Editoriale - Scuola Gestalt di Torino
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Editoriale - Scuola Gestalt di Torino
Numero I, Anno 2 Aprile 2013 Editoriale Indice p. 1 Editoriale p. 2 Aggressività. Il moto Per questo secondo numero di Figure Emergenti abbiamo chiesto alla comunità gestaltica cresciuta attorno all’SGT di riflettere sul tema della coppia. La scelta è stata dettata dal desiderio di offrire uno spazio di confronto scritto che potesse aiutare tutta la comunità a focalizzare un ambito di interesse e di pratica emergente. Nei numeri successivi della rivista ospiteremo eventuali riflessioni su questo tema, anche partendo da ciò che state per leggere. proprio della vita. p. 8 In nutrimento nella coppia p. 11 Per un’antropologia della coppia (di terapeuti) p. 13 Il Convegno a Udine Il lavoro di Mariano Pizzimenti presenta una fenomenologia dell’aggressività orale originale e di natura prettamente gestaltica. Lo scritto di Barbara Bellini mette a fuoco l’aggressività orale nel contesto della coppia, producendo anche alcune riflessioni di ordine più filosofico sul tema classico di eros/thanatos. Monica Prato prova invece a formulare delle ipotesi sul lavoro co-terapeutico con le coppie in un’ottica di campo, esplorando alcuni dei temi di Robine. p. 14 Recensioni libri e film p. 15 Seminari e incontri Per rendere questa rivista più interattiva vi invitiamo a inviare I vostri commenti alla mail [email protected] oppure scrivere sul blog della Scuola Gestalt di Torino. Vi ricordiamo infine che il convegno della Scuola sul tema dell’Incertezza si terrà a Udine. Il menù è ricco e ricche sono le occasioni di stare insieme, nella sede del convegno ma anche in giro per la città. Trovate un breve articolo sull'avanzamento lavori a cura di Emauele Gatti. Ci rivediamo tra tre mesi. Buona lettura. La Redazione Scuola Gestalt di Torino Figure Emergenti – II Edizione – Aprile 2013 Contributi di Barbara Bellini, Monica Burato, Emanuele Gatti, Mariano Pizzimenti, Piergiulio Poli, Monica Prato, Silvia Riccamboni Redazione Monica Burato e Piergiulio Poli Grafica Piergiulio Poli 2 Pag 2 Num 1-II/aprile 2013 Aggressività. Il moto proprio della vita. Mariano Pizzimenti La pratica della Gestalt è molto cambiata negli ultimi anni, perché molto è cambiato l’ambiente in cui viviamo. Secondo alcuni colleghi è diventata meno aggressiva, come mi è capitato di ascoltare recentemente ad un convegno in cui si proponeva di smettere di usare il termine aggressività e sostituirlo con “assertività”. Io credo invece che in Gestalt il concetto di aggressività sia tutt’ora centrale per comprendere il muoversi dell’organismo nel proprio ambiente. Forse è arrivato il momento di dedicare più attenzione all’aggressività e di comprenderla in tutta la sua ampiezza. Nella terapia della Gestalt usiamo il termine aggressività principalmente nel suo senso etimologico di ad-gredere, cioè di andare verso, ma non solo. Nell’uso corrente l’aggressività viene considerata sinonimo e quindi confusa con la violenza. Quest’ultima però rappresenta solo una particolare forma di aggressività in cui si ignorano volutamente i confini dell’altro e i suoi tentativi di mantenerli. La confusione non è però del tutto immotivata, perché nel concetto di aggressività non c’è solo l’andare verso l’altro, ma andarci per soddisfare un proprio bisogno, per ottenere qualcosa che vogliamo e spesso la soddisfazione di un bisogno comporta una violazione dell’ambiente. La soddisfazione del bisogno nell’ambiente è talmente importante nell’atto aggressivo, che alla fine è questo parametro a connotare principalmente l’aggressività, facendo scivolare in secondo piano il movimento verso l’altro. Se ci sentiamo aggrediti la domanda classica che poniamo è “COSA VUOI DA ME ?” e non invece “COME VIENI DA ME ?” che pure dovrebbe essere per noi più importante perché è di questo che ne viviamo gli effetti : il “cosa vuole” riguarda principalmente l’aggressore, ma il “come lo vuole” riguarda tutto l’ambiente. Quando parliamo di aggressività, parliamo dunque di un fenomeno complesso che comprende la capacità di agire un moto verso l’ambiente o di provocare un moto dell’ambiente verso di noi e la capacità di soddisfare un bisogno. Bisogno che però non è rappresentato necessariamente da una mancanza, ma anche da un eccesso, e quindi il bisogno di liberarmi di qualcosa, di lasciare o rispedire o distruggere qualcosa nel o dell’ambiente. La violenza, come l’invasione o come lo stesso contatto, sono resi possibili dall’aggressività. Anzi, possiamo affermare, che l’aggressività ha come scopo il rendere possibili una o più di queste tre dinamiche tra organismo e l’ambiente : l’invasione, la violenza o il contatto. Nessuna di esse sarebbe possibile senza un’azione aggressiva, neanche il contatto e nessuna di esse è negativa o positiva a priori, neanche la violenza. Partiamo dall’invasione. Noi invadiamo l’altro quando oltrepassiamo i suoi confini senza essere invitati. In un processo di contatto questa è spesso un’esperienza inevitabile. Nel cercare il contatto con l’altro io posso oltrepassare i suoi confini senza accorgermene. Magari perché questi sono incerti, poco chiari o eccessivamente permeabili. Oppure perché io sono preda di un’urgenza che mi rende disattento rispetto ad essi. Quando però me ne accorgo posso fare un passo indietro e riportarmi sul confine di contatto. Immaginate di essere per strada e vedere una persona che inciampa e cade. Voi vi precipitate e lo afferrate per un braccio per aiutarlo ad alzarsi. L’urgenza vi fa invadere il suo spazio fisico senza darvi il tempo di chiedergli il permesso. Se però la persona vi guarda imbarazzata dicendo :”faccio da solo”, voi lo lasciate andare immediatamente, fate un passo indietro e gli chiedete educatamente se ha bisogno di qualcosa. Questa esperienza di andare verso, invadere, fare un passo indietro e assestarmi sul confine di contatto è proprio di qualsiasi processo di contatto. L’invasione può essere ridotta al minimo solo se ci diamo il tempo per un adeguato pre-contatto. Veniamo alla violenza. Essa comincia quando io invado i confini dell’altro e, nonostante le sue proteste o l’evidenza che gli sto arrecando un danno, resto all’interno dei suoi confini per soddisfare il mio bisogno. Se ballando con una ragazza un giovanotto le da un bacio sul collo (azione non prevista dal ballo), ha invaso il suo spazio. Se la ragazza sospira e si abbandona tra le sue braccia, gli sta dando il “benvenuto” e allora l’invasione diventa contatto, perché lei ha spostato il suo confine li dove lui è andato. Ma se la ragazza si irrigidisce, gli dice che ha solo voglia di ballare e lui comincia a ridere le poggia una mano sul sedere e la stringe a se, questa è violenza. Non commettiamo però l’errore di attribuire alla violenza una valenza negativa a priori. Noi siamo esseri “naturalmente” violenti, in quanto appartenenti al regno animale. 3 Pag 3 Num 2/aprile 2013 Noi non abbiamo la capacità di assorbire le sostanze nutritive direttamente dal terreno o dall’aria, come fanno le piante. Noi abbiamo bisogno di togliere la vita ad altri esseri viventi per sopravvivere. Letteralmente la nostra vita si poggia sulla morte. Difficilmente però qualcuno riconosce la violenza nell’atto di strappare un cespo di insalata. Eppure è quello che stiamo facendo : stiamo violando l’insalata. Per non parlare di quando mangiamo un pollo o un pesce. La nostra sopravvivenza si appoggia sulla violenza almeno finché non evolveremo ulteriormente e saremo in grado di nutrirci attraverso lo scambio, invece che attraverso l’appropriazione. Quindi l’aggressività è uno strumento fondamentale per una relazione soddisfacente tra l’organismo e il suo ambiente. Come tutti gli strumenti non ha una valenza etica o morale a priori. Sono io che mi assumo la responsabilità del suo utilizzo e delle forme in cui la esprimo. Aggressività e responsabilità dovrebbero essere indissolubilmente legati in un adulto. Io devo sviluppare l’abilità di sviluppare nell’ambiente la forma di aggressività più adatta e di assumermi il peso di questa abilità e delle conseguenze che ne deriveranno. Se definiamo l’autonomia come la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie dipendenze, possiamo definire l’aggressività adulta come la capacità di assumersi la responsabilità delle azioni necessarie a soddisfare i propri bisogni e desideri. FORME DELL'AGGRESSIVITÀ NEL CONTATTO Andiamo adesso a delineare diverse forme che l’aggressività può assumere e che possiamo differenziare in base alle diverse intenzionalità di contatto che esprimono. 1. AGGRESSIVITA’ RESPIRATORIA. E’ alla base di qualsiasi altra forma di aggressività. Il primo atto di appropriazione del bambino verso l’ambiente è il respiro ed è anche il primo atto di invasione (quindi aggressivo) dell’ambiente verso il bambino. Lo stesso Perls, verso la fine della sua vita, ritenne errato aver considerato la fame, diversamente dalla libido di Freud, il primo vero movimento vitale dell'essere umano, spostando quindi l'attenzione al respiro in quanto precedente. Il punto è che siamo talmente confluenti col respiro da non accorgerci di come influenzi ogni nostro moto verso l’ambiente. Qualsiasi azione o emozione è preceduta da un cambio di respirazione ed è sostenuta da una respirazione adeguata. In Gestalt noi stiamo molto attenti alla respirazione perché siamo consapevoli che ogni cambio di ritmo respiratorio segnala un'interruzione di contatto con un processo e l’instaurarsi di un nuovo contatto con un altro. Qualsiasi movimento comincia con un atto di aggressività respiratoria. A questo riguardo c’è da sottolineare la grande importanza che i tre diaframmi principali gola, plesso solare e pelvico hanno nello sviluppo della nostra aggressività. A stati d’animo cristallizzati, corrispondono stati di contrazione o rilassamento cristallizzato di questi diaframmi. L’ansia comporta sempre un ansia da soffocamento, come ha ben spiegato Perls (1), e a questa corrisponde una forte contrazione del diaframma del plesso solare con un eccessivo rilassamento del diaframma della gola, da cui il senso del cuore in gola e l’impossibilità di espirare adeguatamente, o una eccessiva contrazione di quest’ultimo, da cui il senso del nodo in gola. Un eccessivo rilassamento del diaframma pelvico impedisce una buona respirazione addominale, così come una contrazione cronica. Una respirazione piena e profonda presuppone un armonico susseguirsi di contrazione e rilassamento dei tre diaframmi in questione. Anche il processo del radicamento corporeo, del grounding, secondo me non deve essere immaginato come un radicamento al suolo (come fa ad esempio la bioenergetica), ma un radicamento nella nostra corporeità ed, in particolare, al nostro pavimento pelvico, fatto attraverso una respirazione profonda. Lavorare sulla respirazione in terapia o in counseling è prima di tutto un processo di avvicinamento della funzione io alla f. es e alla f. personalità sul confine di contatto, perché aiuta me e il paziente ad entrare in contatto con cambiamenti avvenuti a livello della funzione es senza che la f. io fosse chiamata in causa. L’attenzione ai cambiamenti respiratori sia dell’altro che miei ci aiutano a consapevolizzare l’esperienza dell’incontro tra le nostre intenzionalità che noi chiamiamo confine di contatto. Imparare a sostenersi con diverse respirazioni, significa imparare a sostenere tutte le nostre forme di aggressività. 4 Pag 4 Num 1-II/aprile 2013 Per esempio se sostengo una persona a sedersi in modo da sentire che si sta appoggiando sull’ano, sul perineo e sui genitali e poi lo invito a contrarre quest’area più i muscoli addominali quando espira e rilassarli ed espanderli inspirando profondamente, facilmente la persona sperimenterà un senso di maggior forza, mentre la schiena si raddrizzerà come conseguenza dell’espansione dell’addome e non dell’irrigidimento dei muscoli della colonna e/o delle spalle. Questo non è un insegnamento di tipo idealistico, cioè non mira a dare alla persona un modello da seguire, ma bensì a sperimentare un possibile sostegno al suo essere nel mondo, come questo essere sia legato al moto verso il proprio ambiente e come questo moto sia aggressivo e corporeo. 2. AGGRESSIVITA’ ORALE. – Con questo termine intendo una forma di aggressività in cui io trasformo l’ambiente in me senza nessun lavoro di decostruzione o destrutturazione preventiva. Il termine orale si rifà all’espressione freudiana di “oralità passiva”, cioè alla prima volta in cui sperimentiamo un’aggressività verso e dall’ambiente. Quella fase di sviluppo del bambino in cui lui succhia il seno materno prima della comparsa dei denti. Durante questa esperienza il bambino non opera nessuna forma consapevole di destrutturazione del cibo prima di ingoiarlo, il nutrimento gli arriva in una forma che lui può direttamente ingoiare. Non è vero però che non operi nessuna forma di destrutturazione dell’ambiente esterno. Il pianto del neonato è uno strumento potentissimo di azione sull’ambiente. Nessun adulto non patologico è in grado di restare indifferente davanti al pianto di un neonato. Quindi possiamo affermare che il neonato non è impotente di fronte all’ambiente, anzi, è perfettamente strutturato per provocare nell’ambiente un’azione aggressiva verso di lui, per portare cioè l’ambiente a prendersi cura dei sui bisogni. Quindi possiamo allargare il concetto di aggressività orale a tutti quei comportamenti che portano l’ambiente a soddisfare i nostri bisogni, senza che da parte nostra ci sia un’azione diretta sull’oggetto del nostro bisogno. Nella vita relazionale adulta questa forma di aggressività la ritroviamo in molte forme di manipolazione in cui appunto portiamo l’ambiente a darci quello che vogliamo senza una nostra azione sull’oggetto desiderato. Mi ricordo che quando ero un ragazzino la parola “voglio” era assolutamente proibita. Se andando in giro con mio padre io avessi detto :”Papà voglio un gelato”, non solo non lo avrei mai ottenuto, ma sarei anche stato severamente sgridato. Ecco che allora io avevo imparato a “parlare” del gelato. Potevo per esempio fare commenti generici tipo :”Sai mi hanno detto che i gelati di frutta sono fatti con l’acqua.” Al che mio padre mi faceva immancabilmente una spiegazione sull’argomento per poi concludere : “Vuoi un gelato ?” Vittoria ! Il gelato arrivava senza che io avessi fatto nessuna azione “aggressiva” verso il gelato. E’ interessante notare che, nell’esempio fatto, io avevo già sviluppato altre forme di aggressività, come quella dentale 2. di cui parlerò più avanti, e che questo è quindi un esempio di ritorno consapevole all’uso di un’aggressività orale. Uno dei motivi per cui torniamo consapevolmente all’aggressività orale, anche in età adulta, è, per esempio, quando riteniamo di non avere sufficientemente potere nei confronti dell’ambiente. Ci sono però anche forme inconsapevoli in cui l’aggressività orale viene agita dagli adulti, per esempio nelle aspettative. Quando io mi “aspetto” qualcosa dagli altri ritengo di non dover fare niente perché questo avvenga. L’aspettativa è diversa dal volere o desiderare qualcosa. Se io “voglio” che tu mi compri il giornale mentre vieni a casa, attuerò una serie di azioni per “cercare” di ottenerlo da te, consapevole che posso riuscirci oppure no. Ma se io mi “aspetto” che tu ci penserai a comprare il giornale, non farò assolutamente nulla e sarò deluso e/o sorpreso se tu non dovessi portarmelo. Altre espressioni di aggressività orale sono le lamentele. Nella lamentela non c’è nessuna azione responsabile per ottenere quello che voglio. C’è solo un’espressione di dolore, nella speranza che qualcuno faccia quanto necessario affinché io possa essere soddisfatto. L’apprendimento acritico, privo cioè di quella forma di aggressività che Perls ha definito “dentale”, è un’altra forma di aggressività orale. L’istruzione scolastica sostiene i giovani ad utilizzare l’aggressività orale tutte le volte che li costringe ad imparare concetti che non capiscono o per cui non riescono a sviluppare interesse. In questo caso i giovani vengono invitati ad utilizzare l’aggressività orale per “introiettare” concetti alieni e che resteranno tali dentro di loro. Non voglio dare però l’impressione che l’aggressività orale sia una forma di aggressività che dovrebbe sparire nell’età adulta e che denoti, quando agita, sempre una mancanza di potere e un retrocedere ad uno stadio meno evoluto. 5 Pag 5 Num 2/aprile 2013 Ricevere senza chiedere o essere nutriti senza fare la fatica di trasformare, può essere molto piacevole e certe volte vale la pena di correre il rischio della delusione, come quando un innamorato si aspetta che la sua donna si ricordi del suo compleanno. L’importante è rendersi conto che sto costruendo un’aspettativa e non che “è la cosa giusta” che l’altro si ricordi del mio compleanno. In realtà l’innamorato sta agendo una sorta di test per verificare se il modo di amare dell’altro è simile al suo. Se sono consapevole di questo allora va bene. 3. AGGRESIVITA’ DENTALE. Questo termine è stato sviluppato da Fritz Perls che era in disaccordo con ciò che Freud diceva riguardo all’oralità aggressiva. Col termine oralità aggressiva Freud indicava l’atto di mordere il capezzolo che a volte il bambino fa quando gli spuntano i denti. Per Freud questo era il segnale di un’aggressività distruttiva del bambino verso l’oggetto d’amore, cioè il seno materno. Per Perls invece, l’atto di mordere il seno, segnala solo il passaggio ad una nuova forma di aggressività che il bambino comincia a sperimentare ma che ancora non conosce e non sa utilizzare correttamente : l’aggressività dentale. Con la comparsa dei denti il bambino acquisisce la capacità di distruggere il cibo per poterlo ingoiare. Questo lo mette in grado di allargare enormemente il panorama di alimenti che ha a sua disposizione. In pratica il bambino impara che anche se l’ambiente esterno si presenta a lui in una forma che non è direttamente assimilabile, è impossibile ingoiare un grosso pezzo di carne, lui però grazie ai denti può destrutturarlo per poi poterlo ingoiare ed assimilare. Già molto è stato detto nella terapia della gestalt rispetto a questa forma di aggressività, per cui rimando ad altre letture sull’argomento. (F. Perls – L’Io la fame e l’aggressività- ed. Giusti e F. Perls, R. F. Hefferline, PGoodman – Teoria e pratica della Terapia della Gestalt – ed Astrolabio vol 2° cap 8 ) 4. AGGRESSIVITA’ ANALE. Anche questo termine è stato utilizzato da Freud per descrivere uno stadio evolutivo del bambino e precisamente quello durante il quale il bambino comincia ad acquisire il controllo degli sfinteri e quindi ad esercitare il controllo della capacità di liberarsi di qualcosa che è dentro il suo corpo. Durante questo periodo il bambino sviluppa anche le sue capacità oppositive rispetto al mondo, la capacità di dire di no. In 4. termini relazionali adulti, con il termine aggressività anale indichiamo l’azione di indirizzare verso l’ambiente qualcosa che noi non vogliamo più o di rimandare all’ambiente qualcosa che da questo viene verso di noi e che noi rifiutiamo. E’ l’aggressività che ci serve per separarci da un compagno con cui abbiamo avuto una storia d’amore ma che ora non amiamo più, per licenziarci da un lavoro che non soddisfa più le nostre esigenze, per abbandonare la città in cui siamo nati ma che ormai sentiamo troppo angusta per i nostri progetti e ancora per allontanarci dalla famiglia d’origine, così protettiva, ma che frustra il nostro bisogno di volare. E’ l’aggressività che ci serve per rifiutare un corteggiatore troppo insistente, per difenderci da una persona che tenta di sottometterci, per fare uscire da casa nostra un amico con cui in quel momento non abbiamo più voglia di parlare. Rispetto alle due forme di aggressività di cui abbiamo parlato prima, questa presenta un segno algebrico opposto. Sia l’agg. orale che quella dentale assecondano l’intenzionalità di appropriarci di qualcosa dell’ambiente, quindi il verso è dall’ambiente verso di noi. In quella anale il verso è da noi verso l’ambiente, perché l’intenzionalità espressa è quella di rimandare all’ambiente qualcosa che era stato indirizzato verso di noi o che fino a poco prima ci era effettivamente appartenuto. L’aggressività respiratoria ha come caratteristica un veloce ed incessante susseguirsi di questi segni algebrici. Tutte e quattro queste forme di aggressività obbediscono ad un intenzionalità di appropriazione, espressa col segno più (voglio che sia mio) o col segno meno (voglio che sia non mio). L’aggressività anale riveste una grande importanza per esempio per affrontare situazioni di impotenza in cui noi abbiamo l’impressione di non avere strumenti per contrastare un ambiente oppressivo. Ricordo un lavoro di alcuni anni fa con una paziente che viveva una situazione di impotenza e frustrazione nei confronti di un padrone di casa vessatorio e invadente (lei era in affitto), nei cui confronti lei si sentiva assolutamente impotente se non accettando l’idea di cambiare casa, cosa che lei non avrebbe voluto perché l’alloggio le piaceva molto ed era molto comodo in rapporto al suo lavoro. Con lei lavorai sulla possibilità di fare un rito woodo, cioè modellare una statuetta di cera che rappresentasse questo uomo odiato e poi infilzarla con degli spilloni augurandogli ogni sorta di disgrazie. 6 Pag 6 Num 1-II/aprile 2013 Superati i sensi di colpa legati al timore di un'onnipotenza magica, la paziente pian piano recuperò il senso di poter utilizzare il proprio malessere e uscì dal suo senso di impotenza, fino a riuscire a modificare il proprio rapporto con questa persona. Questo è un esempio di un uso di ciò che Freud avrebbe chiamato sadismo anale per uscire da una dinamica di impotenza e trovare un modo di trarre forza dalla propria intenzionalità di contatto dando dignità ai propri vissuti di odio. Poter accettare di desiderare il male di una persona che ci fa soffrire, richiede un buon sviluppo di questa forma di aggressività, per poter dare dignità anche a quegli aspetti di noi che giudichiamo “brutti, sporchi e cattivi” e trovare una forma di espressione “contenuta” che non ci renda bloccati nella diade “essere bloccati, impotenti e sopportare” oppure “compiere azioni socialmente insostenibili “ 5. AGGRESSIVITA’ SESSUALE. Con questo termine intendo una forma di aggressività che presenta una diversa intenzionalità rispetto alle tre viste finora. L’aggressività sessuale non obbedisce ad un’intenzionalità di appropriazione ma bensì ad un’intenzionalità di scambio. Il fine è quello di rendere i confini sia miei che dell’altro più permeabili per permettere che avvenga uno scambio tra di noi. Il mezzo che l’aggressività sessuale utilizza per raggiungere questo scopo è l’eccitazione, che crescendo fa vibrare i confini e li rende quindi meno omogenei. Perché utilizziamo il termine “sessuale” ? Per due motivi principali. Il primo è che la forma più evidente di eccitazione che rende i nostri confini permeabili al fine di permettere uno scambio tra le persone coinvolte è il coito. Durante il rapporto sessuale assistiamo proprio a questo fenomeno: l’eccitazione cresce continuamente rendendo i confini sempre più permeabili. Le persone scambiano emozioni, contatti, fluidi organici, fino al momento dell’orgasmo in cui i confini si dissolvono per qualche attimo permettendo 5. un’esperienza di fusione con il tutto, cioè noi non percepiamo più le differenze. Il secondo è che l’esperienza di questa forma di aggressività è essenzialmente piacevole e spesso, nel momento che si dispiega completamente, porta con se anche sensazioni genitali. Questo non significa che l’agg. sessuale comporti sempre un coinvolgimento “genitale”, ma che sempre comporti uno scambio caratterizzato da elevata eccitazione . Pensate all’allievo che fa domande all’insegnante per meglio comprendere una lezione. Se le domande si limitano a cercare di decostruire ciò che precedentemente l’insegnate ha spiegato, per permettere all’allievo di comprenderlo ed assimilarlo, stiamo assistendo ad un utilizzo di aggressività dentale. Ma se le domande dell’allievo si fanno acute, esprimendo quindi un interesse che nasce da un processo di assimilazione già avvenuto per cui non c’è solo un chiedere, ma anche un offrire stimoli nuovi all’insegnante, ecco che quest’ultimo si eccita e comincia a chiedere all’allievo come sia giunto a certe conclusioni, facendo obiezioni, ma anche sviluppando nuove ipotesi partendo proprio dalle intuizioni dell’allievo. Ecco che tra i due comincia ad avvenire uno scambio, i confini di entrambi sono permeabili ed eccitati. Nessuno dei due è interessato ad appropriarsi di qualcosa dell’altro, ma a scambiare e creare qualcosa di nuovo. Da quanto detto emerge una considerazione : l’aggressività sessuale tende a sostenere una relazione tra pari. Non tra uguali, ma tra pari. Non ha importanza che la quantità di ciò che io do all’altro sia uguale a quella che ricevo, l’importante è che ognuno dei due si riconosca di avere qualcosa da dare all’altro, cioè che entrambi abbiano pari dignità, cioè che abbiano qualcosa di degno da trasmettere e che questa dignità sia riconosciuta reciprocamente. Dal mio punto di vista grossa parte del lavoro terapeutico o di counseling consiste infatti nel dare “dignità” alle esperienze dell’altro. La parola dignità ha un etimologia complessa perché deriva dal latino “dignus” cioè degno e dal greco “axios”, cioè assioma. La combinazione di questi significati ci indica che la dignità esprime un valore intrinseco alla persona che non dipende dalle sue azioni o scelte, ma da una sorta di nobiltà non dimostrabile e intima propria di ogni essere. Riconoscere dignità ad un vissuto, ad un’emozione, ad uno stato dell’essere, vuol dire sostenere un radicamento dell’essere nel mondo della vita in cui egli sente di avere il diritto di occupare uno spazio per il solo fatto di essere nato. Ecco perché la pena di morte nega la dignità degli esseri umani, perché non riconosce più questo diritto di base. Ed ecco anche perché spesso ai dittatori o a persone molto odiate (pensiamo a Bin Laden) tocca in sorte la morte a volte anche senza processo, perché la punizione peggiore è privare un essere umano della propria dignità. Non lo si riconosce più come un pari, ma come un essere diverso, inferiore : indegno. 7 Pag 7 Num 2/aprile 2013 Quando sperimentiamo ed esprimiamo la nostra aggressività sessuale è importante renderci conto se è possibile uno scambio tra pari. Quando si gioca con un bambino è facile sentire la propria aggressività sessuale, perché il bambino la vive con grande forza e eccita i nostri confini stimolando la nostra. Diventa allora importante che l’adulto riesca a rendersi un pari del bambino, per esempio giocando giochi adatti alla sua maturazione sia fisica che psichica e cercando in se stesso i propri ricordi di bambino per contattare quel tipo di piacere. Questo l’adulto lo può fare, perché un grande può essere anche piccolo ( come ad esempio facciamo quando ci accucciami per metterci allo stesso livello del bambino), ma un piccolo non può diventare grande prima del tempo, ad esempio sperimentando un contatto erotico in una forma non adatta alla sua maturazione fisica e psichica. Questo è il motivo per cui la pedofilia toglie dignità al bambino e non avrebbe neanche senso in questo caso dire che l’adulto ha espresso dell’aggressività sessuale, perché viene meno il presupposto di scambio tra pari. Sarebbe più corretto parlare di aggressività anale o dentale, ma non sessuale Quindi riconoscere l’altro come un pari, vuol dire sostenere la sua dignità. Riconoscere che l’altro ha qualcosa di degno da darmi ed io qualcosa di degno da scambiare con lui vuol dire riconoscere la nostra reciproca essenza di esseri umani che hanno il diritto di prendersi dello spazio in questo mondo, cosa che in molte forme di sofferenza, la persona ritiene di non potersi prendere. In tutte le tre forme di aggressività precedentemente esposte (dentale anale e sessuale) è importante dare dignità alle esperienze ed ai vissuti della persona, ma ciò diventa importantissimo nell’aggressività sessuale, proprio per questa sua caratteristica di sostenere lo “scambio tra pari” che è l’esperienza in cui maggiormente sperimentiamo la nostra “dignità”. 8 Pag 8 Num 1-II/aprile 2013 IL NUTRIMENTO NELLA COPPIA tra intimità/autonomia, polis/oikos, eros/morte. Barbara Bellini Poiché l’aggressività sessuale è già stata tematizzata nell’articolo precedente, ora riprendiamo questa chiave di lettura aperta da Mariano Pizzimenti e ci concentriamo sulle forme e funzioni dell’aggressività orale, osservando quando si presenta come una modalità funzionale di interazione con l’ambiente e quando invece blocca la crescita, implica una rigidità del corpo, soffoca l’autonomia dei singoli e priva la coppia di aggressività sessuale. Partiamo dalla bocca e vediamo a cosa ci serve nelle nostre relazioni col mondo. Quando abbiamo un momento di perplessità, automaticamente ci portiamo un dito o un oggetto, di solito la penna, alla bocca: sono momenti di pausa rispetto al flusso di ciò che accade in cui lasciamo emergere il bisogno di un sentire che ci orienti. Giusto o meno, il sentire è un primo movimento nell’ambiente, necessario per identificare e alienare ciò che vogliamo. Nell’innamoramento, ad esempio, il bacio rappresenta la prima manifestazione di affetto, poiché con esso riproponiamo la nostra primitiva modalità di relazionarci all’altro. Solo finchè si prova amore, scrive Lowen, si può baciare: quando il sentimento viene meno, quest’atto non è più possibile, anzi, genera disgusto. Dunque la bocca ci serve da un lato per esplorare e orientarci nell’ambiente e dall’altro per nutrirci fisicamente ed emotivamente. L’intenzionalità di contatto dell’aggressività orale è raggiungere un contatto immediato per poter rilassare dei bisogni e sentimenti profondi, legati alla “fame”. Il tipo di relazione che attiva si incentra sul mio bisogno dell’altro, sulle modalità Es del campo e sulle regolazioni implicite e corporee. Infatti, è vero che io posso verbalizzare esplicitamente una “pretesa”, ma è il linguaggio del mio corpo a renderla l’unica forma possibile per l’altro. L’aggressività dentale e anale, invece, presuppongono una maggiore differenziazione degli individui e le funzioni Io del contatto: l’attivazione delle funzioni io sostiene la capacità di trasformare l’ambiente e i nostri bisogni per scoprirci parte di una gestalt più evoluta. Forse i nostri bisogni orali di un contatto immediato che ci rilassi non saranno soddisfatti, ma certamente la percezione del nostro corpo, dopo la lotta, la contrattazione e il reciproco riconoscimento (parziale o totale) sarà quella di un corpo più grande in grado di prendersi cura di sè. Un corpo che ha avuto il coraggio di allargare i confini di contatto per portare pienamente se stesso, con dignità e integrità, senza perdere l’altro. Vuol dire stare con la percezione dell’altrui diversità, che ci parla di noi, del nostro rapporto con l’ignoto, della nostra solitudine, di temi come l’incomprensibilità, la separazione e la morte. Accettare la fame significa entrare in contatto con queste esperienze profonde, come già teorizzava Melanie Klein rispetto al bambino nei primi mesi di vita. L’aggressività orale ha un legame molto stretto con l’energia creativa, ma da sola non basta: per realizzare dei progetti abbiamo bisogno di altre forme di aggressività oltre a quella orale (respiratoria, dentale, anale, sessuale, vedi articolo sopra) oltre che di ambienti (coppie, aziende, famiglie..) che ci sostengano a sviluppare e soprattutto a mantenere nel tempo delle direzioni di vita. Soprattutto in questa generazione in cui il sentire è più “liquido”, abbiamo bisogno di ambienti “oikos” (setting terapeutici, l’abbraccio di un amico, la presenza della famiglia, la condivisione con il partner) in cui possiamo respirare, rilassarci ed entrare in contatto con le nostre sensazioni per poter dire “chi siamo e cosa vogliamo dall’altro”. La fame si definisce meglio, diventa richiesta chiara, contrattabile e quindi occasione di crescita. Può aprire percorsi esistenziali e reti relazionali nutrienti. L’aggressività orale in una coppia può essere un sostegno per il suo sviluppo nelle fasi iniziali del suo ciclo vitale, per i temi profondi dell’intimità, conoscenza, bisogno, nutrimento, oppure in momenti particolari, quando prevale la corporeità o, come dice Stern, il bisogno di intersoggettività. Gli sguardi e i gesti che colpiscono il cuore sono spesso carichi, oltre che di aggressività sessuale, anche di aggressività orale, perché sono movimenti attraverso cui chiamiamo l’altro ad un contatto intersoggettivo profondo. 9 Pag 9 Num 2/aprile 2013 La bocca implica una relazione con l’altro molto intima, sul piano fisico ed emotivo, per il suo collegamento con la fame (il senso di aver “bisogno”). Le labbra, ad esempio, sono legate alla seduttività, che è una forma di potere con cui attiriamo l’altro per vari scopi (non necessariamente manipolatori): per incontrarlo nell’anima, per ricavare piacere, in generale per ottenere qualcosa di cui abbiamo bisogno. L’aggressività orale è molto viva quando sperimento l’impazienza di vedere la persona amata, o quando vivo una passione per qualcosa che “mi divora”, quando l’amore per un figlio e per la sua bellezza è così intenso che gli diciamo: “Ti mangerei!”. Lo sfondo da cui nasce l’aggressività orale è un “eccesso di amore”, col segno più (passione cieca) o col segno meno (deprivazione). Anche nella sessualità la bocca ha una funzione molto importante nel dare e ricevere godimento e nel creare l’intimità: ha una relazione strettissima con l’aggressività sessuale che può inizialmente essere creata grazie a forme orali di contatto con l’ambiente, ma presto si spegne o si trasforma in dipendenza se non esistono altri tipi di movimento e di aggressività nella coppia. Non sempre il piacere sessuale è sinonimo di intimità. Dunque, l’aggressività orale è una forma di orientamento (mi porto la mano alla bocca: che succede?), di esplorazione (conoscenza intima), di potere (bacio l’uomo che amo e lo voglio chiamare a me). Blocca l’aggressività sessuale quando è l’unica modalità di funzionamento del campo e impedisce la differenziazione necessaria per crescere. Se il desiderio di intimità nasce unicamente dalla fame e dal bisogno e non da un’esistenza piena, allora difficilmente si creeranno le condizioni per uno scambio libero. Ciò accade quando la fame richiama nei partner angosce specifiche, ad esempio, legate per un partner alla solitudine, all’abbandono, alla mancanza, al bisogno di trovare se stessi, ecc. e per l’altro, magari, legate all’essere fagocitato o soffocato. Sono le nostre paure più antiche. Ma se la coppia, con le sue risorse, riesce a trovare il sostegno per conoscerle, amarle e condividerle il senso della “morte” si trasforma in rinascita. La fame è una benedizione per la creatività della coppia, ma se non crea condivisione può anche far crescere isolamento ed estraneità. L’aggressività orale è uno dei modi in cui teniamo legato l’altro ad un nostro indefinito bisogno negandogli il diritto di libertà e rinunciando al contempo al nostro stesso valore: questo ci serve per evitare la percezione dolorosa della nostra più intima solitudine. Pretendere, lamentarmi, arrabbiarmi o aspettarmi che il partner faccia come voglio diventa un modo per evitare di sentire il vuoto. A quel punto è indifferente il cibo che mangio, in primo piano c’è la necessità di “prendere e riempire”. Non ho più libertà perché dipendo dall’altro per i miei bisogni. Prevale la paura, viene meno il coraggio necessario per esercitare un’aggressività orientata allo scambio. In queste situazioni d’ansia usiamo la bocca per tranquillizzarci anche se questa aggressività orale inibisce altre possibili forme di contatto con l’ambiente: è il caso di chi mangia molto e voracemente, fuma una sigaretta dietro l’altra, non può fare a meno delle caramelle, impara a memoria la spiegazione e vuole impossessarsi delle idee, valori o atteggiamenti altrui senza la capacità di differenziarsi per autoconoscersi. Nei casi estremi entriamo nell’area degli eccessi e delle dipendenze (alcol, droghe, promiscuità, fitness, disciplina, spiritualità e macrobiotica, ecc.). Nell’esistenza dell’individuo, se la fame non si trasforma in progetto di vita che alimenta la nostra anima, allora gli eccessi sono un modo per sentire vivo il corpo e provare un sollievo, o una qualche sensazione, qualsiasi sia. Nelle relazioni, la funzione io è compromessa, la persona fa in modo che sia l’ambiente a venire verso di lei e soddisfare i suoi bisogni senza un’azione diretta su di esso. La persona non chiederà all’altro affetto, ma cercherà di ottenerlo attraverso forme più manipolatorie. Oppure attiverà una richiesta di amore che in realtà è ambivalente in quanto non ammette che un’unica forma di risposta. È una domanda falsa, che nasconde la pretesa che l’altro sia come non è, può essere nella coppia una forma di violenza e di negazione della libertà molto forte. 10 Pag 10 Num 1-II/aprile 2013 L’altro, infatti, ha il diritto di regolare le distanze e rifiutare le nostre richieste, pur stando nella relazione. Le persone cambiano nel tempo e hanno bisogno di momenti di riflessione. Questo, per la coppia, significa acquisire una difficile competenza nello stare insieme nei momenti di crisi. Queste difficoltà relazionali emergono, ad esempio, quando si passa dalla fase dell’innamoramento a quella della familiarità. Ora il compito è quello di accettare la “bruttezza” o il limite del partner (o della vita) che altro non sono se non lo specchio delle nostre paure. Quando la paura del corpo dell’altro viene riconosciuta e condivisa aumenta l’intimità, torna il potere e si risveglia l’eros. Eros e morte sono legati. Con “morte” intendo l’esperienza del “sentirsi” dinanzi all’inaffrontabile, al più forte di noi, come può essere la morte di un nostro caro, il venir meno di un legame profondo, o più semplicemente in quei piccoli momenti quotidiani in cui sperimentiamo l’esperienza di un’ingiustizia, dell’umiliazione, dell’essere invasi, della perdita del nostro valore, o la paura della solitudine. Quando queste emozioni entrano nella coppia possono assumere molte sembianze, ad esempio un disturbo nella sfera sessuale (impotenza, frigidità, eiaculazione precoce, ecc.). L’esperienza di questi “momenti estremi”, quando si trasforma in condivisione, può essere un’occasione per l’intimità della coppia. Sapere che la “morte” nella relazione con l’altro tiene sempre in incubazione nuova vita e nuove possibilità, anche quando la propria esistenza è arrivata all’osso, vuol dire poter rilassare il confine di contatto. La morte rappresenta un rischio reale, ma anche il teatro delle nostre ferite e paure (di essere manipolati, invasi, soffocati, umiliati, svalorizzati, di rimanere soli, ecc). Vedere e amare le reciproche ferite è un balsamo per la vergogna, vuol dire uscire da un clima di pretesa, dipendenza, dal senso di essere vittime di una situazione ingiusta, di certo diversa da quello che ci aspettavamo nell’innamoramento e riacquistare il proprio senso di ground e di potere: il campo si riempie improvvisamente di rinnovata eccitazione e aggressività sessuale. Senza la pazienza di attendere che le differenze si mescolino creando prospettive nuove, senza la fluidità dei ruoli in cui ci possiamo permettere di essere in certi momenti piccoli e bisognosi e in altri grandi e accudenti, l’ambiente diventa un latte caldo che non necessita masticazione. Per nutrirci è sufficiente che lo mandiamo giù così com’è, anche tutto d’un fiato, al limite senza neanche guardare; basta ciucciare per colmare un bisogno di nutrimento che può essere molto grande, ma di certo è poco differenziato e quindi rischia di inaridire profondamente la relazione, privarla della sua linfa vitale e creativa, oltre che far del male a noi stessi. In sintesi, l’aggressività orale può essere un’ottima forma di relazione con l’altro che ci consente di conoscerlo da vicino, di costruire l’intimità, di orientarci quando le situazioni non sono chiare, di avere una conoscenza più rapida e talvolta semplificata del campo, di entrare in contatto con la creatività, di creare piacere e sviluppare l’eccitazione. La fame si può trasformare in talento per i singoli e in benedizione per l’intimità delle coppia. Tutto ciò è una risorsa per lo sviluppo dell’aggressività sessuale dove in primo piano non sono gli individui, come nell’aggressività orale, ma il sé; i bisogni non appartengono più solo ai singoli perchè sono generati dal loro contatto, nel contatto si mescolano e trasformano le persone: è il cosidetto “modo medio” (vedi Teoria del Sé, Spagnuolo Lobb, 2011). Quando l’aggressività orale diventa l’unica nostra modalità di relazione, allora smettiamo di vedere l’altro, di rischiare l’incontro, di sentire il gusto di ciò che mangiamo e la carica erotica del contatto. Il sostegno che ci serve sta nello sfondo. Uno sfondo ricco e nutriente, infatti, ci consente di essere autonomi e quindi affrontare la paura e il rischio di perdere l’altro quando la coppia si avventura nella polis (torneremo a casa? di quali contatti ci nutriremo? Quanto ci allontaneremo? Come cambieremo? ci riconosceremo?). Però tutto ciò accresce anche l’eccitazione e mantiene viva la coppia. Autonomia e intimità sono le gambe su cui si regge la coppia (Salonia, 2004). Mentre inizia un nuovo giorno e sulla porta di casa ti saluto posso sentire il peso, il desiderio, l’eccitazione di tutto ciò che ci separa e poi, forse, ci riunirà. E allora faccio a me stessa la domanda più difficile: sono pronta oggi per amare la separazione e la morte che di ogni momento della vita e delle relazioni è sempre l’ombra? BIBLIOGRAFIA Salonia G., Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, tempo e parola, Argo Edizioni, 2004, Ragusa. Spagnuolo Lobb M., Il now for next in psicoterapia, Franco Angeli, 2011, Milano. 11 Pag 11 Num 2/aprile 2013 Per un’antropologia della coppia (di terapeuti). Monica Prato La co-conduzione di una seduta di coppia comporta una maggiore complessità nella struttura del setting rispetto a quanto avviene in un colloquio terapeutico tra due persone. Se nella terapia individuale le dinamiche transferali si risolvono all’interno di un binomio (pazienteterapeuta), nel lavoro condotto da una coppia di terapeuti con una coppia di persone, le stesse si moltiplicano in articolati intrecci disposti su livelli relazionali diversi. Volendo farsi aiutare da un calcolo matematico potremmo dire che all’interno della stanza di terapia saranno presenti almeno quattro IO, quattro TU e dodici NOI, per un totale di circa venti livelli relazionali diversi. Ovviamente questa è una semplificazione che però ci permette di vedere la molteplicità delle interazioni presenti nel campo. Cosa succede poi quando la coppia di terapeuti è una coppia anche nella vita? Se è vero che come coppia di terapeuti occorre trovare un modo per lavorare insieme rispettando bisogni e tempi di ciascuno mantenendo saldi ruoli e specificità individuali, quali sono i rischi/pericoli ma forse anche i vantaggi da tenere in considerazione? L’annoso problema della gestione del confine tra il personale e il professionale diventa in una situazione come questa particolarmente evidente: il rischio di inquinamento è altissimo, ancora di più in un approccio come il nostro che struttura parte del lavoro partendo dai vissuti controtransferali del terapaueta. Come può per esempio la coppia di terapeuti condurre una seduta, se sta affrontando un conflitto nella propria vita privata? E’ possibile portare quest’esperienza all’interno del lavoro, in un approccio in cui il terapeuta non sta dietro le quinte, ma alla ribalta a tu per tu con il paziente oppure è meglio tenere fuori dal setting l’eventuale ostilità in atto? Ma anche scegliendo la non condivisione, come gestire umori e sentimenti rivolti al proprio partner che all’interno dell’incontro terapeutico veste i panni di co-conduttore? Durante lo spazio mensile di intervisione di gruppo abbiamo cercato, partendo da un caso clinico, di delineare alcuni aspetti del lavoro di co-conduzione in terapia con le coppie, ponendo le questioni sopra emerse a due colleghi uniti nel lavoro ma anche nella vita, sperimentando nel qui e ora del nostro incontro la delicatezza e la complessità dell’argomento. Il punto di partenza da cui si è sviluppato il primo confronto è stata la questione del ritmo e della sintonizzazione della coppia terapeutica. Se non c’è armonia nello scambio di conduzione, non è possibile sostenere le persone nel percorso di crescita che hanno intrapreso. I due terapeuti si alternano nella conduzione della seduta intervallando momenti in cui chi porta avanti in prima linea il lavoro è sostenuto dal co-conduttore che rimane sullo sfondo e presta attenzione alle dinamiche in gioco in quel momento il quale a sua volta può emergere e riprendere le redini del lavoro partendo da ciò che ha osservato e permettendo al primo di andare sullo sfondo. Questo duplice incastro, che vede l’alternarsi di due persone diverse, favorisce la costruzione continua di una “posizione figura” e una “posizione sfondo” che intrecciandosi creano la trama dell’incontro. Per permettere la fluidità di questo scambio il terapeuta deve aver imparato ad affidare all’altro il proprio lavoro, fidandosi del fatto che qualunque strada il collega sceglierà di intraprendere sarà quella giusta per quella seduta e per quel momento. “Perché ci sia un contatto, è necessario che una figura si stacchi dallo sfondo organismo/ambiente. Questa figura costituisce la dominanza – momentanea – del campo e attinge i suoi poteri energizzanti sia dal bisogno sia dall’energia dell’organismo come possibilità e risorse dell’ambiente” (Jean –Marie Robine, Il rivelarsi di Sé nel contatto, Franco Angeli). 12 Pag 12 Num 1-II/aprile 2013 La dominanza della figura è momentanea cioè temporanea e provvisoria. E’ una fase del processo, che lascia presto il posto a una nuova figura e un nuovo sfondo. Lasciare il controllo, la dominanza e fidarsi dell’altro non è un lavoro da poco però, soprattutto se consideriamo l’ambiente in cui lo scambio avviene. “L’esperienza si svolge in un campo, piuttosto simile a un campo elettrico, carico di sollecitazioni: ovvero volontà, bisogni, preferenze, brame, desideri, giudizi e altre espressioni o manifestazioni dell’essere” (F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, 1997, Astrolabio). In una dimensione così eccitante, le spinte che ne derivano possono portare la coppia di conduttori a perdere solidità e a irrigidirsi su proprie e personali posizioni. La conduzione può trasformarsi così in un gioco di potere, in cui la sfida e la competitività prendono il sopravvento sull’euritmia dello scambio fatta di sguardi e di ascolto. Nella sterilità di questo spazio possono ancora di più intervenire vecchie dinamiche presenti nella coppia di conduzione soprattutto se ci sono sospesi nati al di fuori del setting. Il noi della conduzione può quindi frammentarsi portando alla ribalta le individualità senza possibilità di scambio e di incontro. “Il momento del lavoro è un momento in cui ti riconnetti come coppia. Sei obbligato a guardarti, ascoltarti, ri-sintonizzarti. Il lavoro con le coppie è parallelo al lavoro che noi facciamo con noi. E’ uno dei motivi per stare insieme, è uno spazio per noi, il lavoro è un momento del noi. Un momento creativo, non ripetitivo”. La testimonianza dei due colleghi presenti all’intervisione, ci permette di indagare ulteriormente la complessità del tema. La costruzione di un ponte comunicativo è nel campo. La coppia di terapeuti con la sua esperienza fa da specchio alla coppia di pazienti. La ricerca di un contatto, di un motivo per stare insieme, di un nuovo e rinnovato “noi”, permette di abbandonare posizioni individualiste e di andare verso l’altro per ritornare a se accresciuti, ricchi, ampliati di nuove esperienze. “Senza l’intervento dell’altro, la situazione è senza uscita; senza la generosità di quest’altro, senza il suo dono, un indispensabile che deve divenire presto “dispensabile”, l’impasse resta. Tale è la presenza dello psicoterapeuta. Tale è il divenire dell’incontro terapeutico” (Jean –Marie Robine, Il rivelarsi di Sé nel contatto, 2006, FrancoAngeli). Allo stesso modo nella co-conduzione l’altro è visto come un dono dispensabile, di cui si può fare a meno ma che in quel momento diventa necessario. 13 Pag 13 Num 2/aprile 2013 Convegno SGT: il vento dell’Est porta tante novità. Emanuele Gatti È ormai quasi definitivo il programma del prossimo convegno della nostra scuola, che si terrà, per chi conosce già Udine, nel centro convegni di via Treppo. Il nostro momento di assemblea plenaria ci riserva quest’anno alcune novità che promettono di risvegliare una gestaltica eccitazione. La prima è che due delle quattro giornate, e in particolare il giovedì pomeriggio e il venerdì, saranno aperte anche al pubblico esterno alla SGT. Il prezzo di partecipazione è particolarmente incentivante: 50 euro per entrambe le giornate. Può quindi essere l’occasione per invitare a partecipare simpatizzanti della Gestalt, curiosi e compagni gelosi! La seconda innovazione rispecchia in pieno la cultura dei friulani, sempre pronti a incontrarsi davanti a un “bel bicchiere”: i process groups non si terranno all’interno del centro convegni, bensì nei bar del centro udinese. Non ci sarà l’obbligo di ordinazione, ma gli amanti del bel vivere scopriranno qualche tentazione: il Friuli è la terra del bere, con diversi vini tipici, e uno spritz costa appena dai 2 ai 4 euro. La terza novità va davvero nella direzione del confronto e della disponibilità, come spesso diciamo, a metterci in gioco: sono programmate tre sedute che si terranno davanti al pubblico, svolte dai formatori; alla prima potranno assistere tutti, anche i partecipanti esterni alla scuola, mentre la seconda e la terza saranno idealmente orientate l’una agli psicoterapeuti, l’altra ai counsellors. Vale la pena di ricordare che, oltre alla nostra rosa di formatori dalle tre sedi della scuola (in ordine rigorosamente alfabetico: Massimo Biasin, Marilisa Cazzaniga, Carla Cerrini, Maria Grazia Fiorini, Franco Gnudi, Flavia Mahnic, Carla Martinetto, Mariano Pizzimenti, Carla Valente), avremo anche in quest’occasione due formatori di fama internazionale: Hilda Courtney e Christine Jacobsgaard. Il programma definitivo vi giungerà a breve via e-mail. Ci sono ancora spazi per workshops tenuti dagli allievi e dagli ex-allievi, per cui tutti gli interessati a sperimentarsi nella conduzione di un lavoro sono invitati a presentare la propria proposta entro il 7 Aprile sotto forma di paper (da inviare a [email protected]). Per ogni informazione inerente le iscrizioni, è possibile visionare il sito www.scuolagestaltditorino.it, oppure telefonare al numero 011 883246. È ancora disponibile, infine, qualche posto a dormire presso gli amici e colleghi udinesi (per informazioni, scrivete a [email protected]). Vi aspettiamo! 14 Pag 14 Num 1-II/aprile 2013 Recensioni libri e film Staemmler F.M. (in stampa), Il dolore e la bellezza, in Francesetti G., Ammirata M., Riccamboni S., Sgadari N., Spagnuolo Lobb M. (a cura di), Atti del III Convegno della SIPG, Franco Angeli, Milano. Di Silvia Riccamboni “L'aggressività che risulta da un'offesa percepita può essere compresa come l'evitamento del dolore che la ferita ha causato e come un tentativo di infierire sull'altro”. Nel suo intervento al III Convegno SIPG dedicato a “Il dolore e la bellezza. Dalla psicopatologia all'estetica del contatto”, F.M. Staemmler inquadra l'aggressività come conseguenza del senso di svalutazione vissuto unitamente alla negazione del dolore che tale ferita produce. Quando la sofferenza per non sentirci visti o valorizzati si fa insostenibile, facilmente scegliamo la strada del ritenere l'altro responsabile e lo attacchiamo invece di interrogarci su ciò che stiamo sentendo, elaborare la ferita e così preservare il nostro senso di autostima e la relazione con l'altro. In quanto declinazione di un dolore non elaborato, la rabbia danneggia fisicamente e psicologicamente sia la persona offesa che il presunto responsabile, alimentando una condizione di isolamento e disconnessione. Questo il rischio, secondo Staemmler, di un'accezione positiva dell'aggressività come anche sostenuta tradizionalmente dalla stessa gestalt therapy: la distruzione invece che il ristabilirsi della relazione. Ricordando figure emblematiche del pacifismo quali Gandhi, Martin Luther King e il Dalai Lama, Staemmler insiste sulla possibilità di mantenere la propria dignità in modo fermo ma non aggressivo anche di fronte a gravi affronti: “La crescita personale può solo guadagnarci se ci si confronta adeguatamente col dolore, così che la vulnerabilità psichica sia contenuta o se possibile superata mentre la relazione ristabilita”. Bert Hellinger, Gli ordini dell'amore, 2003, Urra Editore. Di Piergiulio Poli Questo libro é il contrario di un manuale, ma è comunque una buona introduzione alle costellazioni famigliari. Se sei in un momento della vita che hai o vuoi sviluppare pazienza, immergiti con fiducia nelle sue 460 pagine, trascrizione verbatim commentata di tre giorni di lavoro con Bert Hellinger. Ne uscirai come dice la canzone, confuso e felice. Confuso perché avrai assimilato una tale massa di osservazioni fenomenologiche “grezze”, annotazioni, pensieri da sentirti perso e con il forte desiderio di organizzare, ridurre tale massa a un che di più digeribile. Un poco aiuta andare e venire dall’indice, si comincia a intuire una logica sottostante. Resisti alla tentazione di leggere l’ennesimo manuale “introduttivo”, saltando da questo a un altro libro. Se sarai ancora un po’ paziente a breve sarai felice (o almeno soddisfatto/a) perché realizzerai di avere visto attraverso Gli ordini dell’Amore uno scorcio del lavoro di Bert Hellinger e di esserti confrontato intimamente con i suoi principi, di aver indossato i suoi occhiali. Avrai sviluppato una tua comprensione. Avrai incontrato un testo che ti rende partecipe del processo di pensare attraverso l'esperienza vissuta. Io ho compreso che secondo Hellinger la capacità del singolo di avere una buona vita, avere relazioni fruttuose e produrre altra vita dipende dal modo in cui si riconosce, accetta e rispetta l’ordine intergenerazionale in cui è inserito. Questo significa che ogni individuo deve potersi riconoscere come appartenente a un sistema famigliare dotato di storicità. E’ la mancanza di questo riconoscimento che causa l'inaridirsi della vitalità, il rallentamento del suo flusso, il suo trasformarsi in malattia e sofferenza fisica e mentale per il singolo, la sua coppia e la sua famiglia. Questa malattia spesso è presa “in prestito” da un altro membro del sistema, defunto o vivente. Le costellazioni sono un modo per vedere, accettare e muoversi oltre questa sofferenza e malattia. Come gestaltista ho potuto mettere a fuoco una componente sistemica dello sfondo. Mi sono riconosciuto nell’approccio fenomenologico ai fenomeni di campo, nella costante attenzione all’agito nel qui-e-ora del cliente. Rispetto alle costellazioni famigliari continuo a coltivare dubbi fertili: di chi sono le parole dette da un rappresentante durante la costellazione? Sue o del sistema? Parla “davvero” a nome e per conto di un antenato? Continuo a fare costellazioni nonostante questi dubbi, in parte grazie a questi dubbi, e il lavoro da fertili risultati. 15 Pag 15 Num 2/aprile 2013 Seminari e Incontri – SEDE DI TORINO* Incontri Giovedì 25 aprile dalle 10 alle 17.30 seminario di Danze in cerchio "LA METAMORFOSI", conduce Carla Valente. Sabato 11 e domenica 12 maggio seminario "VIAGGIO ATTRAVERSO I CHAKRA CON LE DANZE MEDITATIVE", conduce Carla Valente. Per maggiori info e iscrizioni [email protected] o 3381565574 o scarica le brochure http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2010/10/metam-25-APR-13.pdf http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2010/10/5-Sem-form-chakra-mag-13.pdf Continua la Serie Conferenze Incontro gratuite Lunedì 13 maggio 2013 ore 21. VERGOGNA IN GESTALT : l’importanza di stare sullo sfondo. Conduce Rosanna Cuccia, Psicologa e Psicoterapeuta Lunedì 10 giugno 2013 ore 21. DOVE VA LA COSCIENZA QUANDO IL CERVELLO MUORE? Un’ipotesi neurologica sul morire e sulle esperienze di pre-morte (nde), con le possibili applicazioni educative. Conducono Patrizia Scanu, Psicologa e Gestalt Counselor; Mauro Milanesio, Medico di Medicina generale dell’ASL CN2 del Piemonte, Neuroreflessologo GEMMER http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2010/10/Conf-aprile-giu-13.pdf La partecipazione è gratuita. Si prega segnalare anticipatamente la partecipazione tramite mail a [email protected] o tel&fax 011.883246 Presentazione corso di counseling Sono previste due giornate esperienziali di presentazione al corso DOMENICA 26 MAGGIO ORE 9.30-12.30 14-17 DOMENICA 22 SETTEMBRE ORE 9.30-12.30 14-17 per maggiori informazioni contattare Carla Valente [email protected] o 3381565574 * 16 Pag 16 Num 1-II/aprile 2013 Seminari e Incontri – SEDE DI UDINE* V convegno annuale SGT - L’INCERTEZZA NELLA CORNICE DELLA GESTALT 16-17-18-19 MAGGIO 2013 CENTRO CONVEGNI PAOLINO D’AQUILEIA Via Treppo, 5/b – UDINE Sono aperte le iscrizioni al Convegno annuale della scuola SGT che quest’anno avrà sede ad Udine Scarica il programma e la scheda di iscrizione http://www.scuolagestaltditorino.it/formazione-continua/convegni-2/convegno-2013/ Conferenze gratuite aperte la pubblico Mercoledì 29 MAGGIO 2013 ore 20.30-22.00, ALLA RICERCA DELLA FELICITA’, conducono Maria Grazia Fiorini e Massimo Biasin. L’incontro è gratuito ma è necessaria l’iscrizione. Per info 3479722389 o [email protected] o visita la pagina http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wpcontent/uploads/2010/10/CONFERENZE20131.pdf Presentazione corso di counseling È prevista una giornata di selezione al corso di formazione in gestalt counseling DOMENICA 16 GIUGNO Scarica il volantino con I dettagli http://www.scuolagestaltditorino.it/wordpress/wp-content/uploads/2011/08/GIORNATA-DIPRESENTAZIONE16_6.pdf Stiamo rinnovando il sito internet. Nel caso I link sopra riportati non dovessero funzionare trovate tutte le informazioni sul sito www.scuolagestaltditorino.it