Per una psicopedagogia del soggetto di indirizzo lacaniano (

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Per una psicopedagogia del soggetto di indirizzo lacaniano (
Per una “Psicopedagogia del soggetto” di indirizzo lacaniano
Mimmo Pesare
1.
Il sapere pedagogico, oggi, sembra richiedere uno sforzo ulteriore di risemantizzazione dei suoi confini,
delle sue metodologie di ricerca e delle possibilità di arricchire il suo Grund con epistemi che ne rinnovino
freschezza e fertilità. Uno dei possibili percorsi di ripensamento critico dell’epistemologia pedagogica, negli ultimi decenni, è stato per esempio quello di intenderla come Umbildung, ossia come teoria educativa
dell’autoformazione del soggetto, lontano da ogni possibile pedagogia ortopedica della “messa in forma”.
Quando si parla di Umbildung pedagogica352, la prima cosa che viene alla mente è proprio una rappresentazione divergente di come la paideia contemporanea abbia la possibilità di rappresentare una episteme che,
più che riflettere sull’educabilità dell’uomo, si occupi ampiamente della questione del soggetto, di come si
costruisca la soggettività nell’accezione foucaultiano-lacaniana, ossia di come possa avvenire la costruzione
dell’uomo completo, al di là di ogni caratterizzazione anagrafica.
In questo senso, una pedagogia trasformativa (una Umbildung, appunto) costituisce una sorta di autodeterminazione di un io in svolgimento; rappresenterebbe cioè una dimensione pedagogica che, più che
trasmettere un modello, un sapere, una linea di condotta, attivi un riconoscimento profondo delle dinamiche
emotive, affettive, relazionali che ci costituiscono per come siamo fatti. In questo senso Lacan amava ripetere
che “noi siamo il risultato delle parole che gli altri ci hanno detto”, intendendo con questo aforisma che
il processo di soggettivazione ha a che fare soprattutto con una comprensione e con una elaborazione del
rapporto con l’altro, attraverso un hegeliano riconoscimento. Lo sviluppo psichico, insomma, trova una sua
cornice educativa (psicopedagogica, dunque) nella constatazione secondo la quale ogni possibile percorso
cognitivo e di apprendimento poggi su una preliminare costruzione emotiva delle dinamiche relazionali.
Il presente contributo rappresenta un tentativo teorico-fondativo di presentare (chiaramente in maniera
introduttiva) la proposta di una psicopedagogia del soggetto intesa come autoformazione attraverso l’apporto
teorico e clinico della psicoanalisi lacaniana. Il punto di partenza di questo percorso di ricerca, come anticipato, è rappresentato dalla considerazione secondo la quale il processo di soggettivazione – che dovrebbe
essere una delle principali domande teoretiche del discorso pedagogico – debba essere riconsiderato sulla
base delle dinamiche intrapsichiche e interpsichiche, oltre che di quelle cognitive e dell’apprendimento.
Ogni possibile costruzione del sé ha principalmente a che fare con l’immagine costituente che il soggetto
realizza attraverso il rapporto col linguaggio, con l’altro e con i vettori del desiderio. Tali costruzioni, vera
base di ogni possibile formazione, vengono proposte, attraverso la lente lacaniana, non solo come un sapere
clinico ma soprattutto come un pensiero critico per il tempo attuale.
Innanzitutto una questione di metodo: come possiamo intendere il concetto di psicopedagogia alla luce
di tale lettura delle discipline educative? Delimitarne i confini disciplinari e chiarire il campo epistemico
non è assolutamente facile per la mancanza di univocità che questa giovane disciplina registra nelle diverse
declinazioni dei suoi studiosi.
Già soltanto parlare di psicopedagogia (senza specificarne ulteriormente le coordinate di estensione, come
per esempio psicopedagogia del linguaggio, psicopedagogia della comunicazione, psicopedagogia del soggetto,
ecc.) mette di fronte alla necessità di chiarimenti sul metodo e sul campo di indagine scientifica. Si può, in via
preliminare, affermare che la psicopedagogia, almeno in ambito anglosassone, rappresenti una ricerca psicologica sulle dinamiche dei processi educativi, sottolineando, dunque, come il prefisso psico- costituisca in re352 Per quanto riguarda gli studi sulla Umbildung pedagogica, ricordiamo i lavori, tra gli altri, di Alberto Granese,
Angelo Semeraro e Giancarla Sola.
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altà la scelta metodologica della disciplina e, conseguentemente, il suffisso -pedagogia, si riferisca ai contenuti
e al terreno di applicazione di questo tipo di disciplina. Non a caso la traduzione inglese di psicopedagogia è
educational psychology, a rimarcare come la riflessione pedagogica sia in un certo senso delimitata all’interno
di un aggettivo che specifica la caratterizzazione di quella particolare analisi psicologica.
Pertanto, questa accezione tradizionale costituirebbe un’area della psicologia dedicata allo studio dei
risvolti che sottendono i processi educativi e i cui influssi possono, perciò, essere fatti risalire tanto alle
correnti funzionaliste e comportamentiste (Vygotskij, Claparède, Thorndike), quanto a quelle cognitiviste
e culturaliste (Piaget, Bruner). Il Nuovo Soggettario Thesaurus della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze353, aderente ai principi stabiliti dall’International Federation of Library Associations and Institutions e alle
indicazioni degli standard internazionali, ne dà la seguente definizione:
Psicopedagogia:
Nota storica: precedentemente “Psicologia educativa”;
Classificazione Dewey (Ed. 22): 370.15;
Lo studio di tutti i comportamenti che possono essere stimolati e osservati in situazioni pedagogiche, cioè di istruzione
(o educazione), intendendo con questo termine le situazioni in cui confluiscono i due processi psicologici di apprendimento e
insegnamento.
Dunque gli studi dello psicopedagogista tradizionale sarebbero rivolti prevalentemente alle pratiche
dell’apprendimento e dell’insegnamento all’interno di una metodologia in cui l’epistemologia pedagogica si
arricchisce degli strumenti delle scienze psicologiche per indagare sulle tecniche e sulle strategie più utili al
buon esito dei processi didattici e della learning theory. In questa cornice rientrano anche questioni quali la
gestione della classe, l’istruzione programmata, l’organizzazione del contesto educativo e i problemi relativi
alla diagnosi funzionale.
2.
Ebbene, la proposta di una psicopedagogia del soggetto di indirizzo lacaniano si colloca entro uno scenario del tutto distante da questa cornice.
Innanzitutto per il fatto di preferire una metodologia psicodinamica (quindi psicoanalitica, più che semplicemente psicologica) a una metodologia comportamentista e cognitivista. La scelta dell’uso delle teorie
psicoanalitiche di Jacques Lacan, inoltre, rappresenta una peculiarità ancora più ristretta di tale metodo.
In questo senso, e in via preliminare, potremmo dire che una psicopedagogia del soggetto di indirizzo
lacaniano aspira a chiarire un ragionamento su come l’urgenza del carattere singolare e irripetibile della
autoformazione del soggetto, possa essere letto con l’aiuto di strumenti psicodinamici che hanno fondamentalmente a che fare con alcuni dei tratti caratteristici dell’insegnamento lacaniano.
Il presente lavoro, come ovvio, non può esaurire nello spazio di una breve comunicazione tutti gli elementi teorici e clinici che andranno a corroborare l’ipotesi di partenza ma rappresenta una anticipazione
di un discorso molto più articolato che verrà completato in spazi di divulgazione scientifica più congrui.
Tuttavia, esclusivamente per presentare la prospettiva del discorso, mi preme porre l’accento almeno su tre
questioni di contenuto che andranno a disegnare la tesi proposta.
Innanzitutto una psicopedagogia del soggetto di indirizzo lacaniano ha a che fare, in un certo senso, con
una rivoluzione copernicana del concetto stesso di soggetto, che, come vedremo, ha delle sue caratteristiche
peculiari e si distingue abissalmente dal concetto di Io della tradizionale filosofia dell’educazione, dell’Io
parlante, dell’Io padrone del senso, dell’Io della grammatica e, insomma, dell’Io inteso come soggetto della
comprensione, in senso cartesiano e kantiano.
In secondo luogo, e come corollario della considerazione precedente, una psicopedagogia di tale orientamento si costituisce su una posizione anaclitica: ogni processo maturo di soggettivazione e di costituzione
di un sé autentico, non è mai auto-fondato, ma sempre etero-fondato, poggiando sul rapporto con una alterità
che ci rimanda dall’esterno una immagine costituente. Detto in altri termini, la condizione perché si costituisca un soggetto, condizione che Lacan definisce clinicamente causalità psichica, è data da una precedente
identificazione con l’altro. In questa considerazione sta anche la natura paradossale e antinomica del soggetto
353
Cfr. http://thes.bncf.firenze.sbn.it/
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lacaniano, che si costituisce come autentico a condizione di aver assorbito una immagine di sé che invece è
alienante, perché derivata dall’esterno (vedremo in che modo).
In terzo e ultimo luogo, tale psicopedagogia ha a che fare con le dinamiche che sottendono al “passaggio
del sapere”: ogni processo educativo è una sorta di transfert, cioè ha a che fare con una trasmissione del
sapere che, lungi dal raggiungere una qualche verità definita in maniera dogmatica e verticale, raggiunge un
soggetto nella misura in cui costituisce un atto erotico, nel senso etimologico del termine. Il vettore che unisce un sapere a un soggetto, e che dunque non ha necessariamente a che fare con l’equazione sapere-verità,
passa attraverso l’irripetibilità della ricezione che ogni soggetto possiede e che attraverso l’attivazione di
quelle dinamiche comunicative che Lacan definisce parola piena, staccano il soggetto in formazione da una
dimensione omologante e gli presentano la possibilità di accedere alla sua più congeniale visione del mondo.
Questo terzo e ultimo elemento clinico che viene proposto come apporto significativo a una psicopedagogia del soggetto di indirizzo lacaniano probabilmente costituisce il plesso teoretico più denso e insieme
la tesi finale di tale proposta. In questo senso non mi è possibile condensarne la strutturazione in maniera
sintetica all’interno di questo breve saggio. Pertanto, a mo’ di introduzione e presentazione, toccherò brevemente i primi due punti, che rappresentano un quadro propedeutico per la comprensibilità dell’impianto
pedagogico lacaniano, relativamente alla comprensione della struttura della soggettività.
3.
Per quanto riguarda la genesi del soggetto come fenomeno psicopedagogico, va innanzitutto sottolineato
che tale genesi è comprensibile a partire dalla pars destruens di chiarire ciò che il soggetto non è.
L’idea che ha Lacan del percorso che deve portare alla soggettivazione, ossia il percorso che lo avvicini
alla singolarità più propria del suo inconscio, è molto simile all’idea che lo stesso Freud ci ha lasciato nelle
pagine di Costruzioni nell’analisi (1934), cioè «la ricostruzione completa della storia del soggetto è l’elemento
essenziale, costitutivo, strutturale del progresso analitico […]. Il progresso di Freud, la sua scoperta, stanno
nel modo di cogliere un caso nella sua singolarità»354.
Quando si parla di “singolarità” del soggetto, il concetto che viene messo in disamina è, chiaramente, l’Io,
inteso come struttura ortopedica che “contiene” il cosiddetto soggetto dell’inconscio, ma che nei suoi confronti è in un rapporto di dissimmetria. Nella celeberrima quanto sibillina affermazione di Lacan «Sono dove non
penso. Penso dove non sono»355, è contenuto probabilmente il senso di questa dissimmetria: la separazione
strutturale tra il sapere e la verità del soggetto. Per comprenderne il peso occorre precisare che per Lacan il
soggetto è sempre un soggetto barrato (il matema grafico che Lacan usa in questo caso è $).
Penso dove non sono, dunque sono dove non penso, ripete Lacan in un celebre aforisma che sintetizza
tutta la sua teoria: il soggetto e i processi di soggettivazione umana sono portatori di un sapere che non è in
alcun modo riconducibile alla coscienza e dunque non traducibili in termini filosofici o scientifici. Proprio in
questo senso, accogliendo e radicalizzando la lezione di Freud per cui l’Io non è padrone in casa propria, Lacan ritiene che l’individuo sia semplicemente il portatore del discorso dell’inconscio (quest’ultimo, dunque,
il vero soggetto in questione).
La retorica della nostra parte razionale, della nostra coscienza, sebbene sia quella direttamente osservabile e comprensibile, rappresenta solo il contenitore posticcio, il tutore ortopedico nel quale il discorso
dell’inconscio compone le sue rappresentazioni ed esprime la sua verità, il suo desiderio.
In questo senso esisterebbe, secondo Lacan, una sperequazione di ordine topologico (spaziale) tra il centro della soggettività e il centro della razionalità. Una simile concezione del rapporto tra il pensiero e il soggetto (possiamo anche dire: tra il sapere e la verità), come risulta chiaro, sferrava un attacco diretto al cogito
cartesiano e a tutte le teorie filosofiche contemporanee che ne rappresentavano lo sviluppo: sostenendo che
l’uomo è parlato dal discorso di una soggettività non appartenente alla coscienza, Lacan detronizzava l’Io dal
suo piedistallo tradizionale riducendolo a un mero sintomo dell’inconscio.
La rivoluzione copernicana di Lacan, alla luce di tale assunto, si manifestava come una radicalizzazione
354 J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1953-1954), Seuil, Paris 1975; trad.
it. Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 1978, p. 15.
355 J. Lacan, L’istanza della lettera nell’inconscio, in Id. Écrits, Seuil, Paris 1966; trad. it. Scritti, Einaudi, Torino 1974,
p. 512.
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delle teorie di Freud, potenziate da un antiumanismo strutturalista che interrompe definitivamente il vettore
egocentrico tra il pensiero e l’essere. In altri termini, all’interno del cogito ergo sum di Cartesio, il soggetto
non è né nel cogito, né nel sum, ma nell’ergo che li mantiene divisi; il senso stesso della soggettività, in altre
parole, sta nel crinale che si forma tra l’uomo e il suo pensiero; crinale che manifesta proprio l’impossibilità
dell’Io di dire se stesso, di dire il proprio senso.
La soggettività, per Lacan, non può ricucire la scissione tra il pensiero e l’essere perché essa stessa coincide con tale scissione, come una cicatrice che mantiene uniti due lembi di tessuto, mostrandone, però, la
divisione.
Questa mancata coincidenza tra il pensare e l’essere rappresenta l’handicap strutturale della soggettività,
sempre zoppa, claudicante nella sua assoluta non corrispondenza col discorso dell’Io; una vera randellata al
coscienzialismo razionale della storia del pensiero occidentale!
In questa struttura distopica tra l’essere e il pensiero, Lacan inserisce il linguaggio come fonte di interpretazione dell’essere stesso e delle sue più profonde manifestazioni psichiche, emotive e patologiche.
Il linguaggio e tutte le sue espressioni significanti356, allora, sono la chiave di accesso all’inconscio e
dunque la sua espressione discorsiva vera e propria. Ciò che ci determina è altrove, non certo nella nostra
coscienza.
“L’inconscio è il discorso dell’Altro”, nelle parole di Lacan; quasi una citazione di un celebre verso di
Rimbaud che Lacan incastona testualmente nel Seminario II: Je est un autre, “Io è un altro”:
In rapporto a questa concezione, la scoperta freudiana ha esattamente lo stesso senso di decentramento apportato
dalla scoperta di Copernico. La esprime bene la formula folgorante di Rimbaud – i poeti, che non sanno quel che dicono,
è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri – Io (je) è un altro. […]
L’inconscio sfugge a questo cerchio di certezze in cui l’uomo si riconosce come io. […] Con Freud fa irruzione una
nuova prospettiva che rivoluziona lo studio della soggettività e che mostra che il soggetto non si confonde con l’individuo357.
In questo significativo passo del Seminario II abbiamo un primo incontro col soggetto lacaniano, un soggetto scisso, un soggetto che sfugge da tutte le parti perché la sua caratteristica strutturale non è la coesione,
la totalità, ma la dispersione, la differenza. Il soggetto lacaniano è insomma tutto il contrario di ciò che la filosofia moderna ci aveva restituito come unitario, univoco, indivisibile. I suoi tratti sono confusi, chiaroscurali.
Soprattutto è un soggetto che non possiede un centro, è e-statico, direbbe Heidegger: la sua peculiarità è la
mancanza di un trait d’union fra il suo sapere (il cogito) e la sua ontologia (il sum).
Dunque proprio quell’ergo, interposto tra il cogito e il sum, ossia quella causalità che Cartesio aveva usato
per associare il momento della conoscenza al momento dell’essere, in Lacan perde di senso, diventa evanescente e non ha più funzione di collante per tenere insieme un soggetto per sua natura barrato, segnato da una
Spaltung (divisione) che, paradossalmente ne rappresenterà la cifra più caratteristica.
Il soggetto rimane in una dimensione che rende difficile, se non impossibile, la sua definizione, il suo
essere immortalato all’interno di un quadro ultimativo, univocamente comprensibile. Pertanto, in questa
prospettiva, è strutturalmente un soggetto alienato, è alienus rispetto a una sua presunta unitarietà, tanto
evocata dalla filosofia moderna; è alienus perché risulta non sovrapponibile al concetto di identità, in quanto
la sua struttura è piuttosto quella della differenza.
Scrive a questo proposito Lacan: «Non c’è soggetto senza, da qualche parte, afanisi del soggetto ed è in
questa alienazione, in questa divisione fondamentale, che si istituisce la dialettica del soggetto»358.
Secondo Lacan, insomma, la soggettività ha una struttura barrata, che la divide in una maniera tale per
cui non è più possibile pensare l’identità tra soggetto e Io. Cambiando l’ordine degli addendi: occorre distinguere con cura l’Io, indicato con il pronome francese Moi, dal soggetto, indicato dal pronome francese Je.
Je e Moi, insieme, costituiscono quella struttura scissa della soggettività che Lacan indica con il simbolo
356 Lacan usa l’aggettivo significante nell’accezione della teoria linguistica di De Saussure, cioè come espressione icastica o acustica che è associata al concetto che indica (o significato).
357 J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre II. Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalise (1954-1955), Seuil, Paris 1978; trad. it. Il Seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi
(1954-1955), Einaudi, Torino 2006, pp. 10-11.
358 J. Lacan, Le séminaire de Jacques Lacan. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil,
Paris 1973; trad. it. Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979,
p. 217.
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$ (esse barrato): una soggettività strutturalmente lesa tra due istanze in comunicazione tra di loro ma non
sovrapponibili e assolutamente irriducibili.
Il soggetto lacaniano non è il soggetto che parla e che “sa cosa dice”, non è l’io della grammatica, “padrone del senso”, che ha a che fare con l’enunciato, ovvero con il significato cosciente e razionale di ciò che
dice. Al contrario, il soggetto della psicoanalisi, il Je inteso come soggetto dell’inconscio, ha a che fare con
l’enunciazione, cioè con le modalità di comunicazione che non procedono per significati, ma, metonimicamente, per significanti. Il Je, dunque, è il soggetto che “non sa ciò che dice”; in altre parole, la sua verità appartiene a una discorsività altra, come abbiamo già detto, una discorsività che si manifesta attraverso quelle
che Lacan definisce le formazioni dell’inconscio (sintomi, sogni, lapsus, dimenticanze, motti di spirito). In
esse è contenuta la verità del soggetto, la sua natura più autentica. Vi è dunque una separazione strutturale
tra il sapere che caratterizza la soggettività e la sua verità. Il vero protagonista della soggettività barrata è
l’inconscio (ça parle!, dice Lacan: esso parla!) e intorno a questa concezione ruota tutto il successivo sistema
di pensiero lacaniano. Ma per comprendere cosa sia il soggetto (il Je), dobbiamo innanzitutto comprendere
cos’è l’io (il Moi).
4.
La trattazione del soggetto barrato lacaniano era rimasta alla dialettica interna tra Je e Moi, ovvero alla
difformità del soggetto dell’inconscio, vero nucleo della psiche, con il suo portavoce pubblico, l’Io. Lacan
pensa l’Io come una “cipolla”: un insieme di identificazioni stratificate che però non giungono a nessun
nucleo coeso in quanto sono semplici interiorizzazioni dell’immagine di noi stessi, che l’altro ci ha restituito.
L’Io, insomma, potrebbe rappresentare la risposta inconscia alla domanda popolare: “chi ti credi di essere?”
Jacques Lacan, che dedica i primi studi della sua formazione proprio alla questione del narcisismo, nel
1936 teorizza la teoria dello Stadio dello specchio, una rielaborazione originale della clinica freudiana sul
narcisismo. Se dunque per Freud la genesi del narcisismo risiedeva nel rapporto del soggetto con la propria
immagine, Lacan rincara la dose, affermando, in linea generale, che proprio questa immagine ideale di se
stessi svolga una funzione morfogena, cioè sia deputata a una preliminare genesi della forma dell’Io. In altre
parole, l’incontro con l’immagine ideale del nostro corpo, quando ancora non siamo consapevoli del suo
perimetro e della sua conformazione, permette che si costituisca ciò che Lacan definisce il primo abbozzo
della soggettività: l’Io.
Infatti, spiega Lacan, per la vita di ognuno c’è stato un tempo in cui non esisteva la consapevolezza della
propria immagine corporea: il bambino, nei primi mesi di vita è un corps morcelé (corpo in frammenti), assolutamente confuso nell’indistinto caos post-nascita e scaraventato in una irrappresentabile sensazione di
fusionalità con l’oggetto-madre. Tra i 6 e i 18 mesi, subentra nel bambino un momento logico che inaugura
la capacità inedita (fino ad allora) di avere una anticipazione – attraverso una immagine visiva – della totalità,
della continuità, della morfologia e della coerenza del proprio corpo. Lacan, rielaborando gli studi etologici
sul mimetismo animale di Henri Wallon e Roger Callois e facendoli interagire con le intuizioni hegeliane
filtrate dall’insegnamento di Kojeve, usa la metafora clinica dello specchio: dai 6 ai 18 mesi il bambino, attraverso una serie di tappe intermedie, posto dinnanzi a uno specchio, riconosce la figura che vede come la sua
immagine corporea, ricavandone una “reazione giubilatoria”, ossia ricevendone gratificazione.
A questo proposito, in Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, scrive Lacan:
Basta comprendere lo stadio dello specchio come una identificazione nel pieno senso che l’analisi dà a questo termine:
cioè come una trasformazione prodotta nel soggetto quando assume una immagine – la cui predestinazione a questo effetto
di fase è già indicata dall’uso, nella teoria, dell’antico termine imago.
L’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza
motrice e nella dipendenza dal nutrimento che è il bambino, in questo stadio infans, ci sembra perciò manifestare in una
situazione esemplare la matrice simbolica in cui l’io si precipita in una forma primordiale, prima di oggettivarsi nella dialettica della identificazione con l’altro, e prima che il linguaggio gli restituisca nell’universale la sua funzione di soggetto359.
Questa esperienza, che potremmo definire una interiorizzazione della propria totalità attraverso l’immagine speculare, realizza, secondo Lacan, la prima coscienza di sé, cioè proprio l’Io. Lo stadio dello specchio,
359
J. Lacan, Scritti, cit., p. 88.
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dunque, costituendo il primo abbozzo dell’Io, rappresenta l’originaria identificazione con il proprio corpo
come totalità funzionante e dotata di una sua autonomia e, allo stesso tempo, rappresenta la base per le future, infinite identificazioni.
Ripeto, lo specchio, pur essendo un oggetto che permette la constatazione di questo momento logico del
bambino, è in fondo la metafora di un presupposto: quello secondo il quale l’identità dell’Io si realizza attraverso la mediazione dell’altro, dell’altro inteso come immagine esterna, come primo incontro cosciente con il
concetto di alterità. Lo specchio può dunque anche essere pensato come il “primo altro” (la madre, le figure
di accudimento primario) che permette al bambino di accedere a una esperienza riflessiva di riconoscimento.
Lo specchio, così come l’incontro con l’altro, produce uno sdoppiamento per cui la mia immagine (e il mio
riconoscimento di essa) esiste in virtù della presenza di un’altra immagine, quella che lo specchio o gli altri
mi rimandano. Lo specchio come funzione morfogena, dunque, metaforizza questo movimento dialettico di
riconoscimento che segna il primo abbozzo della soggettività e che, come “causalità psichica”, produce l’Io
nella sua natura immaginaria, cioè identificativa con una immagine esterna al soggetto stesso.
L’Io, dice Lacan nel Seminario II, è perciò un supplemento immaginario, un tampone narcisistico che
costituisce, in nuce, la mia soggettività ma che allo stesso tempo mi aliena da essa, in una paradossale dialettica tra l’identità e lo spossessamento. Questo accade perché il soggetto non coinciderà mai con l’imago, che
pure lo costituisce, sia che si tratti della prima identificazione con la propria immagine corporea, sia che si
tratti di ogni successiva identificazione con l’immagine ideale che i genitori, i parenti, gli amici, la società, gli
restituiscono durante la vita.
Poiché tutte le relazioni della vita adulta nascono dall’interiorizzazione della prima immagine speculare,
si inaugura la dimensione narcisistica dell’essere umano: il soggetto erotizza la sua immagine e vi rivaleggia,
dando origine ai meccanismi dell’aggressività, dell’invidia e, nei casi più estremi, della paranoia.
Con la teoria dello Stadio dello specchio Lacan, dunque, spiega clinicamente una cosa: la prima identificazione con un monumento virtuale (il Moi), che ha come scopo quello di ricevere cure e gratificazioni sociali,
costituisce come conseguenza un Io ideale (Ideal-Ich), formazione psichica appartenente al registro immaginario e rappresentativa del primo abbozzo dell’Io investito libidicamente.
Ecco spiegato il perché l’Io non possa essere pensato come il soggetto, perché non ne sia la sua sostanza,
come tutto il pensiero precedente postulava. L’Io non è sostanza del soggetto perché esso stesso non ha una
propria sostanza, formato, com’è, da una stratificazione infinita di identificazioni con immagini esterne.
L’Io non è soggetto perché è un oggetto: è preso “da fuori”, non nasce come entità originaria. L’Io, dunque, non è quel momento di sintesi unitaria della sua parte coscienziale, come voleva la filosofia idealistica,
ma il risultato di una diversa forma di unificazione grazie a una immagine esterna che andrà a riverberarsi per
sempre nella rappresentazione di un Io-ideale.
In questo senso possiamo dire che per il Lacan che cita il celeberrimo Je est un autre rimbaudiano, il
discorso sulla causalità psichica dell’Io non è un processo aurorale, originario e autonomo ma è un processo
costituente, derivato, aggregato, che apre inderogabilmente uno squarcio profondo tra il soggetto e la sua
imago.
Il Moi, per chiudere, pur essendo ineludibilmente prezioso per la prima costituzione della soggettività,
risulta alienante, sdoppiato, perché non ha un carattere auto-fondato, ma etero-fondato, eteronomo. Nelle
identificazioni con le immagini esterne, a partire dallo specchio, c’è una presa tale che il soggetto risulta
per sempre, come dice Lacan nel Seminario II, “aspirato dall’immagine”, in un movimento che, mentre dà
aggregazione all’Io, rendendone effettivo il riconoscimento, esilia per sempre il soggetto barrato in un luogo
del misconoscimento.
5.
Seguendo, dunque, questa nostra pista lacaniana sulla questione di come si costituisca il processo di soggettivazione che viene proposto quale base genealogica di tale psicopedagogia, abbiamo visto che
– la struttura della soggettività, nella teoria e nella clinica lacaniana, è barrata, ossia divisa intrapsichicamente tra il Je (soggetto dell’inconscio) e il Moi (l’Io razionale);
– il primo abbozzo di essa è rappresentato dall’Io;
– l’Io (Moi) è una configurazione immaginaria, cioè derivata da una immagine esterna;
– questa immagine esterna, a partire dallo Stadio dello specchio, viene interiorizzata, idealizzata ed erotizza-
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ta, costituendo la prima fondamentale identificazione del soggetto;
questa identificazione è la base e la prima di una lunga serie di future ulteriori identificazioni;
sebbene sia fondamentale per la prima costituzione dell’immagine di sé, intesa come struttura ortopedica
del corpo in frammenti, l’Io non ha un carattere autonomo, perché è un oggetto mutuato dall’esterno;
– l’Io, quindi, possiede uno statuto paradossale per cui, mentre rappresenta il prodotto di un riconoscimento ad opera della restituzione di una immagine esterna, contemporaneamente scatena un misconoscimento, o meglio, una alienazione all’interno della soggettività. Perché ci sarà sempre una impossibilità di
aderire perfettamente all’immagine dello specchio.
Quanto detto finora sembra corroborare l’ipotesi di partenza di tale indirizzo psicopedagogico, che poggia sulla comprensione clinica della relazionalità di una immagine costituente.
Ora, a partire dagli anni Cinquanta, Lacan si concentra sulla considerazione clinica secondo la quale i
passaggi della causalità psichica fin qui elaborati non possono rimanere stagnanti all’interno della alienazione
identificatoria. Come dire, non di solo Io vivrà l’uomo!
L’oggetto della relazione che ogni soggetto intrattiene con l’immagine dell’altro (lo specchio, la madre, il
simile), è indicata da Lacan con la grafia a (si legge a piccolo). Ogni considerazione su questioni che interessano il narcisismo, l’aggressività, la paranoia sono, per certi versi, una riflessione dei rapporti tra $ e a, cioè tra
il soggetto barrato e i suoi oggetti di amore identificatorio.
A partire dalla fine del Seminario II e poi con il Seminario III (Le psicosi, ed. francese 1981) e il Seminario IV (La relazione oggettuale, ed. francese 1994), ma soprattutto con saggi quali L’istanza della lettera
nell’inconscio e Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (entrambi presenti negli Scritti
del 1966), Lacan si concentra sulla elaborazione del cosiddetto registro Simbolico. L’ordine simbolico è quella categoria della vita psichica che a che fare con il superamento dell’alienazione immaginaria (quindi del
soggetto pensato come una sommatoria di identificazioni che realizzano la costituzione “a cipolla” del Moi)
e che arriva a strutturare la realtà del soggetto, il suo Je.
Quello che vuole dimostrare Lacan è che – al di là dell’Io, inteso come “carta copiativa” di una serie
di identificazioni le quali, stratificandosi, formano la sua matrice immaginaria – il mondo umano non può
ridursi esclusivamente al dramma dello specchio, alla sua claustrofobia narcisistica, e il $ non si esaurisce nel
suo rapporto derivativo con l’immagine di sé. Se fosse solo così, l’uomo sarebbe destinato alla palude del narcisismo e di quello che un altro psicopedagogista, Donald Winnicott, avrebbe definito il falso Sé. Per ragioni
di spazio non posso, qui, tratteggiare ulteriormente le questioni relative a questa fase ulteriore del pensiero
di Lacan. Quanto detto finora, tuttavia, può essere proposto come una prima ricognizione sulle fondamenta
della concezione lacaniana della soggettività, che, per le ragioni esposte, può, nell’opinione di chi scrive,
rappresentare le basi cliniche per il tentativo di costruire lo statuto epistemologico di una psicopedagogia del
soggetto di indirizzo lacaniano.
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