RASSEGNA STAMPA 6 MAGGIO 2010 www.avvenire.it Guerriglia

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RASSEGNA STAMPA 6 MAGGIO 2010 www.avvenire.it Guerriglia
RASSEGNA STAMPA 6 MAGGIO 2010
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Guerriglia urbana ad Atene
Molotov contro banca, 3 morti
È guerra urbana ad Atene e Salonicco per le proteste contro il piano d'austerità
del governo greco. Nella capitale la situazione è totalmente degenerata nelle
ultime ore, i manifestanti hanno lanciato bombe molotov contro negozi e banche
e hanno tentato di forzare il cordone di sicurezza attorno al Parlamento lanciando
pietre e bottiglie.
Un banca è stata colpita da una bottiglia molotov ed è scoppiato un incendio che
si è propagato nell'edificio. Tre persone sono morte e una ventina sono ancora
intrappolate nel palazzo. La polizia ha risposto con il lancio di gas lacrimogeni e
granate stordenti. Un palazzo del centro attaccato dai manifestanti è stato
evacuato dopo che è scoppiato un incendio. Fiamme anche in una una banca
colpita da una molotov.
A Salonicco i poliziotti hanno usato i gas lacrimogeni per fermare una sassaiola
contro le vetrine dei negozi. I disordini sono scoppiati a margine dei cortei di
protesta contro il piano di rigore varato dall'esecutivo per accedere ai prestiti
dell'Ue e del Fmi. Ad Atene 10mila manifestanti si sono uniti al corteo dei
sindacati del settore pubblico e privato e altrettanti sono stati stimati per quello
del sindacato comunista Pame. Tra gli slogan della protesta «Fmi e Ue stanno
rubando un secolo di progresso sociale» e «I ricchi devono pagare per la crisi».
Altre 14mila persone si sono radunate a Salonicco. Le manifestazioni hanno preso
il via poco prima di mezzogiorno mentre la Grecia era paralizzata dallo sciopero
generale, il terzo dall'inizio della crisi. I sindacati chiedono che il piano di rigore
venga bocciato e che siano puniti i responsabili dell'esplosione del debito pubblico
ellenico.
In tutto il Paese chiusi uffici pubblici, ospedali, banche e negozi e i trasporti aerei,
marittimi e ferroviari sono bloccati con alcune eccezioni per Atene in modo da
garantire la partecipazione alle proteste. Intanto la comunità finanziaria
internazionale ha lanciato l'allarme: secondo il presidente della Bundesbank, Axel
Weber, e il direttore generale del Fmi non sono da escludere «gravi effetti di
contagio» in Europa dalla crisi greca.
Statuto, i suoi primi 40 anni
Caduto il sistema corporativo fascista, due scarni principi della Costituzione hanno
retto, per lungo tempo, il sistema dei rapporti intersindacali in Italia. L’articolo 39,
secondo cui «l’organizzazione sindacale è libera». E l’articolo 40, che dispone: «Il
diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolamentano».
Troppo poco perché l’azione sindacale potesse trovare spazio nella realtà
quotidiana del mondo del lavoro. Almeno fino a quando la tumultuosa stagione
del ’68 non riaprì la questione sociale riproponendo, in un contesto di lotte e di
violenza, il tema della democrazia sindacale.
È in questo periodo che si colloca lo Statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970,
recante norme sulla tutela delle libertà e dignità dei lavoratori e sull’attività
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sindacale nei luoghi di lavoro. Proprio alla luce delle tensioni che l’hanno
generata, è spesso definita come la prima legge sindacale negoziata conosciuta
dall’Italia. Una legge che ha avuto il merito di rivitalizzare la scelta di fiducia dei
padri costituenti verso il sindacato, concepito come agente capace di portare
trasformazione sociale, degno di avere piena cittadinanza all’interno delle
fabbriche.
Sindacato come contropotere
La legge 300, costruita attorno a sei titoli, ha promosso il ruolo del sindacato
nell’impresa, in un contesto storico e legislativo dominato da una visione
autoritaria e paternalistica del rapporto di lavoro, che vedeva il lavoratore come
soggetto debole in quanto sottoposto al potere e al controllo del datore. Prima
della legge 300 (o forse, più precisamente, prima della legge sui licenziamenti del
1966) il sindacato era una realtà esterna all’azienda, limitata nella sua azione
dialettica con il datore di lavoro. Con lo Statuto il legislatore ha scelto, al
contrario, un modello di gestione dei rapporti di lavoro costruito attorno alla
tutela della «libertà e dignità del lavoratore», dove il sindacato è centro del
contropotere ed espressione più efficace e organizzata della volontà dei singoli.
Questo è il primo grosso filone di interesse della legge, che perciò contiene la
disciplina dei poteri datoriali: regolazione del potere di controllo, del potere
direttivo, del potere organizzativo e del potere di licenziamento. Nello Statuto il
legislatore ha voluto contrastare le possibili situazioni di compressione della
libertà di chi lavora nell’impresa; di conseguenza ha regolamentato rigorosamente
l’uso della polizia privata, il controllo a distanza, gli accertamenti sanitari, le visite
personali di controllo, l’esercizio del potere disciplinare e l’assunzione di
informazioni private.
Tutelata la libertà sindacale
Forse più importante e più decisivo negli anni a venire, è, però, il secondo nucleo
di norme, avente a tema la difesa e la promozione del sindacato. A questo
riguardo il legislatore ha scelto di tutelare l’esercizio della libertà sindacale e di
garantire la presenza dei sindacati nell’organizzazione aziendale. Nella parte
dedicata alla libertà sindacale la legge 300 ribadisce il diritto di associazione e di
attività sindacale nei luoghi di lavoro, la nullità di trattamenti discriminatori in
ragione dell’appartenenza al sindacato e il divieto di costituzione di sindacati di
comodo (i cosidetti "sindacati gialli"). È questa la parte della legge che contiene il
famoso articolo 18 che dispone, per le imprese di maggiori dimensioni, il
reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato nel proprio posto di lavoro, in
luogo del più tenue risarcimento dei danni previsto nella legislazione precedente.
Escluse le realtà più piccole
La legge 300 contiene poi una normativa promozionale dell’attività sindacale nelle
singole unità produttive, formalizzando una serie di diritti che agevolano l’azione
del sindacato: assemblee, referendum, permessi, diritti di affissione, contributi e
locali dedicati. Anche per questi profili il campo di applicazione della legge è
limitato alle fabbriche di medio-grandi dimensioni, che necessitavano allora di una
modernizzazione delle relazioni industriali. In effetti diversi passaggi dello Statuto
sono stati mutuati dalle concessioni ottenute dalla contrattazione aziendale nelle
grandi fabbriche del Nord (bacheche, referendum, stanze dedicate etc.). Sono
così rimaste escluse dall’applicazione della norma le realtà più piccole, che, tra
l’altro, nel corso degli anni, non sono andate diminuendo, ma aumentando,
confermando di conseguenza la debolezza del sindacato in tali realtà.Nel
prevedere un efficace strumento di repressione della condotta antisindacale, la
legge 300 ha messo a disposizione del sindacato un potente strumento
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processuale per conseguire in via giudiziaria l’effettività della azione sindacale.
Così facendo ha anche permesso l’intervento penetrante della magistratura nella
vita aziendale che tanto si è diffuso negli anno seguenti. La legge si chiude,
infine, con alcune norme sul collocamento, in quell’epoca dominato da una
concezione di monopolio pubblico tanto rigorosa sulla carta quanto ineffettiva
nella realtà del mercato del lavoro. Si tratta di articoli abrogati nel 2002 dal d.lgs.
n. 297.
I dissensi culturali
La legge 300, ora giustamente studiata come testo di importanza capitale, subì,
durante il periodo di discussione parlamentare, dimenticati attacchi di dissenso
culturale. In particolare era rinfacciato allo Statuto di occuparsi di materie di
competenza contrattuale e non legislativa e di dedicarsi eccessivamente al
sindacato invece che al lavoratore, limitato nei diritti proprio dalla forza
dell’organizzazione sindacale "istituzionalizzata". Negli anni queste posizioni sono
state superate, nella convinzione che lo Statuto potesse essere, per dirla con
Giacomo Brodolini, allora ministro del Lavoro, «non una proclamazione solenne
dei principi, ma la garanzia di una più alta condizione di dignità, di libertà e di
responsabilità del cittadino lavoratore». La storia ha dato ragione a questa
intuizione.
Emmanuele Massagli
Una svolta decisiva oggi da rimodulare
Per tutelare davvero tutti i lavoratori
La legge 300 del 1970, meglio nota come «Statuto dei lavoratori», ha segnato
un’epoca. Con essa i diritti del lavoro, solennemente proclamati nella Carta
costituzionale del 1948, fanno il loro definitivo ingresso nelle fabbriche e nelle
dinamiche quotidiane dei luoghi di lavoro. È stata una svolta determinante per
l’effettività di principi e tutele di legge ancora gracili, perché spesso disattesi nei
contesti lavorativi del tempo, quando un semplice “cenno del capo” consentiva al
datore di lavoro di sbarazzarsi senza troppi problemi delle persone non gradite in
azienda.
Ed è stata una svolta decisiva anche per la libertà e dignità di un lavoratore fino
ad allora oggetto di interventi protettivi di impronta paternalistica. Come se si
trattasse di una sorta di minus habens. Senza alcuna possibilità di riscatto come
persona, prima ancora che come protagonista dello sviluppo economico e sociale
del Paese.
La legge 300 si proponeva un vasto intervento di rafforzamento delle tutele nei
luoghi di lavoro. Un vero e proprio «statuto» o «carta dei diritti» della persona
che lavora. Tale da consentire al cittadino-lavoratore di recuperare pienamente,
anche in ambito lavorativo, la propria soggettività contrattuale e relazionale. E lo
faceva secondo i condizionamenti del tempo. Fotografando cioè le logiche e gli
assetti di produzione della grande fabbrica industriale – incentrata su modelli di
organizzazione del lavoro standardizzati e di impronta prevalentemente fordistataylorista – e con un perimetro aziendale fisicamente ben definito. Come
altrettanto definiti erano i cicli di vita e i percorsi di lavoro, tendenzialmente
stabili e proiettati per una carriera ininterrotta, dalla assunzione fino al
raggiungimento della pensione.
Confermata l’idea del governo pubblico delle fasi di incontro tra la domanda e
l’offerta di lavoro, secondo una visione rigorosamente monopolista, la legge 300
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si concentrava esclusivamente sulla fabbrica quale regno, fino ad allora
incontrastato, della autorità del datore di lavoro. E lo faceva enucleando, in primo
luogo, un corpus di diritti fondamentali, agevolmente azionabili, a tutela della
libertà e dignità della persona del lavoratore. Bilanciando, in secondo luogo, i
poteri del datore di lavoro attraverso il riconoscimento e la valorizzazione del
ruolo del contro-potere sindacale quale principale strumento di autotutela del
prestatore di lavoro.
Un sindacato che, grazie all’intervento della legge, inizierà a individuare nella
fabbrica il luogo privilegiato della sua azione. Quarant’anni di Statuto confermano
l’importanza davvero storica di questa legge. Ma anche la profonda distanza che
la separa dai nuovi modelli di produzione e di organizzazione del lavoro e dalla più
recente evoluzione di un mercato del lavoro sempre più terziarizzato e
frammentato.
Con forza lavoro intermittente e flessibile e per questo sempre meno radicata
presso la stessa azienda. Con continue transizioni occupazionali e professionali.
Che richiedono nuovi diritti e tutele anche per chi non lavora in azienda. Perché
inoccupato, disoccupato o semplicemente coinvolto in processi di riconversione e
ristrutturazione che implicano l’insorgere di nuove esigenze che spiazzano le
vecchie tutele di legge e di contratto collettivo e suggeriscono la definizione di
diritti post-moderni.
Tra i più importanti dei quali quello della formazione continua lungo l’intero arco
della vita, non contemplato dalla legge 300, e che tuttavia oggi rappresenta
l’unica e vera garanzia di stabilità occupazionale. La sfida dello Statuto dei
lavoratori era e ancora oggi è tutta qui. Nella capacità cioè di superare
atteggiamenti e mentalità di mera conservazione dell’esistente rispetto alla
imponente evoluzione dei mercati del lavoro. Perché uno statuto rigido, ancorato
a modelli del passato, tradirebbe la sua funzione storica che è ancora pienamente
attuale. Quella cioè di approntare, al di là delle tecniche e delle norme di dettaglio
di volta in volta adottate, un sistema di tutele moderne e mobili tali da consentire
il pieno sviluppo della persona attraverso e nel lavoro.
Michele Tiraboschi
www.corriere.it
CANCELLIERA FAVOREVOLE A RITIRO DIRITTO DI VOTO DEI PAESI CHE NON
RISPETTANO I TRATTATI
Merkel: «Sulla Grecia si gioca il futuro dell'Ue, il Patto di stabilità va cambiato»
Storico discorso al Bundestag: «Europa a un bivio, la Germania ora ha una
particolare responsabilità»
MILANO - La crisi greca e le sue conseguenze per l'Europa sono state al centro
del discorso tenuto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel davanti al Bundestag,
il Parlamento tedesco. Un discorso definito «storico» dalla maggior parte dei
commentatori.
CRISI GRECA E LEADERSHIP TEDESCA - Gli aiuti alla Grecia sono necessari
perchè «ne va del futuro dell'Europa e del futuro della Grecia in Europa» ha
esordito la Merkel che ha difeso il piano di sostegno ad Atene, assicurando che
nessuna decisione sugli aiuti alla Grecia sarà presa senza la Germania o contro la
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Germania. «La chiave per superare la crisi è con la Grecia», ha aggiunto Merkel,
per la quale l'Europa «si trova a un bivio». La cancelliera tedesca ha sottolineato
che dalla crisi finanziaria greca arriva una lezione, ovvero la necessità di cambiare
il Patto di Stabilità dell'Unione Europea. «Il compito del mio governo, e di tutti i
membri di questa assemblea oggi, è assicurarsi che si aderisca al patto di
stabilità, di difenderlo e continuare a modificarlo, (traendo una) lezione da questa
crisi», ha dichiarato la Merkel. «Deve essere riformato in modo tale che non
possa essere più violato», ha aggiunto, sottolineando «la particolare
responsabilità della Germania in questo processo di riforma. La cancelliera si è
detto favorevole al ritiro del diritto di voto - in seno alle istanze europee - ai Paesi
che non rispetterebbero i criteri di «ortodossia di bilancio» europei, come «ultima
istanza». Inoltre, «una procedura di mancato pagamento organizzato deve essere
elaborata» per gli stati della zona euro, ha aggiunto, riprendendo un’idea
avanzata dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. «Mi impegno
personalmente e con forza per questo» e questo stesso processo legislativo di
modifica dei trattati si annuncia «lungo e laborioso».
JUNCKER: «NON C'E' RISCHIO CONTAGIO PER SPAGNA E PORTOGALLO»
- Una nuova rassicurazione è arrivata dal presidente dell'Eurogruppo, JeanClaude Juncker, che ha ribadito che non ci sono rischi di contagio della crisi greca
ad altri Paesi europei come Spagna e Portogallo. Secondo il presidente
dell'Eurogruppo la situazione dei due Paesi «non è assolutamente paragonabile a
quella della Grecia». Pertanto, per Juncker, «non esiste il rischio di un contagio
oggettivo». Il primo ministro lussemburghese ha anche escluso la possibilità che
la crisi conduca a una «disintegrazione dell'euro».
Redazione online
Salvare Atene? Non funzionerà
Ciascuno risponda dei propri errori
Il commento
Il sole ha brillato per 24 ore dopo l’annuncio del piano definitivo-definitivo per
«salvare la Grecia» e prevenire il contagio. Non male. Molti di noi erano scettici
già domenica, quando il piano è emerso, e molti si sono preoccupati ancora di più
quando la Bce ha comunicato che avrebbe assorbito qualunque quantità di titoli
greci le banche volessero presentare in garanzia nelle operazioni di pronto contro
termine. Se servono 110 miliardi per tirar fuori la Grecia dai guai, quanto servirà
per la Spagna? E per il Portogallo? E per l’Italia? E per tutti gli altri? Se la
Germania inizia a indebitarsi per salvare uno a uno tutti i Paesi della zona-euro,
anche lei fallirà. Così non può funzionare e i mercati lo capiscono, ma i
responsabili politici non sembrano affatto capire i mercati. Questi ultimi,
simultaneamente, sono preda del panico e speculano per guadagnare. Chiunque
abbia bond spagnoli ha buone ragioni per il panico e chi non li ha può realizzare
grandi profitti puntando sulla loro caduta.
Coloro che dettero vita al Trattato di Maastricht quasi 20 anni fa lo avevano
capito. Videro che uno Stato con le finanze in dissesto avrebbe chiesto aiuto e,
con ammirevole lungimiranza, temettero che altri Paesi avrebbero risposto
favorevolmente. Il loro timore era che ciò avrebbe incoraggiato ulteriore
indisciplina di bilancio e che alla fine la Bce si sarebbe sentita obbligata a
assorbire i debiti: è così che sono nate anche le fasi di iperinflazione. Quindi i
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fondatori di Maastricht hanno inventato la regola contro i salvataggi, che è stata
violata dai governi lo scorso week-end e lunedì dalla Bce. Ed eccoci qua, davanti
all’abisso. L’unione monetaria è minacciata. Molti commentatori ritengono che ciò
riveli un errore di concezione e i responsabili di politica economica promettono già
la linea dura sul Patto di stabilità. Sarebbe stato meglio adottare un vero assetto
federale, con veri trasferimenti di sovranità nell’autorità di bilancio, ma
politicamente non è stato possibile. Tuttora non lo è, dunque rendere più duro il
Patto di stabilità non ci porterà da nessuna parte: nessuno può dire a un governo
e al suo parlamento cosa fare. L’unica possibilità è dire a un governo che la sua
sovranità implica che esso è il solo responsabile per le conseguenze delle sue
azioni. Questo sarebbe perfettamente coerente e dunque non c’è nessun errore di
concezione nel sistema. A meno che non vogliamo accettare il principio che la
violazione della regola contro i salvataggi è un’implicita componente dell’accordo.
Charles Wyplosz,
The Graduate Institute, Ginevra
LA MARCEGAGLIA: «NO ALLO STRAVOLGIMENTO DEI CONTRATTI»
Congresso Cgil: la platea fischia
Sacconi, Bonanni e Angeletti
Il ministro: «Preoccupante la contestazione a Cisl e Uil». Epifani: «Piano triennale
per l'occupazione».
ROMA - Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, aprendo i lavori del
XVI congresso del sindacato a Rimini, si è subito rivolto al governo, sottolineando
che la priorità di chi guida il paese per uscire dalla crisi deve essere il lavoro. Ma
l'attenzione, almeno inizialmente, è stata sviata dalla contestazione della platea
nei confronti dei leader degli altri due sindacati e del ministro Sacconi.
FISCHI A SACCONI E A BONANNI - Il congresso del primo sindacato italiano
ha segnato così la tensione che attraversa il movimento dei lavoratori, sia nei
rapporti interni sia in quelli con le autorità di governo e di rappresentanza
industriale. Sono infatti stati per Maurizio Sacconi, Raffaele Bonanni, Luigi
Angeletti, Emma Marcegaglia i fischi più rumorosi della platea. Oltre al ministro
del Lavoro, al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e ai vertici di
Confindustria, la platea della Cgil ha rumoreggiato anche alla lettura dei nomi di
Luigi Angeletti, segretario della Uil, e dell'ex segretario dell'Ugl, Renata Polverini.
Una vera e propria ovazione, invece, è stata rivolta a Nichi Vendola. Applausi
anche per Antonio Di Pietro, Fausto Bertinotti e Armando Cossutta. «È una strana
Cgil quella che riserva una standing ovation ad un vecchio democristiano come
Scalfaro e fischia i segretari generali di Cisl e Uil soprattutto» ha detto il ministro
del Lavoro, Maurizio Sacconi. «I fischi per me erano scontati ma quelli alla Cisl e
alla Uil sono più preoccupanti», spiega il ministro.
LA RELAZIONE DEL SEGRETARIO - Tornata la calma in sala, Epifani nella sua
relazione ha avvisato che la Cgil può arrivare alla proclamazione di scioperi sulla
nuova legge sul lavoro ma allo stesso tempo ha inviato Cisl e Uil, che ormai da
tempo non seguono la linea della confederazione di corso Italia su queste
iniziative, a evitare "lacerazioni". «Il lavoro, l'occupazione debbono costituire la
priorità delle priorità, il fondamento e l'obiettivo delle politiche industriali, di
quelle fiscali e sociali», ha il segretario aprendo il suo intervento di fronte alla
platea di oltre 1.000 delegati, ai leader di Cisl e Uil, della Confindustria, al
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ministro del Welfare, Maurizio Sacconi e al leader del Pd, Pierluigi Bersani.
Serve un «piano straordinario triennale per il lavoro e l'occupazione. Una
manovra di questa portata, con un terzo di nuova occupazione da creare nel
Mezzogiorno e attenta al lavoro delle donne abbasserebbe la percentuale dei tassi
reali di disoccupazione dal 10% del quarto trimestre del 2010 al 7,5% del quarto
trimestre del 2013», ha detto Epifani spiegando che ciò consentirebbe di creare
150.000 nuovi posti di lavoro, mentre la riconversione verso la green economy
produrrebbe in tre anni almeno 70.000 posti di lavoro. Un piano di micro opere
infrastrutturali creerebbe altri 150.000 posti, mentre la sospensione per tre anni
del blocco del turn over produrrebbe altri 400.000 posti. Epifani, ringraziando il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per aver respinto alle Camera il
ddl lavoro, ha però detto che per la Cgil anche la nuova formulazione della legge
è anticostituzionale . Rivolgendosi al ministro dell'Economia Giulio Tremonti,
"impegnato in un ruolo non facile in una fase di turbolenze dei mercati finanziari
che tornano a muoversi quasi come prima della crisi» Epifani ha invitato il
governo a riflettere sul fatto che sindacato e imprese sono concordi su come
risolvere la crisi.
SACCONI: «PIU' PARTITO CHE SINDACATO» - Per il ministro del lavoro Maurizio
Sacconi quella di Epifani è stata «una relazione molto deludente, che purtroppo
conferma la linea della confederazione di isolarsi da tutte le altre parti sociali, di
assumere comportamenti più simili a quelli di un partito di opposizione che non di
un sindacato portato a negoziare». Questo il commento a caldo del all'intervento
del segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani al congresso nazionale di
Rimini. Per Sacconi, tutte le proproste avanzate da Epifani «comportano uno
straordinario incremento di spesa pubblica, basti pensare alla richiesta di 400.000
nuove assunzioni nella pubblica amministrazione, una sorta di via greca al
socialismo che ci porterebbe all'instabilità che già la Grecia conosce. È una strana
Cgil - continua Sacconi - che osanna Scalfaro e fischia i segretari di Cisl e Uil. Per
fortuna c'è un'altra Cgil nelle categorie, nei territori, che poi all'atto pratico è più
disponibile alla mediazione». Per Sacconi, inoltre, «l'indisponibilità nei confronti
delle riforme normative purtoppo conferma un vercchio vizio della Cgil, basti
ricordare che lo statuto dei lavoratori fu bocciato dalla Cgil che non lo condivise
per nulla. Speravo - ha concluso il ministro - che questo potesse essere il
congresso di un'apertura soprattuto a Cisl e Uil, non avevo illusioni per quanto
riguarda il Governo, francamento non mi sembra che ci sia stata: valuteranno
loro, e questo mi dispiace».
CONFINDUSTRIA: «NO A STRAVOLGIMENTO DEI CONTRATTI» - Il leader degli
industriali, Emma Marcegaglia, commentando uno dei passaggi della relazione di
Guglielmo Epifani ha detto che Confindustria è pronta a delle modifiche sulla
riforma del modello contrattuale, ma senza degli «stravolgimenti». «Come
Confindustria - ha detto Marcegaglia - non abbiamo mai chiuso la porta alla Cgil.
Siamo pronti a dire quali sono le condizioni per ritrovare l'unitarietà. Ma - ha
avvertito Marcegaglia - bisogna capire: se si tratta di valutare qualche piccolo
cambiamento siamo disponibili, ma non se si tratta di stravolgimenti». Il
presidente di Confindustria ha poi aggiunto che «la proposta di rimuovere il turn
over nel pubblico impiego è una proposta che non condividiamo».
Per una combinazione di omesso controllo e problemi tecnici sulla
moderazione dei commenti relativi alla notizia sul Congresso della Cgil, è
apparso un messaggio di minaccia al ministro Maurizio Sacconi. Ci
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scusiamo con i lettori e con il ministro per l’inqualificabile errore
La Direzione del Corriere della Sera
www.milanofinanza.it
Grecia, potenziale impatto da banche su Balcani
05/05/2010 18.00
Bulgaria, Romania e Serbia possono soffrire per la crisi greca a causa della forte
esposizione delle banche della Grecia verso questi paesi. Lo ha detto il presidente
della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), Thomas Mirow. "C'è
un potenziale rischio in quesi paesi dove le banche greche giocano un ruolo
speciale: Bulgaria, Romania, Serbia", ha detto Mirow nel corso di una conferenza
stampa. "Fino a ora non abbiamo visto alcuno effetto importante, le consociate
delle banche greche si sono comportate bene", ha proseguito. Mirow ha inoltre
aggiunto che il Kosovo non è ancora diventato membro della Bers. "È necessaria
l'approvazione dei due terzi dei nostri azionisti e questa non è ancra la
situazione", ha spiegato.
Cina, crisi Grecia non ostacolerà la riforma valutaria
05/05/2010 12.00
La crisi della Grecia che sta scuotendo l'Europa consiglia di procedere con cautela,
ma non ostacolerà la riforma valutaria cinese. Lo affermano fonti governative
ufficiali. "Nel riformare il tasso cambio dello yuan, la Cina deve prendere in esame
la situazione economica globale. La crisi della Grecia, sicuramente avrà un
impatto ma non così rilevante" - ha affermato Ding Zhijie, professore
all'università di economia di Pechino e consigliere del governo. "Il primo luogo,
concentrarsi sulla riforma dello yuan resta una esigenza propria della Cina", ha
aggiunto. Dalla metà del 2008 il cambio dello yuan è stato ancorato stabilmente a
6,83 per dollaro, una mossa per proteggere l'economia dalla crisi finanziaria
mondiale che ha suscitato pesanti critiche all'estero. Ora con la ripresa delle
esportazioni e l'inflazione che accelera, molti economisti ritengono che Pechino
metterà mano alla riforma prima della fine di giugno, in occasione del vertice
sino-americano o al G20 del mese successivo.
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L’amara ricetta europea di Merkel non convince ancora i tedeschi
L’esito del voto di domenica nel Nordrhein-Westfalen è incerto. Tutti i motivi per
prendersela con la cancelliera
Il tono di Angela Merkel è sempre diplomatico e pacato, ma ieri la
cancelliera tedesca ha pronunciato davanti al Bundestag parole molto dure, per i
suoi elettori – domenica ci sono elezioni molto delicate – e per tutti gli europei.
Fate come dico io, ha detto Merkel, altrimenti l’Europa farà una brutta fine, l’euro
collasserà e tutti quanti dovranno, dovremo pagare. La Germania si assume le
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proprie responsabilità di fronte alla crisi greca e al pericolo di contagio ma impone
le sue regole: è questo il nuovo patto scritto da Merkel dopo mesi di negoziati per
scongiurare il fallimento greco e la fine dell’euro. Poche ore dopo questo discorso,
nella protesta greca c’erano i primi morti, tre persone arse vive in una banca
assaltata, simbologia fortissima di una crisi che è nata dalle banche e si è sparsa
nei paesi, nei governi, mettendo a rischio la solidarietà europea e ancor più la sua
tenuta in termini di confini geografici, e monetari.
Merkel ha parlato alle altre cancellerie del continente ma anche ai tedeschi,
perché parte della sua ostinazione nei confronti della Grecia – vi aiutiamo, ha
sostenuto la cancelliera, vi daremo gli oltre 22 miliardi in tre anni che ci sono
richiesti, ma a patto che accettiate una politica di austerità seria, io non pago per
le irresponsabilità altrui – è stata dettata anche dalla scadenza elettorale di
domenica: si vota nel Nordrhein-Westfalen, terreno infido, che già tradì nel 2005
il ben più presuntuoso Gerard Schröder. Ai tedeschi, già colpiti da crisi e
austerità, la faccenda greca è sempre andata di traverso. “Perché mai stiamo
salvando questo miliardario greco?”, titolava la Bild Zeitung venerdì, riferendosi
all’armatore e banchiere Spiros Latsis, che certamente userà i soldi tedeschi per
godersi (di più) la vita. Martedì la Bild è tornata all’attacco: “Signori ministri ci
dite che non un centesimo dei nostri soldi è a rischio. Se così è, sareste disponibili
a garantire in solido per il prestito concesso alla Grecia?”.
Il giornale Bild non perdona a Merkel di avere infine ceduto alle pressioni
europee; la stampa internazionale, gli analisti economici non le perdonano invece
di aver aspettato tanto prima di piegarsi. L’Economist ha accusato la cancelliera di
imperdonabile miopia (con una copertina che resterà nella storia, “Acropolis now”
nel titolo e Merkel in tenuta militare): anziché spiegare subito ai tedeschi che
mollare Atene voleva dire anche per i tedeschi pagare un conto salato, la
Kanzlerin ha fatto di tutto per posticipare qualsiasi decisione al dopo voto.
A dire il vero anche la stampa tedesca, e ben prima che esplodesse il caso
Grecia, scriveva che il governo federale era prigioniero di queste elezioni. Il
governatore cristianodemocratico uscente del Nordrhein-Westfalen, Jürgen
Rüttgers, non vuole i tagli fiscali richiesti dal governo. Nessuno li vuole, i tagli
fiscali: i sondaggi dicono che i tedeschi sono più preoccupati per il debito
pubblico. Ma perché Merkel ha permesso che la Germania e l’Europa diventassero
prigioniere di Rüttgers? E’ il trauma di Schröder? L’ex cancelliere
socialdemocratico perse nel 2005, andò a elezioni anticipate, perse anche quelle e
da allora l’Spd non si è ancora ripresa. Il Nordrhein-Westfalen è il Land più
popoloso della Germania, ma soprattutto l’attuale coalizione di questo governo
regionale (Cdu e liberali dell’Fdp) garantisce anche a quello nazionale la
maggioranza nel Bundesrat, il Consiglio federale. Se venisse a mancare, sarebbe
molto più difficile far passare leggi e riforme.
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Valeva la pena quindi per Merkel di ostinarsi attirandosi critiche da ogni
parte? Due giornalisti del canale pubblico Zdf l’hanno chiesto direttamente a
Merkel, che ha replicato sarcastica: “Ora, è vero che il Nordrhein-Westfalen è
importante, sarebbe però per lo meno bizzarro dire che ha in mano le sorti della
finanza internazionale. La crisi greca si gioca su un piano globale, non in un Land
tedesco. Noi volevamo semplicemente evitare decisioni affrettate”. Anche per
Peter Matuscheck di Forsa, il più grande istituto di rilevamento, ridurre tutto alla
paura per le regionali è una semplificazione eccessiva “anche perché – ricorda al
Foglio – tutti i partiti hanno fatto sapere subito che avrebbero sostenuto gli aiuti
alla Grecia”. Vero è invece che “Merkel quando può evita di andare apertmente
contro corrente – aggiunge il politologo Jürgen Falter – Ma anche qui a darle da
pensare era l’opinione pubblica nazionale. Secondo i sondaggi soltanto il 23 per
cento dei tedeschi è favorevole a un aiuto incondizionato”.
C’è anche un problema di comunicazione, scrive la Süddeutsche Zeitung. C’è
lo spettro di Schröder, ancora una volta. A lui risultò fatale il perentorio “si fa così
e basta” quando decise di introdurre la riforma dello stato sociale. Il suo non
comunicare costò all’Spd la roccaforte storica, che governava da quarant’anni.
Merkel, invece, “nonostante conoscesse perfettamente lo stato delle cose, e fosse
sicura di dover aiutare Atene, ha taciuto per dare ai tedeschi l’impressione di
essere una ‘casalinga assennata’ che non sperpera i soldi pubblici”, spiega il
politologo Gero Neugebauer”.
I tedeschi possono anche considerare la Grecia altro da loro, ma quando
sentono cifre come 22 miliardi e passa di euro da trasferire in direzione
dell’Acropoli iniziano a fare i conti in tasca al proprio governo. La Germania ha un
buco di 1.800 miliardi di euro e per l’anno in corso si calcola un nuovo
indebitamento netto di 80 milioni di euro. C’è la paura che, in quanto maggior
contribuente dell’Ue, in caso di altre crisi il paese finisca per dissanguarsi. Lunedì
sera, Angela Merkel ha cercato di rassicurare i connazionali, anticipando le
intenzioni future del governo: per dare più respiro alle casse comunali, la riforma
fiscale prevista per il 2011 sarà posticipata, come consigliato dal ministro delle
Finanze, Wolfgang Schäuble. La notizia avrà fatto piacere al governatore
Rüttgers. Così come gli avrà fatto piacere vedere la sollecitudine degli istituti
bancari che hanno offerto il loro contributo per il pacchetto Grecia. Una
sollecitudine che ha lasciato senza un’argomentazione Spd e Verdi e ne ha offerta
una alla cancelliera, che l’ha usata ieri nel discorso tenuto al Bundestag.
Ringraziando le banche, Merkel ha tenuto a precisare che ciò nonostante il fondo
di accantonamento previsto per gli istituti di credito (per far fronte a eventuali
crisi finanziarie future) sarà istituito.
“Se Rüttgers e la sua coalizione usciranno perdenti – ribadisce Matuscheck
– le ragioni riguarderanno principalmente la politica locale, regionale”, come
dimostrano anche rilevamenti più dettagliati condotti da Forsa. Se al governatore
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è riconosciuta maggiore competenza in materia economica, su tematiche sociali,
istruzione, lavoro è la sua sfidante a ottenere più consensi. Hannelore Kraft, 49
anni, sta diventando, come scrive il settimanale Stern, “la Merkel dell’Spd”. Se ci
fossero elezioni dirette del governatore, sarebbe lei a vincerle. La Grecia non sarà
il primo pensiero dell’elettore del Nordrhein-Westfalen, nemmeno l’ultimo però
stando ai commenti raccolti dai giornalisti del Zdf. Così una signora di Mühlheim,
città di 170 mila abitanti, dice: “Ci raccontano che il vero tesoro che possediamo
sta nelle nostre teste, se però non ci sono i soldi per far studiare adeguatamente i
ragazzi perché bisogna salvare la Grecia, allora non capisco”.
Fino a qualche mese fa Rüttgers aveva buone chance di essere riconfermato
insieme alla sua coalizione. In febbraio la Cdu aveva il 41 per cento dei consensi,
mentre l’Spd era schiacciata sul 32 per cento. Strada facendo la Cdu ha perso più
di quattro punti percentuali mentre l’Spd ne ha guadagnati tre. Nessuno chiedeva
a Merkel di replicare alla proposta provocatoria di un deputato del suo partito che
qualche settimana fa sollecitava i greci a vendere le loro isole, anziché chiedere
soldi. Ma è una provocazione che si fissa nella mente se dall’altra parte arrivano
solo messaggi poco chiari.
“Merkel poteva porre velocemente condizioni chiare, come quella di
un’agenzia di rating europea. Non doveva farsi strappare da quelle esistenti la
tabella di marcia tra le mani. A prescindere dal fatto che le agenzie di rating
dovrebbero guidare i mercati e non correre dietro ai loro sviluppi – spiega al
Foglio Bert Rürup, fino a qualche mese fa membro del consiglio dei saggi del
governo – Poteva anche spiegare più chiaramente che la sua fermezza, il
continuare a imporre condizioni più stringenti ad Atene non erano soltanto
finalizzati a guadagnare tempo in vista delle regionali, ma ad aiutare il governo
greco a far passare le pesanti riforme”. Avrebbe dovuto sfruttare l’occasione per
dimostrare che proprio la sua intransigenza può portare in futuro più rigore nei
bilanci e nel controllo degli stessi (un’esigenza sottolineata due giorni fa anche dal
governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi). “C’è chi dice che Merkel voglia far
diventare l’Europa e l’euro più tedeschi”, dice Neugebauer. E’ un messaggio dal
sapore nazionalista, ma che in patria le assicura un po’ di sostegno, visto che i
tedeschi alla disciplina salariale si sono attenuti per anni “e il costo del lavoro è
l’unica variabile ancora di competenza dei singoli stati dell’Eurozona”, ricorda
Rürup.
Tra errori di comunicazione e trattative in Europa, qualcosa nella campagna
elettorale nel Nordrhein-Westfalen è andato storto. L’esito delle elezioni resta
aperto. I giornali tornano a scindere la Grecia dal voto e sottolineano che il calo di
popolarità del governatore uscente è da imputare in massima parte a lui, in
particolare a due suoi errori. Il primo è di aver cercato di monetizzare i suoi
incontri diretti con gli imprenditori presenti a una fiera di settore. La stampa titolò
la notizia con “Affitta un Rüttgers”. Questa settimana lo Spiegel lo accusa di aver
finanziato in modo non trasparente le elezioni del 2005. I partiti sono cauti.
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Rüttgers si limita a dire che i Verdi non sono la sua opzione, mentre la sua
sfidante Kraft scommette sul ritorno di una coalizione rosso-verde. Gli unici a non
porsi alternative sono i liberali, che puntano tutto sulla Cdu. Ma loro sono all’8 per
cento e i Verdi all’11 per cento. In tanti sono pronti a scommettere che saranno
questi ultimi i king maker, anche di Rüttgers.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Andrea Affaticati
Storia, genesi e rimedi di quell’opera incompiuta chiamata euro
La crisi della Grecia segnala che all’Unione monetaria mancano reali convergenze
economiche e una vera unità politica
L’euro è stato creato dai dodici paesi che nel 1992 firmarono il Trattato di
Maastricht con due differenti riserve mentali: alcuni, e tra questi l’Italia,
pensavano che sarebbe stato il veicolo che ci avrebbe portato all’unione politica;
altri, e tra questi la Germania, che avrebbe agito da vincolo del lassismo fiscale,
monetario e valutario per i paesi proni a questi vizi. Il capo del governo tedesco,
Helmut Kohl, ha lasciato credere che fungesse da vincolo, ma sperava che
portasse a un’unione vera e propria per impedire che il suo paese tornasse ai
vecchi vizi egemoni; le recenti vicende testimoniano che ha sbagliato a non
parlare chiaro al suo popolo di quale fosse la sua idea di Europa unita.
Il capo di stato francese, François Mitterrand, condivideva ancor più di Kohl
l’obiettivo di imbrigliare la Germania in Europa, anch’egli sbagliando; ma è
doveroso riconoscere che la Francia aveva una maggiore vocazione europeista. Il
Regno Unito di John Major, forse è meglio dire dell’erede di Margaret Thatcher, è
stato al gioco per continuare a beneficiare dei vantaggi del libero scambio in
Europa e del protezionismo con assistenza all’agricoltura; ottenuta nelle
negoziazioni la clausola dell’opting out, se ne è avvalso, mantenendo la possibilità
di far fluttuare la sterlina e il potere di fissare tassi dell’interesse e quantità di
moneta secondo sue necessità, che non è poco. E’ l’unico paese che non ha
commesso errori. L’Italia di Giulio Andreotti, che aveva la facoltà di esercitare
l’opting out, non vi ha ricorso ed è entrata nell’euro fin dalla costituzione.
Fu Guido Carli, ministro del Tesoro, a perseguire l’obiettivo di porre un vincolo
esterno ai comportamenti dei governi e delle imprese nel convincimento,
esplicitato chiaramente nelle sue memorie, che l’Italia non fosse in condizione di
suscitare all’interno i comportamenti necessari per continuare a partecipare con
successo alla competizione globale. Ci sono seri motivi per sostenere che il
vincolo non ha funzionato, dato che abbiamo pagato quel poco di rigore fiscale e
valutario conquistato (l’euro ha avuto svalutazioni anche nell’ordine del 50 per
cento, dimensione mai vista in Italia) con un netto abbassamento del nostro
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saggio di sviluppo.
Comunque l’eurosistema ha funzionato perché gli andamenti economici
dell’habitat globale attenuavano i suoi difetti di costruzione: non essendo un’area
monetaria ottimale, avrebbe avuto bisogno di una politica fiscale comune che
inducesse la convergenza dei fondamentali delle economie partecipanti; ma ciò
equivarrebbe a realizzare quell’unione politica che il rigetto del Trattato
costituzionale di Lisbona ha dimostrato di non volere.
La crisi della Grecia, ma ancor più l’incapacità di affrontarla in modo concorde e
immediato, ha dissolto i sogni di gloria dell’euro e ha riproposto all’Unione
europea l’eterno suo problema irrisolto: il raggiungimento dell’unificazione
politica. Se vuole contare sui tavoli degli equilibri geopolitici deve procedere in
questa direzione, ma non vuole farlo; anzi sta scavando solchi profondi per non
arrivarci. Se avessimo ancora la possibilità di interpellare la Sibilla Cumana essa
ripeterebbe ibis redibis non morieris in bello, lasciando a noi poveri mortali di
decidere se sopravviveremo o meno alla guerra dell’Ellade.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Paolo Savona
L’Europa che salva la Grecia non tutela affatto i mercati europei
Il sostegno finanziario ad Atene incentiverà soltanto l’irresponsabilità fiscale dei
paesi dell’Unione. Meglio il default
E’ davvero necessario salvare la Grecia? Molti commentatori in questi giorni
rispondono affermativamente a questa domanda. L’idea è che in questo modo si
impartirebbe una bella lezione ai mercati e agli speculatori. Ne andrebbe della
salvezza di tutti quanti, in particolare di quegli altri paesi dell’area euro che
attraversano difficili condizioni di bilancio. Ma questa interpretazione di quanto sta
succedendo è a ben vedere non soltanto parziale, ma anche essenzialmente
incoerente.
Mi spiego. La Grecia ha un deficit di bilancio insostenibile e gli investitori temono
il default, quindi richiedono un tasso di interesse che li ricompensi del rischio.
Questa è la situazione. La speculazione c’è, ma non è il problema. Quando gli
speculatori costringevano l’Italia a svalutare la lira, lo facevano sulla base della
scarsa competitività dell’industria italiana, non come effetto di un arbitrio
distruttivo. Aiutare la Grecia con interventi finanziari che le permettano di
ripagare i debiti in scadenza, in questo momento, significa solamente aiutare
coloro che detengono questi titoli, e cioè soprattutto le banche tedesche e
francesi. Dal punto di vista tedesco, oggi la questione è se sia più costoso
(finanziariamente e politicamente) lasciare la Grecia al proprio destino e aiutare le
proprie banche direttamente oppure aiutare le proprie banche indirettamente
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attraverso un finanziamento alla Grecia.
Dal punto di vista dell’Europa però vi è un’altra questione importante: aiutare
la Grecia significa infatti segnalare ai mercati e agli altri stati membri che i
meccanismi di controllo della finanza pubblica dell’Europa non sono che pezzi di
carta senza valore, che uno stato può prima spendere fino a rimanere in mutande
e poi discutere e contrattare i termini del rientro. I costi economici e sociali del
rientro della Grecia sono purtroppo elevati, ma è proprio il timore di questi costi
che deve responsabilizzare i governi. No costi, tutti al party.
L’Europa nel suo complesso quindi, aiutando la Grecia oggi, non si
protegge dai mercati, ma anzi si apre alla speculazione di coloro che
scommetteranno sulla irresponsabilità fiscale dei governi dei paesi membri, specie
quelli che tradizionalmente hanno dimostrato una predilezione per questa
irresponsabilità. Non i tedeschi, quindi, ma i soliti paesi latini pagheranno la
perdita di reputazione dell’Europa. Da un punto di vista più generale, i problemi di
finanza pubblica tendono a dissolversi al sole di un paese in crescita, il cui
sistema economico è vitale e produttivo. Ma questo non è il caso della Grecia.
L’unica vera via di uscita stabile e persistente sarebbe quella di invertire la rotta,
liberalizzare i mercati, ridurre l’inefficiente settore pubblico, eliminare le rendite,
abbassare le pensioni e i salari. Non facile, ma questo sì necessario. E non
soltanto per la Grecia.
di Alberto Bisin
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Via libera dall'Eurogruppo al piano di aiuti da 110 miliardi
All’Europa dopo la crisi di Atene “mancherà qualche pezzo”
Analisti internazionali rispondono alla domanda: reggerà l’euro? La
risposta è sì, ma a fronte di “mutilazioni”
L'Eurogruppo, riunito in sessione straordinaria alla presenza del presidente della
Bce, Jean-Claude Trichet, ha dato il via libera al meccanismo di sostegno
finanziario triennale grazie al quale nelle casse di Atene saranno versati
centodieci miliardi di euro, di cui ottanta a carico dei paesi euro e trenta a carico
dell'Fmi. Il principale contribuente sarà la Germania, con 8,4 miliardi di euro,
seguita dalla Francia con 6,3 miliardi e dall'Italia con 5,5 miliardi. Il programma
di salvataggio avrà come contropartita un serio intervento di risanamento da
parte del governo di Atene, che annuncia tre anni di austerity con riduzioni di
stipendi e pensioni.
In una settimana i titoli di stato della Grecia sono diventati “spazzatura”, il
rating di Portogallo e Spagna è stato tagliato, Belgio, Irlanda e Italia si sono
ritrovati negli elenchi dei paesi a rischio contagio redatti dalla stampa economica.
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E’ la fine dell’euro? Non ancora, anche se l’Europa politica vacilla e il continente è
sotto pressione da est, da ovest, da nord e da sud. C’è sempre prudenza: “I
mercati rischiano di diventare irrazionali” e “in una situazione di speculazione a
oltranza non si può escludere uno scenario di contagio”, dicono molti analisti. Ma
nessun dramma se la Grecia va in default o è costretta a ristrutturare il debito e a
lasciare l’euro. Anzi, l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, sul Times di ieri
invitava a “cacciare la Grecia fuori dall’euro come avvertimento ad altri reprobi”.
Il problema sta altrove. Sono l’Unione europea e l’eurozona a trovarsi di fronte
a un’alternativa: promuovere una maggiore integrazione politico-economica,
oppure atrofizzarsi in un processo di ri-nazionalizzazione e marginalizzazione
globale.
L’euro resisterà alla crisi greca perché “continua a essere sostenuto da una
volontà politica forte di tutti gli stati membri”, dice al Foglio Thomas Klau,
direttore dell’ufficio di Parigi dell’European Council on Foreign Relations. Lo
dimostra il fatto che, nonostante molte contraddizioni, tutti stanno contribuendo
al salvataggio della Grecia, in nome della “stabilità” dell’euro. Compresa la
Germania che, per un mix di ragioni filosofiche ed elettorali, ha rinviato il più
possibile l’assistenza finanziaria.
“La zona euro reggerà”, conferma al Foglio Daniel Gros, direttore del
Centre for European Policy Studies (Ceps), uno dei dieci think tank più quotati al
mondo. Al massimo “mancherà qualche pezzo”, come la Grecia. L’attivazione del
meccanismo di salvataggio rischia di non servire a nulla, perché il governo di
George Papandreou “avrà delle difficoltà a ripagare i suoi debiti”.
Secondo gli esperti, le probabilità che Atene centri gli obiettivi del piano di
austerità concordato con Fondo monetario internazionale e zona euro – una
riduzione del 10 per cento del deficit sul pil entro la fine del 2011 – sono molto
basse. I tagli avranno un impatto negativo sull’economia e la recessione potrebbe
aggravarsi, con una riduzione delle entrate fiscali che minerebbe gli sforzi del
governo. Altri esperti avanzano un terzo scenario catastrofico: le rivolte sociali e
l’instabilità politica azzererebbero le speranze di controllare il debito greco,
rendendo inevitabile il default. Per Gros, “la situazione finanziaria richiede molta
coesione politica”. E, in Grecia, oggi “non c’è. Prima o poi sarà inevitabile una
ristrutturazione del debito”. In caso di default, “l’incentivo a restare nell’euro non
c’è più”, conviene tornare alla dracma. Se è vero che non esistono meccanismi
istituzionali per uscire dalla moneta unica, dice il direttore del Ceps, “non
possiamo mandare i gendarmi ad Atene” per impedire che la Grecia esca
dall’euro. “L’esclusione sarebbe politicamente umiliante, ma economicamente
benefica”, spiega Bill Emmott.
Allan von Mehren, economista della Danske Bank, ha calcolato che un
bailout di più paesi – come Portogallo e Spagna – potrebbe costare “500-600
miliardi”. Ma la loro situazione è molto meno preoccupante, anche se le opinioni
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divergono. Il Portogallo, secondo Daniel Gros, “ha una situazione economica
simile a quella greca, ma ce la farà”. Thomas Klau vede a Lisbona una “debolezza
potenziale per il suo indebolimento globale”. Bill Emmott dice che l’uscita dall’euro
sarebbe di beneficio anche ai portoghesi. Quanto alla Spagna, per Gros, è “too
big to fail” e “i suoi problemi di liquidità si possono risolvere”. Nemmeno l’Italia
“corre pericoli” perché c’è il “popolo dei Bot” e “il governo pagherebbe un prezzo
politico troppo alto” in caso di default. Comunque, secondo Emmott, è “molto
improbabile che Spagna o Italia vogliano seguire” un’eventuale uscita dall’euro di
Atene e Lisbona.
La crisi greca mette però la zona euro davanti a “un’alternativa semplice
– dice Thomas Klau –: avanzare o indietreggiare. Lo status quo politico e
istituzionale non è sostenibile. L’esigenza di migliorare i meccanismi è condivisa”
da tutti i membri. Il problema è che “ci sono forti divergenze sul modo migliore
per farlo”. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, sta formando una
task force per proporre le riforme necessarie. Pur di rafforzare il Patto di stabilità
la Germania ha espresso il desiderio di modificare i trattati. La Commissione
avanzerà le sue proposte il 12 maggio; i paesi che violano ripetutamente il Patto
di stabilità perderanno i fondi regionali. Ma gli stati membri sono divisi. Berlino si
oppone all’approvazione preventiva da parte di Bruxelles delle finanziarie
nazionali. Parigi dice “no” a un Fondo monetario europeo. I paesi del
Mediterraneo e quelli dell’est europeo non vogliono rischiare di perdere i fondi
regionali. Francia e Germania si scontrano sugli squilibri interni all’economia della
zona euro.
Secondo Matthew Kaminski del Wall Street Journal, “le divisioni emerse
negli ultimi mesi e la fine dell’asse Parigi-Berlino rendono un’unione più integrata
per governare l’euro un sogno irrealizzabile”. Per Daniel Gros, “in passato
avevamo avuto dei balzi in avanti dopo le crisi”. Invece, da quando è scoppiata la
crisi, “abbiamo avuto due volte il contrario”: prima con i bailout delle banche su
scala nazionale, poi con i ventisette piani di stimoli all’economia al posto di un
unico stimolo europeo. “Finita la grande paura, la risposta coordinata si è
frazionata e ognuno a casa sua” ha fatto ciò che ha voluto, dice Gros. Per Philip
Stephens del Financial Times, “il rischio non è tanto una rottura, ma l’atrofia che
deriva dall’assenza di leadership politica”.
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GRECIA - Alla fine la Ue con criminale ritardo trova un accordo. Draghi:
«Altri paesi a rischio»
110 miliardi contro il default
Nel 2010 il Pil greco giù del 4%. Solo nel 2017 tornerà ai livelli pre-crisi
Alla fine un accordo è stato trovato: 110 miliardi di euro in tre anni per salvare la
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Grecia dalla bancarotta e bloccare un contagio che già lambisce Portogallo e
Spagna. Per dirla con Mario Draghi «oltre alla Grecia ci sono altri paesi nel mondo
che, senza misure di aggiustamento precauzionale, sono esposti a un simile
rischio». I 100 miliardi sono la cifra che i paesi dell'eurogruppo hanno messo
domenica sul tavolo, assieme alla Banca centrale europea ed al Fondo monetario
internazionale: in totale 80 miliardi dall'Europa e 30 dal Fmi, 30 e 15 a testa per
quest'anno. Il salvagente inizierà ad arrivare per il 19 maggio, data in cui Atene
deve rifinanziare buoni per tesoro per circa 8,5 miliardi, e poi l'aiuto verrà
spalmato in 12 tranche ad un tasso di circa il 5% (mentre il prestito del Fmi sarà
al 3,62). Ogni 3 mesi Atene verrà messa sotto esame. Nessun regalo, quindi, ma
una vitale bombola d'ossigeno per la Grecia, attesa da un programma di
riaggiustamento dei conti assolutamente titanico. E domani c'è lo sciopero
generale. La Ces, la Confederazione dei sindacati europei, chiede che non siano
pensionati e dipendenti a pagare il prezzo più grosso di questa crisi, ma la
manovra greca è definita e su quella si basa il prestito internazionale. Non c'è
spazio di manovra.
«È un chiaro segnale per i mercati»", diceva domenica sera al termine della
riunione la ministra dell'economia spagnola Elena Salgado a nome della
Presidenza Ue. Effettivamente gli spread portoghesi hanno iniziato subito a
scendere, dimostrazione che il contagio potrebbe subire una battuta di arresto.
Poi ieri la Bce ci ha messo del suo, assicurando, con una misura unica, la
sospensione della soglia minima di rating per i titoli greci. Il che vuol dire che li
accetterà anche se sono come spazzatura; una seconda bombola di ossigeno
destinata alle banche elleniche, esposte per 45 miliardi di euro sul debito greco,
ma anche a quelle francesi, 79 miliardi di dollari, e tedesche, 43 miliardi di dollari.
«Con questa decisione il sistema bancario greco viene completamente ristabilito e
assicurato - ha celebrato la decisione di Francoforte Georgos Papaconstantinu,
ministro delle finanze greco - è una cosa molto importante perché annulla le
azioni delle agenzie di rating». La misura permette di combattere contro la
mancanza di liquidità e di non strangolare definitivamente l'economia del paese.
Il prestito e la successiva dimostrazione di fede della Bce, sono un segnale come
dice Salgado, ma arrivano tardi. L'Europa ha perso tre mesi in promesse,
paralizzata dalle elezioni nel land tedesco del Nord Reno-Westfalia del 9 maggio.
Alla fine Angela Merkel ha dovuto cedere all'evidenza, abdicare al salvataggio
prima dell'apertura delle urne in uno dei polmoni economici del paese e prima che
tutta la zona euro finisse in una spirale di destabilizzazione. Ieri il suo governo ha
già dato il via libera al provvedimento che permetterà di sbloccare i fondi tedeschi
per 8,4 miliardi per il 2010, (quello italiano lo farà a breve per la sua parte di 5,5
miliardi per quest'anno, anche se non è ancora chiaro come verranno finanziati).
Intanto, però, il prezzo del riscatto è cresciuto enormemente in queste settimane
di inerzia, bastava muoversi prima per tranquillizzare i mercati, e avrebbero
pagato tutti di meno.
Pagano di più i governi dell'euro, ma pagano salato soprattutto i greci. Il piano di
aggiustamento condanna il paese alla recessione, lo certifica pure Standard &
Poor's. L'agenzia, abbassando martedì scorso il rating dei buoni ellenici al livello
di spazzatura, pronosticava tempi durissimi per il Pil greco: -4% quest'anno e
solo nel 2017 tornerà ai livelli del 2008.
«Discuteremo sugli insegnamenti che ne derivano per la zona euro», scriveva ieri
Presidente della Ue Herman Van Rompuy nella sua lettera di invito ai 16 capi di
stato e di governo dell'eurozona per il vertice straordinario organizzato in fretta e
furia per venerdì sera. Andando più sul concreto Van Rompuy parla «di fare il
punto sulle procedure parlamentari che dovranno essere condotte a livello
nazionale nei prossimi giorni, in vista di chiudere l'insieme del processo». Non
sembra una discussione da capi di stato e di governo, comunque sia, già la
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Merkel chiedeva ieri di ampliare la materia della riflessione, proponendo norme
più rigide contro la speculazione finanziaria e «la trasformazione del patto di
stabilità perché non possa essere più aggirato», una chiara allusione ai trucchi
contabili e statistici della Grecia. La cancelliera non ha ancora digerito il rospo
dell'aiuto.
www.ilmessaggero.it
Moody's: Portogallo a rischio declassamento.
Spagna sotto l'attacco della speculazione
ROMA (5 maggio) - L'onda lunga della crisi greca coinvolge anche la Spagna,
sotto attacco da parte della speculazione finanziaria, e il Portogallo, finita nel
mirino di Moody's per un possibile declassamento.
«La Spagna non ha bisogno di assistenza finanziaria, ma è vittima di una
speculazione che non ha limiti e alla quale dobbiamo subito smorzare le ali»: così
il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, ha commentato le
voci «false» circolate ieri sull'eventuale missione del Fondo monetario
internazionale in Spagna. Rehn ha affermato che la speculazione sta
raggiungendo livelli incredibilmente alti: «Nessuno può negare che ci sono
tensioni, ma anche esagerazioni - ha detto Rehn - La Grecia è un caso unico e
particolare nella Ue».
Fitch: per la Spagna forse necessari nuovi tagli. Secondo l'agenzia di rating
Fitch, molto probabilmente la Spagna dovrà varare nuovi tagli per riportare sotto
controllo il terzo deficit di bilancio della zona euro se le previsioni del governo
sulla crescita economica dovessero rivelarsi troppo ottimiste. «Ci aspettiamo che
Madrid prenda ulteriori misure di consolidamento se la crescita economica
spagnola dovesse risultare inferiore alle attese» ha detto l'analista di Fitch, Eral
Yilmaz, sottolineando che «lo scenario peggiore è proprio quello di una crescita
inferiore alle stime». Il governo socialista di Josè Luis Zapatero ha promesso di
riportare il deficit di bilancio al 3% dall'11,2% del Pil entro il 2013 e prevede che
la Spagna crescerà dell'1,8% l'anno prossimo per accelerare al 3,1% nel 2013. Le
stime del governo spagnolo risultano superiori a quella della Ue. La Commissione
europea stima infatti una crescita dello 0,8% per la Spagna nel 2011.
La Spagna «rispetterà strettamente» il piano di riduzione del deficit
pubblico. Lo ha detto oggi il primo ministro Josè Luis Rodriguez Zapatero, che
già ieri aveva definito come pura follia ogni voce di una possibile richiesta da
parte del suo Paese alla comunità internazionale di 280 miliardi di euro per far
fronte ai suoi debiti. Da registrare che il rendimento dei titoli di Stato spagnoli a
dieci anni è salito al 4,15%: lo spread (il differenziale) con i bund, i corrispondenti
titoli di Stato tedeschi, ha toccato il record storico dall'introduzione dell'euro a
130 punti base.
Moody's ha messo il Portogallo sotto osservazione per un possibile taglio
del rating sovrano dall'attuale livello "Aa2": il tutto per un possibile
declassamento alla luce delle difficoltà del Paese a ridurre il deficit di bilancio e a
sostenere la ripresa economica. Il rating di "Aa2" corrisponde al terzo gradino
nella graduatoria dei livelli di investimento. «La decisione di oggi - scrive Moody's
in una nota citata dall'agenzia Bloomberg - riflette il recente deterioramento delle
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finanze pubbliche del Portogallo e anche delle sfide per la crescita economica nel
lungo periodo». Intanto il rendimento dei titoli di Stato portoghesi a dieci anni è
salito al 5,63%, portando lo spread con i corrispondenti bund tedeschi a 280
punti base.
www.ilsole24ore.com
Rehn: «Grecia caso unico, tarpare le ali alla speculazione»
Secondo la Commissione europea la Grecia tornerà "gradualmente" sui mercati
finanziari per piazzare il debito sovrano "ma anche oltre il 2012 e il 2013
copriremo parzialmente le sue necessità se sarà necessario". Lo ha detto il
commissario Ue, Olli Rehn.
Secondo Rehn, inoltre, la Spagna è vittima di una speculazione "senza limiti alla
quale vanno tarpate le ali". Sui mercati ci sono in questo periodo molte
"esagerazioni". La Grecia, secondo Rehn, "è un caso unico nell'Eurozona" e
nessun altro paese dell'Eurozona può essere paragonato a tale situazione. Tutti
gli Stati dell'Unione europea, ha ricordato il commissario durante la conferenza di
presentazione delle previsioni di primavera sull'economia Ue, «stanno mettendo a
posto i loro conti, anche Spagna e Portogallo.
Nessuno, come la Grecia, ha truccato i conti per anni. Ora anche Atene sta
correggendo e sono fiducioso che la finanza pubblica verrà ristabilita». Le
previsioni diffuse oggi, ha detto ancora Rehn, sono state messe a punto due
settimane fa, prima che Eurostat rivedesse i dati greci, il 22 aprile scorso: «ma la
revisione riguarda solo i conti di Atene e non cambia le previsioni per l'Eurozona o
l'Europa, visto che la Grecia pesa solo per il 2% sull'economia Ue». In particolare,
è previsto che il Pil scenda nel 2010 del 4,5% (le previsioni elaborate due
settimane fa previguravano un calo del 3%) e del 2,5% ancora nel 2011 (-0,5%
prima dei nuovi dati Eurostat).
«Sono sicuro che la Slovacchia rispetterà gli impegni presi e si accollerà la propria
parte di onere»: così il commissario Ue agli affari economici e monetari, Olli Rehn,
ha commentato la possibilità che il governo di Bratislava ritardi l'erogazione della
sua parte di aiuti alla Grecia.
Il premier Robert Fico ha più di una volta affermato che la Slovacchia non tirerà
fuori un euro fino a che non vedrà i primi risultati concreti del programma di
austerità imposto da Atene. Con la possibilità di uno slittamento della decisione
del governo slovacco a dopo le elezioni del prossimo 12 giugno.
A Bruxelles comunque ribadiscono che anche nel caso di rinvio delle decisioni in
un Paese gli aiuti della Ue per la Grecia saranno pronti in tempo, con la prima
trance di circa 8,5 miliardi di euro prevista per metà maggio.
5 maggio 2010
E ad Atene soffia il vento dell'antipolitica
dal nostro inviato Vittorio Da Rold
ATENE - Tira l'aria dell'antipolitica tra la popolazione greca che è rassegnata, per
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ora, di fronte alla manovra di austerità per salvare il paese dalla bancarotta, ma
non dimentica chi li ha condotti sull'orlo del precipizio.
«Dove sono finiti i soldi?» si chiede la gente convinta che qualcuno ci abbia
guadagnato nella grande abbuffata di fondi Ue, lavori per le Olimpiadi, swap e
riduzione dei tassi con l'ingresso nell'euro. In questo crescendo di sospetti dove
finora nessun leader è stato chiamato a rispondere del passato, ha fatto scalpore
la proposta di Andreas Vgenopoulos, 57 anni, imprenditore di successo, di
chiedere a tutti i politici una dichiarazione dei redditi prima di entrare in politica e
una finale da compilare al termine del mandato per vedere la differenza
patrimoniale. Immediata la levata di scudi del sistema dinastico-familiare della
politica greca (si alternano due famiglie al potere, i Karamanlis e i Papandreou)
contro l'uomo d'affari che ha osato lanciare gravi sospetti di corruzione sul
sistema. Ma la gente ha apprezzato perché c'è voglia di catarsi e di cambiamento
visto che la commedia si è trasformata in tragedia.
Papandreou ha cercato di bloccare la crescita in popolarità di Vgenopoulos
definendolo "lo sceriffo" per il tono inquisitorio che aveva assunto nel corso di
un'audizione parlamentare sulla privatizzazione della società pubblica di tlc Ote.
Per tutta risposta il ledaer del Pasok si è beccato una denuncia per diffamazione
dall'imprenditore rampante. Anche Alexis Tsipras il segretario del Syriza, partito
di estrema sinistra, ha subìto la stessa fine dopo un duro scontro in tv.
Vgenopoulos lo ha citato per un milione di euro affermando che se vincerà
verserà la somma nelle casse del partito del suo avversario. Una mossa che è
piaciuta agli elettori di sinistra.
Vgenopoulos, personaggio carismatico e brillante, è a capo di un impero con un
patrimonio stimato in 800 milioni di euro. Sterminata la lista delle società
controllate: l'uomo d'affari è presidente della Marfin Investment Group, la terza
società finanziaria del paese, ed è chairman di Olympic Air, la maggiore società
aerea del paese ora fusa con la Eagean. Controlla la Singular Logic, società di
software e due società di traghetti: la Blue Star Ferry (per le isole), e la Super
Star Ferry (per Ancona, Venezia, Patrasso). Non manca una clinica e una piccola
quota del 3% in una televisione privata, la Alter channel, e, ciliegina sulla torta, la
presidenza come maggiore azionista del Panathinaikos, la squadra di calcio di
Atene.
L'uomo, che ha sempre negato di voler entrare in politica, (almeno per ora) piace
perché parla in modo diretto alla gente senza usare il linguaggio oscuro della
politica tradizionale. In un'intervista tv sulla crisi ha riscosso molto successo tra il
pubblico perché ha spiegato come poteva essere risolta la situazione finanziaria,
lui laureato in legge all'università di Atene e in Business Administration alla Long
Island University di New York, cercando senza perdere tempo prestiti
internazionali presso investitori arabi. A muovere definitivamente le acque è stato
un editoriale apparso su Khatimerini, principale giornale greco, firmato da Alexis
Papachellas, autorevole commentatore politico, che ha apprezzato l'intervento tv
di Vgenopoulos per la sua precisione e sintesi di analisi.
Poi ha mandato un pesante avviso ai due leader dei partiti storici, Papandreou e
Samaras, avvisandoli che la gente è «affamata di facce nuove in politica» e ora
cerca qualcuno che cambi davvero il sistema ormai arrivato al capolinea. Su
Atene soffia il vento della Seconda Repubblica.
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articolo di mercoledì 05 maggio 2010
Crisi, l'analista: "L'Ue dia prova della propria esistenza"
di Andrea Indini
Apparentemente la questione greca sembrava aver avuto un lieto fine. Ma i
mercati hanno reagito male: ieri sono stati bruciati 144 miliardi. Severino: "In
campo è scesa una forza devastante: la speculazione"
Milano - "Apparentemente la questione greca sembrava aver avuto un lieto fine,
ma i mercati ci hanno riportato brutalmente al canovaccio tipico di una tragedia,
genere, di cui, stranezza del destino, proprio i greci sono stati maestri". I 144
miliardi bruciati ieri dalle principali piazze finanziarie del Vecchio Continente
hanno riacceso i timori di una crisi che sembra non spegnersi. Secondo Ulisse
Severino, analista di piazza Affari, "nonostante la cifra di 110 miliardi di euro
messa in campo dall'Unione europea e dall'Fmi e le draconiane riforme imposte e
comunque accettate da Atene", i mercati non hanno reagito bene.
Dottor Severino, cosa sta succedendo all'Europa?
"Il mercato teme che il piano di salvataggio sia insufficiente e quindi il problema
greco permanga e potrebbe contagiare gli altri paesi cosiddetti PIIGS, in primis
Portogallo e Spagna."
E i mercati?
"Ieri sui mercati era circolato il rumor di una richiesta di fondi straordinaria di 200
miliardi di euro da parte della Spagna e di un imminente downgrade del loro
rating da parte di qualche agenziia, ma nonostante le smentite ufficiali del caso, i
mercati hanno registrato in tutta europa e non solo, performance catastrofiche
nell'ordine del -4/5%."
Cosa si sta muovendo?
"E' indubbio che in campo sia scesa una forza devastante nel modo di agire: la
speculazione, che ha cavalcato dei problemi reali, ma di sicuro ne sta
esasperando le conseguenze, fino a teorizzare la nefasta fine dell'esperienza della
moneta unica. Ci sono dichiarazioni, interviste, iniziative a senso unico,
unilaterali, che presagiscono la catastrofe finanziaria di alcuni paesi europei. Ci si
affanna da più parti a cercare di trovare la soluzione, che a mio avviso potrebbe
essere più banale, cioè dare almeno una volta una corposa prova dell'esistenza
politica dell'Europa."
E gli Stati Uniti?
"Gli stati uniti hanno alcuni parametri macro che sono di gran lunga peggiori di
quelli dei paesi PIIGS, ma hanno la solidità e l'unità politica che danno loro la
capacità di reagire alla crisi prima e meglio degli altri e soprattutto impediscono
alla speculazione di affondare il proprio coltello nel burro. Una chiosa la riserverei
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alle agenzie di rating che ormai fanno da cassandra e al contempo sono il peggior
incubo di molti governanti e non solo. Il mito assegnava a cassandra la capacità
di predire il futuro, ma purtroppo di rimenere inascoltata. Nel caso delle agenzie
di rating, chi sarebbe così saggio da accettarne supinamente il vaticinio alla luce
di tutti i disastri dei prodotti finanziari che sono stati commercializzati anche
grazie al loro bollino blu e che poi si sono miseramente disintegrati sui mercati?"
Non c'è speranza, quindi?
"Al contrario! Vorrei proprio concludere con delle parole di speranza, quelle di Max
Frisch: Una crisi è una realtà utile e produttiva. bisogna solo toglierle il sapore
della catastrofe".
www.repubblica.it
Il mega-gestore: "Inutili
le agenzie di rating"
Lo ha scritto in un rapporto il direttore di Pimco, il maggior gestore
obbligazionario del mondo. "Facciamo meglio da soli"
NEW YORK - Le grandi agenzie di rating non sono più molto utili per le società di
investimento come Pimco, che possono essere più rapide e anticipare i
cambiamenti nelle valutazioni sulla qualità del debito. Questa è l'opinione
dell'americano Pimco, maggior gestore obbligazionario del mondo.
Le agenzie di rating "non hanno più una funzione valida per le società di
investimento che non devono sottostare a obblighi regolamentari", ha scritto Bill
Gross, direttore di Pimco, nell'Investment Outlook di maggio pubblicato sul sito
della società.
Gross allude al fatto che in moltissimi statuti è previsto l'obbligo di investire
soltanto in strumenti finanziari che abbiano un rating e spesso viene anche
precisato il livello minimo che devono avere.
Chi gioca a sfasciare Maastricht
MARCELLO DE CECCO
Che ingiustizia! La povera Irlanda costretta a pagare il 5.3% per i prestiti a dieci
anni! 230 punti base sopra i bund tedeschi. Pare di sognare, eppure questa difesa
appassionata dell’isola verde e delle sue disastrate finanze non viene solo dal
signor Corrigan, gestore del debito pubblico irlandese, che l’ha appena fatta,
come è suo dovere, in una conferenza stampa a Parigi. La si trova invece nella
autorevole rubrica Lex del Financial Times del 29 aprile scorso.
E’ bello avere parenti così affettuosi e altolocati. Essi non esitano a elencare le
colpe della loro protetta, tali da farla apparire in una situazione obiettivamente
peggiore della Grecia, per debiti delle banche, un deficit pubblico che al 14.3% è
il più alto dei paesi sviluppati, crollo della produzione, aumento dello stock di
debito pubblico al 65% (ma a Parigi Corrigan ha onestamente dichiarato che a
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fine 2010 si toccherà l’ottanta per cento del pil, contro il 25% prima della crisi.
Il ministro delle finanze irlandese ha tagliato i salari dei dipendenti pubblici. Ma i
mercati sembrano non tenere questa coraggiosa misura in conto, si lagna Lex.
Forse perché pensano, come fa il cupo economista tedesco Daniel Gros, quando a
proporlo è la Grecia, che si tratta di pannicelli caldi. Altro ci vuole In effetti, altri
45 miliardi di Euro occorrono alle banche irlandesi solo quest’anno, su un pil
irlandese che nemmeno raggiunge i 200 miliardi, per tappare alcuni dei loro
buchi. Chi glieli darà al signor Leinihan? Altri altolocati amici, si suppone. Come
lasciare nelle peste l’Irlanda, dove hanno sede diecine di multinazionali per il
ridicolo trattamento fiscale e per altre ragioni che ne fanno il più grosso centro
offshore d’Europa?
Quando si dice l’obiettività della stampa anglosassone.
Nel precipitare della crisi, sembra di poter scorgere alcune peculiari convergenze
e coincidenze, nell’attacco alla Grecia. Le esitazioni tedesche, le ipocrisie francesi,
l’agitarsi a volte senza bussola delle autorità comunitarie e di quelle della Bce.
Il declassamento del Portogallo e della Spagna è stato poi un colpo di teatro
veramente magistrale, perfettamente sincrono alla chiusura delle gigantesche
operazioni di ribasso in atto. A inizio anno, il signor Taleb, autore del "Cigno
Nero" e gestore di un fondo speculativo, aveva dichiarato che non mettersi al
ribasso sui titoli di stato era al disotto della dignità. Standard e Poor’s ha scoperto
le debolezze della Spagna proprio al momento giusto. Come non accorgersene
prima e come non confrontare alcune variabili positive spagnole con quelle assai
più negative di paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna? E’ stato notato da un
giornale italiano, ad esempio, che le tre massime banche americane hanno fatto
grandi profitti, nei mesi scorsi, ma al costo di una posizione di rischio che è ora
del tutto uguale a quella che era subito prima dello scoppio della crisi subprime.
Ma la cosa non sembra preoccupare le agenzie di rating. Né coloro che le stanno
a sentire, malgrado il 93% dei bonds sui quali avevano messo la triple a sia
diventata spazzatura.
A questo punto, viene il dubbio che ci sia in ballo un folle piano di spaccare l’Euro
in due parti. E che sia all’attenzione delle cancellerie che contano. E l’Italia, da
che parte starebbe? E Irlanda, Belgio e Austria, emigrerebbero alla parte sud?
Supponiamo che questa settimana gli elettori inglesi ci regalino un Parlamento
"impiccato", senza maggioranza, e che quelli renani consegnino alle urne una
sconfitta della coalizione di governo, uno smacco che la Merkel meriterebbe
pienamente per la furbizia piccolo borghese di cortissimo respiro che ha mostrato
in questi mesi, uscendone sconfitta comunque. Sarebbe la giusta punizione per
avere fatto marcire la crisi greca, che a fine 2009 era risolvibile con pochi miliardi
di euro, trasformandola addirittura in una crisi esistenziale per l’Euro e l’intera
Unione Europea.
Può immaginarsi una strategia che veda i Pigs fuori dall’Euro? Non con l’attuale
costituzione europea. Lo si è ripetuto ad nauseam. Ma sì con uno sfascio
dell’Europa. E a chi conviene una simile prospettiva?
Forse gli industriali tedeschi insieme a qualche politico, pensano che un futuro di
grande potenza nazionale si profili di nuovo per la Germania, che la renda
competitiva con grandi potenze nazionali come Cina e Stati Uniti, e faccia per
sempre finire le esitazioni e i ritardi delle decisioni comunitarie. Quel che è certo è
che un ribasso drastico dell’euro li mette in ottime condizioni competitive. Inoltre,
non è impossibile che si stia profilando uno scambio di quote dei paesi del sud
Europa al Fmi in cambio di un aumento della ridicola quota cinese allo stesso Fmi.
Il silenzio della Francia in questi giorni è impressionante. Sarkozy aveva iniziato
bene, assumendo la leadership nella soluzione della crisi greca, ma poi ha smesso
di parlare. E il suo ministro del bilancio il 28 scorso ha difeso la posizione della
povera signora Merkel.
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Dato che questo folle piano passerebbe per una insolvenza greca, non capiscono i
cittadini tedeschi che sarebbero ancora una volta loro a pagare per le difficoltà in
cui nuovamente si troverebbero le loro banche, alle quali già molti dei loro soldi
hanno già dato? Se lo chiede Jurgen von Hagen, uno dei più accorti economisti
tedeschi, che non ha partecipato in queste settimane alla gazzarra alla quale si
sono abbandonati alcuni suoi colleghi dei quali avemmo in passato molta stima.
Al punto al quale sono arrivate le cose, è sempre più chiaro che un insolvenza
greca non è purtroppo più evitabile. Saggio sarebbe procrastinarla per un paio
d’anni, con un piano di emergenza, per poi passare al riscadenzamento e alla
ristrutturazione dei debiti della Grecia con la istituzione di una commissione
internazionale di controllo finanziario, del tipo di quella che fu istituita dopo la
crisi del 189397. Forse sarà utile ricordare che tale commissione fu
definitivamente sciolta solo nel 1978.
San Paolo e la parabola delle nomine
MASSIMO GIANNINI
Di fronte alla «rissa da pollaio» intorno alle nomine di IntesaSan Paolo, torna alla
mente il testamento morale di Guido Carli nei suoi «Pensieri di un ex
governatore»: «Credo che il diritto all’ingratitudine ammesso da Luigi XIV non si
estenda alle degne persone alle quali il Comitato per il credito conferisce cariche
di presidente e vicepresidente di casse di risparmio e di istituti di diritto pubblico.
Le investiture sono il risultato di estenuanti contrattazioni condotte nel corso di
mesi e forse di anni dalle segreterie dei partiti...». Era l’andazzo nelle banche ai
tempi della Prima Repubblica, quando sui giornali titolavamo a nove colonne «La
lunga notte delle nomine», raccontando le lotte intestine nel Cicr e nelle
segreterie DcPsi.
Ora, nella Seconda o Terza Repubblica, siamo tornati punto e daccapo. Sulla
Compagnia di San Paolo, in nome di una malintesa idea di «torinesità», si è
consumato uno scontro di potere che vede ancora una volta in campo la
manomorta della politica, che punta addirittura a condizionare la gestione delle
banche, incidendo sull’allocazione degli impieghi. È il frutto avvelenato della
vittoria elettorale del Carroccio che al Nord, sotto le insegne dei mitici «territori»,
entra come un elefante nella cristalliera delle fondazioni bancarie. E tutti si
accodano. Alleati di maggioranza e avversari di opposizione.
Nessuno può bollare come «leghista» Domenico Siniscalco, ma è un fatto che la
sua candidatura nel Consiglio di gestione della Compagnia ricorda la parabola di
San Paolo sulla via di Damasco: un tecnico eccellente finisce suo malgrado
«folgorato» per il duplice endorsement TremontiChiamparino, cementato da una
logica di mutua occupazione geopolitica. Siamo passati da «le banche sono
nostre» di Andreotti e Craxi, all’«abbiamo una banca» di Fassino e D’Alema al «ci
prendiamo le banche» di Bossi e Zaia. I Signori del Credito, autoreferenziali e
irresponsabili, hanno tante colpe. Ma tra loro e i Predoni del Palazzo, superficiali e
insaziabili, sappiamo da che parte stare. Giù le mani dalle banche, per favore.
Sanno sbagliare anche da sole.
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l piano di salvataggio da 110 miliardi di euro per la Grecia è stato
approvato nel weekend.
In cambio, il popolo greco, si prepara allo sciopero. Una risposta assai poco
"politically correct", si potrebbe pensare. " Ma come, Europa e Fmi prestano 110
miliardi per non farla fallire, e loro fanno sciopero?". Il fatto è che quei soldi non
sono destinati a risollevare le sorti delle famiglie in difficoltà, ma serviranno
"solo" a tappare il buco del bilancio statale e ripagare il debito con le banche
straniere (prevalentemente si tratta di banche francesi e tedesche). Insomma,
una partita di giro, per cui Francia e Germania salvano il governo greco per
salvare le loro banche (che in questi anni hanno comprato tonnellate di debito
pubblico greco).
Intanto l'Italia si appresta a preparare il mega assegno per dare il suo contributo
al salvataggio della cugina del Mediterraneo. In prima battuta il nostro governo
dovrà prestare 4,5 miliardi di euro, ma non è escluso che si debba salire fino a 9
miliardi di euro. Se così sarà, possiamo dire che ogni famiglia italiana da 4
elementi pagherà indirettamente 600 euro per evitare il crac della Grecia.
Sciopero - In cambio dei soldi di Europa e Fmi, la Grecia ha accettato di
realizzare tutta una serie di riforme per ristrutturare il debito pubblico senza le
quali i prestiti non sarebbero stati concessi. Prevalentemente, la Grecia andrà a
colpire alcuni settori dove si ritiene sia indispensabile tagliare le spese. Tra
questi, vi sono i dipendenti pubblici. Sostanzialmente - per loro - saranno ridotte
le indennità, congelati stipendi e pensioni, ridotte la 13esima e la 14esima
mensilità sotto i 3 mila euro e abolite sopra questa cifra. Complessivamente per i
dipendenti pubblici lo stipendio si ridurrà del 20%.
Per questo il sindacato dei dipendenti pubblici Adedy ha annunciato 48 ore di
sciopero a partire da martedì, invece delle 24 previste per mercoledi, contro le
«crudeli e brutali misure senza precedenti». Mercoledi 5 maggio lo sciopero di
Adedy confluirà in quello generale, il terzo contro il piano di austerità , cui
partecipano anche il sindacato del settore privato Gsee e quello comunista
Pame.
Tempi del piano - La somma complessiva di 110 miliardi di euro sarà erogata
in 12 tranche, di importo variabile a seconda dei bisogni di Atene, che saranno
sbloccate ogni volta in seguito alla verifica dell’attuazione progressiva del
durissimo programma di austerità approvato ieri dal governo greco. La prima
tranche, che arriverà nelle casse di Atene a metà maggio, sarà per lo meno pari
ai circa 8,5 miliardi di euro che il governo greco dovrà pagare per i bond in
scadenza il 19 del mese.
La seconda tranche arriverà dopo la prima verifica dell’attuazione del piano di
austerità, a giugno.
Le altre verifiche si susseguiranno con scadenza trimestrale, a settembre e
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dicembre nel 2010 e poi a marzo 2011 così via. Le verifiche saranno effettuate
da missioni della Commissione europea, in accordo con la Bce, e del Fondo
monetario internazionale.
www.loccidentale.it
Cosa insegna il caso-Grecia
Ora un fondo monetario europeo
di
Leopoldo Voronhoff
5 Maggio 2010
Uno dei dati più allarmanti del caso greco e della crisi dell’euro - oltre allo stato
dei conti greci - è l’evidente impotenza delle istituzioni comunitarie. Commissione,
Banca Centrale, Eurogruppo e Parlamento da settimane si passano di mano la
patata bollente greca, in un frenetico balletto di cifre che non è ancora arrivato a
conclusione.
Il vero problema in sé non è la Grecia, ma l'inesistenza all'interno della Ue di
sistemi e procedure istituzionalizzate per la gestione di emergenze finanziarie.
Tanto per intenderci: se ci fosse stato un "Fondo Monetario Europeo" già rodato e
pronto all'ingaggio trovare qualche mese fa 20 miliardi per la Grecia sarebbe
stata una autentica bazzeccola. Ma così non è stato, e la bolletta sale di giorno in
giorno.
Questa assenza è gravissima. C'è dell'altro: la frittata greca di questi giorni non è
che una delle tante possibili manifestazioni di un peccato originale, di
un'omissione gravissima, di una svista forse fatale. Ecco perché.
L'Eurozona è un agglomerato di 16 Paesi, diversissimi tra loro in fatto di
economia. Pensare di poter tenere assieme una simile Babele economica senza un
adeguato meccanismo di compensazione/bilanciamento è pura follia. Le prime a
risentire di questa mancanza sono le economie più deboli dell'euro,
costantemente esposte a effetti depressivi, che le rendono massimamente
vulnerabili alle periodiche crisi recessive. In Italia questo discorso per troppo
tempo è stato considerato una perdita di tempo, un puro esercizio teorico da
accademico o da eurocrate.
Nei giorni scorsi queste colonne hanno puntato il dito contro l'atteggiamento
provinciale dei mezzi d'informazione di casa nostra, che guardano il dito e non la
luna. Come? Preferiscono scrivere che l'Italia ha un (micro) beneficio sui tassi di
interesse salvo dimenticarsi il (macro) costo del pacchetto d'aiuto. Il Sole 24 Ore
di ieri relegava in un lillipuziano colonnino in quarta una notizia bomba: il costo
della Grecia per l'Italia potrebbe passare da 5,5 miliardi di euro a 14,7 miliardi di
euro. La cosa più grave è l'incapacità di trarre insegnamenti da quanto accade.
Nella crisi in corso, ci sono invece importanti lezioni da studiare con attenzione e
digerire. Un elemento fondamentale è il fatto che la normativa esistente - i
trattati - impedisce prestiti tra Stati e l'acquisto diretto da parte della Bce di titoli
di eurodebito. Da un lato, come noto, manca il consenso nelle nazioni forti,
soprattutto in Germania, per i salvataggi di quelle deboli. Berlino si sta mostrando
più flessibile ma ricorda continuamente che ogni Stato deve arrangiarsi da solo
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per tenere in ordine la propria finanza pubblica. Dall'altro lato, i governi europei
stanno gestendo l'assenza di procedure d'emergenza mettendo in campo gli
equivalenti della nostra Cassa depositi e prestiti. L'idea è di far scorrere i fondi
per la Grecia fuori dal perimetro dei bilanci pubblici e reperire i miliardi necessari
per comprare i titoli greci che altrimenti il mercato non acquisterebbe. Non si
tratta di una soluzione permanente, ma di uno stratagemma per guadagnare
tempo. Tempo che - è ora - si può usare per mettere in piedi un fondo europeo,
di cui Tremonti e Schaeuble hanno parlato diverse volte in epoca non sospetta.
La missione non dovrebbe essere la pace nel mondo bensì la stabilità
nell'Eurozona. Nel caso della Grecia, questa rubrica raccomanda caldamente di
proporre ad Atene condizioni dure ma non troppo umilianti.
La Grecia ha infatti una pericolosa tradizione di instabilità politica, se perdesse il
controllo del Paese sarebbe un vero guaio. A quel punto, oltre a perdere la
Grecia, perderemmo di colpo anche gli aiuti già erogati. Ma c'è un'altra ragione
per cui è meglio prendere appunti e studiare: il problema della Grecia è
tragicamente attuale anche per l'Italia! Volete un esempio? Uno dei nodi principali
del tanto declamato federalismo fiscale è proprio la necessità di costruire una
"camera di compensazione" per evitare che le disparità tra il Nord e il Sud del
nostro Paese si traducano in una crisi irreversibile per i più deboli. È il dilemma
del federalismo: integrazione o disintegrazione?
La Calabria o la Campania non ricordano un po' la Grecia? Forse, tutto dipenderà
dalla capacità di predisporre per tempo misure "anti-sismiche", e non arrivare in
mezzo alle macerie fumanti.
www.opinione.it
Accanto a Beltratti spunta Roberto Firpo e ora tocca a Bazoli
Con l’insediamento del nuovo consiglio di sorveglianza di Intesa SanPaolo e la
costituzione dei comitati nomine e remunerazioni, la palla per l’individuazione dei
nove componenti del nuovo comitato di gestione della banca e del loro presidente
è passata nelle mani del presidente Giovanni Bazoli. Il comitato nomine, cui tocca
la proposta dei nomi, non è stato al momento convocato anche se il presidente lo
ha tenuto in pre-allerta, chiedendo flessibilità ai suoi membri. L’obiettivo che si è
dato il consiglio di sorveglianza, come riferito da un consigliere, è di definire le
nomine entro sabato. Con l’indicazione da parte della Compagnia di San Paolo di
Roberto Firpo quale secondo candidato al consiglio di gestione, insieme ad Andrea
Beltratti candidato alla presidenza, Bazoli ha probabilmente ricevuto dai soci tutti
gli eventuali “suggerimenti” per la formazione del consiglio. Sta a lui, in queste
ore, fare una sintesi delle varie istanze. Il presidente dispone quindi al massimo
di tre giorni di tempo per chiudere il cerchio ma, dopo i colpi di scena dei giorni
scorsi nati dalle tensioni in seno alla Compagnia di San Paolo, lo scenario pare più
tranquillo. In particolare non sembra ormai trovare ostacoli nei soci dell’asse
Torino-Milano la candidatura alla presidenza di Andrea Beltratti, indicato dalla
Compagnia di San Paolo, primo azionista della banca, e destinato al ruolo previsto
dallo statuto di snodo tra consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza,
affiancando il capo-azienda Corrado Passera.
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www.wallstreetitalia.com
SE PENSAVATE CHE "P.I.I.G.S." FOSSE OFFENSIVO, CHE NE DITE DI
"S.T.U.P.I.D."?
di Luca Ciarrocca
Gli americani si scatenano con la creazione di acronimi finanziari assai
dispregiativi per il nostro ed altri paesi. Suggeriremmo al ministro dell'Economia
Giulio Tremonti di rispondere formalmente e reagire a questo nuovo schiaffo antiitaliano.
La turbolenza sui mercati e' altissima, la gente in Europa e' preoccupata, le
200.000 persone in strada ad Atene, i 3 morti e molti feriti, gli assalti al locale
Parlamento e alle banche nelle manifestazioni elleniche costituiscono il momento
piu' buio e grave per l'Unione Europea dalla sua nascita. I disordini in Grecia sono
scatenati dalle proteste (spontanee o guidate poco importa) contro il
pesantissimo piano di austerita' che il governo ateniese e' costretto ad imporre al
paese. Il piano provochera' 10 anni di recessione e quindi non piace a nessuno,
solo che serve per scongiurare la fuoruscita della Grecia dall'euro, evento che
scatenerebbe "la madre di tutte le crisi finanziarie" nel castello del sistema
Europa. In tale scenario la speculazione internazionale fa il suo cinico gioco, ogni
ora, in tempo reale e attacca dove puo' e vede i punti di massima debolezza a
facile sfondamento. In pochi minuti si creano vaste ricchezze mentre molti
perdono. E soprattutto la gente normale perde.
Gli americani - o meglio certi poteri forti finanziari, spesso identificabili con le
frange piu' aggressive della speculazione, cioe' un fuoco di fila di hedge funds e
banche - si sono scatenati contro l'Europa non solo attaccando sul terreno
abituale di borsa e soprattutto del mercato obbligazionario ma anche con altri
mezzi; anzi con armi improprie di distruzione, propaganda, immagine. In che
modo? Perfino con la creazione di acronimi finanziari assai "insultanti" per il
nostro ed altri paesi, nazioni che certa finanza di New York assume siano in
difficolta' di bilancio; stati della UE che potrebbero avere la peggio da un effetto
contagio da cui il dollaro trarrebbe grande vantaggio.
I lettori di WSI conoscono gia' (lo usiamo da 2 anni) l'acronimo anglosassone
PIIGS, (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna): evoca dall'inglese i "maiali"
e raggruppa alcune nazioni ad alto indebitamento. Moltissimi ci scrivono email
rimproverandoci per questa scelta; inviano Commenti di protesta loggandosi ai
numerosi articoli che pubblichiamo sulla crisi europea; ci chiedono in sostanza di
smettere di parlare di PIIGS: e' offensivo e non utile all'immagine del paese,
dicono. Ma se tutte le maggiori banche internazionali il termine PIIGS lo utilizzano
nei loro report e studi, come si fa a tacerne dovendo fare oggettivamente la
cronaca di questi drammatici giorni?
Eppure adesso c'e' di peggio. Qualcuno negli Stati Uniti ha lanciato un nuovo
acronimo ancora piu' offensivo e insultante di PIIGS, stavolta una parola che non
lascia dubbi neppure a chi non conosce l'inglese: "S.T.U.P.I.D." Nelle sale trading
di Manhattan sono le iniziali di Spagna, Turchia, UK, Portogallo, Italia, Dubai, un
gruppo arbitrario e non omogeneo di nazioni legate insieme dalle iniziali ad uso e
consumo di una presunta debolezza fiscale di ciascuno. Pensate che e' stato
varato anche un indicatore STUPID, quello che vedete nel grafico in alto a sinistra
in pagina. Il titolo del grafico e': "Il rischio per le nazioni STUPID sale verso i
massimi del marzo 2009" (cioe' il mese in cui l'indice S&P500 crollo' alla diabolica
quota 666, bottom borsistico di 12 anni durante la crisi americana dell'anno
scorso).
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Ed ecco il testo di accompagnamento del grafico: "Il profetico STUPID sovereign
index e' adesso a 250 punti base dopo essere salito di oltre 50 punti negli ultimi
giorni. Di questo passo potremmo toccare il record di tutti i tempi di quota 370
raggiunto l'ultima volta nel marzo 2009 quando sembrava che il mondo finisse. Di
fatto - prosegue il testo, pubblicato da un website neworkese - con il fallimento
totale da parte di Fondo Monetario Internazionale e BCE nel prevenire il contagio
europeo, questa adesso e' piu' che una remota possibilita'".
Stando cosi' le cose suggeriremmo umilmente al ministro dell'Economia Giulio
Tremonti, per conto del governo di Roma, di rispondere formalmente a queste
considerazioni; sarebbe bene reagire con forza al nuovo pesante schiaffo antiitaliano per difendere il buon nome del paese, sbattuto impunemente nel gruppo
degli S.T.U.P.I.D. Lo fara', Tremonti? Abbiamo qualche ragionevole dubbio che
cio' possa accadere. Ma non si sa mai.
BUNDESBANK: IL GIOCO DI DIFESA DELL'EURO NON VALE LA CANDELA
Il consigliere tedesco della BCE Axel Weber dichiara che la minaccia di contagio
dalla crisi Greca ad altri paesi d'Europa non giustifica l'uso di ogni strumento. Il
rumor e' che la BCE potrebbe agire come la FED, comprando bond sul mercato.
Grave ammissione europea che aumenta la confusione e la turbolenza sui mercati
per l'area euro. Il consigliere tedesco della BCE, Axel Weber, ha dichiarato che "la
minaccia di contagio dalla crisi Greca ad altri paesi d'Europa non giustifica l'uso di
tutti gli strumenti". Il rumor e' che la BCE potrebbe fare come ha fatto la Federal
Reserve Usa nel 2008 all'apice della crisi finanziaria americana, comprando cioe'
centinaia di miliardi di bond governativi sui mercati (vedi a fondo pagina).
Nonostante il piano di aiuti promesso alla Grecia, la situazione del debito sovrano
dei PIIGS incomincia a fare davvero paura. Gli investitori temono che i 110
miliardi di euro offerti da Ue e FMI alla Grecia non saranno sufficienti a contenere
il buco di Atene.
"Il legittimo obiettivo di cercare di prevenire gli effetti del contagio nel sistema
finanziario europeo non giustifica l'utilizzo di tutti i mezzi", ha detto Weber nel
corso di un evento a Stuttgart, in Germania, secondo quanto riportato da
Bloomberg. "Le misure che danneggiano i fondamentali principi della moneta
unica e la fiducia della gente sarebbero sbagliate e nel lungo termine piu' costose
per l'economia", ha detto il presidente della Banca Centrale tedesca e candidato
n. 1 al posto di Jean-Calude Trichet alla BCE.
Sul mercato da giorni circolano rumor su un ulteriore declassamento del rating
del credito di Madrid, che hanno alimentato la paura che il contagio in area euro
dalla Grecia passi alla Spagna (leggere PIIGS: QUESTO SALVATAGGIO NON SI
DOVEVA FARE). Oggi Moody's ha annunciato che il rating del Portogallo e' in
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creditwatch, cioe' e' passibile di revisione per una prossima bocciatura, alla luce
della situazione finanziaria di Lisbona.
Nel frattempo aumenta il numero di coloro pronti a scommettere che proprio
Portogallo e Spagna faranno la stessa fine della Grecia, in termini di quasi
collasso finanziario ed eventuale bisogno di "salvataggio", per non rischiare
l'espulsione dalla zona euro.
"Il contagio e' gia' in marcia. Colpira' la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda e il Regno
Unito". Cosi' ha detto oggi l'economista francese Jean Paul Fitoussi. "Ciascuno di
questi paesi - ha aggiunto - e' solo nell'affrontare la crisi". "In Italia non c'e'
rischio di contagio, perche' c'e' un alto tasso di risparmio e c'e' un disavanzo
pubblico basso". Tuttavia tutti i CDS (credit default swaps) dei paesi PIIGS sono
oggi in forte rialzo. IL CDS della Repubblica Italiana e' salito sui nuovi massimi
storici.
Il cambio eur/usd e' sceso oggi ai minimi assoluti di oltre 13 mesi, sotto la soglia
di 1.30, per i timori di un contagio in Europa. Il rumor che circola nelle sale
trading di banche americane e negli hedge funds piu' aggressivi (interessati per
motivi speculativi piu' che ideologici alla scommessa short sull'euro) - rumor a cui
sembra essersi riferito Weber nel suo intervento - e' che la BCE possa essere
costretta ad utilizzare "altri strumenti" perche' la moneta europea non vada in
deflagrazione sotto l'attacco della speculazione. Altri strumenti come appunto
l'acquisto da parte della Banca Centrale Europea di bond e titoli di stato emessi
dai governi dei paesi membri Ue in maggior difficolta' finanziaria.
BORSA? NO, E' IL MERCATO DEI BOND A DETTARE
di *Leon Zingales
Continuare la speculazione contro l’euro per consentire
divenuto sicuro come buttare un cerino acceso in una
case scenario: dai PIIGS il contagio si espanderà
pachidermi: UK e USA.
LEGGE
la vendita dei Treasury è
pompa di benzina. Worst
come un virus fino ai
(WSI) – La maggior parte degli osservatori reputa il mercato azionario l’indicatore
privilegiato dello stato della crisi. Non e' cosi' (...).
In Fisica è noto come ogni particella debba essere rivelata con opportuni
strumenti. Qualora cercassimo di acchiappare i neutrini usando retini per farfalle
non osserveremmo nulla. Ciò non significa che i neutrini non esistono: si è
semplicemente sbagliato lo strumento rivelatore.
I mercati azionari sono ormai completamente distaccati dal sistema reale e le
fluttuazioni dei mercati obbligazionari sono semplici oscillazioni che servono a
trasferire risorse dal parco buoi verso gli agenti informati. In questo senso i
mercati azionari non sono più un indicatore della crisi. La FED è pesantemente
intervenuta nel mercato azionario guidandolo con sapienza, mediante un classico
effetto leva, onde consentire, mediante poche (si fa per dire) centinaia di miliardi
di dollari, una adeguata ricapitalizzazione del sistema finanziario.
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Il vero terreno di battaglia si è spostato nel mercato obbligazionario, in
particolare nella guerra per l’acquisto delle bombole di ossigeno per gli stati: la
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battaglia dei titoli sovrani. Le fluttuazioni dei mercati obbligazionari sono ben più
pericolose. L’attacco contro la Grecia è ormai un caso da manuale con un
meccanismo ben oliato: si attaccano i punti deboli della zona Euro, si fanno volare
i rendimenti obbligazionari, si gonfiano i CDS e, nel contempo, per contraltare, si
impone il dollaro come moneta di rifugio.
Ma il troppo è troppo: sottoporre a sollecitazioni sempre più ampie un sistema
rigido come l’euro sta celermente conducendo la moneta unica verso il punto di
rottura. Continuare la speculazione contro l’euro onde consentire la vendita dei
TBills USA è ormai divenuto rischioso come buttare un cerino acceso dentro una
pompa di benzina.
Nel momento in cui la fluttuazione sui Titoli di Stato amplificata dagli speculatori
raggiunge una soglia critica il sistema esibirà una transizione di fase. Un
repentino flusso di informazioni si propagherà per l’intero sistema mutando il suo
stato termodinamico. Non si creda di poter isolare il possibile default della Grecia
in un compartimento stagno sterilizzando il resto del sistema Euro. L’eventuale
fallimento determinerà un effetto domino che contagerà in modo repentino molti
altri paesi della zona Euro (Portogallo, Irlanda e Spagna, detti PIIGS) e poi si
espanderà come un virus inarrestabile fino ai pachidermi: Gran Bretagna ed USA
in primis.
L’errore (e direi anche l’orrore) degli economisti classici è credere che in il tempo
sia omogeneo. In prossimità di una transizione di fase il tempo corre: ghiacciata
una porzione di sistema, l’intero sistema celermente congelerà.
Si sono lanciati generici allarmi sul deterioramento dei conti pubblici, credendo
che il tempo giochi a proprio favore consentendo graduali e poco dolorosi
aggiustamenti; ormai il tempo dell’economia non si misura più in anni, tutto sta
accelerando. Gli eventi precipitano: il punto critico è vicino e nei prossimi mesi
(se non addirittura settimane) si ballerà parecchio.
*Leon Zingales, collaboratore di WSI, PhD in Fisica, e' professore al Dipartimento
di Matematica dell'Università di Messina e autore del blog IlCignoNero. Il
contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente
rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e
indipendente.
http://miaeconomia.leonardo.it
I mutui nonostante la crisi
(05/05/2010)
Non si ripetera’ una nuova Lehman Brothers dell’Egeo, almeno nel settore dei
mutui. Cosi’, nonostante in queste ore e’ altissima la protesta in Grecia, dove si
sta svolgendo lo sciopero generale contro le misure di austerita’, che domani
verranno votate dal Parlamento e che costeranno ai cittadini “lacrime e sangue”,
gli italiani alle prese con le rate della casa possono tirare un sospiro di sollievo.
Questa situazione e’, di fatto, ben diversa da quanto e’ accaduto nell’autunno del
2008, quando lo tsunami dei mutui americani si abbatte’ sul Vecchio Continente,
mandando in tilt il sistema bancario e facendo salire vertiginosamente il costo dei
prestiti.
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Oggi, invece, proprio a causa della bancarotta greca, la Banca centrale europea
non infatti mettere mano alla politica monetaria. Cosi’, non solo Bruxelles deve
tenere molto larghi i cordoni della borsa, ma dovra’ far slittare la decisione di
ritoccare all’insu’ il costo del denaro, fermo all’1% da quasi un anno.
Quindi, chi si aspettava eventuali indicazioni sulla exit strategy, ovvero sul
progressivo ritiro delle misure straordinarie adottate dall’Europa per aumentare la
liquidita’ a disposizione del sistema bancario a seguito della crisi, dovra’ aspettare
ancora un po’. Per la gioia dei mutuatari.
Tanto che gli economisti prevedono un aumento dei tassi solo a partire dalla
prossima primavera e anche le attese dei mercati sull’Euribor indicano una ripresa
graduale. Questo tasso interbancario, a cui sono indicizzati i prodotti a rata
variabile, resta infatti a un livello decisamente inferiore rispetto a quello del costo
del denaro e per il momento non risente degli scossoni greci.
In particolare, l’Euribor a un mese oscilla intorno allo 0,42%, quello a 3 mesi si
colloca allo 0,67%, mentre il tasso variabile a 6 mesi e’ battuto allo 0,98%. Valori
che da un paio di settimane registrano rialzi quasi impercettibili che, tuttavia, non
preoccupano gli analisti. Basta pensare, invece, che nell’ottobre del 2008 - nel
pieno della crisi - l’Euribor sali’ del 5% facendo schizzare verso l’alto anche le rate
dei prestiti per la casa.
Ma bisogna fare comunque molta attenzione perche’ un Euribor cosi’ basso e’
un’anomalia. Quindi meglio cominciare a mettere in conto un aumento del costo
delle rate per non rischiare poi di ritrovarsi in difficolta’ a fine mese.
Un’attenzione che deve essere prestata da migliaia di italiani, dal momento che 8
mutui su dieci richiesti nel 2009 e all’inizio del 2010 sono stati a tasso variabile.
Anche se di questi, il 40% e’ con il cap, ossia con un tetto massimo che consente,
a fronte di una rata leggermente superiore rispetto al tasso variabile puro, di
mettersi al sicuro da aumenti incontrollati dei tassi e quindi da sorprese
spiacevoli.
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