Il Manoscritto medievale. Frammenti di una mostra
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Il Manoscritto medievale. Frammenti di una mostra
IL MANOSCRITTO MEDIEVALE MATERIALI E TECHICHE FRAMMENTI DI UNA MOSTRA Calligrafia e miniatura sono legate tradizionalmente alla produzione letteraria anteriore alla nascita della stampa. Pochi sanno però che esse venivano usate anche per testi mu-sicali e documenti amministrativi e ben altro. Infatti nel Medioevo e nella prima epoca moderna una bella scrittura ed una decorazione, almeno delle lettere iniziali, erano elementi indispensabili per il prestigio, e quindi il valore, di un documento, tanto da giungere per certi usi sino ai giorni nostri, nonostante le innumerevoli alternative odierne. L'esposizione è un percorso prima di tutto fra gli strumenti ed i materiali, che per oltre un millennio sono stati usati per scrivere e decorare testi scritti. Si parte dalle pergamene, il robusto ed elegante materiale con cui venivano confezionati codici e diplomi, per passare poi a inchiostri, colori, leganti, che Francesco Mori, storico dell’arte e pittore grossetano, oggi ricrea con le stesse tecniche della tradizione, partendo da piante e minerali. Mori espone anche alcune miniature di sua fattura, che mantengono intatto il fascino della migliore scuola italiana, mentre una piccola sezione è dedicata all'arte della legatoria. Ovviamente in questa circostanza l'Archivio mette in mostra alcuni dei suoi pezzi più preziosi, volumi e pergamene, i quali, anche quando dovevano riportare contratti o decreti venivano comunque decorati nel modo più elegante possibile. LA PERGAMENA La pergamena fu il supporto scrittorio pressoché esclusivo per la produzione libraria tra IV e XV secolo, anche se risalente a tempi molto più antichi, almeno al regno di Pergamo, da cui prende il nome. Essa sostituì il papiro, predominante nell'antichità, più economico e pratico per la conservazione in rotoli ma il cui destino fu segnato dalla distruzione della biblioteca di Alessandria d'Egitto. Il materiale ricavato dalla pelle di ovini e bovini, tramite complessi e molteplici procedimenti, è invece molto più robusto e in grado di resistere quasi ad ogni tipo di calamità, come dimostrato anche in eventi recenti (alluvione di Firenze ecc.). La carta ne ha progressivamente ridotto l'uso in epoca moderna, ma per i documenti più preziosi ha continuato ad essere un supporto insostituibile. Si caratterizza per la presenza di due diverse superfìci. Il lato della pelle, che era attaccato alla carne dell'animale, è di colore più chiaro e presenta una superficie più liscia al tatto e una maggior grassezza, dovuta alla vicinanza agli strati adiposi sottocutanei. Il lato del vello che era invece coperto dal pelo h un colore che tende lievemente ad ingiallirsi e una superficie puntinata dai pori e dai follicoli ivi presenti, i quali gli conferiscono anche una maggior ruvidezza. La pelle della bestia appena scuoiata veniva inizialmente immersa nella calce viva, sostanza altamente caustica, al fine sbiancarla e di togliere il pelo e la carne ancora attaccata al derma. Successivamente veniva tesa su di un telaio mediante delle cordicelle e poi raschiata con un coltello dalla caratteristica forma semicircolare. In ultimo la pelle asciutta veniva fatta asciugare e riposta. Le pergamene sciolte più antiche mantengono spesso la forma grezza o "caudale" della bestia. Talvolta la pelle veniva ulteriormente trattata prima di ricevere la scrittura con la strofinatura sopra di essa di tre polveri: la pietra pomice (che veniva utilizzata anche in forma di pietra appiattita su di un lato), la sandracca, e l'osso di seppia. La prima sostanza serve per sollevare, tramite un azione abrasiva, una impercettibile peluria che consente il miglior assorbimento dell'inchiostro, la sandracca impedisce che quest'ultimo si spanda eccessivamente, mentre l'osso di rialcalinizza la pergamena, contrastando anche l'acidità dell'inchiostro ferrrogallico. LA MINIATURA MEDIEVALE I manoscritti medievali sono caratterizzati dalla presenza di illustrazioni, chiamate comunemente miniature. L'origine del termi-ne pare essere collegata alla parola "allume", il fissativo naturale usato in moltissime ricette per la realizzazione dei colori necessari alla decorazione libraria, nonché nella tintoria antica. Di seguito la descrizione dei pigmenti usati per la realizzazione delle miniature e della tecnica a tre strati comunemente impiegata per dipingerle. I PIGMENTI La miniatura medievale, così come ci viene codificata dai trattati più importanti giunti dal passato, è caratterizzata dall'impiego di più categorie di colori. I principali sono colori minerali naturali: terre: ocra gialla, terra di Siena, terra d'ombra, ocra rossa, ematite, terra verde; altri pigmenti minerali: azzurrite, malachite, lapislazzuli, cinabro naturale, oro, argento. Questi colori si trovano in natura come minerali solidi, misti talvolta ad altre sostanze che vanno separate dal pigmento mediante procedimenti specifici. Ci sono inoltre colori minerali artificiali: biacca o bianco di piombo, giallo di piombo e stagno (stannato di piombo); minio di piombo, cinabro artificiale, verderame, caput mortuum, oro musivo, nero fumo). I colori di questo gruppo sono ottenuti mediante procedimenti chimici a partire da metalli o da sostanze organiche. Poi colori di origine vegetale: succhi: succo giallo di erba gualda, succo giallo di spincervino acerbo, succo verde di iris germanica, succo verde di spincervino maturo, succo di ruta, succo rosso di legno brasile (verzino), succo di sambuco, succo di li-gustro, succo di tornasole (folìum); altri colori vegetali: indaco baccadeo, indaco europeo (guado), nero di vite, sangue di drago, zafferano, curcuma. E ancora lacche: lacca rossa di legno brasile, lacca gialla di erba gualda, lacca gialla di spincervino. Le lacche sono il punto di intersezione tra i colori vegetali e i colori minerali. Esse si ottengono infatti fissando, mediante l'allume di rocca, un succo colo-rato su di una polvere bianca inerte (biacca o gesso o polvere di marmo). Infine colori di origine animale: lacca di cocciniglia. In questo caso il succo colorante non è di origine vegetale ma animale. Il colore rosso purpureo di questo pigmento è infatti estratto dalle femmine di un piccolo insetto parassita (Cocus ilicis o Cocus cacti). L'INCHIOSTRO FERROGALLICO Benché fosse l'inchiostro più usato in epoca medievale, esso era già noto in epoca romana, ed era ottenuto dalle galle di quercia, che sono ricche di tannino e acido tannico, più solfato di ferro e gomma arabica. La sua facilità di produzione lo rese assai popolare e grazie alla sua durata e stabilità f u utilizzato per molti secoli. Era praticamente indelebile, contrariamente all'inchiostro ottenuto col neroftimo facilmente asportabile con l'acqua, anche se era causa di corrosione dello scritto come dimostrato in numerosi manoscritti. Il suo utilizzo si protrasse dal Medio Evo fino al 1950, ma a causa della sua alta acidità non era consigliato per i pennini metallici in quanto corrosivo e f u dunque necessaria l'invenzione di inchiostri adatti al nuovo strumento scrittorio. La penna d'oca, invece, era immune a questo tipo di attacco e perciò f u per secoli lo "sposo" ideale di questo strumento. Numerose sono le ricette e, a causa delle infinite variabili tra i vari componenti, alcune risultarono troppo acide con le conseguenze che noi tutti conosciamo, cioè la caduta dello scritto se non addirittura la perforazione del foglio. La sua acidità, tuttavia, viene contrastata dell'alcalinità della pergamena la quale, essendo trattata con calce, risulta avere un pH basico come anche la carta di cenci (cotone, lino o canapa) in uso prima della cellulosa, ma talvolta ciò non bastava come vediamo in alcuni fogli pervenutici da quei tempi lontani. Benché fosse nero all'origine, esso a causa di vari fattori (acidità, umidità, sostanze atmosferiche ecc.) poteva subire una sorta di metamorfosi e divenire rossobruno, quasi color seppia, così come noi siamo abituati vederlo ai giorni nostri. IL DISEGNO Il lavoro di decorazione del libro vero e proprio iniziava con il trasferimento del disegno sulla pergamena. Esso poteva avvenire sia tramite il ricalco di modelli - specie se si trattava di forme ripetitive ed elementari - sia con il disegno diretto delle figure da parte dell'artista. Per tale operazione nel Medioevo venivano impiegati due semplici strumenti: la brace e lo stilo metallico. La brace appuntita serviva a tracciare schizzi approssimativi del disegno, una volta spolverata con un panno o della bambagia o con il vessillo (la parte morbida) della piuma d'oca, rimanevano dei flebili segni grigi che potevano essere ripassati con stilo metallico o direttamente con inchiostro ferrogallico diluito. Le tracce in eccedenza del carbone potevano poi essere facilmente cancellate con il vessillo della piuma o con della mollica di pane. In alternativa e con leggerezza si poteva anche utilizzare lo stilo di piombo, anch'esso, a differenza dello stilo d'argento, cancellabile con mollica di pane. Generalmente i disegni erano sempre ripassati con inchiostro più o meno diluito, steso con penna d'oca, per consentirne una perfetta evidenza. Il disegno rimane spesso leggermente visibile sotto agli strati del colore o nelle zone marginali delle miniature. COLORI A GUAZZO PER LA MINIATURA La tecnica pittorica in uso nel medioevo per dipingere le miniature si chiama guazzo ovvero pittura ad acqua nota già nell'antico Egitto dove la si trova nelle decorazioni dei papiri. Nella definizione moderna la pittura ad acqua viene divisa in guazzo o gouache per definire un colore coprente o acquarello per definire un colore trasparente. Alla famiglia dei colori all'acqua non appartengono quei colori che, se anche diluiti con acqua, una volta asciutti divengono resistenti ad essa. La gomma arabica era il legante maggiormente usato per questa tecnica ma una tempera cosiddetta "magra, cioè con basso contenuto di olio, era ottenuta mescolando il pigmento con l'albume d'uovo. La tecnica della miniatura comprende l'utilizzo dei colori coprenti e di quelli trasparenti per cui essa è a tutti gli effetti una tecnica mista. La miniatura usa, infatti, un colore coprente come base e un colore trasparente per le velature aumentando così, in modo reciproco, i loro effetti. Coloro che si volessero cimentare nella miniatura moderna usando i colori reperibili in commercio dovrebbero combinare le tempere o gouache con gli acquarelli poiché la miniatura intesa nel senso tradizionale non sarebbe pensabile con l'utilizzo di soltanto uno dei due tipi di colore. GLI ELEMENTI CHE COMPONGONO I COLORI AD ACQUA Gli ingredienti che compongono i colori ad acqua sono sostanzialmente quattro. Il primo è il pigmento che è la parte che dona il colore, il secondo è il legante che funge da collante per il pigmento, il terzo è 1 ammorbidente che rende elastico lo Strato di pigmento steso con il legante, il quarto è 1 acqua che agisce da solvente per il legante e l'ammorbidente e come mezzo per dipingere. Nelle ricette i pigmenti che le compongono, essendo diversi tra loro per Struttura chimica e genere, vanno divisi in sei gruppi i cui componenti sono accomunati da identica natura. Il primo gruppo, è costituito da colori naturali a base di terre, il secondo è composto da colori naturali a base di minerali, il terzo raggruppa i colori storici artificiali derivanti da minerali, il quarto comprende i colori di origine vegetale, il quinto unisce i colori di origine animale e il sesto contempla i colori di sintesi moderni. Le sostanze leganti usate nell'antichità erano molteplici, la gomma arabica, è una secrezione di una acacia, Acacia Senegal, proveniente dalle regioni africane del Sahel. Solubile in acqua, che viene sin dall'antichità sfinttata per il suo potere agglutinate per la preparazione di pitture a guazzo, acquarello, nei colori a pastello, carboncino e la sanguigna. Ottenuta tramite l'incisione del tronco di tali piante da cui essuda seccandosi all'aria, si presenta in grani di varia grandezza e di vari colori, dal bianco al biondo sino al rosso ambrato. La si trova in commercio sotto forma di pezzi grezzi, in polvere o in soluzione acquosa. Altre gomme usate per la miniatura erano quelle ottenute dal ciliegio, pesco e prugno ma lo scarso potere legante ne determinò l'abbandono. Anche le colle animali (colla di pergamena, colla di cuoio, di pesce e di ossa), l'albumina e il tuorlo d'uovo erano spesso usati come leganti ma per il loro utilizzo era necessario prepararli al momento o tenerli costantemente umidi. Ciò non avviene con l'uso della gomma arabica che permette l'essiccazione del colore all'interno della scodellina e il conseguente riutilizzo sciogliendolo nuovamente con l'acqua e il pennello. L’ammorbidente si usa per mantenere l'impasto elastico altrimenti tenderebbe a screpolarsi mentre si volta la pagina su cui viene Steso. Essendo una sostanza igroscopica, cioè che trattiene l'umidità, impedisce la totale essiccazione del colore lasciando al suo interno una minima parte di acqua che lo lascia flessibile. Anticamente le sostanze ammorbidenti più usate erano il miele e lo zucchero, oggi nei colori in commercio si usa la glicerina per assolvere questo compito. L’acqua utilizzata come solvente dovrebbe essere distillata o perlomeno povera di calcare decantata. L'acqua piovana proveniente dagli incavi dei tronchi era caldamente consigliata nelle ricette del medioevo. Nei ricettari antichi pervenutici non esistono misure precise circa le proporzioni di tutti e quattro quelli ingredienti all'interno dell'impasto per il colore. Si limitavano a rapportare al volume di un fagiolo, di una noce o a quello che rimane attaccato alla punta dell'asticella del pennello ecc. oppure calcolavano il tempo per mescolare, riscaldare o rigirare con la durata di un padrenostro o di un'avemaria. DESCRIZIONE E RICETTE DEI COLORI STORICI PER LE MINIATURE In questo capitolo si possono trovare le ricette per realizzare i colori tradizionali e storici usati per le miniature e le decorazioni dei manoscritti medievali. Per ciascun colore sono date anche alcune notizie per quanto riguarda la sua natura e caratteristica. Alcuni colori facilmente reperibili in commercio già macinati e a basso prezzo, come la maggior parte delle terre, o gli ossidi e i minerali artificiali perché la loro produzione oltre che essere pericolosa per la loro tossicità, richiede attrezzature che difficilmente abbiamo a disposizione e ingredienti di non facile reperibilità. LE TERRE Le terre destinate alla produzione di pigmenti sono solamente di natura inorganica contrariamente alle terre composte da umus o torba che sono invece di natura organica. La terre coloranti sono dunque una sorta di pietra morbida, tenera. In natura le terre coloranti si presentano in forma di minerale compatto secondario come prodotto di metamorfosi o sedimento. Il confine tra i co-lori minerali, le terre coloranti e le pietre non è sempre così evidente; il minerale dell'ematite per esempio è ossido di ferro cristallizzato che per l'effetto della metamorfosi può trasformarsi in ocra rossa o gialla (terra colorante). I MINERALI NATURALI I minerali, contrariamente alle terre e alle pietre, hanno una struttura chimica sempre definita. Un tipo di minerale particolarmente puro può cristallizzarsi. Le pietre sono, invece, miscele di più minerali, esempio: il granito, il porfido e il lapislazzuli, come lo sono pure le terre coloranti, per esempio la terra verde che è composta dai minerali glauconite e celadonite. COLORI A BASE MINERALE ARTIFICIALE Fin dall'età classica l'uomo ha usato per la pittura oltre ai colori "naturali", cioè quelli descritti nei capitoli precedenti, anche co-lori di origine "artificiale" ottenuti per alchimia, cioè usando come base un minerale (piombo, rame, argento, mercurio, stagno, zolfo ecc.) e manipolati tramite fusione o per reazione con sostanze acide o alcaline come ad esempio l'aceto (la sostanza più a-cida nota in quei tempi) o l'ammoniaca ottenuta da urina fermentata e altri ancora ottenuti per combustione e carbonizzazione. Da alcuni pigmenti così ottenuti se ne potevano ricavare altri tramite la calcinazione in fornaci. I COLORI VEGETALI A questo gruppo appartengono tutti quei colori che provengono dal mondo vegetale, cioè sono ricavati da fiori, bacche, legni, erbe o radici. Per la loro natura questo tipo di colori sono piuttosto sensibili alla luce a causa della quale, se vi sono esposti a lungo, possono subire decolorazioni o viraggi in altre tonalità. Vennero largamente utilizzati dai miniatori e le loro tonalità brillanti e ricche di sfumature hanno da secoli arricchito le decorazioni dei codici nei quali si sono conservati perfetti sino ai giorni nostri grazie al fatto che per la maggior parte del tempo erano custoditi chiusi al riparo dalla luce. Si dividono sostanzialmente in due famiglie, una costituita dai succhi e l'altra dalle lacche. I succhi sono praticamente degli estratti coloranti ottenuti per la maggior parte dei casi tramite decotto in lisciva con aggiunta di allume di rocca o per spremitura. In entrambi i casi venivano successivamente lasciati asciugare dentro a delle conchiglie per poi poterli utilizzare come gli odierni acquerelli. Potevano essere utilizzati mescolandoli con i colori minerali per modificarne le sfumature o come velatura al di sopra di quest'ultimi per creare le ombreggiature grazie alla loro trasparenza. Le lacche sono composte da coloranti di origine organica (i succhi che ho descritto sopra) stabilmente legati ad una sostanza minerale che ne costituisce il supporto. Si chiama ancora "lacca" la combinazione chimica tra la sostanza colorante organica e composti inorganici capaci di formare un prodotto colorato insolubile. In questi casi il composto inorganico più usato è un derivato di alluminio. Secondo questo concetto sono vere lacche tutti i colori antichi ottenuti da succhi vegetali coloranti fatti reagire con allume, come ad esempio l'estratto di verzino, di erba gualda, di robbia ecc. Di norma la sostanza minerale di supporto è composta da materiale bianco inerte, in polvere sottile, generalmente gesso spento, creta bianca, marmo o biacca, che mescolata al succo colorato viene fatta reagire con l'allume di rocca il quale fissa ad essa il colore dei succhi. Il prodotto così ottenuto è un pig-mento che una volta essiccato viene impastato con acqua gommata e soluzione di acqua e zucchero come per i pigmenti di origine minerale. Anticamente si definivano i succhi colori "senza corpo", cioè senza sostanza, non palpabili e le lacche, invece, colori "con corpo" perché, dopo il processo acquisivano sostanza e tatto. COLORI DI ORIGINE ANIMALE I colori che appartengono a questo gruppo non sono molti e uno in particolare dona un colore che incanta tutti per la sua intensità e, per molti versi, maestà, è il vermiglione, conosciuto anche col nome di cremisi. L'altro è il nero d'avorio e di questi due parlerò poi in queste righe. Altri colori si ottenevano da parti animali, ossa o gusci, che opportunamente trattate davano il colore bianco. Dalle ossa combuste di vari animali si otteneva un bianco che poco veniva apprezzato dai miniatori tanto che anche l'anonimo autore del De arte illumìnandi diceva che non era buono perché troppo pastoso, ma era adatto a schiarire l'orpimento senza che quest'ultimo si alterasse. È noto, infatti, che l'orpimento essendo un solfuro di arsenico, non può essere mescolato con la biacca che è un carbonato basico di piombo, in quanto si decomporrebbero reciprocamente stando a contatto. Questo fenomeno era già stato notato nel Medio Evo per cui l'uso del bianco d'ossa, album de ossìhus, era pressoché esclusivo a questo scopo, mentre il bianco di piombo, cioè la biacca, rimase il bianco preferito dai miniatori. Altri bianchi si ricavavano dai gusci di uova e dalle conchiglie dopo un' opportuna calcinatura in apposite fornaci. LA DORATURA E LA SUA APPLICAZIONE NEI MANOSCRITTI E TAVOLE CALLIGRAFICHE Che cosa si intende per "doratura" nel nostro specifico caso? Si intende doratura l'applicazione di una foglia sottilissima d'oro al foglio di pergamena o di carta tramite un collante (mordente) di diversa natura. Esistono essenzialmente tre tipi di doratura due di questi: usano la foglia d'oro e uno usa la polvere d'oro. Nei due casi in cui si usa la foglia d'oro abbiamo un'ulteriore distinzione che consiste nel tipo di doratura e dal tipo di mordente impiegato per la sua applicazione. Partiamo con il primo tipo che comprende tutte quelle dorature cosiddette piatte. Questo tipo di doratura era utilizzato nei primi manoscritti. Sono chiamate piatte perchè non hanno spessore e cioè si pongono sullo stesso piano della pittura e il loro aspetto è leggermente opaco. Il mordente usato è dunque una sostanza liquida, senza corpo, leggermente cremosa e di varia natura, che una volta stesa sulla parte da dorare e lasciata asciugare, veniva ravvivata nella sua parte collante tramite il soffio del doratore e immediatamente e coperta dalla foglia d'oro la quale veniva pressata fortemente con il dito coperto da un fazzoletto di seta o da un pezzetto di bambagia. Spazzolando via l'oro in eccesso con un pennello morbido o il "piede di coniglio", rimaneva l'oro sul disegno desiderato. Le sostanze comunemente usate per 'questo tipo di doratura erano molto comuni e di facile reperibilità quali: il succo d'aglio, l'albume d'uovo, il latte di fico, il succo d'aloe o la gomma arabica ecc. che mescolate insieme ad altre sostanze, di solito coloranti, (le ricette sono numerose, e ognuna meriterebbe una sperimentazione accurata) venivano stese a pennello o a penna come nel caso della "chrisografia" (scrittura con oro). La più conosciuta delle sostanze impiegate era però la gomma ammoniaca che è una secrezione lattiginosa di una pianta ombrellifera che cresce nel Nord Africa e in Iran: la dorema ammoniacum. Il secondo tipo comprende quelle dorature cosiddette a rilievo. Questo tipo di doratura utilizza come morden-te un cuscino di materia "con corpo" (gesso o asiso) la quale dà una base bombata, tridimensionale, a rilievo appunto e pone la doratura stessa più in alto rispetto al piano della pittura. Per la sua preparazione esistono numerose ricette lasciate dai maestri del tempo ognuna delle quali contiene delle piccole varianti degli stessi ingredienti ma tutte efficaci. Il suo aspetto è il più accattivante, magnifico e splendido di tutte le dorature, grazie alla sua lucentezza cattura e diffonde la luce come uno specchio colpito dal sole e conferisce alla pagina su cui poggia tutta la regalità per cui è nato. Il terzo tipo di doratura fa parte delle dorature piatte ed è costituita da polvere d'oro amalgamata in un impasto di gomma arabica (collante-mordente) e una sostanza igroscopica (che trattiene l'umidità) che ne consente la flessibilità e ne previene le screpolature. Ebbe il suo massimo consenso dopo la seconda metà del XV secolo. Veniva largamente usato nei primi manoscritti come "inchiostro" per chirisografia soprattutto nei ma-noscritti purpurei del VII-VIII secolo. Solo nel XIII secolo venne sostituito dalla foglia d'oro che dava alla scrittura chrisografica un aspetto più luminoso al testo. Quest'oro impastato con le sostanze sopradette veniva messo a seccare in una conchiglia e al momento dell'utilizzo veniva bagnato con acqua e steso sul disegno come oggi si adoperano gli acquerelli. Ecco allora perchè questo tipo di oro è detto oro in conchiglia. Ognuno di questi tipi di doratura veniva usato singolarmente o in abbinamento tra di loro per conferire alla miniatura una diversa luminosità in base al tipo di accostamento. BIOGRAFIA DELLA PENNA D'OCA La penna d'oca fa la sua apparizione nella scrittura intorno al VI secolo d.C. e soppiantò il calamo, cioè il bastoncino (perlopiù di giunco) che a sua volta aveva preso il posto dello stilo quando dalle scritture incise (per esempio su tavolette cerate) si era nell'uso comune passati alle scritture tracciate su papiro; analogamente l'affermazione della penna dipese in gran parte dall'avvento della pergamena su cui erano possibili scritture più calligrafiche e ornate che sul papiro, scritture impossibili a ottenersi con il calamaio. Le più comunemente usate tra il secolo VII e il secolo XIX furono le penne d'oca: si sceglievano di solito le penne remiganti dell'ala sinistra (altri dicono la destra) che possiedono insieme le dimensioni e la curvatura più adatte; le penne erano sgrassate con cenere o sabbia calda, se ne tagliavano le barbe nella parte inferiore per una più agevole impugnatura, se ne tagliava la parte superiore nei modi - svariatissimi - che ne consentivano il migliore equilibrio della penna nel movimento della scrittura. La rachide, tagliata obliquamente veniva appuntita in modi diversi secondo le scritture che dovevano tracciare: con punte più o meno aguzze secondo la sottigliezza che si voleva dare al tratto, e smussate o troncate o arrotondate secondo il disegno e il chiaroscuro da ottenere; la penna d'uccello fu d'uso comune fin nella seconda metà dell'Ottocento, quando fu sostituita dal pennino metallico. CHE COS'È LA PENNA D'OCA Le penne sono strutture specializzate epidermiche che caratterizzano gli uccelli. Sono composte di cheratina (la proteina delle sostanze cornee, come i peli, i capelli, le unghie,gli artigli e le coma) e da alcuni pigmenti. Le parti principali che compongo-no una penna d'uccello sono: il calamo (la parte conficcata nella pelle), la rachide e le barbe che formano tutte assieme il vessillo. QUALI SONO LE PENNE ADATTE ALLA SCRITTURA Di tutte le penne che ricoprono l'ala quelle più adatte alla scrittura sono solo cinque; esse sono le prime cinque delle remiganti primarie, quelle che sono attaccate alle dita. Si usano le prime remiganti in quanto sono le più dure per il fatto che in volo sono quelle maggiormente sollecitate quindi devono per forza essere più robuste per sopportare lo sforzo. Le migliori sono in assoluto quelle del "gruppo 2" perché sono della giusta durezza mentre quelle del gruppo 3 sono un po' troppo tenere ma buone ugualmente per chi possiede una mano piuttosto leggera. Le penne, è molto importante sapere, non vanno mai e poi mai strappate all'animale ma raccolte da terra una volta cadute da sole perché solo allora saranno mature, cioè avranno sicuramente completato il loro ciclo. Il periodo ideale è quello che va mediamente da metà maggio a tutto giugno, cioè il periodo di muta della livrea. IL TAGLIO DELLA PENNA Se 1a posizione del corpo e la tenuta della penna sono le prime cose alle quali dobbiamo dare importanza pér raggiungere una scrittura facile e metodica, non è da meno quella di saper tagliare bene la penna. Tutto quello che c'è da dire a questo proposito si riduce a tre articoli:1) alla maniera di tenere la penna e il temperino per il taglio, 2) per i vari tagli prima di arrivare al taglio perfetto, 3) ed infine sulle proporzioni che dobbiamo raggiungere dopo aver eseguito il taglio. LA MANIERA DI TENERE LA PENNA ED IL TEMPERINO La penna va tenuta nella prime tre dita della mano sinistra e il temperino si trova nella mano destra. Possiamo osservare che la penna deve essere tenuta dritta di fronte a noi per cominciare il taglio; che il dito indice e medio della mano sinistra la sostengono dal di sotto, affinché il pollice le faccia fare tutti i giri che il taglio esige. I VARI PASSAGGI PER TAGLIARE LA PENNA Innanzi tutto, prima di conoscere i passaggi necessari a temperare la penna, bisogna conoscere i termini propri di ogni singola parte della penna stessa. Le seguenti immagini mostrano la penna in dettaglio. Il n. 1 è la pancia, il 2 è la schiena, il 3 l'inizio della grande aper-tura, il 4 è lo spigolo del pollice, il 5 è lo spigolo ilei dito, il 6 è la fenditura o l’estremità della punta, il 7 è l'angolo del pollice, e l’8 è l'angolo del dito. Ora dopo queste semplici ma basilari nozioni, non ci resta che dare inizio al taglio vero e proprio. Occorre prendere una delle cinque penne dalle remiganti sopra descritte e accorciarla con le forbici o il temperino ad una lunghezza che sia maneggevole. Strappare ora la parte larga del vessillo, cioè le barbe, tirandole da sopra verso il basso come mostra esplicitamente il disegno sottostante. Adesso con il temperino occorre ta- gliare obliquamente nella zona di confine tra il “calamo” e la “rachide” e rimuovi “l’anima” cioè la membrana interna e la penna dovrà assumere la forma sotto rappresentata. A questo punto mettere la penna per tutta la notte a mollo in un bicchiere d'acqua. Riscaldare in una pentola della sabbia fine e, dopo averla sgocciolata inserire per pochi istanti la penna (è necessario ripetere due o tre volte quest'operazione) finché diventerà traslucida e dura. Bisogna fare attenzione a questa operazione perché è molto facile che la penna si bruci! Con una pezza ruvida, o con il dorso del temperino, strofinare la penna per rimuovere la cuticola che la avvolge esternamente e sarà pronta per il taglio vero e proprio. Prenderla con la pancia rivolta verso l'alto e il temperino eseguire taglio che si chiama “la grande apertura" della lunghezza approssimativa dì due centimetri. Per una migliore ritenzione dell’inchiostro grattare con della carta vetrata arrotolata l'interno e l’esterno della penna. Appoggiare ora la penna su una base rigida (ad esempio un righello di plastica) posizionare la lama del temperino sulla e taglia- re,con una leggera pressione nella direzione indicata dalla freccia nel disegno, una fessura (la fenditura) di circa cinque millimetri evitando qualsiasi perdita di equilibrio della lama. Questa fenditura ha lo scopo di fare scorrere l’inchiostro come raffigurato nelle seguenti immagini. Riprendere in mano la penna sempre con la pancia verso l’alto, e con il pollice ruotala un po’ a destra per rastremarla nella parte sinistra a piccoli tagli consecutivi partendo a circa due terzi dall’inizio della grande apertura arrotondando finché si avvicinerà la fenditura . La lama del temperino, nel tagliare questa parte, viene posizionata nel punto che diverrà lo spigolo del pollice in posizione perpendicolare alla fenditura e dovrà, seguendo la rotondità della rachide finire parallela alla fenditura stessa. Analogamente sull' altro lato si dovrà eseguire lo stesso taglio. Le figure sottostanti mostrano la posizione delle mani durante la rastremetura della parte destra. La seguente figura mostra il taglio della punta come deve essere se è stato eseguito nel modo corretto. Rimettere la penna appoggiata di schiena su un piano rigido e con il temperino taglia l'estremità della punta, che da ora chiameremo “becco”, con un taglio perpendicolare alla fenditura. Nelle successive figure è riportato il modo corretto di esecuzione del taglio. Come si può notare (osservando la linea tratteggiata) l’angolo del pollice è più lungo di quello del dito e questo secondo i maestri di un tempo era una regola generale. Dopo di ciò riprendere in mano la penna ma questa volta sarà la schiena ad essere rivolta all’'insù e con il temperino affilare il becco togliendo un po’ da sopra e un po’ da sotto. Ritoccare se necessario ancora il taglio del becco se in quest’ultima operazione si fossero formate delle sbavature che rovinerebbero le lettere. Qui finisce il taglio ed il risultato dovrebbe essere il seguente: Qui si possono osservare le giuste proporzioni dei vari tagli praticati sulla penna. Come si può notare lo spazio che va dal becco fino allo spigolo del pollice e lo spigolo del dito è di un terzo, mentre lo spazio che va tra i due spigoli anzi detti fino all'inizio della grande apertura, è di due terzi. Nel tagliare allora la penna bisogna ricordare sempre queste proporzioni ma occorre tenere presente che se da una parte queste regole danno senza alcun dubbio la giusta grazia, dall’altra non sempre danno la giusta funzionalità. Se l'angolo del dito è più lungo e più largo di quello del pollice, la penna defluirà l'inchiostro sul retro; se gli spigoli sono troppo corti o troppo chiusi, l'inchiostro defluirà troppo velocemente; se la fenditura è troppo lunga, per una mano pesante il carattere risulterà grosso, sgraziato; se si è assottigliato troppo sopra il becco la penna non scriverà per molto tempo a causa della fragilità del becco stesso, se lo spessore della penna risulta troppo grosso vicino all' angolo del pollice, con il quale si eseguono le legature e le varie grazie queste risulteranno troppo grosse ma a tutto questo si potrà porre rimedio con un po’ di pratica. I testi relativi alla penna d’oca ed ai colori sono tratti dai manuali di Ivano Ziggiotti. LE PERGAMENE DELL' ARCHIVIO DI STATO DI GROSSETO L'Archivio di Stato di Grosseto non possiede un fondo membranaceo, ma conserva quattordici pergamene. Di queste, le prime dodici riguardano la Comunità di Civitella Ardenghesca, corrispondente all'attuale territorio di Civitella-Paganico e le relative date estreme sono: 1335-1520. Le restanti due sono riferibili alla città di Orbetello, antica capitale dello Stato dei Presìdi e vanno dal 1795 al 1797. Mentre le più antiche sono di natura prevalentemente privata (contenziosi tra cittadini, nomina di procuratori e rappresentanti nelle liti), le pergamene settecentesche riguardano il giuramento di due pubblici ufficiali da- vanti alle autorità del presidio orbetellano. Da notare è il discreto stato di conservazione del materiale membranaceo, il quale, nonostante l'asportazione, in alcuni casi, dei sigilli, permette ancora una buona lettura del testo e presenta integre le su partizioni diplomatiche. Anche se in queste pergamene non si denotano particolari miniati, nella parte finale, di ogni singolo documento, è ancora ben evidenziata la subscripsio, cioè l'autenticazione notarile, preceduta dal signum tabellionis, simbolo, che in epoca medioevale contraddistingueva ogni singolo notaio e che nella presente esposizione, può rivestire motivo d'interesse. ESTIMI E LIBRI DELLA LIRA Nel Medioevo gli estimi costituivano il sistema di tassazione che l'autorità comunale imponeva ai cittadini, regolamentandolo non sulla capacità contributiva delle popolazioni sottoposte a tributo, ma ripartendo il carico fiscale sui singoli soggetti, in base a determinate caratteristiche, come, ad esempio, i beni mobili o immobili posseduti o l'appartenenza alle diverse categorie di contribuenti (residenti della città o del contado). Ogni capofamiglia, pertanto, aveva l'obbligo di denunciare, in appositi regi- stri, le rispettive proprietà, descrivendone la tipologia ed il valore. La documentazione prodotta da questo sistema, che dal medioevo si protrae fino alla creazione del Catasto moderno, cioè sostanzialmente fino all'inizio del XIX secolo, risulta, quindi, di grande rilievo storico per la quantità delle informazioni fomite ai fini dei più svariati settori della ricerca. Basti pensare ai dati di tipo demografico che sono suggeriti dalla descrizione anagrafica (nome, sesso, status sociale), oppure ai dati di ordine economico che si possono evincere dalla natura dei beni, se agricoli (destinazioni d'uso, indicazioni sulle colture e sull’alimentazione), oppure edilizi (indicazioni urbanistiche e topografiche). Nello Stato senese, di cui la Maremma faceva parte, l'Estimo nacque nella prima metà del 1300, ancor prima della istituzione a Firenze, quando il Consiglio Generale del Comune decise una rilevazione di tutti i beni immobili della città e del contado per procedere ad una tassazione diretta. A seguito di questa vasta operazione cominciarono a formarsi vari strumenti, per così dire, di "rilevazione", tra i quali i famosi Libri della Lira, che costituiscono, oggi, nel nostro territorio, le testimonianze più antiche del sistema fiscale senese, proseguito anche sotto i governi successivi. Numerosi Libri della Lira sono conservati nel fondo Estimo dell' Archivio di Stato di Grosseto. Mentre nel corso dei secoli vi è stata una notevole dispersione delle serie estimali cittadine, gli Estimi del contado sono stati maggiormente salvaguardati, in ragione della loro natura spiccatamente locale, ciò ha fatto sì che numerosi Libri della Lira siano arrivati fino a noi anche se in alcuni casi non in perfetto stato di conservazione. Tali documenti di elevato valore storico-economico, costituiscono, nel contesto della presente esposizione, anche originali esempi di miniatura applicata alle lettere in margine al testo, all'inizio del capitolo o del paragrafo. Coordinamento: Maddalena Corti Realizzazione grafica: Lucia Giustarini