Lettera ad una signora che vuole morire

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Lettera ad una signora che vuole morire
Istituto Istruzione Superiore - Galileo Ferraris - CTIS03300R - Acireale
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Lettera ad una signora che vuole morire
Lettera ad una signora che vuole morire
di Lidia Ravera.
Cara Signora, nota ai giornali e a chi li legge, come ?donna di 62 anni?, cara
signora braccata dai difensori della vita ad ogni costo, cara signora che ha deciso,
perfettamente in grado di intendere e di volere, di non rinunciare ad una parte del
suo corpo, e di accettare, in coerenza con questa scelta, un destino di rapida
morte. Le scrivo queste poche righe per testimoniarle la mia solidariet?, per quel
poco che conta, e il mio rispetto. In momenti come quello che sta attraversando
lei, si ?, immagino, fondamentalmente soli. Il sorriso faticoso, la tristezza e la
compassione delle persone che ti vogliono bene, ti prepara al commiato. In genere
c?? silenzio, in momenti come quello che lei sta attraversando. Lei, purtroppo, non
pu? godere di questa condizione cos? comune e cos?, oserei dire, naturale: lei ?
diventata, proprio alla fine di una vita felicemente anonima come tante, una notizia
da telegiornale, in virt? di quella sua scelta cos? controtendenza, la scelta di
lasciarsi morire, come se, nel 2004, un piede in cancrena, fosse ancora un male
non trattabile, di quelli che ti uccidono e basta. Gli altri, i sani, da cui la separa,
probabilmente, un muro invisibile quanto invalicabile, hanno esercitato, sul suo
caso, le loro intelligenze ed esibito le loro convinzioni. I cattolici hanno alzato
cantici al valore divino dell?esistenza umana: non te la sei data da te, la vita,
quindi non te la puoi togliere neanche rinunciando all?accanimento terapeutico,
figuriamoci opponendoti ad un?operazione per cui saresti salva comunque. I laici
hanno giocato la carta della ragione: perch? rinunciare ai progressi della scienza,
perch? non curarsi, perch? accettare un?agonia che si potrebbe evitare, perch? non
eliminare il male con la parte malata? Quelli che, come il sindaco Albertini o la
Tiziana Maiolo, soffrono di istinti un tantino liberticidi, hanno proposto ?il
trattamento sanitario obbligatorio?. Tutti, laici e cattolici, libertari e liberticidi, da
giorni discutono appassionatamente di questo suo caso cos? inverosimile nel
nostro tempo di glorificazione dell?io, di attaccamento selvaggio al proprio
carapace terrestre. Io, innanzi tutto, vorrei scusarmi per essermi unita al generale
chiacchiericcio con questa mia. Non sono una che pontifica volentieri sulle scelte
degli altri, del resto una delle mie poche incrollabili certezze ? che ciascuno ?
padrone della propria vita e pu? farne assolutamente ci? che vuole. Se per caso la
vita fosse davvero di Dio, e l?avessimo avuta in leasing, a sessantadue anni
sarebbe stata gi? ampiamente riscattata dal lavoro di crescere, maturare,
avvicinarsi all?invecchiare, sarebbe gi? sua, cara signora. Quello che le vorrei dire,
quindi, non ? certo, ?gi? le mani da s? stessa?, si lasci curare, come vuole il suo
sindaco o il suo Dio. Io vorrei provare a mettermi dal suo punto di vista,
consapevole che lei pu? leggere o non leggere questa pagina e quindi la mia
intrusione non ? grave. Che cosa potrebbe spingermi a rifiutare un intervento
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invalidante come quello che le ? stato proposto? Non certo la paura, perch? ? molto
pi? spaventosa la setticemia che mi consumerebbe. Forse quella stanchezza che ti
prende dopo aver molto patito, quel desiderio di ?staccarsi? di cui mi parl? mia
sorella tanti anni fa, quando, ancora giovane, stava arrivando al termine della sua
lotta contro un tumore. Oppure, e questo ? pi? terribile, la consapevolezza che
integrit? ed efficienza fisica, bellezza giovent? e prestanza sono, oggi, obbligatori
requisiti dell?essere, non effimeri attributi destinati ad essere sostituiti da altri
valori, magari pi? durevoli, quali la passione intellettuale, la generosit?, la curiosit?,
la capacit? di dare e ricevere amore, di scambiare parole e senso, di migliorare s?
stessi e gli altri. La consapevolezza, drammatica per chi ? malato, che un handicap,
oggi, ? una condanna all?ombra. Un corpo guasto, fa di te una merce fallata. E se
tutto, come pare, ? mercato, sul banco c?? posto soltanto per l?intatto, non per
l?avariato, per l?imperfetto, per il difettoso. Nella nostra societ?, nella societ? che
stiamo diventando, che, forse, siamo gi? diventati, ? terribilmente difficile anche
soltanto invecchiare. E lo ? soprattutto se si ? nati donna. Invecchiare sani e
giovaniformi ? il minimo che ti viene chiesto per continuare a essere fra gli altri,
valorizzato dalla relazione. In questo scenario la scelta di chiamarsi fuori, io,
personalmente la capisco. Per? vorrei dirle una cosa, signora: c?? anche chi lavora
perch? la solenne fatuit? degli imbecilli, la distratta indifferenza degli
egodipendenti, la prepotenza dei competitivi sia contrastata da altri ritmi e sogni,
da altre dolcezze, lontane dal frastuono e dai rituali barbarici dell?apparenza. C??
chi lavora perch? sia possibile vivere senza essere perfetti fuori, perch? quello che
conta, in fondo, ? come si ? fatti dentro. ? l? che occorre essere interi. Forti. Robusti
ed equilibrati. Forse, fra i tanti che sono stati colpiti dalla sua determinazione a
morire, ce n?? parecchi di questi silenziosi militanti della riqualificazione della vita.
Gente che si ? stufata dei lifting e del salutismo e delle diete e del culto del corpo e
delle scommesse col diavolo per avere vent?anni fino all?ospizio. Forse ? gente che
la verrebbe a trovare, che si siederebbe vicino al suo letto a fare due chiacchiere,
nei giorni della convalescenza. Volentieri verrei anch?io. da "L'unit?"
3/Febbraio/2004
Data: 03 Febbraio 2004 - Autore: Admin - Num. letture: 488 - Sezione: Per pensare
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