Antologia_LA SFIDA_2016

Transcript

Antologia_LA SFIDA_2016
LA SFIDA
Primo Concorso Letterario
“Martino Martini”
Mezzolombardo
A.S. 2015/2016
Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane.
Emily Dickinson
1
Possibile condensare in immagini e parole e storie la tensione al bello, alla perfezione, all’assoluto?
Tradurre in trame e snodi narrativi il flusso disordinato della vita, ridurre a lindo ordine rigoroso di eventi
concatenati dal più antico nesso tra causa ed effetto il caos della vita e delle sue sfide quotidiane?
La pubblicazione dei 15 racconti di studenti del “Martini”, selezionati, in questa prima edizione del
concorso “La Sfida”, da una qualificatissima giuria di esperti, ha questa pretesa.
La raccolta ha anche l’ambizione di essere una “bella” pubblicazione.
Significativa per gli attori che la popolano: personaggi veri, profondamente umani, significativa per i
ricordi e le storie – di successi, di sconfitte, di errori che aiutano a crescere e motivano a superare se stessi
e i propri limiti - che evoca con quelle immagini e quelle parole. Ma anche “bella”, esteticamente valida,
curata nella sua impaginazione, dalla copertina ai piè di pagina, frutto dell’impegno e della passione dei
docenti e degli studenti che vi hanno dedicato un anno intero nel tentativo di catturare pensieri e emozioni
nel modo più efficace per senso e forma.
Il senso della scuola è questo, in fondo: la “bellezza” del sapere, il lusso estremo che rappresenta oggi la
conoscenza fine a se stessa, quella che non serve immediatamente a qualcosa, a un fine utilitaristico “ora
e adesso”. Ma che cambia la vita per sempre - perché cambia la persona e il suo sistema di valori con
l’episteme, la conoscenza profonda delle cose. Che significa, attraverso il sapere e la cura del dettaglio
che lo sforzo intellettuale comporta, consapevolezza dei valori che muovono il mondo da sempre: la
passione per il sapere, la pulsione a varcare i limiti delle possibilità conoscitive.
“La Sfida2016” pretende di essere metafora del superamento dei limiti: vuole fermare il tempo ai ricordi
e ai saperi maturati nell’anno trascorso, ma nel contempo, valorizzando il patrimonio di memoria comune
maturata stando insieme in un contesto “lussuoso” di sapere, proiettare al futuro e aiutare tutti a volare
alto.
Complimenti ragazzi e un ringraziamento speciale alla prof.sse Tania Caroli e Ilaria Mosna!
Grazie anche a tutti i docenti che hanno creduto nel progetto stimolando e sostenendo i ragazzi, in
particolare a Elda Tommasini, Maria Antonietta Del Dot, Francesco Suomela Girardi.
Un mio personale, sentito ringraziamento alla giuria, che ci ha dedicato tempo, entusiasmo, energie:
Elvira Zuin, Gabriele Carletti, Marina Pranzelores, Veronica Permer, Romano Oss.
Tiziana Rossi
Dirigente dell’Istituto “Martino Martini”
2
LA GIURIA
ELVIRA ZUIN (presidente)
docente e ricercatrice presso Iprase Trento, formatrice, autrice di saggi sulla didattica
GABRIELE CARLETTI
giornalista Rai - Tgr Trento
MARINA PRANZELORES
docente di lettere, con lunga presenza al Martino Martini, presso cui è stata anche
responsabile del giornalino scolastico
VERONICA PERMER
ex studentessa del Martino Martini al liceo delle scienze sociali, attuale studentessa di
Lettere e con abilità nel disegno
ROMANO OSS
Presidente dello Studio d’Arte Andromeda, autore di fiabe per bambini e
sceneggiature per fumetti, Socio GISM Gruppo Italiano Scrittori di Montagna
3
INDICE
In questa antologia sono raccolti, in ordine sparso, i 15 racconti selezionati dalla giuria tra i 33
pervenuti, compresi i quattro vincitori.
Tutti i testi del concorso “La sfida” saranno resi disponibili in formato digitale sul sito
dell’Istituto.
1. Shhht, di Anna Piccoli, 2 LSA P.5
2. La mia grande passione, di Mattia Pedron, 1 LSSA
P.8
3. Come tutto riuscì a cambiare, di Delta (Anna Castelli, Silvia Frontuto, Christian Pratola),
1 LSSB
P.10
4. Una vita per cambiare, di Letizia Tonetti e Giulia Grassi, 1 ITEA
P.12
5. Volevo essere come loro, di Maroi Mazoughi, 1 LES
P.16
6. Stella, di Ilaria Potrich, 4 LES
P.20
7. Il lamento di Albinen, di I GPS (Gabriele Ravanelli, Simone Pedot Michele Panizza),
1 LSSB
P.21
8. Truth or fantasy, di Miriam Ilou (1Lssa) e Valeria Carli 1LES
P.23
9. Lui e le due Lei, di The dreamers (Arianna Rossi – Luca Conti – Miriam Ilou),
1 LSSA
P.26
10. Il mio desiderio sei tu, di Silvia Pasolli ed Elena Beatrici, 1 ITEA P.30
11. Iloti e Spartiati di Aurora Franzoi, SaraViola, Chiara Wegher, 1 LOS P.34
12. Una sfida d’amore, di Sunny (Gianna Ugolini, Elena Coster Comi), 1 LSSB
P.37
13. La grande sfida, di Maria Luisa Mazzoni, 1 LOS
P.39
14. Destinazione destino, di Melissa (Myriam Scrocca, Elisa Pintarelli, Alessia Bolech)
1LSSB
P.41
15. Sfida contro l’anoressia, di Caterina Ossanna, Alessia Mottes, Giorgia Devigili,
1ITEA P.44
4
Shhht
di Anna Piccoli - II LS A
Faceva freddo, ma a lei non interessava.
I polpastrelli delle mani dalle dita sottili le dolevano per la pressione a cui erano sottoposti, schiacciati
sul tartan rosso, la consistenza dura e irregolare le lasciava lo stampo sulle punte delle dita.
Una folata di vento le spostò un ciuffo color mogano.
“Ai vostri posti!”, disse il giudice di gara, quindi ci fu un attimo di silenzio e poi: “Bum”.
Morgan spinse sui blocchi con tutta la forza che aveva in corpo, spiccò il volo.
Ad ogni suo passo ogni fibra muscolare si contraeva e poi si distendeva, portandola davanti a tutte le
altre, l’aria scivolava sulla sua pelle umida di sudore, per lasciarla passare.
Mancavano una ventina di metri, quando iniziò a sentire le urla del pubblico che faceva il tifo, nessuno
urlava il suo nome. Il vento ululava contro la sua schiena, spingendola verso la fine, portando con sé
l’odore aspro di erba bagnata. Nella sua testa lei urlò al mondo di fare silenzio, per lei, in quei dieci
secondi.
Il ticchettio delle scarpette sulla pista, qualcuno stava rallentando.
Solo quando rialzò lo sguardo si accorse che era lei, si era opposta al vento che voleva aiutarla,
aveva tagliato il traguardo, ma sul tabellone in cui mostravano i tempi il suo non era il primo. Non
aveva il fiato grosso, bensì male alle orecchie e alla testa.
“Morgan, tieni la bottiglia d’acqua.” disse il coach Jones che la aspettava all’uscita degli atleti.
“No, non voglio bere, ho rovinato tutto di nuovo!” rispose la ragazza.
“Bevi, so che ora se ti dicessi qualcosa lo sentirebbero le tue orecchie, ma il tuo cervello non lo
ascolterebbe, perciò tieni questa lettera, leggila prima di andare a dormire, a casa.” fece Jones
porgendole una busta disegnata come una carta nautica.
Lei si mise subito la felpa blu di suo fratello, lanciò le scarpe chiodate verde acqua nel borsone
umido per la pioggerella che stava cadendo e se ne andò, non una parola con nessuno.
Qualcuno la toccò e lei si svegliò, non aprì gli occhi, ma sentì lo scroscio della pioggia sul tettuccio della
macchina.
“Sono sveglia, per cena non farmi niente, vado a lavarmi e poi a dormire, mamma.” sussurrò e si
alzò subito senza aspettare una risposta. Sapeva che sua madre non se la sarebbe presa per il suo
atteggiamento, poiché la conosceva e ci era abituata.
Entrata in casa sentì che suo fratello era lì dalla folata di profumo che lasciava in giro, poiché meno di
dieci spruzzate di profumo ogni volta erano il minimo per lui. Lo vide uscire dal bagno.
Prese solo un asciugamano bianco spugnoso, girò la chiave per segnare che nella mezz’ora
successiva nessuno doveva disturbarla e entrò nella doccia.
Appena finito andò in camera, si mise sotto le coperte e senza scendere dal letto che profumava di
sandalo si allungò per prendere la lettera.
“Morgan, domani alle cinque ti voglio fuori dalla porta di casa tua, vestita da allenamento.
Niente scuse, niente obiezioni. Portati solo una mela.
Buona notte. Jones”
Era abituata agli aumenti drastici della difficoltà degli allenamenti, ma non era da Jones non lasciarle il
tempo di recuperare dopo una gara e non le avrebbe fatto bene al fisico sovraccaricarsi di lavoro. In ogni
caso si fidava del suo allenatore, perciò puntò la sveglia rossa vintage che le aveva regalato sua nonna
alle 4.30
Si svegliò, mangiò due biscotti al farro appena sfornati da sua madre, mise la mela in borsa e
si sedette sulla sedia a dondolo sulla veranda ad aspettare di vedere la Corvette d’epoca svoltare
l’angolo.
5
Aveva appena finito il primo capitolo di “Guerra e pace” senza capire nulla delle parti scritte in
francese, quando sentì il rombo della macchina di Jones.
Lui non le fece nemmeno chiudere la portiera che era già partito “Buongiorno, mia cara. Per oggi ho
in serbo per te un programma speciale.”
“Non mi sembra un’ottima idea quella di fare subito un allenamento più impegnativo il giorno dopo la
gara sinceramente…” disse scocciata Morgan, facendo infossare i suoi tratti particolari.
“Non tirare conclusioni affrettate, io non ho mai detto che oggi farai allenamento fisico” affermò lui con
il suo solito tono di voce calmo, “il tuo problema non è la forma fisica. Tu non raggiungi i risultati che
potresti, perché?”
“Io ci provo, mi sono allenata tanto… posso impegnarmi di più, credo, ma quando corro dopo un po’
inizio a sentire i rumori del mondo, il vento, le urla, qualsiasi cosa e non riesco più a correre. Non so
più cosa...”. Morgan si interruppe accorgendosi che erano fermi, al limitare di un bosco.
“Tu devi trovare il silenzio. Dentro di te. E’ per questo che siamo qui!” le urlò lui.
La ragazza saltò fuori dalla macchina e sbatté la portiera: “Ma non sono io che faccio rumore, è il mondo
che non lascia un attimo di pace alle mie orecchie. Non posso far tacere qualsiasi essere che produce
suoni! Mi servirebbe una camera blindata per poter stare nel silenzio assoluto.”
Jones la guardò, tirò fuori una sigaretta dal taschino della borsa di pelle rovinata, come se stesse facendo
una scampagnata con gli amici e questo fece irritare molto Morgan, ma non fece in tempo ad aprire la
bocca che lui la precedette: “Non mi stai ascoltando, io ti ho detto che ciò che devi fare oggi è trovare
il silenzio, non quello del mondo, ma il tuo silenzio. Ci vediamo questa sera al tramonto.” Dicendo ciò
accese il motore e sfrecciò via.
“Non puoi lasciarmi qui, non so come fare. Jones torna indietro ti prego!” gli urlò dietro, ma dopo poco
smise perché lo conosceva e sapeva che non sarebbe tornato fino al momento che lui aveva deciso. Lo
osservò allontanarsi sempre di più con il suo cappellino verde e giallo da baseball della Oakland A’s
sulla Corvette azzurro metallizzato che lasciava una scia di odore di benzina insopportabile.
Morgan si incamminò nell’unico sentiero che vedeva addentrarsi nel bosco. C’era un profumo
fantastico di lamponi che la guidò al cespuglio da cui proveniva. Senza pensarci due volte infilò la
mano bruscamente tra i rametti verdi e quando la ritirò si ricordò che la pianta aveva le spine. Iniziò a
insultare i lamponi e la povera innocente pianta.
Una folata di vento le scompigliò i capelli e per poco le fece cadere l’ultimo lampone dal palmo della
mano. A quel segno di provocazione dell’aria scattò e percorse la strada sconnessa più veloce che
poteva fino a che i polmoni non minacciarono di abbandonarla e i capelli erano tanto spettinati che
non vedeva più dove andava. Si fermò, sentì che era su qualcosa di instabile, ma non ebbe il tempo di
reagire che si trovò fradicia nel letto di quello che presumeva fosse un ruscello. Peccato che in quel
punto l’acqua era abbastanza profonda da non farla toccare e si ritrovò sott’acqua.
Per un secondo si divincolò, ma poi si rese conto che là sotto non sentiva nulla.
Uscì dall’acqua e si accorse che lì vicino c’era un salice piangente, ci si arrampicò e si appollaiò su di
un ramo.
Allungò la mano, la alzò e passò un dito su una superficie fredda. Non le oscurava la vista del mondo, la
isolava e la rendeva indifferente, perché la faceva sentire sicura e allo stesso tempo intrappolata. Provò
a battere, ma nessuno la udiva. Lei ascoltava tutto, era l’unica cosa che potesse fare.
Graffiò quel materiale trasparente e senza calore, urlò, ma non le uscirono suoni dalla bocca. Scene
di vita quotidiana si svolgevano oltre a quel muro non muro. Persone chiacchieravano, ridevano,
piangevano. Ad un certo punto lo scenario cambiò.
C’era una pista, delle ragazze sui blocchi, l’arbitro vestito di colori neutri, amorfi. Puntò la pistola al
cielo, una nuvoletta di fumo partì dalla canna, lei non sentì nessuno sparo, ma le ragazze partirono, una
di loro sfrecciava come se l’attrito non esistesse, scivolava più avanti ad ogni passo, sarebbe sicuramente
arrivata prima delle altre.
6
Mancavano pochi metri, la prospettiva dell’osservatore cambiò, vedeva dagli occhi di quella ragazza. Stava
anche lei spostando lo sguardo, non guardava più per terra, ma alzò la testa e i suoi occhi si puntarono al
traguardo.
I suoi muscoli iniziarono a ribellarsi. Non volevano più svolgere il loro lavoro. Chi stava vivendo in lei
non sentiva con le orecchie dell’atleta, ma poteva ascoltare i suoi pensieri. E capì.
Si svegliò, stava piovendo e da quel ramo poteva vedere il tramonto. Il vento non si curava di lei come
solitamente faceva, la ragazza non aveva più bisogno di lui, quindi quella forza naturale poteva giocare
con le particelle d’acqua condensata che costituivano le nubi colorate.Riuscì a tornare al limitare
del bosco, dove Jones la stava aspettando.“Non parlare, fino a domani alla gara, lascia parlare me.
Permettimi solo un’osservazione: sembra che tu ti sia trasformata in un albero e ti sia strofinata nel
fango. Ah dimenticavo le macchie di lamponi sui tuoi adorati capelli…”
Provò a dirle ciò con un tono serio e canzonatorio, ma una risatina strozzata non poté fare a meno di
farsela scappare.Stessa pista, il sudore le colava sulla fronte, questa volta i capelli li aveva lasciati
sciolti, il vento non ci sarebbe stato. I chiodi delle scarpe si conficcavano nel tartan rosso, lei non li vide
però, perché guardava la linea dell’arrivo. Il suo avversario.
Sognò ad occhi aperti, rivisse ciò che aveva visto dagli occhi della ragazza del suo sogno.
La pistola non produsse suoni quando il grilletto venne premuto, poté vedere la strisciolina di fumo che
fuggiva nell’aria. Ma lei questa volta non sarebbe scappata, tenne gli occhi sulla sua sfida: il traguardo.
Non temeva più la vittoria, l’essere la prima a tagliare la linea d’arrivo, l’interrompere la luce laser che
fermava il tempo ogni volta che qualcuno passava.
Non c’era silenzio in quella sua corsa, ma l’unico rumore era quello del suo respiro e del suo cuore:
“Bum, bum.”
7
LA MIA GRANDE PASSIONE
di Mattia Pedron – I LSSA
Erano già le quattro del pomeriggio e dovevo ancora finire i miei compiti, il giorno dopo avrei avuto
una verifica di matematica e non potevo permettermi di prendere un brutto voto; la voce di mio padre
rimbombava tra le mura di casa: “Sbrigati dobbiamo andare! L’allenamento è fra un’ora!” Non ne potevo
più, erano dieci anni che ero in una squadra di calcio per volere di mio padre. Gli allenamenti mi pesavano
sempre di più, ma non riuscivo ad essere sincero con lui, non volevo deluderlo. Vedevo i miei compagni di
scuola con lo zaino sulle spalle che si recavano al palazzetto dello sport, non per fare calcio ma pallamano,
lo sport che avevo sempre sognato di praticare. Non importava se dovevo sempre correre e fare trenta
chilometri per recarmi agli allenamenti, a mio padre interessava solo il calcio e continuava a ripetermi che
sarei diventato un campione, come lo era stato lui. Non mi impegnavo abbastanza, dovevo dare di più, ma
non ci riuscivo, non era il mio sport… Finì il campionato e quella fu la mia ultima partita.
Finite le scuole superiori finì l’incubo, me ne andai dalla mia città e così il sogno di mio padre svanì. Mi
ero iscritto all’università dello sport di Pisa. Ero abbastanza lontano, non avrebbe mai saputo che non
praticavo più il calcio, gli raccontavo un sacco di bugie per coprire tutto. A mio padre avevo raccontato
che l’università aveva una squadra di calcio e che ne facevo parte. Lui ne era felice e mi diceva che
forse un giorno sarebbe venuto a vedermi giocare. Non sapevo più cosa raccontare. In quel periodo mi
concentravo solo nello studio, cercando di ottenere il massimo dei voti. I miei genitori erano orgogliosi
di me, mi impegnavo molto, non volevo deluderli.
Durante le lezioni di economia conobbi una ragazza, Elisa, anche lei era una sportiva, praticava pallamano
da 12 anni ed era addirittura nella nazionale femminile italiana. Uniti da questa grande passione iniziammo
ad uscire insieme e divenne la mia ragazza. I miei genitori inizialmente non erano d’accordo, avevano
paura che il rendimento scolastico ne avrebbe risentito, ma quando conobbero Elisa, svanirono le loro
paure. Elisa era una ragazza molto intelligente e mi aiutava a mantenere il segreto con i miei genitori,
cosa che era sempre più difficile.
Un giorno mio padre mi chiamò per comunicarmi che lui e mia madre sarebbero venuti a trovarmi con la
speranza di vedermi giocare; non sapevo più quali scuse inventare. Elisa ebbe però una fantastica idea, mi
fasciò tutto il piede e così quando arrivarono i miei mi trovarono immobile; raccontai che avevo avuto un
infortunio durante una partita e così anche quella volta riuscii a nascondere la verità. Finalmente venne
l’occasione: all’interno dell’università c’era una selezione per formare una nuova squadra di pallamano,
non aspettai un minuto e mi presentai. Non avevo mai praticato questo sport, ma seguivo di nascosto le
partite dei miei compagni di scuola. Dopo una settimana arrivò la risposta: ero stato accettato e facevo
parte della squadra di pallamano dell’università. L’unico dispiacere però, era quello di non poterlo dire a
mio padre.
Iniziò il campionato, la prima partita tanto attesa arrivò. Entrai in campo, il cuore mi batteva sempre più
forte e accelerò ancor di più quando Alex, il mio compagno di squadra, mi passò la palla che mandai in
rete con un tiro fortissimo dai nove metri. Feci così il mio primo goal.
Fu una partita super equilibrata, mancava ancora un minuto alla fine e il tabellone segnava 25 a 25. La
palla era nelle loro mani, il tempo quasi si fermò. Vidi quella palla, che viaggiava piano tra le loro mani,
aspettai che uno di loro la passasse e scattai, non esitai un attimo, mi alzai in volo, l’afferrai, e iniziai a
correre verso la loro porta, tirai con tutta la forza che avevo in corpo e la palla andò in rete. Subito dopo si
sentì il triplice fischio dell’arbitro che sanciva la fine della partita. Mi tremavano le gambe, non ci potevo
credere, avevamo vinto! Ci abbracciammo felici. Se ne andò così la prima partita di campionato. Come
dice il detto: “Chi ben incomincia è a metà dell’opera”.
Diventammo una squadra fortissima, nessuno ci poteva tenere testa e in men che non si dica finì l’anno e
vincemmo il campionato. Mi allenavo tantissimo, sia con la squadra che individualmente, la mia passione
era così forte, che da lì ad entrare a far parte della nazionale italiana, mancava poco, pochissimo. Tuttavia,
dover tacere di quella gioia immensa era dura, ma sapevo che mio padre non l’avrebbe mai accettato.
8
Ero molto impegnato, mi dividevo tra la scuola e gli allenamenti, non era facile, era quasi impossibile
trovare il tempo per tornare a casa. Le lamentele dei miei genitori si facevano sentire sempre di più,
volevano tornassi a casa per i fine settimana, ma le trasferte mi portavano in giro per tutta l’Italia e anche
all’estero, non riuscivo a ritagliare del tempo per la mia famiglia. Mio padre sarebbe stato fiero di me, se
solo fosse stato il calcio il motivo che mi teneva lontano da casa. Anche con Elisa era difficile mantenere
il rapporto, ma ci amavamo tantissimo. Era molto impegnata anche lei con lo sport e quando aveva
qualche ritaglio di tempo se ne tornava a casa dalla sua famiglia. I suoi genitori le mancavano molto ed
era indecisa se continuare gli studi a Pisa o tornare nella sua città e cambiare facoltà. Non pensavo che
tutto si sarebbe così complicato… Il percorso che stavo facendo mi piaceva, quella era la mia strada, mi
rattristava solo il pensiero di perdere Elisa, chissà forse sarei stato capace di farle cambiare idea…
A Natale, libero da impegni scolastici e sportivi, passai qualche giorno in famiglia. In quel periodo alla
televisione trasmettevano le partite già giocate dalla nazionale italiano di pallamano, ma sicuro che mio
padre non le avrebbe mai guardate, non mi feci problemi quando mi chiese di guardare un film con lui.
Mentre girava tra i canali per scegliere il film, vide che stavano trasmettendo una partita e pensando di
farmi felice lasciò quel canale, tentai di fargli cambiare idea dicendo che ormai era acqua passata e non
mi interessava più, ma non mi ascoltò e così iniziò la partita: Italia-Germania. Stavano presentando i
giocatori quando all’improvviso sullo schermo mi inquadrarono e dissero il mio nome. Guardai mio padre
e due lacrime spuntarono dai suoi occhi e rigarono il suo viso maturo. Si alzò e se ne andò in giardino
dove un tempo era solito giocare con me, mi dispiaceva vederlo così triste e gli chiesi scusa per non essere
diventato il campione che lui tanto voleva. Mi guardò negli occhi e mi strinse forte, dicendomi che era lui
a dovermi delle scuse, per non aver mai capito che il calcio non fosse la mia passione. Gli dispiaceva che
per tutti quegli anni era stato solo lui a credere in quello che facevo e non io, il pensiero che io avevo fatto
tutto questo per renderlo felice lo rattristava ancor di più, ma era orgoglioso di me, perché ero riuscito ad
ottenere quello che avevo sempre desiderato, cosa che a lui non era riuscita. Anche lui da bambino voleva
diventare qualcuno nel mondo della pallamano, ma poi, per non dare un dispiacere al padre, aveva seguito
la sua stessa strada senza mai ribellarsi. Con il tempo si era rassegnato, ma in fondo al cuore era rimasto
quel sogno. Tornai a Pisa, felice che i miei genitori sapessero la verità, quella verità che per tanto tempo
e con tanta fatica ero riuscito a tenere nascosta. Raccontai ad Elisa quello che era successo e ne fu felice,
finalmente non dovevamo più mentire.
Poi arrivò la partita decisiva, che si disputava nella mia città. Con orgoglio chiamai i miei genitori per
comunicarglielo. Il giorno della partita entrai in campo, guardai verso gli spalti, erano pieni di tifosi che
urlavano in coro:” I-ta-lia, i-ta-lia…”. Ad un tratto però vidi un grande cartellone, mio padre e mia madre
sventolavano uno striscione, sul quale c’era scritto: “Sei il nostro campione”. Avevo così tanta felicità
in corpo che mi sembrava di volare e quando iniziai a giocare volevo dimostrare a mio papà quello che
sapevo fare, quello per cui mi ero allenato anni e anni, e ci riuscii. Vincemmo la finale dei mondiali, la
finale più importante della mia vita, io e la mia squadra eravamo i campioni del mondo.
Ora, a distanza di parecchi anni, sono io che tengo per mano mio figlio e lo sto accompagnando
all’allenamento di calcio, la sua grande passione. Io ed Elisa lo seguiamo sempre in tutte le partite e
naturalmente non possono mancare i nonni, fieri del loro nipote. A mio figlio dico sempre di seguire i
suoi sogni e di non farsi mai condizionare dagli altri. Gli spiego poi che non è importante diventare un
campione, ciò che conta invece è la passione e la volontà che ci metti a giocare quello sport, per tentare,
un giorno, di diventarlo.
9
COME TUTTO RIUSCÌ A CAMBIARE
di gruppo Delta (Silvia Frontuto, Anna Castelli, Christian Pratola)
Mentre parlava mi sembrava di sentire la storia della mia vita, mi sentivo in imbarazzo, vicino a me
c’erano tutti i miei compagni di classe con i loro genitori, ma i miei non c’erano. Avevo smesso di cercarli
da molto tempo ormai, probabilmente erano a casa davanti alla televisione con il camice sporco, la birra
in mano e le braccia bucate.
Gli applausi mi riportarono alla realtà, quella signora sulla sessantina era diventata la mia nuova e unica
migliore amica. Mi aveva raccontato la storia di sua figlia, una ragazza stupenda con una fine orribile: si
era suicidata nel laghetto vicino a casa mia. Trovarono il suo corpo pochi giorni dopo con profondi tagli
alle braccia, i capelli neri raccolti, gli occhi verdi sbarrati e la carnagione pallida. Da come la madre me
l’aveva descritta sembrava proprio la protagonista di un film horror.
I genitori di Camilla non sapevano nulla, era una ragazza molto riservata e per questo non aveva amici.
Era in sovrappeso perché sfogava tutto il bullismo, di cui era vittima, nel cibo, il fast food era il suo unico
amico. Contrariamente a me era una figlia sostenuta dai genitori.
Presi velocemente le mie cose, mi allacciai la giacca e uscii dalla sala. Pioveva a dirotto ed ero senza
ombrello, iniziai a correre, dopo un po’ mi fermai ansimante e mi rifugiai sotto la tettoia della fermata
dell’autobus. Arrivò il 17, con la ruota prese in pieno una pozzanghera e mi bagnò tutta. Infreddolita e
arrabbiata m’incamminai verso casa, accesi una sigaretta, feci un tiro, mi sentivo bruciare la gola ma in
quel momento non era un problema.
Presi le chiavi dallo zaino e aprii la porta di casa. Feci un respiro profondo prima di aprirla, non osavo
nemmeno immaginare cosa ci fosse dietro quella porta. Entrai, la televisione era accesa su una partita di
calcio, mio padre si era addormentato sul divano tra birra e volantini di offerte di lavoro. Chiamai mia
madre, ma lei non rispose. Probabilmente stava riempiendo il suo corpo di alcool.
Spensi la televisione, presi dallo scaffale il mio disco preferito di musica jazz del grande maestro
Armstrong. Andai in bagno, mi lavai la faccia e i denti. Mi misi il pigiama intero a forma di giraffa che
mi aveva regalato la nonna poco prima di morire. Tornai in salotto, riordinai velocemente il tavolino
pieno di carte e di bottiglie vuote, mentre ripensavo alla storia della signora sulla sessantina e a sua
figlia. Ero stanchissima, quindi decisi di andare a letto. Riuscii a chiudere gli occhi quando … sentii
la serratura della porta … andai in salotto, c’era mia madre sdraiata a terra, non riusciva nemmeno
ad alzarsi, aveva più alcool che sangue in corpo. In quel momento provavo compassione, schifo e
vergogna nel vederla così. La aiutai a mettersi nel letto, appena la sua testa si appoggiò sul cuscino
cadde in un sonno profondo.
Alle due, finalmente, mi addormentai. La mattina dopo mi svegliai, presi il treno e andai a scuola;
avevo le occhiaie che cadevano a terra. Appena misi vi misi piede, arrivò quella donna arrogante della
preside; mi parlò del fatto che due settimane prima avevo picchiato una ragazza in bagno, aveva una
bella famiglia, due sorelle e un fratello, i suoi genitori le volevano bene, mentre io ero figlia unica con
dei genitori assenti … ogni volta che la guardavo mi faceva quel sorrisino compiaciuto … la odiavo!
Cos’avevo fatto per meritarmi tutto questo? Ogni pugno che avevo tirato a quella ragazza era un peso in
meno sul mio cuore, quindi non mi sentivo in colpa.
Avevo due possibilità: o la sospensione o “dei pomeriggi per il bene della scuola”. Decisi di fare quei
maledettissimi pomeriggi per il bene della scuola, avevo il compito di aiutare le bidelle a pulire. La
prima settimana passò in fretta, ma la seconda fu una vera e propria tortura, ogni giorno volevo finire
in fretta per non vedere i ragazzi di quarta, ma un giorno uscirono prima dalla classe e mi urlarono cose
orribili come: “pulisci Cenerentola!”. Mi sentivo uno schifo, nonostante la corazza che mi ero costruita
col passare degli anni e con l’esperienza di vivere con i miei genitori, avevo anch’io un cuore, pieno di
cerotti e di buchi che non potevano più essere riempiti.
Vidi la mia faccia riflessa nei vetri che stavo pulendo e iniziai a grattare ancora più forte, come se
volessi cancellarla. Corsi in bagno a piangere, non riuscivo a tenere gli occhi aperti, era come se le
lacrime me li stessero corrodendo.
10
Pochi giorni dopo arrivò a “fare del bene alla scuola” con me un ragazzo che aveva scagliato contro
la lavagna un compagno perché aveva offeso la sua famiglia. Sapevo solo questo, non mi era mai
piaciuto farmi gli affari degli altri, al contrario di quelle ochette della classe accanto alla mia che
sapevano tutto di tutti, e che più volte parlavano di me a causa della mia situazione familiare.
Lui si presentò: “ mi chiamo Stefano”. Io mi limitai a dire “ciao”, anche perché, essendo lui nella classe
con le oche di cui vi ho parlato prima, sapeva già tutto di me.
Dopo due settimane, pian piano diventammo amici, era il mio primo amico e mi piaceva stare con lui,
sentivo il mio cuore meno pesante e avevo uno strano buon umore sempre attorno, iniziavo a vedere il
bicchiere mezzo pieno, anziché mezzo vuoto, mi faceva sentire speciale, era il fratello che non avevo mai
avuto. Uscimmo assieme più volte, decisi di raccontare anche a lui la storia di Camilla e della signora
sulla sessantina; lui rimase senza parole quando finii di parlare.
Decidemmo di andare assieme al laghetto dove si era suicidata Camilla, guardammo nell’acqua,
l’acqua macchiata di sangue, l’acqua delle preoccupazioni, l’acqua della morte.
In qualche modo quel laghetto faceva parte della nostra vita. Quando ci sentivamo male o tristi, ci
rifugiavamo sulla panchina rossa vicino a quel laghetto e lanciavamo i sassolini nell’acqua che formavano
dei cerchi che toccavano tutta la superficie del lago da una sponda all’altra.
Dopo due mesi eravamo inseparabili, migliori amici, avevo fatto passi da gigante, ero andata a
scusarmi sia con la preside sia con la ragazza che avevo picchiato.
Un anno dopo affrontai i miei e li iscrissi ad un gruppo di supporto per ex- tossico dipendenti; sì, ero
riuscita a farli smetterli, soffrirono per mesi, ma ne valse la pena.
Anche Stefano si scusò con il ragazzo che aveva spiattellato sulla lavagna.
Il mio cuore pieno di ferite e di buchi incolmabili, si era trasformato in un cuore a tutti gli effetti: i miei
genitori accettarono il sostegno del gruppo di supporto e, finalmente, iniziarono a fare i genitori. Stefano
si fidanzò con una splendida ragazza australiana che aveva fatto l’anno all’estero qui in Italia.
Ogni estate vado in Australia a trovarli, a settembre di quest’anno si sposeranno e io sono invitata, farò
da testimone a Stefano. Sono emozionatissima.In quanto a me … sono diventata una psicologa, amo il
mio lavoro e ogni mio paziente è speciale. Faccio serate informative, come questa, dove racconto la storia
della mia vita, una vita difficile ma che mi ha insegnato a crescere senza badare alle piccolezze della vita
ed alle cose inutili e superficiali…Parte un applauso fortissimo, un intero teatro si alza in piedi per me e
io, per la prima volta, mi sento veramente importante.
11
UNA VITA PER CAMBIARE
Letizia Tonetti e Giulia Grassi - I ITE A
Era un pomeriggio di mezza estate e Max era in ospedale per un controllo. Non essendoci andato molte
volte, era stato facile per lui perdersi tra quegli immensi corridoi colmi di persone che andavano avanti e
indietro e che rendevano quell’ambiente ancora più confusionario.
Max era molto nervoso perché questa visita avrebbe potuto determinare le sorti della sua carriera sportiva,
oppure la sua interruzione.
Max era un ragazzaccio, uno di quei bulli che metteva al primo posto il divertimento, per questo era stato
bocciato molte volte: fumo e droga erano diventati per lui ormai un’abitudine.
Era un adolescente e, come tutti i ragazzi della sua età, amava vestirsi alla moda e uscire con gli amici.
Aveva i capelli biondi e corti e gli occhi azzurri come il cielo che contrastavano con il nero dei tanti
tatuaggi. Era alto e con un fisico atletico dovuto ai continui allenamenti di calcio.
Cercava solo di nascondere alla gente le sue debolezze con un carattere un po’ arrogante e spesso ironico
che certe volte poteva mettere a disagio le persone che gli stavano vicino. Difficilmente si lasciava
avvicinare, ma se trovava le persone giuste, rischiava di far cadere la sua maschera da duro e di rivelare
il cuore tenero che nascondeva.
In breve Max raggiunse un’ampia stanza luminosa, dove le infermiere e i medici si stavano occupando
di numerosi pazienti. Max, un po’ disorientato, si accorse di uno spazio più tranquillo, dove si trovava
un letto su cui era sdraiato un ragazzo che sembrava avere la sua età. Decise allora di chiedere a lui
informazioni, per non ostacolare il gran da fare di coloro che stavano assistendo i malati.
Era un ragazzo di media altezza, con un viso a forma di cuore pieno zeppo di lentiggini, un naso largo
proprio sotto due occhioni da cerbiatto di uno spiccato color verde scuro. Le orecchie erano ben nascoste
dai suoi riccioli rossastri che ricadevano elegantemente in un ciuffo morbido sulla larga fronte. Il giovane
era magro, con un colorito livido che tradiva la sua infermità. Tentava di apparire diverso da quello che
era realmente, cioè timido e pieno di insicurezze.
- “Ehi tu, sai dov’è la sala di attesa per i controlli sportivi?”, disse Max con tono arrogante e quasi
scocciato.
Il ragazzo alzò lentamente la testa e solo in quel momento i loro sguardi si incrociarono. A quel punto
Max si accorse della debolezza del suo interlocutore.
“Mi dispiace non poterti aiutare, ma conosco solo il reparto in cui mi trovo”.
- “Sembra che tu non stia molto bene?!”
- “Ho appena iniziato una nuova terapia e il mio corpo deve ancora abituarsi a questo stress”.
Poco dopo Max notò che il letto accanto era libero. La sua stanchezza, dovuta ai duri allenamenti delle
ore prima, lo convinse ad adagiarsi su di esso.
- “Non ti ho ancora chiesto come ti chiami?!” chiese, mentre si sistemava i cuscini per essere più
comodo.
- “Mattia, e tu?” rispose l’altro, con un sorriso.
- “Massimiliano, ma tutti mi chiamano Max”.
Dopo qualche minuto Max si decise a chiedere a Mattia quale fosse la ragione che lo costringeva a restare
in ospedale.
- “Mi hanno diagnosticato la leucemia” fu la risposta, in tono pacato.
Ci fu di nuovo silenzio e l’espressione dubbiosa di Max fece intendere al ragazzo che il nuovo amico non
sapesse di cosa si trattava.
- “La Leucemia è un tumore delle cellule del sangue. Nelle persone malate di leucemia avviene una
moltiplicazione delle cellule immature del midollo osseo, che interferisce con la crescita e lo sviluppo
delle normali cellule del sangue”.
Max rimase in silenzio per un paio di minuti, non poteva credere a quello che aveva sentito.
12
- “Come fai ad essere così tranquillo?”
-“La parola leucemia mi spaventava tantissimo e ci ho messo molto tempo prima di riuscire a pronunciarla.
- “La malattia ti fa crescere velocemente e ti fa capire quanto sia importante tutto ciò che fino a quel
momento hai sempre dato per scontato.”
Max guardò l’orologio, forse non era ancora troppo tardi per presentarsi alla visita. Magari, dopo aver
giustificato il ritardo, avrebbe potuto comunque sottoporsi agli esami programmati. Salutò in modo
frettoloso Mattia, raggiunse di corsa l’ambulatorio specialistico e per sua fortuna riuscì ad effettuare il
controllo medico previsto.
Nel pomeriggio Max si recò al campo da calcio per l’allenamento, si sentiva diverso dal solito, ciò che
gli aveva detto Mattia lo aveva fatto riflettere a lungo nelle ore seguenti sul senso della vita.
In quel momento si ricordò di una frase che gli aveva detto il nonno poco prima di morire:”L’unica cosa
certa della nostra vita è che prima o poi tutti moriremo, il resto dipende da noi”. Solo allora si rese conto
della verità di quelle parole.
Forse non era ancora in grado di capire i sentimenti che provava Mattia, ma stimava il comportamento
coraggioso di quel suo coetaneo che dimostrava nell’affrontare quella grande prova.
La sera andò a cercare in internet informazioni sulla leucemia, sui sintomi, sul decorso clinico, le
testimonianze di altri adolescenti che si erano ammalati allo stesso modo.
Adesso era in grado di capire come si sentivano i ragazzi che erano affetti da questa patologia e della
forza di volontà che dovevano avere per combattere questo nemico.
In Max avvenne una lenta rivoluzione. Prese la decisione di andare a fare visita regolarmente a Mattia.
L’inizio non fu semplice. Max faticava spesso a comprenderlo e a sostenerlo, ma con il passare del tempo
si scoprì capace di una vera empatia e così i due finirono per legarsi di profonda amicizia.
Nello stesso tempo anche l’atteggiamento verso gli impegni quotidiani di Max era molto cambiato: adesso
si impegnava a scuola, aveva deciso di smettere con il fumo e le droghe leggere, insomma sembrava che
quell’amicizia gli stesse cambiando la vita.
Mancavano pochi giorni al compleanno di Mattia ed era da un po’ che Max pensava a un regalo speciale
da fare al suo nuovo amico. Mattia poco tempo prima gli aveva raccontato del sogno che aveva da
bambino: andare in mongolfiera.
L’unico problema era che Max, fin da piccolo, era terrorizzato dall’altezza. Ma se questo poteva far felice
Mattia, avrebbe fatto il possibile per superare la sua paura.
Fu così che il giorno del compleanno di Mattia Max si introdusse nell’ospedale in modo quasi furtivo,
controllò scrupolosamente che nei corridoi non ci fosse traccia di medici o infermieri e appena ebbe
certezza che la via fosse libera, prese una carrozzina e portò Mattia fuori dal nosocomio. Da molto tempo,
ormai, Mattia non usciva da quelle mura che lo inchiodavano ai pensieri sulla sua salute, sul suo incerto
futuro. Perciò, benché colpito e sorpreso dagli eventi, si abbandonò senza troppe domande alla volontà
dell’amico.
Max aveva pianificato ogni minimo dettagli: davanti all’ospedale aveva parcheggiato l’auto del padre
che aveva preso senza permesso. Ci fece salire Mattia, e partirono verso la loro destinazione.
Il viaggio per Mattia fu qualcosa di eccezionale che gli fece vivere sensazioni che da molto tempo non
provava più, come il profumo dei fiori e della montagna, il respiro a pieni polmoni di aria pulita, il
cinguettio degli uccelli, la semplice vista del mondo esterno, finalmente fuori da quella che era diventata
la sua prigione.
Dopo una ventina di minuti i due raggiunsero il luogo da cui sarebbe partita la mongolfiera. Mattia era
molto eccitato e appena scoprì la sorpresa di Max si sentì invaso da un sentimento di gioia estrema.
Tutto era già stato predisposto. Salirono sulla mongolfiera e in pochi minuti si trovarono a sorvolare la
città, ad attraversare il cielo terso, senza neanche una nuvola: lassù sembrava che i problemi di terra fossero
d’un tratto svaniti e avessero lasciato spazio alla fantasia e all’immaginazione. Max inizialmente era
spaventato, ma non impiegò molto tempo a mettersi a proprio agio e a godersi quel momento straordinario
con il proprio amico. Le emozioni che provavano erano molto forti e per certi aspetti contrastanti. Era una
mattina molto calda, che ricordava una giornata estiva.
13
Il pilota, impegnato in continue manovre, governava il velivolo con tanta naturalezza da conferire ai
suoi movimenti, anche quelli più complessi, l’apparente semplicità dei gesti quotidiani. Attraversarono
l’intera valle: mai prima di allora si erano resi conto di quanto fosse bella con le sue numerose malghe,
i pascoli, i boschi, i ricchi corsi d’acqua e le cascate, che tanto stridevano confronto al caos della città.
Venne anche il momento della discesa, che, dolcemente ma inesorabilmente, riportò i due alla spigolosa
concretezza del mondo reale, dissolvendo la magia che si era creata poco prima. Nei giorni successivi a questa incredibile gita, Max non riuscì ad andare in ospedale per i numerosi
allenamenti a cui dovette partecipare in preparazione di un importante partita che si sarebbe disputata di
lì a poco.
Appena Max arrivò nella grande stanza dove fino a pochi giorni prima stava Mattia vide il letto dell’amico
vuoto. Subito si precipitò da un’infermiera per chiedere cosa fosse successo. Per tutta risposta venne
informato dell’improvviso peggioramento delle condizioni di Mattia, ormai critiche. Era stato trasferito
nel reparto dei malati terminali, solo un trapianto avrebbe potuto riaccendere una flebile speranza. Max,
stordito, non riusciva a capire come fosse potuto accadere.
Furono i genitori di Mattia a spiegargli in dettaglio la situazione e l’urgenza di trovare un donatore di
midollo osseo.
Max proprio non riusciva a capacitarsi di tutto quello che stava accadendo: perché il mondo era stato
così ingiusto con Mattia? Era un ragazzo buono, molto credente, che aveva sempre anteposto il benessere
degli altri al suo. Perché allora proprio lui doveva andare incontro ad una sorte così oscura e tremenda?
Decise senza pensarci due volte di iscriversi alla lista dei donatori di midollo. Per Mattia avrebbe fatto
qualsiasi cosa. I giorni seguenti furono tristi, colmi di malinconia. Nonostante questo Max non smise di
andare a trovare l’amico, benché fosse consapevole della sua debolezza.
Max attendeva quasi febbrile i risultati degli esami sulla compatibilità del proprio midollo. Infine i referti
tanto sospirati si abbatterono sulle sue speranze come una scure: l’esito era negativo. Purtroppo non si
trovavano midolli disponibili per il trapianto: l’unica possibilità di salvare Mattia.
Seguì lo scoramento, di tutti. Per Max era sempre più dura assistere impotente, giorno dopo giorno, allo
spegnersi dell’amico. Ad ogni visita era sempre più palpabile per entrambi il timore che quello sarebbe
potuto essere l’ultimo incontro.
Una mattina Max si avviò di buon’ora verso l’ospedale. Aveva promesso a Mattia di mostrargli il suo
nuovo video gioco. Appena varcata la grande porta vide, con la coda dell’occhio, i genitori di Mattia
caricare delle valigie nella loro macchina. Subito si chiese perché. Forse Mattia era stato spostato in un
altro ospedale? Come mai non glielo avevano detto?
Si incamminò verso i due coniugi dall’aria affranta, quando un’infermiera che si occupava di Mattia gli si
avvicinò dicendogli che le dispiaceva per il dolore che stava provando. Fu allora che Max capì.
Quel giorno per Max fu come se qualcuno lo avesse ucciso.
Si sentiva in colpa per non aver potuto fare niente per la persona che era diventata così importante per la
sua vita.Da quel momento iniziò per lui un periodo molto difficile, pieno di risentimenti e di malinconia.
Continuava a pensare a quella persona che era riuscita a cambiare la sua vita, riportandolo sulla giusta
rotta.
Forse per la disperazione, forse per la solitudine o per i sensi di colpa, Max ricominciò a fumare, a
trascurare tutti i suoi impegni. Aveva perso la voglia di vivere, la speranza di realizzare gli obiettivi che
ogni giovane si prefissa. Sapeva che prima o poi tutti saremmo morti e quindi tutto, ogni sforzo, sarebbe
stato inutile.
Passarono alcuni mesi. Un giorno Max, rovistando tra le vecchie cose che aveva accumulato in una
scatola, trovò il libro che Mattia gli aveva dato. Al suo interno trovò una lettera che non aveva mai visto
prima.
In essa c’era scritto:
14
“Caro Max, so che questa lettera probabilmente la leggerai quando ormai non ci sarò più. Posso
immaginare come ti senti adesso, forse un po’ anche per colpa mia, perché non sono riuscito a dirti che
mi avevano già avvisato che senza il trapianto non sarei riuscito a sopravvivere. Negli ultimi giorni sono
peggiorato moltissimo. Me lo sentivo che non sarebbe andata bene, per questo ho deciso di scriverti
queste righe. Grazie a te sono riuscito a godermi gli ultimi mesi della mia vita, mi hai fatto trascorrere
momenti bellissimi e perciò vorrei che ti concentrassi solo su questi ricordi, e non sul momento che stai
passando.
Io non ci sono più, ma vorrei dire a tutti quelli che hanno la mia stessa malattia, di andare avanti e di
continuare a lottare fino alla fine. Vorrei fare capire loro che non bisogna mai arrendersi. Lottare, essere
forti, credere nella possibilità di sconfiggere questo mostro è il primo passo per combattere la malattia.
Dopo una tempesta spunta il sole. Anzi, anche dietro il cielo più burrascoso il sole c’è sempre. Purtroppo
non tutti riusciamo a vederlo, ma questo non significa che non ci sia. Sta ad ognuno di noi scacciare le
nuvole che oscurano quella meraviglia.
Lo so che non è facile affrontare certi momenti, ma sono sicuro che ce la farai. Non devi smettere
di perseguire il bene. Ci sono molte altre persone che hanno bisogno del tuo aiuto. Quindi sii forte e
dimostra a tutti che questa malattia si può vincere.
Grazie di tutto, Mattia”
Nei giorni seguenti Max decise di tornare all’ospedale ad aiutare tutte le persone affette da leucemia,
sostenendole e dando loro la forza per andare avanti, allenandole nella battaglia contro questo nemico.
Ora Max sta per finire l’università di medicina. Il suo prossimo traguardo sarà quello di andare in Africa
come volontariato per aiutare tutte quelle persone che soffrono la fame.
15
VOLEVO ESSERE COME LORO
di Maroi Marzougui - I LES A
Loro erano così belle, simpatiche, magre e con centinaia di ragazzi alle calcagna. Ogni volta che le
vedevo passare per i corridoi della scuola pensavo sempre a quanto mi sarebbe piaciuto vivere nei loro
corpi anche solo per un giorno; fantasticavo come una bambina perdendo completamente la condizione
del tempo ma purtroppo, prima o dopo, arrivava il momento in cui dovevo tornare coi piedi per terra e
non c’era niente di più disdicevole. L’unica cosa che mi chiedevano i ragazzi era: “Alisha, ti dispiace
passarmi i compiti? Grazie mille!”. Mi scocciava essere cercata solo per quello, ma non volevo fare la
figura dell’antipatica e, come se non bastasse, fare la figura della classica secchiona trasandata. Eryn e
Kate erano le mie migliori amiche, senza di loro mi sarei costantemente sentita esclusa dal resto della
classe. Avevamo una cosa in comune: mai in vita nostra avevamo avuto una relazione con un ragazzo.
La maggior parte delle ragazze della mia età (o addirittura più piccole) che frequentavano la mia scuola
avevano già avuto parecchie relazioni a differenza nostra, ma non c’era da stupirsi: bastava confrontarci
per capirlo!
Spesso ingannavo me stessa dicendomi che forse ero troppo piccola per avere un fidanzatino poiché avendo
13 anni ero ancora una mezza bambina, ma poi smentivo tutto questo mio ragionamento paragonandomi
alle mie compagne di scuola. Sapevo che il mio problema fosse l’aspetto esteriore, spesso me lo facevano
notare (in particolare i miei famigliari), ma io non mi vedevo così male, trovavo di avere un viso molto
grazioso e, a differenza delle altre ragazze, io ancora non mi truccavo perciò se mi fossi truccata sarei
stata ancora più carina. Il vero problema era il fisico, quello sì che era uno schifo! Non rispettavo neanche
lontanamente i canoni di bellezza della società (ovvero pelle ossa) e non avevo voglia di cambiare
probabilmente per pigrizia, per poca motivazione o perché mi auto-convincevo che mi facevano schifo
le ragazze troppo magre anche se in realtà mi sarebbe piaciuto essere magra, non lo ero mai stata …
“Hey Alisha! Vieni a casa mia questo pomeriggio che prepariamo la ricerca di scienze!”, mi disse una
mattina Eryn. Mi pareva ovvio, a volte pensavo che l’unica cosa che ci legasse fossero i compiti.
Passava il tempo e io non riuscivo più a sopportare Eryn e Kate, non riuscivano a capirmi in alcun
modo, non avevano la curiosità e l’energia che normalmente c’è in un’adolescente.
“Ok …! Basta Alisha, sei rimasta in disparte per troppo tempo, è giunto il momento di uscire dal tuo
guscio e socializzare un po’… iniziare ciò cambiando look può funzionare no?!”, dicevo a me stessa.
Spesso mi capitava di parlare da sola perché ero sempre più convinta che l’unica persona realmente in
grado di capirmi potessi essere solo io. Quindi era giunto il momento di abbandonare quei pantaloni
oversize e le felpe giganti che mi rendevano più grassa di quanto non fossi già. L’unica persona che
poteva aiutarmi a cambiare look (io non sapevo nulla di moda e quant’altro) era mia sorella maggiore
Courtney; non avrei mai voluto chiedere a lei di aiutarmi perché non andavamo molto d’accordo, ma
non avevo altra scelta. “Non credo ti stiano le braghe, sono una 38 e tu sei abbastanza grossa per questa
taglia”, mi disse Courtney, non era la prima volta che mi dava della grassa ma non so per quale motivo
questa volta mi fece riflettere e mi ferì un po’. Naturalmente non le mostrai la mia fragilità, quindi feci
come niente fosse.
Iniziai a mettermi i jeans con cautela, finchè ad un certo punto si bloccarono sulle cosce. Ci rimasi
molto male, ma dopotutto me lo aspettavo. Naturalmente non volevo che mia sorella venisse a
conoscenza di ciò quindi strinsi i pugni e mascherai questa delusione: mai avrei voluto darle la
conferma che ero inferiore a lei!
Nel frattempo tra me, Eryn e Kate c’era sempre più tensione, non ci capivamo più come prima. Il
nostro distacco era molto graduale finché arrivò il giorno in cui era come se non ci conoscessimo più:
non parlavamo, non stavamo assieme durante l’intervallo, non facevamo più la strada insieme per
tornare a casa dopo scuola … erano piccoli segnali che mi fecero capire che la nostra amicizia era
ormai finita. Ovviamente ero triste, ma non so se per la loro assenza o per la mia solitudine. Infatti
avevo finito per restare sola e l’estate era alle porte.
16
La solitudine mi ha sempre spaventata, per tutta la mia vita ho finto di essere qualcuno che in realtà non
sono e tutto questo l’ho fatto per non restare sola. Arriva però un momento in cui ci si stanca di essere
costretti a dover interpretare una parte che non ti rappresenta per tutto l’arco del film della vita, della
sola e unica vita. Pertanto nessuno sapeva come io fossi veramente, cosa pensassi e cosa volessi perché
nemmeno io stessa ero in grado di capirlo. L’unica certezza era che avevo un’infinità di dubbi.
Un pomeriggio girovagavo per strada da sola senza una meta ben precisa, vedevo le ragazze della mia
scuola in gruppo: erano tutto ciò che avrei voluto essere io. Ero quasi invidiosa della loro spensieratezza
e perfezione. Avevano un legame che io, Eryn e Kate non avevamo mai avuto: loro erano amiche perché
si aiutavano a vicenda e si completavano, mentre noi eravamo legate dai compiti e dallo studio.
Indossavano tutte i pantaloncini, se li avessi indossati io sarei sembrata una balena. Una volta tornata
a casa ero veramente molto nervosa e arrabbiata, senza un motivo preciso ma semplicemente mi
sentivo così. Presa dallo sconforto e dalla depressione iniziai a mangiare esageratamente, in quel
momento non pensavo a come sarei stata e a quanto sarei ulteriormente ingrassata perché per me era
più importante colmare il vuoto che avevo dentro, un vuoto che solo il cibo era in grado di colmare.
Mi abbuffavo senza rendermene conto e senza riuscire a fermarmi, poi arrivò il momento in cui toccai
il limite e piansi … il motivo non c’era o forse ce n’erano troppi.
“Alisha, smetti di mangiare. Guardati allo specchio e guarda quanto ti è cresciuto il sedere. Oh Santo
cielo! Sei veramente un disastro.” Gridò mia madre furiosamente dopodiché misi in pratica ciò che
mi disse. Avevo lo specchio davanti e all’improvviso spuntarono migliaia di difetti che fino ad allora
non avevo mai notato: la pancia gonfia (a causa dell’abbuffata precedente) e piena di smagliature, le
gambe che parevano due prosciutti pieni zeppi di cellulite, le braccia flaccide e grosse …tutto ciò che
vedevo era la realtà, a cui fino ad a quel momento avevo sempre cercato di sfuggire. Giorno dopo giorno
vedevo sempre qualcosa in più che non andava e la cosa peggiore era che non sapevo cosa fare, ero
completamente inesperta in quel settore, perciò non comprendevo le cose, anzi le peggioravo riversando
la mia frustrazione sul cibo. Non mi rendevo conto che era un circolo vizioso: stavo bene quando mi
abbuffavo ma dopo avevo i sensi di colpa a mille, dunque stavo peggio di prima.
Come se non bastasse, mia madre non faceva altro che criticarmi, criticava il mio corpo come se io non mi
fossi resa conto di essere una cicciona schifosa, ma a lei non bastava, doveva, voleva ricordarmelo ogni
giorno dicendomi: “Smettila di mangiare cicciona!”. Lei non lo sapeva ma ogni volta che mi insultava
andavo in camera mia e piangevo. Quando piangevo lo facevo di nascosto e in silenzio, volevo sembrare
forte anche se lei mi umiliava, ma in realtà ero fragilissima, tanto che bastava il suo giudizio per farmi
cedere completamente. Infatti, il giudizio di mia mamma è sempre stato quello che ho preso più in
considerazione perché so per certo che non avrebbe avuto alcun motivo di mentirmi. Mi sentivo una
delusione sia per mia mamma che per me stessa.
Passavano i giorni e il mio problema persisteva, peggiorando di volta in volta, quello specchio che avevo
sempre cercato di evitare mi terrorizzava, mi mostrava chiaramente che ero prigioniera di un corpo che
odiavo.
In quel preciso istante, d’improvviso, è stato come se ne avessi avuto abbastanza di essere continuamente
presa di mira. Non ero più la Alisha che tutti conoscevano e questo non ero stata io a deciderlo ma la
gente, che mi ha costretta a diventarlo. Le loro critiche mi avevano prosciugata, divorata senza pietà. La
vecchia Alisha se ne sarebbe fatta una ragione senza difendersi ma la nuova non avrebbe più permesso a
nessuno di calpestarla. Viviamo in un mondo di falsi, in un mondo dove l’immagine è tutto, è la società
a decidere ciò e se non la si rispecchia alla perfezione non veniamo contati, peggio veniamo umiliati.
Volevo dimostrare a tutti che non ero quello che loro credevano, avevo deciso di dimagrire per essere
accettata almeno una volta in vita mia. Non avevo la minima idea di come si perdesse peso, ma sapevo che
era l’unico obiettivo che dovevo assolutamente raggiungere. Nel frattempo mi stavo chiudendo sempre
di più nel mio spazio, lontana dal resto del mondo. La solitudine ormai per me era quotidianità ma avevo
imparato ad autoconvincermi che ciò mi piacesse. Ancora una volta l’avevo fatto … le mie emozioni e
i miei sentimenti erano fasulli, tutti decisi dalla mia mente per farmi avere un vantaggio, per superare la
quotidianità mentre il mio cuore restava sempre in secondo piano.
17
La mia dieta era sempre più restrittiva, il cibo scarseggiava di giorno in giorno perché non me lo meritavo.
Dio solo sa quanto avrei voluto in certi giorni mangiare una lasagna, un piatto di pasta o del pane …
Per me l’autocontrollo era la chiave di tutto, bastava allenarlo e dopo risultava quasi una cosa naturale.
Gestivo molto bene la mia fame, tant’è che la maggior parte delle volte non la sentivo. Non potevo
mangiare ciò che gli altri mangiavano perché sarebbe stato come averla data vinta a tutti quelli che mi
avevano criticata, non potevo permettermi di perdere questa sfida.
“Miracolo! Finalmente non mangi più merendine.” Mi diceva mia mamma, io le risposi con una mezza
risata, ai miei occhi lei era sempre più ridicola. Provavo una rabbia indescrivibile nei suoi confronti.
Entravo nella mia stanza, non riuscivo a guardarmi allo specchio, o meglio, abbassavo lo sguardo per non
ritrovare la mia immagine riflessa, facevo finta di non farlo volontariamente ma sapevo perfettamente
che era il contrario di ciò che desideravo. Facevo degli esercizi dimagranti in camera mia, a volte entrava
mia sorella e mi fissava tutto il tempo, non capivo il perché però mi sentivo estremamente in imbarazzo.
Un pomeriggio, dopo l’ennesima volta che mi stava fissando, mi disse una cosa: “Tanto non diventerai
mai magra!”. Credeva veramente che non ce l’avrei mai fatta. Arrivai ad una conclusione che avevo poco
analizzato: mi ero messa in testa di raggiungerla a tutti i costi per dimostrare a tutti, me compresa, che
potevo farcela: volevo diventare anoressica …
Non conoscevo molto bene l’anoressia, però non mi importava, la mia salute era passata in secondo
piano (come tutte le altre cose del resto …), il mio aspetto fisico era più importante, stavo diventando
ciò che non avrei mai voluto essere, ovvero schiava di questa società.
Presi molto seriamente questa cosa, feci una serie di ricerche su internet, quasi mi piaceva quel corpo
così scheletrico ma soprattutto volevo fargliela pagare a tutte quelle persone che mi avevano calpestata.
La fame? Non sapevo più che cosa fosse e nemmeno volevo saperlo, ero troppo determinata per cadere
in tentazione. La sensazione di euforia non mi faceva pensare al cibo, che una volta usavo come
consolazione. Mia sorella e mia mamma mi parlavano molto più gentilmente, non mi vedevano più
come la goffa cicciona della famiglia, probabilmente perché se fosse stato per me non avrei parlato con
nessuna di loro, stavo assumendo un comportamento molto serio.
Nutrivo un rancore enorme nei loro confronti ma ho sempre pensato che la miglior arma fosse l’indifferenza;
in quel caso, però, non bastava, io ne avevo un’altra di arma e la stavo mettendo in pratica proprio sotto
i loro occhi senza che sospettassero di nulla.
Vivevo nella monotonia, era la solita routine, per me non esisteva altro che la dieta e lo sport, mi mancavano
le mie amiche anche se detestavo ammetterlo, volevo farmi piacere la solitudine.
Dopo circa due mesi i risultati erano visibili: le gambe erano più definite, la pancia per la prima volta in
vita mia era piatta, le braccia erano sottilissime, però la cosa che mi sconvolse di più era che i pantaloni,
gli stessi che riuscivo ad infilare qualche mese prima, mi andavano addirittura larghi!
Non potevo essere più felice, ma qualche minuto dopo prevalse la paranoia, avevo paura, terrore di
ingrassare, dovevo continuare a fare ciò che avevo sempre fatto! Il mio fisico mi piaceva ma non era
abbastanza, volevo essere ancor più magra, intanto stavo notando un’altra cosa: il mio viso … non avevo
più quelle fossette evidenti, avevo delle occhiaie enormi, le mie guance erano scomparse, insomma non
avevo più quel viso carino e dolce che mi aveva sempre caratterizzata, sembravo uno zombie. Non mi
importava, di certo non era un buon motivo per ricominciare a mangiare.
A casa sospettavano molto, mia mamma era sempre più gentile con me, spesso mi portava le merendine
di cui mi abbuffavo qualche mese prima e mi diceva di mangiarle perchè le aveva prese apposta per me.
Per far sì che non mi scocciasse la assecondavo ma naturalmente non le mangiavo, infatti le nascondevo
nello zaino dopodiché le buttavo nel cestino. Ogni volta che mi comprava le schifezze, che qualche mese
prima amavo, io la interpretavo come un: “Torna grassa! Con chi posso sfogare la mia frustrazione, chi
posso prendere in giro per l’aspetto fisico ora?”. Le volevo bene perché era mia mamma però allo stesso
tempo la detestavo. Era insopportabile, era stata lei ad aprirmi gli occhi ed ora voleva che io ritornassi
grassa? Non gliela avrei mai data vinta, mi volevano magra?
18
Io l’ho assecondata, solo che una volta espresso il desiderio non potevo più tornare indietro.
Mia sorella era molto gentile con me, avevamo costruito un buon rapporto ma quella frase che mi aveva
detto non me la scordai mai, inoltre avevo notato di essere diventata più magra di lei. Pensavo che ora
fossi io a comandare, ogni più piccolo commento che faceva sul mio fisico me ne faceva dire uno, di dieci
volte più pesante, sul suo. Spesso mi diceva che ero troppo magra, io le rispondevo che preferivo mille
volte il mio fisico piuttosto che il suo. Ero molto acida ma in fin dei conti la stavo “pagando con la sua
stessa moneta”, lei era stata spietata, ora lo sarei diventata io.
Pesavo quarantatré Kg, volevo raggiungere i quaranta a tutti i costi. La situazione a casa era molto critica,
mamma era molto preoccupata e iniziò a trattarmi male, papà non pensava fosse grave, finché un giorno
mi costrinsero a mangiare un panino con la cotoletta, panico …!
“Panino rosetta 130 Kcal, cotoletta fritta sulle 320 Kcal”, pensavo tra me e me, avevo paura di ingrassare
però lo dovetti mangiare tutto lo stesso. Avevo la nausea, il mio stomaco non era abituato a mangiare così
tanto: di solito mi mantenevo con due o tre mele al giorno. Piansi tutta la notte, avevo paura, piangevo
in silenzio per non far vedere la mia debolezza, pensavo addirittura di aver preso cinque Kg, non sapevo
quanto sarei ingrassata ma sapevo che il giorno dopo avrei dovuto assolutamente non mangiare niente e
così feci.
Mi sentivo particolarmente strana, avevo il respiro pesante e la vista offuscata, il mio cuore batteva
all’impazzata, come se avessi appena corso una maratona, sapevo cosa mi stava succedendo: stavo per
svenire. Dovevo evitarlo a tutti costi altrimenti sicuramente mi avrebbero portata in uno di quei centri
per disturbi alimentari, quindi presi una mela e la mangiai, fortunatamente stavo meglio ma ero ancora
sconvolta.
Non poteva andare avanti così per molto tempo, d’altronde me lo aspettavo, infatti mia mamma e Courtney
si erano messe d’accordo per controllarmi; scoprirono che non mangiavo quasi nulla quindi decisero di
portarmi in un centro per disturbi alimentari. Ero arrabbiatissima, quella rabbia si trasformò in tristezza,
malinconia per poi finire in paranoia. Ricordo ancora la sala attesa del centro: eravamo in cinque ragazze,
magrissime, molto intimorite e spaventate. D’un tratto mi resi conto di ciò che ero diventata ma non mi
importava. Volevo rimanere così com’ero perché per la prima volta mi piacevo …
Volevo conoscere le storie di queste ragazze, avevamo una cosa in comune: il distacco dal mondo,
un pensiero che potevamo capire solo noi, la tristezza nei nostri occhi, il desiderio di ribellarci ma
l’ostacolo della debolezza fisica ed emotiva.
Erano molto riservate, lo ero anch’io, i nostri genitori avevano l’aria scocciata e frettolosa come se
volessero risolvere questo problema e farla finita, come se non avessero tempo di ascoltarci ma solo il
bisogno di farci tornare “normali” fregandosene completamente della nostra opinione, pensavano che
dovessimo solo guarire, nient’altro.
Sono passati tre anni dalla malattia e non c’è un giorno in cui non penso a quel periodo, pochissima
gente sa cosa ho vissuto, ho sempre avuto il timore di aprirmi e raccontare ciò che mi è successo. Ho
perso questa sfida ma ho imparato a non dare troppo peso alle critiche, la gente ti giudica in base al tuo
aspetto fisico ma non sa cosa hai passato e cosa stai tutt’ora passando. Non sono guarita del tutto, ci vuole
molto tempo per metabolizzare tutte le fissazioni, le paranoie, ma so che un giorno ce la farò. Ho superato
l’anoressia ed ho riavuto la mia forza, l’unica cosa che mi permette di andare avanti a testa alta.
19
STELLA
di Ilaria Potrich - IV LES A
Ricordi felici riecheggiano nell’anima
Stella mi chiamavi
Mi guardavi con quello sguardo fiero
E gli occhi ti brillavano
Come quando guardo il cielo
Provando a immaginarti
Vicino ad una stella
Sempre dentro il mio cuore
La tua sfida l’hai persa
Nessuno mi chiama più così
Non mi resta che il ricordo di un giorno lontano
Stella mi chiamavi
E i tuoi occhi brillavano
E il mio cuore rideva
20
IL LAMENTO DI ALBINEN
dei GPS (Michele Panizza, Gabriele Ravanelli, Simone Pedot – I LSS B)
Ormai era sera e con sguardo attento e preoccupato Dominik mungeva la capretta davanti al caminetto,
la legna di larice scoppiettava fra le braci e l’acqua, nel paiolo attaccato alla segosta, bolliva.
La neve scendeva lenta e aveva già coperto il ciocco.
Eccolo lì, lui è Dominik, un uomo sui 75 anni alto 1,70 m, aveva un folta barba e capelli grigi; con la
nostra descrizione può sembrare un uomo come altri ma scopriremo che non lo era affatto.
Ogni mattina, prima di iniziare qualsiasi cosa, saliva sulla montagna dietro alla sua baita per raccogliere
una stella alpina da donare alla sua cara moglie che giaceva addormentata per sempre nell’enorme prato
d’innanzi alla baita.
Per quanto riguarda la sua vita sociale basterebbe spostarsi tre chilometri più a valle fino ad arrivare al
paesino di Albinen per sentire le chasarine spettegolare: “Tge vegn a far il pastur?” e un’altra chasarina
:“Na lo saver, è dar bler che nagin lo va a chattar.” Con un’affermazione immediata:” Blers dir che discurr
cun les zile” e la commessa della bottega aggiunse:” Hai sentir che el maglia il fain”.
Da questi discorsi notiamo che il pastore è mal visto dai paesani perché, poco conosciuto.
Era un giorno come gli altri e dal fondo valle si poteva ascoltare l’eco dello jodel che scendeva dalle alte
cime delle montagne svizzere.
Se seguissimo il canto, probabilmente, arriveremo alla baita del pastur. Avvicinandoci sentiremo il
profumo del latte appena munto e vedremo Dominik, il pastur, impegnato ad aggiungere il caglio nel
latte, sicuramente già tornato dalla ormai quotidiana ricerca del fiore perfetto per la sua amata moglie.
Se lo conosceste bene sapremo che quella faccia turbata che aveva quel giorno non era la solita tranquilla
e calma. Probabilmente era successo qualcosa durante la ricerca riguardante il luf perché il pastur
continuava a ripetere questa parola.
Infatti quella mattina, sulla tomba della moglie, non giaceva un fiore appena raccolto. Cos’era successo?
Dominik non si era mai ammalato nell’arco degli ultimi trent’ anni, non poteva essere che si fosse
dimenticato del fiore.
Era da un po’ di giorni che in paese girava la voce che nel bosco si aggirasse un giovane lupo con gli
occhi azzurri e il pelo nero, gli anziani dicevano fosse giunto dalle Alpi italiane, quindi molto affamato
dal lungo viaggio; altri sostenevano che si fosse allontanato dal branco di proposito perché molto astuto
e prudente. La mancanza del fiore fresco sulla tomba della moglie era legata sicuramente alla presenza di
questo nuovo ostacolo che Dominik aveva incontrato.
Passarono giorni e ogni mattina il pastur doveva cercare in qualche modo di proteggere le sue capre
dalla nuova minaccia; si mise subito a recintare tutto il perimetro del pascolo con filo spinato, ma scoprì
che era poco efficace. Il luf si era preso già tre delle sue capre, ma il pastur non si dava per vinto, ogni
giorno piantava, ideava e nascondeva trappole per catturarlo, ma nessuna di queste era efficace contro
l’intelligenza del lupo.
Dopo mesi di continua lotta rimase solo una capra che era incinta di un piccolo capretto; il lupo sembrava
inarrestabile, ma il pastur non voleva perderla, era troppo preziosa.
Una mattina di novembre stranamente il lupo non si presentò all’ormai quotidiano appuntamento; il
pastur all’inizio sembrava contento e cercò di sbrigare le sue esigenze primarie: munse la capra, andò a
raccogliere il fiore, fece il formaggio, ma sentiva che qualcosa mancava.
Preparò uno zaino con un pezzo di pane e dell’acqua, fece uscire la capra al pascolo e partì alla ricerca
del luf. Controllò e setacciò ogni angolo del bosco, ma niente da fare: il lupo era introvabile e il pastur
tornò a casa.
Ormai era sera e con sguardo attento e preoccupato Dominik mungeva la capretta davanti al caminetto,
la legna di larice scoppiettava fra le braci e l’acqua, nel paiolo attaccato alla segosta, bolliva.
Andò a dormire con il pensiero forte che il lupo si fosse fatto male o addirittura fosse stato ucciso da
qualche bracconiere. L’emozione che provò era intensa, non l’aveva più provata dalla morte della moglie:
provava amore. Ad un tratto balzò su dal letto e urlò: “Sono stato proprio stupido!
21
Ho setacciato ogni angolo della montagna ma non ho controllato le trappole che ho posizionato.” Si
infilò i pantaloni e si precipitò verso il paese lungo la vecchia mulattiera. Andò verso il vecchio pozzo
abbandonato, udì degli ululati sofferenti provenire dal fondo.
Cercò disperatamente una corda e pensò di andarla a prendere alla baita, ma era troppo lontano. Era notte
fonda, tutto Albinen dormiva, Domink si ricordò della situazione del lupo si precipitò subito a bussare
a tutte le porte, ma nessuno uscì, fino a quando lassù, in una piccola casetta in cima al paese, uscì una
piccola bambina con le trecce bionde e gli occhi azzurri. Ascoltò tutta la storia del pastur e decise di
aiutarlo, presero una corda e corsero verso il pozzo; arrivati lì il pastore legò la bambina e la calò giù,
Dominik continuava a tranquillizzarla, ma soprattutto a calmare il lupo.
La bambina arrivò in fondo.
Ci fu un attimo di silenzio, poi un acuto urlo della bambina fece affacciare Dominik sul pozzo: il lupo e
la bambina erano scomparsi.
Da quel momento Dominik vaga per le montagne alla ricerca del lupo e della bambina. Si racconta che
quando in montagna si sentono dei lamenti seguiti da passi pesanti sia il pastur preoccupato, alla ricerca
dalla piccola e del luf.
P.s. I dialoghi della gente del posto e alcuni vocaboli sono scritti in lingua romancia
22
TRUTH OR FANTASY?
di Valeria Carli (I LES A) e Miriam Ilou (I LSS A)
Mi chiamo Laila, mi sono trasferita da poco in un piccolo paesino del Canada. I miei genitori hanno
comprato una casa in mezzo al bosco per permetterci tranquillità, ciò che non abbiamo avuto in questi
anni.
Ho appena compiuto 18 anni e sento che con questa nuova vita tutto cambierà.
L’estate stava finendo, io avevo appena litigato con i miei genitori per la scelta della scuola che avrei
frequentato a settembre.
Il sole era tramontato e si stava facendo buio, per schiarirmi le idee decisi di andare a farmi una corsa;
raccolsi i miei lunghi capelli neri in una coda di cavallo, misi i miei grandi occhiali da vista nella felpa
che aveva legato alla vita, misi gli auricolari, accesi la musica al massimo e cominciai a correre nel bosco
senza una meta.
Schivavo gli alberi guidata dal ritmo della musica, ormai ero molto lontana da casa mia e il respiro
cominciava a farsi pesante. Decisi di fare una breve pausa, vidi un ruscello e con l’aiuto delle mani
bevvi.
Ad un certo punto sentii dei brividi a causa delle forti raffiche di vento. Era quasi completamente buio, il
bosco aveva un aspetto inquietante: era fitto di alberi robusti e la luna illuminava i loro movimenti, causati
dal vento. Le ombre create sembravano indicare tutte la stessa direzione alle mie spalle. Cominciavo a
spaventarmi, decisi quindi di tornare indietro. Rimisi le cuffiette, mi girai, e all’improvviso mi ritrovai
di fronte una sagoma scura, un ragazzo. La luce della luna mi permetteva di scorgere i lineamenti del
suo pallido viso. Aveva i capelli scuri e spettinati, gli occhi erano di un color ghiaccio, mi ammiccò un
sorrisetto storto che fece comparire una fossetta sulla sua guancia sinistra. Le sue labbra avevano un
colorito rosso sangue.
Io, per lo spavento, indietreggiai, inciampai in una radice, caddi a terra e mi ferii la mano. La allungai
verso di lui per farmi aiutare. Lui mi guardò e vidi le sue pupille dilatarsi fino a rendere gli occhi quasi
completamente neri, fece una smorfia e se ne andò correndo, in pochi secondi scomparve nel buio. Io mi
alzai confusa e in fretta tornai a casa.
Due settimane dopo la scuola cominciò, io mi ero completamente dimenticata di quell’ inquietante
episodio.
Arrivai a scuola giusto in tempo al suono della prima campanella e mi sedetti nel primo banco libero con
lo sguardo basso. Cercai gli occhiali, poi mi ricordai di averli persi; era ormai un’abitudine indossarli…
lasciai perdere. La lezione cominciò.
Finita l’ora raccolsi i miei libri e mi diressi al mio nuovo armadietto. Quando lo trovai consultai la
cartina della scuola per le materie e il prospetto delle aule. Presi i libri necessari alle ore sucessive e
chiusi l’armadietto. Appena mi avviai mi scontrai con qualcuno. Tutte le mie cose caddero a terra. Mi
precipitai a raccoglierle e subito dopo vidi una mano che mi aiutava. Alzai lo sguardo e rividi quegli
splendidi occhi. Il ragazzo mi aiutò ad alzarmi e scoppiò in una risata di gusto. Lo guardai storto, così
disse: “Dobbiamo smetterla di incontarci in questo modo, comunque piacere, Liam.”
Io guardando a terra, accennai un sorriso e mi presentai.
“Non credi che per far risaltare quei magnifici occhioni verdi servano questi, per caso?” disse un momento
dopo, sfoderando quel suo adorabile sorrisetto e mostrando i miei amati occhiali.
Sorpresa di quell’inaspettato complimento e felice di riavere finalmente i miei Ray-ban gli rivolsi uno
dei miei migliori sorrisi e lo ringraziai un’infinità di volte.
Scoprimmo di frequentare le stesse classi, allora mi propose di raggiungere la prossima lezione
assieme.
Arrivati all’aula trovammo solo due posti liberi: io presi quello in prima fila e lui invece si sedette in
fondo, vicino alla parete.
L’insegnante cominciò a spiegare, ma solo dopo che io mi presentai alla classe, essendo nuova.
Mentre prendevo appunti sentivo lo sguardo di Liam su di me, credevo fosse una sensazione creata dalla
mia immaginazione, allora decisi di girarmi con cautela per controllare.
23
Appena lo intravidi notai subito che guardava nella mia direzione. Era appoggiato al muro con la schiena
e aveva una gamba flessa puntata sulla sua sedia. Teneva un braccio sul ginocchio e l’altro sullo schienale
della sedia. Sembrava molto sicuro di sè, sembrava a suo agio, al contrario di me, che subito arrossii e
mi girai.
Feci finta di niente per alcuni minuti, poi però non resistetti alla tentazione di ricontrollare se ancora mi
stesse fissando.
Misi i capelli dietro all’orecchio e di nascosto, dietro alla montatura degli occhiali, lo guardai. Mi stava
ancora fissando: il suo sguardo era profondo e penetrante e un lieve sorriso accennava appena la sua
fossetta.
Lo osservai meglio: indossava una giacca di pelle nera con sotto una T-shirt celeste, che faceva risaltare i
suoi occhi; aveva i capelli arruffati che comunque sembravano morbidi. I jeans neri finivano in semplici
scarpe nere.
Era così dannatamente bello!
La prof. concluse l’argomento giusto al suono della campanella.
Il resto della mattinata trascorse velocemente.
Alla fine della giornata, all’ora di pranzo, mi avviai a passo svelto verso casa, stringendo forte la mia
borsa.
All’improvviso sentii chiamare il mio nome: “Laila, hey Laila, aspetta.” Mi girai e senza rendermene conto
mi ritrovai Liam a due centimetri dal viso. Mi sorrise: “Hey, ciao.” Abbassai lo sguardo e indietreggiai.
Ricambiai il sorriso:”Hey.”
“Scusa se ti ho lasciata così, ero andato a salutare dei vecchi compagni, poi ti ho persa di vista. Sei svelta
a camminare.” ,disse piegando la testa da un lato. Risi: “Ehm, si scusa, è solo che ho fame…” subito
dopo averlo detto mi resi conto di quanto fossi stata ridicola e scoppiai a ridere. Lui fece altrettanto, poi
si fermò, piano si mise serio e cominciò ad osservarmi attentamente. Io con tutte le mie forze cercai
di smettere di ridere, e tra un sorriso e l’altro riuscii finalmente a mettermi seria: lo guardai con aria
interrogativa. “Sei così bella quando ridi.”, mi disse con voce profonda e sommessa. Io distolsi subito gli
occhi da lui e mi nascosi dietro ai capelli. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo.
Mi si avvicinò di nuovo e con due dita mi alzò il mento, per potermi guardare negli occhi: “Hey,hey,
smettila di nasconderti da me, guardami! ”. Lentamente presi coraggio e lo guardai dritto negli occhi, poi
feci un grande sospiro, lui mi accarezzò una guancia ed io chiudendo gli occhi mi ci appoggiai contro. Mi
godetti la meravigliosa sensazione che dava il contatto della sua pelle con la mia.
Cominciammo a studiare assieme e ogni giornata finiva con una passeggiata nel bosco, fino ad arrivare
a casa mia.
Insieme ridevamo moltissimo. Mi accorsi che con lui non ero timida come sempre, ero più aperta. Lui
era spiritoso ed ironico, mi ascoltava senza interrompermi e rideva alle mie battute. Sembrava tutto così
semplice con lui…
Il tempo sembrava non passare mai con lui, avevamo sempre qualcosa di cui parlare.
Era diventato il mio migliore amico, ma l’attrazione che avevo per lui era inimmaginabile.
Cominciavo però a notare in lui delle stranezze. Per esempio un giorno, mentre passeggiavamo, io, per
sbaglio, lo spinsi e lui si aggrappò ad un ramo e si ferì, ma appena guardai la mano il taglio era scomparso.
Lui mi giurò che non si era fatto nulla, ma io ero convinta di aver visto del sangue.
Un altro giorno, invece, mentre cercavo una penna nel suo zaino trovai una sacca di sangue, rabbrividii e
subito gli chiesi spiegazioni. Liam mi rispose che era per un compito di biologia.
A Capodanno ci fu un ballo della scuola e lui mi invitò.
Era una sera tranquilla, fuori nevicava e il riflesso dei fiocchi con la luce della luna illuminava tutto. Io
ero assorta nella lettura di un romanzo quando lui mi chiamò al cellulare: “Sai che sei bellissima quando
leggi? Esci fuori sul terrazzo, devo chiederti una cosa.” “Mi spii pure adesso?” risi e riattaccai,s ubito
dopo uscii stringendomi nella vestaglia. Mi guardai attorno, cercandolo, mi sporsi sulla ringhiera del
poggiolo… “Hey splendida”, sentii la sua voce dietro di me, mi fece sobbalzare. Mi girai e lo vidi con in
mano uno di quei bracciali a fiori da battere al polso ai balli studenteschi. “Ma tu hai la capacità di apparire
dal nulla lo sai vero?” dissi ridendo e tenendomi la mano sul petto ancora scossa dallo spavento.
24
“Scusa se ti ho spaventata, ho solo bisogno di un consiglio.” Allora capii…aveva trovato una
accompagnatrice per il ballo e voleva miei consigli per i bracciali, i fiori e tutto il resto…ma mentre
stavo pensando tutto questo, mi prese la mano e mi infilò il bracciale. Mi sfiorò il viso con le dita e mi
sistemò una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Pensai: “Se adesso mi bacia muoio.” Mi risparmiò,
ma mi sussurrò all’ orecchio: “Non vedo l’ora di vederti con un bel vestito.” “Sei il solito, devi sempre
prendermi in giro!” gli dissi ridendo e tirandogli un pugno scherzoso sul braccio. “Che c’è? Non ti ho mai
vista con un abito elegante e sono sicuro che saresti uno spettacolo.”
Come sempre io arrossii. Con lui si era instaurato un rapporto particolare: eravamo molto amici, mi
riempiva di complimenti e mi dedicava tutte le sue attenzioni. Tanta gente ci scambiava per fidanzati. Ma
non era solo dolce. Molto spesso mi punzecchiava e cercava di fare qualsiasi cosa per una mia reazione.
Con lui mi sentivo viva.
Il giorno del ballo mi preparai come mai avevo fatto nella mia vita.: indossai un lungo vestito nero che
sulla schiena aveva un profondo scollo, ricamato da fili argentati. Arricciai i capelli e mi truccai più del
solito. All’ ultimo momento decisi di mettermi un rossetto rosso di mia mamma, volevo vedere la faccia
di Liam quando mi avrebbe vista così.
All’ora esatta Liam si presentò davanti alla porta di casa. Mia madre gli aprì e dopo essersi complimentata
con lui per il suo abito elegante, se ne andò. Mentre scendevo le scale lui mi vide e si bloccò, gli sorrisi.
Arrivai in fondo alla scalinata fiera di me stessa per non essere caduta come mio solito, con quei tacchi.
Arrivai a pochi passi da Liam e lui mi guardò da capo a piedi, lentamente per un paio di volte, teneva la
bocca serrata e deglutiva con forza. Non mi guardava negli occhi, ma notai di nuovo quella cosa…gli
occhi, almeno mi era sembrato per un secondo, che fossero tutti neri, come la prima volta che lo vidi nel
bosco.
“Liam, reagisci”, dissi ridendo. Mi prese per mano e mi portò fuori. Poi finalmente disse: “Tu vuoi
uccidermi.” Io scoppiai a ridere sollevata. Lui mi guardò serio, con quel suo solito sguardo che mi faceva
tremare le gambe: “Quel vestito…Dio…quel rossetto…non ce la posso fare Laila.”. “Non puoi fare
cosa?” domandai. “Non posso resistere tutta la sera senza baciarti.” Il mio cuore ebbe un sussulto e perse
un battito. “Liam, io…” “No, non parlare, vieni a casa mia un attimo, devo prendere una cosa.”
Arrivammo a casa sua con la sua macchina d’epoca, facendo tutto il tragitto in silenzio.
Entrati in casa lui si precipitò su per le scale ed io cominciai a curiosare nella sua libreria. Mentre presi
un libro, cadde una foto da una pagina. Incuriosita la raccolsi da terra e la guardai. Rimasi a bocca aperta.
Sulla foto in bianco e nero, tutta rovinata e stropicciata c’era Liam, con una coppia di anziani al suo
fianco. La cosa più spaventosa però fu la data e la frase che c’era scritta sul retro della foto: “Per averci
con te per sempre. Con amore, i tuoi genitori. 1915” Quando Liam tornò mi sorprese con la foto in mano e mi guardò tristemente.
Notai che teneva in mano un ciondolo, forse per me…riguardai la foto, era quello di sua madre.
Lui venne verso di me e prese le mie mani fra le sue, se le portò alla bocca, le baciò e guardandomi
intensamente negli occhi mi disse: “Posso spiegarti tutto.” Mi raccontò la sua storia.
Mi disse che era un vampiro e come si era trasformato. Mi mostrò i suoi canini.
Io incredula cominciai a indietreggiare da lui e poi mi misi a correre, uscì da casa sua e andai nel bosco.
Nella mia mente continuava a ripetersi una vocina che diceva: “Non può essere vero, è tutta fantasia.”
Doveva esserci un errore. Questa doveva essere la nostra serata, lui mi avrebbe baciata, avremmo ballato
un lento assieme e lui mi avrebbe sussurrato all’orecchio le sue frasi dolci.
La mia testa era in sobbuglio. Ripensavo a ciò che poco prima mi aveva detto: “Ho più di 100 anni e sono
un vampiro, ho ucciso i miei genitori quando ancora non sapevo controllare la mia brama di sangue, ma
ti prego, rimani con me, tutto ciò che hai visto, tutto ciò che sono stato era la parte più bella di me, ora
conosci quella oscura. Sei l’unica persona dopo anni che mi faccia sentire di nuovo vivo, di nuovo umano.
Io ti amo Laila.”
Io scappai, come una codarda, come ho fatto sempre, anche io avevo segreti oscuri…forse non avrei
dovuto giudicarlo subito così, ma non poteva essere reale.
Inciampai e battei la testa. Quando mi svegliai ero al ruscello dove era cominciato tutto. Vidi che ero
vestita esattamente come quel giorno…i miei occhiali però, erano scomparsi.
25
LUI E LE DUE LEI
di The Dreamers (Arianna Rossi , Luca Conti, Miriam Ilou) – I LSS A
Jenny guardò per l’ultima volta la sua vecchia casa e le riaffiorarono alla mente tutti i momenti trascorsi
all’interno di quelle quattro mura. Quanti ricordi in quel giardino: le feste con gli amici con la musica
a tutto volume e i balli scatenati, i bagni in piscina e quella maledetta saponetta che la fece cadere e
rompersi un polso.
Il rumore di una valigia caduta a terra riportò Jenny alla realtà. Forza Jenny!” Urlò la madre da dentro
l’auto. “Abbiamo l’aereo tra meno di un’ora, sbrigati!” “E il taximetro ha già cominciato a correre”. Le
borbottò ironico il padre all’orecchio. Sì mamma, arrivo.” La ragazza prese in braccio il suo piccolo
husky e tristemente salì sul taxi. Per tutto il breve tragitto fino all’aeroporto continuava a guardare il
mare in lontananza, con le splendide spiagge e le case dei suoi amici. Le scappò una lacrima. Il padre,
vedendola così triste, cercò di rassicurarla dicendole: “Vedrai che a New York ti troverai bene, conoscerai
nuovi amici e io e la mamma cercheremo di dedicarti più tempo grazie alla vicinanza del posto di lavoro”.
Jenny annuì accennando un sorriso.
Giunsero all’aeroporto e, dopo circa mezz’ora, salirono in aereo. Durante il viaggio, per distrarsi, Jenny
giocò con Sky, guardò un film e fece uno spuntino. Sei ore dopo arrivarono all’aeroporto della Grande
Mela. Furono accolti da una pioggia battente e da un clima molto freddo. Jenny, che già era molto triste,
si trovò col morale a terra. Presero un taxi e nel giro di dieci minuti il tassista si fermò davanti a una casa
bellissima e molto grande.
“Ma è casa nostra questa?” domandò Jenny meravigliata. “Sì, bella vero?” rispose la madre. “È molto
più grande e moderna di quella vecchia” Per Jenny quella fu la prima cosa positiva della giornata. “Ma,
c’è qualcuno alla porta!” notò Jenny. “Ah, certo! È la zia Mary! Non l’hai mai conosciuta, è la sorella di
mia mamma, abitava in un vecchio appartamento qui a New York, così io e tuo padre abbiamo deciso di
farla venire ad abitare con noi. Farai conoscenza, è molto simpatica”.
Scaricate le valigie, la famiglia percorse il vialetto di ghiaia e salì i gradini che conducevano alla porta
d’ingresso. Jenny, con il piccolo Sky addormentato in braccio, si fermò sul primo gradino e estasiata,
osservò la sua nuova casa. Non era come lei l’aveva immaginata, un piccolo appartamento nel grigio e
nel traffico della grande metropoli, ma si trovava un po’ fuori dalla città, con un grande giardino attorno.
La villa era di un azzurrino chiarissimo, con assi in legno a vista. “Peccato che non ci sia il sole” pensò
sospirando Jenny “sarebbe stata ancora più bella!”
La villa era su due piani, con una grande terrazza e molte finestre. Su un lato, nel giardino, intravide
una veranda e un dondolo. “Se è così bella fuori non voglio immaginare come sia dentro!” urlò Jenny
felicissima. Il piccolo Sky che dormiva ancora tra le sue braccia, si svegliò di soprassalto e cominciò ad
abbaiare. Jenny lo accarezzò sul muso e lo posò a terra.
Salì i gradini, salutò e si presentò a Mary, come avevano già fatto i suoi genitori. La donna era felicissima
di conoscere la nipote e la abbracciò forte. La ragazza entrò di corsa in casa e quasi inciampò nel grande
tappeto dell’ingresso. Il salotto era enorme, con un bellissimo divano in pelle bianca, un tavolino in
vetro e un grande tavolo rotondo, delle sedie con dei graziosi cuscinetti bianchi, una televisione ultimo
modello, e delle belle tende bianche alle finestre. Un grande lampadario di cristallo e quadri astratti alle
pareti completavano il ricco arredamento.
Davanti a tutto ciò Jenny rimase a bocca aperta. A Long Island aveva una bellissima casa, grande, con
la piscina e molte altre cose. Ma questa era il massimo. Si girò verso la porta, dove i genitori la stavano
guardando. “Allora? Contenta?” le chiese il padre con un sorrisetto. Jenny sorrise a sua volta in risposta.
“Posso vedere la mia camera?” chiese.
La zia la prese per mano e la portò al piano di sopra. Salirono le scale e la prima cosa che vide fu un
lungo corridoio con molte porte e finestre. “La tua camera è l’ultima a destra, vedi se ti piace.” Le disse
la zia. Jenny attraversò di corsa il corridoio ed entrò nella stanza. Rimase a bocca aperta nel vedere il
meraviglioso letto a baldacchino con le lenzuola di seta rosa, il grande lampadario sul soffitto, l’ampia
cabina armadio ancora vuota che avrebbe ospitato tutti i suoi vestiti, il morbido tappeto rosa sul pavimento
e le graziose tende bianche alle finestre che si affacciavano sulla villa di fronte.
26
Tutta contenta Jenny spalancò le tende e guardò il panorama, pioveva ancora e sul vialetto della grande
casa vicina vide un bel ragazzo alto, con i capelli scuri correre sotto la pioggia ed entrare nella villa.
Rimase a guardare la casa per qualche minuto, fino a che sentì la madre che la chiamava.
“Jenny, prendi le tue cose e sistemale subito nella tua nuova camera!”
La ragazza corse giù per le scale e aiutò i genitori a portare le valigie in casa. Prese la sua e la portò al
piano di sopra. Cominciò a tirare fuori i vestiti e a sistemarli nell’armadio. Mise i suoi numerosi peluche
sopra il letto e sul comodino, il computer, la sua sveglia e le cose per la scuola sulla scrivania e le foto di
quando era piccola su una delle mensole. Per ultimi tirò fuori i suoi poster delle cheerleaders e le foto dei
suoi vecchi amici che attaccò alle pareti.
Erano circa le tre del pomeriggio e fuori pioveva ancora, così decise di andare a esplorare la casa.
Attraverso il lungo il corridoio entrò in tutte le stanze: la camera dei suoi genitori, ancora più grande e
bella della sua, la stanza della zia, anche quella bellissima, due bagni, uno più piccolo con la doccia e
l’altro più grande con la vasca idromassaggio e una stanza vuota con la grande finestra che portava fuori
sulla terrazza. Jenny decise che quella sarebbe stata la stanza di Sky: portò di sopra la cuccia e tutti i
suoi giochi, palline, ossi di gomma e le ciotole dell’acqua e del cibo. Finito di arredare la camera del
cagnolino, la ragazza scese al piano terra.
Passò nella cucina enorme e moderna, nella sala da pranzo con un bel tavolo rotondo, dei bei fiori finti al
centro e delle sedie bianche attorno, quindi nello studio della mamma, con già tutti i suoi disegni, matite
e colori, nello studio del papà con il computer e tutte le scartoffie e infine attraverso un ripostiglio e un
altro bel bagno.
All’improvviso Jenny si accorse che aveva smesso di piovere e decise di portare Sky in giardino. Uscì di
casa con il cagnolino, e nello stesso momento, dalla casa dei vicini stava scappando un altro cagnolino,
un bellissimo cucciolo di Border Collie, seguito dal ragazzo che aveva visto prima, altrettanto bello. Il
Border Collie si avvicinò piano piano a Sky, i due cani si annusarono per un po’ e cominciarono subito a
giocare. Il ragazzo sorridendo e ansimando per la corsa raggiunse Jenny e si presentò. Si chiamava Logan
e sarebbe stato il suo nuovo vicino di casa. Indossava una maglietta e un paio di jeans, aveva i capelli
castani, gli occhi azzurri e un fisico atletico. Cominciarono a parlare, a conoscersi e scoprirono che il
giorno dopo sarebbero andati nella stessa scuola.
Logan si offrì per accompagnarla a vedere i dintorni, ma la voce della mamma risuonò nell’aria: “Jenny,
vieni! È pronta la cena!” “Beh ci vediamo domani a scuola!” disse Logan, i due ragazzi si salutarono e
Jenny rientrò a casa.
Quando la ragazza entrò nella sala da pranzo trovò il tavolo apparecchiato, mangiò con la famiglia e
andò a dormire ripensando al bell’incontro del pomeriggio. All’improvviso si ricordò che il giorno dopo
sarebbe stato il primo giorno di scuola e le venne un po’ di paura sapendo di non conoscere nessuno
tranne Logan. Con questi pensieri Jenny si addormentò.
La sveglia suonò, la mamma aprì le tende e la luce del sole investì Jenny. Sky entrò nella stanza e
cominciò a saltare sul letto abbaiando felice. La ragazza lo salutò accarezzandolo, scese a fare colazione,
preparò la cartella, si vestì e si truccò.
Salì in auto col padre e nel giro di 10 minuti arrivarono alla nuova scuola. Jenny scese dalla macchina
e si fermò a guardare l’edificio davanti a lei: grande e tutto grigio, molti studenti stavano già entrando
e rimase colpita dalla quantità di ragazzi. “Jenny, tutto okay? Io devo andare, non posso ritardare il
primo giorno di lavoro qui! Buona scuola tesoro!” disse il padre da dentro l’auto. La ragazza lo salutò
e la macchina partì di corsa. Improvvisamente qualcuno le toccò la spalla. Jenny si girò e vide Logan
accompagnato da una ragazza alta, bionda e vestita da cheerleader. “Ciao Jenny!” la salutò allegro il
ragazzo. “Questa è mia sorella Megan.” Continuò lui. “Capitano della squadra delle cheerleaders”,
aggiunse lei con aria di superiorità. Jenny si presentò alla ragazza, ma già le due non sembravano andare
d’accordo. Comunque il terzetto si avviò all’entrata della scuola e sulla bacheca all’ingresso Jenny notò
un volantino che parlava dei provini delle cheerleaders che si sarebbero svolti due giorni dopo. “Wow,
nella mia vecchia scuola, l’anno scorso ero vicecapitano delle cheerleaders! Mi piacerebbe partecipare ai
provini!” esclamò entusiasta Jenny. “Non ti conviene carina.” Rispose Megan accigliata. E se ne andò.
“Tranquilla, mia sorella è fatta così, è un po’ antipatica ma solo perché è gelosa.
27
Secondo me potresti partecipare ai provini!” disse Logan. Jenny in risposta gli sorrise. La campanella
della prima ora suonò, il ragazzo accompagnò Jenny nella sua nuova classe e si diedero appuntamento
per il dopo scuola.
La sua nuova classe era circa a metà di un lungo corridoio pieno di aule. Era molto grande e oltre a lei
c’erano altri 25 studenti. Era la seconda C del liceo scientifico. Appena entrò in classe una professoressa
giovane, gentile e carina la salutò. Jenny si presentò alla donna e scoprì che quella sarebbe stata la sua
nuova insegnante di italiano. Parlarono per qualche minuto e quando tutti gli alunni entrarono nell’aula,
la professoressa presentò Jenny alla classe.
La metà della classe era composta da ragazze e Jenny vide subito che quattro di loro indossavano la stessa
divisa di Megan. Durante tutta la giornata solamente alcuni ragazzi le rivolsero la parola e si presentarono,
ma le ragazze la guardavano abbastanza male. All’uscita da scuola Jenny tornò a casa a piedi con Logan.
Parlarono di come era andata la giornata e lei raccontò al ragazzo il comportamento di certi compagni di
classe nei suoi confronti. Lui la consolò dicendole che piano piano avrebbe fatto conoscenza con tutti.
Arrivati di fronte alle loro abitazioni si salutarono. Jenny mangiò con la zia perché i genitori erano al
lavoro e visto che non aveva compiti decise di pensare ai provini delle cheerleaders. Indossò la sua
vecchia divisa e scese in giardino per esercitarsi.
Cominciò con il riscaldamento e poi fece una serie di salti indietro e flick. Ad un certo punto si accorse
che Logan la osservava dalla finestra ma lei fece finta di niente e andò avanti con i suoi esercizi.
Il giorno dopo fu esattamente come il primo giorno di scuola, quasi nessuno tranne Logan le parlò, ma a
lei non interessava molto perché aveva in mente solo i provini delle cheerleaders.
Anche quel pomeriggio si allenò molto e si sentiva pronta a mostrare a tutti il suo talento.
La sera, all’ora di cena, Michelle tornò a casa con un nuovo catalogo di vestiti disegnato da lei per la
grande marca Gucci. Aveva anche in mano un pacchetto che porse alla figlia. Jenny aprì velocemente il
regalo della mamma e trovò una bellissima divisa nuova da cheerleader. “Sei contenta? Potrai usarla per
il provino di domani!” Jenny abbracciò felice la mamma e appese il nuovo vestito nel suo armadio.
Dopo cena Jenny andò a letto presto, perché il giorno dopo sarebbe stata una lunga giornata.
La mattina seguente Jenny si svegliò presto per prepararsi al meglio per i provini. Raccolse i suoi lunghi
capelli rosa in una coda, si truccò i meravigliosi occhi azzurri e indossò la splendida divisa disegnata dalla
madre. Dato che il padre era via per lavoro, Jenny fu accompagnata a scuola dalla mamma. All’entrata
di scuola Logan la stava aspettando. Il ragazzo rimase a bocca aperta davanti alla bellezza di Jenny. La
accompagnò in palestra e andò a sedersi sugli spalti per seguire i provini.
Le ginnaste si misero in fila davanti alla giuria per il saluto d’inizio prova. Poi i giudici chiamarono la
prima atleta che doveva esibirsi e Jenny con le altre ragazze si sedette da parte per assistere all’esercizio.
Non era niente male ma lei era convinta di poter fare di meglio. Dopo che quasi tutte le ragazze si furono
esibite fu il turno di Jenny. Megan, seduta da parte con un sorrisetto sul viso, era curiosa di vedere quello
che avrebbe fatto. Jenny si mise in posizione e la musica partì. Cominciò a fare dei salti in aria e delle
staccate e tutto il pubblicò applaudì entusiasta. Si vedeva la netta superiorità di talento rispetto alle altre.
Megan, stupita e arrabbiata, si alzò e iniziò anche lei ad eseguire degli esercizi come quelli di Jenny. La
nuova arrivata però si dimostrò molto tenace e talentuosa perché dopo essersi accorta di Megan continuò
nella sua esibizione facendo esercizi sempre più difficili. Molti spettatori si alzarono in piedi incitando le
due ragazze, era una vera e propria sfida tra Megan e Jenny.
La musica però finì e le due ragazze, col fiatone si fermarono e si guardarono con aria competitiva. La
giuria era stupita dalla bravura delle due, il problema era stabilire la vincitrice.
Si consultarono per un po’, e dopo qualche minuto l’allenatrice delle cheerleaders, capo dei giudici, si
alzò e annunciò il loro verdetto. “Siete state entrambe molto brave, ma noi dobbiamo scegliere soltanto
una di voi due per il ruolo di capitano. Dato che Megan ha già ricoperto questo ruolo per due anni di fila,
dichiariamo vincitrice Jenny McGuire! Megan sarà quindi la vice-capitano.” Tutti si alzarono in piedi per
applaudire, mentre Jenny veniva premiata. Era felicissima e quasi piangeva dalla gioia. Megan, un po’
triste e arrabbiata per essere stata battuta andò a stringere la mano al nuovo capitano. Uscita dalla palestra,
Jenny fu raggiunta da Logan che la abbracciò contentissimo e la accompagnò a casa.
28
Dopo pranzo, nel pomeriggio, Jenny uscì in giardino con Sky e si sedette sull’erba a giocare con lui.
Megan la vide dalla finestra e decise di andare da lei. Jenny non si accorse dell’arrivo della ragazza, ma
Sky si, e le corse incontro. “Jenny, visto che dovremmo comporre delle coreografie assieme, non credi
che dovremmo diventare amiche?” Jenny annuì e la abbracciò. Parlarono a lungo, scoprirono di avere
molte cose in comune e si conobbero meglio. Verso le sette di sera Michelle chiamò la figlia a cena e le
due ragazze si salutarono.
Il giorno dopo, al primo allenamento delle cheerleaders, l’allenatrice comunicò ai due capitani che
avrebbero dovuto comporre una coreografia da fare prima della sfilata di moda che si sarebbe svolta a
New York il mese seguente; le due ragazze avrebbero dovuto portare all’allenatrice uno spunto per il
balletto. L’insegnante voleva vedere se sarebbero state in grado di lavorare bene assieme.
Così nei giorni seguenti Jenny e Megan si incontrarono regolarmente in giardino per comporre la
coreografia. Grazie alla provenienza da gruppi di cheerleaders differenti, ognuna insegnò all’altra esercizi
e prese nuove: crearono una coreografia che lasciò l’allenatrice a bocca aperta.
Avevano fatto un ottimo lavoro e nelle settimane successive si allenarono duramente ogni pomeriggio
con le compagne di squadra per preparare al meglio il balletto. L’allenatrice era orgogliosa di tutte le sue
ragazze, perché impararono in fretta la coreografia e provarono nuovi esercizi e salti molto più spettacolari
di quelli dell’anno precedente.
I giorni passarono e arrivò il giorno dello spettacolo. Michelle avrebbe accompagnato la figlia, Megan e
Logan nel posto in cui si sarebbe svolta la sfilata. Anche lei doveva essere presente, dato che i capi che
avrebbero sfilato sarebbero stati quelli di Gucci e alcuni erano proprio disegnati da lei. Il pomeriggio
prima del grande evento Jenny andò a casa di Megan per prepararsi: si truccarono, indossarono la divisa,
si sistemarono i capelli e ripassarono assieme il balletto. La madre di Jenny era agitatissima e suonò
alla porta dei vicini per chiamare i ragazzi. Erano tutti pronti. Salirono in auto e circa dieci minuti dopo
arrivarono a destinazione.
Michelle salutò frettolosamente i suoi passeggeri e corse nell’edificio dai suoi colleghi. Appena giunta,
Megan corse incontro all’allenatrice e alcune sue amiche. Logan prese per mano Jenny e la portò dietro la
macchina. “Jenny, io sarò nel pubblico, scommetto che sarai bravissima e ce la farai!” disse lui tenendole
le mani. La ragazza sorrise arrossendo. Logan si avvicinò a lei e la baciò. Jenny non se l’aspettava ma
non si tirò indietro, lui era così carino! Durò pochi secondi perché Logan sentì Megan arrivare, si staccò
da Jenny e corse verso l’entrata urlando: “Buona fortuna a tutte!” Jenny rimase a guardarlo sorridendo
mentre correva via.
Una volta arrivate tutte le ragazze della squadra, il gruppo entrò e si avviò verso gli spogliatoi. Jenny
stava ancora pensando a Logan e decise che gli avrebbe mostrato tutto il suo talento. Le ragazze entrarono
negli spogliatoi; chiacchieravano animatamente e nell’aria cresceva la tensione.
Il presentatore venne a chiamarle per portarle dietro le quinte e le informò che lo spettacolo stava per
iniziare. Il loro balletto avrebbe aperto la sfilata. Il presentatore entrò sul palco e cominciò a parlare.
L’allenatrice, tesa ed emozionata, diede un abbraccio d’incoraggiamento alle sue cheerleader e andò a
sistemarsi nei posti riservati.
Il presentatore dal palco annunciò lo spettacolo di apertura e lasciò il palco alle cheerleader. Entrarono
tutte di corsa e sorridenti. Jenny era davanti, seguita da Megan e dietro tutte le altre ragazze schierate.
Si posizionarono per l’inizio e aspettarono. La musica partì e loro cominciarono a ballare. Fecero i salti
come non li avevano mai fatti in allenamento: altissimi e con atterraggi precisissimi. Erano a ritmo
perfetto con la musica e non sbagliarono niente. Le prese furono spettacolari. Nel finale tutte le ragazze
lanciarono Jenny (la più magra e leggera) in aria e lei fece
due capovolte atterrando di schiena sulle braccia delle amiche, proprio mentre la musica finiva. Il pubblico,
entusiasta, fece un lunghissimo applauso mentre il sipario si chiudeva.
Le ragazze erano felicissime e si abbracciarono; Jenny e Megan quasi piangevano dalla gioia. Per qualche
minuto stettero sul palco a festeggiare mentre dietro il pubblico applaudiva ancora.
Jenny si sentì toccare le spalle. Si voltò e vide Logan. Non ci pensò un attimo e, scoppiando dalla gioia,
lo baciò. Era entrata la prima volta a scuola e non aveva nessun amico. Ora aveva una migliore amica
fantastica e un ragazzo meraviglioso!
29
IL MIO DESIDERIO SEI TU
di Silvia Pasolli e Elena Beatrici – I ITE A
WESTON
Come ogni mattina mi alzo e come sempre in cucina non c’è nessuno; non ho una madre che mi prepari
la colazione, non ho un padre che mi riporti le noiose notizie che legge dal giornale mentre beve il caffè.
Ho un disperato bisogno di affetto, i miei genitori lavorano sempre e quando tornano sono troppo stanchi
per parlare.
Mia madre fa l’avvocato ed è sempre stata troppo immersa nelle sue cause per accorgersi che a volte avrei
bisogno di un suo sorriso o di un padre che non rimanga le notti in ospedale, mentre suo figlio lo aspetta
fino a tardi per avere una buona notte che non arriva mai o un suo abbraccio dopo essersi svegliato di
soprassalto dopo un incubo ricorrente. Ma ormai ci sono abituato.
Ho fatto l’abitudine anche a tante altre cose: non ricevere complimenti, qualche parola di incoraggiamento
quando ne ho più bisogno, o semplicemente un saluto. Ma va bene così.
Ho tutto, tutto quello che un ragazzo potrebbe immaginare: una grande villa, una bella macchina,
una lavoro assicurato, il permesso di fare quasi tutto ciò che voglio. Insomma, una vita molto agiata,
all’apparenza perfetta. Solo due cose, molto importanti, non ho: l’affetto di due genitori, sempre assenti,
ed Emily.
EMILY
Ogni mattina è una nuova avventura. In solo mezz’ora devo riuscire a prepararmi; devo svegliare Thomas,
buttare giù dal letto Alex e convincere Travis che i suoi capelli sono “fichi” per far sì che lui esca dal
bagno, così che io possa preparare Tommy per l’asilo e Alex per la scuola.
Mio papà a quest’ora è già uscito per lavorare; come sempre ci ha comprato le ciambelle per colazione e
ha posato le chiavi del pick up vicino al mio donut al cioccolato e al caffè ancora fumante.
Travis esce di casa per andare a lavorare alla caffetteria qui vicino. L’unico motivo per cui ci va volentieri
è che anche la sua ragazza lavora lì.
Dopo che ho portato Alex alla fermata dell’autobus, accompagno con la macchina Thomas. Poi, finalmente,
anch’io posso andare a scuola.
Come sempre aspetto che arrivi West, con la sua Volvo bianca. Quando è sceso dalla macchina mi decido
a farlo anch’io.
In una sola parola West rappresenta la perfezione, è semplicemente bellissimo. Coi suoi jeans e la sua felpa mi fa battere il cuore. Non ostenta la sua avvenenza, il suo fascino è
naturale.
Fa parte di quella categoria di persone che nella vita hanno sempre fortuna, che se la cavano in ogni
situazione. È alto, forte, con un largo sorriso dolce, gioca nella rappresentativa di basket della scuola; fa
persino atletica, a ottimi livelli. Ha tutto ciò che io possa solo sognare. WESTON
Quando entro nel cortile della scuola la vedo in macchina, è bella come sempre ma ogni volta mi fa girare
la testa, è semplicemente stupenda. Ha una carnagione molto chiara che fa risaltare i suoi lunghi capelli
castani e i suoi occhi sono grigio - azzurri, cambiano colore in base al tempo, una caratteristica che ho
notato solo quest’anno.
Frequentiamo gli stessi corsi di matematica, scienze e italiano; a lezione mi piace guardarla mentre
prende appunti, soprattutto quando contorce le labbra se non capisce qualcosa, osservare le sue reazioni
quando si arrabbia con se stessa se scrive male o sbaglia. Passo tutta le lezioni a guardarla senza mai
stancarmi, senza mai toglierle gli occhi di dosso.
Sono totalmente rapito da lei... A volte la vedo alzare gli occhi dai suoi appunti e incrociare i miei; un
secondo solo perché poi siamo entrambi troppo imbarazzati per reggere lo sguardo dell’altro e abbassiamo
la testa.
Il professore di scienze ha parlato per tutta l’ora del lavoro da svolgere per la valutazione di fine
semestre.
30
Il compito si deve effettuare a coppie; con mia grande fortuna, sono in coppia proprio con Emily.
Non penso di essere mai stato così raggiante.
EMILY
A scuola tutti sanno chi è Weston, è conosciuto da tutti. Io sono quasi invisibile, ma d’altronde è ciò che
desidero. Non mi piace ricevere attenzioni, in particolare quelle degli occhi curiosi, quelle di chi è subito
pronto a giudicare non sapendo niente, solo per lo stupido scopo di avere qualcosa di cui parlare. E adesso
che devo fare l’esperimento di scienze con lui, immagino che saremo sulla bocca di tutti. Ma di certo non
mi posso lamentare, finalmente ho una scusa per trascorrere del tempo con lui.
Vado in classe per raccogliere le mie cose, alzo lo sguardo verso la porta e lo vedo: è davanti a me,
appoggiato allo stipite della porta. Mi sta aspettando, chissà cosa vuole dirmi. Mi avvicino a lui, con il
cuore a mille.
“Ciao” dico.
“Ehi, allora, per il progetto di scienze ci troviamo questo pomeriggio?”
“Scusa ma oggi non posso”.
“Hai qualche altro impegno?”
“Sì, magari possiamo fare domani?”
“Certo”.
“Possiamo fare da te?”
Mi sento ridicola e sfacciata a chiedergli di poter andare a casa sua, ma certamente è un’alternativa
migliore alla vista di lui seduto sul mio divano vecchio e sbiadito.
“No, meglio se ci troviamo in biblioteca, così almeno se abbiamo qualche dubbio possiamo consultare
un libro”, fa lui.
Mi sembra una scusa patetica, ma va bene comunque. Probabilmente non vuole far entrare una come me
in una delle sue lussuose ville.
“Okay, a domani” rispondo semplicemente, avviandomi verso il pick-up.
WESTON
Finalmente, grazie al compito di scienze, passerò del tempo con lei.
Appena esce dalla mia vista mi avvio verso la macchina. Mi aspetta un pomeriggio noioso davanti a
quegli orribili programmi della tv e una serata sul libro che mi ha regalato mio padre quando avevo sedici
anni e che continuo a rileggere per via degli appunti che ha segnato a bordo delle pagine, ormai vecchie
e sgualcite.
Non voglio tornare a casa, lì non c’è nessuno ad aspettarmi, ci sono solo io e i miei pensieri.
Attraverso un piccolo quartiere degradato, le case fatiscenti, le strade senza marciapiedi e senza la ben
che minima attrattiva. Eppure, passando per queste vie trascurate, vedo bambini che giocano insieme e
ridono, donne sedute in giardino intorno a un tavolo, intente a chiacchierare, e famiglie unite che giocano
a palla. Tutti sembrano avvolti da un’aura quasi impercettibile di felicità, la stessa che a me manca da
sempre.
Mi avvio stancamente verso casa, lasciandomi alle spalle questa isola di pace.
EMILY
Finalmente è giovedì, il mio giorno preferito della settimana, è un giorno speciale, diverso da tutti gli altri.
Ho pochi compiti, i miei fratelli sono tutti occupati, tra lavoro, allenamenti di calcio, tennis e oratorio.
È l’unico momento tutto per me, per fermarmi e riprendere fiato.
Ho deciso di prendermi un impegno che occupa una parte del mio tempo libero ormai da quando ho
quindici anni, da quando ero ancora una ragazzina che scoppiava a piangere al primo pensiero della
madre, ormai morta da anni. Oggi semplicemente evito il suo ricordo, per non crollare nuovamente in
quella terribile malinconia sempre pronta a riemergere. E forse sono ancora la bambina che si rifugiava
tra le braccia della madre, mentre lei cantava le “loro” canzoni.
Ho bisogno di sfogarmi e di riordinare i pensieri confusi che ho continuamente in testa. L’unico modo che
sono riuscita a trovare è la corsa.
31
Proprio ora sto attraversando uno dei quartieri più ricchi e prestigiosi della città. Mi piace immaginare di
vivere in una di queste belle ville, con tutta la mia famiglia, con Tommy e Alex, così vivaci, che giocano
in giardino, Travis che non deve vergognarsi della propria casa e può invitare la sua ragazza a mangiare
qualcosa. Con la mamma, la mamma che tutti noi abbiamo desiderato avere, lei che ci sarebbe dovuta
essere sempre. Certo, abbiamo papà, e sappiamo tutti molto bene che ci ama sempre e comunque; ma da
quando nostra madre è morta, lui non è stato più lo stesso.
Sono già passate due ore e sto ancora correndo.
Sono immersa nei miei pensieri quando vedo una macchina venirmi incontro; non frena, mi urta
violentemente, cado a terra. La macchina si allontana in velocità, come se non fosse successo niente.
Non so se per la stanchezza o per il dolore, ma chiudo gli occhi e decido di rimanere lì immobile,
sdraiata.
WESTON
Ero quasi a metà strada quando lo vidi: un ammasso inerte sul ciglio della strada. Un corpo
raggomitolato?
Fermo l’auto, scendo, è una ragazza, inizio a correre. Quando, a pochi metri di distanza, capisco che è
lei, d’un tratto mi blocco. Poi mi avvicino e – cosa fa qui così? - la prendo in braccio, la sento mugolare
il mio nome e poi, un po’ alla volta, rilassarsi.
La porto a casa mia, la adagio sul mio letto e la sento farfugliare quando le poso la testa sul cuscino.
Corro a prendere il ghiaccio e l’occorrente per pulire e disinfettare la piccola ferita che le segna la fronte.
Quando finisco di medicarla aspetto un po’, seduto al suo fianco, ai piedi del letto. Sta dormendo, ora ha
un’aria così lieta, tranquilla. Sembra un angelo. Finalmente, d’un tratto, apre gli occhi e mi fissa con aria
disorientata.
“Ehi” dice con la sua voce dolce. Ma mi sembra comunque confusa e spaventata.
“Ti fa male la testa?” chiedo preoccupato.
“Un po’... Grazie, grazie di tutto! Ma adesso penso che dovrei andare. Non voglio essere di disturbo” mi
dice alzandosi. Dolcemente le poso una mano sulla spalla e con voce ancora più premurosa le sussurro:
“Tu non disturbi mai. Adesso prendi questa, è solo del paracetamolo, per il mal di testa. Dopo, se ti va,
potremmo guardare insieme un film”. Le porgo la pastiglia, e, con l’altra mano, un bicchiere d’acqua.
Il film è solo una scusa per starle vicino e per farla riposare un po’. Lei non rifiuta l’invito, mi accomodo
vicino a lei invitandola a fare lo stesso.
Chissà a cosa sta pensando.
EMILY
Abbiamo scelto un horror, non sono proprio il tipo di ragazza che si lascia imbonire dalla solita scenetta
romantica, un po’ frusta. So benissimo che il lieto fine te lo devi creare da sola, devi faticare ed essere
abbastanza forte per lottare per ciò che vuoi. Una cosa non basta desiderarla, per averla.
Siamo nella realtà, non di certo in un film.
Ora c’è l’intervallo. Lui si avvicina a me posando il braccio sulle mie spalle, così, mentre arrossisco,
istintivamente anch’io mi avvicino finendo per appoggiare la testa al suo petto. Lui mi stringe a sé ed io
mi sento in paradiso.
Siamo di nuovo entrambi concentrati sul film, evitiamo di guardarci, ma va bene così.
All’improvviso sentiamo suonare il mio telefono sul comodino e dopo un sussulto Weston si allunga per
prendere il cellulare. Porgendomelo vedo sullo schermo una foto mia e di mio papà insieme, ricoperti di
farina mentre facciamo la torta per il compleanno di Alex. Mi sembrava una foto carina e spiritosa, ma in
questo momento, con Weston al mio fianco, mi rendo conto di quanto sia ridicola.
Rispondo velocemente alla chiamata.
“Dove sei?” chiede dolcemente mio padre.
“A casa di un amico, per una ricerca di scienze”.
“A che ora pensi di tornare? Vuoi che prenda la pizza?”
“No, tranquillo torno prima di cena”, ma mentre finisco la frase mi rendo conto di non avere la più pallida
idea di che ore siano.
32
“Cucciola, sono già le sette passate, ma se non avete finito va bene comunque”. So benissimo che vuole
che io trovi il tempo per me, ma so anche che ha bisogno di aiuto con i ragazzi.
“Va bene papi, appena finiamo arrivo”, e chiudo velocemente la chiamata.
Guardo Weston per un attimo mentre mi alzo per raccogliere le mie cose
“Vuoi un passaggio?” mi chiede dolcemente.
“Sì, grazie”. Sarei tornata a casa a piedi, ma voglio trascorrere più tempo possibile con lui. So benissimo
che questa notte non chiuderò occhio, e che la passerò a pensare a lui; e chissà se lui penserà a me e a
questa incredibile giornata, che non dimenticherò.
WESTON
Prendo le chiavi dal comodino e ci avviamo insieme al garage. La tengo stretta per mano e lei mi sorride,
mi sembra di essere in un sogno dal quale non voglio mai più svegliarmi. Aspetto che salga in macchina
per mettere in moto e avviare la Volvo. E con un coraggio che non sapevo di avere, le poso la mano sulla
coscia e lei mi prende la mano tra le sue. Il viaggio in macchina dura poco, troppo poco. In meno di tre
minuti siamo già lungo il viale di casa sua.
Scopro che abita in una di quelle case che mi piace osservare durante i miei tragitti più abituali. Lei
scende velocemente, sembra che voglia scapparmi, distruggendo tutto quello che abbiamo costruito
questo pomeriggio. Allora smonto anch’io, la raggiungo, e mi accorgo di essermi già dimenticato delle
strane circostanze che ci hanno fatto incontrare, del trauma che ha subito poche ore fa. Della ferita quasi
non si vede più nulla. Anche per il resto sembra che stia bene. Vorrei chiederle se ha tempo per una breve
passeggiata nel parco qui vicino che ho avuto modo di scoprire in una delle mie “gite”.
Ma in quel momento esce di casa suo padre: sembra un uomo buono e gentile, che tuttavia ha sofferto
molto. Vedendomi, mi chiede se voglio fermarmi a cena. Guardo Emily, lei mi fa capire con un movimento
del capo che non è un problema, quindi accetto volentieri l’invito.
Entriamo in casa e sento subito l’accoglienza di una famiglia piena di amore. Un bambino corre a braccia
aperte verso Emily, gridando il suo nome, felice di vedere la sorella.
“Questo è Thomas, il più piccolo dei tre, lui è Alex, ha appena compiuto otto anni e quello seduto sul
divano è Travis”. Saluto tutti, mentre seguo in cucina Emily con ancora in braccio Thomas che continua
a sorridermi.
Tutti mi accolgono come se fossi uno di casa, tanto che dopo aver giocato un po’ con Tommy, Travis e suo
padre mi invitano a vedere la partita di basket con loro, contenti di tifare per la stessa squadra.
“Giochi anche tu?” mi chiede il padre.
“Sì, sono capitano della rappresentativa della scuola”. Restarono meravigliati.
“Wow” esclama Travis “abbiamo in casa un campione”.
“Muovetevi, è pronto” urla Alex dalla sala accanto.
Ci alziamo e ci sediamo a tavola, Tommy insiste per mettersi sulle mie gambe e a me certo non dispiace,
anche se Emily è convinta che mi dia fastidio. Così faccio spazio a Tommy e mangiamo tutti insieme.
Che strana emozione: per la prima volta ceno con una vera famiglia. Una volta lavati i piatti io e Emily
andiamo a fare una passeggiata nel giardino pubblico vicino. È primavera, eppure c’è una strana brezza
che scompiglia i suoi capelli castani. Sono verdi, i suoi occhi sono verdi, di una sfumatura unica. Sembra
che siano così apposta per me. E mentre mi perdo nell’abisso del suo sguardo mi avvicino a lei e mi sento
percorrere da un brivido lungo la schiena. La bacio e desidero che questo bacio non finisca mai, che possa
durare per sempre.
So benissimo che questa notte non chiuderò occhio e che la passerò a pensare a lei. Chissà se anche lei
penserà a me, a questa meravigliosa, indimenticabile giornata.
33
ILOTI E SPARTIATI
di Aurora Franzoi, Chiara Wegher, Sara Viola
Era il mio primo giorno di “lavoro” presso le cucine di uno dei più rinomati campi di addestramento
dei soldati spartiati. Appena arrivai all’edificio un uomo mi condusse attraverso mille corridoi che
apparentemente sembravano tutti uguali. Doveva essere il proprietario del campo d’addestramento,
un aristocratico, a prima vista. Arrivammo in una stanza abbastanza grande, poco luminosa, infatti era
illuminata solo da una piccola finestra da cui entrava uno spiraglio di luce. L’ambiente era poco pulito
e non molto curato: c’erano solamente alcuni tavoli fatti interamente in legno scuro, non ben levigato.
Gli scaffali erano talmente vecchi che stentavano a stare appesi al muro e gli utensili da cucina, oltre che
essere pochi, erano anche malconci e rovinati. Guardandomi attorno per un altro istante vidi che erano
presenti altri tre iloti intenti a bollire qualche misera verdura sul focolare in pietra, molto attenti a quello
che facevano per non far bruciare il pasto, altrimenti avrebbero ricevuto una punizione esemplare. Solo
quando uno di loro si avvicinò ad un tavolo mi accorsi che quei poveri uomini erano legati al bancone da
lavoro con delle grosse e pesanti catene che si allacciavano attorno alle loro fragili caviglie. Ero talmente
presa dalla scena da non aver sentito il padrone che mi stava dando delle istruzioni sui miei doveri. “Hai
capito tutto?” disse con un tono minaccioso. Io, presa alla sprovvista, restai zitta guardandolo negli occhi,
e lui istantaneamente mi prese per il braccio con una stretta ferrea trascinandomi nell’immenso labirinto
di corridoi percorso poco fa. Il capo ricominciò a parlare e disse che quello non sarebbe stato il mio posto,
invece avrei lavorato per servire ai nobili guerrieri, stanchi e affamati, le pietanze appena preparate.
Arrivati in una stanza mi disse che quel luogo sarebbe stato come la mia seconda casa; lì per lì mi
spaventai un po’ perché era il mio primo lavoro da ilota, avevo solo quattordici anni, e non sapevo proprio
come comportarmi. Ma il ricordo della mia famiglia mi consolava, soprattutto nelle giornate più dure e
faticose. Ora che ero lontana da casa, mia madre doveva badare da sola ai miei sette fratelli e mio padre
stava dall’alba fino a tarda sera a lavorare senza sosta nei campi, per cercare di guadagnare qualche misero
spicciolo. Mi diede una divisa, o meglio uno straccio di un colore scialbo da indossare, e mi fece vedere il
bancone al quale sarei stata costretta a lavorare. Subito prima di iniziare il padrone mi incatenò al tavolo
e se ne andò lasciandomi sola. In quel momento il ricordo della mia famiglia riaffiorò dalla mia mente
e per non sentire troppo la loro mancanza presi l’unica cosa che mi faceva ricordare di loro: il regalo
per il mio tredicesimo compleanno. Misi la mano nella tasca sgualcita, presi il nastro color blu e lo legai
attorno ai miei capelli color nocciola per formare una coda scompigliata. Dopo un attimo arrivarono gli
iloti a portare il cibo preparato da loro che doveva rimanere ben caldo fino all’arrivo dei soldati altrimenti
sarebbe stato un guaio. Suonò la campanella che annunciava l’arrivo degli spartiati. Dei ragazzi e degli
uomini ormai adulti, stanchi e sudati, entrarono in gran numero nella stanzetta e cominciarono a formare
una lunga fila davanti al mio bancone. Anche se sottovoce, loro stavano iniziando a parlare male di me,
io li sentivo, ma dovevo restare zitta per non subire la loro ira. Stavano parlando di un certo Abidos che
era in servizio prima di me e che a quanto pare aveva combinato un grosso danno e dopo quel giorno
non aveva mai più fatto ritorno in queste cucine. Ora avevo paura, dovevo stare attenta a non combinare
niente di compromettente, altrimenti avrei fatto la stessa fine, e chi lo sa quale sarebbe stata.
Iniziai con rapidità a riempire le ciotole di ceramica con cibo caldo (sapevo che era prelibato perché ogni
tanto ne assaggiavo un cucchiaio, ovviamente senza farmi notare). Dopo averli serviti tutti iniziarono
a gridare contro di me, mi rimproveravano dicendomi che il cibo non era di loro gradimento, poi
cominciarono a lanciarmi dei pezzi di pane addosso. Ad un certo punto uno di loro si alzò in piedi e
iniziò a urlare per far stare in silenzio gli altri soldati:” Vi sembra il modo di rivolgersi ad una persona?
Noi siamo degli spartiati e dobbiamo essere in grado di comportarci da tali, non siamo degli animali che
lanciano cibo ovunque, ma siamo degli aristocratici provenienti da nobili famiglie”. “Chi è mai quel
soldato così imprudente da cercare di proteggere una povera ilota come me?” Quel ragazzo mi si avvicinò
lentamente, ed io ebbi il tempo di notare il suo fisico atletico e i suoi occhi scuri e profondi. Mi disse di
non fare caso a quegli uomini così arroganti, poi chiese il mio nome. Ero imbarazzata da tanta attenzione
nei miei confronti perché ero abituata a essere trattata peggio di un animale ma gli risposi ugualmente.
“Z-Zoe” dissi balbettando. Lui mi fece un piccolo sorrisetto per poi ribattere dicendo: “Io invece sono...”
così dicendo venne interrotto da un rumore che lo fece scattare e dovette andarsene rapidamente.
34
Passarono alcuni giorni da quell’incontro così inaspettato e quel ragazzo misterioso non si era più fatto
vivo, ma la notizia sconvolgente di uno spartiato che aveva difeso una semplice ilota si era sparso fino alle
cucine del campo ed io, aspettando l’ora del pasto, ascoltavo i discorsi degli iloti inerenti a lui. “E’ stato
molto coraggioso.” Disse uno di loro. “Già, Alessandro è fatto così, è nobile e difende ciò che è giusto.
Io lo conosco bene perché sono stata la sua domestica per alcuni anni.” Ribatté una seconda. Alessandro,
dunque era questo il suo nome...
Le giornate trascorsero in fretta e io avevo la costante voglia di rivederlo, quindi presi tutto il mio coraggio
e andai da quella donna che diceva di essere stata la sua domestica e le chiesi dove potevo trovarlo. Lei
mi disse che la notte restava a dormire qui con tutti i suoi compagni perché non aveva parenti né genitori
su cui fare affidamento. Mi disse inoltre che si trovava nell’ala est del palazzo e che risiedeva con un altro
suo compagno nella stanza numero 18. Quella sera, quindi, decisi di andare a trovarlo, per vedere se era
veramente lì e soprattutto per ringraziarlo per quello che aveva fatto per me. Però avevo anche paura di
sembrare invadente, in fondo ero solo un’ilota e ci eravamo scambiati solo qualche parola. Lui invece era
un distinto spartiato e non aveva il dovere di proteggere una come me. Ma decisi di andare ugualmente,
almeno avrei tentato.
Sgattaiolai furtiva attraverso il districato groviglio di corridoi e, con mio grande stupore, riuscii finalmente
a trovare la sua stanza senza perdermi. Bussai piano alla porta e un uomo minuto mi venne ad aprire
scocciato. “Cosa ci fai tu qui? Una come te non può permettersi di girovagare per le stanze dei nobili.” Io,
insicura, gli dissi che volevo ringraziare Alessandro per il suo intervento onorevole. Lui sembrò pensarci
per un istante ma dopo decise di farmi entrare. “ Solo per cinque minuti. Non si sente bene.” Lo ringraziai
anche se era evidente che la mia compagnia lo infastidiva. Mi avvicinai al giaciglio dove era steso inerme
Alessandro. Sembrava davvero stare male, quindi cercai di fare piano per non disturbarlo. Lui si girò e
non appena mi vide le sue labbra rosee si curvarono all’insù formando un piccolo sorriso. Io subito lo
ringraziai per quello che aveva fatto in precedenza per me. Percorsi velocemente la via di ritorno per non
farmi scoprire, ma in quel momento scorsi una piccola ombra che arrancava furtiva nella mia direzione.
Non feci in tempo ad evitarla ed in un attimo mi trovai sbalzata sul pavimento con questo soggetto che
avevo già visto in precedenza nelle cucine. Lui si scusò subito con me e mi porse la mano per aiutarmi ad
alzarmi. Si chiamava Basil, un ilota che lavorava come cuoco.
Nemmeno lui doveva essere in giro a quest’ora perciò gli chiesi che cosa stesse facendo qui e lui, non
sapendo cosa dire, balbettò una frase confusa, facendomi capire che non voleva rivelarmelo. Lasciai
perdere e tornammo nella nostra stanza, dove dormivano gli iloti in servizio per i soldati.
Sera dopo sera io mi avventuravo in quegli intricati corridoi per arrivare alla stanza di Alessandro, che
aveva sempre più bisogno della mia assistenza, anche se stava migliorando visibilmente. Noi parlavamo
di molte cose, era bello stare in sua compagnia, mi divertivo e anche lui sembrava apprezzare. Avevamo
anche parlato del risentimento di Nestor, il suo compagno di stanza, nei miei confronti; è li che scoprii
la sua triste storia d’amore avuta con una giovane ilota, uccisa a causa dell’odio del padre. Alessandro
credeva che cercasse di tenermi lontana da lui per non farlo soffrire come aveva sofferto Nestor. Ormai
andavo a trovarlo anche se era guarito e stavo piano piano incominciando a provare un sentimento nuovo
per lui, che non avevo mai provato per nessuno, era una sensazione strana e ogni volta che lo vedevo
avevo le farfalle nello stomaco. Forse mi ero soltanto legata a lui.
Nel frattempo avevo stretto amicizia anche con il resto degli iloti, soprattutto con Cleo, la ragazza che
aveva lavorato a casa di Alessandro. Noi ci confidavamo e una sera, mentre stavamo parlando, io le
chiesi dello strano comportamento di Basil nei miei confronti e di quel misterioso incontro avuto nei
corridoi del palazzo. Lei mi disse subito che Basil si era innamorato di me e io fui molto sorpresa di
questa notizia. Non ero sicura di ricambiare il suo stesso sentimento, in fondo ci scambiavamo solamente
qualche battutina, ma non ricordo di aver mai avuto un discorso vero e proprio con lui. Eppure... lui mi
amava? No. Sicuramente non era così. E allora perché Cleo mi aveva mentito? Dovevo assolutamente
risolvere la questione, ma di certo non sarei mai andata da Basil per accertarmi che ciò che lei mi aveva
confidato fosse la verità. Smisi di tormentarmi con questi assurdi interrogativi ed andai a dormire: non c’è
niente che una buona dormita non possa risolvere!
La mattina seguente mi svegliai all’alba e diedi la colazione ai nobili guerrieri che, come ogni mattina, si
erano alzati presto per allenarsi a combattere. Fra questi era presente anche Alessandro, instancabile, che,
con il suo sguardo intenso, mi scrutava dalla parte opposta del bancone.
35
Gli diedi il suo pasto e restammo li a chiacchierare fino a quando il suono della campanella ci riportò alla
realtà.
Dopo alcuni istanti la stanza colma di spartiati si svuotò ma Alessandro rimase li, immobile, con un enorme
sorriso sul volto. Si inginocchiò davanti a me e, prudentemente, tirò fuori da una tasca un piccolo oggetto
di metallo: una chiave. Con agilità liberò la mia caviglia dalla stretta catena e io rimasi lì, guardandolo
stupefatta. Dove l’aveva trovata? Che cosa voleva fare? Non gli chiesi nessuna spiegazione, mi limitai a
restare in silenzio. Trascorse qualche secondo e mi prese la mano portandomi fuori dalla stanza. Lo seguii
senza esitare e mi ritrovai in un immenso giardino colmo di fiori colorati e di ulivi secolari. Alessandro
mi portò vicino ad un ulivo, molto più alto ed imponente degli altri. Perché tutto questo? Perché mi aveva
portato in questo posto? Ero confusa ma in un certo senso anche emozionata, ma tutto fu chiarito quando
lui cominciò a parlare:” La prima volta che ti ho incontrata così fragile e indifesa tra tutti quei duri
uomini mi sono sentito in dovere di proteggerti. Poi mi sono reso conto che la tua compagnia diventava
essenziale per me. Non riesco a stare un secondo senza pensarti, senza pensare alle emozioni che provo
quando guardo il mare riflesso nei tuoi occhi, il mare in cui un giorno mi perderò. Ti amo Zoe”.
Mi sentii arrossire. Le mie gambe iniziarono a tremare e ad un tratto non riuscii più a reggermi in piedi,
mi sentii cadere. Chiusi gli occhi per lo spavento e quando gli riaprii due forti braccia stavano cingendo
il mio corpo impedendomi di cadere. A quel punto, così presa dall’emozione, con un filo di voce dissi:”
Sei sicuro di quello che stai dicendo? In fondo io sono solo una povera ragazza... e non sono degna di
stare al tuo fianco.” “ Se è questo che ti preoccupa, io per te rinuncerei a tutte le mie ricchezze, anche a
costo di diventare un povero schiavo, ti prego fuggiamo insieme in un mondo dove possiamo essere alla
pari e sentirci liberi di amarci.” Dichiarò lui guardandomi negli occhi. Rimasi stupefatta di fronte a tale
proposta:” Mi sembra un po’ rischioso fuggire ora che tu hai quasi compiuto diciotto anni, la sfida che
dovrai affrontare è ormai imminente.” “Non importa della sfida, quel giorno saremo già molto lontani.”
Ma le cose non andarono come Alessandro aveva previsto e io mi ritrovai lì, in quell’arena pronta a
farmi uccidere da quello che pochi giorni prima mi aveva dichiarato il suo amore. La fortuna non era
evidentemente a nostro favore: prima la malattia per la quale non siamo potuti partire in tempo, poi
quegli uomini che mi hanno trascinato via con la forza dicendomi che di li a poco sarei morta perché avrei
preso parte alla sfida che Alessandro avrebbe dovuto superare per dimostrare agli spartiati di essere un
vero guerriero. Avrebbe dovuto ucciderci tutti: io, Basil, e un altro uomo di cui non conoscevo il nome.
Mi ero persa a girovagare fra gli enormi alberi di quell’oscura foresta che mi circondava, avevo paura,
paura di perdermi in quegli intricati rovi, di incontrare lui e sapere che in quel momento lo avrei dovuto
abbandonare. Cominciai a correre senza meta inciampando nelle radici degli alberi e ferendomi i piedi
che ormai erano doloranti. Mi fermai bruscamente, quando mi ritrovai di fronte ad Alessandro. Restammo
fermi per un tempo indefinito, tutta la sua sofferenza traspariva dai suoi occhi e so che stava combattendo
una battaglia tutta sua dentro di se: da una parte c’erano gli spartiati che lo incitavano ad uccidermi, ma
lui rimaneva li, immobile nell’indecisione. Non avrebbe mai potuto uccidermi anche se io preferivo che
lo facesse, lui meritava di diventare un nobile guerriero e non di vivere da povero rinunciando ai suoi
beni per amore.
Sentii un lieve fruscio proveniente da un cespuglio di fronte a me, ma fu tutto troppo veloce per avvertirlo in
tempo, una figura si avvicinò alle sue spalle con un’agilità impressionante; prima che io potessi avvertirlo
lo aveva già assalito colpendolo alla testa con una pietra. Mi misi ad urlare cercando di intervenire per
placare la furia di Basil e lui ascoltandomi si fermò, ma era ormai troppo tardi. Lo guardai per un’ultima
volta, un’ultima lacrima percorse il suo viso, un ultimo sorriso lasciò le sue labbra e poi chiuse gli occhi
lasciandomi sola nella mia infinita tristezza.
Sentii le braccia di Basil afferrarmi la vita e stringermi a se tentando di trascinarmi via dal corpo steso a
terra; piangendo ed urlando lo scaraventai lontano da me. “Se davvero mi ami perché hai ucciso l’unica
persona che sarebbe stata in grado di darmi tutto l’amore di cui io ho bisogno? Se tieni davvero a me lascia
che io possa raggiungerlo perché altrimenti non vivrei mai in serenità.” Dette queste parole, impugnai la
spada di Alessandro e recitai queste ultime parole: “ Ti amo”.
36
UNA SFIDA D’AMORE
di Sunny (Gianna Ugolini, Elena Coster Comi – I LSS B)
Ricordo ancora quando erano bambini, Sole e Luna.
Ho pensieri di tutti, ma quello che mi tormenta maggiormente è la tristezza che avvolge la regina Luna,
ormai da parecchi anni. Come ogni sera stava affacciata sul balcone vista Terra; abitava nella via lattea,
in un meraviglioso castello di cristallo che si ergeva su un leggero strato di polvere di stella. Come da
abitudine si affacciava sul balcone e attendeva l’arrivo delle sue amiche stelle e della sua migliore amica
Terra. Luna era una ragazza dalla carnagione chiara, il viso pallido, che risaltava a causa dei capelli molto
scuri. Questi le scendevano dritti e setosi lungo il corpo esile prendendo la forma delle sue curve. Ragazza
fine, per bene, molto educata, viso dolce, occhi chiari, azzurri, pieni di speranza e labbra rosse fuoco.
Indossava sempre tacchi a spillo, abiti eleganti, vestiti lunghi sui toni del blu-bianco che variavano colore
in base al ciclo del suo umore: colori chiari quando era piena, scuri quando era solo uno spicchio.
Le amiche arrivarono, illuminando il cielo della notte, lasciandosi alle spalle un bagliore splendente.
Luna trovò le forze di sorridere, salutò tutte e, intrepida, iniziò a parlare: “Mi manca Sole, ho quei giorni
nella testa, tutto era magnifico assieme a lui. Ricordo ancora quando da bambini correvamo spensierati
tra una galassia e l’altra, fino ad arrivare al punto di non separarci più. Il nostro amore era sempre più
forte e tra un bacio, un abbraccio e una coccola, dimenticavamo Terra, che lentamente si stava spegnendo.
Era il mio quindicesimo compleanno, il più bello di tutti, credo: tutto era perfetto, Sole era lì con me e
non desideravo altro. Eravamo nella reggia di Cometa, la più maestosa di tutte, che era decorata a tema
con graziose ghirlande di fiori profumate; brillanti e diamanti risplendevano ovunque, musica allegra e
ritmata riempiva le grandi sale della reggia, tutti ballavano felici. Ci trovavamo al di sopra dell’ampia
gradinata ed eravamo pronti per il taglio della torta. Sole mi stava abbracciando, non avevo mai visto
il suo sorriso così, era smagliante; i suoi occhi, come i miei, brillavano lucidi per l’emozione. Fin da
quando l’avevo conosciuto era stata una persona solare, altruista, felice e generosa. In quell’occasione,
però, aveva dimostrato qualcosa in più, svelando il suo grande cuore... Come stavo dicendo, era giunto
il momento del taglio della torta e gli invitati accalcati ci incitavano. Molte ragazze mi lanciavano delle
occhiatine invidiose, d’altra parte con un ragazzo così era più che normale. Il suo ciuffo biondo, folto,
delicato e morbido al tatto, incorniciava il suo viso, che risaltava per il colore della carnagione olivastra e
degli occhi verdi. Indossava uno smoking bianco e una cravatta blu; una piccola rosellina azzurra usciva
dal taschino della giacca che metteva in evidenza il suo fisico impeccabile e i suoi addominali scolpiti.
Impiantammo il coltello nella torta, quando un improvviso bagliore invase la sala e Sole sparì; la mia
ragione di vita se ne era andata”
Li dovevo dividere, Terra stava morendo, non potevano stare un minuto in più assieme, sarebbe stata la
fine del Mondo. Anche se non si direbbe, erano troppo egoisti, pensavano solo a loro stessi, ai loro vizi
e a divertirsi. L’alternarsi del giorno e della notte se ne era andato e senza ciò non era possibile la vita.
Sembrava tutto come sarebbe dovuto essere, li avevo puniti nel modo più adeguato, anche se avevo
causato molta sofferenza; riuscivano a scambiarsi uno sguardo al tramonto e all’alba, senza nemmeno il
tempo di una carezza o di una parola.
Devo ammettere, però che ero perplesso: Luna in ogni momento pensava a lui, in un mare di lacrime, tra
la solitudine e la sofferenza. Invece Sole aveva un atteggiamento che non mi piaceva affatto. Lo guardavo,
assieme a quei quattro buffoni dei suoi amici pianeti, dimostrava menefreghismo, aveva l’aria superiore e
indifferente, voleva mostrare che tra lui e Luna non c’era più niente, che da quella sera tutto era svanito.
Morivo dalla voglia di sentire cosa Sole avrebbe confidato la sera a Terra, quella giovane ragazza vestita
di mare, dal cuore enorme, sempre disponibile ad ascoltare i due innamorati. Sole a lei confidava tutto,
mentre quando era con i suoi amici non ci riusciva, soprattutto in compagnia di quell’antipatico di Saturno,
innamorato perso di Luna, mentre Nettuno, il più maturo della compagnia, lo avvertiva di far attenzione
e tenersi stretta la sua amata. Lo sentivo Saturno, quel geloso, che diceva: “Lascia stare la povera Luna,
non l’hai capito che non le interessi più?!” E Sole, con tono arrogante, toccandosi il ciuffo all’aria: “La
questione non ti riguarda, a questo penso io!”
37
Giunta la sera, Sole, scocciato per l’episodio pomeridiano, si diresse da Terra per sfogarsi e raccontarle
l’accaduto. La salutò con un abbraccio e senza aggiungere altro cominciò a parlare:”È impressionante
come quella giovane ragazza mi abbia cambiato.
Mi manca tutto di lei, ma non riesco a dimostralo. Col passare del tempo la nostalgia e la gelosia crescono
sempre più, fino a farmi diventare scorbutico anche con le persone più care a me, alle quali tengo molto. Mi
dispiace, vorrei farlo sapere a tutti, riuscire a esprimere quel vuoto che ho dentro, vorrei solo incontrarla,
tutto qua; ma purtroppo non è possibile. Quando al mattino e alla sera ci incrociamo, i nostri sguardi si
incontrano ma non c’è nemmeno il tempo di una parola; questo mi turba dentro.”
Terra sospirò e appoggiandogli il braccio sulla spalla, rispose:”Caro Sole, capisco la tua situazione e
non sai quanto mi dispiace. Magari il vostro destino è stare assieme per sempre, vi siete presi soltanto
una pausa, anche se non voluta da voi. Sono sicura che prima o poi vi riunirete e il vostro rapporto sarà
più forte e unito di prima, però se questo per sventura non dovesse accadere, ti prego non abbatterti. Lo
so, è difficile, ma cerca di non farla finita, ritenta. Sei un ragazzo desiderato, con molti valori, meriti il
meglio. Sono sicura che sei sempre nei suoi pensieri, e il suo cuore è solo per te.” Una lacrima scese per
la commozione.
Ero compiaciuto nel vedere che finalmente quel ragazzo era riuscito a sfogarsi, alla fine non era come
pensavo, l’apparenza inganna. Quei due meritavano di incontrarsi, dovevo pensare a qualcosa di
straordinario, come quando vedevo Sole recarsi su Plutone e Luna che si pettinava i lunghi capelli.
Potevo già immaginare perché Sole si stesse recando lì, in quel mondo ghiacciato dove sembrava che
il tempo per loro non passasse mai. Andavano lì mano per mano scivolando sulla pista ghiacciata fin da
quando erano bambini. Indossavano pattini stellati che lasciavano impressa una scia d’amore rallegrando
tutti quelli che li guardavano. Appena Sole mise i piedi sul ghiaccio, tutta la vita trascorsa con la sua
amata gli passò davanti agli occhi, arrossati e gonfi per le lacrime. Sicuramente non le seppe trattenere
quando davanti a lui, come per magia, apparve Luna. In quel momento si sentì un vuoto dentro, come una
voragine nel cuore, tutto il dolore passato in quegli anni stava per essere lenito. A Luna si spalancarono
gli occhi e senza perdere nemmeno un secondo i due corsero al centro della pista, si riunirono con un
forte abbraccio, si guardarono e si baciarono. Vennero avvolti da una luce intensa, luminosa e brillante,
pensavano a godersi il momento, a stare assieme, non sapendo quanto sarebbe durato. Improvvisamente
nell’universo tutte le costellazioni si riunirono e assieme fecero una bagliore immenso che fece rifiorire
Terra.
Stanno davvero bene quei due assieme, è stato un peccato sprecare tutti questi anni, spero che l’abbiano
presa come una lezione di vita. Questo stare insieme non sarà per sempre, ma tutte le volte che lo
chiederanno concederò loro un incontro, senza trascurare Terra che nel mentre godrà dello spettacolo di
questa meravigliosa e velata luce assieme a tutti i suoi abitanti.
Questo fenomeno ho deciso di nominarlo Eclissi e per Sole e Luna sarà l’incontro più bello dell’anno.
38
LA GRANDE SFIDA
di Maria Luisa Mazzoni – I LOS A
Quello era l’anno a lungo atteso, era l’anno della verità. Tutti i ragazzi maggiorenni dell’Isola avrebbero
saputo il loro destino e il loro scopo nella vita.
Attalos era uno di loro. Era un ragazzo robusto, di media statura e molto timido. Proveniva da una famiglia
di poveri pastori che abitava in un piccolo capanno, lungo la riva destra del fiume Maggiore, alla periferia
della città. Aveva atteso quel momento a lungo, immaginandosi quello che lo avrebbe aspettato. Era un
test impegnativo, dicevano. Lo chiamavano tutti: “La grande sfida”. Cadeva il giorno del plenilunio di
maggio. Non si sapeva altro, se non che gli esaminatori erano gli dei in carne ed ossa. Nessuno poteva
svelare nulla. Nessuno era in grado di svelare nulla. Alle persone veniva cancellata la memoria appena
compiuta “La grande sfida”. L’esito veniva svelato dai sacerdoti durante una cerimonia di addio, tenuta
davanti al tempio del Destino. Gli iniziati a questo punto erano costretti a salutare per sempre i familiari
per recarsi definitivamente nel Gruppo a cui era stato destinato. Ne esistevano diversi, ognuno con propri
scopi e lavori e le persone erano accomunate da precise caratteristiche. Era il Fato che decideva tutto. Gli
abitanti cercavano in tutti i modi di pregarlo, supplicarlo, cercando di influire nell’esito dell’esame, ma
inutilmente. Gli stessi dei erano impotenti nei suoi confronti, dovevano solo ubbidire alle tre Moire.
Tutti i diciottenni consideravano il test una vera e propria sfida con se stessi, Attalos in particolare. La sua
timidezza era un vero e proprio freno per la vita sociale e soprattutto per la propria autostima personale.
Questa caratteristica lo faceva sentire inferiore a tutti e per questo camminava sempre con lo sguardo
rivolto verso il basso. Si isolava e non aveva amici, se non il suo cane. I suoi genitori non erano in grado
e non avevano l’opportunità di aiutarlo, perché sempre impegnati con le pecore e affaccendati nei lavori
casalinghi.
Per lui “La grande sfida” era una grande paura, ma allo stesso tempo una sfida con se stesso. Sarebbe
diventato quello che era più appropriato per lui e con un carattere più forte. Sperava di raggiungere il
suo obiettivo personale: affrontare la sfida nei migliori dei modi, con sangue freddo. Passava le notti a
riflettere e a immaginare la sua vita dopo il plenilunio di maggio. Poteva aspirare a qualsiasi Gruppo.
Aveva le competenze fisiche adatte per fare qualunque attività. Da quando aveva compiuto diciassette
anni si era impegnato quotidianamente alla lotta libera, al pugilato, percorreva tratti sempre più estesi
lungo il fiume Maggiore. Da qualche mese si era dedicato anche al tiro con l’arco. Era vietato svolgere
attività fisiche e di combattimento in pubblico per la bassa società: si rischiava di essere giustiziati se
visti con un’arma in mano. I ricchi avevano paura che pastori e contadini si ribellassero al Sistema e
compromettessero l’andamento del Governo.
Attalos grazie alle attività sportive e di combattimento aveva anche raggiunto una maturazione psicologica
e morale: credeva sempre di più in sé. O così era quello che sembrava agli occhi dei suoi genitori che non
lo trattavano più come uno straccio e avevano assunto maggiore rispetto nei suoi confronti.
Significava molto per Attalos l’evento di maggio, a cui da lì a pochi giorni avrebbe preso parte. Attività
che prima erano a lui sconosciute, ora facevano parte della sua quotidianità: si era dedicato allo studio
della scrittura e della lettura e stava seguendo un corso dell’arte oratoria, che preparava ai discorsi in
pubblico. La formazione psicologica influiva notevolmente sul suo carattere: la parola timidezza stava a
poco a poco scomparendo dal suo vocabolario. Fino a qualche tempo prima, Attalos sentiva nello stomaco
un peso: gli dei lo criticavano, non lo consideravano in grado di superare le sfide della vita e “La Grande
Sfida”, ma ora che aveva imparato a credere un po’ più in se stesso e aveva iniziato ad accrescere le sue
conoscenze, questa sensazione era svanita. Era sicuro che da ora in avanti gli dei lo avrebbero giudicato
diversamente.
Le tre Moire avevano creato la “sfida dei diciotto anni” per dare impulso e stimolo alla voglia di
apprendere e di presentarsi al meglio per l’esame misterioso. Molti capivano lo scopo del test e cercavano
di migliorarsi. Per questo le Moire li premiavano, ma altri, troppo sicuri di sé, rimanevano stolti e con
un’intelligenza mediocre. A questi ultimi il Fato assegnava il Gruppo dei Falliti, quello più odiato da tutti,
dove vivevano gli emarginati della città.
39
Attalos aveva centrato in pieno le aspettative delle tre Moire: aveva buone probabilità si superare la sfida
con successo.
Questo però lui non lo sapeva.
40
DESTINAZIONE DESTINO
di Melissa (Myriam Scrocca, Elisa Pintarelli, Alessia Bolech – I LSS B)
Davanti a lui le macchine procedevano a un ritmo ben sostenuto. Lui invece si trovava al centro di una
lunga fila che aspettava il verde scattare. La sua mente era ingorgata di pensieri: era in ritardo al lavoro
e già s’immaginava la reazione del capo. Era molto impaziente e non smetteva di torturare il suo codino,
che gli arrivava fino alla spalla. Ad interrompere il suo mondo confuso fu il forte squillo del suo Huawei
e, con uno scatto, allungò la mano destra e rispose alla chiamata. Sembrava che ci fosse il vivavoce
dal tono potente con cui il suo capo lo rimproverava: “Chuichi! Pensi di arrivare in ritardo anche oggi?
Dobbiamo sostituirti? Lo sai che oggi sei importante per l’esposizione della nuova Clerio Suzuki”. “No,
non si preoccupi fra pochi minuti e arrivo”. Con una risposta affrettata il capo chiuse la telefonata.
Chuichi gettò il suo cellulare accanto a lui sui suoi fogli del lavoro e premette l’acceleratore diretto alla
concessionaria. Arrivato prese la sua borsa, i suoi fogli, la sua giacca, si sistemò la cravatta ed entrò. A
passo deciso si diresse verso l’ascensore, salì al quinto piano, alla fine del corridoio c’era il suo capo
ansioso: “Signor Basho sono pronto ad entrare in sala, è pronto il mio discorso?!”: “Certo, lo sa che lo
preparo sempre, anche se io alla sua giovane età me la cavavo da solo, ma quelli erano altri tempi!” prese
i fogli, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la sua spilla portafortuna, comprata in Egitto, ed entrò nella
stanza. Finita la conferenza il capo lo chiamò nel suo ufficio. Una sorpresa aspettava Chuichi: un viaggio
lavorativo di ben un mese per due località diverse nel mondo. Chuichi accettò subito l’offerta e Basho,
che era sicuro della risposta affermativa, aveva già comprato i biglietti che diede al suo dipendente
insieme a due pieghevoli su Quepos in Costa Rica, e Reykjavík in Islanda. La partenza era prevista dopo
due giorni quindi Chuichi, arrivato a casa iniziò a preparare le valige.
Erano le 8:00 quando l’aereo decollò, il viaggio fu tranquillo e durò circa 21 ore. Come ogni volta,
dopo ore di viaggio in aereo, arrivò all’hotel “casa Elsa” che il suo capo aveva prenotato per 11 notti.
Trascorse la notte tranquilla. La mattina dopo, ancora stordito dal fuso orario, si recò a fare colazione
nella grande sala al piano terra. Mentre sorseggiava il caffè bollente, un cameriere giovane si avvicinò
al tavolo con una brioche offerta da un signore. Chuichi incuriosito chiese di chi si trattasse. Allora il
cameriere gli indicò un signore sulla sessantina, barba bianca, capelli grigi quasi argentati e occhi celesti
che si era seduto ad un tavolino dall’altra parte della sala. Chuichi anche se stupito alzò la mano in segno
di ringraziamento. Tornò in stanza, si preparò per andare alla conferenza. Sorpassò il lungo corridoio che
separava le camere con i numeri pari da quelli dispari e passò anche davanti all’enorme piscina interna
ed infine lasciò la chiave alla reception e prese un taxi. Il taxista fece una strada secondaria per mostrare
a Chuichi il bellissimo paesaggio della costa. Chuichi non sembrava molto interessato, però palma dopo
palma i suoi occhi brillavano sempre di più alla vista di quel panorama mozzafiato: l’acqua celeste
scintillava sotto i raggi del sole; tirando giù dal finestrino Chuichi venne investito da ondate di odori:
il sale, le alghe e il pesce freddo.”Se sei fortunato potrai vedere qualche tartaruga con i suoi cuccioli o
dei grossi uccelli rossi che noi qui chiamiamo Ara Macao.” Chuichi, essendo poliglotta, comprese tutto
e annuì. Dopo poco l’auto si fermò e Chuichi lasciò 6041,01 Colón e chiuse lo sportello ringraziando.
Superò una scalinata di marmo bianco ed entrò nella struttura dove si teneva la conferenza. Prima di
entrare in sala si sistemò la sua spilla sulla giacca nera del suo smoking. Terminato il lavoro, trascorse
il tempo tra alberi che gli sembravano a forma di ombrelli rosa e viola. Quando arrivò in hotel, il cielo
era ormai pieno di stelle luminose che brillavano attorno alla grande luna. Appena si accorse dell’ora
avanzata, corse in sala da pranzo per mangiare qualcosa prima che chiudessero la cucina. Si sedette in un
tavolo ancora apparecchiato e un gentile cameriere gli portò un povero risotto ai frutti di mare. Mentre si
gustava quei pochi chicchi il signore che incontrò quella mattina si sedette di fronte a lui e iniziò a parlare:
“Tu mi assomigli molto ragazzo: anche io dopo le presentazioni mi incantavo a guardare il panorama, per
questo mi perdevo sempre le grandi portate e non riuscivo a mangiare nemmeno un boccone, tu non puoi
proprio immaginarti come sia brutto andare a dormire con lo stomaco vuoto”. Chuichi rispose con un
timido no e si alzò, salutò con un gesto cortese e se ne andò a letto. Giorno dopo giorno, di presentazione
in presentazione, e dopo molti pasti saltati, il vecchio signore Hokichi si dimostrò una persona simpatica
fino a diventare un ottimo amico. Mancava un giorno alla partenza e Chuichi stava sistemando le valigie,
quando all’improvviso sentì bussare alla porta, era il signor Hokichi:
41
“Buon giorno!” disse Chuichi “Cosa posso fare per te?” “Niente, mi chiedevo solo se avessi voglia
di fare una passeggiata in riva al mare con me” rispose il signor Hokichi: “Volentieri, lasciami solo un
momento per mettermi qualcosa di adeguato addosso”.
Chuichi uscì dall’hotel e vide il signor Hokichi che lo attendeva accanto ad un taxi e in pochi minuti
erano già alla spiaggia. I due iniziarono a camminare, all’improvviso Hokichi urlò: “Togliti quelle
scarpe Chuichi! Non c’è divertimento se no!” Chuichi senza protestare si tolse le scarpe eleganti e i
calzini, immerse i suoi piedi nella tiepida sabbia, una cosa totalmente nuova, piacevole ma allo stesso
tempo fastidiosa, non gli importava, i granelli scivolavano sotto ai piedi facendogli il solletico e sulle
labbra di Chuichi comparve dopo molti anni un vero e proprio sorriso. Il sole stava ormai tramontando
e all’orizzonte due delfini comparvero, Chuichi era senza fiato, rimase ad osservarli per un lunghissimo
tempo, nella sua testa un allarme si accese ed era quella del ritardo. Chuichi scattò il braccio verso il suo
naso e guardò l’ora:”E’tardissimo!” urlò, prese la mano del vecchio e si mise a correre a piedi nudi. Non
c’era tempo per chiamare un taxi e così corse ancora sul gelido asfalto fino ad arrivare in hotel. Aveva
perso un pasto anche questa volta. Il vecchio signor Hokichi era senza fiato, però una risata sonora uscì
dalla sua bocca, Chuichi chiese: “Cosa c’è di tanto divertente? Mi sono perso un’altra cena e domani
non riuscirò nemmeno a fare colazione!”. Il signor Hokichi rispose tra una risata e l’altra: “Ma guardati!
Da giovane brontolone sei diventato un ragazzo fulminato che corre a piedi nudi per un chilometro
senza fermarsi!” In effetti era proprio così e i due scoppiarono in una lunga risata. Chuichi non si sentiva
così bene da un sacco di tempo. I due si salutarono e andarono a dormire, Chuichi non fece in tempo a
rimboccarsi le coperte che stava già dormendo. “DRIIIIIINN…!!!”. Chuichi fece un balzo dallo spavento
era la quarta sveglia, era in ritardo: “Devo muovermi o perderò l’aereo!” Corse in bagno e si lavò la
faccia si mise lo smoking e si precipitò al taxi. Arrivò all’aeroporto dove trovò il signor Hokichi che lo
attendeva per salutarlo. Si scambiarono i saluti e Chuichi salì sull’aereo. Pochi minuti ed era già sopra
alle bianche e soffici nuvole. Subito dopo le sue palpebre si chiusero.
Scese dall’aereo con maggiore tranquillità e più interesse di visitare Reykjavík. Lo accompagnarono
in hotel in cui sarebbe rimasto per dieci giorni. Lasciati i bagagli nella stanza, questa nuova curiosità
di Chuichi lo portò tra i prati verdi lucenti del posto. Dopo un po’ venne circondato da pecore bianche
come la neve e con il muso nero come il carbone, che gli andarono vicino e iniziarono a stuzzicarlo
rovinandogli i vestiti. Chuichi impacciato cercò di allontanarsi e di ricomporsi quando una vecchia
signora non più alta del metro e mezzo lo aiutò dandogli istruzioni in inglese per come richiamare le
pecore all’ordine in modo molto specifico. Chuichi si presentò e insieme entrarono in una specie di stalla
dove viveva la vecchietta, si sedettero su degli sgabelli di legno e parlarono del più e del meno, fino a
quando Chuichi guardò l’orario e chiese alla signora come arrivare a Reykjavík e lei rispose: “Questo è
un apparecchio che ti indicherà la strada e invece questo è il mio cavallo” disse indicando un piccolo box
a fianco della stalla. Chuichi rimase sorpreso e disse di non aver mai cavalcato. La vecchia lo rassicurò
dicendogli di fidarsi del cavallo e casomai di chiamarlo per nome: Spuma. E poi glielo avrebbe riportato
alla fine del suo viaggio. Chuichi anche se molto insicuro pensò di non aver niente da perdere e salì in
groppa al cavallo dal manto nero. Arrivò al luogo dove si teneva la conferenza: assomigliava tanto ai
luoghi in cui venivano ambientati i suoi film preferiti: c’era un edificio abbastanza grande circondato da
un grande prato e a fianco una casetta di legno abbandonata; gli venne in mente di lasciare lì il cavallo.
Cercò di sistemarsi i vestiti ma con noncuranza perché era ancora divertito dall’esperienza. Fece una
presentazione non molto pesante e con un grande sorriso finì la conferenza. Andò all’hotel col cavallo.
I giorni passarono molto velocemente, Chuichi tenne delle grandi conferenze ma dedicò molto tempo
a scoprire nuovi posti; questa sua curiosità lo portò a conoscere nuovi posti che non immaginava che
esistessero, e persone che divennero amiche arricchendo così la sua rubrica telefonica che inizialmente
era composta dai numeri dei suoi familiari e del suo capo. Arrivò l’ultimo giorno e come promesso
riportò il cavallo alla signora. Anche questa volta salutando la vecchietta sentì nel cuore un dispiacere
come quando lasciò il suo amico a Quepos. La signora lo salutò e gli disse guardando le pecore: “Pensa
bene giovanotto, non puoi mai sapere che pecore che ci sono in giro” e con un sorriso si lasciarono.
Per la terza volta prese l’aereo come un uomo cambiato, ma questa volta consapevole che nella vita non
esiste solo il lavoro e così chiamò Basho e gli disse che le conferenze erano state concluse e chiese una
pausa. Ad un certo punto vicino a lui si sedette un uomo in giacca e cravatta con in mano un computer.
42
Dopo qualche minuto di silenzio Chuichi si sbottonò la felpa e decise di cominciare una conversazione.
Il signore fu molto freddo e guardava sempre l’orologio e riordinava i suoi fogli nella borsa. Chuichi si
accorse di questo distacco e gli ricordò proprio lui all’inizio di quel meraviglioso viaggio quando anche
lui era immerso nel suo lavoro. Gli vennero in mente tutte le persone che erano riuscite a dare una svolta
alla sua vita e così decise di condividere questo racconto con il “vecchio” Chuichi e raccontò tutta la sua
storia. Infine il signore, costretto ad ascoltare, si interessò al finale e Chuichi guardandolo negli occhi gli
regalò la sua spilla porta fortuna e gli disse: “Vivi la tua vita a 360°, non fare ciò che ti soddisfa ma fa’
quello che ti rende libero e veramente felice”.
43
SFIDA CONTRO L’ANORESSIA
di Caterina Ossanna, Alessia Mottes, Giorgia Devigili, 1 ITEA
Eva era stata una bambina cicciottella, golosa e sola. Alle elementari era presa in giro da tutti; si sa come
sono i bambini, troppo crudeli a volte per essere considerati bambini.
Anche durante le medie Eva aveva passato gran parte dei suoi pomeriggi ad abbuffarsi al Mc Donald, per
poi tornare a casa a vomitare, perché non riusciva a digerire tutto quello che ingeriva in quindici minuti
di fast-food.
A 12 anni i genitori di Eva la portarono da un dietologo che le diede una dieta basata sull’assunzione di
proteine. Dopo due mesi di tortura la ragazza arrivò a pesare 75 kg. L’unico desiderio di Eva era diventare
magra, bella, poter indossare abiti stupendi, essere corteggiata dai ragazzi e trovare degli amici. Nel
febbraio dell’anno successivo Eva scese fino 60 kg e il desiderio di dimagrire cominciò a farsi sempre
più grande.
In prima superiore aveva finalmente incontrato amiche mature che non la giudicavano per l’aspetto.
Durante quell’anno scolastico Eva sembrò trascorrere un inverno sereno, ma la sua ossessione per il cibo
era già in agguato: ogni volta che mangiava la merenda a ricreazione, chiedeva alle compagne se fosse
ingrassata. Col passare dei mesi i sintomi dei suoi disturbi alimentari divennero sempre più conclamati
e invalidanti. In seconda superiore la ragazza dovette lasciare gli studi perché non riusciva a passare
un’intera mattinata in classe, in preda com’era agli attacchi di fame compulsivi, al calcolo mentale delle
calorie che avrebbe ingerito, alla disperazione.
L’anno successivo fu ancora più disastroso, perché aveva perso gran parte delle sue amicizie, non
frequentava nessuno al di fuori dell’ambito familiare ed era in continuo conflitto con i genitori. Per
questo utilizzava il suo corpo come teatro di una guerra contro se stessa. La maggior parte delle persone
la considerava negativamente a causa del suo aspetto fisico e della sua espressione tormentata.
All’età di 16 anni arrivò a pesare 40 kg e i suoi genitori, finalmente preoccupati per lei, decisero di
portarla da uno psicologo.
Eva all’inizio si dimostrò recalcitrante perché era convinta di non aver bisogno d’aiuto. Tuttavia col
passare dei mesi il suo peso continuò a diminuire in modo impressionante. In autunno la ragazza si
convinse a farsi aiutare da uno psicoterapeuta che le consigliò di ricoverarsi per alcuni mesi in una clinica
specializzata. Eva accettò di lasciare la sua famiglia e la sua casa per riprendere in mano la propria vita.
I suoi genitori, impegnati nel lavoro, non le stettero vicino e si limitarono a pagarle la clinica.
Eva, una volta entrata nella casa di cura, iniziò un lungo percorso che l’avrebbe forse portata a diventare
una ragazza normale. I primi giorni si sentì spaesata perché non conosceva nessuno, condivideva la
camera con un ragazzo timido e pessimista: Mattia. Col passare delle settimane il ragazzo confidò a Eva la
sua storia e il perché avesse deciso di andare in clinica. Anche lei si aprì progressivamente con il ragazzo,
raccontandogli ciò che le era successo, facendolo partecipe del suo dramma. Nei mesi che Eva trascorse
nella casa di cura i suoi genitori non andarono mai a trovarla e non la chiamarono mai. Probabilmente si
sentivano in colpa per quello che era successo alla figlia, per non averla seguita e sostenuta fin dall’inizio,
per averle permesso di diventare il fantasma di se stessa.
Lei si sentì abbandonata, aveva come l’impressione che la propria famiglia l’avesse dimenticata.
Venne il 30 marzo, era il compleanno di Eva e lei avrebbe voluto ricevere un solo regalo: una visita dei
suoi genitori. La ragazza attese sveglia fino alla mezzanotte, sperando fino all’ultimo che qualcuno si
fosse fatto vivo. Purtroppo le sue aspettative andarono in frantumi: sapeva di non poter mollare, di dover
continuare a credere in se stessa, ma l’episodio la gettò in una cupa malinconia, quasi inconsolabile.
Ancora una volta a farne le spese fu il suo corpo. I giorni successivi furono una tortura: la ragazza, dopo
essersi chiusa in se stessa, entrò in una crisi profonda perché d’un tratto si era convinta del fatto che non
avrebbe fatto alcun progresso. Per il periodo seguente manifestò a più riprese l’intenzione di mollare
tutto, di lasciare la clinica e di smettere di lottare contro l’anoressia.
Mattia, dopo averle parlato a lungo, la convinse a restare. In poco tempo tra i due ragazzi nacque un’amicizia
vera, basata sulla fiducia e sulla trasparenza. Un vero amico, infatti, si riconosce nel momento del bisogno
e non solo quando tutto va bene. Un vero amico sa dirti come stanno le cose, sa farti notare gli sbagli.
44
Eva era ormai da molti mesi in quella struttura ospedaliera, ma i medici continuavano a registrare
miglioramenti troppo timidi. Così decisero di parlare con quel ragazzo cui Eva era molto legata.
Mattia raccontò loro che la ragazza era avvilita per il totale silenzio dei genitori e che lui cercava in tutti
i modi di starle vicino per non farle pesare troppo una mancanza tanto importante come quella della
famiglia.
I medici ascoltarono molto attentamente le parole del ragazzo e lo ringraziarono sentitamente per l’affetto
che dimostrava a Eva, per averla sostenuta e per averla convinta a non mollare.
I giorni successivi la ragazza capì che l’unico motivo che la spingeva ad andare avanti era la voglia di
tornare una ragazza normale, la voglia di dimostrare a tutti la sua forza nel superare questo terribile
momento. Si convinse così di accettare le nuove cure che i medici le proposero e nel giro di poche
settimane la ragazza incominciò a prendere peso.
Eva decise anche che per almeno un certo periodo non si sarebbe più guardata allo specchio, perché non
voleva vedere il suo fisico, perché aveva paura di non piacersi, di non accettarsi.
Un giorno, molto tempo dopo, mentre si stava vestendo, capì che era arrivato il momento di confrontarsi
con il proprio aspetto, di accettarsi.
Si avvicinò a uno specchio e quando vide la sua immagine riflessa, scoppiò a piangere: era da due anni
che non si vedeva così; finalmente poteva guardare quel corpo, accettarsi, ora vedeva riflessa una nuova
Eva.
Dopo alcune settimane la ragazza poté fare ritorno a casa. I suoi genitori si dimostrarono del tutto
disinteressati a lei, la ignorarono completamente. Questo con ogni probabilità perché non si capacitavano
del fatto che lei ce l’avesse fatta anche senza di loro. Col passare del tempo Eva dovette capire e sopportare
anche questo: che la sua famiglia non le sarebbe stata vicino.
Decise allora di trasferirsi in un’altra clinica dove avrebbe potuto aiutare e incoraggiare tutte le persone
che stavano lottando contro l’anoressia.
Usciti dalla clinica Eva e Mattia, provarono ad avere una relazione, ma col tempo capirono che tra di loro
poteva esserci solo una grande amicizia. Mattia diventò istruttore di fitness e restò comunque in contatto
con la ragazza.
Oggi Eva sta studiando per diventare una nutrizionista e aiutare le persone ad avere una sana alimentazione
per non commettere il suo stesso sbaglio, per non arrivare a diventare com’era stata lei.
45
46