebbe riguardare
per esempio le forme di rappresentazione e
autorappresentazione delle vecchie e nuove
aristocrazie.
2.5. L’impressione generale è quella non tanto
di classi o gruppi che salgono o scendono nella
scala sociale, quanto di un sostanziale
ampliamento del numero e della “varietà” di
coloro che esercitano una qualche forma di
potere e che hanno quindi un ruolo
socialmente attivo.
La disposizione piramidale e la prospettiva
gerarchica nella base dell’obelisco di Teodosio I
a Costantinopoli costituiscono l’esempio più
chiaro di una nuova concezione del potere che
non discende tanto dalla appartenenza o dalla
funzione esercitata, quanto dal grado di
vicinanza al supremo potere imperiale. Una
sorta di “kinship estesa” – su base
dell’appartenenza a un gruppo comune, quello
dei detentori del potere -, che troverà la sua
esplicitazione nel proliferare, nel mondo
bizantino dei secoli successivi , delle cariche ad
personam.
A questo fenomeno corrisponde poi una
condizione
di
sempre
più
marcata
“personalizzazione” del potere. L’esercizio di
un ruolo sociale discende sempre meno dalla
appartenenza del singolo a una classe o a un
gruppo (o anche dal ricoprire cariche elettive) e
sempre più dallo status sociale individuale,
quale che siano le vie (di sangue, economiche,
di funzione) attraverso cui esso è stati
conseguito.
La rappresentazione del potere personale: nel
pannello di S. Vitale a Ravenna, compaiono
fianco a fianco l’immagine del potere costituito
e che non ha bisogno di ulteriori definizioni, se
non quelle fisionomiche e derivanti dall’abito
cerimoniale (Giustiniano), e quella del potere
personale del vescovo Ecclesio e dell’argentario
Giuliano reso esplicito da una didascalia con il
nome o da un ritratto fisiognomicamente
definito.
3. Il problema della visibilità archeologica
3.1. Fenomeni complessi come quelli cui si è
appena accennato pongono una questione
fondamentale di visibilità archeologica, vale a
dire di individuazione di indicatori archeologici
più o meno univocamente riferibili alla
presenza e all’attività individuale o collettiva di
appartenenti a un gruppo sociale o comunque
di detentori di uno status sociale individuale.
3.3. Una seconda riflessione potrebbe
riguardare il ruolo che i vecchi e i nuovi poteri
hanno nella definizione e nella ridefinizione
degli spazi urbani.
Da questo punto di vista esistono ovviamente
alcuni territori privilegiati della ricerca
(epigrafia, archeologia funeraria e più in
generale tutti quegli ambiti in cui l’oggetto di
studio è la traccia lasciata dal singolo
Fenomeni interessanti in questa prospettiva
non mancano certamente:
15
sono tendenzialmente generali e polisemantici
come quelli dei reperti mobili.
a. Nella Costantinopoli del V secolo, la
collocazione delle residenze di prestigio degli
alti funzionari dell’amministrazione statale
negli immediati dintorni del Grande Palazzo
imperiale, in una sorta di proiezione
urbanistica della “kinship estesa” messa in
scena nelle sculture del basamento dell’obelisco
di Teodosio.
Va infatti da sé che i reperti mobili (in
particolare la ceramica) sono strumenti
preziosissimi per costruire una storia di grandi
linee e di grandi numeri - ovvero di fenomeni
di grande portata e di lungo periodo – ma sono
in buona misura inadatti per ricostruire la storia
di singole classi sociali e ancor di più di singoli
gruppi all’interno di classi non precisamente
strutturate.
b. Parallelamente, nella Roma del V secolo – ma
anche in molte città di tradizione antica in
Oriente – il fenomeno della privatizzazione di
spazi pubblici da parte di esponenti delle élites.
Un fenomeno formalmente contrastato sul
piano legislativo, ma evidentemente dilagante,
che ridisegna la mappa di interi quartieri della
città (per esempio sul Palatino, ma anche in
settori del Campo Marzio) e che apre di fatto la
strada alla costituzione di quei nuclei
“insulari”, spesso anche difesi, che
costituiranno il tratto dominante di molte città
italiane nei secoli dell’Alto Medioevo.
Da questo punto di vista si tratta dunque di
esplorare i confini della disciplina, di
evidenziare le aree di ricerca comune con le
altre discipline storiche e di cercare in queste
aree gli strumenti concettuali per superare le
difficoltà poste dalla natura del sistema delle
fonti archeologiche.
Una delle strade possibili è a mio parere quella
della valorizzazione della polisemanticità degli
indicatori archeologici in relazione ai diversi
contesti di produzione, distribuzione, uso,
scarto del singolo manufatto. A partire dalla
considerazione – senz’altro ovvia, ma troppo
spesso dimenticata – che la produzione,
l’acquisto, l’uso e lo scarto di un oggetto sono
espressione di una serie di comportamenti
complessi in cui entrano in gioco numerosi
fattori, tra cui spesso anche quello dello status
sociale del soggetto che opera.
c. La trasformazione del ruolo “urbanistico”
della Chiesa nel passaggio tra la Tarda
Antichità
e
l’Alto
Medioevo.
La
cristianizzazione estensiva “deforma” le città
antiche, nel senso che cambia profondamente la
loro forma fisica e le loro infrastrutture.
Soprattutto con la conquista dei centri
monumentali antichi (tra V e soprattutto
VI/VII secolo) le chiese vanno a costituire i
nuovi punti focali intorno a cui si riorganizza
l’impianto urbano: cambiano i percorsi
all’interno della città e questo avviene non solo
nelle città in crisi, in cui spesso la nascita di
nuovi tracciati urbani è determinata dalla crisi
del sistema edilizio antico (rovesciamento
pieni-vuoti a Roma), ma anche in città che sono
tutt’altro che in crisi (caso di Gortina).
Il manufatto – ovvero la ‘filiera’ della/e sua/e
vita/e – come possibile indicatore di un
atteggiamento mentale ‘aristocratico’, come
indicatore di una percezione di sé come
detentore di uno status, che può/deve essere
‘rappresentato’ all’esterno ma anche in qualche
misura introiettato.
d. L’ingresso dei militari in città e i suoi
molteplici riflessi su l’impianto urbano.
Fenomeni differenti ma paralleli che si
riscontrano in tutte le città bizantine e che
possono in qualche misura essere letti anche
nelle città italiane.
3.5. Un esempio può rendere forse più
comprensibile la questione. Ritorniamo sulla
“vexata quaestio” della distribuzione in Italia
delle merci di importazione e sulla complessità
dei problemi che stanno dietro a questo
fenomeno.
3.4. Una terza – e assai più complessa –
riflessione potrebbe riguardare la possibilità di
utilizzare in funzione della risposta ad una
domanda storica così complessa, indicatori che
È – credo – evidente che sarebbe riduttivo e in
buona sostanza poco utile continuare a
ragionare
in
termini
di
continuità/discontinuità. In un mondo in così
16
polisemanticità, per provare a leggere dietro i
meccanismi generali come quelli della
produzione, della distribuzione e del consumo,
i processi in cui entrano in gioco
comportamenti complessi come quelli umani,
che riflettono – in quest’epoca ben più
chiaramente che non nel mondo antico – non
solamente elementari necessità di sussistenza,
ma anche e soprattutto atteggiamenti mentali
che molto hanno a che fare con la
consapevolezza,
l’affermazione
e
la
rappresentazione esterna del proprio status.
profonda trasformazione come quello dell’Italia
e del Mediterraneo nell’età della transizione il
perpetuarsi di una traccia archeologica non
significa necessariamente – anzi oserei dire non
significa praticamente mai – il perpetuarsi di un
dato archeologico.
Le tracce – più o meno labili, ma questo è un
altro discorso – ci dicono che ceramica da
mensa e anfore di importazione continuano ad
arrivare (in misura più o meno consistente, ma
anche questa è un’altra prospettiva) un po’ in
tutti i distretti dell’Italia del VI e del VII secolo.
Quel che resta da comprendere sono i
meccanismi che regolano questi afflussi,
meccanismi che sono evidentemente diversi tra
le due macro-aree (bizantina e longobarda) e
che rischiano anche di essere piuttosto diversi
anche all’interno di queste macro-aree che sono
tutt’altro che omogenee.
4. Conclusioni
4.1. Si tratta di una linea di ricerca ancora allo
stato embrionale; di un gioco complesso, per il
quale l’archeologia deve trovare buoni
compagni di strada. Giacché la questione di un
approccio olistico alla comprensione dei singoli
contesti (con ciò intendendo il paradigma
interpretativo che rende possibile trasformare
una traccia archeologica in un dato storico
confrontabile e quindi realmente utilizzabile)
passa inevitabilmente per forme assai strette di
integrazione tra le diverse prospettive di
ricerca.
Merci che qualche secolo prima erano presenze
costanti sui mercati sono ora diventate – in
misura ovviamente differente tra le due
macroaree e all’interno di esse – merci rare e
costose, merci di prestigio e quindi
immediatamente anche indicatori di status
sociale (proprio quegli indicatori che andiamo
cercando).
4.2. A partire, per esempio, dalla possibilità di
rovesciare i termini tradizionali del rapporto tra
dato archeologico e interpretazione storica, che
vede spesso l’utilizzo delle fonti extra
archeologiche in funzione della ricerca di
conferme/spiegazioni per i “dati” archeologici
assunti nella loro postulata oggettività.
Nel viaggio che le porta dai luoghi di
produzione, a quelli di consumo, di riuso e di
scarto, le merci si arricchiscono via via di
significati e vedono ampliarsi, insieme con il
loro valore venale, anche il panorama dei loro
significati simbolici. Solo per fare un esempio: il
signore longobardo che decide di farsi
seppellire con uno spatheion africano come
corredo sta dichiarando un preciso valore
simbolico aggiunto a un oggetto che nasce per
l’uso comune: il contesto conferisce a una
semplice traccia archeologica (la presenza dello
spatheion) il valore di dato interpretato; ciò
genera una possibile chiave interpretativa per
comprendere meglio anche la presenza di
materiali analoghi in contesti diversi.
L’idea è che se il problema storico si fa più
complesso (cioè se si fanno più complesse le
domande storiche che intendiamo porre, e
l’archeologia sociale è per definizione uno dei
luoghi della massima complessità) si possa
pensare ad un processo conoscitivo in qualche
misura inverso, che parta da una domanda
storica articolata, generata da una lettura
attenta e puntuale delle fonti, alla ricerca di una
lettura possibile del dato archeologico.
Al di là di casi così espliciti come quello appena
citato, anche sotto molti altri punti di vista, i
manufatti di uso comune possono essere
interrogati – all’interno dei loro diversi contesti
di rinvenimento – esaltando la loro
Per un’epoca complessa e magmatica come
quella dell’età della transizione, si tratta – io
credo – in primo luogo di cominciare a
costruire un regesto delle fonti, una sorta di
17
indice dei problemi aperti (e tra essi in primo
luogo quello dei tanti ruoli delle tante
aristocrazie delle Italie di questi secoli) intorno a
cui orientare la riflessione e il riesame
interpretativo dei dati archeologici disponibili.
È con questa “lista dei problemi” ben chiara in
mente che possiamo forse pensare con qualche
maggiore ragionevolezza di tentare di rileggere
le tracce archeologiche alla ricerca di un nuovo
filo rosso che ce ne spieghi meglio l’origine e ci
consenta di “rintracciarvi” i segni lasciati dalla
complessità dei comportamenti individuali e
sociali degli umani.
Si tratta, insomma, di muoversi ancora una
volta nell’ottica di quel continuo “cambio del
metodo al bivio della conoscenza”, che Tiziano
Mannoni indicava qualche anno fa come uno
strumento concettuale fondamentale per
tentare di affrontare questioni così complesse a
cui non è possibile pensare di fornire una
soluzione se non ricorrendo a forma più alte e
raffinate di confronto e integrazione fra sistemi
di fonti e metodi per indagarli.
18
svolto nella riorganizzazione degli assetti
urbani e rurali.
Il ruolo dei vescovi nei processi di
trasformazione del paesaggio urbano
e rurale
Questo ritardo riguarda in particolare
l’ambito archeologico, poiché, al contrario,
il ruolo fondamentale di quello che può
essere considerato il vero protagonista
(anche se non certamente l’unico artefice)
di questo fenomeno, il vescovo, era stato
già colto, sia pur in maniera pionieristica,
dai primi studiosi della città tardoantica e
altomedievale, come G. Mengozzi e H.
Pirenne, nonostante un’attenzione quasi
esclusiva agli aspetti giuridici e storici.
Fino a tempi recenti, pertanto, sulla
definizione della funzione del vescovo si
sono avuti prevalentemente studi di
carattere storico-giuridico, mente gli
aspetti materiali e insediativi sono stati a
lungo trascurati; solo da poco gli
archeologi
hanno
cominciato
ad
approfondire questi temi, per cui è ora
auspicabile che si affermi finalmente un
approccio realmente globale nella lettura
delle trasformazioni dei paesaggi urbani e
rurali in età tardoantica e altomedievale.
Giuliano Volpe
L’argomento
della
relazione
è
estremamente ampio e complesso, anche
perché di fatto si sovrappone al più
generale tema della cristianizzazione delle
città e delle campagne. La prima difficoltà
è relativa allo stato della documentazione,
al
momento
ancora
molto
poco
sistematica,
assolutamente
non
paragonabile, ad esempio, a quella
disponibile in Francia grazie in particolare
al progetto, avviato negli anni Settanta,
sulla Topographie chrétienne des cités de la
Gaule. Da alcuni anni però l’argomento è
entrato, finalmente impostato su basi
nuove, nel vivo del dibattito sulla
transizione dall’Antichità al Medioevo,
con il superamento di antichi steccati,
quasi invalicabili (e spesso legati solo a
logiche accademiche) proprio tra gli
studiosi del Tardoantico e Altomedioevo,
che hanno provocato dannose separazioni
di ambiti disciplinari e indotto letture
incomplete o addirittura distorte: infatti,
sul versante dell’archeologia cristiana
‘tradizionale’ ci si è a lungo limitati
all’analisi degli aspetti storico-artistici,
iconografici e liturgici e allo studio degli
edifici di culto, dei cimiteri e dei manufatti
ascrivibili alla committenza cristiana,
pubblica e privata, spesso considerati
come realtà isolate e separate rispetto al
contesto storico e insediativo delle città e
delle
campagne
tardoantiche
e
altomedievali; sul versante degli studi
archeologici tardoantichistici (la cui
tradizione è peraltro alquanto recente) e
medievistici ha a lungo prevalso una
grave
sottovalutazione
del
ruolo
morfogenetico che proprio gli edifici di
culto, e più in generale il cristianesimo, ed
in particolare l’iniziativa vescovile, hanno
In generale l’attenzione si è finora
concentrata maggiormente sugli edifici
religiosi e sulla cristianizzazione delle città
(Testini, Cantino Wataghin, Pani Ermini
1989; Pani Ermini 1998), in particolare
nell’Italia
settentrionale
(Cantino
Wataghin 1992, 1995, 1996), e solo molto
recentemente l’attenzione si è rivolta
anche alle campagne (Violante 1982 e
Fonseca 1982; ma cfr. ora Pergola ed. 1999;
Brogiolo ed. 2001, 2003). Lo stesso vale,
più specificamente, in relazione al ruolo
vescovile, di cui vari studi hanno
sottolineato la centralità nelle vicende
urbane, con approfonditi studi storici
(Lizzi Testa 1989) ed anche con convegni
monografici (Rebillard, Sotinel eds. 1998).
I vescovi non furono solo i garanti del
mantenimento di una vita cittadina a
livello istituzionale e amministrativo, di
fatto salvaguardando le funzioni della
civitas, ma anche a livello materiale.
Nonostante la persistenza formale delle
19
e nelle campagne, si venne ad attuare un
processo di forte cristianizzazione della vita
quotidiana urbana e rurale, con la creazione di
una nuova gerarchia sociale, nonché di un
vero e proprio sconvolgimento delle strutture
mentali, in particolare grazie all’azione dei
vescovi. In questo processo occupò un posto
di rilievo la chiesa episcopale o meglio il
complesso episcopale, che costituiva anche
uno spazio di socializzazione per le numerose
funzioni che vi si esplicavano (istruzione della
catechesi,
l’arruolamento
dei
neofiti,
l’assemblea dei fedeli, l’episcopalis audientia, la
promessa degli sposi, la colletta, le
distribuzioni ai poveri e le altre attività
caritatevoli, l’ospitalità ai pellegrini e ai
viaggiatori, l’ordinazione dei chierici,
l’elezione dei vescovi, ecc.). La progressiva
istituzione di chiese parrocchiali e di quelle
martiriali e/o cimiteriali andò articolando il
quadro di una completa cristianizzazione
dello spazio urbano e suburbano, in cui
l’azione vescovile fu sempre determinante: da
una fase iniziale in cui le scelta dei luoghi per
gli edifici di culto appare dettata da fattori
casuali e contingenti si passò infatti a scelte più
mirate e strategiche, in modo da creare nuovi
‘baricentri’ del potere rispetto a quelli
precedenti, stabilendo una sorta di rete
cristiana e, quasi, una cortina protettiva della
città. In tal senso i vescovi più che semplici
eredi della tradizione classica cittadina si
presentano come creatori di nuove morfologie
dello spazio urbano, suburbano e rurale. Tutto
apparentemente doveva sembrare immutato,
perché tutto potesse cambiare radicalmente.
curie cittadine, i vescovi, pur privi di
effettive funzioni pubbliche (Gaudemet
1958), dopo l’istituzione da parte di
Costantino dell’episcopalis audientia che
conferiva loro grande autorità per i
processi civili, in particolare dal V secolo
in poi, vennero assumendo il carico
dell’amministrazione cittadina, anche con
la nomina dei defensores civitatis (Mannino
1984; Frakes 2001) e diventando i
responsabili della raccolta fiscale e delle
uscite, dell’approvvigionamento e delle
distribuzioni alimentari, con la gestione, di
fatto nelle proprie mani, di due casse
formalmente separate, quella municipale e
quella ecclesiastica (Durliat 1990 e 1996). Il
vescovo inoltre assunse anche una
funzione di patronato nei confronti della
città (Lepelley 1998), delle cui esigenze si
faceva interprete e rappresentante anche
nei confronti del potere politico e in tutte
le occasioni di difficoltà e di pericolo,
soprattutto in caso di guerra: sono
numerosi gli esempi documentati a tale
proposito dalle fonti. È per questo che la
funzione vescovile finì per essere
fortemente ambita anche dagli esponenti
delle aristocrazie locali, che videro in
questa carica un esito importante del
proprio cursus. Inoltre, va sottolineato
come tutte queste funzioni, associate a
quelle propriamente ecclesiastiche, tra cui
non era irrilevante l’assistenza ai pauperes
(uno dei compiti principali dei vescovi
tardoantichi) ed anche ai mendicanti (Neri
1998), necessitassero di strutture e spazi
adeguati. In tal modo gli edifici episcopali
si andarono ingrandendo, acquisendo la
fisionomia di veri e propri complessi
multifunzionali e assumendo il ruolo, non
solo a livello topografico, di nuovi centri
del potere cittadino. Questo fenomeno è
verificabile in molte città.
A parte alcuni casi precoci risalenti al IV secolo
(ovviamente Roma e Milano e, ad esempio,
Aquileia), il fenomeno ebbe il suo momento di
consolidamento tra V e VI secolo, che
rappresentano senza dubbio la fase di
affermazione del vescovo quale figura centrale
nella vita delle città e delle campagne.
Con la progressiva conquista del tempo (la
celebrazione domenicale e la definizione del
ritmo liturgico ebdomadario, l’Epifania,
l’Avvento, la Pasqua, la Pentecoste, le
celebrazioni dei martiri, ecc.) e dello spazio
(Pietri 1993), prima nelle città poi anche nei vici
Nella consapevolezza dell’ampiezza del tema
e dell’impossibilità di fornire un quadro
esaustivo, la relazione si occuperà di alcuni
casi esemplari che possano illustrare gli aspetti
generali e più significativi del fenomeno,
20
Si
è
potuta
inoltre
riscontrare
un’associazione ricorrente, che pare
particolarmente significativa per spiegare
il fenomeno, tra le sedi episcopali sorte in
vici e la presenza di ampie proprietà
imperiali (De Fino 2005), a volte trasferite
al patrimonio ecclesiastico e organizzate
nella forma della massa fundorum (Vera
2001). È questo il caso di Albano, Ad
Baccanas, Lorium, Vicohabentia, Tropea,
Nicotera e del saltus Carminianensis in
Apulia. Le chiese rurali, poste spesso lungo
arterie viarie importanti, fungevano da
fulcro di abitati, con una chiara funzione
di catalizzatore del territorio rurale e di
luogo di mercato (nundinae) e un ruolo
rilevante per la produzione agricola e
artigianale, lo stoccaggio dei prodotti
agricoli e il pagamento delle imposte:
attività queste nelle quali l’iniziativa
vescovile
risultava
assolutamente
significativa. L’esempio più emblematico è
forse
proprio
quello
del
saltus
Carminianensis,
un’estesa
proprietà
imperiale nell’Apulia, afferente in età
tardoantica all’amministrazione sacrae
lartitiones (e poi forse confluita in età
gotica nelle patrimonio della domus regia e
successivamente recuperata alla proprietà
imperiale dopo la guerra greco-gotica)
nella quale si insediò nel tardo V secolo
una diocesi, la cui sede episcopale è stata
riconosciuta nel monumentale complesso
paleocristiano di San Giusto (Volpe 1998,
2001, 2004). In questo caso, è stato
possibile verificare, all’interno di un
territorio ben definito, la Valle del Celone,
intensamente sfruttato a fini agricoli e
caratterizzato da un fitto popolamento
rurale, articolato in grandi e lussuose ville,
in piccole fattorie e in villaggi, la presenza
di almeno altre due chiese paleocristiane
rurali poste a pochi chilometri da San
Giusto, entrambe collocate all’interno di
due vici tardoantichi: si potrebbe pertanto
configurare in questo caso una certa
organizzazione parrocchiale della diocesi
rurale.
escludendo le città capitali (Roma, Milano e
Ravenna, oggetto peraltro di specifiche
relazioni) e soffermando l’attenzione, per quel
che riguarda l’ambito urbano, su città di
piccole-medie dimensioni e, per l’ambito
rurale, in particolare sugli abitati secondari e
specificamente sul fenomeno delle diocesi
rurali, con particolare riferimento alle regioni
dell’Italia meridionale.
Le diocesi rurali, particolarmente diffuse in
Italia, illustrano bene infatti, meglio ancora
delle chiese poste nelle villae e nei vici
(particolarmente significativi quelli legati alla
viabilità terrestre e marittima), la forza
dell’iniziativa episcopale. È infatti una
peculiarità del processo di cristianizzazione
delle campagne italiane la presenza di un certo
numero di vici promossi a sede episcopale:
un’evoluzione non rara nella prassi, anche se
fortemente contrastata dalla gerarchia
ecclesiastica (con precise disposizioni nei concili
di Serdica e poi di Laodicea, Cartagine,
Costantinopoli e Calcedonia). Il fenomeno
appare quasi eccezionale nell’Italia Annonaria
con solo due casi (Sabiona e Vicohabentia),
mentre risulta molto più esteso in area centromeridionale (Lorium, Aquaviva sulla via
Flaminia, Tres Tabernae sull’Appia, Ad
Quintanas, Albano, Aufinum, Cluentum Vicus,
Trani, Carmeianum, Tropea, Nicotera, Cerillae,
Myria), sia per la maggiore diffusione in queste
regioni del sistema vicano (vari abitati
secondari acquisirono la dignità di sedi
vescovili, sia per la particolare vitalità
dell’economia agraria di queste regioni durante
il Tardoantico. È particolarmente significativa,
in alcuni casi (Trani, Tropea, Nicotera, Albano)
l’evoluzione urbana del vicus, per cui si è
sottolineata in questi casi la cosiddetta
‘funzione poleogenetica del vescovo’. La breve
durata
e
l’abbandono
nel
corso
dell’Altomedioevo di altre diocesi rurali
dimostrano però come l’iniziativa vescovile
non potesse essere sufficiente, in mancanza di
altri fattori (in particolare la collocazione su
grandi arterie e soprattutto in siti portuali), a
garantire sempre un’evoluzione in senso
urbano.
21
di osservare la costruzione culturale,
all’interno di un dato contesto sociale e
cronologico, delle caratteristiche ‘maschili’
e ‘femminili’ dei suoi membri. Come ha di
recente sottolineato Julia Smith (2005), le
differenze di genere sono infatti, in
particolare nella società altomedievale, le
categorie di base di organizzazione
dell’ordine sociale: difficilmente mutabili
nel corso della vita di un individuo, le
caratteristiche di genere sono perciò un
elemento di maggiore fissità rispetto ad
altre modalità – assai più variabili e fluide
- che regolavano l’appartenenza degli
individui a gruppi sociali, determinando
l’accesso alle risorse e alla creazione
dell’identità, quali il rango, l’appartenenza
etnica e il credo religioso. Se le ricerche di
Janet Nelson, Leslie Brubaker e ancora
Julia Smith hanno dimostrato la rilevanza
delle differenze di genere nella gestione
della proprietà fondiaria, nel raccordo con
il gruppo familiare di origine, nelle
strategie familiari di riproduzione dei
gruppi e nelle fondazioni religiose,
sottolineando – in tutti questi casi – il
progressivo irrigidimento delle possibilità
del genere femminile verificatosi in età
carolingia; le ricerche di G. Hallsall e Irene
Barbiera
hanno
invece
considerato
l’aspetto archeologico delle evidenze sui
generi, prendendo in esame anzitutto
l’evidenza delle necropoli. Tratterò di
questo tema alla fine. Prima mi concentro
sul tema degli oggetti funerari in rapporto
al potere e ai legami pubblici e privati.
Storia dei generi e archeologia dell’alto
medioevo: il dibattito europeo
Cristina La Rocca
Storia dei generi, storia delle donne? Problemi
di alterità culturale
Nella storiografia italiana, pervasa per
tradizione dalla tradizione filologica di
matrice positivista e da quella economico
giuridica, la storia sociale e, la storia dei
generi in particolare, ha avuto una fortuna
limitata sia sotto il profilo degli studi che
sono stati dedicati a questo tema, sia sotto
il profilo dei risultati. Innanzitutto,
abbiamo assistito, a partire dagli anni ’70 a
un certo numero di lavori dedicati
genericamente a tracciare vaghi profili di
identità femminili – intendendo quindi
implicitamente che fare storia dei generi
significasse fare ‘Storia delle donne’ –
concentrandosi sulle attività femminili e
creando – nell’immaginario collettivo – un
tempo medievale in cui le donne avevano
aperte mille possibilità senza considerare
che – a dispetto di questo – il controllo
delle loro attività e dei processi produttivi
in genere è rimasto in mano maschile.
Questa caratterizzazione tra storia di
genere e storia delle donne ha causato
l’irrigidirsi delle posizioni degli storici
delle istituzioni: la storia di genere è fatta
normalmente da studiose donne è vi è
ancora chi, con grande cautela, se ne
allontana ritenendolo un campo di studi
marcatamente ideologico, attivato e
praticato dalle femministe (o ciò che ora di
esse rimane): un orto conchiuso negli scopi
e negli obiettivi e quindi anche da evitare
con cura. Trattare di storia del genere
(maschile, femminile, neutro) non significa
però né limitarsi a studiare le donne, né
tantomeno a osservare i rapporti tra i sessi
semplicemente sotto il profilo biologico: è
stato giustamente messo in rilievo (a
partire dai primi anni’70) che utilizzare la
terminologia ‘Storia dei generi’ permette
Nella seconda metà del X secolo, il sodale di
Ottone I, Liutprando da Cremona, nel
comporre un ritratto totalmente negativo
dell’aristocrazia
italica
di ascendenza
carolingia, utilizzò, rovesciandolo, il genere
retorico del panegirico imperiale, per
dimostrare, in forte contrasto, i presupposti
morali su cui era invece fondata la legittimità
della nuova dinastia ottoniana. Nonostante il
riferimento testuale derivi indubbiamente
dagli Anecdota (o Storia Segreta) di Procopio di
Cesarea - che appunto comparvero per la
prima volta come testo coerente soltanto nella
22
guardò e vide pendere dalle natiche della
donna la parte finale della cintura. Willa, dice
Liutprando, aveva nascosto la cintura preziosa
nella propria vagina. La rappresentazione
dell’atrocità compiuta da Willa è quindi
duplice, agli occhi del sostenitore di Ottone1:
metà del X secolo, Liutprando scelse di
esemplificare l’indegnità dei discendenti dei
Carolingi attribuendo loro caratteristiche di
azione di genere femminile, quali anzitutto la
calliditas (cioè l’astuzia nel perseguire i propri
fini con discorsi ingannevoli), la cupiditas (cioè
il desiderio insensato di potere), e infine
l’organizzazione di clientele politiche non
tramite gli usuali vincoli di natura pubblica di
reciproca fedeltà, fondati anzitutto sul
sostegno militare, bensì attraverso una serie di
legami segreti e privati, che prendono
anzitutto forma in una frenetica attività
sessuale. Proprio perché in quest’opera genere
maschile e genere femminile risultano
volontariamente alterati, per rendere in modo
grottesco la corruzione politica complessiva,
l’Antapodosis risulta un buon punto di
partenza per osservare tre aspetti: il genere e
gli ornamenti, poi il genere e il corpo e, infine,
il genere e l’appartenenza sociale.
1
LIUTPRANDI, Antapodosis, IV, 11-12, pp. 110-111.
“Harum (cioè le figlie di Berta e Adalberto di Toscana)
Willa, Berengarii huius, qui nunc superest, vere marita,
hoc effecit, ne genitrix sua omnium esset mulierum
nequissima. Ut autem non per longas ambages eius acta
ponamus, uno turpissimo descripto, quae et quanta in
ceteris fuerit, animadvertere poteris. XII. Vir ipsius Boso
mirae longitudinis et latitudinis aureum habuerat balteum,
qui multarum et pretiosarum splendebat nitore
gemmarum. Hunc, cum Boso caperetur, super omnes
gazas eius iligenter rex iussit inquiri; sumptisque divitiis
uxorem eius quasi profanam et sceleris totius auctricem
turpiter de regno Italico praecepit expelli atque in
Burgundiam, de qua oriunda fuerat, duci. Verum cum
diligenter omnia perscrutati balteum non reppererint,
cetera nuntii reportantes sunt ad Hugonem reversi. Tum
rex: 'Revertentes', inquit, 'falerarum eius omnem
apparatum, pulvinar etiam, quod equitando premit,
evertite. Et si nec ibi quidem balteum poteritis repperire,
vestimentis omnibus eam exuite, ne alicubi super se
possit latere; novi enim, quantum callida quantumque sit
cupida'. Igitur illis redeuntibus regisque iussioni
parentibus cum requisitis omnibus nil invenissent,
vestimentis eam omnibus nudaverunt.
Hoc denique tam turpe facinus atque inauditum cum
avertentibus oculis proborum nemo conspiceret,
servorum quidam directo obtutu purpuream secus natium
speroiden vidit dependere corrigiam, quam inpudenter
arripiens foediterque trahens, e secretiori corporis parte
eam secutus balteus est egressus. Servus itaque isdem
non solum inverecundus, sed eo ipso turpi facinore
hilarior redditus: 'Há! há! hé!' ait, 'quam peritus
obstetricandi miles! Ruffus puer est natus herae; quaeso,
ut sit superstes. O me fortunatum, immo omnibus
feliciorem, si tales saltem duos uxor mea mihi pareret
natos, hos quippe Constantinopolim dirigerem nuntios,
quoniam quidem, ut institoribus narrantibus agnovi,
huiusmodi libenter imperator nuntios suscipit'. Talibus
praeterea Willa confusa sermonibus lacrimis effusis
latentem sub corde aperit cunctis dolorem. Servus autem,
ut eorum suum est, eius deiectione non solum non
inclinatus, verum etiam animatus haec ad exaggerandum
doloris vulnus adiecit: 'Willa quid insanis? aurum quod
condere caecis Versus. Incipis in membris? pro non
audita cupido! Allecto furiis gemmas in corpore condis.
Matribus insolitum tales producere partus,
Hinc tibi
nulla decem tulerant fastidia menses. Alma parens, tales
nobis haud desine foetus Edere, qui nati superent te
aetate parentem!'
Genere e ornamenti
Non voglio soffermarmi qui sugli ornamenti
che più ovviamente sono riconducibili al
genere maschile e femminile: rispettivamente
a orecchini e collane e all’armamento (anche se
su quest’ultimo aspetto farò in seguito un
breve accenno). In questo contesto, vale la
pena ricordarvi un episodio giustamente
famoso, da cui intendo prendere le mosse per
trattare il tema degli studi di genere e
l’archeologia dell’alto medioevo. Narra infatti
Liutprando che alla morte del conte Bosone di
Provenza, anziché restituire – come di norma
– al re Rodolfo il balteum – la cintura - ornato di
pietre
preziose
che
rappresentava
materialmente l’ufficio pubblico detenuto dai
conti, la moglie Willa aveva trafugato
l’oggetto e se l’era portato con sé. Incaricati di
recuperare a ogni costo il balteum sottratto, i
fedeli di Rodolfo si recarono da lei e, dopo una
vana ricerca nel suo palazzo, giunsero infine a
denudare Willa, così come il re aveva loro
ordinato: di fronte a Willa nuda i nobili
distolsero lo sguardo dallo spettacolo di
umiliante degradazione di un proprio pari; un
servo, invece, non obbligato dalle regole
sociali del rispetto dell’onore dei propri pari, la
23
pur essendo una donna ha desiderato tenere
tutto per sé il potere, raffigurato dalla cintura,
tutto per sé; in secondo luogo, pur essendo
donna, la sua cupiditas e la sua aviditas le
hanno permesso di progettare a una
trasmissione
autonoma
del
potere
rappresentato dalla cintura stessa. Nel X
secolo, quindi, appropriarsi di un balteum da
parte della moglie di un funzionario pubblico
poteva essere presentato come una autentica
mostruosità: sia per l’usurpazione del potere
pubblico che impadronirsi di tale oggetto
comportava, sia per il profondo snaturamento
implicato dall’utilizzo di una cintura pubblica
da parte di una donna. Si può quindi
affermare con una certa tranquillità che le
cinture adorne di oggetti preziosi erano
diventate, nel corso del X secolo, un
ornamento maschile, cariche di implicazioni
sotto il profilo del loro significato: esse, alla
stregua dei regalia, diffusi nell’Europa
carolingia a partire dall’inizio del IX secolo,
significavano una posizione sociale e
funzionariale stabilmente acquisita e delegata
dal sovrano, e la loro trasmissione nel corso
delle generazioni era un processo di cui il
sovrano stesso doveva essere parte attiva.
Altri due esempi da Liuprando a proposito
cinture.
prerogative, anche materiali, che lo ponessero
nella condizione di essere nominato ufficiale
pubblico. Per esempio, Everardo donò al suo
primogenito Unroch la sua cintura con
decorazioni auree, insieme con una spada
dall’elsa d’oro e un pugnale decorato d’oro,
un manto di seta e un’armilla aurea che tutti
insieme prefiguravano il nuovo ruolo che
Unroch avrebe potuto avere al mometo della
morte del padre. Essi contrastavano
palesemente sia con gli oggetti elencati nello
stesso testamento per gli altri fratelli maschi di
Unroch (Berengario, futuro re d’Italia e
imperatore, Rodolfo e Adalardo), ma
soprattutto con quelli destinati a formare il
patrimonio delle sorelle: pur avendo in
comune parecchie tipologie di oggetti –
anzitutto i libri – ivi compresi i codici delle
leggi nazionali-, le stoffe, i paramenti
ecclesiastici e gli utensili anche preziosi – le
cinture non figurano nell’elenco dell’eredità di
nessuna delle figlie di Everardo e di Gisla,
figlia dell’imperatore Ludovico il Pio. Se
confrontiamo questi dati con quelli forniti
dalle fonti scritte per il periodo precedente, lo
stacco che separa il IX secolo dal periodo
precedente è molto sensibile: al momento
della loro monacazione, per esempio, sia
Radegonda – moglie di Clotario I – sia Baltilde
– figlia di Pipino II e di Itta – deposero
sull’altare (secondo le rispettive Vitae vita
composta all’interno del monastero regio della
Ste-Croix di Poitiers nella seconda metà del VI
secolo e del monastero pipinide di Nivelles
durante il secolo VIII) le proprie cinture
preziose, significando così – almeno dal punto
di vista simbolico – la loro rinuncia agli honores
del loro stato laicale per entrare appieno nel
sistema di simboli di rinuncia e di
abnegazione del loro nuovo status monacale2.
Fino all’inizio del secolo VIII, dunque, le
cinture erano un simbolo di autorità condiviso
La progressiva ‘genderizzazione’ al maschile
delle cinture è infatti un processo in cui dati
archeologici e fonti scritte possono
agevolmente condurci, permettendo di
delineare alcuni tratti significativi. Nel corso
della seconda metà del IX secolo, i testamenti
di Everardo del Friuli (864) e di Eccardo,
conte di Mâcon (858), indicano con chiarezza
che le cinture decorate con pietre preziose
erano ormai diventate il simbolo dell’autorità
comitale e che, come tali, esse potevano venire
trasmesse alla generazione successiva nel
tentativo di conferire a un figlio dele
2
. De vita sanctae Radegundis, p. 369: “Mox
instrumentum nobile, quod celeberrima die solebat,
pompa comitante, regina procedere, exuta ponit in altare
et blattis, gemmis ornamentis mensam divinae gloriae tot
donis onerat per honorem. Cingulum auri ponderatum
fractum dato opus in pauperum”; Vita sanctae Baltildis,
p. 491: “Etiam suum ipsum regale , quo ipsa cingebatur,
cingulum, desupra sacros lumbos suos devote abstulit et
fratribus in elemoniam ipsum direxit”.
Talia cunctanti collum percusserat unus Impiger ac
verbis ipsum culparat amaris.
His ita peractis balteus regi adducitur eaque in
Burgundiam destinatur. Utrum tamen, quae abscondit, an
qui eo inquirere iussit, foedius egerit, michi quidem
videtur amphibolum. Liquet tamen, quod uterque nimia
sit auri gemmarumque cupidine animatus.
24
re, che dovevano essere restituiti al
momento della morte del re stesso, che
non coincidevano – come da tempo i
diplomatisti hanno sottolineato, con i
sigilli che gli stessi referendari regi
apponevano – questa volta sì per delega
regia, sulle carte e sui diplomi.
dalle élites maschili e femminili, mentre in età
carolingia esse appaiono strutturarsi – in
rapporto a una più rigida organizzazione
degli honores. Una volta acquisito un
significato formale e istituzionale che
superava la dimensione domestica e privata,
caratteristica del genere femminile, le cinture
sono quindi genderizzate al maschile.
Genere e corpi, genere e ciclo vitale, genere e
eticità
Un processo inverso accade invece per le fibule:
simbolo dell’autorità pubblica fino al VI secolo, le
fibule perdono tale connotazione e si trasformano
in oggetto di ornamento femminile, perdendo –
insieme con il genere maschile – anche qualsiasi
significato ufficiale (Dominc Janes).
Le ricerche di Guy Hallsall e Irene
Barbiera hanno dimostrato un aspetto
importante nell’analisi dei siti funerari
rispettivamente dell’area di Metz (V-VII
secolo); necropoli ungheresi attribuite ai
Longobardi e necropoli dell’area di
Cividale.
Invece tale processo non riguarda altri
ornamenti privati che mantengono la loro
funzione di ornamento de-genderizzato e
individuale,
anzitutto
gli
anelli
personalizzati: se nel VII secolo, il gruppo
di anelli con rappresentazione del
proprietario e recanti il suo nome
appaiono condivisi da uomini e da donne,
di recente riesaminati da Silvia Lusuardi
Siena, accostabili a una serie di attestazioni
documentarie
che
legano
indissolubilmente gli anelli all’individuo
che li indossa dal punto di vista
esclusivamente privato, a differenza delle
cinture, gli anelli personalizzati possono
essere trasmessi da uomini e da donne nei
testamenti del secolo IX: il conte Eccardo
di Mâcon (867), privo di eredi, poté infatti
donare i propri anelli – ornati di gemme
antiche – ai propri parenti; così come due
secoli prima Erminetrude poteva donare a
un monastero dell’Ile de France il proprio
anello recante il proprio nome, e, ancora
prima, il re Clodoveo poteva donare in
segreto il proprio anello personale alla sua
futura sposa Clotilde, per rappresentare la
promessa formale della loro futura unione
matrimoniale. Non si trattò quindi, mai, di
anelli intrisi di una funzione pubblica
delegata dal potere regio e tale funzione di
legame privato e non di legame
istituzionale di delega ufficiale: anche gli
anelli che il re merovingio donava ai
propri referendari erano anelli privati del
L’analisi della topografia cimiteriale
rispetto al genere ha infatti evidenziato –
in entrambi i casi – due fasi: la prima in cui
uomini e donne sono sepolti in aree
separate, senza che si riesca a individuare
altro termine di aggregazione individuale,
che non sia costituito dalla scelta del luogo
funerario. A partire dal sec. VI e in Italia,
con la migrazione dei Longobardi a
Cividale, tale struttura è abbandonata e le
necropoli si trasformano e si articolano in
aree di sepoltura in cui si presentano
gruppi di uomini e donne, insieme. Questa
nuova disposizione ha fatto ritenere che
l’enfasi funeraria sia posta nei confronti
dell’organizzazione di gruppi familiari, di
cui uomini e donne si dispongono insieme,
materializzando il concetto dell’unione
parentale in vita che continua dopo la
morte. Tale nuova configurazione è
dunque da mettere in rapporto con la
nuova configurazione dei gruppi sociali in
Italia, e con la trasformazione delle
identità sociali in proprietari fondiari.
Nella fase più antica, per ciò che riguarda i
corredi,
l’importante
osservazione
riguarda il valore conferito a uomini e
donne, rispetto al le diverse fasi del ciclo
vitale: le fasi in cui il genere femminile è
dotato di corredi con oggetti sessuati (cioè
25
dalla Pannonia a Cividale trasformano assai
rapidamente sia le strutture funerarie, sia
l’organizzazione delle necropoli, certo in
rapporto con l’elaborazione di paradigmi
condivisi localmente e perciò ben comprensibili
al pubblico e alla società locale.
comuni solo alle donne) è limitato alla sola
età fertile, e si riduce drasticamente in età
adulta matura e in età infantile. Gli
individui di genere femminile ricevono
corredi femminili prima, rispetto agli
individui di genere maschile, ma la loro
rilevanza sociale di genere è considerata
del tutto sminuita con la fine dell’età
fertile. Gli uomini ricevono invece corredi
di genere ‘maschile’ in età più avanzata
(circa 20-25 anni), ma li conservano fino
alla piena maturità. Questa differenza ben
esprime le differenze ‘della perdita’
avvertite da un gruppo familiare a
seconda dell’età e del genere del defunto:
gli individui maschili conservano la
propria autorevolezza indipendentemente
dalla loro età di morte, dimostrando
perciò il carattere perdurante della loro
importanza
all’interno
dei
gruppi
familiari. Questa importanza diversa per
fasce d’età è dimostrata, nelle fonti
normative, dai diversi wergeld di uomini e
donne a seconda della loro età di morte e
delle loro condizioni.
Le identità sociali si esprimono in modo
diverso localmente: questo dipende
indubbiamente non tanto dalla presenza
di ‘tradizioni ancestrali’, ma dall’influsso
delle tradizioni locali. Esempio di Bojano e
le sepolture con cavalli, il cui valore di
‘certificazione’ di status elevato è
ampiamente documentato nelle fonti
scritte di area beneventana (Vita Barbati,
armiscara.) Le identità sociali maschili si
esprimono, variabilmente, con un corredo
di armi: di esse non fa parte la spada, che
nelle fonti scritte è presentata come lo
strumento di identificazione visiva di ogni
uomo libero, e quindi può essere indossata
anche nei periodi di sospensione delle
faide; portano armi tutti i liberi, in quanto
la possibilità di partecipare all’esercito (nei
termini di privilegio di partecipare alla
spartizione del bottino) è un diritto degli
uomini liberi: che essi combattano davvero
o no. Heirich Härke ha portato diversi
esempi di uomini malformati con
sepolture con armi, e ora l’esempio di
Collegno costituisce un altro dato nella
stessa
direzione:
anche
individui
fisicamente impossibilitati a combattere
(perché storpi, gobbi) non per questo
perdevano la loro identità di genere
maschile e quella sociale ad essa collegata.
Gli individui di genere ‘neutro’, cioè quelli
non caratterizzati da nessun corredo o da
oggetti non sessuati, dichiarano –
attraverso queste caratteristiche, la fine del
loro ruolo sociale legato al proprio sesso.
Nella fase più recente, invece, gli equilibri
tra corredo ed età sono corretti in funzione
della prossimità dei corpi dei defunti con
un antenato riccamente abbigliato. Lo
sforzo e l’enfasi dei nuovi gruppi di
proprietari fondiari va parallelamente
nella direzione di un ampliamento delle
possibilità femminili nel trasmettere
patrimonio e status sociale: come
dimostra, tra l’altro, anche l’evoluzione
delle possibilità conferite ai membri
femminili nelle fonti normative (Leggi
Liutprando, Astolfo, in rapporto a quelle
di Rotari).
Le identità sociali appaiono ben più rilevanti di
quelle etniche: come ha dimostrato Irene
Barbiera, i gruppi di Longobardi che migrano
26
la jerarquización cada vez mas rígida de
los distintos grupos sociales. El fenómeno
ha sido estudiado por historiadores,
sociologos e historiadores del arte. El
importante libro de Thorstein Veblen, The
Theory of Lesiure Class, publicado por
primera vez en 1899 establece claramente
la importancia del vestido como elemento
esencial para denotar rango:" Para
reclamar y mantener la estima de los
hombres, no es suficiente con ser rico o
tener poder: es necesario exteriorizarlo ya
que es solamente a la exteriorización lo
que cuenta en la estima". El vestido
significa prestigio, rango, y en palabras del
propio Veblen "conspicous cosumption".
SEZIONE II
OSTENTARE IL RANGO IN
VITA E IN MORTE
Ostentar el rango en vida y muerte:
introducción
Javier Arce
El tema de esta sesión ha merecido un
creciente interés en los últimos años entre
los investigadores de la antigüedad tardía.
Recordaré de forma rápida los coloquios
organizados por la Universidad Paris X
Nanterre "Costume et societé dans
l'Antiquité et le Haut Moyen Age" (Paris
2003); "Tissus et vêtement dans l'
Antiquité Tardive" (número monográfico
de la revista AnTardive, 2004); "The
Clothed Body in the Ancient World"
(Oxford 2005) o el coloquio de la
Universidad de Paderborn "Kleidung und
Repräsentation in Antike und Mittelalter"
(en prensa). Estos coloquios se ocupan
principalmente del vestido como signo de
rango social en el periodo que nos ocupa
principalmente desde el punto de vista
romano. El mundo bárbaro no ha
merecido tanta atención en este aspecto,
aunque hay que destacar entre los trabajos
recientes el estudio de W. Pohl, Telling the
difference: Signs of ethnic identity,
publicado en Strategies of Distinction de la
serie TRW (Leiden, 1998) con abundante
bibliografía.
El vestido denota diferencia de clases,
actividad productiva o lo contrario,
produce respeto o pánico, denota pobreza
o riqueza, cultura o ignorancia. Esta
palabras están escritas pensando o son el
resultado de una reflexión sobre la
sociedad norteamericana de fines del siglo
XIX, momento de eclosión económica y
del nacimiento de los barones de la
industria y del desarrollo y crecimiento de
sus ciudades. Pero son aplicables
igualmente al mundo romano ( y a otras
épocas de la historia en muy diversas
sociedades: la Francia de Luis XIV, la
Rusia de Pedro el Grande, Byzancio,
China, India etc). Salviano de Marsella,
escribiendo en la mitad del siglo V, señala
explicitamente: " Cuando un hombre
cambia sus vestidos, inmediatamente
cambia su rango" (De Gub. 4.7). De todos
es sabido que los romanos se definian por
su vestimenta. El historiador Suetonio
señala la preocupación del Emperador
Augusto porque los ciudadanos romanos
llevasen la toga, signo de distinción:
"Ordenó a los ediles que no permitieran a
nadie entrar en el espacio del Foro o en sus
cercanías sin que se hubiesen quitado el
manto y llevasen la toga" (Suet. DAug. 40).
Significativamente, y coincidentemente,
las mayoría de las imágenes (estatuas,
relieves, pìnturas) de la época de Augusto
son imágenes de togati. Estrabón,
Para el mundo romano las cosas están
relativamente claras. Es obvio, desde el
punto de vista sociológico, que la
vestimenta indica rango y estatus. Y este
hecho se acentúa, como destaco en su dia
un
articulo
pionero
de
Ramsay
MacMullen, en el periodo de la
antigüedad tardía como consecuencia de
27
o de signos externos de rango, pudiera
originar conflictos entre las distintas clases
sociales y estaba destinado a evitar intento
de usurpaciones o delitos de maiestas. A
ello se corresponden las leyes recogidas
en el titulo 14 del Codex Theodosianus de
habitu quo uti oportet intra urbem, que se
analizaran en la presentación.
escribiendo en época de Tiberio, opone el
horrible y negro vestido de los celtíberos
(el sagum) al civilizado y romanizado
bético togado. Y un famoso pasaje del
Agricola de Tácito señala que los
habitantes de Britannia se transformaron
en admiradores de los romanos y poco a
poco se acostumbraron a llevar su
vestimenta: Unde etiam habitus nostri honor
et frequens toga (Tac. Agr.21). Con el paso
del tiempo se observa un creciente interés
por regular el tipo de vestido en Roma y
diferenciar los ordines que constituían la
sociedad romana. A partir de la Constitutio
Antoniniana, que extendió la ciudadanía
romana a todos los habitantes del Imperio,
se intensifica más ese empeño en
diferenciar las clases sociales por medio
del vestido y sus signos exteriores, como
ha observado R.R.R. Smith estudiando las
esculturas de Afrodisias. Ello acaba
reflejándose en la legislación. Y por ello
surgen las leyes recogidas en los códigos y
en algunos textos como la Historia Augusta.
Fue al parecer Severo Alejandro (222-235)
quien estableció la norma de diferenciar
los grupos sociales utilizando diferentes
tipos de vestido para cada uno de ellos. El
texto que nos transmite esta noticia
procede de la Historia Augusta y por tanto
es sospechoso de que se refiera no a
Severo Alejandro, sino que sea un reflejo
de la situación de la épocas en la que
escribe el autor, esto es, a fines del siglo
IV. En cualquier caso la HA dice que
Severo decidió asignar un tipo especifico
de vestido a cada miembro de su séquito y
a los funcionarios imperiales y no sólo a
los distintos rangos de los mismos, sino a
los esclavos, de forma que fueran
fácilmente reconocibles. Los funcionarios
se debian distinguir por sus vestidos (ut a
vestitu dinoscerentur), los esclavos se
debían identificar sin dificultad por su
vestimenta. Este control del vestido, señala
el autor de la Vita Severi, se hizo para
evitar eventuales seditiones. En esta
legislación, en este afán de señalar el rango
y controlar la vestimenta, subyace la idea
de que el uso inapropiado de los vestidos
La importancia del vestido en la sociedad
romana como signo de distinción o estatus
esta igualmente presente en las artes
visuales (las pinturas de Silistria, los
mosaicos de Centcelles, las estatuas, los
relieves, miniaturas, missoria etc).
Mucho mas difícil es señalar cuales eran los
signos de distinción de los pueblos bárbaros
que se instalaron progresivamente en las
provincias del Imperio a partir del s. V.
Los textos a este propósito son
contradictorios y es difícil distinguir en ellos
los elementos etnográficos transmitidos y
estereotipados e incorporados después a las
descripciones de historiadores o poetas y su
aplicación real. Un texto de Salviano (De
Gub. V, 21-22) parece indicar que existía una
diferencia clara entre la vestimenta de
romanos y bárbaros: "Y aunque ellos [ los
romanos] se diferencian de aquellos [los
bárbaros] a quienes se pasan por lo que se
refiere a la religión y la lengua, y aunque
sientan repulsión por el mal olor de los
vestidos
y
cuerpos
de
los
bárbaros...prefieren llevar una vida a la que
no están acostumbrados que sufrir la
injusticia salvaje entre los romanos". Se trata
del conocido tema de la preferencia de los
provinciales romanos por convivir con los
nuevos inquilinos, separándose de la
administración romana, tema que se
encuentra también en Orosio. Salviano
señala las diferencias: religión y lengua, pero
la referencia al vestido es bien poco explicita
y seguramente un tópico mas de la visión
del bárbaro en la historiografía romana. Por
otro lado, nos gustaría saber cómo iban
vestidos los bárbaros que entraron en Ilerda
en el año 418 para vender los libros que
28
los ojos de los vivos, son colecciones
invisibles, para utilizar la terminología de
Krysztof Pomian, pertenecen solo a los
muertos y están destinados a ser "vistos" por
un espectador virtual.
habían robado en el camino a Severo según
relata la carta de Consencio a Agustín.
Nadie se sorprende de su presencia, tratan
con comerciantes y hasta son recibidos por
el obispo Sagitius que al final se queda con
los manuscritos.
Mas significativo es un texto de Isidoro en
su Historia Gothorum 51. Isidoro señala que
el rey Leovigildo (569-586) fue el primero
entre los suyos en vestir vestimenta real
(primus inter suos regali veste operuit) y en
sentarse en un trono (solio resedit).Y añade:
"antes de él, vestido y asiento eran iguales
para el pueblo y para los reyes". Este texto,
muy discutido, puede significar que no
habia elementos especiales de distinción
entre los reyes y el pueblo godo. Pero en
cualquier caso demuestra que los signos de
distinción y rango los tomaron , al menos los
godos, de los romanos, lo cual se expresa en
las imágenes oficiales que conservamos de
los reyes godos en las monedas. En esta
misma dirección se expresa el texto del
Anonymus Valesianus: "El pobre romano
imita al godo, mientras que el rico godo
imita al romano"(Anon. Val. 12.61: Romanus
miser imitatur Gothum, el utilis Gothum
imitatur Romanum).
Aunque en los textos hay referencias a los
elementos distintivos de rango en algunos
pueblos bárbaros hay que subrayar que "el
vestido sirve como marca de identidad
social más que como distinción étnica" (W.
Pohl). El significado de los objetos
depositados en las tumbas del periodo ha
sido abundantemente tratado por los
arqueólogos que especifican que se trata, en
ocasiones, signo de rango o prestigio o de
origen étnico. Estas conclusiones han sido
puestas en duda recientemente entre otros
investigadores por Falko Daim e incluso D.
Claude reconoce que a partir del siglo VI los
visigodos son irreconocibles arqueológicamente en Hispania lugar de su
asentamiento. En todo caso y para terminar,
los eventuales signos de prestigio y rango o
status social enterrados en las tumbas estan
destinados a no ser vistos, a estar ocultos a
29
During Migration Period and in the Early
Middle Ages the treasuries of kings and
nobles could be full of gold, silver and
precious stones, in form of coins, ingots,
neckrings and bracelets, different kinds of
ornaments as fibulae and belts, table-ware
of gold, silver and with enclosed precious
stones, crowns and jewellery, but also
liturgical vessels and vestments and more
and more relics and books were
accumulated in palaces, courts and
churches. Historiography, hagiography
and
poetry
on
the
one
hand,
archaeological finds on the other hand
demonstrate, that this material was used
for royal and noble representation, the
exchange of gifts, as marriage portions
and dowries, as donations to saints and
churches, to pay tributes and to support
followers. It is evident more and more that
not the material alone but the special
character of some artefacts as objects of
memory6 was the reason of the importance
of treasures for the early medieval
kingdoms and aristocrats.
The accumulation of wealth in early
medieval aristocracies
Matthias Hardt
During the last decade interdisciplinary
research on early medieval treasures has
taken progress in several works. On the
one hand, hoards in an archaeological
sense were topics of various essays, and
on the other hand the treasures of kings
and nobles, bishops and monasteries were
objects of investigation. While there is still
no answer to the question, if hoards
oftener were hidden by reasons of wars or
political instability or by religious
intentions3, it seems that the meaning of
treasures kept in a more public, non
hidden way can be interpreted in a more
certain way as instruments of power4 and
as visualisation of sanctity5.
3
While royal treasures could commemorate
the times of glory of tribes and kings by
preserving prominent objects of war looty,
signs of victory or of interethnic relations,
aristocratic treasures7 could visualise the
relations to kings and saints, the
connections of noble families and their
status in past and present. Visigoths
around 630 defended a golden set of
tableware which the frankish king
Dagobert had been promised by the
visigotic king Sisenand for help against an
usurper8. The set had a special meaning,
because, as it was told, it had been given
Matthias Hardt, Verborgene Schätze nach schriftlichen
Quellen der Völkerwanderungszeit und des frühen
Mittelalters, in: Archäologisches Zellwerk. Beiträge zur
Kulturgeschichte in Europa und Asien. Festschrift für
Helmut Roth zum 60. Geburtstag, ed. by Ernst Pohl, Udo
Recker und Claudia Theune (Internationale Archäologie
16), Rahden/Westfalen 2001, pp. 255-266; Helmut
Geißlinger, Odysseus in der Höhle der Najaden – Opfer
oder Schatzversteck ?, in: Das Altertum 47, 2002, pp.
127-147; Helmut Geißlinger, Nichtsakrale Moordepots -–
dänische Beispiele aus der frühen Neuzeit, in: Germania
82, 2004, pp. 459-489; Sauro Gelichi, Condita ab ignotis
dominis tempore vetustiore mobilia. Note su archeologia
e tesori tra la tarda antichità e il medioevo, in: Tesori.
Forme di accumulazione della ricchezza nell‘ alto
medioevo (secoli V-XI), ed. by Sauro Gelichi e Cristina
La Rocca, (Altomedioevo 3), Roma 2004, pp. 19-45;
Monica Baldassari, Maria Chiara Favilla, Forme di
tesaurizzazione in area italiana tra tardo antico e alto
medioevo: l‘ evidenza archeologica, pp. 143-205.
4
Matthias Hardt, Royal Treasures and Representation in
the Early Middle Ages, in: Strategies of Distinction. The
Construction of Ethnic Communities, 300-800, ed. by
Walter Pohl and Helmut Reimitz (The Transformation of
the Roman World 2), Boston, Leiden, Köln 1998, pp.
255-280; Stefano Gasparri, Il tesoro del re, in: Tesori, pp.
47-67; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft. Die Schätze
europäischer Könige und Fürsten im ersten Jahrtausend
(Europa im Mittelalter 6), Berlin 2004.
5
Francois Bougard, Tesori e mobilia italiani dell‘ alto
medioevo, in: Tesori, pp. 69-122; Cristina La Rocca,
Tesori terrestri, tesori celesti, in: Tesori, pp. 123-141.
6
Matthias Hardt, Silverware in Early Medieval Gift
Exchange: Imitatio Imperii and Objects of Memory, in:
Franks and Alamanni in the Merovingian Period. An
Ethnographic Perspective. Ed. by Ian Wood (Studies in
Historical Archaeoethnology 3), Woodbridge 1998, pp.
317-342.
7
Pierre Riché, Trésors et collections d’ aristocrats laiques
carolingiens, in: Cahiers archéologiques 22, 1972, pp. 3946.
8
Fredegar IV/73, p. 157f.; Matthias Hardt, Gold und
Herrschaft, pp. 286f.
30
to king Thorismud by the Roman general
Aetius after the victory over the Huns at
the Catalaunian fields in 451. A
comparable meaning must have had the
missurium ad exornandam atque nobilitandam
Francorum gentem, that the merowingian
king Chilperic had designed for the
greater glory and renown of the Frankish
people in the second half of the 6th century
after the report of Gregory of Tours9. The
most well known piece of art with this
meaning is the drinking-cup, which the
lombard king Alboin had ordered to make
from the scull of hid gepid rival and
father-in-law Kunimund, whom he had
killed in a battle in 567. This drinking cup
was showed in the lombard treasury still
in the middle of the 8th century by king
Ratchis (744-749)10. The treasure of count
Eberhard of Friaul and his wife Gisela,
listed up in their testament in the second
half of the ninth century (863-864),
included signs of rulership, paradeweapons carrying within them the virtues
of the ancestors (nine swords, four of them
adorned with gold and silver, six daggers
(facila), four courts of mail, three helmets,
one hauberk, greaves, four golden spurs,
four gauntlets and seven baldrics)11, tableware and the fitting of his chapel as books
and liturgical apparatus. The will reflects
the position of the aristocratic family with
close connections to the house of the
carolingian emperors and the hope on
more political influence of their heirs12.
The gold, the silver and the precious
stones which were the basis of all these
objects still came from Roman resources,
had been brought to the germanic regna
from the treasuries of Roman or Byzantine
emperors, their administration or from
private owners inside the Empire.
Germanic kings and their followers were
the successors of late antique tax and toll
collectors13, kings as Alaric I. and Geiseric
I. had plundered Rome and received lots
of annual payments, tributes and ransoms.
Clovis I. set up his kingdom by military
strikes against other frankish chiefs and
the burgundian and visigothic kings,
taking over the treasures of the defeated
enemies. The history of the kingdoms of
the early middle ages is full of struggle
about treasures, and still in the eighth
century, when the influx of gold to the
western world ceased more and more, the
only possibility to accumulate a stock of
gold was to capture the treasures of
neighbouring rulers. So Charlemagne
could bring the treasures of the lombard
king Desiderius and the bavarian duke
Tassilo III. into his ownership, his troops
plundered gold and silver from pagan
sanctuaries in Saxonia (Irminsul), and the
most successful of his military raids
hunting treasures was the attack on the so
called “Ring of the Avars”, where the
khagans had accumulated the gold and
silver they had plundered on the balkanpeninsula and in Italy centuries before.
According to an account in the
Northumbrian Annals, in the autumn of
795 alone a total of fifteen carts, each
drawn by four oxen, were dispatched to
the Frankish kingdom from the Pannonian
plain, laden with gold, silver and silks. It
was presumably the treasure of the Avars
that made possible the imperial coronation
of Charlemagne on Christmas Day 800. At
Rome, in repetition of imperial practices of
late antiquity, besides a quantity of other
9
Gregory of Tours, Historiae VI/2, p. 266; VII, 4, p. 328;
Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, p. 287.
10
Paul the Deacon, Historia Langobardorum II/28, pp.
104f.; Matthias Hardt, Gold und Herrschaft, pp. 287f.;
Stefano Gasparri, Kingship Rituals and Ideology in
Lombard Italy, in: Rituals of Power. From Late Antiquity
to the Early Middle Ages. Ed. by Frans Theuws and Janet
L. Nelson (The Transformation of the Roman World 8),
Leiden, Boston, Köln 2000, pp. 95-114, here p. 105.
11
Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms and Rituals of
Power: Continuity and Change in the Carolingian Period,
in: Rituals of Power, pp. 281-309, here p. 290f.
12
Cristina La Rocca, Luigi Provero, The Dead and their
Gifts. The Will of Eberhard, count of Friuli, and his wife
Gisela, daughter of Louis the Pious (863-864), in: Rituals
of Power, pp. 225-280.
13
Chris Wickham, The other Transition: from the ancient
World to Feudalism, in: Past and Present 103, 1984, pp.
3-36, here pp.19-22; Matthias Hardt, Gold und
Herrschaft, pp. 136-157.
31
gifts he gave a large gold paten with various
jewels, with the inscription “Charles”,
weighing 30 pounds14 to the church of St.
Peter.
Rome, and to cathedrals throughout his
Empire.
In this way the materials of the royal
treasures, given as gifts, were necessary to
open aristocratic careers, because mobilia
as ornaments, belts and weapons or
tableware of royal provenience were able
to demonstrate status and rank of their
carriers17. The display of material wealth
to mark an aristocratic life-style was
possible only by military success as a
follower of a king or emperor. From them
one could get positions in administration,
offices as functions as dux, count or
directly inside the royal entourage. In the
vicinity of the royal court and the treasury
aristocrats could find the high specialised
workshops of gold- and silversmiths and
those who were able to cut precious stones
to produce the special objects of
aristocratic distinction. The banquets in
the king’s hall were taken as models for
noble feasting, and the royal chapel with
its liturgical apparatus was imitated in
aristocratic house-chapels. Perhaps at the
kings residences there were too the
officinae which produced the swords, the
byrnies (bruniae) and the helmets, which
signed the military outfit of the warriors.
The royal palace was a distributor of
wealth, which itself was imitated more
and more in the provinces of the regna at
the courts of margraves, bishops, abbots
and counts, who themselves built up
clienteles and followers with bonds of
fidelty by the practice of gift-giving18.
Not only royal representation was the
point of use of the treasures in the
ownership of emperors and kings, but to
establish relationship between them and
their immediate environment too. Tacitus,
in his Germania, describes vassal
relationships in which one of the things
that characterised the bond between
master and man was the distribution of
gifts by the liege lord to his retainers15.
Opulent endowments from the king to his
army and followers run like a read thread
through the history of the Early Middle
Ages, from the false gold bracelets that
Clovis bestowed on the followers of his
rival Ragnarchar of Cambrai, through the
the portions of the looted treasure of the
Avars that Charlemagne handed out to his
victorious troops. The monk Notker of St.
Gallen reports, that Louis the Pious gave
gifts to all servants of his palace, each of
them after his rank: “sword-belts, arms
and very rich clothes for the most noble,
and for those lower down the scale,
Frisian cloaks of various colours”16.
Rich gifts were also a feature of the kings
relationship with supernatural forces.
Following his victory over the Visigoths in
507, Clovis donated part of the spoils in a
solemn offertory to the church of St.
Martin in Tours. In 762, Pippin did the
same for the Monastery of Our Saviour at
Prüm, and Charlemagne dispatched much
of the treasure of the Avars to St. Peter’s,
During the ninth century with the dryingup of Rome’s gold the problems to get an
income in precious metals increased more
and more. Plundering raids of Normans,
Hungarians and Sarracens diminished the
treasuries of all, especially of kings and
churchmen. This might be the reason that
the meaning of land as a royal gift became
14
Liber pontificalis, Vita Leonis III, c. 24.
Tacitus, Germania 14, 1.
16
Notker, Gesta Karoli II, 21: In qua etiam cunctis in
palatio ministrantibus et in curte regia servientibus iuxta
singulorum personas donativa largitus est, ita ut
nobilioribus quibuscumque aut balteos aut fascilones
precisiosissimaque vestimenta a latissimo imperio
perlata distribui iuberet; inferioribus vero saga
Fresonica omnimodi coloris darentur; porro custodibus
equorum pistoribus et cocis indumenta linea cum laneis
semispatiisque, prout opus habebant, proicerentur. See
Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 294f.
15
17
Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 286f.
Régine Le Jan, Frankish Giving of Arms, pp. 287-291,
293f.
18
32
more important now than in times of
migration and in the Merovingian period.
A process of feudalisation began, in which
the property of land and the ownership of
large estates by warriors were granted by
the kings as a counter-gift for loyal service.
Fiscal properties often were alienated now
as a result of the reduced power of
kingship, which had lack both on gold and
land soon19.
As a conclusion, it seems to be necessary
to discuss
1)
if early medieval aristocrats
climbed up by accumulating mobile
wealth in close relationship to the
treasures of kings and emperors, whose
gifts made them able to demonstrate rang
and status and
2) the question what happened, after the
system of tax-collection as a resource of
gold in royal income had collapsed and
war, plundering-raids and tributes no
longer could fill up the treasuries of kings
and the family-hoards of aristocrats and
nobles. The royal gift of land-property and
the predominance of feudal ties with its
contribution of rents, which had coexisted
since late-antiquity, in the ninth century
seems to have prevailed as a consequence
of the lack of gold as an instrument of
power.
19
Chris Wickham, The other Transition, p. 29.
33
Rappresentatività
sociale
epigrafi tra IV e X secolo
delle
importante veicolo di affermazione sociale
delle élites. Si possono verificare adattamenti
locali della scrittura, ma non cambiano i
motivi che inducono a scrivere per le élites o
dalle élites (intese come committenti). Il filo
rosso che unisce i secoli della tarda antichità e
medioevo alto non sembra interrompersi. Esso
consiste, tanto in ambito laico, tanto in quello
ecclesiastico nell’affidare alla epigrafe un testo
che deve essere letto, ma anche riconosciuto
mediante precisi “formalismi” (indicatori
grafici o ornamentali, o entrambi, riconoscibili
come univoci e qualificanti di determinate e
precise élites) come strettamente collegato alle
classi egemoni. Le iscrizioni hanno continuato
a rappresentare, così come per il mondo
classico,
attraverso
la
scrittura,
l’impaginazione, la eventuale decorazione,
non solo coloro che le hanno fatte realizzare,
ma eventualmente anche il rango di
appartenenza del committente stesso.
Flavia De Rubeis
L’indagine sulla rappresentatività sociale
delle epigrafi lungo l’arco cronologico che
va dal IV al X comporta un tipo di
approccio su livelli tra di loro distinti:
scrittura, testo e committenza. Ho scelto
di verificare se sotto il profilo della
produzione epigrafica sia lecito parlare di
rappresentatività sociale dei manufatti
epigrafici, in quanto testimoni delle società
e dei vertici di queste società.
Tradizionalmente, per i primi secoli della
cronologia qui presa in esame, viene
individuata una crisi epigrafica che avrebbe
progressivamente
coinvolto
l’intera
produzione fino a giungere ad una radicale
trasformazione di questa, lasciando salva una
produzione, numericamente in progressiva
diminuzione, legata ai vertici delle società,
ecclesiastici e laici. È stato già osservato come
questa crisi sarebbe stata indotta in parte da
quei gruppi provenienti da aree dell’Europa
settentrionale non avvezze all’uso della
scrittura e caratterizzate inizialmente dalla
assenza di pratiche di trasmissione della
memoria funeraria in forma scritta. A queste
motivazioni di ordine culturale, si
aggiungono poi considerazione di altro
ordine, quali il progressivo analfabetismo, le
crisi economiche, le crisi delle città, e via
dicendo. Se questo fenomeno di crisi, con le
motivazioni addotte a sostegno, è vero per la
gran parte delle produzioni epigrafiche nel
loro complesso, non è altrettanto vero per
quel che concerne quei manufatti legati alle
alte gerarchie delle società alto medievali in
generale. Una pratica funeraria scritta rimase
a caratterizzare con espedienti grafici e
ornamentali le gerarchie alte, trasformando,
diversificando o adattando preesistenti
modelli epigrafici, testuali e grafici.
Ho scelto di esaminare, per confronto, due
differenti ambiti: Roma, da una parte;
dall’altra l’Italia settentrionale interessata
a più riprese da avvicendamenti
insediativi differenti: Goti, Longobardi e
quindi Franchi.
Per la città di Roma, i secc. IV e V
rappresentano una prima importante tappa
sotto il profilo epigrafico: la nascita e lo
sviluppo delle scritture “damasiane”, legate
alla figura del papa e all’opera del suo copista
Furio
Dionisio
Filocalo,
volte
alla
celebrazione della memoria dei martiri e
realizzate mediante l’impiego di un sistema
grafico molto ben identificabile, danno inizio
ad una ininterrotta, almeno fino al secolo IX
ex., divaricazione tra produzione legata ai
vertici della società romana e una produzione
legata invece ai pontefici, intendendo quei
manufatti epigrafici fatti realizzare o su
committenza diretta dei pontefici medesimi,
o realizzati per questi, come le iscrizioni
funerarie. Muta il rapporto che a partire dal
secolo V lega tra di loro produzione
epigrafica, sepolture, classi sociali di
appartenenza in termini di impoverimento
numerico e qualitativo. In una indagine
La scrittura ha costituito, al pari di quanto
accaduto già nel mondo romano, un
34
Lorenzo. Presso le basiliche di San Pietro in
Vaticano, di San Paolo fuori le Mura sono
documentate iscrizioni di carattere familiare
relative ad appartenenti alle più alte
gerarchie ecclesiastiche: in San Paolo fuori le
mura trovò collocazione la tomba familiare
del futuro papa Felice III e lì viene sepolta
anche la moglie di Felice, quando ancora era
diacono, Petronia, forse della gens Anicia e
forse trisavola di Gregorio Magno (come
sembrerebbe da un passo dei Dialogi, IV, 16)
(ICUR II, 4964). E all’interno delle aree
monumentali, sulla scorta della grande
epigrafia damasiana, celebrativa dei martiri
appunto – e quindi di quella particolare
aristocrazia della cristianità costituita dai
campioni della fede – compaiono anche i
carmi celebrativi. Sarà una ricerca vana e
infruttuosa quindi cercare nelle grandi aree
cimiteriali comunitarie testimonianze di
altrettanta ampia memoria celebrativa scritta
legata alle classi meno in vista, ai morti
“comuni”. In tali sepolcreti il ruolo svolto dal
monumento familiare assume un significato
nuovo, o ne rinnova uno vecchio: nelle aree
cimiteriali comunitarie, quali le catacombe,
tornano le tombe gentilizie a separare i meno
abbienti dai più abbienti.
condotta sul rapporto tra inumati e iscrizioni
nella Roma tra i secoli IV-VI, Carlo Carletti ha
tradotto in numeri questo impoverimento:
nell’area cimiteriale dei Santi Marcellino e
Pietro sulla via Labicana, su 22.500 sepolture,
solo il 10% risulta corredato di iscrizioni a
fronte delle rimanenti anepigrafi; stessa
situazione nel cimitero di estensione media di
Sant’Agnese sulla Nomentana, dove su 5.753
inumati, solo 826 presentano testo scritto.
All’interno di tali cimiteri vasti ed affollati,
non vi sarebbero distinzioni di classi sociali, o
di tipo economico. A fronte di queste aree
cimiteriali, povere nelle espressioni scritte, si
contrappongono le aree cimiteriali che
sorgono presso le basiliche circiformi,
edificate a Roma verso la metà del secolo IV.
Presso la basilica Apostolorum, situata lungo la
via Appia, tra il 340 e i primi decenni del V
secolo vennero inumati circa 1000 individui.
L’incidenza delle iscrizioni che corredano
queste sepolture è pari al 60 %, tradotto in
numeri, 586 tombe risultano corredate da
testo scritto. E ad una più attenta analisi
rispetto al mero dato numerico, risulta
cambiata anche la tipologia delle persone cui
si fa riferimento: si tratta di un cimitero
ipogeo prevalentemente adibito a sepolture
familiari importanti, come inequivocabilmente indicano, ad esempio, i viri clarissimi, le
clarissimae feminae, o destinate a funzionari e
dignitari. Esse testimoniano – cito qui le
parole di Carletti - della “ascesa di una
intraprendente classe emergente che occupa
ruoli sempre più rilevanti nell’ambito della
curia pontificale”, individui per i quali
“prestigio, estrazione e potere si perpetuano
anche nell’ultima dimora”; a queste sepolture
si aggiungano le tombe di individui
appartenenti alla aristocrazia romana
convertita o alla aristocrazia ecclesiastica. Per
questo gruppo la perpetuazione della
memoria, unitamente alla necessità di
evidenziare il prestigio della famiglia, il
potere, si traduce anche nella necessità di
scegliere il luogo destinato alle sepolture: le
grandi basiliche dei grandi martiri, quali
quelle cimiteriali della via Cornelia,
dell’Ostiense, della Tiburtina accanto ai santi
di maggiore “prestigio”, quali Pietro, Paolo,
La scrittura damasiana, nella sua
interpretazione successiva, sarà ripresa
dalle gerarchie ecclesiastiche e da quelle
urbane per essere utilizzate all’interno
delle iscrizioni funerarie, unitamente
all’uso dell’elogium: l’iscrizione del prete
Marea, dell’anno 555, conservata nell’atrio
di Santa Maria in Trastevere, ricorda il
defunto celebrandone con un elogium
esteso la memoria ed utilizzando per la
realizzazione una capitale damasiana
priva di apicatura. Questa scrittura, dal
modulo schiacciato, è destinata ad essere
sostituita, per la città di Roma, da una
maiuscola, di base capitale, dal modulo
oblungo, all’interno della quale possono
apparire
frequenti
intrusione
della
scrittura libraria onciale.
Diversamente, per i pontefici si ricorre
all’impiego della capitale epigrafica in via i
35
costituito da tre iscrizioni dedicatorie
eseguite sotto Adriano I. La prima è incisa
nella
trabeazione
della
pergula
di
Sant’Adriano; compressa lateralmente,
secondo i dettami delle scritture epigrafiche
coeve, essa non mostra alcuna apertura alle
forme derivanti dall’onciale. Le lettere,
rigidamente scandite all’interno del listello
posto sotto le onde correnti, sono
equidistanziate fra loro con regolarità. La
medesima scrittura, ancorché meno curata
nell’esecuzione compare in un prodotto
legato forse allo stesso pontefice, la pergula
di Santa Martina dove la capitale, sebbene
trascurata nell’impaginazione, presenta
forme analoghe a quelle viste nell’iscrizione
di Sant’Adriano. A fronte di queste
iscrizioni, precise espressioni del patrocinio
papale, una epigrafe tradita da un
frammento di cornice (una pergula?), ancora
conservata presso i depositi in Santa Maria
in Cosmedin e dedicata al medesimo
pontefice Adriano I, mostra una fortissima
apertura verso l’onciale: le lettere D, E, ed
M , la A viene coronata da un pesante tratto
orizzontale. Il committente non è un
pontefice: è un certo Gregorius, non meglio
identificato, forse un notaio. A parità di
cronologia, l’iscrizione si presenta come un
prodotto di livello medio, con un sistema
grafico ben strutturato (non mancano
esempi già nel secolo precedente), ma
certamente diversificato rispetto alle
iscrizioni utilizzate per papa Adriano I.
verticalizzazione
nel
modulo,
per
distinguere anche attraverso la scrittura il
rango di appartenenza del committente. Il
fenomeno di divergenza “epigrafica” si
consolida fino a divenire pratica costante.
Nella iscrizione dedicatoria di Giovanni VII
(705-707) in Santa Maria Antiqua l’eleganza
formale
delle
lettere
corrisponde
pienamente al valore monumentale della
scrittura: le lettere, chiaroscurate dal
contrasto di pieni e filetti, si stagliano nitide
a tinta rossa sul fondo bianco. L’iscrizione
corrisponde pienamente ai criteri di
programma di esposizione grafica espressi
già dalle iscrizioni in greco volute dal
medesimo
pontefice,
con
citazioni
veterotestamentarie,
presenti
nella
medesima struttura, sull’arco di trionfo: il
testo greco così come le iscrizioni
didascaliche che corrono lungo le teste dei
santi affrescati all’interno della medesima
chiesa, rispondono, come è stato precisato,
ad un definito programma di esposizione
grafica realizzato mediante l’utilizzo della
scrittura di apparato dei codici di lusso. Ma
basta spostarsi di poco, sempre all’interno
della medesima Santa Maria Antiqua, per
percepire appieno la diversità di usi scrittori
tra iscrizioni “pontificie” e iscrizioni legate a
membri dell’alto clero o dell’alta gerarchia
sociale romana. L’iscrizione dedicatoria di
poco successiva rispetto a quelle di
Giovanni VII,
del primicerio Teodoto,
affrescata in Santa Maria Antiqua prima del
752, anno di morte del papa Zaccaria ivi
raffigurato come vivente, è eseguita in
maiuscola di tipo capitale che si differenzia
tuttavia dalla dedicatoria di Giovanni VII
per il modulo e per lo sviluppo delle lettere
che
appaiono
infatti
scarne
e
complessivamente disordinate nell’allineamento, nonché , presentano tutte le curve
spostate verso le estremità (come nella S); le
traverse e gli occhielli sono posti nella parte
superiore del corpo delle lettere (come nelle
M ed N): modelli tutti che caratterizzano la
produzione epigrafica romana di medio e
alto livello del secolo VIII, ad eccezione di
quella pontificia. Un esempio eclatante di
questa dicotomia nell’uso della scrittura è
Come ho già anticipato, il giro di boa
dell’epigrafia romana, in termini di
diversificazione e articolazione su piani
differenziati per ceti sociali, è costituito dal
secolo IX, fine del secolo IX. È tradizione,
nella
letteratura
epigrafica,
come
l’iscrizione funeraria di papa Adriano I,
voluta da Carlo Magno, abbia costituito un
precedente illustre per far tornare in auge
la capitale epigrafica di tradizione romana.
In realtà questa associazione non
corrisponde
pienamente
a
quanto
verificatosi a Roma nel secolo IX. Oggi
esposto nell’atrio della Basilica di San
Pietro, l’epitaffio, incorniciato da un ricco
36
gruppo delle iscrizioni di media
committenza. A fronte, sempre riferibile al
medesimo pontefice Leone IV, l’iscrizione
del ciborio conservato in San Giovanni in
Laterano inscrive lettere di modulo ridotto
in altre di modulo maggiore, ed è meno
curata nell’esecuzione e irregolarmente
allineata.
fregio, è eseguito in capitale epigrafica
pura. L’esame condotto sulle iscrizioni
posteriori e quindi fino al secolo
successivo, non ha evidenziato alcun
fenomeno diretto di imitazione di questa
scrittura. Al contrario, la produzione
successiva alla lastra di Adriano, non
dimostra in alcun modo di aver recepito il
modello adrianeo della scrittura: la
presenza costante della C quadra nelle
iscrizioni pontificie funerarie, quale quella
ad esempio di papa Adriano II, dimostra
al contrario di avere assorbito i moduli di
una scrittura di tipo capitale con presenza
pressoché costante di C quadra. Già è stata
osservata la mancata influenza che almeno
fino alla metà del secolo IX questa
iscrizione avrebbe sofferto. Essa in realtà
veniva ad inserirsi in una continuità
dell’uso della capitale strettamente legata,
come si è visto, alle figure o alle opere
volute dai pontefici. Si ha l’impressione
che l’epigrafe non abbia rappresentato un
modello da imitare, ma si sia inserita in
una tradizione grafico culturale già
consolidata,
andandola
semmai
a
rinforzare. Una dicotomia grafica che
sembra continuare ancora per qualche
tempo, come sembrerebbero indicare le
epigrafi di seguito citate. La prima è incisa
su un ciborio proveniente da Porto, e reca
una dedicatoria a Leone III papa da
Stefano, che, pur essendo di elevata
committenza, non raggiunge la qualità
delle iscrizioni pontificie: sono infatti
presenti O a rombo e H onciali. La
seconda, sull’architrave del portale
d’ingresso alla cappella di San Zenone in
Santa Prassede, viene eseguita per il
pontefice Pasquale (aa. 795-816): qui la
capitale è pura, regolare, con lieve
restringimento laterale del modulo, così
come era comparsa nella trabeazione in
Sant’Adriano di pochi anni precedente.
Anche le iscrizioni leonine presso le mura
della civitas leonina, di committenza
pontificia, presentano una regolare
maiuscola di tipo capitale, ad eccezione
della iscrizione relativa alla milizia
Saltisina, che invece sembra appartenere al
Una novità compare nel secolo IX:
l’introduzione delle lettere dal disegno
quadrato nella capitale epigrafica (come la C
o la G). L’epitaffio di Nicola I (morto
nell’anno 867) indica questa innovazione nel
disegno geometrico tendente al quadrato
delle lettere C e G; con l’iscrizione funeraria
del suo successore, Adriano II, i modelli
quadrati delle lettere appaiono bene
affermati. Ma in questo momento, la capitale
epigrafica è tornata ad essere patrimonio di
più ampi strati della cultura epigrafica
urbana. L’epitaffio di Leone cubicolario,
proveniente dai Santi Cosma e Damiano,
attribuito
al
secolo
IX,
elegante
nell’allineamento, in capitale priva di
elementi librari con le lettere che tornano ad
essere meno sviluppate in senso verticale e
meno affastellate, ne è eloquente esempio:
esso non appartiene al gruppo legato alle
figure e alle volontà dei pontefici, ma di
questo possiede tutte le caratteristiche.
È il momento in cui la divergenza tra
iscrizioni pontificie e iscrizioni di medio o
alto rango si fondono fra di loro,
eliminando quella distanza che era stata
impostata con le scritture damasiane e che
si era protratta nei secoli.
Per l’Italia settentrionale, al di fuori delle
produzioni
legate
alle
gerarchie
ecclesiastiche, in ambito laico il fenomeno
di identificazione da parte delle gerarchie
laiche mediante le scritture esposte appare
in perfetta sintonia con quanto già visto
per la città di Roma. Prescindendo dalle
iscrizioni gote, le quali tradiscono
pienamente l’adesione formale ai modelli
della scrittura epigrafica di tradizione
romana, l’impiego della scrittura esposta
37
filetti). Le lettere sono ombreggiate da lievi
apicature e il testo è circondato da cornici
variamente ornate. Iscrizioni che non sono
solo da leggere, ma anche da guardare nel
loro aspetto decorato.
diviene rapidamente appannaggio anche
delle nuove élites costituite dai gruppi
longobardi insediatisi a partire dalla fine del
secolo VI nei territori settentrionali. La
creazione di un modello epigrafico e
scrittorio aulico riservato appare una
precoce preoccupazione dei Longobardi
medesimi. È noto, o comunque appartiene
alla letteratura paleografica consolidata,
come i Longobardi al loro primo apparire di
qua dalle Alpi nei territori italici, fossero
sostanzialmente analfabeti . Ma è altrettanto
nota la loro rapida acquisizione della
scrittura nel suo complesso, intendendo qui
produzione
libraria,
epigrafica
e
documentaria,
senza
immaginare
ovviamente alle spalle del fenomeno una
nazionalità tutta longobarda degli scriventi
fin dai primi esitanti passi della produzione
scritta italo-settentrionale. Non torno qui
sull’importanza di questo processo di rapida
integrazione culturale con le preesistenti
popolazioni italiche, tema già altrove
trattato, né sulle motivazioni che spinsero i
Longobardi ad appropriarsi di questo
potente veicolo di insediamento capillare
costituito dalla scrittura stessa. Quello che
intendo sottolineare, ancora una volta, è il
precisarsi di forme grafiche utilizzate in
esclusivo ambito epigrafico per ben precise
categorie sociali, quelle delle élites. Le
iscrizioni funerarie longobarde, così come le
iscrizioni dedicatorie, celebrative e via
dicendo da questi stessi fatte produrre e
ostentate nei principali luoghi del potere
corrispondono pienamente, negli intenti, a
quanto evidenziato per la città di Roma: i
Longobardi hanno dato vita a un tipo di
epigrafia estremamente caratterizzata, in cui
al recupero di forme antiquarie si affiancano
fenomeni grafici assolutamente originali.
Con il secolo VIII, gli inizi dell’VIII, la
tipologia delle iscrizioni funerarie auliche
longobarde viene compiutamente a
definirsi: elementi caratterizzanti sono la
scrittura esile, dal modulo compresso
lateralmente; esile anche il solco, quasi ad
evocare le eleganti e slanciate forme della
capitale libraria (sebbene con minore
accentuazione dei contrasti tra pieni e
A Pavia, la capitale del Regnum
longobardo, lo sviluppo di un modello
epigrafico
funerario
riservato
si
caratterizza nella scrittura e nell’apparato
decorativo tanto da aver consentito
l’individuazione di un’epigrafia pavese.
Qui l’alto rango dei personaggi trova nella
capitale la scrittura idonea ad assicurare
l’importanza e la solennità dell’iscrizione.
Si tratta di una scrittura di tradizione
capitale, anche se estremamente esile nelle
forme e articolata in moduli fortemente
verticali, dalle lettere canonizzate in
modelli precisati: per questa tipizzazione
scrittoria credo si possa parlare non di
semplice evocazione di modelli tardo
antichi, ma di vera e propria “capitale
longobarda”.
L’iscrizione funeraria del re Cuniperto
costituisce una significativa tappa di
questa epigrafia riservata longobarda,
sebbene non manchino già per il secolo
precedente esempi illustri di scritture
esposte auliche. L’iscrizione, conservata
presso i Civici Musei del Castello
Visconteo di Pavia e proveniente dal
monastero di San Salvatore, sintetizza il
linguaggio figurativo e testuale di questa
scuola pavese: tre croci sovrastano il testo;
la scrittura, dal modulo compresso
lateralmente e sviluppata verso l’alto, è
allineata con gran cura all’interno dei
binari costituiti dalle rettrici; i modelli
grafici sono quelli caratterizzanti della
capitale longobarda (M, N e R; da
osservare la A con la traversa obliqua o
spezzata e la presenza di nessi; sulle
lettere è presente apicatura). Anche per la
figlia di Cuniperto, la badessa Cuniperga,
viene eseguita una iscrizione funeraria
solenne, attualmente conservata a Pavia,
presso i Musei Civici del Castello
Visconteo, attribuita alla metà circa del
38
delle élites distribuita nel tempo e nello
spazio lungo i territori di dominazione
longobarda. L’iscrizione di San Pietro in
Valle a Ferentillo, del duca Ilderico, pur
non presentando quelle caratteristiche
grafiche di elevata qualità ravvisabili delle
produzioni delle officine pavesi, risponde
tuttavia alle medesime intenzioni di
fondo: celebrare, attraverso un prodotto di
qualità, decorato e iscritto, la provenienza
del committente e l’appartenenza ad un
ceto elevato. Ritengo infatti che ai
medesimi intenti celebrativi del re
Cuniperto, o del re Liutprando o chi per
loro, rispondano anche le iscrizioni di
media qualità grafica distribuite nei
territori longobardi. Il filo che le accomuna
rimane comunque il medesimo; il
problema semmai riguarda la qualità delle
manovalanze e degli “operatori” della
scrittura. Una officina isolata che pratichi
l’epigrafia
in
una
remota
valle
appenninica,
ancorché
destinata
a
produzioni elevate, raramente potrebbe
produrre manufatti della medesima
qualità grafica ed espressiva di una
officina pavese. Ciononostante, gli intenti
celebrativi
rimangono
i
medesimi:
qualificare il committente mediante la
scrittura. Anche qui si tratta di indagare la
produzione epigrafica mantenendo come
punto di riferimento stabile gli intenti, e
quindi, in seconda battuta, qualificarne la
scrittura. Ribaltare il ragionamento
porterebbe a pericolose storture nelle
conclusioni le quali inevitabilmente
comporterebbero una qualificazione al
negativo delle iscrizioni medesime, e
quindi potrebbero implicare il ricorso al
concetto della crisi delle élites evidenziata
dalla media o bassa qualità del manufatto.
È evidente che una produzione periferica,
per esempio rispetto alle officine pavesi, o
ai manufatti di Cividale del Friuli, tradisce
spesse volte anche qualità differenti. Ma è
altresì evidente che tali diversità devono
necessariamente essere ascritte alle officine
stesse piuttosto che ad una supposta crisi
complessiva culturale delle élites. Il ricorso
alla scrittura rimane comunque un
secolo VIII. L’impaginazione, le forme
grafiche, la distribuzione del testo su due
colonne con le righe chiuse singolarmente
(almeno nel frammento conservato) da
distinguenti, la cornice a tralci e foglie e
grappoli inscritta tra due sottili listelli a
riquadrare il testo: anche nell’iscrizione di
Cuniperga tutto riporta alla produzione
riservata delle élites.
La produzione complessiva longobarda
legata alle alte gerarchie sociali rivela
nell’insieme il medesimo intento autocelebrativo, e comunque denota una
incisiva determinazione ad affermare
l’appartenenza del committente, o del
ÈÈÈpersonaggio ricordato, mediante il
ricorso a precise norme scrittorie e
decorative. Elementi questi che, come già
si è osservato per la città di Roma, non
sembrano
potersi
ravvisare
nelle
produzioni epigrafiche rimanenti. Mi
riferisco qui ad esempio alle iscrizioni
funerarie
–
peraltro
estremamente
rarefatte
nel
panorama
epigrafico
longobardo – legate a personaggi legati
alle strutture ecclesiastiche o a laici non
altrimenti identificabili. Questa particolare
produzione, pur facendo ricorso agli
stilemi grafici di tipo longobardo qui in
precedenza ricordati, non rivela tuttavia la
medesima qualità grafica né tanto meno il
medesimo ricco apparato decorativo. Una
diversità che ha fatto parlare in tempi
lontani da Nicolette Gray di differenti
scuole grafiche, un concetto messo a più
riprese in discussione e attualmente
ritenuto superato. Certamente una
diversità scrittoria è ravvisabile tra le
iscrizioni di alta produzione e le iscrizioni
legate a quel brulichio di personaggi non
identificabili
ricordati
dalla
stessa
studiosa. Ma questa diversità, a mio
avviso, risiede ancora una volta nella
committenza
che
riserva,
credo
consapevolmente mediante il ricorso a
precise officine, una peculiare tipologia
scrittoria solo per sé medesima. Ma anche
qui è necessaria una precisazione. Le
diversità grafica non è indice di una crisi
39
scrittura utilizzata con la fine del secolo IX
non è più l’esile capitale longobarda in
lastre incorniciate da bande a tralci. Il
sistema
scrittorio,
pur
rimanendo
nell’ambito della capitale, è un’epigrafica
di tipo carolino, ossia quel particolare
sistema elaborato e recuperato con gusto
antiquario dalla cultura carolingia, tratto
dai modelli epigrafici o dalle scritture
d’apparato dei codici: una scrittura da
modulo quadrato, sostanzialmente priva
di apicature.
elemento di qualificazione significativo,
così come significativa è la sproporzione
numerica che distanzia le alte gerarchie
sociali dal rimanente complesso umano
che intorno a queste gravitava.
La capitale longobarda, esile nei tratti e dal
modulo stretto e verticale è soppiantata
dalla capitale epigrafica carolina, la quale
reimpone i modelli dell’antica epigrafia
classica (quella dei secoli I e II), nelle
elaborazioni librarie dei codici tardo
antichi e attraverso la diretta imitazione
delle epigrafi romane presenti nei territori
di dominazione carolingia. Le iscrizioni
eseguite secondo i modelli longobardi, che
identificavano
anche
attraverso
l’impaginazione delle scritture il contesto
d’appartenenza (e di emanazione), e che
dichiaravano la committenza attraverso gli
elementi che qui si è cercato di definire, al
cadere di questa ultima cessarono di aver
ragione di essere; un equilibrio formale
destinato a durare fino a quello che, con
felice espressione, è stato definito da
Saverio Lomartire“il giro di boa dei
recuperi classici” fortemente voluto dai
carolingi.
Anche nei testi delle iscrizioni bresciane lo
sviluppo epigrafico sembra il risultato di una
frattura e di un abbandono della tradizione
longobarda: non un solo riferimento
all’epitaffio della regina Ansa, la moglie dello
sconfitto re Desiderio, che pure aveva ispirato
a Paolo Diacono la composizione di un carme
funerario. Al contrario, nell’epitaffio del prete
Tafo, datato 897, rinvenuto nel 1885 e
conservato presso i Civici Musei di Brescia, i
confronti si possono stabilire con Alcuino e
con Venanzio Fortunato, autore tanto amato
dalla poesia carolingia. Nell’epitaffio del
vescovo di Brescia Landolfo I, vissuto alla fine
del secolo IX, il cui testo è tramandato da una
copia del 1609 eseguita da Gian Francesco
Fiorentino, compaiono nuovamente richiami
ad Alcuino, a Lucano, e ancora, a Venanzio
Fortunato.
Per l’Italia settentrionale, nel secolo IX la
tipologia epigrafica individuata per le
produzioni d’alto livello è destinata a
subire un drastico cambiamento nel giro di
tempi molto brevi. Tuttavia sarà
necessario attendere quasi un secolo prima
che la capitale carolina diventi pienamente
scrittura epigrafica canonizzata, come
altrove al contrario si era già verificato.
Sotto il profilo grafico, le iscrizioni
conservate a Brescia presso i Civici Musei,
in parte legate alle badesse del monastero
di San Salvatore si presentano povere
nell’impaginazione, disordinate nell’esecuzione della scrittura (anche qui una
capitale epigrafica di tipo carolino). Si ha
l’impressione che venendo meno la classe
dominante longobarda sia andato perduto
anche il significato di schemi culturali da
questi
prodotti.
Nell’iscrizione
di
Ermingarda, attribuibile al secolo IX,
rinvenuta nel 1979 presso il chiostro sud
occidentale del monastero di Santa Giulia
a Brescia e conservata presso i Civici
Musei della città, il testo viene disposto
nei quadranti costituiti dai bracci della
Esempi d’iscrizioni di legate a figure
appartenenti, o comunque legate, alla classe
dominante franca sono documentati a Brescia,
dove sono conservati epitaffi di abati e di
badesse del monastero regio di San Salvatore.
Qui il mutamento grafico è immediato,
segni dell’avvenuta ricezione del nuovo
sistema si possono già vedere con la metà
del secolo IX, sebbene non sia del tutto
abbandonata la capitale longobarda. La
40
Carlo, morto nell’anno 806, a Bernardo, re
d’Italia, ucciso nell’anno 811. E rifacimenti
quattrocenteschi sembrano anche essere le
iscrizioni di Ludovico II, morto nell’875 e
quella del vescovo Ansperto, morto
nell’881. Su tutte, ritenute a lungo opere di
elevata qualità grafica originarie, grava dunque - più di un sospetto.
croce. Qui il testo, allineato con poca cura,
sale con le ultime due lettere lungo il
potenziamento del braccio; la G è quadra,
la M ha le traverse alte e la N presenta la
traversa attaccata ai vertici delle aste; il
modulo pur essendo ancora sviluppato
verso l’alto, tende a divenire quadrato
(vedi la lettera A con la traversa scesa
verso il basso). Si tratta, in definitiva, di
una iscrizione “di transizione”.
La rivoluzione grafica ed epigrafica dei secoli
VIII e IX legata ai Franchi in Italia
settentrionale sembrerebbe aver avuto, come
conseguenza, l’immissione di forme nuove
rispetto ai modelli precedenti; questa
immissione tuttavia non ha prodotto sistemi
misti, o elaborazioni locali, derivanti dalla
commistione delle due tipologie epigrafiche
(capitale longobarda e capitale epigrafica
carolingia). Al contrario, l’impatto di modelli
differenti nel modulo e, conseguentemente,
dissimili
nel
tratteggio
determina
l’allontanamento dai modelli precedenti; al
contempo sembra incapace di produrre
alternative. L’analisi grafica delle iscrizioni
che ci sono pervenute, restituisce l’immagine
di un sostanziale impoverimento della
produzione epigrafica: la rivoluzione grafica
carolingia, almeno per il secolo IX e per
questa regione dell’Italia, non sembra aver
dato esiti paragonabili, ad esempio, alla
splendida capitale carolina delle iscrizioni di
Lorsch della Torre civica, o di quelle pictae meno belle ma sicuramente già ben
stabilizzate nel canone carolino della capitale
epigrafica - nella cripta della chiesa di Saint
Germain di Auxerres, dai moduli quadrati,
dalle M con le traverse discendenti fino al
rigo di base, dalle R con tratto obliquo
fermamente diritto, dalle O tonde.
Appartiene alla medesima tipologia
l’epitaffio di un abbate di Leno, attribuito
al secolo IX, rinvenuto nel 1835 presso il
monastero di Santa Giulia, ma già
riutilizzata intorno alla metà del secolo
XVIII come parte di una fontana.
L’iscrizione, è sì inserita nei quadranti
della croce, ma è allineata parallela al lato
maggiore, con chiaro fraintendimento
dello specchio di corredo. La scrittura ha il
modulo tendente al quadrato (si vedano le
lettere M e R). La C alterna la forma
quadra a quella tonda e la G è quadra. La
Q ha la coda riassunta all’interno. Modelli
grafici analoghi compaiono in una
iscrizione funeraria di una badessa del
monastero di San Salvatore, datata al
secolo IX rinvenuta nell’atrio quattrocentesco di San Salvatore negli anni 195262. Il manufatto, forse la porzione inferiore
dell’epitaffio, presenta una cornice a
intreccio. Da notare qui il tratteggio della
lettera B con gli occhielli staccati, identico
a quello dell’iscrizione dell’abate di Leno
già citata. Entrambe le iscrizioni recano le
lettere G e C quadre.
Diversamente, testimonianze epigrafiche
apparentemente di elevata committenza
italo settentrionale legate alla nuova classe
dominante franca e conservate a Milano,
non possono essere utilizzate per una
ricostruzione puntuale della tipologia dei
modelli importati. Si tenga presente,
infatti, che le iscrizioni funerarie del secolo
IX legate alle alte gerarchie franche, sono
state di recente riconosciute come
rifacimenti tardi. In particolare ci si
riferisce alle iscrizioni di Pipino, figlio di
Una destrutturazione grafica non
priva di significato, se solo si pensi
alla cosiddetta rinascita carolingia, la
quale sembra avere prodotto in Italia
settentrionale una profonda crisi –
questa volta sì - in ambito epigrafico,
progressiva e irreversibile, fino a
quando la nuova scrittura non avrà la
capacità di imporsi come definitivo
modello scrittorio. Come già per
41
Roma, sarà anche qui il secolo IX a
dichiarare una avvenuta crisi e una
trasformazione verso nuove forme di
scrittura. Non è un adattamento o una
elaborazione all’interno di un processo
di trasformazione della scrittura. Si
tratta di una radicale trasformazione,
la quale presuppone, perché giunga a
compimento, un processo di crisi
determinato dall’imposizione, dall’
alto, di nuovi modelli scrittori. Un
processo che doveva avere avuto il
gusto amaro dell’imposizione, se i
ritardi grafici palesi in ambito
epigrafico dimostrano una sorta di
resistenza
culturale
dei
modelli
longobardi. E in ogni caso, sarà la
nuova scrittura, la capitale carolina, a
rappresentare le nuove gerarchie
sociali, mentre la capitale longobarda,
già a suo tempo testimone delle
gerarchie longobarde, è destinata a
trovare in Italia meridionale, in ambito
longobardo, un rinnovato vigore.
In conclusione. Così come la scrittura ha
rappresentato, per il mondo romano, un
elemento di visibilità e di ostentazione di
rango, del pari per le élites medievali esse
hanno costituito un valido mezzo di
riconoscimento di rango. I passaggi tra
gruppi sociali e l’avvicendarsi di differenti
dominazioni non ha alterato questa
percezione della scrittura; l’elaborazione
sistematica di modelli grafici “riservati”
costituisce, sotto questo profilo, un evidente
fattore di rappresentatività sociale.
42
Dress, burial and identity in late
antiquity and the early middle ages
interesting details are much more
interesting for modern archaeologists than
for the early medieval contemporaries,
because they noticed mainly striking
colours and obvious patterns. The position
of the accessories in the grave gives
indications for the cut of the costume – if
for instance brooches really closed the
dress. This is not every time the case, as
the position of many bow fibulae of the
late 5th and the 6th century in Western
Europe show, which mainly were found
on the stomach or the pelvis of the buried
women.
Sebastian Brather
Dress and burial (especially dress
accessories of bronze and iron and grave
goods) are the main sources, on which
archaeology tries to analyse late antique
and early medieval identities. A lot of
textual and iconographic evidence should
be added, if one wants to achieve a reliable
result. It is possible to make direct
parallels
between
the
imaginative
representations and the archaeological
finds, and with burials it is not quite
different. Literary sources report about
dying, mourning and procession, and
cemeteries and burials demonstrate, what
is left from feasting and rituals. Both
aspects – dress and burial – have to be
seen on the basis of literary, iconographic
and archaeological sources.
German Archaeologists often use the term
“Tracht” instead of the neutral “dress” or
“costume”. This phrase suggests a
conservative, only slowly changing and
regionally limited clothing – in contrast to
a flexible urban “fashion”. The folkloristic
costumes of the 19th century were seen
today as a specific effort to cover the rising
social differences inside modern societies
by regional demarcation to the outside.
“The Tracht as regional uniform probably
never and nowhere existed, because even
regional textiles and cuts were formed by
economic and aesthetic influences, which
came from trade, craft and intraregional
mobility.” In fact Tracht “presented the
social order of the villages and stabilised it
mostly.” Modern research in folklore
conceptualises therefore the Tracht as a
specific dress of the 19th century – and not
as the normal case of regional costume.
Archaeological observations show many
locally specific features in late antiquity
and the early middle ages, as female
graves of the 4th and 5th centuries south
of the North Sea make clear. This aspect
demonstrates that mainly social contexts
within local societies should be expressed,
depending on the specific circumstances
and opportunities.
1. Dress and difference
Dress can show social differences very
well. Because clothing is worn directly on
the body, it forms a means of
demonstrating
belonging
and
differentiation par excellence. Dress is a
signifier par excellence. Because it is worn
directly on the body, costume can
demonstrate belonging and distinction,
differentiation and identity very explicitly.
Besides clothing, its colours, patterns,
design and cut, the individual appearance
is determined by hairstyle (including
beards), jewellery (women) and weapons
(men). The four aspects have to be looked
at together, when the effect of dress and
appearance is studied.
Only seldom textiles themselves can be the
basis materials for the archaeological
study of dress, and mostly they form just a
few small pieces. Therefore metal dress
accessories are the main source, even if
their typologically and chronologically
Normative texts seem to underline the
interpretation. Many regulations – ranging
from antique laws against luxurious
burials to early modern dress rules – were
43
the Romans indirectly. These laws
contained no insinuation about the
“barbarian”
or
even
“Germanic”
characteristics of the banned dress. They
prohibited its use only in the “venerable”
and “holy” city of Rome – and this means,
in specific “official” contexts trousers, a
special kind of boots and furs or long hair
were not acceptable, besides that this
outfit did not attract any attention in other
situations. The Roman who was conscious
of old traditions wore the toga at official
circumstances – or at least he had to,
according to conservative traditionalists
(already Augustus made publicity for the
toga), but this costume was very
impractical and complicated. A different
dress could be named as “barbarian” in
order to show that it is inappropriate in
specific situations. Probably we could read
a passage of Victor of Vita in this way,
who fundamentally criticised the fact that
Catholics in the Vandal kingdom went
into the Catholic churches while wearing
the habitus Vandalorum of the king’s court.
In this manner – regardless of existing
connections – one could handle with
literary topoi of barbarians and operate
with
shimmering
insinuations
of
“foreigners”. In reality, this kind of
costume was wide-spread among Romans
in the Mediterranean in contexts of
military
and
hunting,
sometimes
connected with a literary “barbarian”
appearance.
published to make social differences
visible. Belonging and distinction within a
given society were regarded – and to be
emphasised and respected. Dsepite several
regional variants, in antiquity dress and its
accessories were not totally different in
Central Europe and the Mediterranean.
Since the pre-Roman Iron Age barbarian
women wore a dress, which was closed by
a brooch on both shoulders. During the
imperial age noble Roman woman had the
stola (corresponding to the male toga) with
special clasps of leather, textile or metal,
and at the end the stola was closed even
by small fibulae. Mainly in Gaul, but in
several other regions too the Romans
knew “celtic” trousers. Despite the similar
clasp at the shoulder, Romans as well as
barbarians had belts with a buckle, of
which a big number of types and objects
were
produced
in
Mediterranean
workshops; only because of the funeral
ritual they are found mostly along the
northern periphery of the Imperium
Romanum. Single, small brooches were
used by both sexes, and with the Romans
as well with the barbarians, for closing a
cloak or cape (paludamentum, chlamys). The
“objective” distance with respect to the
dress could be bridged – no surprise as
one looks at the long history of mutual
relations.
In the Mediterranean the officially worn
costume consisted of draped and sewed
dress (toga/stola, tunica and pallium/palla,
chiton and himation), which was worn
without metal accessories (brooches,
needles). The draped garments were
replaced more and more by tailored
clothing (paenula etc.). Since the 3rd
century stola and toga were restricted to
official occasions, so that the toga was just
the official costume of the senators at the
end. Romans were buried within their
dress as well as the barbarians, but this
can be observed only seldom because of
the absence of metal accessories.
Around 400 the emperor had forbidden a
specific dress, and this confirms its use by
Some pictorial representations can be used
to underline this hypothesis. Throughout
the whole Mediterranean hunting scenes
on mosaics in late antique villas often
show hunters in “barbarian” trousers. In
opposition to older views which saw the
represented men as barbarians, it is now
believed
that
elitist
landowners
demonstrated themselves in a specific
context.
The
representation
of
a
imaginative, barbarian other-world would
have found no place in such villas. The
analysis of meaning has to consider the
context of the images to get a plausible
44
feasting remains. The reconstruction of
symbolic acts, carried out during the
burial, has to be based on written sources
mainly.
interpretation. This can be shown by a
second example. Stilicho, patricius and
magister utriusque militiae, is shown in a
Mediterranean habitus (if the identification
of
this
anonymous
representation)
including a cloak with a brooch. The
military aspects is shown by sword, shield
and lance. The second plate probably
shows Stilicho’s son Eucherius and his
wife Serena (niece and adopted daughter
of Theodosios) in a Roman costume as
well; the belt buckle is similar to so-called
“Gothic” ones, which instead mostly are
produced in the Mediterranean. Whether
the man is Stilicho or not – shown is a
high-rank military officer and not a
barbarian.
Burials do not represent a totally “realistic”
picture – they do not reproduce social
structures directly. And they could not be seen
as a perfect mirror of life, but as a distorting
mirror. Burials are a staging, which were
performed in front of the mourning
community. From this perspective burials can
be described by a concept of literary studies.
Form and contents of a text depend on three
factors, arranged within a triangle: 1. the
author, 2. die potential readers, and 3. the
story to be told. Transferred to burials there
are the following three participants: 1. the
burying group (family), 2. the local
community, and 3. the dead. The burial
represents the dead und his or her potential
desires as well as the ideas of those, who (as a
family) bury him or her, and last but not least
the expectations of the neighbourhood. The
existing background is interfered with
idealised concepts, the retrospective on the
identity of the dead is complemented by a
prospective positioning which goes to the
future of the family and the local community.
On one hand the aspired “idealisation” of
social situations could be seen as a analytical
problem, if one directly looks for realities, but
on the other hand it is a promising aspect, if
we look for subjective perceptions and ideas
of the contemporaries.
2. Burial and local society
Burials are remains of complex actions. In
antiquity five phases of burial rituals were
known, and they are named with the
ancient terms by modern researchers:
Greek
1. próthesis
Latin
collocatio
2. ékphora
pompa
funebris
sepultura
monumentum,
sepulcrum
rosalia,
parentalia,
lemuria
3. taphos
4. tymbos,
sema
5. mnéme
actions
lay out and
lamentation
funeral
procession
funeral
grave
memory
It is the family and the neighbourhood,
where social relationships are important
and where belonging and distinction,
equality and priority are demonstrated in
an idealised manner. This is true for
gender and age groups as well as for elitist
awareness, for families, for “professional”
activities or religious ideas. The local
community represents in some sense the
screen, on which attributions and
identities were projected. Regional
differences in the furnishing of graves go
back to this reason, i. e. different social
structures. The social structure is complex
Archaeology can analyse the grave at first
(4). Its arrangement is connected with the
burial and the rituals during the
ceremonies (3), and therefore these actions
may have left some material traces. Only
occasionally some archaeological evidence
can be seen as a reflection of the other
three “phases” – collocatio (1), pompa
funebris (2), memoria (5). Indications can be
fire places at some row grave cemeteries,
which could be connected with funerary
feasting of the community, purifying
rituals or even the simple disposing of
45
demonstrate and to reclaim social
positions within a limited framework.
There one could impress by three aspects:
1. the burial in a “rich” costume, 2. a
lavishly furnished grave, and 3. by a
monumental grave. For this reason row
grave cemeteries can be seen as a typical
development in peripheral regions of the
disintegrating empire, where a dichotomy
of Romans and Germans was not of
central importance.
even in “traditional” societies, and
therefore we should expect several social
groupings, overlapping each other, and
this makes their analytical study a skilful
task. Elites refer to “themselves” at other
places and by doing so they put their
position into a wider regional framework.
Social positions could be demonstrated
during burial, but they must not be
demonstrated. Since the 8th century
lavishly
furnished
graves
became
uncommon. Instead donations for the
church were made – pro anima (for the
salvation). This fundamental change was
not due to a strengthened Christianisation,
but was a new form of social
representation. Therefore grave goods did
not reflect a “pagan underground” inside
Christian societies during Merovingian
times. Instead they show that status
demonstration was important during
burial rituals, because only then grave
goods could be exhibited, before they
were taken away from the eyes of the
contemporaries forever.
3. Groups and identities
Social groups are identity groups. It is not
“objective”
characteristics,
which
constitute them. Instead they are
subjective
ascribed
affiliations
to
individuals and groups, which can be
made from inside and from outside – by
the in-group or the out-group. Identities
can be established only in front of “the
others”, and they can be different social
opponents – as far as “foreigners”. From
this perspective social groups appear
flexible and changeable, and objective
criteria of affiliation cannot be expected.
The same is true for ethnic frontiers, which
are
made
by
selected
cultural
characteristics. Heiko Steuer described the
considerable social mobility in late
antiquity and the early middle ages by the
term dynamic ranked societies.
The emergence of row grave cemeteries,
which were characterised by lavishly
furnished burials, can be explained by this
perspective. Since the 5th century burials
became more and more a central stage for
the demonstration of social belonging.
This meant an important change
compared with the circumstances before,
because neither in the Roman world nor in
the barbarian milieu traditions can be
seen. Because row grave cemeteries
concentrate along the periphery of the
antique imperium – and especially within
the frontier lines – it must have been of
importance
there.
The
ongoing
regionalisation of the empire had taken
away Rome as the stage of representative
and competitive self-performance for the
local elites. The “frontier societies” were
confronted with radical social change, and
therefore they sometimes were seen as
“stressed”. In regional and mostly in local
contexts publicly performed burials
seemed to be a good chance to
Social memberships were more than just
flexible. Their emphasis depends on specific
situations. The main reason is each
individual’s different social roles. Gender
and age, family and possession, profession
and religion form different social groups in a
given society. The many differentiations
make it impossible to demonstrate them all at
the same time. It is the specific context, which
stresses one or the other social role and its
demonstration.
Therefore
“subtle
distinctions” were expressed depending on
the given situation – in all cases, when its
emphasis can constitute differentiation.
Anyway, they are situational constructions.
46
During childhood and youth the number
of grave goods increased steadily (perhaps
with some exceptions for children between
four and eight years), and old people
again did not get exceptional rich burials.
This does not mean that “rich” people did
not get old, but that they were not buried
“rich” any more. From this perspective the
age was much more important than
vertical social hierarchies, and therefore
Christlein’s “quality groups” can be used
only within one age-group. If one
compares the age-specific grave goods
with the early medieval wergeld (money
which has to be paid if one had killed
somebody) in the leges barbarorum, it
becomes clear that they are connected with
different roles in society. Especially the
Frankish Lex Salica and the Lex Ribvaria
knew such differences (and the Leges
Alamannorum did not), which can be
paralleled with the furnishing of burials in
Merovingian times. Apparently there were
very high fines for the killing of babies,
but “rich” graves appeared only for more
then three year old children. The main
reason for that discrepancy should have
been the high mortality of babies; only
behind that age the family could made
such an “investment” into a well
furnished grave of the deceased child.
If individuals fulfil different roles, then
some social groupings overlap each other.
To understand the complex structures, a
concept by Guy Halsall may be helpful.
Halsall distinguishes three separations in
societies: 1. a vertical one, which
differentiates between the two sexes or
genders; 2. a horizontal one, which means
differences between “rich” and “poor”;
and 3. “diagonal” ones, which lay
sideways across the two mentioned above.
The term “diagonal” describes another
dimension systematically, but is hard to
imagine. Therefore a graphic visualisation
implies some problems.
Studies of early medieval cemeteries are
looking mostly at one social aspect – die
differentiation between “richly” and
“poorly” furnished graves. Some thirty
years ago Rainer Christlein developed a
scheme for the reconstruction of social
“hierarchies” from “rich” (group D) to
“poor” (group A), and he named them
“quality groups” or “property gradation”.
These hierarchic differences were often
and insufficiently understood as “social
structures”, despite the fact that much
more has to be looked at. A second and
often
studied
aspect
takes
into
consideration the distinction between the
“indigenous”
population
and
“foreigners”; in this case regional
distributions of metal dress accessories are
the main argument. A reduction to both
the mentioned perspectives would mean a
clear simplification of the complex
structures of early medieval societies.
Indications reflecting profession and
religion, seems to have been not very
frequent in the burials. Parts of a plough
or craftsmen’s implements were put into
the graves only sometimes. In most cases
these
implements
are
found
in
combination with “rich” and extensive
grave goods, and both the small number
and the “wealth” suggest that they
expressed more than just specific activities
of the deceased. In that case every farmer
and every smith had to be furnished with
such things. Perhaps agrarian implements
should have demonstrated manorial
power (plough) and clearance (axe); tools
of a smith could have presented the power
and its disposal over craft and craftsmen.
Even Christian symbols – for instance the
This can be shown if one looks at the age
of the buried people. Anthropological
analysis of the age at death can not reflect
social roles directly, but they give us
important and independent scientific
indications. Besides the simple distinction
between children and adults, grave goods
show clear correlations with the age of the
buried (fig. 6). The most extensive and the
best grave goods got middle-aged men
and women – between their 20’s and 40’s.
47
well-known gold-foil crosses – are rare in
early-medieval burials, at first-hand
surprisingly in Christian societies. But
probably exactly this is the reason for the
absence of these signs: religious symbols
were not able to demonstrate any
distinction in face of the common belief.
In the end some points have to be made.
In late antiquity and the early middle ages
dress as well as burials were used to
express social status. The emphasis on
differences was centred on distinctions
within local societies; they dominated in
every-day live and therefore the
fundamental
conditions.
To
meet
“foreigners” were possible and not
exceptional in specific situations, but
especially during funerals the audience
came from the local society only. Because
of this reason representations had to focus
on actual, existing conditions of power
and social belonging; only secondarily
they alluded to somebody’s origin, if this
could became of importance for social
positions. In this case the “origin” could
have changed into an argument for social
distances. “Ethnic” differences, which
were described in written sources or seen
as such differences today, have to be
interpreted by looking at that background.
The question is not, if there were ethnic
identities, but if and if so, how were they
demonstrated in the graves.
48
imperiale, che per loro stessa natura si
sono conservati in casi del tutto
eccezionali: le sete (holoserica) e i tessuti
di porpora. Maggior fortuna hanno invece
avuto le guarnizioni in fili d’oro delle vesti
(le cosiddette paracaude), effettivamente
note grazie ad un certo numero di
ritrovamenti presenti in Italia centrosettentrionale; nonostante la loro bellezza
e preziosità questi materiali, attestati nel
periodo considerato solo in un limitato
numero di sepolture infantili, offrono
tuttavia un punto di vista estremamente
parziale.
Abbigliamento e rango tra V e VI secolo
in Italia settentrionale
Elisa Possenti
Il tema “Abbigliamento e rango tra V e VI
secolo in Italia settentrionale” impone in
primo luogo di chiarire quale accezione
verrà attribuita, in questo intervento, al
termine “rango”. Tenuto conto dell’ambito
geografico
di
riferimento
(l’Italia
settentrionale a nord del Po) e del periodo
storico (il V e il VI secolo, con qualche
anticipazione nella seconda metà del IV e
l’esclusione dell’ultimo trentennio del VI
per i territori divenuti longobardi), verrà
innanzi tutto inteso come “rango” il ruolo
che il singolo ricopriva all’interno dello
stato tardoantico, e quindi, ostrogoto e
bizantino; in secondo luogo, ulteriore e
conseguente punto di riferimento sarà la
posizione occupata dall’individuo rispetto
ai ceti dirigenti e ai loro privilegi; privilegi
e convenzioni, spesso codificati da leggi,
che, più o meno esplicitamente, intendevano tutelare e conservare un assetto
sociale ritenuto sinonimo di stabilità
politica.
Una maggiore rappresentatività sembra
invece attribuibile a due classi di materiali
che, al contrario, sono per lo più riferibili
ad individui adulti di sesso maschile per i
quali è percentualmente alta la probabilità
di una loro appartenenza (o del loro
nucleo familiare alla luce delle leggi
promulgate
da
Diocleziano)
alla
compagine amministrativa e/o militare
dello stato: le fibule a testa di cipolla e
alcuni tipi di guarnizioni di cintura. La
loro presenza, nell’arco di tempo
considerato, è infatti riferibile a vesti e
complementi di abbigliamento quali,
rispettivamente, la clamis (clamide) e il
cingulum (cintura), più volte indicati nelle
fonti scritte come elementi distintivi della
militia, definizione questa con la quale si
indicava il personale amministrativo
“civile” dell’impero (militia) e l’esercito
(militia armata).
Questi criteri hanno un valore generale e
sono giustificati dalle caratteristiche della
società tardoantica; in quanto tali sono
comunque utili anche per affrontare il
tema dell’abbigliamento quale segno
esteriore che testimonia lo status.
Le fonti a disposizione, relativamente
numerose, sono già state occasione di
studi approfonditi soprattutto per quanto
riguarda l’ambito giuridico; in questa
occasione si farà invece essenzialmente
ricorso al dato archeologico, eventualmente confrontato con altri tipi di dati
desunti dalle fonti iconografiche, narrative
o legislative.
Come è già stato messo in evidenza in altre
sedi è necessaria una certa attenzione
nell’utilizzare i dati offerti da queste classi di
reperti che, come tutti i complementi di
abbigliamento possono aver visto, nel periodo
di tempo in cui sono stati in uso, un
cambiamento rispetto al significato simbolico
originario, alterato da processi imitativi e/o
più strettamente funzionali. Tale prudenza
trova del resto riscontro nelle stesse fonti
scritte se teniamo conto che, già in una fase
piuttosto precoce, una legge di Teodosio del
382 vietava l’uso del cingulum a coloro che non
Le fonti giuridiche menzionano con una
certa frequenza materiali, esclusivi delle
élite, se non addirittura della casa
49
per l’appunto dell’oro, e dalla montatura
su una striscia di cuoio rosso. Se pensiamo
al numero di cinture in lamina ripiegata
bronzea note in tutta l’Italia settentrionale
di cui non abbiamo traccia del supporto
organico (era rosso, verde, al naturale o
che altro?) si deduce che la versione
bronzea di questo tipo di cintura, se non
associato ad altri materiali rappresentativi,
non può essere utilizzato se non in modo
generico, come imitazione, non meglio
specificabile, di modelli aurei usati dalle
alte gerarchie dello stato e dell’esercito.
facevano parte dell’amministrazione pubblica
o dell’esercito (una tale interferenza sembrerebbe invece non attestata per le fibule a testa di
cipolla).
Per quanto banale un altro elemento
fondamentale da tener presente è
costituito dal tipo di metallo utilizzato per
realizzare gli oggetti in discussione.
Sostanzialmente vale infatti il principio
che più un metallo è prezioso meno rischi
ci sono di trovarsi davanti ad un uso o ad
un significato “improprio” dell’oggetto.
Ciò vale a dire che è altissima la possibilità
che una fibula a cipolla d’oro o delle
guarnizioni dorate siano state fatte per
funzionari, civili o militari, dello stato.
Maggiormente connotate appaiono invece
altri tipi di guarnizioni riferibili, anche se
sempre con una certa dose di attenzione,
al cingulum militiae: le placche a forma di
elica e le guarnizioni in stile militare, note
in gran numero lungo il limes renano e
danubiano ma attestate anche in Italia
settentrionale, quasi esclusivamente nelle
regioni orientali (Trentino, Veneto, Friuli).
Tale affermazione è confermata dall’
iconografia e dalla documentazione archeologica; quando rinvenuti con altri materiali, i
reperti in oro o comunque dorati, sono infatti
generalmente associati ad oggetti di pari
livello, pecuniario e simbolico. Tale è il caso ad
esempio della fibula in oro a testa di cipolla
dal tesoro di Desana (Alesandria), rinvenuta
in un deposito in cui, oltre a un paio di fibule a
staffa di tipo ostrogoto, gli elementi
maggiormente rappresentativi erano costituiti
da alcuni oggetti di oreficeria di alta qualità e
da suppellettile in argento. Diversamente
invece, nel caso dei materiali in bronzo (il
discorso vale soprattutto per le cinture), va
considerata la possibilità che possa anche
trattarsi di imitazioni e/o materiali usati
impropriamente come nel sopra menzionato
editto di Teodosio.
Alla luce di queste osservazioni si sono
perciò raccolte le testimonianze relative
alle fibule a testa di cipolla, alle placche a
forma di elica e alle guarnizioni di cinture
militari in un arco di tempo compreso tra
la metà del IV secolo e la fine del VI. Solo
in una fase successiva ci si è chiesti se
questi elementi possono essere utilizzati
come indicatori di status e, in caso
affermativo, a quale tipo di status devono
essere relazionati.
In sintesi i dati possono essere analizzati sotto
tre punti di vista tra loro complementari:
cronologico, territoriale e legato al tipo di
metallo con cui sono realizzati.
A quest’ultima osservazione va quindi
aggiunto un ultimo appunto, ovvero che
non sempre la parte metallica, da sola, è
sufficiente ad illustrare l’eventuale
significato dell’oggetto. Questa prudenza
nasce da un passo del De Magistratibus di
Lidus (490-554?) in cui è descritta la
cintura del prefetto del pretorio: si tratta di
una cintura, in questo caso “ovviamente”
in oro, estremamente frequente nella
versione bronzea in lamina ripiegata, i cui
elementi distintivi sono costituiti dall’uso,
Dalla comparazione delle carte di
distribuzione emerge che nella fase più
antica, collocabile tra la metà del IV secolo
e i primi due decenni del V secolo, ci fu
una massiccia presenza di reperti bronzei
(sia fibule che elementi di cintura) nelle
aree gravitanti sulla Postumia nel tratto tra
Vicenza e Aquileia; in particolare in queste
zone si constata una grossa concentrazione
50
oltre che ad Aquileia, è infatti attestato,
esclusivamente con esemplari con tracce di
doratura, a Concordia e, lungo la Postumia, a
Bedriacum/Calvatone; un altro esemplare
proviene inoltre da Casaleone (VR).
di materiale altrove quasi per niente
testimoniato: fibule a cipolla del tipo
Pröttel 3/4 D (330/410), guarnizioni di
cintura a Kerbschnitt (ultimi decenni del
IV-inizi V) e placche a elica (IV secolo). Da
evidenziare che questi materiali sono, con
pochissime eccezioni, tutti in bronzo, di
qualità non elevata, provenienti tanto da
contesti urbani che rurali e, infine, per lo
più attribuibili a abitato anche se talora
attestati in sepolture.
Il tipo Keller 6, già considerato da più
autori (Buora, Bolla) come un fossile guida
per l’individuazione di comandi militari è
invece attestato con pochissimi esempi,
alcuni con doratura, ad Aquileia (ben 10
esemplari), Invillino, Sirmione e Tortona
Museo archeologico. Una variante è infine
presente a Desana nel deposito a cui si è
già accennato. Degno di nota è che il tipo
Keller 6 sia quello indossato da Silicone e
da suo figlio nel notissimo dittico del
tesoro di Monza realizzato entro la fine del
V secolo.
Sovrapposta all’area definita dalle fibule di tipo
Pröttel 3/4 D, dagli elementi con decorazione a
Kerbschnitt e dalle placche ad elica (comunque
non necessariamente associati gli uni agli altri)
è quindi una seconda area, più vasta, nel cui
ambito è presente un numero piuttosto
modesto di esemplari apparentemente non
vincolati ad un territorio definito. Ci si riferisce
in primo luogo alle fibule tipo Pröttel 3/4 B
(350/410) la cui distribuzione, pur segnando
una concentrazione maggiore nelle regioni
orientali, interessa comunque anche le aree più
occidentali quali la Lombardia (3 esemplari a
Goito) e Aosta; quindi al tipo Pröttel 3/4 C
(330-410), di cui gli esemplari con doratura
sono relativi ad aree ben distinte
territorialmente (tre da Aquileia e uno nel
museo di Mantova senza indicazioni di
provenienza).
Alla luce dei quadri di distribuzione e volendo
relazionare i materiali all’eventuale significato
di status sociale ad essi sotteso, appare
abbastanza verosimile che le fibule Keller 5 e 6
possano essere effettivamente appartenute a
funzionari pubblici che, in quanto tali, erano
dislocati in più punti dell’impero. Va
comunque specificato che alla luce dei
materiali superstiti i proprietari degli oggetti
giunti fino a noi dovevano far parte dei ranghi
medi o, tutt’al più, medio-alti. L’unica
eccezione è certamente costituita dalla fibula
d’oro di Desana che, come già ricordato, era
stata deposta con suppellettile in argento
(cucchiai), un paio di fibule con cloisonné a
legante sabbioso (la cui qualità si pone quasi ai
vertici delle produzioni di VI-VII secolo), una
croce pettorale in oro di un tipo simile a quelle
deposte nelle sepolture con fili d’oro di
Treviso e Aquileia (collezione di Toppo nel
museo di Udine), un orecchino in oro a
castone fisso confrontabile per tipologia a
quelli indossati dall’imperatrice Teodora nel
mosaico di S. Vitale a Ravenna e, infine,
numerosi anelli l’uno dei quali con
monogramma.
Un criterio di distribuzione analogo, che
non appare vincolato a unità territoriali
definite, è ravvisabile anche per i tipi più
tardi delle fibule a testa di cipolla, ovvero
il tipo Keller 5 (350-415, nella datazione
più ampia proposta da Pröttel) e il tipo
Keller 6 (390-460, secondo le datazioni più
recenti proposte da Pröttel e convalidate
da Buora).
Queste fibule diversamente dalle precedenti,
per quanto in bronzo, presentano spesso una
doratura sulle superfici che ne aumenta
certamente il valore; da rilevare è inoltre la
provenienza da siti spesso in corrispondenza
della viabilità principale e/o presso
importanti centri urbani di antica fondazione e
notevole significato strategico. Il tipo Keller 5,
L’assenza di documentazione archeologica
relativa ai ranghi più alti della società
contemporanea è confermata dalla mancanza
51
di fibule di tipo Pröttel 7 (460-50, ma forse fino
al 550), il cui riscontro iconografico più vicino è
offerto dai dignitari che attorniano gli
imperatori Giustiniano e Teodora a Ravenna.
L’esemplare geograficamente più vicino è
infatti quello nel tesoro di Reggio Emilia, la cui
composizione è comunque molto significativa:
ancora una volta accanto alla fibula a testa di
cipolla in oro sono presenti un piccolo encolpio
in oro del tipo già visto a Desana, anelli (alcuni
con monogrammi) e, poi, altri gioielli che per
fattura richiamano un gusto pienamente
mediterraneo.
Un ultimo punto è relativo alla situazione delle
regioni orientali nella seconda metà del IV
secolo, caratterizzate, oltre che da materiali di
un certo pregio (le fibule tipo Keller 5 e 6
distribuite pur con pochi esemplari in tutta
l’Itala settentrionale) da un gran numero di
oggetti di minor valore. Anche se come ipotesi
di lavoro, da verificare con ricerche future, la
sensazione è che questa fenomeno non possa
essere esclusivamente legato ad un fattore di
moda, privo di implicazioni culturali. In questo
senso appaiono significativi: la datazione dei
materiali in rapporto alle vicende politiche che
coinvolsero queste regioni a partire dall’età
costantiniana fino perlomeno alla caduta di
Silicone; la quantità e qualità di manufatti che
presenta interessanti analogie con la cultura
materiale testimoniata lungo il limes fino al
401/402; i numerosi ritrovamenti di gruzzoli
monetali in tutta la Venetiae t Histria; le
attestazioni di prefetture di Sarmati nella Notitia
Dignitatum cui fanno eco numerosi riscontri
toponomastici; la supposta “libertà” di costumi
dei federati barbari rispetto alle consuetudini e
leggi legate all’abbigliamento (Sommer); la
trasmissione ereditaria del titolo di soldati ad
intere famiglie per effetto delle leggi
dioclezianee; non da ultimo, infine, il gran
numero di cinture in lamina ripiegata che
abbiamo definito prive di connotazioni
tipologiche specifiche (v. sopra) ma che forse,
nell’insieme dei dati raccolti, non sono più così
insignificanti come quando esaminate
singolarmente.
52
corredi era legata all’età di morte degli
individui (le donne ricevevano corredi
femminili se morivano in età fertile,
mentre gli uomini ricevevano corredi
maschili se morivano in età adulta e
matura), nelle necropoli friulane e slovene
considerate (S. Stefano di Cividale e
Romans d’Isonzo in Friuli e Kranj Lahj in
Slovenia) il numero di sepolture con armi
e fibule era molto esiguo e non pareva
tanto legato all’età dei defunti. Quello che
mi è sembrato invece rilevante è che in
queste necropoli le poche sepolture con
armi appartenevano ad una fase sola di
utilizzo delle necropoli, le prime fasi a S.
Stefano e a Romans, una fase successiva a
Kranj. Inoltre, la loro distribuzione
spaziale entro le necropoli sembra
suggerire che queste fossero le prime
sepolture interrate, attorno alle quali
sarebbero state deposte, nelle fasi
successive, sepolture dai corredi più
semplici. In molti casi (A S. Stefano, e in
alcune aree di Romans e Kranj) sono
individuabili
nuclei
di
sepolture
distanziati l’uno dall’altro, il cui nocciolo è
rappresentato da sepolture con corredi dai
connotati di genere. Queste deposizioni e
questa disposizione delle sepolture in
nuclei, spesso chiaramente individuabili
spazialmente, sembrano suggerire la
volontà di creare la figura di antenati
fondatori, deposti con corredi che
mettessero in risalto il loro status e anche
la loro mascolinità o femminilità. La
maggioranza degli individui, deposti nelle
fasi successive, era invece sepolta con
corredi nutri e più semplici, ma
spazialmente vicine ai loro antenati.
I guerrieri e le loro mogli. Genere e
identità nell’Italia Longobarda
Irene Barbiera
Secondo una tradizione avviata in Friuli
negli anni ’80 (Brozzi, 1989), le necropoli
altomediveali scavate in regione vengono
ancora oggi attribuite a gruppi di
longobardi o di “autoctoni” sulla base dei
corredi in esse ritrovati. In particolare,
necropoli in cui sono emerse armi e fibule
sarebbero state utilizzate dai Longobardi,
migrati nel 568 d.C., mentre necropoli prive
di tali corredi vengono attribuite al “sostrato
indigeno”. Corredi tipici di quest’ultimo
gruppo sarebbero più poveri, caratterizzati
da fibbie, coltelli, pettini, vasi in ceramica
grezza, bracciali e così via.
Nel corso di recenti indagini, su un
campione di necropoli datate al periodo
longobardo, in Ungheria, Slovenia e Italia
(regione Friuli), ho potuto rilevare come la
presenza di alcuni elementi di corredo, tra
i quali i più significativi erano appunto
fibule e armi, sembrava rivolta a
sottolineare il genere maschile e femminile
dei defunti (Barbiera, 2005). A tale
proposito ho utilizzato il metodo adottato
da Guy Halsall (Halsall, 1995) per testare
se e quali corredi erano significativi nella
rappresentazione dei generi. Le indagini
condotte hanno messo in rilievo che, nella
maggioranza delle necropoli considerate
in ambito merovingio e longobardo, sono
individuabili tre gruppi di elementi di
corredo, due che non si associano mai tra
di loro, l’uno comprendente armi deposto
in sepolture maschili e l’altro gioielli,
associato a individui femminili, e il terzo
invece di corredi che potevano essere
associati sia con corredi maschili che
femminili. Si è potuto così confermare che
i corredi avevano connotati di genere, ma
mentre
nelle
necropoli
Ungheresi
(Hegykő, Szentendre, Tamási e Kajdacs) la
rappresentazione del genere attraverso i
Questo tipo di costruzione funeraria è
stato rilevato in tre necropoli soltanto, di
cui una scavata in area Slovena (qui citata
a titolo di confronto). Purtroppo, la
stragrande maggioranza del materiale
friulano è stato scavato verso la fine
dell’800 primi del ‘900, fase in cui
venivano raccolti solo gli oggetti che erano
ritenuti più significativi, nella fattispecie
armi, senza alcuna divisione per tomba e
53
senza menzionare il restante materiale
andato poi disperso. Una necropoli estesa
(comprendente 115 sepolture) scavata
recentemente è la necropoli di Lovaria
(Pradamano), ora in fase di studio e non
pubblicata interamente. Dai primi dati
editi risulta che anche qui ci fossero dei
nuclei di sepolture ben visibili, anche la
presenza di tombe con armi, datate ai
primi decenni del VII secolo è
documentata. Bisogna però attendere che
tutto il materiale venga sistematicamente
pubblicato per chiarire se anche qui è
possibile rilevare il tipo di costruzione
funeraria visibile nelle necropoli sopra
menzionate.
parte non ancora investigata della
necropoli, o fossero state rubate in antico,
come si potrebbe suggerire per Bagnaria
Arsa, dove quasi tutte le tombe mostrano
tracce di saccheggio. Per altre necropoli,
invece, l’estensione e il numero delle
sepolture scavate sembra indicare che, di
fatto, in alcune delle necropoli mancassero
“antenati dai corredi speciali”. Come mai?
Quali possibili spiegazioni per la presenza
di sepolture con armi e fibule presso
alcune comunità e la mancanza presso
altre? Si tratta veramente di diversi gruppi
etnici? o è piuttosto il riflesso di diverse
concezioni funerarie legate a diverse
esigenze sociali?
Esiste poi un numero di necropoli, quelle
tradizionalmente definite di “autoctoni”
dove, data la mancanza di armi e fibule,
non è stato possibile rilevare la presenza
di gruppi di corredi dai connotati maschili
e femminili. Tutti i corredi sono risultati
neutri e potevano essere deposti in
sepolture sia di uomini che di donne
(compresi corredi come bracciali e
orecchini a cerchio). Qui i corredi sono
analoghi ai corredi neutri delle necropoli
sopra descritte, ma ciò che manca sono le
sepolture di “antenati armati o antenate
con gioielli”.
Per cercare di spiegare questo fenomeno
tenterò di considerare la distribuzione
cronologica e speziale delle necropoli e la
loro relazione con gli insediamenti, le rotte
viarie e altre tracce di popolamento.
Innanzitutto va precisato che i dati sono
molto frammentari, dunque non sarà in
alcun modo possibile formulare conclusioni
definitive ma soltanto delineare alcune
tendenze che potrebbero rappresentare lo
spunto per ulteriori ricerche future.
Le necropoli che non contengono
sepolture con armi sono in generale datate
tra il VI e il VII secolo, solo in pochi casi è
documentata una continuità di utilizzo
dall’età romana (l’incompletezza dei dati
relativi a queste necropoli non permette
poi di chiarire se si tratta di una continuità
senza interruzione. Per la necropoli di
Villanova di Farra, in uso dal II sec. d.C e
il VII, Giovannini ha ipotizzato che non ci
fosse soluzione di continuità, Giovannini,
2000). Le necropoli contenenti defunti
armati e donne con fibule sono, in quanto
ritenute di longobardi, datate a partire dal
568 fino al VII secolo (più frequentemente
entro la prima metà di questo). Si tratta,
nella stragrande maggioranza dei casi, di
necropoli di nuova fondazione, anche se
nel caso della necropoli Cella, a Cividale
(scavata però purtroppo agli inizi del
Un primo problema relativo a queste
necropoli è che spesso si tratta di
frammenti di necropoli solo parzialmente
investigate, come nel caso della necropoli
di Bagnaria Arsa (11 sepolture scavate,
Lopreato, 2002), di Pozzuolo del Friuli (10
sepolture, Vitri, 1987), Erto (numero di
tombe non chiaro, Brozzi, 1989), Farra
d’Isonzo (11 sepolture, von Hessen,
Brozzi, 1973), Grizzo (18 sepolture, Vitri,
1993), Tramonti di Sotto (6 sepolture, Villa,
2002), per citare solo alcuni esempi. Data
la bassa frequenza di sepolture con armi
nelle necropoli investigate (3 tombe su 43
a S. Stefano, 13 su 246 a Romans e 16 su
647 a Kranj), non é escluso che in alcune
delle necropoli definite di “autoctoni” le
sepolture con armi si trovassero in una
54
altri casi invece gli scavi e le testimonianze
di Paolo Diacono (Historia IV, 37)
sembrerebbero
testimoniare
una
continuità di frequentazione e di
importanza, ed è in corrispondenza di
alcuni di questi siti che sono state ritrovate
sepolture con armi. Si potrebbe quindi
ipotizzare che, almeno in alcuni casi, la
perdita di importanza dei siti nei secoli VI
e VII potrebbe spiegare la mancanza di
sepolture più ricche in queste fasi. Resta
comunque un dato da verificare, data la
scarsa documentazione relativa.
‘900), è documentata la presenza di
sepolture di età romana nell’area di nord
ovest, e di età longobarda a sud-est
(Ahumada Silva 1997).
Dunque, i due tipi di necropoli, neutre e
con armi, sembrano essere state utilizzate
nelle stesse fasi e, nonostante i pochi casi
mal documentati, parrebbe che entrambi i
tipi potevano essere in continuità con fasi
precedenti.
La distribuzione spaziale delle necropoli
in regione sembra abbastanza omogenea
nell’area orientale del fiume Tagliamento:
necropoli con armi sono spesso in
prossimità di necropoli dove non sono
state ritrovate armi, ed entrambe potevano
essere o meno lungo importanti percorsi
viari. Nell’area ad ovest del Tagliamento
prevalgono invece nettamente necropoli
dai corredi neutri. Anche se ciò potrebbe
essere attribuito alla scarsità di dati in
quest’area, potrebbe d’altra parte anche
essere il sintomo di un diverso sviluppo di
quest’area nei secoli VI e VII, come
sembrano dimostrare ricerche recenti e
approfondite nell’area dell’alto Livenza
(Rigoni, 1992).
Una più consistente documentazione é
disponibile per le chiese tra tardo antico e
altomedioevo per il Friuli (Cagnana, 2001;
Cagnana, 2003; Villa, 2003). Delle chiese
fondate tra IV e V secolo (23 chiese), circa la
metà ha restituito tracce di sepolture relative,
datate allo stesso periodo, mentre solo in due
casi si sono trovate sepolture di VI-VII secolo.
C’è poi un numero molto esiguo di chiese che
pare siano cadute in disuso intorno al VI
secolo (Cagnana, 2002), in nessuno di questi
casi sono state ritrovate sepolture relative. In
relazione alle tredici chiese fondate tra VI e
VII secolo, in quattro casi sono state ritrovate
necropoli o sepolture neutre (uno di questi é
il caso della chiesa di S. Giovanni a Cividale
dove nel 1752 sono emerse tre sepolture che,
stando alle descrizioni, contenevano ricchi
oggetti in oro andati dispersi), in tre casi con
armi (due in relazione a fondazioni private,
una in relazione ad una chiesa battesimale).
Le necropoli ritrovate entro il raggio di un
chilometro circa rispetto a queste chiese sono
in tutti e sei i casi con armi. Naturalmente c’è
poi un cospicuo numero di necropoli con
armi e neutre nelle vicinanze delle quali non
sono testimoniate chiese, i dati che qui
vengono discussi sono quindi parziali e i
risultati dovranno essere confermati da
ulteriori ritrovamenti e ricerche. Ad ogni
modo, questa prima analisi sembra mostrare,
almeno per quanto riguarda l’area collinare a
alpina del Friuli orientale che é quella meglio
indagata, che le chiese svolsero il ruolo di
polo attrattivo per le sepolture a partire dai
secoli IV e V e parrebbe che questa funzione
La relazione tra sepolture e insediamenti
fortificati o fortezze, nonostante la
scarsezza dei dati, offre alcuni spunti. Non
si registra il ritrovamento di sepolture
adiacenti o relative a strutture fortificate,
con due sole eccezioni (Grizzo e Caneva),
in cui le sepolture erano tutte neutre. Nel
caso di insediamenti fortificati sono
documentati entrambi i tipi di necropoli
neutre e con armi, ma i dati sono piuttosto
scarsi per permettere di trarre delle
conclusioni definitive. Ad ogni modo, un
dato certo é che nella maggioranza degli
insediamenti fortificati e delle fortezze
interessati a scavi archeologici, si é
riscontrata una frequentazione dei siti a
partire dall’età romana o addirittura da
quella preistorica, e in alcuni casi le fasi di
VI e VII secolo corrispondono a una fase di
degrado o abbandono (Piuzzi, 1999). In
55
Forse non é un caso che, là dove c’è
documentazione è più completa, questo
tipo di sepolture si potevano trovare o in
diretta relazione con le chiese di VI-VII
sec., o in aree dove le chiese non sono
documentate, ma mai nelle vicinanze ad
esse. Forse l’essere deposti in prossimità di
una chiesa rappresentava di per sé un
privilegio e non sempre si riteneva
necessario in questi casi depositare armi
od oggetti preziosi affianco ai defunti. Chi,
sempre all’interno di queste comunità, non
voleva o non poteva essere deposto in
prossimità della chiesa veniva interrato nel
cimitero delle vicinanze, dove forse lo
status e l’appartenenza ad un determinato
clan familiare era messo in risalto
attraverso i corredi e la vicinanza spaziale
agli antenati. In altre comunità, invece, che
spesso
parrebbero
satelliti
delle
precedenti,
non
c’erano
particolari
differenziazioni sociali da mettere in
risalto o competizioni per il controllo e il
potere, dunque nessun antenato veniva
deposto con corredi di valore.
attrattiva venisse esercitata soprattutto nelle
fasi più vicine al periodo di fondazione della
chiesa. In relazione alle chiese fondate tra VI
e VII potevano essere deposti individui con o
senza armi e spesso (con l’eccezione di due
casi), là dove non sono state ritrovate armi
nelle sepolture prossime alla chiesa,
necropoli con individui armati sono
riscontrate nelle immediate vicinanze.
I dati relativi alle chiese e quelle degli
insediamenti,
sebbene
piuttosto
frammentari, sembrerebbero indicare
anche per il Friuli-Venezia-Giulia una
situazione analoga a quella rilevata in altre
zone d’Europa (Theuws, Alkemande,
2000), e cioè che sepolture con armi
sembrano piuttosto in relazione ad aree
dove si registrano nuovi sviluppi
(riscontrabili
nell’ampliamento
degli
insediamenti
e
soprattutto
nella
fondazione di nuove chiese) nei secoli VI e
VII. Dunque, come é stato già in altre
occasioni evidenziato, anche alla luce di
questi dati, mi pare si possa affermare
sempre con maggior sicurezza che le
sepolture con armi non sono l’espressione
di
gruppi
di
longobardi
in
contrapposizione ad autoctoni, quanto
semmai
l’espressione
di
gruppi
aristocratici (autoctoni, longobardi, o altro
che fossero) che si andavano affermando o
riaffermando in aree interessate da nuovi
sviluppi sociali (Gasparri, 2002; Harrison,
2002). L’uso di deporre armi fu
caratteristico di un limitato periodo storico
(interessò circa due generazioni, o al
massimo tre) e sembrava rivolto, almeno
nei
casi
meglio
documentati, ad
evidenziare la figura di antenati fondatori,
forse coloro che assunsero nuovi ruoli di
controllo o potere. La mancanza di queste
sepolture in diverse necropoli potrebbe
essere dovuta o alla mancanza di necessità
(forse là dove le aristocrazie e i ruoli di
forza si erano già stabilizzati) o alla
mancanza di possibilità (nel caso di
comunità più povere). E forse, entrami le
cause potrebbero essere state alla base di
tale mancanza, a seconda delle situazioni.
Questa
interpretazione
andrebbe
supportata da ulteriori dati, ho cercato qui
di tracciare alcune linee interpretative che
mi paiono plausibili alla luce di questi
nuovi risultati.
56
quello dei Longobardi, sicuramente dalla
struttura aperta e dinamica, fluida e
duttile, ma con una fisionomia incisiva, in
rapida evoluzione nella direzione della
costruzione di una società nuova, secondo
dinamiche ancora in gran parte da mettere
a fuoco e da definire sotto il profilo
materiale.
Luoghi e segni della morte in età
longobarda: tradizione e transizione
nelle pratiche dell’aristocrazia
Caterina Giostra
Con il presente intervento ci si propone di
indagare alcuni aspetti che possano contribuire
a una migliore definizione delle scelte operate
dall’aristocrazia del Regnum in relazione alle
pratiche funerarie: i modi dell’ostentazione e
dell’autorappresentazione,
permeati
dal
costante rapporto dialettico del persistente
legame con la “cultura tradizionale”,
precocemente affiancata e che gradualmente
trascolora in pratiche e simboli recepiti dal
cristianesimo.
Qualche considerazione sul metodo
In questa breve nota si coglie l’occasione
per qualche spunto di taglio metodologico,
che non sarà possibile esporre durante
l’intervento orale; seguirà una sintetica
traccia degli argomenti che si intende
presentare, che in sede di convegno
verranno articolati e argomentati più
puntualmente
con
l’ausilio
delle
immagini.
Si sono assunte come filone guida le tombe
con “ricco” corredo (o alcune tipologie di
manufatti ritenute “indicatori di rango”);
l’ambito geografico è quello dell’Italia
centro-settentrionale. L’indagine è stata
regolata da due costanti metodologiche:
1) la serrata correlazione fra le
caratteristiche tipologiche dei reperti e i
dati disponibili circa il contesto di
rinvenimento (oggetti in associazione, età
di morte degli inumati, struttura tombale,
tipo di necropoli, contesto insediativo e
altro ancora), entrambi espressione di
scelte operate in relazione a uno stesso
inumato e quindi a una stessa identità
sociale (da qui “luoghi e segni della
morte”, intesi in stretta correlazione fra di
loro);
2) l’individuazione di peculiarità costanti,
una sorta di ‘comuni denominatori’ che
legano contesti sepolcrali anche distanti
tra loro sotto il profilo geografico o
cronologico, evidentemente espressione di
componenti culturali così significative e
pregnanti da essere ampiamente condivise
e da superare variabili dettate da modelli
locali e scelte individuali o familiari. Si
tratta di possibili aspetti portanti della
mentalità e della cultura di un popolo,
Se il corredo funerario costituisce, a tutt’oggi,
una delle componenti più indicative nella
valutazione di una necropoli di età
longobarda, non solo sotto il profilo
cronologico, ma anche per un più ampio
inquadramento del sito stesso, credo si debba
riconoscere che le nostre conoscenze,
soprattutto in Italia, sui singoli oggetti deposti,
come anche sulle loro combinazioni e
sull’articolazione complessiva delle offerte
sono molto limitate. Da un lato infatti
l’approccio classificatorio, preliminare e
imprescindibile e che si avvale di una rigorosa
impostazione filologica, decisamente non
esaurisce la conoscenza di un manufatto;
dall’altro, sono stati da tempo evidenziati,
soprattutto in relazione alle formulazioni più
rigide, i limiti dei modelli tradizionali con i
quali a lungo la critica ha interpretato i
sepolcreti di età longobarda, basati su sicure
corrispondenze tra la qualità del corredo e lo
status dell’inumato, e l’ambito produttivo dei
monili e l’etnia del defunto, alterate solo da
graduali, ma pressoché lineari processi di
acculturazione e di cristianizzazione. A questo
punto, allora, a fronte di una ricerca storica che
ormai da qualche decennio ha sviluppato un
articolato dibattito incentrato sui più diversi
57
manufatti, il loro portato simbolico, le
modalità d’uso e di trasmissione.
aspetti che interessano le popolazioni
germaniche nell’età delle migrazioni e nella
formazione dei regni romano-barbarici,
l’archeologia funeraria, a mio avviso, si scopre
non ancora in grado di apportare nozioni e
conoscenze inedite, dati e valutazioni proprie,
rischiando anzi di essere condizionata (e non
solo stimolata, come sarebbe forse più
corretto) dalle acquisizioni già raggiunte dalle
discipline storiche, prima ancora di aver
condotto in modo autonomo e spregiudicato
un’analisi matura e adeguata allo stato attuale
del dibattito.
Il confronto fra le caratteristiche ricavabili
da una sistematica schedatura del
materiale (tutti gli esemplari di una
determinata classe) e la capillare
registrazione dei dati relativi al contesto di
rinvenimento
può
far
emergere
abbinamenti ricorrenti o assenze che
difficilmente possono essere imputati al
caso
e
che,
piuttosto,
sembrano
espressione di logiche coerenti. Mirate
verifiche circa particolari associazioni di
dati possono lasciar intravedere logiche
insospettate
o
avvalorare
opinioni
consolidate, ma mai validamente provate.
Si pensi, a livello puramente indicativo, al
grado di usura dell’oggetto e all’età di
morte del possessore, un rapporto che
potrebbe essere indicativo circa possessi
strettamente personali o piuttosto beni
trasmissibili;
alla
concentrazione
o
dispersione di monili di provenienza
allogena e alla coerenza dei reperti in
associazione, che potrebbero suggerire le
dinamiche sottese alla circolazione ad
ampio raggio dei manufatti (mobilità
individuale, circuiti commerciali, donativi
personali…); alla distribuzione di tipi e
varianti morfologiche e stilistiche tra le
necropoli di uno stesso sito o tra i vari
nuclei di una stessa necropoli che potrebbe
riflettere scelte deliberate e logiche di
distinzione; un’analisi qualitativa e
quantitativa delle armi che accompagnano
personaggi che si presume abbiano svolto
ruoli e attività differenti, come le tombe di
armati sepolti presso fortificazioni e quelle
nelle basiliche urbane o suburbane o
quelle contenenti anelli-sigillo, per
evidenziare
eventuali
differenze
e
soppesarne il significato; una valutazione
sistematica dei contesti che hanno
restituito “indicatori di rango” o di potere
economico (punte di lancia traforate, croci
in lamina d’oro, cinture, scudi da
parata…) per una migliore definizione
sociologica
del
loro
potenziale
informativo, al momento assai generico;
Nella convinzione che il corredo funerario
offra un potenziale informativo assai ricco,
anche se sfuggente e di difficile decifrazione,
ancora sostanzialmente inespresso, a mio
avviso l’archeologia funeraria è ora
chiamata a compiere un salto di qualità,
nella ridefinizione dei suoi approcci
metodologici e dei percorsi analitici da
sviluppare. Una possibile direzione,
promettente ma non esclusiva, già suggerita
in passato ma che non ha ancora trovato
decisa attuazione, potrebbe essere quella di
una sistematica e mirata correlazione fra i
dati intrinseci al manufatto (caratteri
materiali, dimensionali, morfologici e
stilistici, grado di usura ed eventuali
riparazioni,…) e tutti gli elementi noti circa
il contesto di rinvenimento, pertinenti
l’inumato, il corredo e la struttura tombale,
la necropoli, il sito; questo, non tanto perché
fattori quali, per esempio, l’età e la causa di
morte
dell’inumato
possono
aver
determinato varianti nel rituale funerario (e
nella composizione del corredo), ma
soprattutto
per
correlare
le
varie
componenti che possono aver avuto un
rapporto di dipendenza o che esprimono
scelte coerenti in relazione a una
determinata fisionomia sociale e culturale,
insomma elementi a volte in grado di
spiegarsi reciprocamente. Se finora si è
tendenzialmente usato il corredo per meglio
comprendere un sito, ora bisognerebbe
provare a usare sistematicamente i diversi
contesti archeologici per meglio conoscere i
58
gruppo; soprattutto a partire dalla
generazione successiva, poi, sono note
tombe maschili isolate eccezionalmente
ricche o piccoli nuclei nobiliari che distano
alcune centinaia di metri dal più ampio
sepolcreto del resto della comunità. Tali
tendenze permangono nel corso del sec.
VII, ma assai precocemente si affermano
anche altri modelli, che prevedono la
stretta connessione con edifici di culto
cristiani: in prima battuta (già dagli anni
intorno al 600) le sepolture di personaggi
preminenti sembrano legate a chiese con
cura d’anime e/o funerarie, soprattutto
paleocristiane, a molte delle quali i
personaggi stessi devono aver rivolto il
loro mecenatismo. Già nel corso della
prima metà del sec. VII e soprattutto a
partire dalla metà del secolo si avvia con
successo anche la pratica di fondare
oratori funerari destinati al proprio nucleo
familiare, che in qualche caso si pongono
in continuità con precedenti necropoli a
file, a volte monumentalizzandone in
senso cristiano una precisa porzione. Più
scarni sono i dati materiali attualmente in
nostro possesso circa le deposizioni di
esponenti del ceto dominante in relazione
alle sedi di potere dove essi stessi avevano
espletato il loro ruolo pubblico.
anche i numerosi soggetti raffigurati in
particolare sulle croci in lamina d’oro
(effigie imperiale, monogramma, intreccio
zoomorfo,…), che risultano ancora di
interpretazione assai ambigua e sfuggente,
potrebbero essere visti sotto nuova luce se
letti in rapporto ai destinatari e al sepolcro
per loro apprestato; e gli esempi
potrebbero continuare.
Ne emergerebbero primi dati da
evidenziare e da intrecciare, sui quali si
potrà tentare di avanzare qualche ipotetica
chiave di lettura: minuti frammenti di una
mentalità lontana nel tempo, recuperati
però in modo spregiudicato, che
potrebbero presentare aspetti inediti e
apportare nuova linfa a questioni assai
complesse sulle quali le pur prolungate
analisi tipologiche e stilistiche hanno
prodotto visioni ancora controverse e
aleatorie, quando non insoddisfacenti. I
risultati di tali analisi archeologiche
potranno, finalmente, essere passati al
vaglio dell’imprescindibile confronto con
gli storici (nonché con studiosi di
antropologia culturale, etnoarcheologia e
altre discipline ancora), un dialogo nel
quale al momento gli archeologi spesso
non sono ancora in grado di presentare
chiare sintesi e decise quanto motivate
consapevolezze: forse non si è ancora
‘superato’ in modo deciso un orizzonte
metodologico
ampiamente
ritenuto
‘superato’ e i reperti archeologici, in
quanto tali e quindi con metodi propri,
nelle loro specificità non sono ancora stati
adeguatamente interpellati.
In relazione a queste diverse tendenze
nella scelta dei luoghi e dei tipi di
sepolcreti, dei quali si cercherà di
tratteggiare a grandi linee i tempi e le
modalità più peculiari anche considerando
i differenti contesti insediativi (urbano,
rurale, castrense), verrà calibrata l’analisi
dei corredi più prestigiosi, in particolar
modo quelli maschili con armi che
esprimono un legame più marcato con la
tradizione guerriera longobarda. Al di là
di un loro inquadramento complessivo, le
domande intorno alle quali si articolerà
l’analisi saranno le seguenti: quali
differenze si ravvisano tra i corredi
rinvenuti nelle necropoli ‘aperte’ e quelli
di tombe in connessione con luoghi di
culto? Quali gli eventuali indicatori forse
riservati esclusivamente ai ceti preminenti
L’aristocrazia ‘longobarda’ tra cultura
tradizionale e cristianizzazione: una traccia
Circa la prima fase di stanziamento
longobardo in Italia, ampie necropoli ‘a
file’ si connotano in genere per la presenza
di una o più “sepolture privilegiate”,
intorno alle quali gravita il resto del
59
Anche i soggetti raffigurati sugli umboni di
scudo da parata, divisi tra motivi zoomorfi di
matrice chiaramente germanica e appliques
cruciformi, a volte circondate da simboli di
tradizione paleocristiana, mostrano, a
un’attenta lettura dei contesti e del loro
inquadramento cronologico, una significativa
evoluzione. Invocazioni cristiane, a volte
associate a convulsi intrecci zoomorfi forse
ormai solo decorativi, sono chiare acquisizioni
dall’ambiente cristiano, ma sono precedute e
in parte affiancate cronologicamente da
oggetti con incisioni pseudo-epigrafiche,
espressioni di un diverso valore (magico?)
dato ai caratteri alfabetici: testimonianze
epigrafiche precoci e di carattere non
monumentale, che ci restituiscono qualche
elemento in più circa il rapporto, multiforme
oltre che incerto e contraddittorio, che i L. e in
particolare i gruppi insediati lontano dalle
città e più legati alla cultura tradizionale
ebbero con la scrittura.
e quindi distintivi di rango, al di là di una
eloquente quanto generica preziosità degli
insiemi di reperti? Quali le espressioni più
forti di un legame con la cultura
tradizionale e quali i cambiamenti e le
nuove acquisizioni dovuti all’integrazione
con il sostrato autoctono, cristiano?
Le croci in lamina d’oro attualmente note
sono quasi 340, rinvenute in relazione a
individui sia maschili che femminili di
ogni età, in corredi con livello di ricchezza
piuttosto vario, in tutti i tipi di necropoli e
contesti insediativi sopra menzionati, per
un periodo che va dalla prima generazione
di L. in Italia agli inizi dell’VIII secolo; e se
nelle caratteristiche di massima (materiale,
dimensioni, forma, posizione,…) esse
presentano una certa omogeneità – fatte
salve alcune lievi variabili che seguono
tendenze regionali – il campionario dei
motivi
decorativi
e
dei
soggetti
iconografici adottati è decisamente il più
ricco ed eterogeneo, nonché variamente
combinato, presente sui reperti dei corredi
di età longobarda.
Più arduo, poi, è capire se, e in che termini,
uno stesso oggetto deposto per un ampio
arco di tempo, in concomitanza con le
rapide e radicali trasformazioni intervenute
nelle pratiche funerarie abbia visto mutato
anche il suo portato simbolico e rimando
culturale (per es. le bottiglie in vetro): anche
in questo caso i cambiamenti che connotano
il corredo e i luoghi di sepoltura potranno
essere più indicativi di un’analisi tipologica
incentrata solo sul reperto in sé, specie
quando questo ha un carattere morfologico
marcatamente conservativo.
Considerate in genere spie di ceto benestante e
dell’avvenuto contatto con il cristianesimo, in
relazione a questioni molto complesse come la
distinzione sociale in una compagine sempre
più articolata e la graduale e tutt’altro che lineare
cristianizzazione – con i suoi risvolti politici –
l’attuale valutazione di questi reperti certo non
soddisfa, soprattutto nella piena consapevolezza
che la loro deposizione nelle tombe doveva
avere un portato simbolico ben più puntuale e
ricco di valenze. Operando una stretta
correlazione fra i motivi raffigurati e i contesti di
rinvenimento, emergono alcune circostanze
ricorrenti che sembrano tutt’altro che casuali:
decori assenti in sepolture connesse a luoghi di
culto o presenti solo in questi, e di particolari
contesti insediativi; repertori iconografici attestati
unicamente in tombe maschili di ceto elevato e
su crocette di dimensioni alla media. Primi dati
dall’interpretazione ancora non univoca, ma
inediti e che ci avviano verso una conoscenza
più concreta e approfondita delle classi di
oggetti.
Alcuni dati, insomma, circa il complesso
rapporto fra la cultura tradizionale e la
cultura acquisita dall’ambiente romanobizantino, dai quali non si vogliono
ricavare linee interpretative conclusive,
bensì limitati esempi del ricco potenziale
della
fonte
in
analisi
(corredo
funerario/contesto di rinvenimento) e dei
possibili passaggi analitici utili ad
acquisire nozioni inedite da introdurre
nell’attuale dibattito storiografico.
60
Anzi, la non-coincidenza dei due tipi di
fonte costituisce in se stessa un elemento
potenzialmente ricco: le deformazioni,
volontarie o incoscienti, dovute al
condizionamento culturale e sociale, se
individuate grazie allo scavo vanno allora
a costituire una parte integrante della
valutazione
storica
delle
evidenze
archeologiche.
SEZIONE III
STRATIFICAZIONI INSEDIATIVE
E STRATIFICAZIONI SOCIALI
Stratificazioni
insediative
stratificazioni sociali
Comunque, anche cercando di affrontare i
dati del terreno al di fuori di ogni
presupposto legato alle nostre conoscenze,
ci si riferisce per forza a modelli già
evidenziati, e nei quali entrano le
informazioni ricavate dai testi: così le
tracce di una organizzazione collettiva
dello spazio possono significare la forza di
una comunità, contadina per esempio, o il
potere di un signore e la presenza, in un
villaggio qualsiasi, di un edificio di
dimensioni notevoli va interpretata quasi
automaticamente da un protostorico come
“struttura collettiva”, da uno studioso
dell’Antichità romana come edificio
amministrativo e da un medievista come
“struttura aristocratica” o comunque
pertinente allo ceto economicamente
dominante.
e
G. Noyé
Stando alla maniera nella quale è
impostata il titolo di questa sezione del
convegno, si tratta di esaminare come e
quanto lo studio delle stratificazioni
insediative è in grado di informarci sulle
stratificazioni sociali ad esse legate. Ma il
processo è un po’ quello del serpente che
si morde la coda, perchè molto spesso, e in
particlolar modo quando si tratta dei ceti
sociali inferiori, ci si tenta di capire le
realtà
insediative
utilizzando
le
informazioni ricavate dalle fonti scritte. A
priori, si tratta di due serie di dati che si
riferiscono a campi diversi: da una parte la
“storia”, per rimanere nello schema
politically correct, con il quale non sono
per niente d’accordo, e dall’altra, le
strutture archeologiche. Si vedrà in questa
introduzione che nella maggior parte dei
casi sono i dati scritti, nonostante la loro
scarsità, che forniscono la chiave
d’interpretazione.
Oltre che indirizzato dalla sua propria
formazione, l’archeologo dipende pure da
altri tipi di selezione, culturale o casuale,
nella
trasmissione
delle
evidenze
materiali: si pensi per esempio all’alta
percentuale di residualità che si verifica
sempre di più nella ceramica del nostro
arco cronologico. Per rimanere nel campo
insediativo, solo nel caso di una
distruzione violente e improvisa una
struttura insediativa si può considerare
conservata con quasi tutti gli elementi che
la caratterizzano. Sul sito della curtis di
Charavines, a causa della risalità repentina
delle acque del lago di Paladru, presso
Grenoble, gli occupanti delle tre case si
sono salvati a prezzo di abbandonare
tutto, comprese le armi, i gioielli e tutti i
tipi di attrezzature in grado di consentire
Non si può respingere la testimonianza
dei testi per il motivo che essa è, per forza,
di “seconda mano”: è vero che le
informazioni possono essere travisate da
chi le trasmette, e anzi lo sono
inevitabilmente, ma proprio per questo le
fonti scritte vanno in ogni caso passate al
vaglio della critica esterna ed interna che
costituisce il lavoro basilare di chi intende
utilizzarle
per
qualsiasi
tipo
di
ricostruzione storica, compresa quella
fondata prevalentemente sull’archeologia.
61
(equitazione, guerra, gioco, musica),
Michel Collardelle, direttore dello scavo,
ha identificato gli abitanti come “cavaliericontadini”. In quanto depositari di un
sapere tecnico (lavorazione del legno e del
cuoio) e amministrativo (scrittura), essi
non potevano essere altro che schiavi, exintendenti di demani, affrancati dal loro
padrone e mandati come colonizzatori di
aree boschive, a qualche decina di
kilometri della loro regione originaria.
Molti particolari combaciavano con tale
ricostruzione, come l’importare ceramica
dalla loro area geografica di provenienza,
relativamente lontana, mentre alcuni
documenti testimoniavano dalla necessità
per il loro presunto signore di creare dei
punti d’appoggio militari nella zona
montagnosa indagata. La posta in gioco
era però troppo importante, dal momento
che si trattava nientemeno che illustrare la
vexata questio della mutazione del mille;
d’altra parte Michel Collardelle non si
dimostrò del tutto imparziale nella sua
prima presentazione dei dati archeologici:
a guardarci bene infatti, delle differenze
esistevano tra le tre strutture, come il tipo
di alimentazione o la qualità degli oggetti,
e gli attrezzi artigianali erano piuttosto
cantonati nei due fabbricati che si
dimostravano anche inferiori dal punto di
vistà delle techniche di costruzione. I
storici “non-mutazionisti” preferirono
quindi il termine “piccolo demanio
schiavistico”. D’altre parte i storici
dell’ambiente naturale e del clima
negarono l’esistenza del “sole di
Charavines” ovvero la contemporaneità di
condizioni eccezionalmente favorevoli.
poì all’archeologo di poter identificare la
loro condizione.
In altri casi meno fortunati, l’abbandono
metodico di un abitato o la distruzione
mirata ad un rifacimento programmato
fanno si che scompaiono tutti gli oggetti
che sono appunto considerati come utili o
preziosi. In ogni caso, si può comunque
considerare che le strutture insediative ci
trasmettono una imaggine insieme più
oggetiva e meno ricca della società, che
quella fornita dalle inumazioni con il loro
forte
peso
sovrastrutturale
e
autorappresentativo. Proprio per questa
ragione
probabilmente,
l’archeologia
funeraria si è azzardata per prima a
ragionare in termini così complessi come
la famiglia, la gerarchia sociale e il potere
politico, come se fosse necessario a tale
impresa l’aiuto del corpo, della sua parure
e degli oggetti depositati.
Il problema dei rapporti tra fonti scritte e fonti
archeologiche è più che altro quello dei rapporti
tra “storici” e archeologi. Troppo spesso il
ragionamento storico si è limitato, nelle
pubblicazioni archeologiche, ad un capitolo
introduttivo o conclusivo, dove il suo rapporto
con i dati materiali non è realmente affrontato. E’
vero che l’interpretazione di alcuni testi richiede
una formazione specializzaziata e una certa
esperienza, ma non per questo il loro uso deve
essere abbandonato ai studiosi dello scritto.
L’unico ostacolo è l’eventuale assenza di
formazione tecnica dell’archeologo nel campo
della paleografia o della diplomatica, non la sua
facoltà di costruire modelli storici fondati su
entrambe le fonti.
Fu un peccato perchè Charavines e i suoi
“cavalieri-contadini” erano stati, al pare
dell’incastellamento, l’occasione di un
vero dibattito storiografico. Ma fu anche la
dimostrazione che l’archeologo poteva e
doveva dimostrare la stessa inventività
dello storico dei testi nel costruire e
scomporre le sue interpretazioni.
L’esperienza di Charavines è un tentativo
interessante di risoluzione di problemi
storici particolarmente delicati come la
“mutation” dell’anno mille e la fine della
schiavitù in Francia. Partendo dalla
costatazione che l’occupazione dei tre
edifici difesi da una palizzata sulla riva del
lago si caratterizza dall’uso congiunto di
attrezzi agricoli o artigianali e di oggetti
pertinenti alla “panoplia signorile”
62
due piani, di dimensioni maggiori e di
pianta generalmente quadrata, e quelle
rettangolare dove l’unico piano è diviso in
due ambienti. Il terzo tipo, sul modello
dell’aula
absidata,
appare
invece
eccezionale. Tale situazione, socialmente
equilibrata, potrebbe essere legata al
persistere, nella pianura di Sibari, di un
ceto di proprietari di media entità, fondato
su una cerealicoltura tradizionale. In altre
zone del Bruzio, la confisca del saltus
sicuramente, e lo sviluppo ulteriore di una
viticoltura commerciale probabilmente,
avrebbero favorito lo sviluppo delle
massae.
Le stratificazioni sociali possono essere di
ordine economico e riprodurre la gerarchia
delle richezze e dei modo di vita, o di natura
giuridica, come quella che separa lo statuto di
schiavo dalla condizione di libero. Nella prima
classificazione va considerata l’estensione della
proprietà immobiliare: ci sono quelli che
possiedono la terra (possessores, piccoli
proprietari) e quelli che la gestiscono a diversi
livelli: intendenti, conductores e coloni. Entrano
pure
nella
stratificazione
le
attività
“professionali”: chierici, funzionari pubblici,
civili e militari, negotiatores, artigiani, coltivatori
o qualche caratteristica peculiare come la
condizione di curiales. Molte corrispondenze
esistono tra queste gerarchie: a priori i ricchi
sono quelli che possiedono la terra o gestiscono
la terra altrui insieme ai loro propri possessi e
infatti i conductores si confondono spesso con i
possessores; i curiales invece s’identificano ai
proprietari di media e piccola importanza,
esposti agli abusi fiscali dei precedenti; infine la
precarietà economica dello statuto di colono è
un fenomeno stranoto.
Qualche anno fa, quando s’incominciava
ad organizzare tematicamente questo
incontro, si era rinunciato a dedicare una
sezione ai ceti sociali inferiori, in
mancanza di materiali. I programmi in
corso sono infatti dedicati alle elite a al
loro patrimonio, mentre nell’ambito
strettamente archeologico, le relazioni dei
recenti convegni di Foggia sulle campagne
dell’Italia meridionale tra tardoantico e
altomedioevo e quelle del convegno di
Ravenna
sulle
città
hanno
prevalentemente trattato dell’aristocrazia.
Si tratta chiaramente di un problema di
fonti, e di produttori di fonti sia scritte che
archeologiche. Una eccezione è stato il
convegno organizzato a Montreal nel 1999
sul “piccolo popolo”, il cui arco
cronologico e geografico risultava, per
ovvie ragioni, molto ampio. L’apertura del
programma di questo incontro è quindi
una notevole novità.
Ma è un fatto altrettanto dimostrato che,
tra le diverse categorie, alcune non si
sovrappongono e in particolar modo lo
statuto economico e quello giuridico. Una
lettera di Cassiodoro (Var. IX, 4) è al
riguardo sorprendente: una donna e i suoi
figli devono essere cancellati de albo curiae
per figurare tra i possessores; dovranno
allora sopportare quello che i curiales
infliggono ai possessores terrorizzati con il
loro orrendo viso di collettori delle
imposte. L’episodio si svolge in Lucania e
dimostra, alla pari dello scavo di alcune
stationes come Metaponto, quanto i
rapporti di forza tra curiales e possessores
possono essere diversi a secondo degli
equilibri produttivi del territorio. Lo stesso
si può dire di Thurii in quanto lo scavo,
tramite lo studio delle tecniche murarie e
della morfologia delle case, da l’immagine
di una società urbana sostanzialmente
egalitaria, mentre l’indagine mette in
evidenza l’assenza quasi totale di grande
villae nel comprensorio. Le case urbane
sono prevalentemente di due tipi: quelle a
L’espressione “stratificazioni insediative”
si deve intendere come gerarchie
evidenziabili all’interno di un gruppo di
strutture pertinenti allo stesso complesso,
e non come stratificazione dei stessi
insediamenti (città e villaggi per esempio),
almeno che si trattì di insediamenti
specifici di un ceto sociale. Il campo di
osservazione di tali stratificazioni può
essere orizzontale o verticale: nel primo
caso si tenta di afferare una eventuale
63
gerarchia ad un momento ben preciso in
un intero villaggio o all’interno di un
complesso di tipo villa o praetorium, ad un
certo momento della sua esistenza, una
specie di instantané quindi, visione statica
che permette un confronto valido sulla
base di dati quantitativi. E’ di solito il caso
di una esperienza di scavo. In casi
fortunati, si tratta dello studio di tutti gli
insediamenti di un certo tipo in una
circoscrizione amministrativa o comunque
in una area non priva di significato
geografico o politico.
edilizio, costituito da unità di pianta
rettangolare: si tratta di un fabbricato con
funzione abitativa e agricola, associato ad
un cortile delimitato da un muro. Il
pianterreno, che si affaccia sul cortile
mediante un portico, serve allo stockaggio,
alla stabulazione e contiene il frantoio per
l’olio o il vino. Il primo piano è riservato
alle stanze residenziali che si aprono su un
balcone poggiato alla copertura del
portico. Ogni casa è costituita da una o più
unità (fino a tredici), che possono essere
allineate o distribuite attorno al cortile,
secondo uno schema poligonale. Le
singole case sono raggruppate in isolotti, e
il villaggio è costituito da alcuni isolotti
separati da viuzze di larghezza variabile. I
villaggi sono nati, al di fuori di ogni
programmazione, dallo sviluppo di
isolotti accentrati sulle prime aziende
agricole, le case più tarde essendo rigettate
alla periferia. Anche i santuari, pagani poi
cristiani, sono impiantati sul margine
dell’agglomerato senza che si verifichi mai
una organizzazione accentrata su strutture
comunitarie.
Piano verticale sarebbe invece a dire lo
studio di una struttura insediativa
attraverso tutta la sua storia, in grado di
mettere quindi in evidenza una dinamica
nel
senso
positivo
o
negativo,
individuando uno sviluppo economico o
una promozione sociale, o al contrario una
crisi o un impoverimento progressivo.
Al piano orizzontale si riferisce l’indagine
di Georges Tate sui villaggi in Siria tra
Antichità
romana
e
periodo
20
protobizantino . Il gran numero di villagi
databili dal II al VII secolo d. C. nella zona
calcare che occupa il nord del paese, e il
notevole stato di conservazione delle case,
per la maggior parte conservate in elevato
fino al livello del tetto, hanno consentito
uno studio statistico, eccezionale per il
periodo e il tema affrontati. Il postulato di
base è quello della conservazione di tutti i
villaggi, e della possibilità di evidenziarli
tramite una semplice indagine di
superficie; la densità delle case all’interno
dei singoli complessi, e l’alto livello delle
tecniche di costruzione hanno d’altra parte
suggerito l’ipotesi della conservazione di
tutte le componenti all’interno di ogni
insediamento.
Secondo Tate, le singole unità erano
databili sulla sola base degli avanzi della
decorazione delle facciate, capitelli o
cornicioni, e della tecnica di costruzione,
in associazione con le poche iscrizioni
inserite nei muri. I due tipi edilizi
evidenziati prevedevano l’uso di grossi
blocchi di calcare squadrati (apparecchio
ortogonale) o di conci di dimensioni
minori solo sbozzati: mentre quest’ultimo
poteva essere messo in opera da
manovalanza non qualificata, il primo
necessitava di una attrezzatura specifica e
dell’intervento di muratori, e quindi
dell’esistenza di un surplus monetario. Lo
studio del materiale di superficie, peraltro
poco abbondante, è stato invece del tutto
episodico. 46 siti su 700 sono stati
selezionati per il loro discreto stato di
conservazione. Il conteggio delle unità ha
consentito di classificare le case, distribuite
in tre categorie: il primo gruppo è formato
dalla casa a una o massimo due unita
Aldilà delle differenze nell’organizzazione
e le dimensioni delle case, esse
appartengono tutte ad un unico tipo
20
G. Tate, Les campagnes de la Syrie du Nord du
IIe au VIIe siècle, I, Paris, 1992 (Institut français
archéologique et historique de Beyrouth, 133).
64
catastazione. La peste del 250 marca una
stasi nella progressione, seguita da una
seconda fase: dal IV alla metà del VI
secolo, l’espansione demografica ed
economica prosegue ed anzi si accelera; il
numero delle unità è molteplicato per 4,5 e
i disboccamenti sono indicati dalla
riduzione dalla quantità di unità che
distingue il grande villaggio dal piccolo
agglomerato. Il rapporto tra il numero
delle unità e l’estensione del territorio
dimostra inoltre che la terra sfruttata dalle
singole aziende diminuisce, ma la
sostituzione della muratura ortogonale a
quella
media
indica
allora
una
intensificazione
della
produzione,
produttrice di ulteriori ricchezze. Infine,
per soddisfare ai bisogni crescenti del
mercato, sono sviluppate le colture
commerciali, e in primo luogo gli uliveti,
che necessitano di una manodopera
numerosa: le grandi case con frantoi si
molteplicano. Lo studio, più recente, delle
anfore da trasporto siriane sta a
confermare
la
correttezza
del
ragionamento. La terza ed ultima fase, tra
fine VI ed inizio VII secolo, si caratterizza
dalla
fine
delle
costruzioni
e
ristrutturazioni
edilizie:
l’espansione
agricola
del
villaggio,
in
preda
all’aumento del prelievo fiscale e religioso,
non segue più la crescità demografica: si
tratta di “un mondo pieno”, reso ormai
vulnerabile ad ogni tipo di crisi.
(quella della familia mononucleare); la sua
individuazione, grazie ad una epigrafe dei
primi del III secolo che attribuiva una casa
di tre unità a tre fratelli, ognuno con la sua
familia, ha fornito la base metodologica
dell’indagine; la seconda categoria, quella
della famiglia larga, si caratterizzava
dall’esistenza di tre unità; infine la casa
polinucleare poteva ospitare fino a tre
generazioni della stessa familia ed
eventualmente
la
manovalanza,
identificata come servile sulla base dei
testi.
Si osservava inoltre che la casa, una volta
impiantata, poteva essere ingrandita, come
succedeva spessissimo o, essere restaurata
per esempio in seguito ad un terremoto,
ma che ogni unità risultava comunque
occupata fino all’abbandono del villaggio.
L’ingrandimento di una casa testimoniava
dell’aumento delle richezze perchè, lungo
dall’ammucchiare i nuovi membri della
familia su uno spazio ristretto s’investiva
nella
costruzione
per
ospitarli
decentemente. Allo stesso modo, le
modificazioni del pianterreno indicavano
un aumento delle attività agricole, mentre
l’assenza
di
qualsiasi
traccia
di
mantenimento edilizio attestava una
situazione economica deficitaria.
La fotografia aerea, mediante i muretti di
delimitazione
dei
campi,
gli
ammucchiamenti di pietre e talvolta
l’individuazione di parcellari fossili ha
consentito di studiare il territorio e di
collegare certi tipi di sfruttamento del
suolo a certe categorie di case: quelle di
dimensioni maggiori corrispondevano ai
territori agricoli più grandi, dedicati alla
cerealicoltura e ai frutteti, e all’oleicoltura
In una prima fase, dal I al III secolo, le case
del primo gruppo predominano: la
progressione delle costruzioni risulta lenta
e regolare, in parallelo con una economia
fondata sull’allevamento e la policoltura. Il
contesto è quello della pax romana, della
costruzione delle grandi città (Antiochia
ed Apamea) e delle strade, nonchè della
E ovvio che il lavoro di Georges Tate e le
sue conclusioni prestano il fianco a tante
critiche,
di
ordine
soprattutto
metodologico. Nell’assenza di qualsiasi
scavo, la datazione delle unità abitative e
l’identificazione delle attività agricole
rimangono ipotetiche, come la funzione
residenziale del primo piano delle case. La
corrispondenza tra una casa e le
dimensioni della area coltivata o del tipo
di sfruttamento agricolo merita anche
qualche sfumatura.
Tuttavia ho scelto questo esempio perchè
Georges Tate è stato il primo a mettere
65
- l’eventuale fortificazione
- la vicinanza degli assi stradali o di un
porto
- tutti elementi che vanno possibilmente studiati nella lunga durata.
l’accento sulla prosperità ed addiritura la
crescità economica delle campagne
nell’Antichità tarda. La sua ricerca rimane
una tra le poche indagini di questo tipo sui
villaggi dell’epoca protobizantina, che ha
avuto inoltre il coraggio, forse dovuto
all’incoscienza, di affrontare un discorso
storico: l’assenza di ogni indicatore
archeologico
significativo
di
differenziazione sociale è stata da lui
giustamente interpretata, non come una
lacuna dell’indagine, ma come indizio di
una società rurale quasi egalitaria,
comunque aperta alla mobilità tra i diversi
ceti. I villaggi siriani stanno così ad
illustrare le fonti scritte che documentano
il raggruppamento, a partire dal 332, di
contadini proprietari liberi in vici
indipendenti, coresponsabili di fronte alla
fiscalità. Tale situazione si ritrova, mutatis
mutandis, in Italia meridionale nella quale
l’abitato raggruppato rappresenta la forma
predominante dell’insediamento rurale
che l’archeologia dimostra, almeno per
quanto riguarda il Bruzio/Calabria,
ancora in via di sviluppo nel sesto secolo
inoltrato.
Last, but not least, in uno dei pochi
villaggi che presentano marcati segni di
stagnazione, una epigrafe providenziale
indica che alcune comunità sono
raggruppate su un unico demanio,
proprietà di un unico personaggio: il
colonato
corrisponderebbe
quindi
all’impossibilità
di
svilupparsi.
Va
sottolineato che tutta la costruzione storica
di Georges Tate e un libro di 400 pagine
risultano fondate su due epigrafi,
quest’ultima e quella pertinente ai tre
fratelli...
Solo i villaggi siciliani contemporanei,
come quello di Kaukana, si avvicinano a
quelli siriani, per le tecniche murarie che
usano blocchi e conci di calcare lavorati,
per l’ampiezza dei raggruppamenti e per
la loro strutturazione attorno alle chiese.
Per il resto, le strutture insediative rurali
della penisola, prevalentemente costruite
in legno e in terra cruda su semplici
zoccoli di pietra, non consentono uno
studio del genere. E peraltro ovvio che le
condizioni
nelle
quali
si
svolge
attualmente
l’indagine
archeologica,
almeno
in
Calabria,
difficilmente
consentiranno l’evidenziazione di una
gerarchia sociale. Qualcosa pero si può
fare; nonostante l’importanza della grande
proprietà in Italia meridionale, non è
escluso che molti vici almeno per il IV
secolo, siano abitati da piccoli proprietari;
ho tentato per conto mio di classificare i
vici del Bruzio, secondo l’assenza o meno
di una grande villa o di un praetorium
ancora funzionante nelle vicinanze, con
tutte le dovute precauzioni, nel caso
frequentissimo di informazioni molto
parziali ricavate quasi esclusivamente nel
quadro di saggi di emergenza o
osservazioni
non
sistematiche
di
superficie. Allo stesso modo si poteva
L’indagine sulla Siria, oltre che mettere
l’accento sulla necessità di lavorare su
serie di dati, utilizza i diversi criteri che
potrebbero consentire anche in altre
regioni qualche ipotesi sulla condizione
sociale delle popolazioni rurali tra
Antichità tarda e altomedioevo. Si tratta
per le singole strutture:
- delle tecniche di costruzioni
- delle dimensioni e della morfologia
- e degli elementi decorativi
- e, per i raggruppamenti, entrano in
considerazione
- il sito
- la densità demografica
- la morfologia e l’organizzazione delle
varie unità
- l’esistenza di strutture collettive, religiose
od altre
- la sociotopografia
- il territorio
- ai quali verrebero aggiunti
66
fiancheggiavano dall’origine una grande
villa, e continuano a prosperare durante
l’intero VII secolo.
tentare una classificazione delle stesse
villae a secondo dei materiali edilizi
importati e della partecipazione probabile
alle diverse fasi di costruzione di
manodopera
specializzata
chiamata
dall’estero. Le fornaci per anfore di
trasporto del IV secolo sono perloppiù
installate in vici che sembrano dipendere
da una grande villa vicina e funzionano
fino alla seconda metà del VI secolo,
periodo che potrebbe corrispondere
all’anientamento definitivo dei possessores
del Bruzio ad opera dei Longobardi. Altre
botteghe, come quella scavata a Pellaro,
nell’assenza di qualsiasi struttura di tipo
aristocratico, potrebbero corrispondere a
vici pubblici e non privati; essi
scompaiono invece presto nel V secolo,
fallimento che potrebbe corrispondere alle
razzie vandale, più pesanti per il piccolo
viticoltore o imprenditore che per i
possessores-negotiatores, quelli che hanno
intensificato consapevolmente a fine
commerciale una coltura a rischio come la
vite. L’evoluzione morfologica dell’anfora
calabrese Keay LII potrebbe allora
risultare di una ristrutturazione delle
botteghe meridionali, sempre nell’area di
produzione tradizionale indicata dalle
analisi petrografiche, ma su siti ancora da
indagare. L’esaurimento finale della Keay
LII e dei suoi nipoti averrebbe dopo la
conquista longobarda, con la promozione
di altre zone rimaste sotto il controllo
bizantino, che sono d’altronde le uniche
dove sono attestate alcune villae fino alla
fine del VII secolo (pianura di Sibari).
Anche la schiavitù può essere evidenziata
dall’archeologia, con un certo numero
però di criteri scientifici ben precisi: sul
sito delle “Ruelles de Serris”21, a trenta
kilometri ad est di Parigi, un gruppo o una
familia aristocratica con i suoi contadini si
stabilisce verso la fine del VII secolo, in un
contesto di colonizzazione agricola,
stimulata qualche decennio prima dalla
fondazione dell’abbazia di Lagny-surmarne. In una prima fase, la residenza
aristocratica appare suddivisa in due parti:
una lavorativa e una residenziale,
costituita da due edifici in pietra, di cui il
più grande comprende una aula e una
camera. In una seconda fase, databile al
VIII secolo, una galleria è costruita lungo
la facciata del grande edificio, che prende
così un carattere decisamente “palaziale” o
curtense, mentre l’area di servizio si
organizza con la costruzione di tre grandi
fabbricati attorno ad un cortile; tale nuovo
complesso, sede di un mercato o luogo di
percezione delle pensiones è dedicato ad
attività agricole e monetarie. Il villaggio
stesso è costituito, come sempre succede in
epoca merovingia e carolingia, da più
nuclei: ognuno raggruppa alcune unità
agricole o “manses”, costituite da due case
rettangolari. All’inizio, solo il gruppo
aristocratico è dotato della propria
necropoli, accanto allla cappella; nella
seconda fase, le inumazioni del villaggio,
prima impostate a fianco dei singoli nuclei
o “hameaux”, si trasferiscono pure loro
“ad sanctos”.
D’altra parte, il modello archeologico
siriano del villaggio vincente conforta
l’ipotesi di una certa rinascità del vicus
nella Calabria bizantina. I raggruppamenti
di fattorie occupate da quelli che, da
piccolo proprietario, erano diventati coloni,
cioè affittuari liberi della terra in seguito
ad un indebitamento, ricuperano la loro
indipendenza
colla
scomparsa
del
possessor. Alcuni villaggi ben documentati
del Bruzio sembrano infatti risparmiati dai
Longobardi,
anche
quando
Tuttavia 62 sepolture di donne e bambini
sono ancora installate accanto al secondo
edificio in pietra del nucleo “signorile”: di
21
B. Foucray, Les Ruelles de Serris-Habitats
aristocratique et paysan du haut Moyen Age (fin
VIIe –Xe siècles), in Ruralia I. Conferenze Ruralia
I, 8th-14th september 1995, Prague, 1996 (Pamatky
archeologické, suppl . 5), pp. 227-241.
67
nelle città o il mantenersi della
funzionalità delle villae. L’importanza
delle importazioni è un fenomeno del
tutto relativo che può essere valutato solo
con percentuali precise nel contesto di una
stratigrafia ininterotta e che andrebbe
confrontato con i dati quantitativi delle
altre strutture vicine o degli altri
raggruppamenti
insediativi
del
comprensorio. Allo stesso modo, il
rapporto delle importazioni con la qualità
di chi le usa è complesso: in un periodo di
crescità economica come il IV secolo, tutti i
ceti partecipano al benessere generale. Con
i primi segni della recessione, a partire del
VI secolo soprattutto, sono ovviamente i
ceti meno agiati ad usare prevalentemente
i manufatti regionali o strettamente locali.
Ma è chiaro che in alcune città del Bruzio,
come Scolacium, l’arrivo di vasellame da
tavola in alcune domus del IV-VI secolo si
accompagna dall’arrivo di ceramiche da
cucina nelle case vicine. D’altra parte un
villaggio che pratica una monocoltura
come quella della vite nel Bruzio del IV-VI
secolo o i grani nelle massae siciliane della
Chiesa romana all’epoca di Gregorio
Magno, è costretto a comprare fuori le
derrate
indispensabili
alla
sua
sopravvivenza. Solo un fenomeno di
rottura, come la scomparsa repentina di
pezzi importati in una struttura di tipo
aristocratico può significare la sostituzione
di un nuovo gruppo sociale a quello
precedente.
pianta quadrata e senza suddivisioni
definite, esso si caratterizza inoltre dalla
densità delle tracce di attività domestiche.
Il complesso è stato interpretato come il
centro di una curtis appartenente ad un
esponente dell’aristocrazia fondiaria: le
donne e i bambini sepolti a fianco della
residenza rappresenterrebbero invece un
gruppo di schiavi domestici o mancipia, gli
unici servi ancora non casati, che erano
alloggiati nello stesso fabbricato dove
lavoravano.
L’interesse di tale esempio è di mettere
l’accento sulla necessità di utilizzare,
quando si cerca di studiare le
stratificazioni sociali, tutti i dati pertinenti
all’abitato, comprese le sepolture annesse.
Qualche anno fa, dopo un lungo dibattito
con l’amico Riccardo Francovich a
proposito dell’organizzazione di una serie
di incontri proprio sul tema di oggi, si era
deciso di prendere successivamente in
considerazione una serie di aspetti
specifici come le tecniche di costruzioni,
etc. Ma il primo incontro aveva dimostrato
che una struttura insediativa può essere
corettamente valutata solo affrontandola
complessivamente, con i suoi consumi e
possibilmente la sua necropoli. Va
ricordato a tal proposito che lo scavo del
villaggio merovingio di Brebières (negli
anni 60), situato nel nord della Francia è
stato l’unico in grado di individuare
diversi livelli economici tra i schiavi che
costituivano gli unici abitanti dell’enorme
agglomerato studiato. Tale stratificazione
era fondata sulle dimensioni dei fondi di
capanna e sulla presenza di metalli diversi
dal ferro e di oggetti di vetro.
Tra i materiali archeologi significativi
figurano ovviamente quelli pertinenti
all’alimentazione, che spesso non sono
abbastanza valutati in questa specifica
prospettiva. L’integrazione dello studio
dei reperti osteologici è stata la chiave
dell’interpretazione
definitiva
di
Charavines; in ambito urbano, lo scavo di
Thérouanne, città del nord-ovest della
Francia, ha evidenziato per l’epoca
merovingia delle differenze marcate tra
l’alimentazione della parte alta della città,
nelle vicinanze della cattedrale, e quella
L’associazione di un punto di vista
verticale o diacronico rimane però il più
favorevole. Stando alla bibliografia, la
ceramica, in quanto parte integrante della
vita domestica, e in particolar modo le
importazioni costituiscono uno dei criteri
favoriti, di chì intende per esempio
verificare la permanenza, tra tardoantico
ed altomedioevo, di un ceto sociale agiato
68
sottodella città moderna di Tropea, ha
messo in evidenza una serie di tombe del
V-VI secolo, accompagnate da epigrafi e di
un
corredo
funerario,
ma
senza
stratificazione sociale percettibile, neanche
nel caso della condutrix della massa.
In questo contesto di possessi ecclesiastici,
la condutrix è di rango modesto, gli
affittuari della terra appartengono ad uno
ceto ragionevolmente agiato e la società è
abbastanza aperta per permettere al figlio
di una schiava di sposare prima una
colona, poì una esponente libera della
familia ecclesiastica e perfino a pretendersi
membro dell’ordo. Nel territorio della
vicina Vibona, futura Vibo Valentia invece,
la
quadrettatura
di
ricche
villae
individuabili nel IV secolo, risulta
progressivamente abbandonata nel corso
dei due secoli successivi, mentre si osserva
il venir meno dei legami organici tra la
città e il suo porto, fonte della sua
importanza commerciale, che diventa
ormai il centro autonomo di smisttamento
delle derrate alimentari da convogliare
verso Roma e di ridistribuzione delle
merci agli insediamenti promossi dalla
massa.
La questione è: cosa sarebbe
avvenuta dell’interpretazione di tale
stratificazione
insediativa
senza
il
sopporto
del
Liber
pontificalis
e
dell’epistolario dei pontifici del V-VI
secolo?
E
quanto
sarebbe
stata
significativa l’osservazione archeologica
limitata ad un dato periodo e al di fuori
del contesto socio-economico del Bruzio?
della parte bassa, per quanto riguarda i
tipi di carne e i modi di cucinare.
A modo di conclusione, o piuttosto di
introduzione, i diversi ceti sociali sono
evidenziabili solamente attraverso i loro
rapporti reciproci e all’interno di un
sistema socio-economico specifico. Prendo
un ultimo esempio, calabrese perchè si
parla
decisamente
in
modo
più
convincente di quello che si conosce bene:
si tratta della massa trapeiana, donata alla
Chiesa romana nel IV secolo e che si
sviluppa nel V-VI secolo. Una lettera di
papa Pelagio I ci insegna, verso la metà del
VI secolo, come il figlio di una ancilla
ecclesiae, una schiava, sposa prima una
donna in ecclesiae possessione genitam ex
colonis, una colona, che le trasmette un
peculium notevole dove figura tra l’altro un
agellum; il personaggio riesce poì, blanditiis
atque suasionibus, a sposare una famula
della massa pontificia di Tropea, vale a dire
una libera della familia ecclesiastica, prima
di abbandonarla, dopo un certo lasso di
tempo ad declinandam debitam servitutem, e
allo scopo di curialis sibi nomen usurpare. La
lettera trova un puntuale confronto
nell’imaggine dei vici individuati nel
massicio del Poro, tramite le vecchie, ma
utilissime segnalazioni della fine XIX/
inizio XX secolo o oggetti di una indagine
recente. Tali comunità si caratterizzano
dall’esistenza di una chiesa di ottimo
livello architettonico, servita da un clero
residente sul posto, nonchè dalla presenza
di alcune case in pietra e di importazioni
africane. Il territorio probabilmente alla
massa è anche ricco di residenze di tipo
aristocratico che possono essere attribuite
ai ricci enfeutici ben documentati
dall’epistolario di Papa Gelasio verso la
fine del V secolo: la lussuosa villa di
Trainiti è così fiancheggiata da una grande
necropoli, testimone dell’importanza del
vico ad essa legata, da due fornaci e da un
complesso artigianale per la lavorazione
del tonno, con un suo proprio porto.
Infine, lo scavo della necropoli riferibile al
centro di gestione della massa al di
Aristocrazie e società a Ravenna tra
tarda Antichità e alto Medioevo
Andrea Augenti
Con la mole di informazioni disponibili,
tra fonti scritte ed archeologiche, e la
recente crescita del dato archeologico,
Ravenna costituisce un osservatorio
privilegiato per seguire le vicende delle
69
aristocrazie di area bizantina tra la tarda
Antichità e l’alto Medioevo.
Innanzitutto occorre tenere presente che le
fasce più elevate del corpo sociale
ravennate risultano, anche alla luce degli
ultimi studi di carattere prosopografico,
un’entità variegata e composita. A parte i
vertici
delle
gerarchie
laica
ed
ecclesiastica, è stata infatti messa in luce la
presenza fin dal V secolo, accanto agli
esponenti dei ceti più elevati, di una classe
di artigiani e piccoli proprietari terrieri che
svolge un ruolo non indifferente nelle
vicende locali. In seguito si registra il
consolidarsi delle grandi famiglie (come i
Traversari) che si espanderanno nel
territorio
appoggiandosi
ai
solidi
caposaldi costituiti da una rete di castelli,
perlomeno a partire dal X secolo.
In questa occasione si cercherà di seguire
le tracce di questi ceti dirigenti
relativamente alle loro modalità di
incidenza sullo sviluppo del paesaggio
urbano e rurale. In particolare si tenterà di
individuare le strategie che presiedettero
alla loro partecipazione alla costruzione
degli edifici di culto a Ravenna e Classe,
nonché alla distribuzione degli edifici
palaziali e delle abitazioni private
all’interno
dell’area
urbana.
Una
particolare attenzione sarà inoltre data alla
gerarchizzazione degli spazi e delle
tipologie edilizie, seguendone l’evoluzione
nel corso del tempo (VI-X secolo).
Si cercherà infine di verificare le ulteriori
modalità di autorappresentazione delle
aristocrazie ravennati, soprattutto a partire
dai dati relativi all’archeologia funeraria.
A tale proposito si prenderanno in
considerazione le informazioni in nostro
possesso per l’età gota e le epoche
successive, nonché l’evoluzione delle
consuetudini funerarie dei vescovi e degli
altri membri dei ceti dirigenti.
70
portugueses, que suele ir refrendada por
pruebas arqueológicas.
De las domus tardoantiguas a las
residencias palaciales omeyas en
Mérida (Hispania, siglos IV-IX)
Este panorama se deduce de intervenciones
arqueológicas centradas en zonas muy
selectivas de la ciudad; por regla general
donde se concentraban los edificios públicos:
el foro, las zonas de espectáculos y en la
proximidad de las avenidas principales. La
transformación de estos espacios sustenta la
decadencia de la vida urbana, sin embargo,
paralelamente, los documentos históricos
parecen trasmitir normalidad y hasta una
nueva etapa de esplendor según las fuentes
eclesiásticas para ciudades como Mérida.
Miguel Alba
Augusta Emerita se funda con el grado de
colonia en el año 25 a C., y pasa a ser la
capital provincial de la parte occidental de
Hispania: la Lusitania. En el siglo IV es
sede del vicario hispaniorum; se convierte
en la capital del reino suevo en el siglo V y
un importante arzobispado durante toda
la etapa visigoda. Desde el comienzo de la
época islámica es una de las tres capitales
de frontera (de la Marca Inferior) junto con
Toledo (Marca Media) y Zaragoza (Marca
Superior).
Resulta comprometido defender la
“continuidad” de la ciudad romana en
época visigoda sin entrar en contradicción
con los datos que ofrece el registro
arqueológico y viceversa. Según qué
información utilicemos la argumentación
nos llevará en un sentido o en otro. Con
respecto a la vivienda (y a la calle) se
podría afirmar que desde el punto de vista
del aspecto externo la ciudad es heredera
de todo un patrimonio constructivo que
sigue cumpliendo la misma función que
en el pasado. Las casas fueron construidas
a lo largo de un proceso de reformas
especialmente dinámico en época romana,
sensible a incorporar las novedades que
impone la moda, y es en ese mismo marco
doméstico donde se desarrollará la vida
cotidiana en el segmento temporal del
siglo V al IX. Los espacios siguen vigentes
para un uso doméstico, pero se introducen
indicios en el registro arqueológico que
delatan unos modos de vida muy
diferentes para el grueso de la población
respecto al mundo anterior.
En nuestra intervención se hará una reflexión
sobre las transformaciones del ámbito
doméstico de Mérida en cuatro secuencias: la
Altoimperial, la Bajoimperial, la de época
Visigoda y durante los dos primeros siglos de
presencia islámica. Nos centraremos de forma
especial en las dos últimas por aportar más
novedades a la documentación arqueológica.
Para explicar desde la arqueología la
evolución existencial de las ciudades de
Hispania durante la Tardoantigüedad y
Alta Edad Media es frecuente hablar de
decadencia, recesión, colapso, crisis del
Bajo Imperio, descomposición urbana,
repliegues y hasta abandonos completos.
Todo lo cual sirve para explicar la
despoblación de la ciudad (a favor del
campo) desde el siglo III al V, acentuada
por la llegada de los invasores germánicos,
que prosigue su caída desde el siglo VI al
VII, tendente a convertirse en entidades
rurales y finalmente se agrava su situación
con la llegada de los árabes que provocan
la desaparición de muchos de los núcleos
urbanos que quedaban (s. VIII y IX). En
síntesis esa es la explicación más
divulgada entre autores españoles y
Argumentando esa idea de continuidad se
engloba tanto el Bajo Imperio como la
etapa visigoda con el mismo epígrafe de
tardoantigüedad, pero es un mundo muy
diferente el de partida y el de llegada. Así
mismo hay importantes novedades bajo el
dominio islámico en todo lo referente al
ámbito doméstico. A través de la vivienda
71
(tanto la humilde como la de las clases
privilegiadas) veremos cuales son los
elementos de continuidad y cuales los de
novedad para aproximarnos a las
transformaciones de la ciudad a lo largo
de la secuencia aludida.
Nos basaremos en datos arqueológicos
documentados en el área de Morería (solar
intramuros de 12.000 m2) para ilustrar la
secuencia de ocupación, si bien recurriremos
a otros ejemplos del yacimiento emeritense
para ofrecer una visión de conjunto.
72
- 9 insediamenti minori (abitati in grotta e
singole abitazioni di V-metà VI secolo;
rispettivamente 5 e 4);
- 12 chiese (alle quali si aggiungono gli
edifici religiosi inseriti in villaggi e castelli
per un numero di 9 e tre monasteri);
Aristocrazie deboli e aristocrazie forti
nella Toscana tra VI e X secolo
Marco Valenti
Introduzione
Infine, quasi tutte le città toscane, pur non
al centro di progetti di ricerca sistematica,
propongono un panorama sufficiente di
dati (in alcuni casi anche di notevole
spessore) per potere ipotizzare tendenze
diacroniche delle loro trasformazioni
urbanistiche e socio-economiche.
L’analisi dei secoli compresi tra il crollo dei
paesaggi tardo romani e la formazione del
paesaggio dei castelli è da oltre vent’anni uno
dei temi di maggior dibattito in Toscana e
recentemente una serie di contributi ha fatto
il punto sullo stato di avanzamento
raggiunto. I modelli interpretativi proposti si
basano su una strategia di ricerca articolata
nella compenetrazione tra ricognizione di
superficie e scavo registrati su piattaforma
GIS, ai quali si aggiunge la schedatura e la
georeferenziazione
della
conoscenza
pregressa. Come è già stato ricordato in
occasione del convegno di Gavi, possiamo
quantificare la base dati sulla campagna
come segue:
Esplorando la campagna e smontando le
colline: tra aristocrazie deboli ed aristocrazie in
affermazione
Questa strategia di ricerca mostra come la
ricognizione di superficie combinata allo scavo
di ville, insediamenti agglomerati tipo mansiones
o vici e, in alcuni casi, di chiese fornisce
soprattutto dati sulla fine dei paesaggi
tardoromani e la transizione verso l’alto
medioevo, mentre lo studio dell’incastellamento
si propone come la strategia più redditizia per
comprendere i caratteri e le vicende diacroniche
del popolamento altomedievale. Lo smontaggio
di intere colline (rimuovendo e indagando
migliaia e migliaia di metri cubi di terra) ha
portato ai risultati più significativi in questa
direzione*.
- le province di Siena e Grosseto hanno
visto sino al 2004 la battitura di 1979 kmq
(quasi il 9% della Toscana) con un totale
complessivo di 10.110 aree archeologiche
individuate,
mentre
il
censimento
georeferenziato dell’edito sulle altre
province, attualmente in progress, conta
già 5.363 segnalazioni;
- 18 scavi di ville con frequentazione sino
alla tarda antichità;
- 5 villaggi aperti con fasi tardoantiche e di
inizi alto medioevo (Callemala, FilattieraSanto Stefano, Luscignano, San Genesio,
Pantani-Le Gore; a questi possiamo
aggiungere gli scavi in un contesto
particolare come Vada Volaterrana);
- 3 insediamenti fortificati interpretabili
come piccoli castra (Cosa, Talamonaccio,
Filattiera-Montecastello);
- 51 scavi di castelli (19 condotti
dall’Università di Siena) con più del 60%
dei villaggi composti da capanne
rintracciati nei depositi più antichi;
I dati raccolti sembrano mostrare una
Toscana al centro di un'evoluzione
economica di lunga durata le cui tappe
principali sono una crisi della città più o
meno generalizzata, che ha inizio nella
maggior parte dei casi nel III secolo,
contemporaneamente ad una prima
selezione di centri produttivi nelle
campagne; un marcato deterioramento
Quanto esposto in questo breve testo fa parte di
riflessioni svolte in comune con Riccardo Francovich
durante continui confronti e discussioni. La calzante
definizione di “smontare le colline” ed i concetti dei
quali si permea (metodologici, di strategia della
ricerca, di significato storico) si devono a lui
*
73
incardinò su una rete di popolamento già
stabilizzata nell’alto medioevo, sulla cui
ossatura si era modellata nel tempo
l’organizzazione del lavoro contadino. I
castelli del X secolo rappresentarono una
tappa dell’evoluzione di un gran numero
di realtà insediative preesistenti che, nelle
loro vicende urbanistiche ed economiche,
lasciano
intravedere
l’esistenza
di
aristocrazie urbane e rurali che non hanno
costantemente un ruolo predominante ed
una progettualità: periodi di aristocrazie
deboli e di aristocrazie forti.
della città nel V secolo contestuale ad una
vitalità ristretta anche nelle aree rurali pur
di fronte ad alcuni brevi tentativi di
ripresa; una decomposizione di entrambi
gli habitat nel VI secolo con alcuni centri
ancora dotati di una qualche vitalità in
particolare nella Valle dell’Arno e nella
Valle del Cecina: eccezioni numericamente
scarse in un panorama economico nel
quale il trentennio della guerra grecogotica sembra fungere da discrimine.
Tra VI e VII secolo le città toscane
raggiungono forse il punto più acuto della
recessione, diversificandosi per l’essere scelte
o meno come centri a vocazione militare; sono
state ricondotte a due modelli essenziali: città
"frantumata" (Lucca, Pisa, Firenze, Siena,
Volterra ed Arezzo) e città fortezza (Cosa,
Roselle, Chiusi, Fiesole). Gli scavi mostrano
comunque centri urbani che presentano lo
stesso tipo di edilizia povera della campagna,
la medesima tendenza verso lo spopolamento,
con ampie zone desertate alternate a spazi di
agglomerazione; in nessun caso (nè in città nè
in campagna) sono riconoscibili strutture che
sottolineano la presenza di famiglie od
individui che si distinguono materialmente
(per le loro case e sepolture od i corredi
domestici ed ornamentali) come tenore
economico, anzi la vita sembra essere livellata
molto verso il basso. Non è dato riconoscere la
presenza di un mercato significativo o di flussi
commerciali ed attività economiche che
mostrino relazione con il territorio. Il rapporto
con quest’ultimo sembra interrompersi
apparentemente per oltre un secolo.
In estrema sintesi, si osserva un deciso
scollamento tra campagna e città dalla
metà del VI secolo, collateralmente ad
aristocrazie lungamente incapaci di
realizzare progettualità: i primi segni di un
controllo delle forme economiche e
insediative rurali, indizi di una serie di
investimenti nelle campagne, si hanno a
partire dall’VIII secolo.
Quali sono gli indicatori materiali di potere o
di “non” potere?
I nostri sforzi sono stati indirizzati soprattutto
nell’individuare una serie di indicatori
materiali che permettessero di elaborare chiavi
interpretative concernenti la natura socioeconomica dell’insediamento nella diacronia e
comprendere le modalità di affermazione dei
poteri locali. L’analisi dei centri di
popolamento si è pertanto incentrata sulle
caratteristiche
delle
abitazioni,
sulla
destinazione d’uso degli edifici e degli spazi
aperti ad essi contigui, sull’urbanistica dei
centri stessi, sulle attività artigianali e sulle
tracce riconoscibili di attività produttive,
alimentazione e distribuzione del cibo. I
diversi fattori elencati e le loro combinazioni
nello spazio e nel tempo, permettono di
individuare la tipologia delle forme di
popolamento, la loro vocazione produttiva, il
contesto economico in cui si inseriscono e la
presenza di gerarchie interne tra età gota ed
età carolingio-ottoniana.
Dopo la lunga agonia del sistema delle
ville ed una profonda crisi economica e
demografica, la popolazione rurale, sino
dai decenni intorno alla guerra grecogotica, si raccolse in forme insediative
comunitarie: ebbero successo, costituendo
le basi per una riorganizzazione della
campagna in cui si osserva l’esistenza di
disegni progettuali solo dalla matura età
longobarda.
Sulla
base
della
documentazione archeologica possiamo
quindi affermare che l’incastellamento si
74
rispecchiare una reazione alla crisi delle
politiche
di
produzione
intensive,
impiantando
un
diverso
modello
economico (pastorizia e sfruttamento di
minima dell’agricoltura) guidato da
proprietari che lasciarono la campagna e
cambiarono le proprie strategie di
investimento? Questa interpretazione si
scontra con dati diffusi non solo nella
Toscana centro-meridionale (ma anche in
quella settentrionale) che mostrano una
severa recessione e l’inesistenza di un
disegno progettuale; il critico tasso
demografico delle campagne manifestato
da un’innumerevole quantità di sedi
desertate, la bassa qualità delle strutture
abitative, il loro numero esiguo e la loro
dislocazione
spaziale
estremamente
allargata (ricordiamo pari ad una media
di 1 abitazione per 10 kmq) sono piuttosto
la prova di un disegno economico
inesistente e, se presenti, di imprenditori
privi di forza reale. Si tratta in realtà di
forme residuali di vita dopo il crollo dei
paesaggi tardo romani.
In
quest’ottica
assumono
grande
importanza sia lo studio dei resti
archeobotanici sia, e soprattutto, quello dei
resti archeozoologici. La loro analisi
occupa
un
posto
fondamentale
nell’elaborazione
di
modelli
di
popolamento per il periodo compreso tra
metà/fine VI secolo e X secolo; proprio il
controllo economico, la disponibilità e la
distribuzione delle derrate alimentari ci
forniscono non solo il quadro delle attività
produttive ma anche le caratteristiche
della “ricchezza”; in tale direzione deve
essere ripensato il ruolo delle fonti
archeologiche tradizionali, come la
ceramica, combinandole con i “nuovi”
indicatori.
È riconoscibile una progettualità economica
nella campagna della Transizione?
Il campione di 1.979 kmq indagati nelle
province di Siena e Grosseto sottolinea la
tendenza regionale ad un progressivo calo
demografico e di un lungo processo di
trasformazione delle forme di produzione
e di gestione della campagna. La regione
era caratterizzata da alti indici demografici
sino al III secolo (presenza media di 1,27
siti per kmq) mentre una marcata
selezione avvenne tra la metà e la fine del
V secolo (mediamente 1 sito per 4 kmq)
sino a raggiungere valori minimi (media
di 1 sito per 10 kmq) nel corso del VI
secolo con un’accentuazione progressiva
del
fenomeno
in
pochi
decenni.
L’andamento dei rinvenimenti databili tra
alto e basso Impero mostra quindi
l’esistenza di un popolamento regionale
ben radicato sul territorio che, nello spazio
di circa 300 anni, discese verso valori mai
toccati precedentemente, disponendosi
nelle maglie molto larghe di una rete
insediativa composta da poche case sparse
e piccoli nuclei degradati.
Pensare ad un qualche ruolo attivo nel
controllo del popolamento da parte dei castra
(ereditati dalla guerra greco-gotica poi
rioccupati da contingenti longobardi) ipotizzati
nella parte centro-meridionale della regione,
non sembra utile. I casi indagati
archeologicamente mostrano pochi centri di
piccole dimensioni (nient’altro che caserme), il
cui impatto sulla popolazione rurale resta tutto
da dimostrare. Anche un contesto particolare
come Vada Volaterrana, che per tutto il VI
secolo e sino agli inizi del VII secolo (pur
decaduto e caratterizzato da buche di palo e
sepolture ricavate negli edifici del quartiere)
continuò ad avere una qualche vitalità
commerciale, non pare proponibile come un
eventuale centro con funzioni direzionali.
Ugualmente, il tentativo di collegare la
presenza di chiese nel V e nel VI secolo in
coincidenza di ville o grandi complessi, spesso
in disuso o degradati, ad un ruolo ancora attivo
di grandi e medi proprietari nel controllo della
popolazione e della produzione non trova
L’esito finale della realtà insediativa del VI
secolo potrebbe rappresentare, seppur in
decenni difficili, non la fine ma il
perdurare degli assetti antichi? Potrebbe
75
sembra, abbandonati da poco tempo. La
scelta di ripercorrere dei luoghi una volta
insediati e decaduti potrebbe trarre in
inganno, leggendo nella sovrapposizione
con gli agglomerati di capanne l’esistenza
di alcuni possessores ancora attivi nel
riordinare i resti delle loro proprietà.
Questa soluzione ci lascia molto dubbiosi,
sia sulla base di indicatori archeologici e
antropologici sia per la debolezza di poteri
ancora in gestazione nelle città toscane e
nelle campagne tra metà VI secolo e inizi
del VII secolo.
riscontri archeologici probanti. Sembra trattarsi
invece di un’evidenza di debolezza delle
aristocrazie e dell’imprenditoria. Tali chiese
sorgono in coincidenza di insediamenti dove
ogni funzione abitativa ed economica era
cessata e non disponiamo infatti di alcun
indizio di popolazione stabilitasi intorno alla
chiesa o di un edificio contemporaneo di tipo
distintivo. La scelta di luoghi in disuso
(coincidenza spesso riscontrata) non sembra
andare oltre la cava di materiali utili alla
costruzione; in questo senso il supposto
tentativo di ereditare il ruolo di riferimento che
la villa aveva sembra ormai fuori luogo; le
chiese esistenti servivano invece una rete
insediativa circostante che progressivamente,
con il procedere della crisi, diminuiva nelle sue
componenti. E ci domandiamo comunque:
quante sono queste chiese che vengono fondate
tra V e VI secolo? Allo stato attuale della ricerca,
l’archeologia sembra confermare il modello di
Violante (datato al 1982) fornendo la percezione
di una scarsa diffusione del processo di
cristianizzazione, a cui si legava una rete di
insediamenti religiosi di basso profilo e
disarticolata. Il proseguio e l’intensificarsi delle
indagini confermerà o smentirà questa ipotesi.
Le fasi d’età longobarda di Scarlino e
Poggibonsi per esempio attestano la presenza
di una popolazione priva di differenze sociali
ed
economiche
come
sottolineato
dall’uniformità delle abitazioni (capanne
tutte uguali), della cultura materiale ad esse
legata e delle attività lavorative (pastorizia).
Non sono presenti edifici che possano far
pensare a proprietari residenti o ad un actor.
Questi avrebbero potuto vivere nelle città
oppure essere proprietari consumatori
itineranti tra i diversi villaggi, ma quali
elementi
archeologici
abbiamo
per
sostenerlo? Il villaggio si dovette formare
seguendo la logica di un’esistenza meno
incerta e vennero privilegiati quei luoghi in
cui lo spazio fisico, seppur decaduto, era già
predisposto per la costruzione di nuove
abitazioni e per recuperare con pochi sforzi
delle superfici agricole caratterizzate da
processi di rimboschimento appena agli inizi.
Come si riconosce una progettualità economica
nella campagna tra la metà del VI secolo ed il
VII secolo?
Il processo di costituzione della nuova rete
insediativa sembra avere inizio più o
meno intorno agli anni della guerra grecogotica e proseguire nei primi decenni della
conquista longobarda. Sul suo sviluppo
dovettero
interagire
le
difficoltà
economiche e militari di questi decenni e
soprattutto la necessità di governare
meglio, tramite la forza collettiva, una
terra deteriorata e riconquistata dalla
natura. Quattro casi indicano le modalità
di formazione dei villaggi: vennero
privilegiate soprattutto le aree di sommità
(Scarlino, Poggibonsi, Donoratico) e
talvolta gli spazi pianeggianti (San
Genesio), ripercorrendo dei siti che più o
meno stabilmente erano stati oggetto di
frequentazione in età tardoantica e, come
La riorganizzazione delle basi economiche
iniziò quindi come un processo lento,
innescatosi già prima del dominio
longobardo, collateralmente ad un assetto
istituzionale in definizione e probabilmente
senza l’intervento di aristocrazie urbane
nascenti e di aristocrazie rurali ancora ben
lontane dal delinearsi.
È riconoscibile una progettualità economica
nella campagna dall’VIII secolo?
La stabilizzazione del potere delle
aristocrazie rurali sembra essere stato un
76
Tali spazi costituiscono l’area centrale e
più importante del villaggio; è legata ad
una famiglia dominante in grado di
razionalizzare prelievi sulla produzione
agricola e di accumulare scorte (come a
Montarrenti, Poggibonsi, Miranduolo e
probabilmente a Scarlino), di accentrare le
strutture per la fabbricazione di beni
(forge e fornaci: soprattutto Montarrenti e
Poggibonsi,
Rocchette
e
Cugnano,
probabilmente Donoratico e Staggia) o per
il trattamento dei prodotti alimentari
(forni per essiccazione dei cereali, strutture
per la macinatura, edifici per la
macellazione e la lavorazione della carne:
Montarrenti, Poggibonsi, Donoratico).
lungo processo, del quale riusciamo a
cogliere archeologicamente i segni dalla
matura età longobarda, attraverso le tracce
di un’articolazione più complessa sia
interna al villaggio sia nell’organizzazione
del lavoro: tra VIII e IX secolo infatti il
villaggio si trasforma dando luogo ad una
nuova urbanistica ed a un tipo di
insediamento diverso. Nella quasi totalità
dei casi si osservano dei cambiamenti che
con
l’età
carolingia
vengono
definitivamente a compiersi. In generale
possiamo evidenziare soprattutto quattro
macro indicatori: (a) differenziazione
interna con dualità tra uno spazio distinto
ed uno spazio più ampio occupato dal
resto delle famiglie contadine; (b) attività
economiche che evolvono con uno
sviluppo marcato dell’agricoltura e
pratiche pastorizie in trasformazione; (c)
alimentazione
che
si
differenzia
notevolmente tra le famiglie della stessa
comunità; (d) tracce di un potere che
coordina le famiglie del villaggio.
(b) La definizione di un’area distinta si
affianca alla definitiva trasformazione
delle attività produttive. In tal senso, lo
studio delle ossa animali fa luce sulle
diverse strategie economiche succedutesi e
sui cambiamenti ai quali andarono
soggette; per esempio a Poggibonsi si nota
l’evoluzione progressiva da nucleo di
pastori-allevatori sino a centro agricolo
con una minore importanza finale
dell’allevamento. Il costante aumento della
frequenza di bovini a scapito delle altre
specie domestiche, accompagnato dalla
presenza di granai e di magazzini,
testimoniano l’emergere di un’economia
spiccatamente agricola, alla quale si
affianca
un
allevamento
che
va
specializzandosi (come a Poggibonsi, dove
sopravvive quello dei caprovini, che non a
caso meglio si adatta ad un territorio a
vocazione agricola).
(a) L’urbanistica del villaggio mostra la presenza
di una zona che (gradualmente nei casi di
maggior chiarezza) si distingue attraverso dei
caratteri peculiari. Tali spazi si presentano come
un complesso organizzato e di frequente
separato “fisicamente” dalle case dei contadini;
vengono spesso dotati di elementi di
fortificazione (palizzate o muri e fossati:
Montarrenti, Scarlino, Donoratico, Miranduolo,
probabilmente Staggia) od evidenziati nella loro
centralità attraverso infrastrutture (a Poggibonsi
la lunga strada in terra battuta e le grandi aie) e
edifici di servizio (Poggibonsi, Montarrenti e
forse Rocchette). Al loro interno si concentrano
un’abitazione che per dimensioni e posizione
appare come una residenza di tipo “padronale”,
strutture destinate all’immagazzinamento ed
all’accumulo di derrate alimentari, le principali
attività artigianali riconoscibili; inoltre due
esempi su tutti (Montarrenti e Poggibonsi)
sembrano indicare una gestione forse esclusiva
degli animali impiegati come forza-lavoro; in un
caso è presente una chiesa da intendere
probabilmente come cappella privata (Scarlino).
Dall’VIII secolo e soprattutto tra IX e X
secolo, il controllo degli animali, come
abbiamo già sottolineato, pare divenire in
molti casi esclusivo (in particolare per i
caprovini e per le specie adatte al lavoro
nei
campi),
rappresentando
una
prerogativa della famiglia dominante. A
Poggibonsi ed a Montarrenti gli animali
venivano gestiti rigorosamente negli spazi
“del potere”, mentre alcuni centri, come
Campiglia
o
come
il
resto
77
estremità dei rispettivi segmenti anatomici
che compongono gli arti sia anteriori che
posteriori dell’animale, appartenenti a
soggetti generalmente anziani. Infine, alle
famiglie residenti nelle altre capanne
erano riservati unicamente gli scarti e nella
fattispecie le sole estremità degli arti.
dell’insediamento che si legava al centro
direzionale di Poggibonsi, svolgevano un
tipo di allevamento specializzato (nei due
casi citati si tratta di suini). A Miranduolo
le tracce di un controllo degli animali
sembrano evidenziati dalle restituzioni di
un magazzino posto nell’area cinta dalla
palizzata; il magazzino conteneva sia
scorte destinate all’uomo sia grandi
quantitativi di pastoni per gli animali.
Anche il consumo di carne capriovina
evidenzia anomalie associabili ad una
diversa concezione della qualità della
carne. Nella capanna 1, ad esempio, è
attestata la presenza quasi assoluta di ossa
dell’arto anteriore e nelle restanti
abitazioni la distribuzione anatomica
appare più omogenea. Era invece
appannaggio
quasi
esclusivo
della
famiglia dominante la carne di capre e di
pecore abbattute tra il primo ed il secondo
anno di vita (mentre i soggetti più anziani
venivano
equamente
distribuiti).
Sintetizzando, la famiglia dominante
mangiava molta carne di prima scelta e di
tipo diversificato, i dipendenti più stretti
accedevano a tagli di seconda scelta, il
resto della popolazione a tagli di terza
scelta. Anche la distribuzione delle spalle
di maiale (presenti soprattutto nella
longhouse) mostra un accentramento di tale
“bene” ed una parziale redistribuzione fra
gli stessi dipendenti.
Le considerevoli restituzioni archeobotaniche
di Miranduolo attestano anche, tra età
carolingia ed ottoniana, un’economia agricola
tesa a impiegare intensivamente tutto il
territorio di catchment tramite campi seminati
a cereali (grano duro, segale, orzo) e legumi
(favino e cicerchia), coltivando vite, olivo,
peschi e noci, sfruttando le risorse di boschi
(castagne e ghiande) e di probabili
piantumazioni nel loro insieme composte da
querce, castagni, carpini, eriche, aceri, olmi,
frassini e pioppi. Un’indagine ancora in corso
(svolta da un team di specialisti in
archeobotanica, geoarcheologia e palinologia)
sta per il momento lavorando su un’ipotesi di
strategia mirata e ben definita di impiego del
territorio.
(c) Il consumo di carne si rivela importante
per individuare l’esistenza di rapporti di
tipo gerarchico ed economico. Indicativo
in tal senso è il tipo di distribuzione quasi
piramidale che, nel caso di Poggibonsi,
effettua la famiglia residente nella
longhouse verso le famiglie residenti nelle
capanne circostanti, con un ulteriore
collegamento riconoscibile fra qualità della
carne e diverso ruolo o posizione rivestiti
dai riceventi. L’alimentazione si propone
come un segno di potere; il consumo dei
tagli di bue qualitativamente migliori ed
in notevoli quantità (provenienti da
soggetti sia giovani sia anziani) appare
come una prerogativa della famiglia
dominante; ad esso si aggiungeva il
cavallo, l’asino e particolari pennuti da
cortile come l’oca. Nella vicina capanna a
“T”, si ritrovano, invece, tagli di seconda
scelta ed in particolare quelli relativi alle
(d) Le trasformazioni urbanistiche, le
caratteristiche ed i rapporti spaziali nella
giacitura delle ossa animali, la collocazione
degli edifici e delle strutture di accumulo
forniscono un quadro di massima sul tipo di
potere che la famiglia dominante del villaggio
esercitava, conseguentemente i diritti che
deteneva. Tali individui sono in grado di
intercettare ed accentrare specifiche parti della
produzione e, come abbiamo già visto,
redistribuirle, gestire l’apporto degli animali e
lo svolgimento delle attività artigianali, di
esigere anche opere dai propri contadini ed
avere sufficienti rendite per assoldare
maestranze specializzate. L’erezioni di
palizzate o di muri e l’escavazione di fossati
(Montarrenti, Miranduolo, forse Scarlino e
Staggia) sembrano essere state svolte dagli
78
Bibliografia essenziale
stessi abitanti del villaggio; sono essi che,
dietro l’imput della famiglia dominante,
trasformano l’aspetto del centro creando una
zona privilegiata e definita in molti casi da
segni di potere inconfondibili; rientra in questa
categoria anche la disponibilità di risorse per
fare arrivare nel villaggio professionalità
specifiche, probabilmente esterne, per
interventi particolari non eseguibili dalla
popolazione (per esempio la costruzione della
chiesa di Scarlino od i primi tentativi di
costruire cinte con base in pietra ed elevato in
terra od altri materiali deperibili: Miranduolo,
Montarrenti, probabilmente Staggia).
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In alcuni casi le analisi archeozoologiche
rivelano anche la presenza di canoni in natura.
La riscossione di corresponsioni in carne
lavorata si verifica a Poggibonsi dove sono
presenti le sole spalle del maiale fra le
restituzioni; mentre a Campiglia Marittima, al
contrario, questi generi venivano portati al
centro domocotile di riferimento: dalle
restituzioni le spalle sono in percentuale ben
maggiore della coscia. L’assenza di reperti
osteologici legati ad animali selvatici pare
indicare invece un uso limitato dei boschi per
la caccia come a Montarrenti, Poggibonsi, e
Campiglia, che sembra quindi rappresentare
un’attività probabilmente esclusiva e riservata
alla famiglia dominante: un elemento
distintivo e di prerogativa.
Le analisi archeobotaniche forniscono invece
solo indicazioni indirette sull’esistenza di
canoni in prodotti agricoli che sono
riconoscibili soprattutto nella presenza delle
strutture di accumulo (gli edifici destinati alla
conservazione
delle
derrate
agricole
sembrano rappresentare un chiaro indizio del
versamento di quote della produzione),
mentre fanno luce sul tipo di agricoltura in
atto sulla cui articolazione e programmazione
c’è ancora molto da lavorare per verificare o
meno l’esistenza di politiche economiche
progettate.
http://archeologiamedievale.unisi.it/NewPages/INSEGNAMEN
TO/nov/nov56.html.
79
controllando su un campione territoriale
ristretto quali consuetudini siano patrimonio
esclusivo delle singole comunità e quali
aspetti riflettano invece tendenze e mutazioni
culturali di più ampia portata, gerarchie
sociali
e
funzioni
specifiche
degli
insediamenti nel loro divenire, nell’ambito di
un’area prossima all’importante sede ducale
e alla frontiera delle chiuse della valle di Susa
verso i Franchi.
Longobardi da guerrieri a contadini.
Le ultime ricerche in Piemonte
Luisella Pejrani Baricco
Già in occasione del Convegno di Ascoli
Piceno del 1995 sull’Italia centro-settentrionale
in età longobarda era emerso un quadro
territoriale molto complesso e variegato per
l’area dell’attuale Piemonte, fondato sul
censimento critico dei vecchi ritrovamenti, ma
anche su un buon numero di indagini in
estensione condotte con metodi aggiornati e
supportate da analisi archeometriche
sistematiche. Più che ritornare sulle grandi
necropoli “storiche” - purtroppo assai mal
note - come quelle di Testona, Carignano e
Borgomasino, si era cercato di mettere a fuoco
problematiche diverse, come nel caso delle fasi
cimiteriali di Centallo connesse con le vicende
della chiesa paleocristiana, che presentavano
caratteristiche apparentemente ibride rispetto
ai modelli interpretativi più correnti, dato
l’avanzato grado di osmosi culturale con il
sostrato locale rivelato dalla comunità sepolta.
L’insediamento altomedievale di Collegno si
collocava nei pressi del ponte o del guado
sulla Dora, lungo uno dei percorsi connessi
con la grande arteria stradale che dalla città di
Augusta Taurinorum conduceva ai valichi
alpini della Val di Susa e alle Gallie, e a meno
di un chilometro dalla basilica paleocristiana
di S. Massimo ad quintum, importante ente
ecclesiastico in rapporto privilegiato con la
sede episcopale che a quel tempo
probabilmente polarizzava un abitato erede di
un’antica e ricca villa di età imperiale.
Nel VI secolo, a breve distanza dalla chiesa, ma
apparentemente in forma autonoma, si insediò
un funzionario o un capo militare goto con la sua
famiglia, identificabile in un ridotto nucleo di
tombe di personaggi di alto rango inumati a
poche decine di metri a sud di un’area
residenziale. La qualità delle sepolture e
l’estensione delle strutture abitative rendono assai
probabile un ruolo pubblico di questo gruppo
aristocratico, che ancora rivela evidenti legami
con la propria cultura tradizionale ad esempio
nella pratica della deformazione cranica
riscontrata dalle recenti analisi antropologiche
sull’individuo maschile della tomba privilegiata
monumentale e in un bambino.
In altri siti si sono riconosciuti nuclei sepolcrali
gentilizi isolati, come a Borgo d’Ale, o gruppi
famigliari fondatori di un oratorio privato
come a Mombello, forse investiti di un ruolo
pubblico, o ancora presenze longobarde nei
castra, secondo una molteplicità di forme e
funzioni degli insediamenti che trovano
riscontri sempre più numerosi nelle regioni
limitrofe dell’Italia settentrionale.
Da allora i dati archeologici si sono
significativamente accresciuti grazie alle
indagini in corso sull’insediamento di
Collegno, individuato durante gli scavi per la
metropolitana torinese nel 2002, ma anche
sulla necropoli di Rivoli - corso Primo Levi,
scavata nell’estate del 2003 e in attesa di
completamento
e
delle
analisi
antropologiche.
Questi
nuovi
siti
permetteranno di rileggere i risultati di scavi
precedenti, come quello di Rivoli - Perosa,
La successiva sostituzione di un presidio
longobardo nei confronti del precedente
goto attesta la rioccupazione di una sede
del potere, secondo un fenomeno ben noto
per le città, ma assai meno documentato
archeologicamente sul resto del territorio e
che costituisce perciò un dato rilevante e
ancora inconsueto.
80
presumibilmente databili alla fine del VII
secolo. In pochi altri casi pertinenti
all’ultima fase di utilizzo della necropoli si
osservano inclinazioni più marcate
nordovest/sudest e una sola sepoltura
disposta nord/sud.
L’abitato goto-longobardo presenta tipologie
costruttive variate con strutture in pietra a
secco, in pisé e in legno, tra le quali si
distinguono alcune capanne con fondo
ribassato appartenenti al periodo di
occupazione longobarda. Non si è riconosciuta,
per il momento, una gerarchia degli edifici che
permetta di identificare un centro di potere nel
villaggio, ma va tenuto in conto che si è
probabilmente esplorata soltanto la zona
periferica di un insediamento molto più
grande, che i prossimi lavori di ampliamento
del cimitero comunale permetteranno forse di
accertare nel suo reale sviluppo.
Esaminando la topografia della prima fase
cimiteriale (570 - primi decenni del VI
secolo), la fascia più orientale risulta
riservata agli esponenti della famiglia
egemone che fondò precocemente la
necropoli in evidente concomitanza con
l’insediamento
della
fara
in
date
corrispondenti alla conquista di Torino e del
suo territorio. Tra questi personaggi
eminenti, i soli a esibire - in quattro casi - le
crocette auree sul velo funebre, doveva
collocarsi la tomba del capo della comunità,
purtroppo perduta, ma indiziata dalla
deposizione del suo cavallo decapitato. Alle
sue spalle, verso ovest, fu sepolta l’unica
donna con le fibule a staffa (la moglie?) e poi
via via i discendenti e anche i subalterni che
completavano la composizione sociale del
gruppo. A questi erano spesso destinate le
posizioni periferiche a nord, sempre
comprese però nelle fasce di terreno
assegnate ai rispettivi clan.
A circa trecento metri dal villaggio si trova
la necropoli longobarda, di cui si sta
avviando l’ultimo intervento di scavo e
dove le campagne del 2004-2005 hanno
aggiunto altre 66 tombe alle 73 già oggetto
di una prima proposta di inquadramento
tracciata in occasione della presentazione
al pubblico e dell’edizione di una
selezione di 11 corredi restaurati. L’area
funeraria risulta ora più che raddoppiata
(m38 N/S per 68 E/W) e si sono raggiunti
probabilmente i limiti perimetrali, ma
resta da completare l’indagine in
profondità del quadrante nord-occidentale
con possibile incremento delle tombe del
primo periodo. Le considerazioni che
seguono sono quindi provvisorie, ma si
avvalgono già del primo esame dei nuovi
corredi in corso di restauro e seguono la
metodologia sperimentata nella prima fase
del lavoro.
Gli uomini in armi del primo periodo
assommano ora a 9: 3 appartenenti alla
famiglia egemone, dotati di spatha e scudo,
più lancia traforata e sperone in un caso (T
53) e sax in un altro (T 70); un adulto
armato del solo sax (T 41); 3 nuovi
guerrieri con armamento completo di
spatha, lancia e scudo (TT 86, 93, 97); uno
con lancia e scudo in frammenti, perché
violato in antico, e quindi con possibile
equipaggiamento completo (T 129), e uno
infine con la sola lancia (T 92). Nessuno di
questi ultimi possiede oggetti da cavaliere
e le cinture per la sospensione della spada
non sono ageminate, confermando il
carattere militarmente e socialmente
distintivo - almeno nell’ambito del gruppo
- della lancia traforata, dello sperone, degli
scudi “da parata” e delle cinture decorate
La scansione in tre periodi dall’ultimo
trentennio del VI secolo all’VIII compreso
si dimostra valida anche per i settori
recentemente esplorati, dove pure si
conferma l’organizzazione pianificata
dell’area funeraria per file, ciascuna
formata da un gruppo di sepolture
pertinente a una famiglia, con le tombe
orientate est/ovest e i defunti deposti
supini con il capo a ovest, con rare
eccezioni ai margini meridionale e
occidentale,
dove
compaiono
tre
inumazioni
inversamente
orientate,
81
sepolture con file talvolta meno ordinate
in cui si verificano anche parziali
sovrapposizioni:
verso
oriente
l’addensamento delle tombe sembra
determinato dalla prossimità del confine
dell’area funeraria, mentre la distribuzione
verso occidente è a fasce più intervallate e
rade, con una lunga fila sviluppata da sud
a nord e un nucleo nel settore nordoccidentale, a file corte, che include le
tombe già indagate nel 2002.
di cui erano invece dotati gli esponenti
della famiglia egemone.
Non solo insegne del potere, anche le armi più
pregiate erano effettivamente usate, come è
confermato dallo sfondamento da fendente
dell’umbone dello scudo “da parata” della T 53
e dalla notevole incidenza percentuale di morti
violente o di traumi cranici da combattimento,
ora saliti a 4, di cui 3 subiti da armati e uno
rilevato su resti scheletrici molto frammentari
che non escludono la presenza di armi nella
tomba distrutta. Lo stile di vita bellicoso e
l’esercizio delle armi emerge anche dalle analisi
antropologiche, che evidenziano, soprattutto per
gli individui maschili, gli esiti di un notevole
sviluppo muscolare a livello della spalla e
dell’arto superiore, favorito dall’allenamento
fisico e da una buona alimentazione durante
l’infanzia e l’adolescenza, senza il sovraccarico di
lavori pesanti.
Nelle modalità di deposizione dei corpi si
osserva il perdurare della disposizione
tradizionale con gli arti distesi e non
ravvicinati da eventuali sudari costrittivi
perché i defunti erano ancora “vestiti”,
come indica la presenza delle cinture, per
lo più militari e quindi maschili.
Le donne, nella seconda metà del VII secolo,
compaiono in soli 3 casi sui 12 già determinati
maschili dalle analisi e su altri 4 indiziati dagli
oggetti di corredo o dalle prime osservazioni
antropologiche raccolte durante lo scavo,
mentre per i restanti 13 adulti ancora da
determinare nessun oggetto – tra i pochi che
ancora accompagnano gli inumati – si
caratterizza come femminile.
Il numero delle donne delle prime generazioni
è aumentato di un solo individuo (T 90)
abbassandone ulteriormente la percentuale a
meno del 25% rispetto a quella maschile,
mentre salgono di 5 unità le sepolture infantili,
che comprendono ben tre ampie fosse del tipo
pannonico a “camera lignea” con pali angolari
adottato per gli “individui privilegiati”: ora se
ne contano complessivamente 11, oltre ad
alcune varianti prive di pali, ma molto grandi
e profonde e probabilmente rivestite di legno.
La percentuale delle sepolture femminili a
Collegno potrà dunque raggiungere
numeri definitivi per le tre scansioni
temporali dell’evoluzione della necropoli
senza ricorrere a ipotesi basate solo sui
corredi; per il momento la carenza di
donne,
già
marcata
nella
prima
generazione immigrata, non solo non pare
attenuarsi durante la sedentarizzazione
del gruppo, ma sembra toccare l’apice del
fenomeno proprio nella seconda metà del
VII secolo. Se si può ormai escludere
l’esistenza di un settore della necropoli
riservata alle donne, che peraltro non
troverebbe
altri
confronti,
anche
l’eventualità di una selezione dovuta al
carattere militare del piccolo stanziamento
contrasta in parte con la presenza non
trascurabile di sepolture infantili disposte
accanto ai maschi adulti.
La presenza di elementi di corredo o di
complementi dell’abbigliamento ricorre
complessivamente in alta percentuale nelle
tombe integre del primo periodo e si colma la
lacuna precedente relativa alla deposizione di
vasellame tipico con la scoperta di due tombe
con vasi decorati a stampiglia della prima
fase cimiteriale e un’altra forse assegnabile
alla seconda. A queste sepolture paiono
associarsi altri indicatori di offerta alimentare,
in attesa di conferme dalle analisi faunistiche
e botaniche.
Tra le caratteristiche che distinguono il
secondo periodo si era già evidenziata
l’espansione topografica di nuovi nuclei di
82
della sostituzione dello scramasax alla spatha
durante la seconda metà del VII secolo e poi
della scomparsa delle armi verso la fine del
periodo, quando il corredo si riduce alla sola
cintura militare. Gli esami sui resti umani ci
dicono che questi armati della seconda metà
del secolo VII esercitavano ancora una notevole
attività fisica, con conseguente sviluppo
muscolare, ma con meno rischi per la vita, dato
che non si registrano più morti violente o
traumi sicuramente riconducibili a scontri in
battaglia
Si ripropone quindi al confronto con altri
siti l’ipotesi che le donne non andate spose
in altri villaggi e madri dei bambini,
rimaste vedove, abbiano scelto di essere
sepolte presso la chiesa - presumibilmente
S. Massimo - cui potevano aver affidato la
propria tutela giuridica e i loro beni,
seguendo un modello sociale ben
documentato per le classi più elevate a
partire dal VII-VIII secolo, al termine del
processo di conversione al cattolicesimo.
L’evoluzione tipologica delle tombe si innova
con l’abbandono delle camere lignee e
l’introduzione delle casse in muratura destinate a scomparire nel periodo successivo che continuano però ad affiancare con
equivalente prestigio sociale le sepolture
terragne, a fossa progressivamente più ristretta.
Anche la distribuzione in più nuclei degli
uomini dall’armamento leggero, dove spiccano
come elementi di distinzione soltanto le cinture
ageminate, suggerisce una sorta di
appiattimento sociale del gruppo nel passaggio
dalle prime generazioni, in cui si distingueva
una famiglia nettamente egemone.
In Piemonte almeno un caso suggerisce
una simile dinamica e riguarda Testona,
che presenta qualche punto di contatto con
il sito in esame, e dove la recente indagine
sulle fasi cimiteriali preromaniche della
chiesa di Santa Maria ha rivelato la
presenza
di
donne
con
caratteri
antropologici affini a quelli di gruppi
umani analizzati in necropoli longobarde,
mentre a breve distanza la grande
necropoli a file ha restituito un numero
esiguo di corredi femminili e per contro
corredi maschili tardi, fino alla fine del VII
- inizi VIII secolo, e tante sepolture prive
di oggetti verosimilmente relative a una
estensione dell’uso del cimitero nell’VIII
secolo, piuttosto che a una composizione
mista della popolazione inumata, come
proposto in passato.
Permangono invece i segni delle relazioni
parentali in una serie di gesti
consuetudinari e simbolici tra i quali la
trasmissione da una generazione all’altra
di qualche elemento di guarnizione della
cintura, confermando il valore coesivo
delle tradizioni del gruppo e l’importanza
dei legami di sangue.
Tornando a Collegno, è comunque
provato dalle tombe con sax ritrovate nei
vecchi scavi che S. Massimo esercitò
attrazione su parte della popolazione
longobarda e forse le attenzioni della
stessa corte regia, attestate da un
frammento di epigrafe dedicatoria, a
prova di una certa libertà e mobilità delle
persone sulla scelta del proprio luogo di
sepoltura, secondo processi culturali
complessi che di fatto consentirono anche
l’ingresso di deposizioni con armi nello
spazio sacro di una chiesa sicuramente
pubblica e battesimale.
Per quanto riguarda ancora le tombe maschili,
nessun altro Saxträger è comparso tra le nuove
sepolture, e rimangono confermati i fenomeni
Ma sono i dati forniti dall’ultima fase
cimiteriale a supportare l’ipotesi di
interpretazione
della
completa
trasformazione da guerrieri a contadini
degli appartenenti alla comunità qui
vissuta
per
molte
generazioni
e
trasformatasi gradualmente da postazione
militare a semplice villaggio rurale, come
dimostrano anche i caratteri fisici degli
ultimi inumati dell’VIII secolo, privi di
corredo ma datati con analisi al
radiocarbonio, che rioccupano le fasce
rimaste libere nelle parti centrali dell’area
83
genetici discontinui indicativi di stretti
rapporti di parentela e quindi di omogeneità
del gruppo e di elevata endogamia. Gli esiti
di traumi e stress provano che le attività
lavorative erano divenute gravose ed intense,
i pesanti carichi portati sulle spalle potevano
indurre fratture alle clavicole, mentre
inadeguate calzature erano la probabile causa
di
frequenti
traumi
e
distorsioni.
L’alimentazione risulta più scadente, con
scarsi consumi di carne e valori che in genere
denunciano un peggioramento del livello
economico del gruppo.
funeraria. Erano trascorsi più di 130 anni,
ma abitavano ancora nello stesso luogo e
continuavano a utilizzare la necropoli
dove erano sepolti i loro avi, seguendo le
antiche regole di ripartizione dei lotti per
famiglie, rispettando gli orientamenti e i
confini tracciati nel VI secolo. Fatto questo
che presuppone interventi di accurata e
costante manutenzione dei sepolcri in
superficie e forse di siepi o steccati di
recinzione dei campi del cimitero.
In serie inizialmente ancora ben allineate
costituite da fosse in piena terra,
prevalentemente scavate di stretta misura
del corpo, si alternano individui adulti
maschili e femminili con proporzioni
reciproche ora meno squilibrate, ma con
una sottorappresentazione dei bambini
dovuta alla fragilità dei resti e soprattutto
alla minore profondità delle fosse, che le
espose all’erosione superficiale e alle
distruzioni agricole.
Tutti questi dati non segnano tuttavia una
discontinuità rispetto ai due periodi
precedenti. Non si può dire che queste
persone non fossero i diretti discendenti
dei Longobardi insediati nel loro stesso
villaggio fin dal tempo della conquista
d’Italia, perché continuavano a seguire
significative consuetudini, con uno
spiccato culto degli antenati che imponeva
non solo il rispetto per le tombe di tutti i
membri della società, ma anche la
manutenzione delle sovrastrutture di
segnacolo, eseguita ininterrottamente per
periodi che potevano superare il secolo.
Assai rilevante per le implicazioni sociali e
religiose è il passaggio dall’inhumation habillée
alla deposizione del corpo avvolto soltanto nel
sudario, che si manifesta senza più dubbi nelle
sepolture dove si osservano la posizione molto
ravvicinata dei piedi, delle braccia
strettamente raccolte contro il tronco o
ripiegate sul petto e le spalle incurvate, con
clavicole verticalizzate.
Proprio questi aspetti ci pare dimostrino la
consapevolezza di identità e di appartenenza
di questo gruppo a una ben definita
discendenza, malgrado le variazioni che nel
susseguirsi delle generazioni investirono
molti aspetti degli usi funerari stessi, ma
anche lo stile di vita delle persone e persino
alcuni caratteri genetici.
Il controllo che si sta compiendo su altri
cimiteri coevi piemontesi correttamente
indagati, permette di conferire una
crescente attendibilità di indicatore
cronologico a questa evoluzione della
composizione dei corpi in atteggiamenti di
umiltà e raccoglimento di ispirazione
cristiana, peraltro da tempo delineata per
l’VIII secolo in area franca.
Le osservazioni raccolte sull’evoluzione
della necropoli longobarda, ma anche sulle
vicende della chiesa di S. Massimo, ci
hanno indotto a ipotizzare che da
un’aggregazione multietnica di nuclei
separati formatasi nel VI secolo, si siano
attivati nel VII progressivi scambi, pur
senza cancellare la coesione e l’identità
delle diverse componenti del popolamento
rurale, che portarono gradatamente a
stemperare e annullare la valenza militare
della fara dislocata sul territorio in fase di
Le ultime generazioni sepolte nella necropoli
evidenziano tendenze alla mutazione di
alcuni caratteri genetici – come ad esempio la
riduzione della media delle stature – dovute
ad apporti esterni, ma nel contempo
continuano a condividere molti caratteri
84
tempo del suolo d’uso di 30/40 cm per
apporti
alluvionali
e
conseguente
variazione delle quote di partenza per lo
scavo delle fosse. Al momento è proprio
questo dato a distinguere le fasi cimiteriali
in due periodi, ma occorrerà procedere a
una verifica caso per caso quando i dati
saranno completi.
conquista finché, nell’VIII secolo inoltrato,
l’abitato divenne poco distinguibile dai
centri rurali contermini.
A seguito della riorganizzazione delle
pievi, la chiusura della necropoli
longobarda e il probabile definitivo
trasferimento delle sepolture al cimitero di
S. Massimo, ci fanno perdere infine le
tracce di questa comunità, mentre
l’erosione subita dai depositi stratigrafici
ci impedisce di seguire la sorte del
villaggio, che in ogni caso non sembra
essere sopravvissuto a lungo, forse
assorbito dalle dinamiche insediative
locali, di cui riemergeranno gli esiti
indiretti soltanto nella documentazione
scritta
della
metà
dell’XI
secolo,
riguardante la distribuzione delle chiese.
Con la prudenza dovuta all’attuale mancanza
di riscontro con datazioni assolute, si osserva
come le deposizioni paiano originare dalle file
orientali, dove si allineano fosse ovoidali
abbastanza ristrette, senza tracce di bare o
strutture lignee, in larga percentuale chiuse da
lastre lapidee generalmente irregolari ottenute
con lavorazione grossolana da scisti e micascisti
probabilmente ricavati localmente da trovanti e
massi erratici depositati dal trasporto fluvioglaciale. Il sostegno delle pesanti coperture in
alcuni casi si avvale di un espediente per ora
non noto in altri siti, adottato per evitare lo
sprofondamento delle lastre, consistente
nell’inserimento di mattoni (sesquipedali, interi
o segati, o di modulo emisesquipedale)
perpendicolari ai tagli delle fosse.
La necropoli di Rivoli – corso Primo Levi
si trova alla periferia sud-orientale
dell’abitato di Rivoli, al piede delle colline
dell’anfiteatro morenico, su terreni in
leggera pendenza da NW verso SE. La
località dista poco più di un chilometro
dall’antica pieve detta “ai campi” di
Rivoli, dedicata a san Martino di Tours, e
precocemente
trasferita
nell’abitato
intorno al 1200: sembrano dunque
ricorrere rapporti topografici simili a
quelli di Collegno, anche se la dedica della
pieve suggerisce questa volta una
fondazione più tarda in relazione con le
dominazioni longobarda e franca.
Procedendo verso ovest compaiono anche
casse in muratura e al centro dell’area
indagata tre tombe presentano coperture
con mattoni romani di recupero disposti a
doppio spiovente e lavorati al colmo,
secondo una tipologia di copertura
diffusissima nelle prime fasi cimiteriali
della cattedrale torinese a partire dalla fine
del VII-VIII secolo. Le tombe attribuite al
secondo periodo comprendono invece
quasi esclusivamente fosse terragne
semplici, raramente coperte con lastre
lapidee, anche se è possibile che la loro
quota di affioramento più superficiale ne
abbia determinato la perdita. Tra le tombe
più recenti, situate presso il limite
meridionale, si segnalano due casi di
impronte scure ellittiche intorno ai bordi
delle fosse, interpretabili come residui di
sovrastrutture in legno di eventuale
contenimento del tumulo, con funzione
forse analoga a quella dei filari superficiali
di pietre osservate intorno ad altre fosse,
L’area di scavo comprende un settore A
già completato con 85 tombe su 680 mq, e
uno B ancora in attesa di ultimazione con
il quale si è raggiunto il numero
provvisorio di 110 tombe. I confini nord e
sud della necropoli furono forse segnati da
due piccoli canali di deflusso delle acque
meteoriche orientati come le tombe, ma
scavati in tempi diversi e poi superati
dall’ampliamento del sepolcreto.
La distribuzione delle sepolture è molto
ordinata, a file composte da 2 a 12 tombe,
senza sovrapposizioni, malgrado possibili
obliterazioni date dall’accrescimento nel
85
cui è prematura qualsiasi ipotesi di
identificazione etnica, si sia stabilita nei
pressi della necropoli nel corso del VII
secolo, con funzioni non militari, ma forse
pubbliche affidate a personaggi distinti
dalle decorazioni in oro dell’abito, che le
precedenti leggi suntuarie romane e
bizantine riservavano alle più alte cariche
civili e militari sotto il controllo imperiale.
Dopo alcune generazioni, ma non troppo
oltre gli inizi dell’VIII secolo, anche questo
cimitero rurale chiude, forse trasferito alla
nuova pieve di S. Martino.
che indiziano la materializzazione di
segnacoli sul suolo della necropoli.
La posizione dei corpi vede prevalere
nettamente quella con gli arti superiori
distesi e le mani spesso portate sul bacino,
mentre mancano le posizioni con
avambracci ripiegati osservate nella fase
più tarda di Collegno e anche l’uso del
sudario, indicato dagli arti inferiori molto
ravvicinati, sembra ipotizzabile in pochi
casi.
Ma le peculiarità di questa necropoli
consistono
nella
pressoché
totale
mancanza di oggetti di corredo, ad
eccezione di un pettine a doppia fila di
denti deposto in una tomba del primo
periodo (T 79), e di complementi di
abbigliamento, ridotti a una sola fibbia di
ferro (T 7) e a un elemento non ancora
identificabile (T 90), in condizioni tuttavia
di violazione delle sepolture che possono
aver asportato altri oggetti. Notevole è
invece la presenza di fili aurei di broccato
in ben 4 casi, riferibili a veli posti sul capo
o a bordi di casacche all’altezza del bacino.
Il catalogo dei ritrovamenti di questo
genere di vesti preziose, non riscontrate a
Collegno e prevalentemente attribuite al
VII secolo, comprende i siti piemontesi di
Pecetto di Valenza, dove ricorre la
mancanza di corredi, e a Mombello, nel
cimitero di un gruppo famigliare
probabilmente investito, come si è detto,
di cariche pubbliche. Se a Mombello le
violazioni hanno risparmiato frammenti di
almeno un ricco corredo d’armi, a Rivoli
non esiste traccia della deposizione di
armi, ma alcuni traumi, anche cranici,
osservati in fase di scavo, potrebbero
derivare da scontri in combattimento.
Un’ultima
inconsueta
particolarità
riguarda l’alta incidenza percentuale delle
7 tombe bisome, con deposizioni
simultanee o pochissimo distanziate nel
tempo, che riguardano anche bambini e
adolescenti e fanno pensare a reiterati
episodi epidemici o a gravi eventi
climatici.
Come ipotesi di lavoro si può dunque
immaginare che la comunità di Rivoli, di
La necropoli di Rivoli – La Perosa,
scavata nei primi anni Novanta e
pubblicata in contributi preliminari, offre
oggi la possibilità di nuove interpretazioni
in base alle precisazioni cronologiche
acquisite in seguito con la datazione al
radiocarbonio dei resti scheletrici. Una
delle ultime sepolture (T 29) del secondo
gruppo di inumati, privi di corredo, è
risultata compresa tra il 678 e il 778, e
ancora più tarde quelle di due individui
femminili deposti accanto e all’interno di
una tomba a cassa in muratura del primo
periodo (T 25: 792-985; T 20: 692-799). Dal
piccolo nucleo orientale delle 7 tombe a
cassa in muratura, di cui due infantili,
vanno quindi espunte le rideposizioni
successive, mentre la cronologia della
prima fase resta affidata ai pochi oggetti di
corredo risparmiati dalla sistematica
violazione dei sepolcri, tra i quali è
compresa una placchetta con estesa
placcatura in argento e almandini degli
ultimi decenni del VII secolo proveniente
dalla T 2, che i confronti con la cintura
della T 17 di Collegno permettono ora di
attribuire al tipo “a cinque pezzi”, anche a
Rivoli in associazione con un sax di cui
restano unicamente i chiodi del fodero.
Soltanto nella vicina T 13 forse
permangono i resti, comunque sconvolti,
delle sepolture originarie di due individui
maschili di età matura, entrambi
dolicocranici, dei quali uno si distingue
per la più alta statura rilevata in tutta la
necropoli. L’individuo 13/A presenta
86
si possa delineare anche in questo caso
un’evoluzione delle condizioni di vita e di
lavoro tendente all’integrazione nel mondo
rurale locale, ma ancora di più si evidenzia in
ogni caso la tenace persistenza dell’identità
autonoma di questa piccola comunità, così a
lungo fedele al proprio luogo di sepoltura.
inoltre gli esiti mortali di una aggressione
alle spalle che lo colpì alla nuca e che
ancora una volta può ricondursi
all’impegno militare del piccolo nucleo
famigliare fondatore della necropoli,
collocata sul sedime abbandonato e
interrato dell’antica via pubblica, e in
significativa vicinanza delle chiuse.
Ragioni di potenziamento delle difese e del
controllo del territorio presso la frontiera
potrebbero aver indotto, in epoca assai più
tarda che a Collegno, lo stanziamento della
Perosa, ma è interessante valutarne
archeologicamente gli esiti nelle generazioni
successive, rappresentate dal più numeroso
gruppo di sepolture terragne che ora risultano
scalate per tutto l’VIII secolo e oltre, le cui
caratteristiche tipologiche con fosse strette e
posizioni degli arti superiori ripiegate sul
petto richiamano direttamente quelle della
terza fase di Collegno. Tornano anche le
percentuali relative ai due sessi, non troppo
sbilanciate a favore dei soggetti maschili e
quindi compatibili con una normale comunità
di villaggio, e si comprendono le cause della
maggiore variabilità dei caratteri metrici del
neurocranio (dati dalla presenza più
consistente di brachicrania e mesocrania)
rispetto ad altri siti longobardi piemontesi,
evidentemente connesse al progressivo
incremento nel tempo di apporti genetici dalla
popolazione locale. Per contro l’elevata
frequenza dei “caratteri discontinui” in un
campione così piccolo è indice attendibile di
legami di parentela tra gli individui.
L’elaborazione dei dati antropologici della
necropoli di Collegno è stata tuttavia
impostata diversamente, lasciando in
secondo piano i più consueti aspetti
paleodemografici e di “inquadramento
etnico” a favore di un’analisi più puntuale
sulle variazioni dello stile di vita dei singoli
individui e dei ristretti gruppi delle
generazioni in sequenza temporale, che
meglio mettono a fuoco proprio le
trasformazioni sociali che qui interessano: i
dati registrati alla Perosa saranno dunque da
ricontrollare in quest’ottica, per verificare se
87
presbiteri), mentre l’intervento di membri
delle classi sociali meno elevate nella
fondazione dei tituli (comunque filtrato
dallo strumento della “colletta”, cioè del
finanziamento collettivo) è stato ipotizzato
in un numero assai limitato di casi: in quelli
(i soli), secondo una interessante proposta
del Pietri, in cui la intitolazione della chiesa
non si ricollegava (come in tutti gli altri casi)
direttamente al nome del fondatore, bensì
ad un toponimo o al santo cui le chiese
erano dedicate (si tratta probabilmente del
titulus Fasciolae, del titulus Apostolorum, di S.
Crisogono e di altri). L’intervento
dell’aristocrazia nel campo dell’evergetismo
monumentale fu assai meno importante nel
suburbio: nei numerosissimi santuari
martiriali dislocati lungo le vie consolari,
esso si limitò, stando alla documentazione,
alla donazione di elementi di arredo
liturgico, all’abbellimento delle tombe dei
santi o degli spazi circostanti; nessuna chiesa
martiriale (delle 46 esistenti alla fine
dell’antichità) venne edificata grazie al
finanziamento di un privato; qui fu
direttamente l’iniziativa dei vescovi (o in
casi eccezionali degli imperatori), dopo
l’eccezionale stagione costantiniana, a
promuovere le costruzioni, destinate a
celebrare le “glorie” della più antica
comunità cristiana della città. A Roma,
ancora, entro l’epoca di Gregorio Magno
(limite cronologico che abbiamo dato alla
nostra inchiesta), si registra l’intervento
delle classi aristocratiche nella costruzione
di due chiese di carattere devozionale (S.
Agata dei Goti, S. Andrea in Catabarbara,
edificate, intorno alla metà del V secolo, dal
senatore goto Valila e dal generale Ricimero,
anch’egli di origine germanica, patricius ed
ex console), di un nosocomio (quello istituito
dalla nobildonna Fabiola), di tre xenodochi
(quelli dei Valeri, degli Anici e quello
fondato dal generale bizantino Belisario) e
infine di tre monasteri (realizzati dalle
patriciae Galla e Barbara e, forse, da Anicio
Severino Boezio).
SEZIONE IV
CHIESA E SOCIETÀ
Il ruolo dell’evergetismo aristocratico
nella costruzione degli edifici di culto di
Roma e del Lazio
Vincenzo Fiocchi Nicolai
1.
Il
ruolo
fondamentale
svolto
dall’evergetismo aristocratico nel dotare la
Chiesa di Roma di edifici di culto funzionali
allo svolgimento della sua missione nel
territorio urbano è stato da tempo
evidenziato, grazie soprattutto ai noti studi,
ancora insuperati, di Charles Pietri. La
generosità
dei
ricchi
benefattori,
appartenenti all’élite della società romana, si
sostituì, a partire dalla metà del IV secolo
(da quando la conversione dell’aristocrazia
si fece vieppiù capillare), a quella
dell’imperatore (Costantino), che, come è
noto, a partire dal 313, aveva largamente
finanziato la costruzione delle prime chiese
cristiane della capitale. Il campo in cui si
dispiegò
maggiormente
l’evergetismo
monumentale aristocratico a Roma fu senza
dubbio, come si sa, quello delle chiese
parrocchiali, i tituli, chiese di quartiere,
dislocate con una certa regolarità nelle
quattordici regioni augustee (e nelle sette
ecclesiastiche, in funzione dalla metà del III
secolo), edifici che svolgevano il ruolo di
veri centri propulsivi della missione, della
pastorale e dell’assistenza ai poveri. Alla
fine del V secolo, i tituli romani erano 25: di
questi, ben 16 erano stati edificati grazie
all’iniziativa di benefattori laici, che, quando
vengono ricordati dalle fonti storiche, si
rivelano,
appunto,
appartenenti
all’aristocrazia. Solo poche chiese titolari
vennero realizzate per iniziativa di
ecclesiastici (il vescovo stesso, alcuni
2.
Nel
Lazio
il
ruolo
svolto
dall’evergetismo aristocratico nel dotare le
88
fondazione dei tituli romani, è il caso della
basilica di S. Stefano al III miglio della via
Latina, alle porte di Roma. Qui fu la
nobildonna Amnia Demetrias, un esponente di
spicco della famiglia degli Anici, a far
edificare, all’epoca di papa Leone Magno
(440-461), “in predio suo”, come ci informa il
Liber Pontificalis, una chiesa dedicata al
protomartire Stefano. Si tratta dell’unico caso
di chiesa parrocchiale rurale ricordata dalle
fonti di cui possediamo anche un’ampia
documentazione archeologica. L’edificio,
come è noto, venne alla luce nel 1857 insieme
alla villa di Demetrias, nel cui cuore era stato
costruito. Nelle indagini si rinvenne anche
l’iscrizione commemorativa della fondazione
religiosa. Essa ci informa che papa Leone
Magno aveva dato attuazione al proposito di
Demetrias, espresso ex voto in punto di morte,
di edificare una chiesa nella sua proprietà
(“ut s[a]crae surgeret aula d[omus]”); essa fu
dedicata a S. Stefano, il protomartire di
Gerusalemme, di cui probabilmente accolse
reliquie, che la stessa Demetrias doveva
essersi procurata nel suo lungo soggiorno in
Africa, e fu edificata sotto la stretta
sorveglianza del prete romano Tigrino
(“Tigrinus, p[resbyter instans]”). Proprio
questo particolare avvicina fortemente le
modalità di fondazione della chiesa a quelle
delle parrocchie urbane (i tituli), la cui
costruzione, finanziata da privati, era tuttavia
spesso eseguita materialmente, come è noto,
sotto il controllo di preti della Chiesa romana.
Lo stesso Tigrinus, del resto, svolse incarichi
simili in vari altri luoghi, stando a quanto
riporta il suo epitaffio metrico, letto
nell’altomedioevo in uno dei cimiteri
paleocristiani della via Latina (“diversis reparo
tecta sacrata locis”). Leone Magno era stato
depositario della donazione di Amnia
Demetrias, come attesta l’iscrizione; tale
donazione, tuttavia, come in altri casi, è assai
probabile fosse stata in qualche modo
sollecitata (orientata) dallo stesso vescovo,
come sappiamo avvenne, per esempio, nel
caso dell’intervento dell’ex console e prefetto
della città Mariniano a S. Pietro, autore della
decorazione musiva della facciata della
chiesa
(l’iscrizione
commemorativa
comunità cristiane di edifici di culto fu
altrettanto importante; esso tuttavia è stato
poco indagato e valorizzato (e su questo
vorrei soffermarmi in questo intervento).
Le
informazioni
deducibili
dalla
documentazione letteraria, d’altra parte,
sono qui enormemente meno abbondanti;
esse permettono tuttavia osservazioni di
un certo interesse.
Il Lazio, come si sa, fu oggetto di un processo
di cristianizzazione assai precoce e capillare.
Già nel 313-314 (all’indomani della pace
religiosa), ben 9 centri (città, ma anche
insediamenti minori) erano sedi diocesi;
entro la fine del VI, ben 42 saranno le sedi
vescovili attestate nella regione. Le fonti
agiografiche, spesso antiche ed affidabili, e le
testimonianze dell’archeologia documentano
la diffusione dei santuari martiriali di origine
precostantiniana sia nelle città che nelle
campagne. Le aree funerarie, numerose e
talvolta
anche
notevolmente
estese,
confermano la presenza capillare di comunità
cristiane nella regione durante il IV e V
secolo. Il processo di cristianizzazione toccò
precocemente anche le campagne: lo
attestano la documentazione archeologica e
le fonti letterarie. Fu tuttavia solo a partire dal
V secolo che, come in altre regioni della
penisola, in ambito rurale, le Chiese locali
organizzarono più compiutamente la
missione attraverso una rete capillare di
edifici di culto. Già nei primissimi anni del V
secolo, come sappiamo da una lettera di papa
Innocenzo I (401-417), la diocesi di Nomentum
registrava un’organizzazione del territorio
per paroecias.
Proprio in ambito rurale il ruolo
dell’evergetismo aristocratico nella fondaione di edifici di culto si rivela nel Lazio
particolarmente incisivo. Qui, delle 8 notizie
che riguardano la fondazione di chiese, 5
fanno riferimento all’intervento di ricchi
benefattori appartenenti all’élite (e tre a
quello diretto dei vescovi di Roma).
Particolarmente interessante, per la sua
antichità e per i raffronti istituibili con la
89
parrocchiale (ed è probabile che la stessa
carenza abbia spinto, tra la metà del V secolo
e gli inizi del VI, i papi a promuovere
direttamente altre chiese sull’Aurelia, sulla
Labicana e forse la Prenestina).
dell’intervento recitava “debita vota quae
precibus papae Leonis... provocata sunt”). La
prassi di orientare le donazioni in rapporto
alle necessità pastorali (nel nostro caso il
bisogno di dotare di una chiesa le numerose
comunità rurali esistenti nel settore del
suburbio romano attraversato dalla Latina) si
rivela del resto ampiamente diffusa, anche in
altri contesti. La chiesa di Demetriade, come è
del tutto evidente, doveva svolgere una
funzione di cura d’anime. Lo mostrano, come
si rilevava, la stessa somiglianza del suo atto
fondativo a quello dei tituli, il coinvolgimento
diretto nell’impresa del papa, soprattutto il
fatto che l’edificio venne dotato di un
ambiente battesimale, che gli scavi della metà
dell’800 e la rilettura delle strutture di R.
Krautheimer hanno mostrato costruito
contemporaneamente alla chiesa, da cui
aveva accesso diretto. La forma particolare
della vasca (ottagonale all’esterno e circolare,
con gradoni ad estremità ricurve, all’interno)
fu adottata, del resto, anche, e proprio in
quegli anni, nella chiesa parrocchiale urbana
di S. Crisogono. La basilica di S. Stefano
aveva dimensioni discretamente rilevanti (m
29 per 19), che consentivano di accogliere un
numero consistente di fedeli; si presentava
divisa in tre navate ed era dotata di un
avancorpo e
di un cripta, certamente
destinata ad ospitare le reliquie di S. Stefano.
Il fatto che l’edificio fosse stato fatto oggetto,
a quanto pare, di una limitatissima
utilizzazione funeraria, e per giunta in epoca
molto tarda, conferma (essendo ben noti i
divieti papali, di poco posteriori, circa
l’introduzione di sepolture in chiese aperte
alla processio comunitaria) il suo carattere di
chiesa pubblica. È probabile che la scelta del
sito, tra le numerose proprietà che gli Anici
avevano a disposizione nel circondario della
città, sia, come si diceva, da ricollegare alle
esigenze pastorali di quel settore del
suburbio romano, particolarmente ricco di
insediamenti nella tarda antichità. D’altra
parte, è forse significativo che proprio questa
zona fosse, alla metà del V secolo, del tutto
sprovvista di chiese martiriali, che, come
sappiamo, svolgevano certamente, in
quell’epoca, anche una funzione di tipo
La lacunosità dei dati in nostro possesso
sugli scavi ottocenteschi e il metodo con
cui essi furono condotti non ci consentono,
purtroppo, di sapere se, e in quali settori,
la villa, nella quale venne edificata la
chiesa, continuasse ad essere utilizzata, e
con quale destinazione d’uso. Si può solo
rilevare che una porzione importante della
residenza, così come è nota dalle indagini
dell’’800, fu destinata all’impianto della
nuova chiesa; e che la scelta della sua
collocazione cadde nell’antico peristilio
della villa, comodamente accessibile,
attraverso l’ampia corte rettangolare
antistante, dalla via Latina. Una scelta che
è evidentemente in linea con il carattere
pubblico della basilica.
Altri quattro edifici di culto rurali
finanziati da membri dell’élite sono
ricordati dalle fonti tra la metà del V e gli
inizi del VI secolo. Circa una quindicina di
anni dopo la fondazione di Demetriade, fu
questa volta un generale di origine
germanica, probabilmente gota, Valila,
divenuto senatore col nome di Flavius
Theodovius, a promuovere la realizzazione
di una chiesa nei dintorni di Tivoli. Si
tratta del medesimo personaggio che,
come si è accennato, aveva donato alla
Chiesa di Roma un’”aula” di una
prestigiosa domus situata sull’Esquilino,
già appartenuta al console Giunio Basso,
perché fosse trasformata in chiesa dedicata
all’apostolo Andrea. La propensione del
goto a mettere a disposizione i suoi averi
(“praedia”) per la comunità era esaltata del
resto
dall’iscrizione
dedicatoria
dell’edificio urbano. Come il generale
germanico Ricimero, anch’egli promotore
in quegli anni della costruzione di una
chiesa nella Suburra, forse destinata
all’uso della comunità ariana (S. Agata dei
Goti), anche Valila, attraverso lo strumento
90
in quegli anni da Demetriade sulla Latina).
D’altra parte, la carta di fondazione ci
informa che l’edificio era dotato di una
confessio, cioè di una piccola struttura o
vano destinata ad ospitare reliquie,
evidentemente quelle del protomartire.
consolidato dell’evergetismo, mirava ad
integrarsi pienamente nell’élite dell’aristorazia senatoria romana.
Della basilica che Valila fece costruire nei
suoi possedimenti tiburtini conosciamo,
come è noto, la carta di fondazione,
pervenutaci nel Regesto della Chiesa di
Tivoli. Già Louis Duchesne sottolineava le
straordinarie
vicinanze
di
questo
documento a quelli riportati dal Liber
Pontificalis a proposito della fondazione di
chiese urbane di epoca costantiniana o
posteriore: come in quei casi, all’edificio
che si andava a realizzare si assicuravano,
da parte del fondatore, arredi e proprietà
immobiliari,
che
garantivano
il
funzionamento e il mantenimento della
chiesa, nonché il sostentamento del
personale addetto. Proprio la menzione,
nella carta, di un presbitero, di diaconi e
chierici minori, al servizio della basilica e
stabilmente residenti presso di essa (per
gli ecclesiastici
Valila aveva previsto
appositi “habitacula”), oltre che, come si
diceva,
l’affinità
del
meccanismo
fondativo a quello delle chiese pubbliche
di Roma, assicura del carattere di edificio
di culto comunitario, regolarmente aperto
alla pubblica processio, della chiesa di
Valila. D’altra parte, questa è ricordata
nella carta di fondazione come basilica, un
termine che in quel periodo sottolinea, di
norma, l’importanza e l’ufficialità di un
edificio di culto.
Nella mancanza assoluta di informazioni
circa il contesto topografico in cui venne
edificata la chiesa di Valila, ancora i dati
desumibili dal documento tiburtino
risultano determinanti. Essi rivelano che la
basilica era sorta nell’area di una villapreatorium dello stesso Valila, di cui questi
si riservava l’utilizzazione. Gli habitacula
destinati al clero confinavano proprio con
il praetorium, che continuava ad essere in
disponibilità del personale addetto. Un
esempio che ci viene dalle fonti di sicura
continuità d’uso di una villa in relazione
ad un edificio di culto costruito nella sua
area; di compenetrazione tra strutture
religiose e residenziali nell’ambito di un
medesimo contesto insediativo; un
modello, seguito, come si vedrà, anche in
altri casi nel Lazio, che sottolinea
ulteriormente il ruolo di centro di
aggregazione sociale svolto nella tarda
antichità dalle grandi ville.
Un’altra chiesa con funzione di cura animarum
doveva essere, come quella di Valila, l’edificio
che, alcuni anni più tardi, nel 496, ai tempi di
papa Gelasio, la spectabilis femina Megetia aveva
fondato, “in possessionibus propriis”, nel territorio
di Sora (Lazio meridionale); tuttavia la donna
vi aveva collocato impropriamente alcune
sepolture, ed il papa, in una lettera inviata al
vescovo locale, ne aveva proibito la
frequentazione pubblica (“publica frequentatione
et processione cessante”). Regolare ruolo di
parrocchia rurale dovevano svolgere invece la
“basilica” dedicata a S. Pietro che, all’epoca di
papa Simmaco (498-514), il prefetto del pretorio
ed ex console del 493, Fausto Albino, della
nobile famiglia dei Decii, aveva fatto edificare,
“de proprio”, insieme alla moglie Glaphira, al
XXVII miglio di una via di discussa
identificazione (probabilmente la Prenestina,
nel tratto che portava a Treba Augusta (Trevi)),
Della chiesa tiburtina di Valila, come si sa,
non possediamo purtroppo alcun riscontro
monumentale, e persino la sua ubicazione
risulta incerta. L’intitolazione della
basilica resta parimenti imprecisata. Tra
quelle ipotizzate sulla base della
documentazione di archivio di epoca più
tarda, la dedica a S. Stefano sembra
largamente preferibile, considerando il
successo che ebbe il culto di questo santo a
Roma e nel Lazio, dopo il noto episodio
dell’invenzione
delle
sue
reliquie,
avvenuto a Caphargamala nel 415 (si pensi
alla medesima dedica della chiesa voluta
91
possedimenti della Sabina e della Tuscia.
Si tratta della patricia Galla, figlia del
console del 485 Quinto Aurelio Simmaco;
la donna, nota da una lettera di Flugenzio
di Ruspe, fu fondatrice con ogni
probabilità a Roma di un monastero
presso la basilica vaticana: il monastero di
S. Stefano “cata Galla patricia”, ricordato da
Gregorio Magno. L’attività di benefattrice
della pia donna nelle terre laziali è
registrata solo nel X secolo da Benedetto
Monaco del Soratte, nel suo Chronicon.
Alla generosità di Galla, secondo
Benedetto, si doveva l’erezione di ben
sette chiese nei territori situati subito ad
ovest e ad est del Tevere: S. Andrea “iuxta
ipso flumen” (S. Andrea in Flumine, sulla
via Tiberina), S. Lorenzo “in agro
Pontianello”, S. Giovanni Battista “iuxta qui
dicitur Terega” (S. Giovanni de La Tregia,
presso l’Amerina), S. Pietro “in territorio
Collinense”, S. Pietro “in Ascuto”, S.
Valentino “infra massa qui dicitur Cornicle,
quae vulgo dicitur Septimiliana” (S.
Valentino a Stimigliano), S. Pietro “in
Tarano”. L’attendibilità di Benedetto è
tuttavia, come si sa, assai discutibile. Se, e
da quali tipi di fonti, egli abbia tratto le
sue informazioni è oggetto di dibattito. È
comunque da notare che, almeno nel caso
della chiesa di S. Giovanni presso il fiume
Treja, i dati di Benedetto hanno trovato
riscontro nelle evidenze archeologiche,
almeno per quanto attiene all’epoca di
costruzione dell’edificio ed al contesto
insediativo. La chiesa è stata infatti
rimessa in luce negli scavi, ben noti,
condotti da Tim Potter a Mola di
Montegelato, su un diverticolo della via
Amerina. Le esplorazioni hanno appurato
che l’edifico fu fondato nel V secolo
nell’ambito di una villa ristrutturata nel
IV; la funzione battesimale della chiesa
(peraltro dedicata a S. Giovanni Battista)
agli inizi del IX secolo è assicurata dalla
istallazione di un fonte, posizionato a
ridosso dell’edificio, anch’esso ricostruito
in quell’epoca. Già l’indimenticato Tim
Potter ipotizzava che la realizzazione della
chiesa fosse stata promossa da un privato,
nonché la chiesa dedicata a S. Lorenzo che, una
cinquantina di anni dopo, fu costruita dal “vir
magnificus Theodorus” in un suo possedimento
del territorio di Gabii. Da una lettera inviata da
papa Pelagio I (di cui Theodorus era consiliarius)
nel 559 al vescovo di quella città, sappiamo
infatti che questa chiesa rurale era rimasta
sprovvista dell’”officium praesbyterii” e che a
questa mancanza il vescovo di Roma invitata a
ovviare
immediatamente
(sollecitando
l’ordinazione di un ex monaco di provata
rettitudine morale di nome Rufino, proposto da
Theodorus) affinché, nelle imminenti festività
pasquali, vi si potessero celebrare regolarmente
i “sacra mysteria”. Informazioni che, in modo
molto eloquente, assicurano del carattere di
edificio pubblico, comunitario anche di questo
edificio rurale.
Oltre a queste notizie sulla edificazione di
chiese rurali da parte dell’aristocrazia nel
Lazio, altre, di attendibilità però meno
certa, si traggono da fonti di epoca
medievale. Una bolla di papa Innocenzo
III del 1201 fa menzione del monastero di
S. Andrea a “in Silice”, al XXX miglio della
via Appia (nel territorio di Velletri), e lo
dice fondato, prima della invasione
vandalica del 455, da un tal Narcissus
patricius “inclite recordationis”. Tuttavia il
monastero è documentato solo dal X
secolo; la chiesa di S. Andrea, invece,
risulta ricordata già da Gregorio Magno in
una lettera del 592; nell’epistola non si fa
però alcun cenno all’esistenza del
monastero, mentre l’edificio di culto vi si
evidenzia come di notevole importanza,
sede temporanea dei vescovi di Velletri.
Sorge, dunque, il dubbio, sempre che la
notizia contenuta nella bolla pontificia
abbia un qualche fondamento, che sia stata
proprio la chiesa (più che il monastero,
sconosciuto a Gregorio) ad essere
eventualmente edificata grazie alla
generosità del patricius Narcissus.
Un altro membro del patriziato romano è
ricordato da fonti medievali come
particolarmente attivo nel promuovere la
costruzione
di
chiese
nei
suoi
92
sull’argomento, per ottenere meriti ai fini
della ricompensa eterna.
il proprietario della villa (anche se poi lo
studioso inglese ha preferito l’ipotesi, più
seducente, che si trattasse di edificio di
culto fatto erigere direttamente dalla
Chiesa di Roma su una sua azienda
agricola). Al di là della veridicità
dell’attribuzione, da parte di Benedetto,
della costruzione della chiesa alla patrizia
Galla, i più affidabili dati archeologici
permettono di rilevare almeno un fatto
interessante: che la chiesetta, come quella
di Flavio Valila, era stata edificata a
ridosso della villa (in un angolo del suo
antico cortile, in un settore marginale) e
che la sua facciata era rivolta, non verso la
villa, bensì verso la strada pubblica che
conduceva ad un vicino villaggio: una
collocazione che sembra significativa del
ruolo pubblico dell’edificio, la cui
fruizione il fondatore, evidentemente,
condivideva con le comunità dei dintorni.
D’altra parte, la presenza dell’edificio di
culto faceva della villa, come nel caso già
citato della chiesa tiburtina di Valila, il
centro anche della vita religiosa della
zona, incrementando così il prestigio del
suo fondatore (collocazione analoga
caratterizzava anche la basilica, più o
meno coeva, rinvenuta a Castelfusano
sulla via Severiana: essa era ubicata
immediatamente fuori dal recinto di un
villa prestigiosa e in vicinanza della
strada).
La prassi, benchè in modo meno diffuso, è
attestata nel Lazio anche in ambito urbano,
in alcune delle città episcopali. In tre dei
soli quattro casi di centri urbani per i quali
possediamo notizie antiche circa la
fondazione di chiese, il ruolo dell’élite
viene a confermarsi. Ad Ostia fu un certo
Gallicano, come attesta il Liber Pontificalis,
a contribuire alla fondazione della chiesa
cattedrale da parte di Costantino, con la
donazione di alcuni terreni le cui rendite
servivano al mantenimento della chiesa (si
tratta della basilica dei SS. Pietro e Paolo e
Giovanni Battista, recentemente rinvenuta
dall’Istituto Archeologico Germanico di
Roma). Una passio del VI secolo fa di
Gallicano
l’unico
protagonista
dell’impresa costruttiva ed anche l’autore
di altre attività benefiche nei confronti
della comunità ostiense. È possibile, come
si è proposto, che egli vada identificato
con il Flavius Gallicanus console del 330.
A Ferentino (Lazio meridionale) si deve
alla moglie di un Valerio Gaio la
riedificazione “de suis propriis” di una
“basilica”, forse anche in questo caso la
chiesa cattedrale, distrutta, come attesta
un’epigrafe assegnabile al IV secolo, “a
saevissma persecutione”. A Fondi fu
addirittura il ricchissimo burdigalense
Meropio Ponzio Paolino, già consularis
Campaniae (cioè S. Paolino di Nola,
ritiratosi a vita ascetica, come si sa, nel
394, presso il santuario di S. Felice), a far
erigere, dieci anni più tardi, una chiesa –
ancora quasi certamente la cattedralededicata agli apostoli. Come egli ci
informa in una lettera, fu proprio il fatto di
possedere una grande tenimento nella
zona di Fondi a spingerlo verso questo
atto di generosità, improntato ad un
sentimento di “civica caritas”.
3. La stragrande maggioranza delle fonti
scritte evidenzia, dunque, il ruolo svolto
dall’evergetismo
aristocratico
nel
garantire, nelle campagne, la presenza di
edifici di culto utilizzabili per le necessità
cultuali e pastorali (chiese parrocchiali). Le
Chiese locali, come quella di Roma e come
quelle di altre regioni della penisola,
mettevano a profitto le possibilità
economiche dei ricchi possesores per dotare
le campagne di strutture idonee allo
svolgimento della propria missione. I
fondatori ricorrevano volentieri, come in
antico, all’evergetismo per ostentare il
proprio rango sociale, ma anche, ormai,
come hanno chiarito i numerosi studi
Come a Roma, ed è fatto da rilevare- anche
nel Lazio non si registrano interventi
significativi
dell’élite
nei
santuari
93
martiriali. Qui l’evergetismo monumentale
aristocratico, sia nelle città che nelle
campagne, si limitò alla donazione ex voto
di
elementi
di
arredo
liturgico,
all’abbellimento di tombe di martiri, alla
donazione di terreni per il sostentamento
di un santuario. In questo campo fu
direttamente l’intervento del clero, e
segnatamente dei vescovi, a promuovere
la costruzione di basiliche martiriali. Ciò
che pare comune ad altre regioni del
mondo antico e che può spiegarsi
piuttosto agevolmente con la volontà,
sempre fortemente mostrata dai vescovi,
di un controllo diretto del culto dei santi.
Il pericolo di una appropriazione delle
devozioni, di una loro “privatizzazione”,
con le deviazioni cultuali che ne potevano
seguire, può giustificare la diffidenza delle
gerarchie ecclesiastiche nell’accettare il
coinvolgimento diretto di privati laici nella
realizzazione dei grandi santuari. È
esemplare, in questo senso, il caso del
santuario di S. Alessandro nella diocesi di
Nomentum, alle porte di Roma: fu grazie
alla donazione ex voto della clarissima
femina Iunia Sabina e di un tal Delicatus che
si costruì l’altare che conteneva le spoglie
dei martiri Alessandro ed Evenzio; ma fu
direttamente il vescovo Urso, come attesta
una grande iscrizione dedicatoria, il
protagonista del grande intervento di
ristrutturazione che, agli inizi del V secolo,
mutò l’assetto dell’importante santuario.
negli anni venti del secolo scorso, si
configurava come un grande recinto a
cielo aperto, contenente sepolture scavate
sul piano di campagna (due di esse erano
coperte con iscrizioni lapidee che recavano
le date del 381 e 385).
Ai ricchi fedeli appartenenti all’élite
rimase, tuttavia, la possibilità di
promuovere la creazione di un’area
funeraria comunitaria, un cimitero, come
sappiamo avveniva a Roma, in seno alla
comunità cristiana, sin dalla più alta
antichità, ed al fine di garantire ai più
poveri dei “fratelli” una adeguata
sepoltura. Il caso di Faltonia Hilaritas che,
presso la mansio Ad Sponsas della via
Appia (territorio di Velletri), fece
realizzare un “coemeterium”, “a solo, sua
pecunia”, per i correligionari (“huic religion
donaviti”), è eloquente; l’area funeraria,
come hanno appurato gli scavi condotti
4. Due parole di conclusione. A Roma e
nel Lazio risultano attivi, soprattutto tra la
metà del IV secolo e la metà del VI,
talvolta
i
medesimi
personaggi
appartenenti
all’élite
aristocratica
(Pammachio, Flavio Felice, Valila, Galla):
segno di una prassi comune in seno alle
comunità, che interessava la città e il suo
hinterland. Gli evergeti, stando alla
documentazione,
sembrano
intenti
soprattutto a promuovere la costruzione di
chiese con funzione di cura animarum
(tituli, paroeciae), forse nel quadro di una
strategia
comune
delle
gerarchie
ecclesiastiche, attestata anche in altre aree,
Il coinvolgimento delle classi sociali più
modeste nella costruzione di edifici di culto
nel Lazio (come già a Roma) risulta, come è
ovvio, scarsamente documentato. Ad un atto
di generosità verso la comunità, in misura
ovviamente commisurata alle proprie risorse,
erano, come si sa, in effetti tenuti anche i meno
abbienti, sempre nell’ottica dell’acquisizione
di meriti nella prospettiva della vita
ultraterrena. I semplici nomi di offerenti che si
leggono nei pavimenti musivi di molte chiese
dell’Italia del nord e della Dalmazia sono stati
a ragione messi in relazione dal Caillet,
appunto, con i membri delle varie comunità
appartenenti agli strati sociali più modesti
(come confermano, talvolta, specifiche
informazioni sui mestieri da essi svolti in vita).
In qualche modo assimilabile a questa
documentazione è possibile sia da ritenere, nel
Lazio, quella fornita da due iscrizioni su
capitelli reimpiegati, conservati in una chiesa
di carattere parrocchiale ad Interocrium
(Sabina), citata nei “Dialoghi” di Gregorio
Magno: i semplici nomi sui due elementi
dell’arredo architettonico testimoniano, forse,
la partecipazione di membri di rango sociale
meno elevato alla costruzione della chiesa.
94
che mirava ad utilizzare la prodigalità dei
possessores per garantire alle comunità
soprattutto strutture cultuali di base. Nel
Lazio, l’ampia diffusione del fenomeno in
ambito rurale può spiegarsi agevolmente,
come ha proposto di recente Luce Pietri,
con la presenza, nella zona, della maggior
parte delle grandi proprietà delle famiglie
di origine aristocratica (ma anche, forse,
con la maggiore libertà che i possessores
godevano, nelle campagne, nel fondare e
poi utilizzare le chiese). Se le città furono i
luoghi dove più precocemente si
manifestò nell’élite la prassi di realizzare
edifici di culto per la comunità, le
campagne paiono investite dal fenomeno
soprattutto dalla metà del V secolo fino
alla metà del VI; epoca che coincide con la
grande stagione della cristianizzazione e
dell’organizzazione del culto dei territori
rurali in Italia ma anche con l’ultimo
periodo in cui l’antica aristocrazia ebbe
modo di manifestare la propria liberalità
per ostentare, in linea con la più genuina
tradizione dell’evergetismo classico, il
proprio rango sociale.
95
significative preesistenze romane. Anche in
Lombardia, dove la mancanza di un corpus
impone cautela sulle conclusioni, la relazione
tra reperti scultorei ed edifici pievani o
monastici appare evidente e in questo contesto
assume un valore emblematico l’eccezione
rappresentata dall’oratorio dei Santi Primo e
Feliciano a Leggiuno (Varese), fondato dal
vasso regio Eremberto nell’846, che lo dotò di
reliquie e di arredi in marmo proconnesio di
fattura bizantina.
Tra clero e aristocrazie: tracce per uno
studio della committenza della scultura
liturgica nel territorio
Monica Ibsen
Questo intervento si propone di analizzare
le dinamiche della committenza degli
arredi liturgici nello specifico contesto del
territorio, rinunciando ad affrontare in
questa sede lo scenario urbano.
Focalizziamo in primo luogo l’attenzione
sugli oratori per cogliere la temperatura
della commmittenza privata in quello che
è, a tutta prima, il suo terreno di
manifestazione privilegiato.
Una verifica su un un’area campione come
il Garda veronese – dove la trasmissione
di oltre 120 frammenti nel territorio di otto
distretti
pievani
offre
una
certa
attendibilità statistica – consente alcune
valutazioni sulla distribuzione della
scultura liturgica, che appare concentrata
nelle chiese battesimali o in centri, come
Garda, sede di magistrature pubbliche,
nonché nelle chiese monastiche. Il ricorso
all’arredo
scolpito
sembra
dunque
subordinato a precise condizioni legate in
primo luogo alla funzione dell’edificio e
allo status sociale del committente.
San Vito di Cortelline, presso la rocca di
Garda, mette chiaramente in luce i
meccanismi della committenza: nell’
oratorio oltre ai frammenti di una
recinzione si conserva la lastra di
chiusura di una nicchia reliquiario
recante l’iscrizione dedicatoria dei
committenti, Ieroldo prete con il fratello
Rotperto e con Gaidiperto: sembra
evidente una commissione nell’ambito
di una cappella familiare, in cui la
presenza di reliquie è destinata a garantire una sepoltura ad sanctos e, dunque,
la salvezza ultraterrena per i donatori.
In questo caso, l’arredo liturgico sembra
dunque chiamato ad accentuare la
presenza numinosa delle reliquie e
l’epigrafe dedicatoria sull’oggetto più
importante dell’edificio di culto diviene
chiara manifestazione di una volontà di
autorappresentazione e di celebrazione
familiare.
Dei 120 frammenti 63 provengono da chiese
battesimali, 43 da cappelle monastiche o da
fondazioni nell’ambito di corti regie –
un’oscillazione
legata
alla
situazione
complessa di San Zeno a Bardolino – mentre
solo 8 elementi appartengono a oratori
campestri di sicura fondazione privata. Una
situazione che trova conferma dall’analisi di
altre aree dell’Italia settentrionale: nell’intera
area veronese, i complessi scultorei sono
connessi a edifici pievani o a fondazioni
monastiche, un scenario in cui s’inquadrano
anche episodi di evergetismo di altissimo
livello, come quelli di Audone, arcidiacono e
futuro vescovo, o di Audiberto abate di Santa
Maria in Organo, attivi nel secondo quarto del
IX secolo. Nel territorio piemontese è stata
evidenziata una concentrazione dei reperti in
edifici battesimali, santuari e chiese
monastiche, mentre un numero minore di
testimonianze sembra interessare edifici posti
lungo gli assi viari o gli insediamenti con
Alla luce dell’identità dei donatori, San Vito
sembra accostabile ai tanti casi noti nella
Tuscia dell’VIII secolo di esponenti del ceto
medio terriero che si ritirano a vita religiosa
adattando ad usi liturgici ambienti della
propria casa o costruendo una chiesa presso
di essa, per mettere al riparo se stessi e la
discendenza da violenze e spoliazioni. La
presenza di reliquie, poi, era destinata a
96
Nel V e VI secolo certamente non tutti gli
oratori sono consacrati o luogo di
celebrazioni liturgiche pubbliche: lo
attestano la lettera di Gelasio al vescovo di
Sora con cui si concede la sola
celebrazione di riti funerari nella chiesa
fondata da Magetia spectabilis femina, e
quella di Pelagio I sull’esclusiva possibilità
di celebrare messe private, escludendo
messe pubbliche anche dalla cerimonia di
consacrazione: tuttavia queste restrizioni
valgono, probabilmente, negli anni di
Gregorio magno ma difficilmente possono
essere invocate nell’VIII secolo, per i quali
al momento non abbiamo risposte.
attirare donazioni e offerte da parte dei fedeli
e a conferire prestigio e si rivelava quindi un
investimento efficace sul piano economico e
sociale almeno quanto sul piano spirituale.
Gli elementi della recinzione sia sul piano
stilistico sia su quello esecutivo si rivelano
di ben modesto livello: non è solo
l’affastellamento dei motivi ma la rinuncia
ad abbassare e a finire il piano di fondo,
che denuncia un lavoro condotto con
modestia di mezzi che contrasta con la
scelta – eccezionale – di marmo: si è
davanti ad evidenza ad un lavoro
condotto con economia di tempi, e ad un
committente di ridotte competenze
culturali nella capacità di valutare il lavoro
fornitogli e forse con disponibilità
economiche che non consentivano ulteriori
fasi di lavorazione dell’arredo stesso.
Caratteri che non trovano riscontro in
nessuno dei frammenti di arredo
provenienti da chiese battesimali.
Va anche tenuto in considerazione che le
risorse potessero essere dirottate su altri
aspetti dell’arredo liturgico: il polittico di
Santa Giulia attesta inequivocabilmente la
presenza di tessuti, oreficerie e libri nelle
cappelle delle curtes, e la loro menzione
negli inventari manifesta anche il rilevante
valore economico di tali dotazioni.
La presenza delle reliquie in questo caso
suggerisce una motivazione alla commissione
di una recinzione liturgica scolpita, che dipende
da una serie di variabili: certamente la presenza
di recinzioni lignee obbliga a riflettere sulle
motivazioni economiche che dovevano
precludere la commissione di sculture in pietra
alla maggior parte dei fondatori di cappelle
private. L’alto costo non può essere tuttavia
l’unica spiegazione: questo almeno sembrano
dimostrare alcuni edifici legati a gruppi
familiari di un certo rango in cui non è stata
trovata traccia di arredo, come Mombello, in
Piemonte. Non è da escludere che una
recinzione fosse vista come accessoria nel caso
di un oratorio familiare, e che invece venisse
approntata qualora la chiesa servisse una sia
pur ristretta comunità, oppure che fossero
determinanti motivazioni liturgiche, legate alla
natura delle celebrazioni o alla presenza di
reliquie. Ad esempio San Gervasio di Centallo,
ancora in Piemonte, venne ricostruita tra VI e
VII secolo ma dotata di una recinzione in pietra
solo nell’VIII.
La fondazione e dotazione di oratoria nei
propri possedimenti non doveva esaurire
le modalità di intervento delle aristocrazie
presso gli edifici di culto.
Ci si deve chiedere quale fosse la relazione
delle elites con le pievi: non è plausibile
che l’evergetismo dei grandi possidenti
che aveva condotto alla fondazione di
edifici battesimali entro ville o al
finanziamento partecipato dei mosaici
pavimentali delle basiliche episcopali e
funerarie si sia esaurito nel VI secolo: il
tessuto pievano nel VI e VII secolo era ben
lontano dal raggiungere l’articolazione che
emergerà nell’VIII, e dunque, con
modalità che tuttora sfuggono, nel periodo
tra la fine del VII secolo e i primi decenni
del IX deve collocarsi un processo di
promozione di luoghi di culto di
fondazione privata o vescovile a centri
battesimali. In territori in cui non siano
presenti fondazioni monastiche in grado
di attirare donazioni pro remedio animae e
di innescare iniziative di committenza, è
97
intervento all’interno dei complessi
pievani: le espressioni “cum suis” e quelle
più circostanziate che ricordano i parenti
nella dedica di arredi da parte di
ecclesiastici, sono da leggere come
testimonianza del coinvolgimento dei
gruppi
familiari
aristocratici
nella
promozione
artistica
delle
chiese
battesimali, che ben si spiega attraverso le
modalità di reclutamento del clero minore.
La formazione fin dall’infanzia nella
chiesa battesimale, la frequente elezione
da parte del popolo dei fedeli, la nomina
da parte del fondatore o di un suo erede in
caso di chiesa privata, attestate almeno dal
VI secolo e fino all’età carolingia,
dovevano certamente favorire la relazione
tra l’ufficio presbiterale o diaconale e le
famiglie notabili locali; è possibile allora
ipotizzare che il presbiter da un lato orienti
l’evergetismo dei familiari, dall’altro
divenga il canale attraverso cui le élites
possono
intervenire
nelle
chiese
battesimali. Per altro verso la relazione con
le strutture diocesane e l’ambiente delle
cattedrali potè favorire una preparazione
culturale del clero pievano tale da
renderlo in grado di commissionare opere
d’arte, elaborare o valutare modelli e
schemi e dettare tituli ed epigrafi.
probabile che questo ruolo, almeno in una
certa misura, sia stato assolto dalle pievi,
dove i grandi possidenti locali avevano
modo di imitare l’azione dei grandi
dignitari del regno, sia pure con modalità
peculiari, commisurate al contesto. Un
esempio tardoantico di coinvolgimento
delle élites nella promozione artistica delle
chiese locali è fornito dal mosaico della
pieve di Inzino (Bs) e l’esempio bresciano
del sarcofago di Mavioranus nella pieve di
Gussago (VIII secolo) testimonia come gli
esponenti di una piccola aristocrazia
guerriera e terriera radicata sul territorio,
potessero imitare i comportamenti della
grandi elites del regno nelle chiesa
battesimali. Qui l’iniziativa privata poté
trovare espressione attraverso alcuni
canali precisi: 1) donazioni di reliquie con
strutture per la loro deposizione ed
esposizione; 2) donazione di arredi di
prestigio; 3) monumenti funerari.
Un capitolare di Pipino del 782
riconosceva del resto l’obbligo di
provvedere ai restauri nelle chiese
battesimali e negli oratori a coloro che fino
allora se ne erano fatti carico, stabilendo
inoltre la permanenza dei poteri che vi
avevano sino allora esercitato tanto la
corte regia, quanto i privati: è un dato che,
se non consente di precisare le modalità,
attesta esplicitamente che l’intervento dei
laici non era confinato alle chiese di
fondazione privata.
L’intervento di Teupo si inquadra senza
equivoci nell’ambito dell’evergetismo
ecclesiastico, su cui è disponibile una
discreta serie di episodi documentati
anche nel contesto delle chiese battesimali,
sia nei territori della Langobardia, sia nella
Romania: si pensi alle epigrafi di Invillino,
di San Giorgio Valpolicella, di Ravenna,
Cortona, Bagnacavallo, Budrio, ecc. tutte
legate ad arredi databili entro il primo
quarto del IX secolo.
Ancora nel Garda orientale, l’evergetismo
privato in un contesto battesimale sembra
sotteso alla fondazione del sacello di San
Pietro presso la pieve di Cisano: di esso
un’iscrizione del X secolo – che in parte
copia un’epigrafe più antica – ricorda
l’edificazione votiva e la deposizione di
reliquie di san Pietro da parte di un
presbitero, il cui nome è perduto, “cum
suis”, e il restauro da parte di un altro
prete, Teupo, che interviene “pro anima sua
et parentibus suis”. L’episodio più antico
attesta la stretta relazione tra élites e clero
locale e la possibilità per le prime di
La scansione cronologica di queste
testimonianze epigrafiche, che coincide
pienamente con la documentazione su
altri ambiti di committenza ecclesiastica,
sembra peraltro suggerire che il “vuoto del
VII secolo” corrispose ad un momento di
stasi nell’attività evergetica all’interno del
98
del ceto di possidenti abbia seguito l’esempio
dell’aristocrazia e sia entrato nei quadri
ecclesiastici, non solo dei monasteri, ma anche
della chiesa locale, utilizzando quest’ultima
come rifugio per le proprie ricchezze?
Nonostante l’elevato grado di continuità
rilevato nella società longobarda, che mantenne
e talora incrementò i propri beni dopo la
sconfitta del 774, è possibile ipotizzare anche
per esponenti del “ceto medio terriero” la
messa in atto di strategie affini a quelle
dell’aristocrazia? La documentazione dell’VIII
secolo, con le numerose fondazioni di oratori
vincolate al diritto di nominare il rettore tra i
propri discendenti, sembra indicare una
tendenza in questo senso: se questo
atteggiamento, che tradisce la preoccupazione
di assicurare la trasmissione del patrimonio ad
una linea di discendenza, negli anni del
passaggio dal regno longobardo alla dominazione carolingia si fosse radicato, si potrebbe
individuare un altro dei canali che assicurarono
alle chiese battesimali risorse per la provvista di
arredi che si evidenzia negli ultimi decenni
dell’VIII secolo. Questo potrebbe divenire
anche una delle radici della continuità
figurativa che si riscontra in aree come quella
veronese, dove fino agli anni quaranta del IX
secolo non si avverte traccia del linguaggio
figurativo carolingio.
tessuto medio della società laica ed
ecclesiastica, evidentemente non in grado
(per mancanza di risorse, per difficoltà
nella stessa pratica religiosa) di imitare gli
esempi di evergetismo della corte di Pavia
e di alcuni vescovi: d’altra parte già dalla
fine del V secolo le lettere di Gelasio I, e,
soprattutto, nel VI l’epistolario di Gregorio
magno mettono in luce la penuria di
sacerdoti nelle chiese battesimali, una crisi
che appare superata tra la fine del VII e
l’inizio dell’VIII, quando la rete pievana
apparirà finalmente consolidata e stabile.
Le numerose sottoscrizioni di presbiteri – per la
maggior parte titolari di chiese pievane –
consentono di leggere l’attività del clero locale
come riflesso e corrispettivo di quella dei vescovi
nelle chiese episcopali, ma si deve riflettere sulla
posizione del clero stesso rispetto all’ordinamento
diocesano e alle aristocrazie locali: la
documentazione epigrafica, con l’evidente
uniformità delle pratiche evergetiche del clero
della Langobardia e della Romania, definisce un
contesto in cui non pare avere alcuna influenza il
quadro politico e in cui gli ecclesiastici si orientano
verso commissioni prestigiose e ne lasciano
memoria, associando spesso al proprio nome i
familiari. La frequente enumerazione delle
autorità civili ed ecclesiastiche indica, inoltre, una
sicurezza del proprio ruolo e una consapevolezza
del valore dell’opera realizzata, quasi una
personale dichiarazione di appartenenza al rango
delle autorità.
In
conclusione
nel
contesto
della
committenza di arredi liturgici mi sembra
possibile individuare proprio nel clero
l’elemento trainante, in primo luogo per
competenze culturali, in grado di coagulare
le risorse economiche e le energie delle
aristocrazie locali, il cui intervento comunque
appare massiccio e determinante.
D’altra parte, la legislazione ecclesiastica
destinava al rettore della pieve non
trascurabili risorse, utilizzabili per interventi
evergetici e non è da escludere che, agli inizi
del IX secolo, la legislazione carolingia sulla
decima, offrendo garanzie di stabilità e
continuità di risorse liquide, abbia in qualche
modo favorito le iniziative di rinnovo degli
arredi liturgici, contribuendo all’escalation
della produzione scultorea dei primi decenni
del IX secolo.
La complessità dello scenario e delle
motivazioni può essere illustrata al meglio da
un ultimo esempio: Santa Giustina di
Palazzolo conserva un’ingente serie di arredi
scultorei, realizzati in fasi successive ma
ravvicinate; tra questi ci sono due singolari
lastre con ogni probabilità destinate a
chiudere dei depositi reliquiario nella
muratura. Queste lastre furono realizzate
sullo scorcio dell’VIII secolo insieme con altri
In
relazione
esclusivamente
all’Italia
longobarda, s’impone un’altra osservazione: è
possibile che, almeno in parte, il livello medio
99
elementi: è plausibile che sia stata proprio la
presenza di importanti reliquie a consentire
alla chiesa di assumere dignità battesimale a
scapito della pieve di Sandrà, cui sottrasse un
modesto lembo di territorio, a ridosso della
via Gallica. La provvista di arredi potrebbe
coincidere con la promozione dell’edificio a
chiesa pievana: il contrasto tra la ricchezza
degli impianti liturgici e l’esiguità di risorse
che un territorio così limitato poteva
assicurare al rettore sembra offrire la
conferma di un intervento delle aristocrazie
cui ricondurre l’intera operazione.
100
sterminata e comprende opere che
costituiscono vere e proprie “pietre
miliari” della medievistica italiana – o di
argomento
italiano
dell’ultimo
quarantennio. Basti pensare a quella di Del
Treppo sul Molise, del 1968, di Toubert sul
Lazio, del 1973, di Castagnetti e di Settìa
sull’Italia padana, rispettivamente del
1982 e del 1984 nonché i lavori di Kurze
sulla Toscana meridionale, distribuiti tra la
fine degli anni ’60 e gli anni ’80, di
Wickham sull’Etruria Meridionale e
sull’Abruzzo interno, apparsi tra la fine
degli anni ’70 e la metà degli anni ’80.
Questo aspetto si riconferma pienamente,
ad esempio, con i più recenti lavori di
Martin sulla Puglia, del 1993, di Feller
sull’Abruzzo costiero, del 1998 e di Adele
Cilento sulla Calabria, pubblicato nel 2000.
La gestione dei patrimoni fondiari
della Chiesa (domuscultae papali e
curtes monastiche)**
Federico Marazzi
L’argomento del mio intervento, indicato nel
titolo che avevo inizialmente proposto, si è
rivelato di gran lungo troppo ambizioso per
poter essere appropriatamente trattato nel
tempo e nello spazio disponibili all’interno
del programma del convegno. In ragione di
queste considerazioni, ho deciso di scegliere
un “taglio” che lo delimiti entro un preciso
terreno di riflessione.
Più appropriatamente, quindi, l’oggetto di
questa
comunicazione
si
potrebbe
intitolare: “La rappresentazione dei
patrimoni monastici nella documentazione
scritta e l’evoluzione del tessuto
insediativo rurale fra IX e XI secolo
dell’Italia
centrale
e
meridionale.
Riflessioni preliminari a partire da alcuni
prvilegi di confirmatio bonorum imperiali e
papali”.
La rilevanza delle intersezioni tra la ricerca sulle
fonti scritte ed il crescente lavoro sul campo
condotto dagli archeologi, a partire dalla fine
degli anni ’70, per la definizione dei processi
evolutivi delle forme insediative altomedievali,
è altrettanto ben nota. È d’uopo sottolineare
come un’indiscussa centralità, per la
concretizzazione questo fecondo incontro,
abbia rivestito il tema della comprensione di
tempi e morfologie di formazione dell’
insediamento nucleato, nell’arco di tempo
compreso fra VIII e XI/XII secolo.
L’apporto delle fonti scritte per la
conoscibilità delle forme d’uso del
territorio nell’alto medioevo – con
particolare
riguardo
alle
forme
dell’insediamento ed alla storia agraria - si
nutre in gran parte delle informazioni
fornite dai cartulari di origine ecclesiastica;
tra questi, quelli riferibili ad enti monastici
rivestono un ruolo senza dubbio di tutto
rilievo. La bibliografia che dimostra questo
assunto, quasi ovvio da ribadire, è
È forse superfluo, di fronte ad un pubblico
composto in buona parte da medievisti,
rievocare quando e per opera di chi si sia
verificato il compiersi questi destini
incrociati, ma forse vale la pena rammentare
che alcuni di essi sono stati costruiti in vitro,
con l’intento di confrontare viste diverse sullo
stesso problema e – perché no – sperando che
i diversi percorsi potessero mutualmente
corroborarsi.
ATTENZIONE: in questa stesura provvisoria del
testo, le citazioni delle fonti e della bibliografia sono
state lasciate “en abrégé”. Le citazioni dei diplomi
pontifici, regi e imperiali sono dati in generale solo
in rapporto alle edizioni delle cronache monastiche
dalle quali tali documenti sono stati tratti
nell’ambito della presente ricerca; le loro citazioni
nell’ambito delle più recenti edizioni critiche
saranno fornite in sede di redazione definitiva del
testo. Chiedo di voler scusare le eventuali
vischiosità espositive di questo testo, dovute alla
compressione dei tempi della sua stesura
**
Vengono
immediatamente
in
mente
esperienze come quelle avviate da Martin e
Noyé sugli insediamenti della Puglia tra
bizantini e normanni, da Wickham e Hodges
sull’alta valle del Volturno, da Francovich e
Ceccarelli Lemut, sulla Maremma Grossetana,
101
comparativi tra i dati delle fonti scritte e quelli
delle fonti archeologiche.
principalmente in rapporto scavo di Scarlino e
mi permetto di ricordare anche la personale
esperienza di studio, sulla scia di più illustri
predecessori quali Luttrell, LLewellyn e
ancora Wickham, sull’insediamento nel
territorio a nord di Roma, in connessione con
lo scavo di Mola di Monte Gelato, sotto la
direzione del compianto Tim Potter.
Va detto tuttavia che tali progressi sono
dovuti più che altro agli stimolanti esiti
delle indagini condotte su pochi siti (e su
ancora meno pubblicati in modo
sufficientemente ampio), che sono assurti
a riferimenti paradigmatici su scala
nazionale, come Brucato, Invillino,
Montarrenti, Poggibonsi. In realtà, la
comprensione
del
fenomeno
dell’incastellamento è ben lungi dall’essere
pienamente focalizzata nei diversi quadri
regionali, e molti di essi sono ancora
totalmente oscuri. Peraltro, negli ultimi
anni, si è anche notato un certo
affievolimento
dell’interesse
nella
prosecuzione del confronto fra storici ed
archeologi, per la prosecuzione del
comune lavoro nella lettura comparata
delle testimonianze che, nelle rispettive
discipline,
possano
contribuire
ad
accrescere le conoscenze sulla evoluzione
delle morfologie insediative nell’Italia
dell’alto medioevo, ed in particolare della
parte finale di esso.
In particolare, ricchezza e densità
d’informazioni rilevabili sia sul territorio
che nelle fonti scritte – per l’alto medioevo
generalmente già edite – relative agli
insediamenti castrali, e la capacità che tale
soggetto di ricerca possiede di sollecitare
collegamenti con altri temi storici di
grande rilievo, come quello degli equilibri
tra poteri locali e tra questi e le istanze
politiche a dimensione sovraregionale,
hanno giocato senza dubbio un ruolo
decisivo per conferire ad esso una
indubbia centralità nella medievistica
italiana o di argomento italiano,
soprattutto tra la seconda metà degli anni
’70 e la prima metà dei ’90 del XX secolo.
Dunque, in virtù delle peculiari modalità di
conservazione delle fonti scritte, il nesso tra
conoscenze sui patrimoni monastici e dati
sulle morfologie insediative altomedievali
appare profondissimo. Ciò ovviamente non
significa, di per sé, identificare nelle istituzioni
monastiche le uniche entità propulsive,
soprattutto in ambito rurale, di investimenti,
riorganizzazioni e trasformazioni della rete
insediativa fra VIII e XI secolo, bensì solo
riconoscere doverosamente che attraverso
quanto sopravvive sulla documentazione
della loro gestione patrimoniale, costituisce un
punto di vista privilegiato sulla leggibilità di
questi fenomeni.
Con il presente intervento, vorrei cercare
di offrire un contributo che possa servire a
riaprire la riflessione su tale “fronte
congiunto” di ricerca, prendendo le mosse
dalla rilettura di un particolare tipo
documenti, presente in più o meno tutti i
principali cartulari monastici dell’Italia
centromeridionale: i privilegi di confirmatio
emessi per questi enti particolarmente dai
rappresentanti pro tempore delle due
autorità universali per eccellenza del
medioevo occidentale: gli imperatori (o i
re d’Italia) e i romani pontefici; ad essi si
accostano, in taluni casi, documenti di
analoga natura emessi dai principi di
Benevento. Mi concentrerò principalmente
sulle evidenze documentarie di questo
tipo relative a Farfa, Montecassino, San
Vincenzo al Volturno, Santa Sofia di
Benevento e, sia pure solo indirettamente,
di San Clemente a Casauria.
Parlando in particolare della fenomenologia del
villaggio accentrato altomedievale, i progressi
recenti dell’esplorazione archeologica hanno
ampliato notevolmente le vedute sull’estensione
cronologica e le tappe formative di tale tipo
insediativo, fornendo piani di lettura che hanno
messo profondamente in discussione la
possibilità di costruire comodi automatismi
102
livello di autenticità del singolo documento
nel suo complesso e nelle sue singole parti.
L’entità di tale problema è stata recente
risollevata da Zielinski, nell’analisi dei falsi
precetti longobardi e carolingi per
Montecassino e San Vincenzo al Volturno
(CDL IV,1, pp.*85-156). Ricordo solo di
sfuggita, infatti, che questi corpora
documentari non sono quasi mai costituiti da
carte originali, ma sono frutto di trascrizioni e
sono stati inseriti all’interno di compilazioni
di vario tipo, redatte generalmente fra XII e
XIII secolo, con il precipuo scopo di difendere
la memoria del rilievo politico di queste
istituzioni e, contestualmente, proprio la
capacità di controllo sull’asse patrimoniale,
accumulatosi in molti secoli di storia. Non mi
dilungherò in questa sede (lo farò se mai al
momento di redigere il testo definitivo della
presente comunicazione) a ricordare nel
dettaglio l’opera di Leone Ostiense o Pietro
Diacono a Montecassino, del monaco
Giovanni a San Vincenzo al Volturno, di
Gregorio da Catino a Farfa, di Giovanni di
Berardo a San Clemente a Casauria o
dell’anonimo compilatore del chronicon di
Santa Sofia di Benevento. Ciascuna di queste
opere segue un suo metodo, ma alla base di
tutte vi è il pesante intervento di revisione,
selezione e ricostruzione del patrimonio
documentario – vecchio talora di quattro
secoli – conservato presso gli enti in cui essi
lavoravano.
Il mio obbiettivo è quello di portare
l’attenzione sui criteri di definizione delle
proprietà monastiche presenti all’interno
di questo tipo di documenti, e di proporre
delle suggestioni relative alla utilizzabilità
di tali criteri per un arricchimento delle
possibilità di comprensione delle gerarchie
insediative all’interno dei patrimoni
monastici.
Tali documenti, importantissimi per la storia
religiosa e delle relazioni politiche delle
istituzioni monastiche cui si riferiscono, hanno
goduto forse di minor considerazione
nell’ambito delle ricerche relative non tanto
alla storia patrimoniale delle stesse, quanto
alla morfologia dell’insediamento che
all’interno delle pertinenze abbaziali si è
sviluppato durante i secoli dell’alto medioevo.
A questo fine, infatti, maggior rilievo è stato
conferito agli atti privati, considerati da questo
punto di vista più efficacemente descrittivi, e
quindi più densi di informazioni sulla
struttura e sull’organizzazione produttiva
dell’insediamento, ma anche sulla posizione
sociale e i ruoli operativi delle persone che vi
abitavano, sulle politiche gestionali dei beni
patrimoniali e sugli eventuali interlocutori
scelti o in vario modo utilizzati dagli
amministratori monastici per l’attuazione di
tali politiche.
I documenti pubblici di confirmatio bonorum,
rivestono invece una certa importanza per la
storia patrimoniale per se degli enti monastici,
in quanto di frequente contengono le liste,
talora anche abbastanza lunghe e dettagliate,
delle loro pertinenze patrimoniali, che gli abati
– o i loro delegati – facevano avallare dalle
autorità cui si rivolgevano, affinché il possesso
di tali beni venisse loro riconosciuto sine
molestia.
I diplomi di confirmatio imperiali e papali
si occupano grosso modo di due ordini di
problemi, peraltro intrecciati tra loro: la
definizione
dello
status
giuridico
dell’abbazia, nei confronti dei poteri
temporali e spirituali, e la ricognizione
della sua base patrimoniale.
Sfortunatamente non possediamo serie di
diplomi simmetriche per tutti gli enti
monastici presi qui in esame. I dati farfensi
sono quelli che possiamo seguire per un
periodo di tempo più lungo e sono
apparentemente i più affidabili sotto il
profilo diplomatistico: possediamo infatti
documenti autentici già per il tardo VIII
Questi documenti sono certamente quelli che
pongono i maggiori problemi di esegesi
all’interno dei corpora documentari cui
appartengono, e ciò in virtù dei molteplici e
complessi piani di lettura cui si prestano:
primo fra tutti quello squisitamente
diplomatistico, relativo all’accertamento del
103
ovvero come casalia o ancora come curtes. Non
a caso il documento papale utilizza però l’altra
denominazione. Attraverso di essa, infatti, si
vuole certificare la propria capacità di riferirsi
ad un ordinamento antico del territorio
sabino, della cui conoscenza la Chiesa
Romana è detentrice, in virtù del fatto che essa
ha ereditato la sovranità sui territori laziali - di
cui la Sabina tiberina viene ritenuta parte
integrante - precedentemente sotto il controllo
dell’Impero Romano d’Oriente. Lo strumento
per gestire tale sovranità è la sottoposizione,
dell’insieme dei territori interessati al progetto,
alla rete dei patrimonia papali, che
originariamente designavano i beni tenuti
dalla Chiesa Romana in regime di proprietà
privata. Il patrimonium si territorializza
andando ad includere tutto un comprensorio
geografico, sul quale vengono esatti dei censi a
titolo non di pensio, bensì di tributum. A Farfa
viene quindi imposto il censo annuo, come se
il possesso delle sue proprietà le venisse
“accordato” (concessum) dietro preventivo
riconoscimento di una loro originaria
appartenenza ad un publicum che è in capite al
papato.
secolo, e la serie si estende sino all’inizio
del XII secolo. Per gli altri monasteri,
sfortunatamente, vi sono maggiori dubbi
sull’autenticità dei praecepta confirmationis
che li riguardano, il che comporta che
l’esame delle condizioni giuridiche cui il
monastero è sottoposto e della sua
geografia patrimoniale è effettivamente
possibile solo a partire dal X secolo, con
pochi frammenti di evidenza per le fasi
carolinge.
Inizierò quindi dalla serie dei documenti
farfensi, nella quale il primo documento di
confirmatio bonorum che riporti una precisa
menzione di beni oggetto di conferma da
parte di un sovrano, è un privilegio
rilasciato da Ludovico il Pio nell’815, che
menziona nominativamente solo una serie
di quattro monasteri (due presso Spoleto,
uno presso Rieti, uno nel territorio di
Fermo), una chiesa (presso Rieti), nonché
un gualdo e due curtes in Sabina. Poco
dopo, nell’817, il papa Stefano IV emette
per Farfa un preceptum che è concessionis et
confirmationis dei beni fondiari elencati.
Esso comprende una lunghissima lista di
beni, costituita da 170 fundi, 2 gualdi e 13
casales, tutti ricadenti in area sabina, il cui
possesso viene sì riconfermato all’abbazia,
ma per il quale essa dovrà corrispondere
alla Chiesa Romana un censo ricognitivo
annuo, in quanto parte del patrimonium
sabinense della Chiesa Romana.
Farfa, come è noto, rifiuta recisamente tale
impostazione del problema. Nello stesso 817,
morto Stefano IV e salito al soglio Pasquale I,
l’abate sabino Ingoaldo ottiene l’esenzione dal
censum, quantunque l’atto di Stefano IV
dovesse essere stato l’ultimo di una serie che
risaliva probabilmente ai tempi di Adriano I. È
interessante notare che il privilegium
confirmationis di Pasquale (RF 225) assume un
aspetto affatto diverso da quello del
predecessore, caratterizzandosi come un
intervento sostanzialmente a difesa delle
prerogative di libertà spirituale del cenobio
farfense all’interno non più dei patrimonia su
cui la Chiesa reclamava il proprio controllo
politico, ma all’interno di tutti quei comitatus
italici – quindi le circoscrizioni pubbliche
carolingi – all’interno dei quali Farfa vantava
delle pertinenze patrimoniali.
Per evidenziare ciò, la lista delle pertinenze
farfensi viene stilata definendo le stesse “alla
romana”, cioè come un elenco costituito in
schiacciante maggioranza (circa il 92%) da
beni definiti come fundi, citando perfino –
quando non fossero stati detenuti per intero
dall’abbazia - quante unciae di essi fossero
effettivamente in possesso di Farfa, come se le
notizie ad essi relative fossero state tratte da
formae censuales romane perfettamente
aggiornate, di cui la cancelleria papale avesse
la disponibilità. Nei documenti farfensi
precedenti all’817 tali beni erano solo di rado
definiti in questo modo, ma li troviamo
menzionati piuttosto come generici loci,
Il regesto di Farfa e il Chronicon Farfense
riportano traccia degli interventi imperiali,
sollecitati dall’abate Ingoaldo durante gli
104
pure l’imperatore conferma la pertinenza a
Farfa,
ma
solo
dopo
averglieli
formalmente riconcessi. I beni del publicum
restano tali per sempre agli occhi del
sovrano, e la disponibilità per il monastero
deve essere da lui riconfermata, in quanto
– in linea di principio – tali beni
potrebbero essere ricollocati a favore di
altri. Tale costume era certamente vigente
nel mondo franco, ma non mancano
esempi di analoghe decisioni anche in
ambito longobardo (Grossi, Le abbazie,
pp.59-61). Così, ad esempio, avevano
operato nell’VIII secolo, il duca Gisulfo II
di Benevento nei confronti di beni che il
suo predecessore Godescalco aveva
donato a San Vincenzo al Volturno (RDIM,
331 e 344) e Arechi II nei confronti di
quello di San Giovanni a Porta Aurea di
Benevento (RDIM, 368). Questo modus
operandi derivava da tradizioni proprie già
del fisco imperiale tardoantico e i papi lo
avevano certamente applicato nell’ambito
della gestione dei patrimonia beati Petri in
epoca bizantina, ben prima che questi si
trasformassero nello strumento per
costruire una nuova ipotesi di controllo
territoriale sul Lazio (Marazzi, Patrimonio,
pp. 152 – 153).
anni ’20 del IX secolo, al fine di riportare
l’abbazia fuori dalle panie in cui
l’amministrazione
pontificia
voleva
incastrarla, ribadendo la sottoposizione
del cenobio esclusivamente all’autorità
imperiale.
Peraltro Farfa – non dissimilmente da altri
monasteri – vedeva le proprie pertinenze
fondiarie, anche nei confronti del potere
imperiale, sottoposte a diversi regimi
giuridici. Chiarisce il problema il
privilegio di conferma dei beni farfensi
emesso da Lotario I nell’840 (RF 282), a
sanatoria finale della diatriba con il
papato, riapertasi ancora con ulteriori
iniziative di Pasquale I.
L’intervento imperiale ricorda la revestitio
di Farfa della proprietà dei beni posti in
questione dalla Chiesa romana tam in
territorio sabinensi quam et in Romania sitas,
ma ribadisce la tuitio imperiale sul
cenobio, così come avveniva sin dai tempi
dei re longobardi e poi di Carlo Magno.
Ma l’abate Ingoaldo vuole di più e chiede
che la conferma della quieta possessio dei
beni avvenga, da parte dell’imperatore,
nominatim et singillatim, onde evitare futuri
tentativi da parte di chiunque (ma del
papato in primis) di mettere in questione i
diritti abbaziali. Così viene compilata una
lunghissima lista di beni che si apre con la
ripetizione della lista di fundi contenuta
nella
confirmatio
di
Stefano
IV;
all’arcaizzante elenco pontificio viene
associato il gruppo di chiese e monasteri a
suo tempo confermato da Ludovico il Pio
e poi un lungo elenco di res conferite al
monastero, con i nomi che ad esso le
avevano condonatae, senza descriverne in
alcun modo l’effettiva consistenza ed
articolazione patrimoniale sul terreno.
Dunque, si capisce perfettamente sotto quali
spoglie il papato avesse tentato di
presentarsi all’abbazia di Farfa e perché gli
imperatori fossero stati così solleciti
nell’intervenire per ripristinare le loro
prerogative sull’assiette foncière del cenobio
sabino, appena le circostanze politiche lo
avevano consentito alla morte di Stefano IV.
La lista di fundi del territorio sabinense
ricompare ancora, pressoché tale e quale,
in un ulteriore privilegio di confirmatio
bonorum emesso per Farfa da Ludovico II
fra 857 e 859 (RF 300). Nel frattempo, se
guardiamo alla successione degli atti che il
Regesto Farfense contiene, riscontreremo
sempre più chiaramente che essa si
configura come un fossile, laddove
l’effettiva morfologia dei patrimoni
abbaziali vede prevalere una dimensione
Alla fine, il documento si chiude con
un’importante precisazione, secondo la
quale si differenzia il regime entro il quale
il monastero detiene i beni conferitigli
dalle autorità pubbliche nel corso dei
decenni della sua esistenza, per i quali
105
Per quanto riguarda invece la descrizione
delle pertinenze patrimoniali, si ha in
primo luogo la riproposizione della lista di
fundi proveniente originariamente dal
privilegio di Stefano IV, per descrivere
l’articolazione dei beni fondiari nell’area
più prossima al monastero, mentre
compare per la prima volta un lungo
elenco di possessi dislocati in varie aree
geografiche dell’Italia centrale, interessate
da un patrimonio ormai notevolissimo,
benché forse non pienamente efficiente, a
causa di alcuni decenni di conflitti interni
alla comunità monastica. Questo elenco di
beni “lontani” da Farfa si presenta con la
caratteristica di essere articolato in
monasteri, chiese e curtes. Tra queste
ultime (40 su 53, dunque tre su quattro),
prevalgono nettamente quelle la cui
denominazione è costituita da un
agionimo, e che quindi – assai
presumibilmente – erano a loro volta
denominate a partire dalla chiesa che si
trovava all’interno
del centro di
coordinamento domaniale. Quindi, su 68
proprietà elencate, 54 (il 79 %) sono
identificabili attraverso il luogo di culto
principale che vi domina.
di generale superamento delle partizioni
fondiarie di origine antica. Non entrerò
qui nel profondo del dibattito sulla natura
più o meno conforme a modelli
ultramontani di una gestione di tipo
curtense del patrimonio del monastero
sabino, ma è certo che prevalesse un tipo
di sistema che prevedeva l’esistenza di
centri di coordinamento domaniale di
parti di esso, definibili come cella o curtis.
Il documento RF 270 dell’829, ad esempio,
è un giudicato per la restituzione a Farfa
di alcuni beni: in esso se ne menzionano
alcuni, elencati anche nel privilegio di
Stefano IV come fundi, che appaiono
invece in quest’ultimo come curtes.
Il quadro descrittivo dei beni farfensi
propone
persistenze
ma
anche
significative mutazioni con il privilegio di
confirmatio bonorum emesso da Ottone I nel
967 (RF 404). Le persistenze sono da
riscontrarsi su due piani: quello della
definizione delle condizioni giuridiche di
detenzione dei beni, e quello della
modalità descrittiva degli stessi. Per
quanto concerne il primo aspetto, vengono
ripetute – esattamente come nei privilegi
di età carolingia – tutte le formule relative
alla protezione imperiale sulla libertà del
monastero, ma anche alla detenzione dei
beni fiscali in regime di concessio et
confirmatio, cui si aggiunge la menzione
(già presente a partire da un privilegio di
Carlo il Calvo dell’875 – RF 318)
dell’intento imperiale di restituire al
monastero quicquid vero de predicti
monasterii possessiones fiscus noster acquirere
poterat, affinché ciò possa essere utilizzato
per i poveri che il monastero sostiene (in
alimonia pauperum) e per gli stessi monaci.
Per brevità mi limito solo a segnalare –
senza entrare nel dettaglio – l’analogia
della destinazione in alimonia pauperum
delle rendite fiscali con formule di
documenti pontifici di VIII – IX secolo
relative alla destinazione delle rendite di
beni fondiari.
Con il privilegio di Ottone III per Farfa del
998 (RF 425) si cambia definitivamente
registro: le proprietà farfensi sono
costituite solo da un elenco di 73
proprietà, suddivise per territoria e
comitatus, idetificate come curtes (52),
ecclesiae (17) e monasteria (2), più due terrae.
Delle curtes, 34 sono identificate da un
agionimo. Sommate alle ecclesiae e ai
monasteria, arriviamo ad un totale di 53,
che costituisce quasi il 73% del totale: un
quadro non dissimile da quello del
diploma di Ottone I. Sono scomparse tutte
le liste di res, inserite a partire dal diploma
di Lotario dell’840, nonché la lista di fundi
comparsa per la prima volta nel diploma
di papa Stefano IV, ma probabilmente
risalente a una trentina di anni prima.
È interessante notare che, effettuando un
censimento complessivo dei toponimi
106
imperatori franconi nel 1084 (Enrico IV, RF
1099) e nel 1118 (Enrico V, RF 1318), dove si
elencano ben 323 luoghi di culto dipendenti
dal monastero, tra cui anche il monastero di
San Vincenzo al Volturno! È interessante che
134 di questi si trovano in Sabina, territorio per
il quale il diploma menziona solo due castelli,
sui 29 in tutto di cui si cita il nome, quasi tutti
curiosamente collocati in aree periferiche
(zone di Todi e di Offida) rispetto ai
tradizionali ambiti di gravitazione degli
interessi patrimoniali farfensi.
pertinenti le proprietà incamerate da Farfa nel
corso dell’VIII e del IX secolo, si ottiene non
solo che chiese e oratori costituiscono una
minoranza nell’insieme della documentazione
(siamo al di sotto del 20% del totale dei
toponimi), ma che spesso sono citate come
elemento interno alla proprietà di cui trattasi,
vale a dire che normalmente si ha menzione
del tale locus, o fundus, o casalis o ancora curtis
o massa, cum ecclesia, e non viceversa, come
appare predominante nei privilegi di epoca
ottoniana, in cui la chiesa sembra essere
l’elemento identificativo della curtis, quando
non denominante un intero insieme
proprietario. Sappiamo bene, dagli studi di
Toubert (Structures, pp. 883 - 893) e Feller
(Abruzzes, pp. 815 - 825), come la
proliferazione delle chiese, dovuta soprattutto
all’iniziativa dei privati (anche se poi
frequentemente incamerate dai monasteri), sia
un fenomeno che conosce un’accelerazione,
per le aree laziali e abruzzesi, nel periodo
postcarolingio, del resto non differentemente
da altre aree d’Italia (Sergi, L’aristocrazia, pp. 3
– 22). Ma è un dato di fatto che il periodo
compreso proprio tra i regni di Ottone I e di
Ottone III sia quello, per Farfa, della nascita
degli insediamenti castrali (Del Treppo, Terra,
pp. 45 – 52; Fabiani, La terra, I, pp. 157 – 171;
Toubert, Dalla terra, pp. 52 – 72). Tra i privilegi
di Ottone I e Ottone III, ve ne è uno del
secondo sovrano di questo nome, datato al 981
(RF 413) assai più sintetico. I beni non sono
partitamente elencati, ma sono solo ricordati i
distretti pubblici in cui ricadono. Fa eccezione
un gruppo di nove chiese e una curtis
nominate individualmente, delle quali tre nel
territorium sabinense, e le altre sette che quasi
sembrerebbero citate per coprire i principali
territoria nei quali tradizionalmente Farfa
deteneva beni fondiari. Questo privilegio è il
primo nel quale, tra gli annessi delle
pertinenze possedute nei vari ambiti
territoriali, vengono genericamente citati
anche i castella, ma non è ad essi riconosciuta
alcuna particolare rilevanza nella definizione,
vis-à-vis dell’imperatore, dei patrimoni
monastici. Tale stato di fatto, definito dal
privilegio di Ottone III, si riconferma e si
consolida nei privilegi emessi per Farfa dagli
Questa organizzazione descrittiva del
patrimonio monastico, basata su chiese,
monasteri e curtes identificate con chiese,
appare come un dato assolutamente
nuovo, che è però destinato ad affermarsi
e che trova riscontri precisi anche nei
privilegi di conferma di beni emessi per
San Vincenzo al Volturno, Montecassino e
Santa Sofia di Benevento, proprio a partire
dall’età ottoniana.
Mi
asterrò
qui
dall’esaminare
dettagliatamente tutti i documenti noti per
i tre monasteri, cosa che riservo per la
stesura definitiva del presente testo, e mi
imiterò a rievocare i complessi problemi
relativi alle interpolazioni che possono
essere presenti nelle liste di dipendenze
che compaiono in ciascuno di essi, solo
quando sia strettamente necessario.
Per San Vincenzo al Volturno e
Montecassino disponiamo, oltre che di
privilegi imperiali, anche di analoghi
documenti emessi da pontefici. Le prime
liste
di
conferme
di
pertinenze
patrimoniali sono estremamente succinte
per ambedue i cenobi. Iniziano alla fine
del IX secolo per Montecassino, con un
privilegio di Giovanni VIII (882), e con un
privilegio di Marino II (944) per San
Vincenzo al Volturno. Le dipendenze in
essi citate (rispettivamente 7 e 9) sono
costituite da chiese e monasteri dalla
storica connessione con la casa madre. Con
l’epoca ottoniana, per ambedue i cenobi, si
assiste ad una crescita significativa nelle
107
Certamente, non tutto l’universo delle
proprietà monastiche degli enti qui presi
in esame è ugualmente coinvolto dalla
“ristrutturazione dell’habitat per castra”
(Toubert, Dalla terra, p. 52), e che in molti
ambiti tale fenomeno sembra anzi essere
largamente marginale. Per portare un caso
concreto, basti pensare alle proprietà di
san Vincenzo nella media valle del
Volturno, tra Venafro e Capua, al di là del
blocco fondiario dell’alta valle noto come
terra Sancti Vincentii. Tuttavia, non si
riesce ad evincere con chiarezza, dalla
documentazione privata, come agisse,
nella pratica concreta della gestione dei
patrimoni monastici di X e XI secolo, il
ruolo ordinatore e coordinatore delle
ecclesiae, ovvero dei monasteri dipendenti
e delle curtes comunque organizzate
intorno a delle chiese. Probabilmente uno
sforzo d’analisi della struttura di tali
patrimoni a cavallo del mille, che non si
limiti solo a considerare la vita all’ombra
dei castelli è d’uopo venga promosso.
elencazioni di dipendenze all’interno dei
diplomi imperiali, costituite sempre da
chiese e monasteri, ovvero da celle (Ottone
II, CV 143 del 982), che sono però noti, da
altri documenti, sempre come enti di
natura ecclesiastica. Con un diploma di
Ottone III per Montecassino (RPD 125) e
con uno di Enrico II per San Vincenzo al
Volturno (CV 185, del 1014), la lista delle
pertinenze si accresce in maniera
esponenziale, giungendo a 35 per
quesrt’ultimo e a 63 per Montecassino. In
queste liste, che si incrementano
ulteriormente sotto gli imperatori della
casa di Franconia e i primi papi della
riforma, nella seconda metà dell’XI secolo,
superando le 100 dipendenze per
Montecassino e le 60 per San Vincenzo al
Volturno, permane costante e immutata la
caratteristica di veder elencate solo
pertinenze di tipo ecclesiastico, talora
definite come cellae.
È praticamente assente – tranne eccezioni
numericamente insignificanti - qualsiasi
menzione di altre tipologie di beni, castelli
compresi, che pure sappiamo essere
presenti in modo cospicuo nelle
pertinenze dei due monasteri. La serie di
documenti contenuta nel Chronicon di
Santa Sofia di Benevento non contiene
praecepta confirmationis imperiali o privilegi
pontifici che presentino liste di pertinenze
anteriori rispettivamente a Ottone I (CSS,
IV 1, 972) e Leone IX (CSS, V 2, 1054). Del
resto, è proprio a partire dalla metà del X
secolo che Santa Sofia diventa monastero
autonomo da Montecassino. I criteri
compositivi delle liste delle pertinenze di
questo monastero sono quelli già visti per
gli altri cenobi e così sono anche i ritmi di
crescita del numero delle chiese
dipendenti tra X e inizi XII secolo.
La discrasia tra il quadro offerto sulla
struttura proprietaria dei grandi monasteri
dalla documentazione emessa dalle
autorità sovrane, rispetto a quello che
emerge dalla lettura della documentazione
di origine privata non potrebbe essere più
profonda.
Ma se la documentazione pubblica
conferisce a queste entità patrimoniali
un’evidenza così esclusiva, dovevano
esistere, per giustificare tale orientamento,
ragioni forti, in base alle quali doveva
costruirsi proprio l’ascendente sociopolitico di cui i grandi monasteri godono
sul territorio tra X e XI secolo.
Sfortunatamente, le fonti esaminate non
forniscono indizi diretti rispetto alle scelte
che presidevano alla modalità di
descrizione dei patrimoni dei maggiori
enti monastici nella maniera che abbiamo
sin qui visto.
La ricerca va probabilmente orientata
cercando di comprendere la funzione delle
chiese dipendenti, in relazione all’assetto
giuridico di base delle grandi fondazioni
monastiche. Su questo tema voglio perciò
formulare qualche ipotesi di lavoro, da
sottoporre comunque ad un ulteriore vaglio
critico. Come si è accennato, trattando dello
specifico caso di per Farfa, queste grandi
abbazie crescono fra epoca longobarda e
108
delle discrasie tra questa lista e quelle che
appaiono nei documenti di X secolo, ciò che
interessa è notare la somiglianza tra la
tipologia delle liste di questi due documenti e
quella dei primi privilegi papali di esenzione
dalla giurisdizione dell’ordinario per San
Vincenzo al Volturno e Montecassino.
carolingia su una base patrimoniale di
partenza costituita da terreni fiscali. Questo
dato è certo per la fondazione di Santa Sofia di
Benevento da parte di Arechi II e per San
Clemente, per opera di Ludovico II. La
documentazione per Montecassino e San
Vincenzo al Volturno adombra la medesima
condizione di partenza, riaffermata dalla
sottoposizione diretta all’imperatore dei due
cenobi al momento della divisio ducatus
beneventani dell’849, anche se vi è purtroppo
una debolezza di fondo dell’affidabilità dei
documenti pubblici di epoca longobarda e
carolingia concernenti i due cenobi. Secondo
un’analisi condotta da Giovanni Vitolo nel
1984 (Vitolo, Caratteri, pp. 19 – 28 e n. 52), è
plausibile affermare che il piccolo nucleo di
monasteri che troviamo aggregati a
Montecassino e San Vincenzo al Volturno a
partire dalla seconda metà del IX / prima
metà del X secolo avesse a sua volta un’origine
pubblica. Su questa embrionale “famiglia
monastica”, almeno nel caso di Montecassino,
interviene il papato, probabilmente già con
Nicola I, e certamente con Giovanni VIII,
dichiarandone l’esenzione dall’intromissione
vescovile e la possibilità di svolgere un ruolo
pastorale
pubblico.
La
sanzione
dell’indipendenza
della
“famiglia
ecclesiastica” vulturnense, come si è detto, si
materializza con certezza nel corso della prima
metà del X secolo, anche se è plausibile
ipotizzarne un’ulteriore antichità, risalente allo
stesso Giovanni VIII (Picasso, Il pontificato, pp.
238 – 239; Houben, Potere politico, pp. 192 –
193). Vi è comunque un documento più antico
di confirmatio bonorum, conservato nel
Chronicon Vulturnense, risalente al regno di
Ludovico il Pio (a. 819), del quale si considera
sostanzialente l’impianto, quantunque viziato
da interpolazioni (Zielinski, CDL IV/2, p.
104*; RDIM 584). Questo documento ci
riconduce all’analogo emesso dallo stesso
sovrano per Farfa nell’815, che si ricordava
all’inizio; si tratta di un privilegio di conferma
di una breve lista di possessiones (8 in tutto,
contro le 5 di Farfa): si tratta di chiese e cellae e
non chiese e monasteri, come nel caso del
documento farfense, delle quali viene
dichiarata la titolarità al monastero. Al di là
L’ipotesi interpretativa che se ne può
trarre è che si formi, già nel IX secolo, un
nucleo sottoposto ad un particolare regime
di libertà, tutelato dall’autorità imperiale,
costituto dalla casa madre e da alcuni enti
ecclesiastici dipendenti. Su questo (ma
solo in alcuni casi particolari) s’innesta la
concessione della libertà dall’ordinario
territoriale, da parte del pontefice.
In epoca ottoniana, di tale nesso – con le
sue
prerogative
giuridiche
è
sperimentata l’espandibilità verso la
“periferia” del patrimonio monastico,
creando vaste reti di figliolanza spirituale
tra l’abbazia madre e le istituzioni
ecclesiastiche alle sue dipendenze, delle
quali è parimenti garantita l’indipendenza
nei confronti dell’ordinario territoriale.
Che anche la tipologia della curtis o cella
cum ecclesia avesse rilevanza, all’interno
del sistema sin qui descritto, soprattutto in
relazione alla presenza di quest’ultima, ce
lo dice un privilegio di papa Gregorio VI
per Farfa (RF 1239), del 1045 – 1046,
importantissimo per la sua chiarezza, in
cui si sancisce la libertà di convocare
qualsiasi vescovo per consacrare gli altari
delle chiese, non tantum in comitato
Sabinensi, sed etiam in Marchia et in omnibus
cellis suprascripto cenobio subiectis, vel
ubicumque aiiquam possidet possessionem
ecclesiasticam.
Questo sistema, che come dice giustamente
Vitolo, ha radici autoctone, si aggancia, nella
seconda metà del X secolo, allo sviluppo che
in Europa, in questo stesso periodo, presso le
più importanti abbazie andava affermandosi,
anche sulla scia dell’esperienza cluniacense,
oltre che in direzione di un’assunzione di
109
(RF 877), ma ciò non significa che l’abate
di Farfa sia mai stato ufficialmente
insignito con titolature di tipo episcopale.
Così come non avviene per gli abati di San
Vincenzo al Volturno, che nell’iconografia
degli inizi dell’XI secolo (Frammento
Sabatini) sono ancora rappresentati con il
bastone “a tau”, e non con il pastorale, che
compare sicuramente nelle miniature del
Chronicon Vulturnense agli inizi del XII
secolo. Quello che interessava era
l’indipendenza e l’unitarietà della gestione
della rete ecclesiastica dipendente dalle
grandi fondazioni per tradizione legate ai
sovrani, affinché essi potessero contare, in
tempi non facili, da questo punto di vista,
su uno strumento in più di ancoraggio al
territorio. Probabilmente – ma lo dico solo
in via del tutto congetturale –
l’incoraggiamento di un sistema di
configurazione del patrimonio monastico
attraverso una rete di rapporti tra casa
madre e chiese dipendenti, poteva aiutare
a istituire una forma unitaria di controllo
di beni incamerati per varie vie e detenuti
sotto regimi giuridici diversi da quello
della pertinenza al fiscus della casa madre
stessa. E che i sovrani ottoniani
intendessero esercitare da vicino il proprio
controllo su questi monasteri e i loro
patrimoni ce lo dicono ad esempio
l’intervento di Ottone I di ascrizione del
monastero di Sant’Angelo di Barrea alle
pertinenze cassinesi, e la sostituzione
dell’abate di San Vincenzo al Volturno da
parte di Ottone III nel 998.
prerogative di tipo signorile nella gestione dei
patrimoni fondiari, anche di un esercizio de
facto della cura delle anime che risiedevano al
loro interno. Su questo terreno, com’è stato di
recente puntualizzato da Paolo Cammarosano
(Nobili e re, pp. 303 – 319), s’innesta il più vasto
progetto riorganizzativo e riformatore delle
grandi fondazioni monastiche italiane,
sostenuto direttamente da Ottone I e dai suoi
successori, che coinvolge direttamente centri
come Farfa, Bobbio (Piazza, Monastero e
vescovado, pp. 33 – 43) e Nonantola.
Gli Ottoni, nel loro progetto di
ricostruzione del controllo imperiale sulle
terre italiane sostengono ed anzi
incoraggiano questo tipo di sviluppo delle
prerogative delle fondazioni monastiche
tradizionalmente
legate
al
potere
imperiale, e sull’assetto delle quali gli
imperatori ritengono di avere margini di
intervento particolarmente incisivi.
Per Casauria, nota Feller (Les Abruzzes, pp.
830 – 831) che la definitiva asserzione della
libertà monastica nei confronti del potere
vescovile è associata all’intervento, nel 967, di
Pandolfo Capodiferro, che è il principale
vettore nell’Italia del sud dell’iniziativa
politica di Ottone I, ed è effettivamente a
partire da questo periodo a cavallo rea X e XI
secolo che il monastero abruzzese vede
moltiplicarsi la “famiglia” di chiese
dipendenti,
incoraggiando
donazioni
individuali – principalmente aristocratiche in tal senso, incanalando nell’alveo dei
patrimoni monastici il fenomeno della
proliferazione delle chiese private.
Per concludere, lo sviluppo di quelli che
Vitolo
(Caratteri,
p.
21)
molto
efficacemente ha definito “embrioni di
congregazioni”, si accompagna alla
rivoluzione insediativa del X secolo, ma la
travalica, a mio avviso, per il fatto
d’imporsi come elemento politicamente
più rilevante, per definire l’identità
organizzativa dei grandi monasteri e dei
loro patrimoni.
Il processo qui rievocato non finisce però
per omologare de iure abati a vescovi. Si
preferì mantenere nell’ambito della
fattualità l’evoluzione delle prerogative
territoriali degli abati dei grandi
monasteri, che talora nello stesso periodo
si sono peraltro molto espanse nell’ambito
dell’esercizio dei poteri stricto sensu
signorili. Almeno dal 1027 il papa aveva
concesso all’abate di Farfa ex integro
pontificale ornamentum cum baculo proprio
La ricerca sull’articolazione topografica di
queste reti ecclesiali tra X e XI secolo, sulla
110
struttura materiale delle singole entità che
le componevano, e quindi sulle funzioni
socio-economiche e la rilevanza in termini
di investimento che esse rappresentavano
è ancora assai indietro. Pochi grandi
lavori, come quello di Bloch su
Montecassino e alcuni – peraltro preziosi –
inquadramenti
generali
di
Feller
sull’Abruzzo e di Martin sulla Puglia, che
spero di poter presto personalmente
contribuire arricchire di nuovi dati sui
possessi vulturnense tra Molise e
Campania, permettono oggi solo di
avviare una riflessione su questo visage
caché dell’insediamento altomedievale.
Credo che la sfida sia interessante e, come
dicevo all’inizio, potrebbe costituire una
buona ragione per rilanciare l’appetibilità
di uno sguardo incrociato – tra diversi
approcci epistemologici – sugli equilibri
socio-politici
che
caratterizzano
il
territorio nella fase conclusiva dell’alto
medioevo.
111
Per quanto la documentazione materiale
resti del tutto inadeguata, ancora, per
sviluppare compiute osservazioni su tutti
questi problemi, scopo principale di
questo intervento sarà quello di operare
una verifica sulle capacità o meno che
hanno i documenti archeologici (o alcuni
di questi) di descrivere tali fenomeni. Una
valutazione effettiva del loro carattere e
del loro significato, infatti, può essere
utile, sia per evitare di usare tali
documenti in maniera sbagliata (o anche
solo esornativa e complementare rispetto
ad altre serie di fonti), sia per orientare
meglio le osservazioni e indirizzare
opportunamente le risorse.
SEZIONE V
GESTIONE E SIGNIFICATO
SOCIALE DELLE PRODUZIONI,
DEI COMMERCI E DEI CONSUMI
Gestione e significato sociale delle
produzioni, dei commerci e dei consumi:
una introduzione
Sauro Gelichi
L’intervento, inteso come introduttivo ad
una sezione, si prefigge lo scopo di
analizzare le relazioni tra i sistemi della
produzione, l’organizzazione e i caratteri
della
distribuzione
e,
infine,
le
connotazioni sociali dei consumi.
Si cercherà di affrontare queste tematiche
analizzandole
in
prima
istanza
separatemene, attraverso le principali
categorie di manufatti che hanno visibilità
nel record archeologico, come ad esempio
la ceramica, il vetro, il metallo, e per il
nord Italia, anche la pietra ollare. Si
analizzerà dunque la produzione (come è
organizzata, chi sono i produttori etc.); poi
si affronterà l’aspetto della distribuzione,
cercando di comprendere qual è il sistema
che garantisce la diffusione di determinati
prodotti; infine si tenterà di capire se esiste
(e, in questo caso, in che cosa consista) una
differenziazione sociale nei consumi (tra
città e campagna, ad esempio, ma anche
tra categorie sociali differenziate).
Questo approccio terrà conto di alcune
limitazioni. La prima sarà di ordine
cronologico, nel senso che si discuterà
essenzialmente la situazione a partire
dall’età longobarda (cioè dal VI-VII
secolo), anche se non mancheranno
riferimenti alla situazione precedente.
L’altra limitazione è che utilizzeremo
preferibilmente le fonti archeologiche.
Questi fenomeni sono stati infatti
sufficientemente analizzati (per quanto è
possibile sulla base del grado di
conservazione delle fonti) attraverso i
documenti
scritti.
Sul
versante
archeologico, invece, l’approccio ha fino
ad oggi prodotto una documentazione
frammentata e poco coerente. Gli
archeologi si sono spesso limitati a
verificare l’esistenza di un fenomeno e a
descriverlo (ad es. la circolazione della
pietra ollare, i caratteri qualitativi della
produzione
ceramica,
la
presunta
scomparsa dei contenitori anforici etc.),
piuttosto che tentare di spiegarne il senso
in relazione ai contesti sociali ed
economici che l’hanno prodotto.
Alla fine si cercherà mettere a confronto il
quadro complessivo della situazione con i
vari modelli di tipo economico prodotti
fino ad oggi dalla storiografia (connessioni
con l’economia di tipo curtense, rapporti
con i mercati cittadini etc.).
112
Distribuzione ed utilizzo
moneta tra V e IX secolo
proprio la conquista del Regnum
Langobardorum ebbe sul sistema monetario
complessivo di Carlo Magno, sia tutta la
successiva evoluzione della monetazione
medievale in Italia.
della
Andrea Saccocci
Sulla base delle evidenze archeologiche, lo
sviluppo monetario dell’Italia centrosettentrionale, durante l’Alto Medioevo,
sembra presentare un andamento anomalo
rispetto al resto dell’Occidente Europeo.
Se il punto di partenza (l’Italia Goticobizantina) e quello di arrivo (i secoli
immediatamente successivi al “Mille”)
sono caratterizzati da un’economia
monetaria
perfettamente
dispiegata,
probabilmente senza confronti al di fuori
di Bisanzio, in tutta la fase centrale la
moneta
sembrerebbe
aver
assunto
nell’area un ruolo secondario, limitato alla
funzione di riserva di valore, se non di
puro prestigio. Tale andamento, non
riscontrabile ad esempio nel regno dei
Franchi Merovingi, appare difficile da
spiegare, al punto da porre la questione se
la sola “moneta coniata ufficiale” possa
sempre e comunque ritenersi spia (o
“termometro”, secondo la definizione di
Marc Bloch) del reale stato dell’economia
monetaria e quindi dello sviluppo degli
scambi.
Indagando i rinvenimenti monetali e le
caratteristiche della moneta ufficiale in
ambito longobardo e poi franco e
confrontando tali dati con quelli
provenienti da aree rimaste soggette
all’Impero bizantino, in effetti, sembra di
poter concludere che in particolari
condizioni la moneta “di Stato” può non
rappresentare un termometro dello
sviluppo economico reale. In questo senso
appare probabile che le transazioni
monetarie, in senso lato, non siano mai
scese nelle regioni Italiane centrosettentrionali ai livelli molto bassi
ipotizzati in passato, ma che al contrario
abbiano mantenuto un certa vitalità, tale
da giustificare sia l’enorme impatto che
113