Nel mondo della donna bipolare
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Nel mondo della donna bipolare
18 Domenica 10 Agosto 2008 Gazzetta del Sud Cultura . La scrittrice Marya Hornbacher ha raccontato in un libro intenso e coraggioso la lotta col “male” ambiguo della sua psiche Negli Stati Uniti Nel mondo della donna bipolare Morto Mahmoud, poeta “nazionale” palestinese L’autolesionismo maniacale e poi le fasi calanti della depressione. Ma uscirne si può Maria Gabriella Scuderi Si teme la follia per l’imprevedibilità del suo manifestarsi, per il suo rendere il soggetto “altro da sé”, e quindi non riconoscibile a se stesso e agli altri. È proprio questo l’aspetto più inquietante del disturbo mentale, sia per chi ne è vittima sia per lo spettatore partecipe che finisce talvolta per essere inglobato nel suo contesto di disfunzionalità. Ma qualsiasi sintomo ha un codice con il quale si esprime e attraverso il quale il più delle volte può essere riconosciuto e contenuto. La possibilità del “controllo” rende così la malattia meno terrificante, privandola di quel tratto “demoniaco” che gli studi pionieristici sul disturbo mentale avevano a lungo considerato e talvolta frainteso. Tuttavia, superato l’oscurantismo della vecchia psichiatria, permane ancor oggi nel male della mente quell’elemento di “indecifrabilità” che, mentre inquieta, mortifica e nega o addirittura “uccide” l’amore per la vita. La tensione vitale, però, sebbene sepolta sotto le macerie di un Io debole e smarrito, di tanto in tanto fa capolino anche nel disturbo più grave e chiede di poter riemergere potente contro il seme maligno, che costantemente affonda nell’inerzia il suo potenziale attivismo. È infatti un’intensa vitalità quella che spesso cova sotto le ceneri della malattia dell’anima, una pulsione interna che, riproponendo la vita, spinge alla lotta, alla sfida, alla volontà di “vincere” e “guarire”. La stessa forza che probabilmente ha sentito la scrittrice Marya Hornbacher nel momento in cui ha deciso di rendere il suo “male interno”, potente e distruttivo, un libro intenso, dai risvolti talvolta drammatici, ma tanto pieno di vita, sia nella descrizione delle ripetute “cadute”, che in quella delle nascoste “risorse” della sintomatologia. “Una vita bipolare” (Corbaccio, 343 pagine, euro 18,60) è infatti un vero “memoir”, una scrittura “fedele” ed evocativa di un’esistenza at- traversata dalla malattia, e vissuta in balìa degli stati d’animo contrastanti e opposti che caratterizzano il disturbo “bipolare”. Un’opera di “non-fiction” – come l’autrice stessa l’ha definita in una sua recente intervista – in cui tutto è assolutamente vero, ma in cui ugualmente la verità viene “ricercata”, per le inevitabili fallacie della memoria, che talvolta trasfigura fatti e personaggi. Di personaggi intensi se ne in- «Quella cosa ed io abbiamo i margini confusi, e adesso siamo diventate un tutt’uno... » contrano nello scritto, ma rimangono sempre sullo sfondo rispetto al protagonismo del male che “affonda” il soggetto e poi lo fa riemergere in un’altalena di stati d’animo sempre più distruttivi. Lo scenario si apre – proprio come nei noir – sulla descrizione dei comportamenti autolesionistici della donna, che affonda la lama del coltello nei suoi avambracci, come per segnare un sentiero, o trovare una strada maestra lungo il serpeggiante scorrere del sangue sul corpo e sul pavimento. Ma subito la vita impone le sue ragioni: aggrappandosi alla cornetta del telefono il soggetto abbandona per un attimo la sua follia distruttiva per chiedere un “rimedio” a quell’immensa fuoriuscita di sangue, che dilaga ovunque tutt’intorno a seguito della lacerazione di un’arteria. Ci dev’essere stato un pensiero primario, una successione di eventi, una logica – ipotizza la donna – che ha ordinato alla mano armata di andare sempre più giù nel braccio… fino all’osso. E persino nel momento in cui vive uno stato di semicoscienza molto simile ad un’allucinazione, Marya continua ad interrogarsi sul sé, e si affida alle cure dei suoi soccorritori che la risparmiano alla morte. È ormai un noto rituale: l’ essere sollevata e “portata” da un insieme di voci, da un’onda sonora che chiede il suo “battito cardiaco”, lo stridio delle porte dell’ambulanza che si chiudono alle sue spalle, la sirena che fischia sempre più forte e sempre più lontana. È il “commento acustico” al suo male, ma rappresenta anche il momento dell’apertura sul mondo, la “partecipazione” esterna della ferita interna. Nel periodo dell’autolesionismo l’autrice non conosceva ancora la vera natura delle sue improvvise impennate dell’umore e delle successive inevitabili ricadute. Per cui, un intenso desiderio di “capire”, per andare oltre i limiti del facile “diagnosticismo” della medicina, la portava costantemente a riflettere sulle intime ragioni della sua condotta. I ripetuti tentativi di suicidio finiscono così per essere autodefiniti “maniacali”, quindi non predeterminati o intenzionali. Nessuno tra i medici, gli psichiatri e gli psicoterapeuti che avevano preso in carico la Hornbacher in quegli anni dell’adolescenza a Minneapolis aveva pensato al disturbo bipolare. Eppure, in quelle “montagne russe” dell’anima Marya stessa scorgeva già qualcosa di incontrollabile e grave, una parte ribelle che a mano a mano cresceva in lei e con lei: «Quella cosa ed io abbiamo i margini confusi, siamo di- «La pazzia, quando si impadronisce della vita, diventando parte di essa, può spingere ovunque... » ventate un tutt’uno», scrive per esprimere il suo sentirsi “invasa” da un impulso interno distruttivo; ma, nonostante tutto, “suo”, che le appartiene e non l’abbandona mai. Dall’autolesionismo, al digiuno autoimposto, all’abuso di farmaci e droghe, alla pratica del sesso per stordirsi il passo è breve, anzi obbligato; a testimoniare ancora una volta le varie modalità con cui il seme della distruzione si esprime, spazzando via ogni cosa e sotterrando tutto sotto le macerie dell’incontrollabilità. Ma l’Io non è solo morte e distruzione; è anche vita, amore, tensione alla razionalità, desiderio di felicità – nonostante tutto – intensamente ricercata e voluta. Che si manifesta di tanto in tanto, ma sempre relegata “sullo sfondo”. La vivacità culturale di un’esclusiva scuola d’arte nel Midwest della San Francisco diventa così il luogo ideale per disciplinare, attraverso l’insegnamento, il libero fluttuare dei pensieri, e contenere il caos delle sensazioni che uccidono la razionalità, decretando la vittoria delle “coazioni a ripetere” tipiche dell’autolesionismo. Ma – come più volte si percepisce scorrendo le intense pagine del libro – la vita è sempre lì, pronta comunque a riemergere, rompendo gli schemi di espressione del male. Infatti, il fermo proposito della donna di non innamorarsi, se non dopo almeno un anno di sobrietà, fortunatamente va in frantumi. Arriva l’autunno e con esso dovrebbe tornare la malinconia; ma i giorni passano e ciò non accade. In quella stagione tanto triste per la natura, disteso su un tappeto di foglie gialle in un parco, Marya incontra Jeff, l’uomo che presto diventerà suo marito. Si innamora di lui all’istante, al primo incrocio di sguardi. L’uomo le sorride e la donna questa volta è in grado di capire il vero significato di quel sorriso, tanto insicuro quanto insistente e invitante; le parole dell’uomo la colpiscono perché gridano verso il cielo un forte dolore, subito bloccato però da un bisogno di rassicurarla, sussurrando “sto bene”. «La pazzia, quando si impadronisce della vita, diventando parte di essa, può spingere ovunque – osserva l’autrice – ; e “convince” spesso nella direzione sbagliata”. Ma di tanto in tanto essa fa balenare davanti agli occhi qualcosa di “luccicante”, un tesoro… la cosa che si desidera di più». E così è stato per Marya e Jeff. Mahmoud Darwish, considerato il poeta nazionale dei palestinesi, è morto ieri negli Stati Uniti, in Texas, a causa di un problema cardiaco. Lo ha riferito un medico dell’ospedale di Houston dove il poeta era ricoverato: Darwish aveva subito un’operazione a cuore aperto lo scorso mercoledì e respirava con l’ossigeno a causa di successive complicazioni. Il poeta era già stato operato due volte al cuore, nel 1984 e nel 1998. Dopo la seconda operazione aveva scritto un poema intitolato «Morte, io ti ho sconfitta». Mahmoud Darwish era uno dei più grandi poeti contemporanei in lingua araba, con una produzione di straordinario lirismo segnata dai drammi dell’esilio e dell’occupazione vissuta dal popolo palestinese. Aveva acquisito notorietà internazionale con circa trenta opere tradotte in quaranta lingue. Il suo celebre poema del 1964, “Identità”, sul tema del formulario israeliano che i palestinesi erano obbligati a compilare, è diventato un inno per tutto il mondo arabo. Darwish era nato il 13 marzo 1941 ad Al Birweh, in Galilea, allora sotto mandato britannico e oggi nel nord di Israele. Durante la guerra arabo-israeliana del 1948, il villaggio fu raso al suolo e i suoi abitanti costretti all’esilio. La famiglia fuggì in Libano e vi rimase per un anno, prima di tornare clandestinamente in Israele. Mahmoud studiò nelle scuole arabo-israeliane e andò a vivere ad Haifa. Nel 1960, a 19 anni, pubblicò la prima raccolta di poesie, “Uccelli senza ali”. Un anno più tardi aderì al Partito comunista. Dopo un lungo periodo di restrizioni, all’inizio degli anni Settanta scelse l’esilio. Fu nell’Olp fino al 1993, poi ne uscì per protestare contro gli accordi di Oslo. Nel 1996 fu autorizzato a rientrare in Israele. Superstizioni e meccanismi fuorvianti raccolti da Romolo Giovanni Capuano Una mostra della giovane messinese Martha Micali «Se fai così, la tua squadra segnerà...» Un dizionario di inganni della mente Dentro le fotografie brilla l’ “anima salva” delle cose Giorgia L. Borgese La psicologia in alcune delle sue varie forme ha dimostrato come le nostre certezze, anche quelle più banali, possano essere falsate dall’essere spesso i nostri ricordi inattendibili, i meccanismi della mente fuorvianti, le nostre azioni imprevedibili. Ne scaturiscono involontarie credenze, inconsapevoli influenze la cui conoscenza cambia l’ottica complessiva della vita degli esseri umani. Per mettere ordine in questo magma di irrealtà misto a verità che sono le nostre giornate ed i nostri pensieri, uno studioso, Romolo Giovanni Capuano, dopo aver pubblicato testi su specifici settori inerenti l'argomento, animato da una grande ambizione ha realizzato un’opera ben più ponderosa e di grande ineteresse anche per il pubblico dei non specialisti, ovvero il “Dizionario della incredulità e degli inganni della mente” (pp. 529; euro 12,50), edito da Melagrana Onlus. Il Dizionario di Capuano è composto di 623 voci che fanno riferimento a discipline spesso contigue ma eterogenee. Di ogni lemma è fornita una breve definizione corredata da esempi pratici e da un sistema di rimandi e riferimenti bibliografici. Dunque, per fare un esempio, la voce «apofenia» è composta dalla definizione («percezione spontanea di connessioni significative tra fenomeni che non hanno alcune relazione tra loro»), da una serie di esempi («ritenere che ogni volta che si compie un determinato gesto la propria squadra del cuore segnerà una rete... »), rimandi («vedere allu- cinazione, allucinazione collettiva, pareidolia») e riferimenti (vedi www.skepdic.com). Ne risulta un interminabile rosario di nozioni, un gioco a capire che incuriosisce per i suoi innegabili agganci con la nostra quotidianità, seppure affondi nei più rigorosi studi di numerose branche della psicologia, nonché di logica, epistemologia, retorica, ecc. Dunque, alla voce «oblio» troviamo quel fenomeno che è stato ribattezzato come «effet- to panino» e che tanto è stato dibattuto per la formazione e l’ordine dei servizi dei telegiornali e della televisione pubblica nell’epoca del secondo/terzo governo Berlusconi; alla voce «Murphy, legge di» si affronta l’ironica trovata attribuita all’ingegnere aeronautico americano Ed Murphy, il quale nel 1949, osservando l’andamento negativo dei propri esperimenti, avrebbe esclamato: «Se qualcosa può andar male, lo farà». Ovvero, la ormai celeberrima (e planetaria) “legge della sfortuna cosmica” che oggi è di grande popolarità e viene citata ovunque. Non c'è determinismo, non c'è destino dietro tutto ciò ma una scientifica verità, quella denominata «la profezia che si autoavvera». Credere fermamente nella legge di Murphy, ad esempio, può innescare atteggiamenti e comportamenti tali da far avverare la profezia contenuta nella massima. Così «le persone pessimiste – riporta il Dizionario – tendono spesso a porre in essere comportamenti che confermano costantemente le proprie convinzioni». Ovviamente, in modo inconsapevole. Non esistono, è certo, immagini nude. Non dalle nostre umane parti, almeno. Ogni (personale) sguardo sa da prima e perciò “indovina”, incasella nel preconfezionato “catalogo”, colloca e – così facendo – “riduce” e comunque mortifica: ha già ucciso quindi. Chiamare è perdere, dare nome è far svanire. Ma una fotografia non è l’atomo isolato d’una sequenza di cui s’è ritagliato l’attimo pregnante, il di cui paradigma: è soltanto il trionfo d’una insperata visibilità, qualcosa che resta straordinariamente mobile. E vedere è smettere di sapere. Nessuna vicina misura catturata, ma – ogni volta – un’imperscrutabile dismisura. Conserva, ogni fotografia, memoria attuale d’un lontano o recente movimento: esprime il tempo perché s’è annullato il tempo. Il passato – e la fotografia è il passato – si riscatta, e nulla v’è di più tragico di questa distanza cancellata, nulla di più spietato di quest’evidenza sovvertita. Non c’è più evidenza: tutto è rimesso in gioco. L’ovvio, se rifondato, deve riprender senso e rispiegar ragione. Un giovane e una ragazza, senz’abiti, avvinghiati e – sullo sfondo – un’irreale casa sradicata dal terreno: la carne viva e, insieme, la sua caducità. È la foto- grafia più bella – tra altre belle della giovanissima Martha Micali – che s’è levata agli occhi perlustrando a Messina la mostra allestita alla Provincia. L’orizzonte offre corpi in amore e un palazzotto reciso, senza più radici: un’unica superficie di tensioni (e perdite) che sappiamo eterne. Cos’è l’attuale se non una ferita aperta? Dietro gli fa “ombra” la plastica, gratuita e esatta, di un’impossibile cicatrice. Un filo “lega” le fotografie: fanno corpo unico con le parole – disseminate lungo la mostra – della canzone di Fabrizio De Andrè “Anime salve”. Non didascalie, non “accostamenti”, ma specchi. Invenzione di rimandi che svela cosa può/non può essere il sorriso d’un ragazzo, il darsi-cartolina d’una spiaggia, un’espres- sione assorta di donna. Le strofe non accompagnano le immagini: ne sono il fusto esemplare, la defilata intelligenza che consente le foglie. Ed è poesia quando il senso si concede, visibile, solamente in un’inaspettata giuntura: quando, per procurato inedito contatto, s’afferma una scintilla. Effimera però definitiva. Le fotografie di Martha Micali, attratta dal reportage ma che mai rinuncia alla composizione, sono altrettante schegge in nessun rapporto con un’unità precedente. Nessuna velleità di star dentro un, se pur sbriciolato, Tutto: l’attuale autentico non ha davvero origine, ma “da sempre” ignora e nulla ne permarrà. “Perdere il rispetto del Tutto”: non era questo, agli albori, la Fotografia? p.d.l.