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Tra sparatorie, carnecifine e vendette pregustate e poi compiute a sangue freddo, il cinema di Quentin Tarantino
è attraversato interamente dal tema della violenza, di solito alleggerita dalla perfezione estetica, dall'imitazione
dei b-movie, dai colori fasulli e in generale dagli aspetti irrealistici e divertenti delle sue scene più pulp. Solo in Le
Iene la messa in scena del male appariva teatralizzata in una lentezza senza scampo. Ora sembra tornato a
rimeditare su quel suo primo lavoro, e nonostante tutte le consuete citazioni e i divertissement
metacinematografici scrive il suo film di maggiore cupezza.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
scenografia:
costumi:
distribuzione:
167 MINUTI
USA
2015
QUENTIN TARANTINO
QUENTIN TARANTINO
QUENTIN TARANTINO
ROBERT RICHARDSON
FRED RASKIN
ENNIO MORRICONE
YOHEI TANEDA
COURTNEY HOFFMAN
01 DISTRIBUTION
interpreti:
SAMUEL L. JACKSON (maggiore Marquis Warren), KURT RUSSELL (John Ruth "il
boia"), JENNIFER JASON LEIGH (Daisy Domergue/daisy domingray), WALTON GOGGINS (Chris Mannix), DEMIÁN
BICHIR (Bob/Marco "il messicano"), TIM ROTH (Oswaldo Mobray/Pete Hicox), MICHAEL MADSEN (Joe
Gage/Grouch Douglas), BRUCE DERN (gen. Sanford Smithers), JAMES PARKS (O.B. Jackson), CHANNING TATUM
(Jody Domingray), DANA GOURRIER (Minnie Mink), ZOË BELL (Judy "sei cavalli"), LEE HORSLEY (Ed), GENE JONES
(Sweet Dave), KEITH JEFFERSON (Charly), CRAIG STARK (Chester Charles Smithers), BELINDA OWINO (Gemma)
premi e nomination:
2016, Oscar Migliore colonna sonora a Ennio Morricone, nomination Migliore
attrice non protagonista a Jennifer Jason Leigh, Migliore fotografia a Robert Richardson; 2016, Golden Globe:
Migliore colonna sonora a Ennio Morricone, nomination Migliore attrice non protagonista a Jennifer Jason Leigh,
Migliore sceneggiatura a Quentin Tarantino; 2016, British Academy Film Award: Miglior colonna sonora a Ennio
Morricone.
Quentin Tarantino
Quentin Jerome Tarantino (Knoxville, 27 marzo 1963) è un regista, sceneggiatore, attore e produttore
cinematografico statunitense. La madre, Connie McHugh, è un'infermiera di origini irlandesi e cherokee: ha sedici
anni quando nasce Quentin, e il suo compagno Tony Tarantino l'ha già lasciata. Due anni dopo Connie sposa il
musicista Curt Zastoupil, con il quale il giovane Quentin stringe un forte legame. Curt lo porta al cinema, dove
vede Bambi, che lo spaventa terribilmente facendolo piangere per ore.
Nel 1977, ancora studente, Tarantino scrive la sua prima sceneggiatura, Captain Peachfuzz and the Anchovy
Bandit. Presto lascia la scuola per iniziare a lavorare come maschera al Pussycat, un cinema porno. Nel 1981
inizia a prendere lezioni di recitazione. Nel 1983 lavora per qualche tempo per il nuovo patrigno, Jan Bohusch,
affittando stand alle fiere. L'anno successivo comincia a lavorare per un videonoleggio di Los Angeles, dove
stringe amicizia con Roger Avary, suo futuro collaboratore.
Nel 1986, mentre ancora lavora al videonoleggio, Tarantino tenta la regia con il progetto di film autoprodotto dal
titolo My Best Friend's Birthday, cui collaborano numerosi suoi colleghi. Le riprese vengono fatte in pellicola 16
mm in bianco e nero. Dopo vari contrattempi, parte della pellicola girata viene distrutta per un errore del
laboratorio di sviluppo.
Tarantino ottiene il suo primo successo con la sceneggiatura di Una vita al massimo (True Romance), scritta nel
1987 insieme a Roger Avary, affidata alla regia di Tony Scott. Nel 1989 scrive la sceneggiatura originale di
Assassini nati (Natural Born Killers), portata sul grande schermo nel 1994 da Oliver Stone con alcuni
rimaneggiamenti che causarono una lite tra i due. Nel 1990 scrive Dal tramonto all'alba, poi diretto nel 1995 dal
suo amico Robert Rodríguez.
Noto per la sua cinefilia quasi maniacale e orientata, in special modo, alla cinematografia di genere (B-movies,
exploitation), fervente ammiratore del cinema italiano dei primi anni settanta (Sergio Leone, Dario Argento,
Mario Bava e tutto il filone del cinema poliziottesco), Tarantino è stato definito un regista DJ per la sua capacità di
riuscire a combinare stili diversi fondendoli insieme in una nuova opera.
La sua carriera di regista cinematografico inizia con un debutto che è un immediato successo: Le iene (Reservoir
Dogs), girato in sole cinque settimane nell'estate del 1991. Con il successivo Pulp Fiction arriva la consacrazione:
conquista la Palma d'oro a Cannes, sette nomination agli Oscar e il premio Oscar 1995 per la miglior
sceneggiatura originale.
Nel 1996, dirige Jackie Brown, storia di una hostess di colore che contrabbanda denaro sporco. Un vero e proprio
omaggio alla blaxploitaion e all'icona nera Pam Grier che ne è stata la figura sexy più brillante. Accanto al cinema,
dirige alcuni episodi di serie televisive e fonda una sua casa di produzione, chiamata A Band Apart in omaggio a
Godard.
Tarantino fa di Uma Thurman la sua musa nei due 'volumi' di Kill Bill (2003), accanto a David Carradine, Daryl
Hannah, l'amico Michael Madsen, Lucy Liu e il suo idolo Sonny Chiba. Presidente della giuria al Festival di Cannes
nel 2004, produce il violento Hostel (2005), per poi dirigere Grind House, sempre accanto a Rodriguez.
Nel 2009 presenta a Cannes Bastardi senza gloria. La sua principale fonte d'ispirazione è il film italiano Quel
maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari. Il protagonista Christoph Waltz vince un Oscar, un Golden Globe e
la Palma d'Oro come miglior attore. Tre anni dopo torna a cimentarsi con una nuova impresa e una nuova
rilettura della Storia, il western sulla schiavitù con Leonardo Di Caprio e Jamie Foxx Django Unchained, che
conquista l'Oscar alla miglior sceneggiatura originale.
Dal 2007 Tarantino è proprietario di un cinema, il New Beverly di Los Angeles, aperto nel 1929 con una sala da
300 posti. Dopo averlo acquisito per impedirne la chiusura o la trasformazione in altro, Tarantino ne ha assicurato
la continuità rispetto alla gestione precedente: dagli anni 70 infatti il New Beverly è aperto con una doppia
programmazione quotidiana di due film in pellicola, generalmente dei classici, che viene sospesa dalla gestione
tarantiniana solo in occasione dell'uscita dei suoi film, cui dedica l'uscita 'piena'. The Hateful Eight è uscito nei
cinema statunitensi in distribuzione limitata ed esclusivamente nel formato 70 millimetri il 25 dicembre 2015,
per poi essere esteso in versione digitale a tutto il territorio a partire dall'8 gennaio 2016. Anche in Italia, come
nel resto del mondo, Tarantino ha concesso il film in anteprima alle sale dotate di proiettore 70 millimetri.
La parola ai protagonisti
Intervista a Quentin Tarantino, Kurt Russel, Michael Madsen
Qual'è per voi il senso politico del film? Che rapporto intercorre tra l'America sullo schermo e quella odierna?
Q.T.: Quando io mi sono messo a scriverlo non era un film politico, lo è diventato quando ho messo per la prima
volta la penna su carta e ho cominciato a scrivere. Quando i personaggi hanno cominciato a dialogare e a
discutere di com’era la vita dopo la Guerra Civile, mi sono reso conto che c’erano dei riferimenti alla situazione
politica attuale fra democratici e repubblicani. Durante la lavorazione del film poi, sono accaduti eventi politici e
sociali che hanno reso la storia sempre più pertinente all’attualità. Semplicemente a volte sei fortunato e riesci a
trovare un legame con quello che accade nella realtà.
K.R.: Quentin Tarantino tesse sempre una ragnatela nei suoi film. A me è piaciuto interpretare un personaggio
che riguarda direttamente l’America. In tutto il mondo era risaputo che in questo Paese anche la persona più
indifesa e insignificante aveva diritto a un giusto processo e a un giudice che lo giudicasse onestamente. Il mio
personaggio vuole in qualche modo onorare questa pietra miliare del sistema giudiziario americano.
M.M.: Io credo che i film di Quentin risolvano più problemi di quelli che creano, sia che li si veda sotto il punto di
vista politico che su quello del puro intrattenimento. Fin dai tempi de Le Iene e Kill Bill c’è stato un riflesso fra
quello che accadeva in questi film e la realtà, e spesso le soluzioni ai problemi trovate nelle pellicole di Tarantino
sono state più semplici di quelle fornite dai media. Ho apprezzato che in The Hateful Eight vengano
continuamente ripetuti termini dispregiativi come ‘negro’, perché così facendo si ha la sensazione che queste
brutte parole possano perdere il loro potere denigratorio. Mio padre, che è scomparso a dicembre, non ha
sempre apprezzato i film che ho fatto, ma per questo film era veramente entusiasta e aveva manifestato la
volontà di vederlo, cosa che purtroppo non è riuscito a fare.“
Nonostante sia una domanda frequente, glielo richiedo: perché le piace tanto la violenza?
Q.T.: Io faccio film di “genere”. Non voglio evitare la sua domanda ma è così, a me piacciono i film di “genere”. I
western hanno sparatorie, i film di kung fu sono pieni di lotte, quelli dell’orrore hanno per protagonisti mostri che
strappano facce. Che dire? Questo è quello che faccio, è il mio tipo di film. Se leggo un romanzo d’investigatori
non voglio gente che fa domande per tutto il tempo ma qualcuno che tiri fuori la pistola e spari in testa a
qualcun altro.
Come mai ha scelto quell’immagine di Cristo in croce all’inizio del film?
Q.T.: E’ una scultura di legno che abbiamo ricreato noi da una vecchia foto della mia collezione, comprata a
un’asta, forse di provenienza cecoslovacca. Un Cristo abbandonato sotto la neve, sotto una calotta di neve, era
un’immagine che mi sembrava molto da “spaghetti western”. E’ un Cristo spigoloso, europeo, che somiglia più a
Ivan Il Terribile del film di Eisenstein, o alle sculture lasciate dai vichinghi prima di tornarsene in Norvegia. Quello
che mi interessava era suggerire un mondo in cui Dio è stato dimenticato, e i simboli religiosi sono stati
abbandonati in una terra desolata e congelata. Un amico mi suggerito una teoria che ho subito fatto mia: che
The Hateful Eight sia il mio primo film post-apocalittico, dove l’apocalisse appena conclusa è la Guerra di
Secessione americana e i sopravvissuti si aggirano in un mondo che non capiscono più.
I personaggi sono tutti dei tipi, molto ben descritti: si è ispirato a qualcuno già apparso in altri film?
Q.T.: L’unica possibile eccezione è il personaggio del maggiore Warren, interpretato da Samuel Jackson, che può
ricordare l’attore Lee Van Cleef o il personaggio di Sartana. Anche gli altri personaggi, è vero, sono dei tipi ben
definiti, ma non li ho presi da nessuna parte. Io stesso ho cominciato a scrivere la storia senza sapere chi di loro
avrebbe commesso certe cose, l’ho scoperto strada facendo.
Ogni suo film rompe una regola. The Hateful Eight ha una lentezza così classica da apparire rivoluzionaria.
Q.T.: Sì. La speranza è che fosse una lentezza piena di suspense: sai che sta per succedere qualcosa di brutto, e
che non ci si può fidare di queste persone, ma dove e cosa avverrà rimane ancora da determinare, e mi piaceva
che dopo un’ora e mezzo di film non si avesse la minima idea di dove il film stesse andando. Volevo solo fare
affidamento sul dialogo e sui personaggi, come in un’opera teatrale. Non volevo enfatizzare il tutto attraverso
l’azione, volevo arrivare all’azione ma farlo in modo organico, tenere questi personaggi almeno per un giorno e
una notte insieme prima che tutto scoppiasse.
Come mai un secondo western subito dopo Django Unchained?
Q.T.: Non ho chiuso neanche ora col western. Penso che dovrò farne tre prima che di potermi definire un vero
regista western, e mettere le mie pellicole sullo stesso scaffale di registi come Sergio Corbucci, Anthony Mann o
Budd Boetticher. Non ho davvero chiuso col western, ho preso bene le misure con i temi che voglio esplorare, il
modo in cui le mie storie funzionano e i personaggi. Anche per ciò che ha a che fare con la questione razziale,
bianchi e neri in America: è un tema su cui posso dare qualcosa al genere perché il western non ci ha mai fatto i
conti o l’ha fatto in modo superficiale.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
All'inizio evoca Ombre rosse di John Ford, con i passeggeri di una diligenza che fanno sosta in una stazione di
cambio. Però i viaggiatori sono assediati da una tempesta di neve che li costringe a restare nel rifugio per tutto il
film. E qui The hateful eight comincia a innestare sul repertorio western il giallo alla Dieci piccoli indiani. (...) È
curioso che il secondo western di Quentin dopo Django unchained sia un film a-porte-chiuse, concentrato prima
all'interno di una diligenza poi tra quattro pareti come a teatro (dal teatro, del resto, mutua la suddivisione in
atti). Non meno singolare, poi, che il regista lo abbia girato in un sontuoso Panavision 70mm, grande formato da
tempo in disuso. Eppure non ha torto il direttore della fotografia (candidata all'Oscar) Robert Richardson quando
spiega che l'inquadratura "larga" permette di mostrare tutte le pareti, dando un senso di claustrofobia. Si
aggiunga che con quel tipo d'immagine lo spettatore sceglie su chi concentrare l'attenzione; e la regia può
giocare maliziosamente sulla "messa a fuoco" decidendo cosa mostrarci e cosa no (vedi la scena dove una mano
in primo piano versa caffè avvelenato). Racconta un produttore americano che, a suo tempo, Tarantino si
presentò da lui chiedendogli di produrre Pulp Fiction. Quello rifiutò, ritenendolo troppo truculento, e allora il
regista esclamò, stupito: «Ma Mike, si tratta di un film comico!». Chissà che cosa avrebbe pensato quel
produttore di The hateful eight: film grondante emoglobina dove la violenza è filmata senza censure, nè
giustificazioni che non siano la bastardaggine dei personaggi. Eppure Tarantino non aveva torto, perché la sua
resta una violenza ludica, beffarda, che se la ride una volta di più della correttezza per offrirci un divertissement
ribaldo e sontuoso. Sotto l'apparente cinismo (da quanto non sentivamo ripetere così spesso in un film la parola
"negro"?), Tarantino ci interpella anche sul razzismo onnipresente nella storia americana, nonché sulla qualità
"fantastica" dei miti cavallereschi del West. Vero è che (malgrado gli omaggi a Ford e Leone), il genere in cui il
film s'inscrive non è poi tanto il western, quanto piuttosto il "genere Tarantino". Se non tutti lo ameranno, i fan
non ne saranno delusi: la regia è fluida e sapiente; gli interpreti perfetti; la colonna sonora di Ennio Morricone
(candidata all'Oscar), geniale.
Stefano Lo Verme. Movieplayer.it
(…) Aperto da un maestoso carrello all'indietro, con l'accompagnamento delle musiche di Ennio Morricone,
l'ottavo lungometraggio di Quentin Tarantino, contrariamente al tono solenne dell'incipit, è il film più crudo,
feroce e senza pietà dell'autore di Pulp Fiction e Bastardi senza gloria.
Se infatti, da un certo punto di vista, The Hateful Eight segna l'apoteosi dei cosiddetti "tarantinismi",
riconfermando quasi tutte le caratteristiche assurte col tempo ad autentico "marchio di fabbrica" del cineasta del
Tennessee, sotto altri aspetti questa sua nuova, attesissima opera segna un decisivo cambiamento rispetto ai
precedenti titoli nella produzione del regista. A partire da un senso di ambiguità che mai, fino ad ora, avevamo
riscontrato - perlomeno in tale misura - nei film di Tarantino, e che in questo caso finisce per prendere il
sopravvento perfino sul suo consueto approccio sfrenatamente postmoderno. Ma in quale maniera?
Un cineasta come Tarantino, è risaputo, ha sempre amato giocare con i generi. I suoi film sono assimilabili a
imprevedibili cocktail nei quali si ritrovano gli elementi più diversi, amalgamati in modo sorprendente ma, il più
delle volte, efficacissimo (...). E pure The Hateful Eight, realizzato a tre anni di distanza da un altro pseudowestern, Django Unchained, rispetta appieno la regola: dopo due capitoli iniziali (Last Stage to Red Rock e Son of
a Gun) in cui i ritmi dilatati, la natura dialogica (le lunghissime conversazioni fra i personaggi) e la suggestiva
ambientazione invernale immergono lo spettatore in un'atmosfera da rigoroso Far West nella neve, riducendo
però l'azione vera e propria al grado zero, ecco che all'improvviso qualcosa si trasforma. L'arrivo della diligenza di
John Ruth (Kurt Russell) al cosiddetto "Emporio di Minnie" tramuta The Hateful Eight in qualcos'altro: un
"dramma da camera" consumato in uno spazio circoscritto e claustrofobico, quasi un Kammerspiel in cui gli
stilemi del western vengono contaminati da echi del murder mystery all'inglese (…). The Hateful Eight è un'opera
che stuzzica le aspettative del pubblico, che non si preoccupa di tenerlo sulla corda per almeno metà della
propria durata (è uno dei motivi per cui, probabilmente, al box office non si sono registrati gli stessi livelli di
entusiasmo di Bastardi senza gloria o Django Unchained), che scorre con studiata lentezza per poi 'esplodere'
nella seconda parte, quando di colpo le tensioni verbali fra questi otto comprimari sfociano in una furibonda,
estenuante carneficina. L'aggettivo associato agli otto protagonisti (nove, considerando anche un "ospite a
sorpresa"), del resto, è a dir poco indicativo: hateful, ovvero "pieni d'odio", ma al contempo - potere della
polivalenza semantica - anche "odiosi" loro stessi, "detestabili". Perché in effetti, in nessun'altra pellicola
Tarantino ci aveva presentato degli (anti)eroi detestabili quanto i "magnifici otto" riuniti all'interno dell'Emporio
di Minnie.
E la succitata 'odiosità' dei personaggi costituisce appunto una connotazione fondamentale di The Hateful Eight:
un tratto che è indispensabile considerare allo scopo di contestualizzare e comprendere a fondo quest'ultima
opera di Tarantino, al di là della sua dimensione da divertissement in salsa gore. A differenza di The Hateful Eight,
nella maggior parte dei film diretti finora dal regista americano si possono identificare eroi, o quantomeno
outsider in cerca di riscatto, e antagonisti. È pur vero che non si tratta di una contrapposizione schematica, e che
esistono sfumature più sottili, ma scorrendo la filmografia tarantiniana non si può negare l'empatia suscitata da
figure come la hostess e gregaria del contrabbando interpretata da Pam Grier in Jackie Brown, la Sposa Beatrix
Kiddo di Uma Thurman, in cerca di vendetta nel dittico Kill Bill, l'orfana ebrea Shosanna Dreyfus di Mélanie
Laurent (...). Schierati sul fronte opposto, autori dei crimini più vari, incontriamo alcuni fra i villain più memorabili
del cinema recente: l'implacabile mercante d'armi Ordell Robbie (Samuel L. Jackson) in Jackie Brown; il
famigerato Bill di David Carradine e la sua schiera di letali seguaci armati fino ai denti in Kill Bill; il perfido
Colonnello tedesco Hans Landa, ovvero il "Cacciatore di ebrei" di Bastardi senza gloria, reso indimenticabile da
una prova da Oscar di Christoph Waltz; fino a Calvin J. Candie, ovvero il sadico latifondista e schiavista del
Mississippi a cui presta il volto un inedito Leonardo DiCaprio in Django Unchained. Antagonisti dotati di un
indiscusso carisma, ma allo stesso tempo "cattivi" tout court, la cui essenza malvagia rientra nel concetto di
pellicole di 'genere' basate su un conflitto all'ultimo sangue. Abbiamo però anche situazioni meno definite e ben
più complesse, riconducibili in particolare ai primi due lungometraggi di Tarantino, Le iene e Pulp Fiction, in cui la
divisione manichea fra protagonisti e antagonisti è sostituita da una struttura corale in cui prende forma un
microcosmo impazzito, dominato dalla violenza e dal caos.
E in tale prospettiva, ovvero nel sistema dei personaggi e dei loro rispettivi rapporti, The Hateful Eight presenta
più analogie con Le iene e Pulp Fiction che non con i successivi capitoli dell'itinerario tarantiniano. Ma a stupire
maggiormente, in questo bizzarro western in cui la logorrea degli otto comprimari è il preludio all'inevitabile
mattanza di rito, è la metamorfosi nella messa in scena e nella concezione stessa della violenza: quell'ultraviolenza che proprio Tarantino, nella cornice della cultura pulp dei primi anni Novanta, ha contribuito a sublimare
in una forma d'arte, svuotandola progressivamente della propria carica realistica per elevarla ad esperienza
ludica e a puro fenomeno estetico. Un processo evidente soprattutto a partire dal primo episodio di Kill Bill: la
violenza e l'omicidio assumono contorni assurdi e grotteschi (...), sono trasferiti su un piano cartoonesco (...), si
materializzano sottoforma di fontane di sangue e di arti mozzati a velocità innaturale (...) e infine diventano gli
strumenti di una resa dei conti in cui, a predominare su tutto il resto, sono lo splendore visivo e un formalismo
elevato ai massimi livelli.
In The Hateful Eight, al contrario, la violenza è descritta con un iperrealismo che, in Tarantino, non si vedeva
perlomeno dai tempi di Pulp Fiction. Dal momento in cui, nell'Emporio di Minnie, gli "odiosi otto" (o piuttosto i
sopravvissuti del gruppo) aprono il fuoco gli uni sugli altri, la carneficina che si consuma fra quelle quattro pareti,
tra ferite, mutilazioni e uccisioni, raggiunge gradi di insistenza e di efferatezza in grado di spegnere ogni
potenziale divertimento per rovesciarlo in saturazione e disgusto. Perché il lungo massacro di The Hateful Eight
non ha neppure il ritmo indiavolato e l'effetto spiazzante della resa dei conti di Django a Candyland, ma è dipinto
invece in tutta la sua atrocità, sottolineando la sofferenza sempre più gravosa dei superstiti. Quella stessa
violenza che in Bastardi senza gloria e in Django Unchained si poneva come il veicolo per una deflagrante catarsi
conclusiva, quella violenza capace di farsi addirittura mitopoiesi e riscrittura della Storia (l'incendio appiccato da
Shosanna al cinema nella sua spaventosa rivalsa contro l'intera classe dirigente del Terzo Reich), ora è spogliata di
ogni residuo di nobiltà o di bellezza e ridotta ad un forsennato "tutti contro tutti".
In The Hateful Eight, dicevamo, non ci sono eroi e non ci sono antagonisti (perlomeno, non nel senso canonico di
tali categorie). Tarantino sembra fornire agli spettatori alcune certezze per poi incrinare tutti i nostri punti fermi,
ribaltare le posizioni e gli equilibri delle forze in campo, sfidare il nostro senso dell'etica e costringerci a prendere
atto della profonda immoralità dei suoi personaggi, nessuno escluso. Contemporaneamente, dopo l'anelito di
libertà degli afroamericani contro gli schiavisti del Sud degli Stati Uniti espresso in Django Unchained, il regista
porta avanti la sua personalissima rilettura della storia americana; in questo caso, il contesto temporale è
collocato pochi anni dopo la fine della Guerra di Secessione, sull'onda della vittoria degli Unionisti e
dell'abolizione della schiavitù. Eppure, l'America raffigurata in The Hateful Eight è ancora innervata da un
razzismo divorante, da lacerazioni insanabili, da un barbaro materialismo (l'aberrante pratica dei cacciatori di
taglie), da un sentimento d'odio che non cessa di ribollire nemmeno per un attimo. Il progressismo e
l'uguaglianza simboleggiati dal mito di Abraham Lincoln, il Presidente evocato dal Maggiore Marquis Warren
(Samuel L. Jackson) mediante una fantomatica lettera, non sono che un'utopia ancora ben lontana dal divenire
realtà. (...)
E tutto sommato la sequenza finale, con un'agghiacciante 'esecuzione' e la presunta rivincita degli eroi (?) di
turno, forse non è che l'ennesimo sberleffo nei confronti del pubblico: l'apoteosi di un nichilismo che non lascia
scampo, in un'America in cui la violenza è una pulsione endemica impossibile da estirpare. Un'America in preda a
una frenesia autodistruttiva, totalmente assorbita dalla celebrazione dei suoi orrori da non accorgersi del baratro
in cui sta precipitando. Nei western classici, dopo la sparatoria conclusiva, il cowboy - ferito ma vincitore - si
incamminava con coraggio incontro al proprio destino. Ma The Hateful Eight non è Il cavaliere della Valle
Solitaria: nessuno griderà "Shane, torna indietro!", contemplando l'eroe dirigersi verso i monti. Al termine della
lotta rimarranno solo fiumi di sangue, cadaveri ammassati l'uno sull'altro e, là fuori, un'infinita coltre di neve.
Federico Gironi. Comingsoon.it
"Sto diventando grande, lo sai che non mi va," cantavano anni fa i Righeira. E anche Quentin Tarantino, sta
diventando grande. Sta raggiungendo livelli di maturità cinematografica inauditi nella sua pur notevole carriera
fino a questo momento. Non va del tutto nemmeno a lui, sembrerebbe: tanto che lungo il tortuoso e paziente
cammino di The Hateful Eight fanno capolino, ed esplodono (e come esplodono...) nel finale, tutte le
caratteristiche più ludiche e smargiasse del suo cinema. Quelle ultraviolente e dall'ironia sopra le righe, che
rimangono uno dei suoi marchi di fabbrica, che ne stemperano altre e opposte tendenze, che in questo caso
imbrattano non solo i muri, i volti e le poltrone di sangue, ma anche un copione favoloso. Ma che, forse, si fanno
anche monito: cartoonesco, certo, ma in fondo anche vagamente inquietante. Il fatto è che nel cinema di
Tarantino tutto si tiene: la logorrea, la violenza, l'ironia, il racconto spietato e impietoso di chi siamo e dove
viviamo. Si tiene nel nome e nel segno del cinema, di quel cinema che Quentin ama di un amore vorace,
assoluto, passionale, feticista. Tutto si tiene, ma va da sé che a volte l'equilibrio possa essere più precario, il
dosaggio degli ingredienti di una precisione non proprio laboratoriale, e che il golem di celluloide dell'ex enfant
terrible del cinema americano sia vivo e capace, ma troppo grottesco, o mostruoso, o facile alla dissoluzione in
polvere d'immaginario al tocco dello sguardo.
The Hateful Eight, invece, no. Cammina senza timore sul filo del rasoio della tensione, si muove elegante e
sfacciato sui pezzi di vetro, con un vorticare di parole, di personaggi e di maschere che assomiglia a un balletto
dalla coreografia sublime e oscena. (...) Come Jackie Brown, anche questo western da camera, che mette in scena
lo psicodramma amorale di nove personaggi dentro un'isolata casa-emporio (di bambola) del Wyoming, gioca
con toni diversi da quelli del Tarantino più fracassone o sfacciato. Qui il testo è al servizio di una storia e dei suoi
personaggi, e non il trampolino di lancio per battute o linee di dialogo da mandare a memoria, che pure non
mancano. Sulla poltrona di Sweet Dave, davanti al fuoco, Tarantino è un astuto cantastorie, capace di farti
perdere tra le pieghe del suo racconto, di ingannarti e sorprenderti, di meravigliarti e divertirti. E di farti
realizzare, tutto a un tratto, che quella storia di sangue, inganni, violenze e razzismi, è la storia degli Stati Uniti
d'America. Di stati uniti per forza, con la guerra, con la morte, nel nome di una giustizia che è tale solo quando
condivisa, anche da chi magari si detesta, e si è guardato con odio fino al momento della verità. (...) Con un film
come The Hateful Eight, allora, Quentin Tarantino si conferma davvero l'altra faccia di Paul Thomas Anderson,
della medaglia di un cinema americano che ragiona su se stesso, sul suo passato e sul suo futuro. Sul suo
territorio e il suo materiale. E mentre ci adeguiamo al valzer di gesti e dettagli, di parole e movimenti
sapientemente orchestrato in quello spazio, su quel terreno, è dolce naufragare dentro il racconto di una
moderna Sherazade, capace di generare storie dalle storie, e su altre storie e sulla Storia. Perché, come
Sherazade, anche per Tarantino il racconto, e il raccontare, e il cinema, significano vita. Il gioco, questa volta, è
quello della pazienza, lo dicono loro stessi. Perché il racconto è bello quando lo si può godere così, senza fretta.
Maurizio Acerbi. Il Giornale
Per la sua ottava meraviglia, Tarantino ha girato una sorta di Trappola per topi, con toni horror, all'interno di un
film western. Sfruttando un meraviglioso cast che può contare su attori tarantiniani come Tim Roth, Samuel L.
Jackson, Bruce Dern, Michael Madsen, per citarne alcuni, ai quali ha affiancato delle «nuove entrate» come la
bravissima Jennifer Jason Leigh (Nomination agli Oscar) e Channing Tatum (a cui ha affidato un personaggio
chiave). (...) Nella pellicola ambientata pochi anni dopo la fine della Guerra Civile, gli otto si ritrovano bloccati
all'interno di una merceria, causa tormenta di neve, per quasi tre ore di film, dando origine ad un thriller pieno di
colpi di scena, nel quale la loro identità e le rispettive motivazioni verranno sempre messe in discussione. Sono
quelli che dicono di essere? O nascondono un segreto? Qualcuno racconta il vero? Lo spettatore lo scoprirà, man
mano, tra morti improvvise, rivelazioni, indizi, fino all'epilogo in pieno stile tarantiniano. Sì, perché le scene fin
troppo esplicite non mancheranno, accompagnate da un linguaggio crudo che, inevitabilmente, provocherà
anche non poche polemiche. La parola «nigger», ad esempio, viene pronunciata 65 volte, per denunciare
l'incapacità americana di risolvere la questione razziale. (...) Ad impreziosire il film è la colonna sonora di Ennio
Morricone, con la speranza che possa vincere, dopo i Golden Globe, anche l'Oscar. (...)
Roy Menarini. Mymovies.it
(...) nella filmografia di Tarantino, questo film appartiene alla schiera delle opere minori. Si tratta, notoriamente,
di un termine scivoloso per il pubblico, la tipica definizione che ha un senso per lo spettatore normale e un altro,
differente, per il cinefilo. Per larga parte del pubblico, quello che sta accogliendo più freddamente del solito
Tarantino, opera minore significa un film meno originale e ambizioso degli altri - almeno di quelli più celebrati -
ma pur sempre baciato dal talento del regista americano. Per la cinefilia, abituata a mettere in discussione
l'apparente ragionevolezza dei pesi e delle misure, e disposta a rovesciare polemicamente classifiche e gerarchie,
The Hateful Eight è un film ribaldo, veemente, nascosto e nichilista, e per questo motivo da difendere ancora più
calorosamente di un'opera maggiore. (...) C'è poi da ricordare che Tarantino è a sua volta un cinefilo, e dei più
raffinati. Sepolti tra la neve che assedia l'emporio di Minnie e sotto al pavimento in legno del negozio, si
nascondono riferimenti di una raffinatezza clamorosa, non svelabili, pena il rischio di spoiler. Diciamo per
esempio che a un certo punto La cosa di Carpenter e alcuni capolavori di Hitchcock si fondono tra loro per dare
vita a una sequenza formidabile. Ma siamo sicuri che il resto del pubblico, quello meno propenso al piacere
dell'ipertesto, sia denunciabile di sordità estetica o di resistenza al bello? A ben vedere, pur nell'innegabile
incremento di elementi politici sempre più evidenti nella sua filmografia, sembra davvero che Tarantino abbia
scritto una nota a margine di Django Unchained. Nella sua riscrittura di generi - che somiglia tanto a una
cosmogonia cinematografica - e nella sua rilettura della storia attraverso la fantasia di vendetta (la morte di Hitler
e la sconfitta dello schiavista), Tarantino questa volta ha scelto di chiudersi in una stamberga, consapevole del
pericolo di soffocarci dentro anche il suo cinema. Certamente il cielo in questa stanza è l'America, rappresentata
dalle sue peggiori incarnazioni, ma è come se la maestria stilistico-narrativa e l'insistenza sull'inconciliabilità
razziale statunitense questa volta si trovassero sempre sfasati, e non di rado in preda ad eccessi che sono
sospettabili più che altro di tappare spifferi meno brillanti del solito. Forse l'over acting dissennato, il sadismo
diffuso, i sorprendenti (per Tarantino) scricchiolii di trama e di credibilità dei personaggi sono già tutti previsti nel
diabolico marchingegno del regista, tanto scaltro e geniale da aver potuto escogitare fin dall'inizio un'opera
minore. E se cercassimo una conciliazione tra chi lo troverà un capolavoro e chi lo rubricherà solo come adorabile
facciata B, potremmo dire che hanno ragione entrambi, in attesa che il tempo (quasi sempre infallibile in questo
compito) collochi The Hateful Eight dove veramente dovrà stare.
Cristina Piccino. Il Manifesto
Se le affidassero a un regista hollywoodiano magari di quelli un po’ furbetti, ne tirerebbe fuori un
prequel/sequel/spin off di successo. Le vicende che hanno preceduto (e accompagnato) The Hateful Eight, il
nuovo film di Quentin Tarantino sono infatti quasi uno script a sé: dalle polemiche per la copia scaricata e finita in
rete prima ancora dell’uscita americana a Natale – sembrava che nessun-ma-proprio-nessuno non lo avesse
visto- agli attacchi del sindacato di polizia americano con la richiesta di boicottare il film per la partecipazione di
Tarantino alle manifestazioni contro le violenze e gli abusi dei poliziotti. Alle critiche sull’Oscar negato agli african
American di cui la mancata nomination per uno dei protagonisti, Samuel Jackson (molto bravo) sembrava essere
l’ennesima prova. (...) Diviso in capitoli, con l’overture di Ennio Morricone e l’intervallo che serve a girare la
vecchia pellicola ma solo nel formato 70 millimetri il cui splendore però si immerge nella neve bianchissima e nei
paesaggi dello Wyoming per poco. La storia si chiude nelle pareti dell’emporio di Minnie dove i protagonisti
trovano rifugio dalla tempesta e giocano una partita a scacchi dell’ambiguità. Nulla è come sembra e nessuno
può fidarsi dell’altro. (...) C’è un sentimento folle, commuovente di amore per il cinema in tutto questo che
appare quasi come una provocazione. I tempi dilatati si fondono nel cromatismo delle luci, nei dialoghi
esasperanti, pieni di sottotesti e di allusioni a qualcos’altro, che ognuno dei personaggi conosce individualmente,
segno di una impossibile comunanza in una nazione che deve ancora nascere. (...) Se la costruzione formale
rimanda (come dice lo stesso Tarantino) a Le iene (più l’omaggio esplicito al Carpenter de La Cosa e non solo per
Kurt Russell e la musica di Morricone), la materia narrativa e i suoi conflitti legano The Hateful Eight a Django
Unchained, con la Storia che rimane nel fuoricampo, trascinata dentro dai personaggi. La guerra civile e la
«ricostruzione», il razzismo, il nord e il sud, l’America non pacificata che cova nelle sue viscere il Ku Klux Klan. E la
sua mitologia che Tarantino scompiglia spudoratamente infilando citazioni, da cineasta postmoderno quale è,
passioni e correzioni molto poco «politicamente corretti» di immaginario non addomesticato. (...) Il filo
dell’ambiguità inghiotte il mondo dentro e quello fuori: cosa è giustizia, cosa massacro. La vendetta è un piacere
solitario e si può essere colpiti solo nelle parti basse. La battaglia non risparmia nessuno, nemmeno le donne,
difatti per i cazzotti e gli sputi in faccia a Daisy hanno accusato in America Tarantino di misoginia. Ma se invece lo
sguardo su di loro fosse quello di lei, di Daisy, la donna picchiata e che picchia come gli altri, a suo agio nel
mondo dei maschi senza un John Wayne innamorato a salvarla? Stessa sporcizia, sangue, denti spaccati, appena
un attimo di infida dolcezza – mentre suona alla chitarra Jim Jones at Botany Bay – che mettono lo spettatore a
disagio. Non la pulzella indifesa ma una bastarda e senza le rassicuranti armi della seduzione. Ancora un’altra
scommessa.