M. Menin - Diocesi di Reggio Emilia Guastalla

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M. Menin - Diocesi di Reggio Emilia Guastalla
Due-Giorni dei Docenti dello STI
23-24 settembre 2014
Viale Timavo 93, Reggio Emilia
La teologia pastorale
tra identità cristiana e attenzione ai destinatari
Questa mia nota tiene conto soprattutto del punto di vista missiologico del rapporto tra
identità cristiana e attenzione ai destinatari, valorizzando quanto scritto da teologi e missionari
come Stephen B. Bevans e Roger P. Schroeder.1
Ciascuno di noi vede il mondo attraverso lenti particolari e ascolta gli altri con un filtro
altrettanto particolare. Liberarsi da queste lenti e filtri, soprattutto quando si arriva in un contesto
culturale diverso, “estraneo”, è un impegno arduo, per molti versi l’impegno di una vita. È
l’esperienza che facciamo noi missionari quando arriviamo in missione. Di solito ci viene
consigliato di tenere la bocca chiusa almeno per un anno (cosa impossibile!), di imparare la lingua,
di vedere, ascoltare, insomma di fare attenzione.
Non abbiamo mai finito di fare attenzione ai nostri destinatari. Lo dico soprattutto a partire
dalla mia piccola esperienza in Brasile, dove per 12 anni ho visto e sentito tante cose, ma non
sempre con gli occhi e gli orecchi giusti. A proposito di occhi, un proverbio del Ghana dice
ironicamente che “lo straniero ha occhi grandi come piatti, ma non vede nulla”. Vedere ciò che
veramente c’è e ascoltare ciò che realmente viene detto richiede un’enorme autodisciplina ed è
un’autentica pratica di kénosis, che è probabilmente la qualità più importante della spiritualità
missionaria.
Nei suoi primi anni in Asia, Francesco Saverio, uomo del suo tempo, non fece molta
attenzione alle culture locali, ma, arrivato in Giappone, cambiò atteggiamento, superando il suo
etnocentrismo europeo e riconoscendo la ricchezza culturale del popolo giapponese. Ne scaturì un
approccio missionario di “accomodazione” che sta alla base delle piccole ma vivaci comunità
cristiane giapponesi, che più tardi affronteranno le atroci persecuzioni di cui sappiamo. In Giappone
Saverio percepisce che il Vangelo deve essere annunciato prima ai leader locali, i daimyo, e perciò
non indossa il vestito di cotone dei poveri, ma le vesti di seta dei leader. Inoltre, si impegna in
discussioni con i monaci buddhisti, un piccolo numero dei quali si fa battezzare. Insomma, in
Giappone Saverio scopre che il suo zelo per l’annuncio deve adottare modi che avrebbero reso più
accettabile e comprensibile il Vangelo alla mente e al cuore dei giapponesi.
Ma ritorniamo ai nostri giorni o quasi. Nel suo Il metodo in teologia, Bernard Lonergan,
riferendosi ai cinque “imperativi trascendentali” che dovrebbero essere praticati per raggiungere
un’autentica umanità – sii attento, sii intelligente, sii ragionevole, sii responsabile e, se necessario,
pronto al cambiamento –, ha fatto notare che il primo, cioè l’attenzione, è di gran lunga il più arduo
da acquisire.2 L’attenzione esige sforzo, una vera ascesi, e se essa è importante nel contesto della
pastorale, è assolutamente necessaria in un contesto missionario “estraneo”, come quello
sperimentato dai nostri missionari in Cina, in Giappone o anche solo in Brasile. Soltanto quando
sentiamo che il nostro cuore è “in amore” (being-in-love, direbbe Lonergan), possiamo avanzare la
nostra proposta pastorale, con tutto quello che comporta anche a livello di “identità cristiana”.
L’attenzione ai destinatari, fino a raggiungere il being-in-love (sii in amore), non significa
certo entrare in un rapporto “fusionale”, ma è la condizione sine qua non per annunciare il Vangelo
in maniera comprensibile, eloquente per i destinatari. Spesso la missione è avvenuta senza
attenzione ai destinatari, soltanto con la preoccupazione di trasmettere la nostra “verità”, la nostra
“identità cristiana”. Ma con quali risultati? Mi spiego. Coloro che hanno lavorato come missionari o
come rappresentanti della Chiesa – spesso per lunghi anni e con grandi sacrifici – lo hanno fatto
1 Mi riferisco soprattutto all’opera magistrale Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto (BTC 148,
Queriniana, Brescia 2010), ma anche al testo che ne sintetizza il pensiero: Prophetic Dialogue. Reflections on Christian
Mission Today, Orbis Books, Maryknoll, N.Y. 2011 (di cui uscirà a breve l’ed. it. presso l’EMI di Bologna).
2 Cf. B.J.F. LONERGAN, Il metodo in teologia, in OBL 12, Città Nuova, Roma 2001.
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senza accorgersi che la loro comprensione del cristianesimo era condizionata dall’espansione
coloniale, dal razzismo e dalla pretesa superiorità culturale dell’Occidente. Per cui la reazione dei
“destinatari” è stata, una volta raggiunta l’indipendenza politica e l’autonomia ecclesiastica, di
lottare per recuperare e reclamare “identità” che erano state erroneamente rimosse in nome del
Vangelo.
Anni e spesso secoli di dominazione politica e/o di denigrazione culturale hanno lasciato
molti popoli in uno stato di “povertà antropologica”. È il caso dell’Australia, con le sue strutture
missionarie, chiamate “dormitori” per i ragazzi aborigeni e “conventi” per le ragazze aborigene. Si
veda la poderosa tesi di dottorato sulla riconciliazione in Australia di Gerard Goldman 3, ma anche i
testi di Peter Matthiessen, Giocando nei campi del Signore, e di Barbara Kingsolver, Gli occhi negli
alberi.4 L’antropologo Darrell Whiteman, per esempio, racconta la storia di uno dei suoi studenti,
anzi una studentessa thai che durante una lezione sulla contestualizzazione fece la straordinaria
scoperta che avrebbe potuto essere allo stesso tempo autenticamente thai e autenticamente cristiana.
Le era sempre stato detto che per essere cristiana avrebbe dovuto voltare le spalle alla sua famiglia
buddhista e denunciare la propria cultura.5 In molti casi, le persone erano state intimidite dai
responsabili di chiesa che si consideravano gli unici interpreti autentici del Vangelo. Ogni genere di
espressione popolare di fede era sospetta ed etichettata come “sincretismo”. Imparare a conoscere il vero Vangelo in circostanze (antropologicamente) concrete è
un’impresa particolarmente ardua, perché da una parte si tratta di proporre il Vangelo nella sua
“nudità”, purificato il più possibile dai presupposti del predicatore (missionario), e dall’altra di
scommettere nella capacità “ermeneutica” dei destinatari, i quali, sotto la guida dello Spirito di Dio,
saranno essi stessi condotti ad un’autentica espressione della loro fede, che non sarà la nostra (del
predicatore, missionario). Una volta che il Vangelo è stato accolto, non appartiene più al
missionario, ma ai nuovi destinatari.
Ne era convinto Paolo VI, le cui parole pronunciate a Kampala, in Uganda, nel 1969,
continuano ad essere parole di sfida e d’incoraggiamento non soltanto per gli africani, ma anche per
noi oggi qui in Italia alle prese con altre sfide culturali e altri contesti pastorali: “Voi potete e dovete
avere un cristianesimo africano”.6 Alla distanza di oltre quarant’anni, l’appello di Paolo VI è valido
anche oggi, nella sua stessa Brescia, che ha messo in cantiere l’anno scorso un “Progetto pastorale
missionario”. Imparare a conoscere il vero Vangelo è un compito “delicato”, perché s’inserisce nel
rischioso processo di bilanciamento tra il rispetto dei contesti e delle esperienze locali e la fedele
interpretazione dell’identità cristiana, che è sempre un’identità aperta, come ci ricorda Ignazio
Sanna, quando era teologo.7
Evidentemente l’attenzione per i destinatari non significa rinnegare le proprie radici
cristiane, ma averne una chiara consapevolezza. Questa è la ragione per la quale, secondo le parole
forti di papa Paolo VI, non c’è evangelizzazione degna di questo nome se “il nome, l’insegnamento,
3 G. GOLDMAN, “Remembering Ian, Alan Goldman, and Memela: Using Narrative as an Approach to
Aboriginal Reconciliation in Australia”, D. Min. thesis project, Catholic Theological Union, Chicago 1999.
4 P. MATTHIESSEN, At Play in the Fields of the Lord, Random House, New York 1965 (ed. it. Frassinelli 1992);
B. KINGSOLVER, The Poisonwood Bible: A Novel, Harper Flamingo, New York 1998 (ed. it. Faber and Faber 20002).
5 D. WHITEMAN, “Contextualization: The Theory, the Gap, the Challenge”, in J.A. SCHERER
and S.B. BEVANS (ed.), New Directions in Mission and Evangelization 3: Faith and Culture, Orbis
Books, Maryknoll, N.Y. 1999, p. 43.
6 PAOLO VI, “Omelia di chiusura del Symposium dei vescovi dell’Africa”, Kampala, Uganda, 31 luglio 1969.
7 Cf. I. SANNA, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana, Brescia 2006.
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la vita, le promesse, il Regno, e il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati”. 8
La missione è annunciare in modo rispettoso, cordiale, dialogico, e tuttavia fedele, in parole e opere,
l’amore di Dio rivelato in Gesù di Nazaret.
La vita cristiana non è anti-culturale, ma è profondamente contro-culturale. Vivere i valori
del regno di Dio come Gesù li ha espressi nelle beatitudini o nel sermone della montagna (Mt 5-7;
Lc 7,17-49) offre una visione del mondo in contrasto con i valori culturali prevalenti. La comunità
cristiana riunisce (dovrebbe riunire) infatti persone che con la loro vita formano ciò che Gerhard
Lohfink chiama una “società di contrasto”.9
Il famoso detto ripreso nella prefazione al libro di un grande vescovo e missionario
anglicano John V. Taylor e ripreso oggi da tanti missionari – “Il nostro primo compito
nell’accostarci ad un altro popolo, ad un’altra cultura, ad un’altra religione è quello di toglierci le
scarpe, perché il luogo a cui ci stiamo avvicinando è sacro”10 – dovrebbe servire come testo base per
il nostro impegno missionario e, perché no, pastorale.
8 PAOLO VI, Evangelii nuntiandi 22.
9 G. LOHFINK, Gesù come voleva la sua comunità. La chiesa quale dovrebbe essere, Paoline, Cinisello
Balsamo 1987, pp. 101ss.
10 M. WARREN, Preface to JOHN V. TAYLOR, The Primal Vision: Christian Presence and African Religion,
SCM Press, London 1963, p. 10 (rist. 2000).