LORD BYRON, poeta e personaggio

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LORD BYRON, poeta e personaggio
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LORD BYRON
POETA O PERSONAGGIO
Irrazionale, stravagante, doloroso, solitario nella furia degli elementi che lo circondano,
tenebroso, bello e tragico, appassionato e un po' cinico, dominato - secondo l'immagine
di Charles Du Bos - da un perenne besoin de fatalité, e ossessionato dalla necessità di
una libertà morale senza confini. Una libertà morale che se pure si carica a volte di un
significato politico si esprime spesso, simbolicamente, attraverso ogni possibile atto di
trasgressione sessuale. Si aggiunga a tutto questo l'esaltazione dell'esotico (dove anche la
Grecia e Roma hanno una forte connotazione esotica) e nel cliché generico del primo
eroe
romantico
si
riconoscerà
anche
il
ritratto
di
lord
Byron.
È difficile dire se in Byron si debba considerare maggiormente il poeta o il personaggio,
entrambi contraddittori e forse proprio per questo rappresentativi di un'epoca il cui
pensiero cominciava a spingersi, dopo Rousseau, a quell'analisi della coscienza
individuale, a quell'affannosa ricerca di un'identità che deriva, con maggiore o minore
consapevolezza, da una visione tragica della vita. Certo i due aspetti sono legati, ma è
più probabile che sia stato il personaggio (in parte costruito) a creare il mito del poeta
Byron, a gettare sulla sua poesia quella luce sulfurea, satanica, cui raramente sono
sfuggiti il critico e il lettore, piuttosto che il poeta con la sua opera a creare, o per lo
meno a rafforzare, il mito del tipico personaggio romantico, del ribelle aristocratico che
nella pienezza di un cieco ottimismo liberale coglie l'angoscia dell'uomo contemporaneo,
erede deluso della Rivoluzione francese cui fra le guerre napoleoniche e il disordinato
progresso industriale appare chiaro il crollo degli orientamenti illuministici.
Non a caso Byron poeta, giudicato nella trama della tradizione, della società e della
cultura inglesi, a parte le infatuazioni del momento assume scarso rilievo, tanto è vero
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che ancora oggi si può dire siano rari i tentativi di una serena analisi critica dei testi e di
un'eventuale rivalutazione letteraria; mentre la sua influenza fu profondissima
nell'Europa “continentale” e in particolare in quei paesi dove si stavano preparando le
rivoluzioni nazionali o dove, anche se era stato raggiunto un assetto sociale
apparentemente stabile, i fermenti ideologici non avevano cessato di minare le coscienze
nel ragionevole dubbio che l'uomo fosse ancora ben lontano da uno stato ideale. Ma
anche volendo porre attenzione soltanto al personaggio Byron come prototipo evidente
dell'uomo romantico sarà necessario distinguere fra i motivi autentici e gli atteggiamenti
istrionici, fra le ragioni che lo spingevano - sia pure inconsciamente, talvolta ad
assumere una maschera (e le ragioni prime andranno ricercate nell'infanzia disagiata,
nell'educazione calvinista, nell'imperfezione fisica, nell'assenza d'amore da parte della
madre), e le cause seconde non meno significative da un punto di vista psicologico, per
le quali, una volta assunta una maschera, il poeta era costretto a mantenerla contro la
propria volontà oppure, secondo il caso, a mutarla coscientemente, con perfetto senso
dell'opportunità del momento. Poiché a Byron non dovette mancare, a dispetto della
natura collerica più che romanticamente appassionata, una natura fredda e calcolatrice in
grado di dominare lo slancio emotivo ogni volta che ciò potesse essere utile a cancellare
o a modificare la figura che egli intendeva esibire pubblicamente. Anche se questo,
probabilmente, fu vero solo all'inizio, prima cioè che il poeta fosse coinvolto nella trama
che si era costruita.
Comunque lo si voglia intendere, resta il fatto che Byron, “alienato dalla sua società e
dalla sua cultura; isolato in un universo senza senso e spinto verso una fine senza senso;
un vulcano, agli occhi dei contemporanei, acceso di fuoco infernale; impulsivo,
incontrollabile, incestuoso, omosessuale, eterosessuale quel che bastava per suscitare
l'invidia di qualsiasi tomo; il più affascinante degli amici e a volte il più indifferente; di
una bellezza eccezionale oscurata forse da una incipiente pinguedine; convinto della
disperazione della condizione umana e tuttavia pronto a morire per la libertà politica
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della Grecia; una mente brillante ma indisciplinata e, nel senso goethiano, veramente
incolta ma di una creatività inesauribile” [1] fu un vero protagonista, ammirato - sia pure
con qualche sospetto - da uomini come Goethe, Foscolo, Schopenhauer e Stendhal; da
altri aspramente accusato di istrionismo e rozzezza (si vedano per esempio i giudizi di
Leopardi); e comunque - a torto o a ragione - simbolo per generazioni di un concetto
eroico, disperato e nello stesso tempo positivo della vita.
LE CIRCOSTANZE E LA DISPOSIZIONE
Fra la prima generazione romantica (Coleridge, Wordsworth) e la seconda (Byron,
Shelley, Keats) la situazione politica europea si era notevolmente mutata. Negli anni di
formazione di Byron, racchiusi fra la Rivoluzione francese e la Santa Alleanza e
caratterizzati dalle lunghe lotte con la repubblica francese e Napoleone, anche in
Inghilterra si assiste a un progressivo rafforzamento delle posizioni reazionarie, e la
guerra che in pratica si protraeva fino dal 1793 ebbe un'influenza negativa - com'era
ovvio - sullo sviluppo sociale della nazione. Come scrisse G. M. Trevelyan, “per le
violente alterazioni che produsse nella vita economica e il suo tono di reazione
antigiacobina contro ogni proposta di riforma e ogni moto di simpatia con le richieste e
le sofferenze dei poveri, la guerra costituiva il peggior clima possibile nei confronti dei
mutamenti sociali e industriali allora in rapido progresso. La moderna squallida città
inglese crebbe allora per corrispondere alle improvvise esigenze del nuovo tipo di
industriale e di costruttore a buon mercato, cui mancò ogni controllo e guida a opera di
un pubblico potere. Un individualismo preponderante, che nessuna idea ispirava se non
il rapido profitto, creò il lurido e volgare modello della moderna vita industriale e di
quante la circonda”. [2]
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E ancora: “Mentre Napoleone scorrazzava per l'Europa, la stravaganza e l'eccentricità
dei nostri 'dandies' raggiungeva il suo acme nei giorni di Brummel il Bello, e la poesia e
la pittura di paesaggio inglese traversavano il momento del loro maggior fulgore.
Wordsworth, il cui genio, in tempo di pace, era stato spronato e turbato dalla
Rivoluzione francese, aveva recuperato in modo così completo il suo equilibrio durante
la lunga guerra da esser capace di esprimere, in parecchie poesie, il filosofico concetto di
"una pace essenziale, che sussiste nel cuore / di un'agitazione senza fine": sentimento più
difficile da suscitare e da custodire nelle circostanze della moderna guerra totalitaria.”
[3] Raramente, almeno dal periodo della rivolta del 1640, le condizioni dei contadini e
degli operai inglesi erano state tanto misere, e raramente la differenza fra le classi sociali
era stata così evidente. In questi anni d'interessi rigidamente divisi il guadagno medio di
un operaio inglese era di undici sterline annue (l'età media di un operaio cotoniero era di
quarant'anni), mentre per il proprietario terriero e per il nuovo industriale la guerra
rappresentò
soltanto
un
cospicuo
aumento
dei
redditi.
L'habeas corpus fu sospeso, qualsiasi associazione operaia fu dichiarata illegale,
qualsiasi tentativo di migliorare le condizioni delle classi non privilegiate fu considerato
vera e propria sedizione. Nel campo di San Pietro, a Manchester, il 16 agosto 1819
sessantamila persone che si erano riunite allo scopo di chiedere il suffragio universale
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furono caricate dalla milizia a cavallo. Si ebbero undici morti. A ricordo del fatto, per
assonanza con Waterloo si diede al luogo il nome di Peterloo. Non è da meravigliarsi
quindi se fu in questo periodo che nacque il socialismo inglese. Né è da meravigliarsi se
l'atteggiamento della nuova generazione romantica si distinse notevolmente da quello
della generazione precedente, che se aveva mostrato qualche entusiasmo per la
Rivoluzione francese si era poi racchiusa nel proprio moralismo di fondo. Il tono di
Byron e di Shelley è raramente solo malinconico. E piuttosto ribelle, appassionato,
tenebroso, anticonformista, ateo, scettico, per quanto questi aspetti possano apparire
contraddittori, e per quanto - in Byron - certo non dettati soltanto da una cosciente
considerazione dello stato attuale delle cose ma anche complicati da vicende personali e
dalla particolare natura del poeta, che si può sospettare sia giunto a volte a crearsi
ostacoli fittizi per alimentare una passione non sempre sicuramente autentica fino a
reagire, poi, da masochista. Non scelse forse, come mediatore-antagonista di se stesso,
l'aristocrazia e la borghesia del suo tempo, quasi cercandone con accanimento il
disprezzo? Poiché è errato che Byron sia stato un “vero” aristocratico, cresciuto in
un'atmosfera di privilegio e di abitudine al potere. Potrebbe essere più esatto dire, forse,
che Byron si servì a un certo punto della sua appartenenza a una classe sociale per
accentuare quegli aspetti contro i quali avrebbe poi potuto scagliare, dall'interno, quelle
invettive che già i suoi gesti esprimevano. Gesti che, mentre ricadevano su di lui,
giungevano a significare una vittoriosa protesta. Ma è possibile che egli abbia voluto
costruire, con determinazione, la figura simbolica tramandata come “prototipo
romantico”, e che l'abbia voluta costruire solo per distruggere, in se stesso e con se
stesso, il simbolo di una condizione inaccettabile? Se la domanda è legittima, la risposta
non è semplice. In alcuni appunti scritti per un romanzo è rintracciabile un frammento
che potrebbe benissimo essere autobiografico: “Evidentemente era preda di qualche
irrimediabile inquietudine; ma che sorgesse dall'ambizione, dall'amore, dal rimorso, dal
dolore, da una o da tutte queste cose, o semplicemente da un temperamento morboso
affine alla malattia, non potei scoprirlo: c'erano circostanze che avrebbero potuto
giustificare l'applicazione di ognuna di queste cause; ma, come ho detto prima, erano
così contraddittorie e contraddette che nessuna potrebbe essere definita con precisione.
Dove c'è mistero, si suppone in genere che debba esservi male: io non so come questo
possa essere, ma in lui certamente c'era il primo, sebbene non mi sia possibile accertare
l'estensione dell'altro.” Com'è ovvio, a costituire il personaggio contribuirono la
disposizione naturale e le circostanze, gli aspetti incidentali della sua vita (il rango
sociale, la bellezza, gli amori regolari e irregolari) e lo Zeitgeist, lo “spirito del tempo”,
quell'ansia cosmica, quella disposizione allo spleen che, trovano nel Werther di Goethe il
prototipo.
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I PRIMI ANNI
George Gordon Byron, nato a Londra il 22 gennaio 1788, discendente di un'antica
famiglia normanna impetuosa e stravagante, ebbe un'infanzia tutt'altro che ricca e felice.
Il padre, il capitano John Byron, morì a Valenciennes nel 1791 (qualcuno ha parlato di
suicidio, ma non vi sono prove), dopo aver dilapidato quasi completamente sia il
patrimonio della prima moglie - da cui aveva avuto una figlia: Augusta sia quello della
seconda. La madre, Catherine Gordon, discendente dalla famiglia reale di Scozia, di
modi provinciali, psichicamente debole, oppressiva, inasprì il carattere del futuro poeta
passando da atteggiamenti di morbosa tenerezza a atteggiamenti di inspiegabile violenza.
Più d'una volta, a quanto pare, schernì ferocemente il figlio per la deformità che lo
affliggeva della nascita. Un'imperfezione ai tendini lo costrinse sempre a zoppicare. In
queste occasioni, al dolore fisico si aggiungeva un profondo senso di vergogna che
raramente, per quanto mascherato, lo abbandonò. Mentre la figura del padre, col tempo,
assumeva valori quasi mitici (è nota la difesa che ne fece il poeta in una lettera del 1823
a J. J. Coulmann per correggere quanto era stato scritto in una premessa alla traduzione
francese delle sue opere), l'insofferenza verso il temperamento materno non cessò mai,
anzi andò accumulandosi, e ancora nel 1804, in una lettera a Augusta, si può leggere fra
altre cose: “Per parte mia non ho nulla da dirti che ti possa divertire, se non una
ripetizione dei miei lamenti contro la mia tormentatrice, il cui atteggiamento diabolico
(perdona se macchio questo foglio con un termine così rude) sembra aumentare con l'età
ed acquistare col tempo nuova forza. Più la conosco e più la mia avversione cresce...
afferma che la odio, che faccio lega con i suoi peggiori nemici, vale a dire tu, lady
Carlisle e Mr. Hanson, e poiché non fingo né la contraddico siamo tutti onorati da una
numerosissima serie di epiteti, alcuni troppo grossolani perché li possa ripetere...” Il
periodo trascorso nella squallida casa di Aberdeen dove la signora Byron si era trasferita
alla morte del marito, in un'atmosfera di miseria, di tristezza e d'isterismo dovette essere
in incubo. Furono gli anni oscuri di quelle “fatali esperienza cui Byron spesso fece
riferimento in tono sempre misterioso e che devono essere associate con ogni probabilità
alla “nurse” scozzese May Gray: “Le mie passioni si svilupparono molto presto, così
presto che pochi mi crederebbero se dovessi precisare il periodo e i fatti. Forse fu questa
una delle ragioni che causarono l'anticipata malinconia dei miei pensieri, avendo
anticipato la vita.” E si comprende come Byron sia stato spinto fin dall'infanzia a cercare
un difficile equilibrio nel più violento ed estroverso anticonformismo e in definitiva in
una continua contemplazione di sé. Nel 1798, alla morte del prozio William, quinto lord
Byron, gli spettò il titolo di baronetto, ma i beni che accompagnavano il titolo non erano
tali da potergli offrire molto più che diritti formali, sebbene gli permettessero almeno
un'educazione pari al suo rango. La condizione economica familiare restò in qualche
modo precaria, anche perché è difficile dire che la madre e il figlio fossero buoni
amministratori, mentre la necessità di mantenere un decoro pari al titolo acquisito (e alle
esigenze personali, poi, del poeta) rendeva la situazione ancora più tempestosa. Byron
non poteva sottrarsi all'ingranaggio delle convenzioni aristocratiche, né tanto meno a se
stesso.
Furono certamente tutte queste circostanze a contribuire fortemente, unite al
temperamento già difficile e sensibile del ragazzo, a quegli oscuri “vizi privati” di cui si
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è sempre parlato a proposito di Byron, sebbene non siano mai state portate prove
concrete che le sue propensioni omosessuali - per altro, a quanto sembra, limitate a un
periodo molto giovanile - abbiano avuto inizio durante gli anni di scuola ad Harrow,
dove si iscrisse nel 1801. Doveva ancora incontrare la sorellastra Augusta ed
esperimentare la prima delusione amorosa con Mary Chaworth, prima di entrare, nel
1805, al Trinity College di Cambridge ed essere attratto dal giovane compagno di studi
John Edleston: “una passione e un amore violento, sebbene puro”, come riferì più tardi
egli stesso. Intanto si andavano organizzando, “nel periodo più romantico della mia
vita”, quelle prove poetiche che apparvero, stampate privatamente nel 1806, con il titolo
Fugitive Pièces (Frammenti fuggitivi) seguite l'anno successivo da Hours of Idleness
(Ore d'ozio), indicative se non altro di uno stato d'animo, dell'atmosfera delle sere di
Cambridge trascorse con gli amici (con Edward Long in particolare) a far della musica o
a chiacchierare pigramente bevendo “soda”. Fu questo secondo volume di versi,
preceduto da una nota estremamente egocentrica e descritto in una lettera come una
raccolta che doveva “essere lodata dai recensori, ammirata dalle duchesse e venduta da
tutti i librai della metropoli”, a provocare una stroncatura sulla “Edinburgh Review” e la
conseguente satira di Byron pubblicata nel 1809 con il titolo English Bards and Scotch
Reviewers (Bardi inglesi e recensori scozzesi), dove si manifesta apertamente per la
prima volta l'orgoglio, la stravaganza, la violenza, il gusto dell'invettiva. La timidezza, il
riserbo, la scontrosità del “bambino piuttosto brutto e con una evidente tendenza
all'obesità”, così era stato descritto, erano superati (almeno in apparenza, poiché
conosciamo la reazione del timido), e ormai la figura di Byron si stava precisando.
Conscio della debolezza fisica conseguenza della sua deformazione agli arti inferiori, il
poeta non poteva accontentarsi di un ruolo puramente letterario. Cominciò ad impegnarsi
in vari sport, (il nuoto, il pugilato) e a costruirsi come personaggio. I suoi contatti con la
vita sociale aristocratica londinese si fecero più frequenti. Ebbe bisogno di cavalli, di
cani, di servitù, e nei 1808, lasciata Cambridge da pochi mesi, i suoi debiti erano già
saliti a dodicimila sterline. Per molti, più che un vero interesse per l'avventura fu la
convinzione che la vita all'estero potesse essere meno dispendiosa a spingerlo al gran
tour, per quanto un viaggio sul continente era allora considerato indispensabile per
l'educazione di un nobile, e rientrava quindi nella prassi.
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IL “GRAND TOUR” E IL PELLEGRINAGGIO
DEL GIOVANE AROLDO
Il 2 luglio del 1809 il poeta lasciò l'Inghilterra con l'amico John Cam Hobhouse, e
insieme raggiunsero Lisbona, attraversarono la Spagna fino a Gibilterra, e, dopo aver
toccato Malta, sbarcarono in Albania. Visitarono All Pascià. Trascorsero l'inverno a
Atene alloggiati in casa di una vedova la cui figlia, Teresa Macri, verrà celebrata dal
poeta come “la fanciulla d'Atene”, e passarono poi a Costantinopoli, dove si divisero.
Dopo un altro inverno trascorso a Atene Byron rientrò in Inghilterra. Era il luglio dei
1811. A un certo punto del suo diario il poeta scriverà: “Amo l'energia, anche l'energia
animale, d'ogni specie; e ho bisogno di entrambe: dell'energia della mente e dell'energia
del corpo.” Nei due anni del grand tour, per quanto il tono lieve 4 e divertito delle prime
lettere non sembri corrispondere molto al tono che ci si potrebbe aspettare conoscendo ora - il ritratto tenebroso di sé lasciato da Byron, si direbbe che il poeta mettesse a punto
quegli aspetti (energia della mente ed energia del corpo) che contribuirono fortemente a
farne uno splendido irregolare. Compresi i “vizi privati”. Dominato da un'ansia che oggi
tendiamo a riconoscere come “tipicamente romantica” (“genio e sregolatezza”),
corteggia qualche ragazza in Spagna, a Malta ha un'avventura con la signora Spencer
Smith (la “Florence” del Giovane Aroldo), a Atene si invaghisce di un ragazzo, Nicolò
Giraud, a cui nel 1811 lascia per testamento settemila sterline (lascito soppresso in un
testamento successivo), e c'erano state prima la già citata “fanciulla d'Atene” e tre
sorelle, “tutte e tre al di sotto dei quindici anni”. Attraversa a nuoto l'Ellesponto, e
intanto scrive, con lo stesso piglio e con la stessa facilità con cui agisce. Come ha notato
Emilio Cecchi, che per quanto abbia malignamente esagerato, ha afferrato con molta
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acutezza i lati negativi del poeta, “i versi gli furono un abbellimento, un esercizio di
destrezza, come il tiro alla pistola, il nuoto, il cavalcare”. Sappiamo infatti che “compose
Lara, la notte, spogliandosi di ritorno dai balli mascherati nell'inverno del 1814
particolarmente orgiastico. La Sposa di Abydo fu scritta in quattro giorni; il Corsaro in
dieci. Intese l'arte come la intendevano in certe corti provinciali del rinascimento: solo
che egli era a un tempo l'artista e il mecenate che faceva lavorar l'artista per balocco,
senza pigliano sul serio” (Cecchi). In certo senso, a giudicare dal fatto che si mostrò
piuttosto incerto sull'opportunità di pubblicano, preferendogli il poemetto satirico Hints
from Horace (Accenni da Orazio) piuttosto tedioso, Byron non dovette prendere molto
sul serio il suo Childe Harold's Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo), i cui
primi due canti erano stati portati a termine a Smirne nel marzo del 1810. Fu invece
proprio questo poema autobiografico in stanze spenseriane a dare a Byron una celebrità
inattesa e senza precedenti. “Mi sono svegliato... e mi sono trovato famoso”. Ma già un
successo non indifferente il poeta lo aveva raggiunto ii 27 febbraio del 1812 con il suo
discorso alla Camera dei Lords contro i provvedimenti ancora più gravi che si
intendevano prendere per soffocare i disordini causati dalla crescente disoccupazione
nell'Inghilterra del nord. E fu un discorso, sebbene qua e là piuttosto retorico e facile,
non privo di vigore e assai indicativo del temperamento byroniano. Basta vederne un
frammento: “Ho attraversato il teatro della guerra nella penisola; sono stato in alcune
delle provincie più oppresse della Turchia; eppure mai, sotto i più dispotici governi
infedeli ho scorto la miseria così squallida come quella che ho visto al mio ritorno,
proprio nel cuore di un paese cristiano. E quali sono i vostri rimedi? Dopo mesi di
inazione, e mesi di azione peggiore dell'inattività, finalmente ecco il grande specifico, la
sempre efficace panacea di tutti i medici dello Stato... Dopo aver sentito il polso e scosso
la testa sul paziente, con la prescrizione della solita ricetta d'acqua calda e salassi l'acqua calda della vostra stupida polizia e il bisturi delle vostre forze militari - queste
convulsioni devono aver termine nella morte. A parte l'evidente ingiustizia e la sicura
inutilità del progetto, non vi sono pene capitali sufficienti nei vostri statuti? Non c'è
abbastanza sangue nel vostro codice penale, che debba esserne versato ancora di più,
così che salga fino al cielo e testimoni contro di voi? Come potrete portare a effetto
questo progetto? Potete forse mettere in prigione un'intera nazione?...” Pochi giorni dopo
(secondo alcuni il 29 febbraio, secondo altri il 10 marzo) l'editore Murray di Londra
pubblicò i primi due canti del Giovane Aroldo. Qui Byron, nel racconto del suo viaggio
da Lisbona a Atene espresso in toni tutti fondati sul sentimento e sull'esclamazione, in
modi compositivi fluenti e spesso piacevoli ma certo non privi di inesperienza ritmica, in
uno slancio continuo e sostenuto in cui si possono ravvisare - nello stesso tempo soluzioni coraggiose e banalità d'ogni sorta, riuscì ad esprimere esattamente il
personaggio malinconico e ribelle, misantropo e ambizioso, l'esule volontario nostalgico
di un passato eroico, deluso da un presente meschino, che già era stato impostato dai
primi romantici.
Sperimentò la pienezza della Sazietà:
Odiò restare nella sua terra nativa, che gli parve
Assai più solitaria della triste cella
Dell'eremita. Poiché aveva percorso il lungo labirinto.
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Del Peccato, né mai aveva espiato il male fatto,
Aveva sospirato a molte ma anta una sola,
E quella amata, ahimè, non fu mai sua.
Con in più un'inquietudine nuova, come nota Mario Praz, e l'apparente aderenza a una
situazione reale non solo autobiografica, dell'individuo come della società. Né va
sottovalutato il fatto, a giustificare il successo del poema, che in quegli anni era di moda
la letteratura di viaggio e d'avventura, il gusto dell'esotico, per cui Byron si trovò ad aver
scritto proprio ciò che ci si attendeva qualcuno scrivesse. Tutt'altro che perfetto (d'altra
parte, per seguire Emilio Cecchi, “benedetto quando si lasciava passivamente all’istinto,
si dava nella sua immediatezza e contraddittorietà, ficcando in una sorta di giornale
poetico, di zibaldone, quanto giorno per giorno gli frullava pel capo”), il Giovane
Aroldo, aumentato di un terzo canto nel 1816 e completato con un quarto canto nel 1818,
rimane l'esempio più rappresentativo dei pregi e dei difetti dell'atteggiamento byroniano
nel periodo che precede la sua definitiva partenza dall'Inghilterra, anche se è un luogo
comune affermare che esista un netto stacco fra le opere di questo periodo e le opere
successive. In realtà Byron oscillò fin dall'inizio fra un certo razionalismo classico che
gli derivava da Pope e l'abbandono romantico, così come si possono rintracciare,
sebbene poco marcati, elementi satirici anche nei passi romantici, ed elementi romantici
nelle sue satire.
AUGUSTA E IL MATRIMONIO
Intanto nell'agosto del 1811 gli era morta la madre,
e per quanto i suoi rapporti con lei fossero stati improntati - a dir poco - a una netta
insofferenza, almeno nella sua immaginazione i legami familiari dovevano avere una
tale importanza che Byron fu assalito da un senso di rimorso apparentemente
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inspiegabile. Questo lutto, aggiunto alla morte per annegamento dell'amico Matthews,
contribuì a portare il poeta alla convinzione che “qualche maledizione pesa su di me e
sui miei”, e a rafforzare in lui quella tristezza - e il cinismo che prese a sovrapporre
all'autentica sofferenza - che aveva pubblicamente sottolineato nel poema narrativo
descrivendosi come “il cupo viaggiatore”, “il freddo straniero” dal “cuore di marmo”. Le
porte della società londinese gli si erano spalancate quasi all'improvviso. Diventato un
homme à bonne fortune passò da un'avventura all'altra, ma se la relazione con la
brillante e alla moda Caroline Lamb (“... è difficile dire che avesse qualche particolare
attrattiva personale. La sua figura, sebbene elegante, era troppo sottile per essere
apprezzabile, e mancava di quella pienezza che vanamente l'eleganza cerca di sostituire.
Ma era, comunque, giovane.., possedeva una notevolissima vivacità mentale, e una
immaginazione resa più viva dalla lettura di romanzi...”) lo rese oggetto di invidia da
parte degli amici; il rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta (“il solo amore del
quale Byron non si confessi... immediatamente arcistufo”) suscitò - com'è ovvio - lo
scandalo, e rese il personaggio ancora più tenebroso e satanico. Su questo rapporto
sembrerebbe poco pietoso e opportuno discutere ancora dopo tanto, forse troppo, di cui
si è scritto, se il poeta stesso non lo avesse ostentato quasi in cerca di morbosa
ammirazione e anche adombrato in alcune opere (per esempio in Manfredi), così da
farne un elemento di rilevante importanza. Furono certamente numerose le ragioni che
portarono Byron all'incesto, in parte dovute alle circostanze (il poeta, che sempre aveva
trovato in Augusta - ora signora Leigh - una confidente comprensiva e affettuosa, dopo
la morte della madre si trovò a vivere vicino a lei molto più di quanto fosse mai accaduto
prima) e in parte dovute al suo besoin de fatalité, alla sua volontaria acquiescenza a quel
destino familiare di passione e violenza e sregolatezza da cui era ossessionato e che non
fece mai nulla per evitare, poiché l'evitarlo gli avrebbe probabilmente impedito di essere
quell'eroe da leggenda - nobile eroe segnato da una tenebrosa eredità - che egli amava
apparire. E ciò non significa, nella perpetua contraddizione, che veramente non ne
soffrisse. Fatto è che questa relazione con la sorellastra vi fu, e lo testimoniano molte
allusioni e molte lettere del poeta, che ancora nel 1819, da Venezia, scrive a Augusta:
“Non ho mai cessato né posso cessare di provare quell'attaccamento perfetto e illimitato
che mi legò e che mi lega a te - e che mi rende completamente incapace di vero amore
per qualsiasi altro essere umano...”. E nella Epistola a Augusta:
Sorella mia! mia dolce sorella! vi fosse
Un nome ancora più caro e più puro
Quello sarebbe il tuo.
Monti e mari ci dividono, ma io
Non chiedo lacrime, ma tenerezza
In risposta alle mie: dovunque io vada
Tu per me resti uguale - un amato rimorso
Che non mi lascerà. Eppure
Vi sono due cose nel mio destino,
Un mondo in cui vagare, e una casa con te.
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Al di là, in questo caso, di qualsiasi facile illazione, si dovrà dire che si trattò di una
passione autentica, forse la sola profonda, e che anche il dolore e il rimorso più tardi
confessati furono veri. Byron si dovette rendere conto d'avere oltrepassato il segno e si
lasciò convincere da alcuni amici a cercare un nuovo interesse sentimentale, e magari a
sposarsi. Ed ecco subito, di nuovo, emergere il cinismo: “Tutto sommato, bisognerà
ridursi al matrimonio. E non posso figurarmi nulla di più incantevole, dopo sposato, che
andare a vivere in campagna; e ammazzare il tempo leggiucchiando il giornale locale e
abbracciando la cameriera di mia moglie”, si legge in una lettera a Moore. E la moglie,
che dovette sopportare questo trattamento e insulti ancora peggiori (brutalità, iracondia,
ubriachezza, indifferenza, infedeltà), fu Anna Isabella Milbanke. Il matrimonio,
celebrato nel gennaio del 1815, durò ben poco. E non, come si potrebbe credere, perché
la moglie fosse venuta a conoscenza della relazione con Augusta (anzi, dietro
assicurazione che questo rapporto era stato interrotto lady Byron accordò alla cognata
perdono e protezione), ma a causa dei continui maltrattamenti subiti, dell'atteggiamento
del poeta nei suoi confronti anche dopo la nascita della figlia cui fu posto il nome di
Augusta Ada. Finché pensò che Byron fosse mentalmente malato sopportò le sue furie,
ma quando ebbe da un medico la precisa assicurazione che il poeta era completamente
responsabile delle proprie azioni chiese la separazione: la ottenne, dopo qualche
istrionica protesta, nel gennaio del 1816. Nell'aprile dello stesso anno, dopo che Claire
Clairmont gli si offri come amante, Byron lasciò l'Inghilterra per sempre.
LE “OPERE INGLESI”
Fra il ritorno dal grand tour e il definitivo abbandono dell'Inghilterra, fra i tanti amori
leciti e illeciti e le diverse esplosioni eccentriche (“Se non fosse stato in fondo all'anima
un dandy oggi del Byron non ci sarebbe da ricordare più nulla”, notò malignamente il
Beerbohm), Byron scrisse seguendo in un certo senso il filone del Giovane Aroldo una
serie di racconti in versi. I cosiddetti “racconti orientali” The Giaour (Il Giaurro, 1813),
The Bride of Abydos (La sposa di Abydo, 1813) e The Corsair (Il corsaro, 1814), poi
Lara (1814), The Siege of Corinth (L'assedio di Corinto, 1816) e Parisina (1816)
nonché alcune poesie fra cui varrà la pena ricordare She Walks in Beauty (Ella
cammina ravvolta di bellezza), If That High World (Se quel mondo supremo), Oh!
snatched Away in Beauty's Bloom (Oh! divelta nel fiore della sua bellezza), Sun of the
Sleeplees! (Il sole degli insonni!) e Stanzas for Music (Stanze per musica).
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Ciò che colpisce in particolare nei racconti in versi - a parte l'ovvia e insistita
ambientazione esotica, il linguaggio melodrammatico che rischia sempre e spesso
raggiunge il risibile, l'assurdità delle situazioni e l'inconsistenza psicologica dei
personaggi (il tono generale è quello dei peggiori libretti per opera lirica, del
romanzaccio d'appendice e di certi film di Rodolfo Valentino) ciò che colpisce ma non
meraviglia, conoscendo ormai il poeta, è la più assoluta soggettività d'intenzioni e di
sviluppo (quasi una incapacità congenita a comprendere la più elementare reazione
umana), la più completa astrazione dal mondo e dal tempo vissuti da Byron, e, sempre,
un più o meno scoperto riferimento alla figura dell'autore, a quello autentico come a
quello in continua costruzione. La continua messa a punto di una autobiografia
romanzesca.
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Byron vuol essere Lara, Byron vuoi essere il corsaro come saranno Byron anche
Manfredi e Caino (e non ha nessuna importanza che il poeta abbia una volta,
timidamente, protestato contro l'identificazione con i suoi personaggi), così come non è
casuale, a proposito di questa possibilità di identificazione, che due di questi racconti in
versi d'amore e morte e mistero abbiano per tema un incesto. Reale in Parisina,
supposto ne La sposa di Abydo: “L'altra notte ho finito Zuleika (La sposa di Abydo), il
mio secondo Racconto Turco. Credo sia stata la sua composizione a tenermi in vita poiché il racconto è stato scritto per tener lontani i miei pensieri dal ricordo del Caro,
sacro
nome,
che
mai
tu
sia
rivelato...”.
Per mostrare quale sia il tono di questi racconti, e come qua e là vengano ad inserirsi
apostrofi occasionali alla perduta libertà dei popoli, saranno sufficienti poche citazioni
da Il Giaurro, nella versione ottocentesca del Mazzoni:
Tal questa terra è ancor, tale è la Grecia,
Ahi ma Grecia che fu! sì spenta e bella,
Sì vaga e fredda insiem, che, d'alma priva,
Di sé innamora e raccapriccia a un tempo.
Sì, l'obblio di te stessa a le codarde
Tue catene t'addusse e a lo spietato
Giogo t'assoggettò de' tuoi tiranni
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Chi vien su negro corridor tonante,
Che l'ale al piè, che rallentato ha il freno?
Tremano al suon de le ferrate piante
Sotto, intorno, lontan, l'aere e il terreno;
Il fulmineo galoppo e l'incessante
Flagello echeggia e le caverne in seno...
Come alzando la testa il cigno insorge
E con l'ala d'orgoglio agita l'onda
Quando un piede stranier passa ei scorge
De l'azzurro suo lago in su la sponda,
Così Leila il suo collo ancor più bianco,
Armata di beltà, levar solia,
Tal che il folle ardimento erger nemmeno
Ne' suoi vezzi lo sguardo ardito avrìa;
Così nobile e vago era il suo incesso,
Così sacro il suo core a l'amor suo.
L'amor suo? - Fiero Hassan, di', chi fu desso?
Ah che nome sì bel, no, non fu tuo!
Sono di questo tipo, e anche peggiori, i versi che suscitarono tanta ammirazione nei
contemporanei. Forse si trattò, più che altro, di un successo “popolare”; ma la cosa è
comprensibile, se si tien conto degli argomenti e della foga con cui sono esposti. Né
stupisce che le lodi maggiori venissero da altre nazioni, anche favorite dai fatto che - per
quanto possa sembrare strano - la sua opera “non soltanto non perde, ma guadagna se
tradotta in prosa straniera” (Swinburne). Però anche Goethe, portato sempre come
esempio massimo e indiscutibile dell'ammirazione che si ebbe in Europa per il poeta, finì
col rilevare che “le sue poesie sono discorsi parlamentari rientrati”. Ora, nessuno potrà
negare che “in un'epoca che ha perduto il gusto per le qualità che la poesia di Byron
dimostra di possedere è molto arduo fare un'analisi accurata dei suoi vizi e dei suoi
difetti” [6], ma pare altrettanto arduo poter affermare con T.S. Eliot - e proprio a
proposito di alcuni dei versi citati da Il Giaurro - che di fronte a certi passi si possa
trovare una “potente suggestione”. Al massimo, vi si potrà riscontrare una certa
piacevolezza. Si dovrebbe allora, molto crocianamente, antologizzare una serie di
frammenti e passare la scelta, dopo un'astratta distinzione fra la “poesia” e la “non
poesia”' come unica e valida opera byroniana.
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Eppure più giustamente lo stesso Eliot vede come in un poeta come Byron la quantità sia
inevitabile e di conseguenza come il giudizio non possa evitare un'analisi che tenga
conto del fatto che egli scrisse racconti in versi e poemi drammatici, cioè composizioni
in cui anche il soggetto, il peso e la sequenza dei fatti, i personaggi, in una parola la
struttura, hanno importanza dichiarata e fondamentale. Ma se la sua struttura non regge,
se Byron fu sempre sordo alla lingua (“...scrive in una lingua imbalsamata o inerte”) [7]
se le sue poesie brevi anche se non disprezzabili non si distinguono per particolari
qualità da quelle di molti contemporanei minori, quali sono gli aspetti positivi della sua
opera, quali sono le ragioni per cui a Byron spetta una posizione preminente nella storia
della letteratura inglese dell'ottocento? Per poter rispondere con esattezza sarebbero
necessarie molte considerazioni, ma una cosa è certa: Byron mostrò di avere, e lo
traspose nella sua opera, esattamente ciò che il suo tempo richiedeva: il senso
dell'azione.
“... E QUALCOS'ALTRO, PIÙ ASSAI DEL FAUST,
MI FECE SCRIVERE
MANFREDI”
Dopo Waterloo (alla notizia che Napoleone era stato sconfitto, Byron esclamò: “Mi
spiace terribilmente, davvero!”) la pace non aveva portato né quiete né abbondanza
all'Europa. In Inghilterra, alla cessazione delle ordinazioni belliche subentrò una crisi
gravissima. Le industrie fallivano, gli agricoltori erano ridotti alla miseria, gli operai
disoccupati aumentavano. I fermenti ideologici si facevano sempre più scoperti: la messa
a punto del primo progetto di legge operaia, le agitazioni per la riforma elettorale e
parlamentare, la nascita del movimento radicale; e intanto, sul continente, fra
cospirazioni e reazioni, si stavano preparando le lotte per l'indipendenza. È naturale, in
questi anni, che chiunque proclamasse con forza la parola libertà e difendesse la dignità
dell'uomo e si battesse contro ogni vieta e restrittiva convenzione dovesse riscuotere
l'entusiasmo di molti. Per quanto l'atteggiamento di Byron ci possa oggi apparire (e lo
sia anche stato) superficiale e viziato da eccessivo individualismo, e più dettato da una
natura tendente al super-umano che da una cosciente socialità (ma non manca in Byron
l'invettiva diretta e precisa, legata a fatti contingenti), il poeta si schierò apertamente a
fianco delle menti più illuminate e progressiste, e al momento non era necessario che la
sua opera venisse analizzata con sottili e distaccati strumenti critici. L'incontro con
Shelley a Ginevra, che Byron raggiunse dopo aver visitato il campo di battaglia di
Waterloo e aver viaggiato lungo il Reno, fu di grande importanza, poiché servì se non
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altro a chiarire nel poeta quel sentimento di partecipazione umanitaria già mostrato, e a
rafforzare in lui il senso della storia. Inoltre fu Shelley a far conoscere a Byron il Faust
di Goethe, e sappiamo quanto peso ebbe quest'opera nella sua già evidente propensione
agli elementi magici. Gli scritti di questo periodo assumono un tono diverso, rivelano
una diversa maturità. Mentre nei primi due canti del Giovane Aroldo predominava il
paesaggio “evasivo” del Portogallo e della Spagna, delle isole dello Ionio e della Grecia,
e le associazioni con una tematica della libertà dei popoli erano in genere occasionali e
in certo senso astratte, nate dal rimpianto di epoche eroiche lontane, nel terzo canto - pur
persistendo il leitmotiv della transitorietà dell'amore e della futilità della ricerca della
perfezione - emergono con evidenza assai maggiore e significativa le associazioni
storiche e ideologiche: Napoleone, Waterloo, le Alpi, Rousseau. Neppure qui sarà
possibile dire, con il giovane Aroldo, “Io non vivo in me stesso, ma divengo / Parte di
ciò che mi circonda” (III, 72, 1-2). Byron non l’aggiunge, come tante volte riesce a
Shelley, una completa partecipazione con il mondo. Shelley contempla in sé l'universo,
Byron contempla sé nell'universo, sempre. In tanti suoi passaggi, come per esempio in
quello di Waterloo, si sente la volontarietà del sentimento, il riflesso “letterario”.
Arresta! - quella che coi pié calpesti
D'un impero è la polve! E qui sepolte
D'ampio tremuoto le ruine stanno.
Oh! Perché un colossal marmo non sorge
Che additi il loco, o trionfai colonna,
Onde a' più tardi posteri l'orgoglio
Varchi del vincitor? - Sol qui più forte
Favella verità, che tal rimane
Questo campo qual era. - Oh! come il sangue
Corse a torrenti a fecondar le messi!
Questo frutto, e non altro - o tu fra quanti
Bellici campi furo - ultimo e primo
Ebbe il mondo da te; questo e non altro
Da te, che i regi susciti - Vittoria? [8]
Ma con il terzo canto del Giovane Aroldo, un'opera come The Prisoner of Chillon (Il
prigioniero di Chillon, poemetto sul patriota repubblicano Francois de Bonnivard) è un
sintomo, preciso dell'emergenza di certi problemi. Così come Prometheus (Prometeo) e
Manfred (Manfredi, portato a termine a Roma nel 1817) testimoniano dell'accentuarsi
del gigantesco e del tenebroso sotto l'influenza di Shelley e di Goethe e della profonda
impressione che ebbero sul poeta i maestosi paesaggi alpini. “Sono un innamorato della
Natura e un ammiratore della Bellezza. Posso sopportare qualsiasi fatica e dare il
benvenuto ad ogni privazione; e ho contemplato alcuni dei più sublimi spettacoli del
mondo. Ma in tutto questo, il ricordo dell'amarezza e più specialmente della recente
domestica desolazione, che dovrà accompagnarmi per tutta la vita, ha esercitato il suo
triste influsso su di me; qui, né la musica dei pastori, né il fragore della valanga, né i
torrenti, le montagne i ghiacciai, le nuvole, hanno alleggerito per un momento il peso
che grava sul mio cuore, o mi hanno permesso di perdere e dimenticare questa mia
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maledetta identità nella gloria, nella potenza e nella maestà che è intorno, sopra e sotto di
me”, scrive il poeta il 29 settembre 1816 nel suo diario per Augusta; e nel 1820, in una
lettera a Murray da Ravenna, riferendosi al rapporto fra il Faust di Goethe e il suo
Manfredi, Byron afferma fra l'altro che “furono lo Staubach, la Jungfrau e qualcos'altro
più assai del Faust che mi fecero scrivere il Manfredi”. Su questo qualcos'altro che si è
sempre soffermata la critica nel tentativo di comprendere quale sia in realtà la
misteriosa, intima tortura di Manfredi. Ora non è chiaro che si tratti necessariamente,
ancora una volta, di incesto, ma per quanto nel poema drammatico si riscontrino - con
quella goethiana - altre e più probabili influenze (per esempio Marlowe, Beckford,
Chateaubriand) tali da giustificare l'insistenza del poeta sull'originalità della sua opera (e
infatti a un'indagine attenta i personaggi di Faust e di Manfredi risultano caso mai
antitetici); per quanto una figura - come è quella di Manfredi - di uomo solitario
perseguitato da un destino inevitabile, colpevole di un crimine misterioso e inespiabile,
torturato dal rimorso e potente al punto da poter evocare esseri occulti ricorrendo alle
arti magiche, fosse una figura entrata nel patrimonio letterario dell'epoca; per quanto,
insomma, il dramma di Manfredi si possa ragionevolmente intendere anche come
completa creazione fantastica, senza alcun rapporto con fatti e ragioni personali, non si
potrà sottovalutare che si tratta di un dramma di Byron, di un poeta in cui sempre e
scopertamente predomina una tendenza all'espressione autobiografica. Resta il fatto che
realmente vi fu un rapporto fra Byron ed Augusta, forse il più vero e profondo, e a
giudicare anche solo dal frammento di diario citato (e la Lettera ad Augusta è di quel
tempo) almeno in parte si potrà dire che nel rimorso e nel dolore che torturano Manfredi
si specchiano il rimorso e il dolore di Byron. E gli indizi, nel dramma, sono più d'uno.
Nel primo atto: a mezzanotte, in una galleria gotica del suo castello fra i monti,
Manfredi, meditando a voce alta, presenta se stesso:
la Sofferenza dovrebb'essere Maestra all'uomo saggio;
Il Dolore è Conoscenza: coloro che più sanno devono
Più amaramente piangere sulla fatale verità che l'Albero
Del Sapere non è quello della Vita. Filosofia e scienza,
E le sorgenti del Meraviglioso e la saggezza del Mondo.
Tutto ho sperimentato, e nella mia mente è il potere
Di soggiogare ogni cosa a se stessa - ma ciò non vale a nulla...
e subito dopo, evocando gli spiriti dell'universo, afferma che su di lui pesa una
maledizione:
Spiriti della Terra e dell'Aria,
Non mi potrete eludere! Per un potere che è assai più profondo
Di quello invocato, per una tiranna malìa
Che nacque in una stella maledetta, relitto
Ardente di un mondo distrutto, un inferno
Che vaga nell'eterno Spazio; per la maledizione tremenda
Che mi pesa sull'anima, per il pensiero
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Che è in me ed attorno a me, io vi costringo
Alla mia volontà. - Apparite!
E gli spiriti della terra, dell'oceano, dell'aria, della notte, delle montagne, dei venti e della
stella di Manfredi appaiono, ma non possono esaudire il suo desiderio, non hanno il
potere di concedergli l'oblio. Uno degli spiriti assume per un attimo l'aspetto di una
bellissima donna, e Manfredi dopo aver pronunciato poche parole (“Ti abbraccerò / e noi
saremo ancora... Il mio cuore è spezzato!”), cade svenuto mentre una voce pronuncia un
incantesimo:
...e ti condanno
A essere a te stesso il proprio inferno...
Non dormire e non morire
Sarà il tuo destino...
Dopo l'accenno al cacciatore di camosci che lo ha trattenuto dal gettarsi da una rupe e lo
ha accompagnato nella sua capanna (Atto secondo, scena prima: “Le mie offese caddero
su coloro che mi amavano - / Su quelli che amavo di più”) si ha una “confessione” più
ampia, sebbene ancora molto reticente, alla Maga delle Alpi:
Pure ve ne fu Una...
Ella era come me nell'aspetto - i suoi occhi
I suoi capelli - le sue fattezze - tutto, anche il tono
Della sua voce, tutto diceva che era come me...
E la tenerezza - ma questa l'avevo per lei;
E l'umiltà - che io non ebbi mai.
I suoi errori furono miei - le sue virtù solo sue
L'amavo e la distrussi.
Infine, sempre nel secondo atto, di fronte al fantasma di Astarte, l'uomo “di molti
pensieri e di molte azioni nel bene e nel male, estremo in entrambi”, fatale a se stesso e
agli altri, esclama:
Mi amasti troppo,
Così come troppo ti amai; non eravamo
Fatti per torturarci - sebbene fosse
Il più mortale di tutti i peccati
Amarci come ci amammo.
Né chi sia Astarte ci sarà rivelato nel terzo atto dal vecchio servo Manuel, interrotto
dall'arrivo dell'abate
...ma con lui La sola compagna dei suoi sogni
E delle sue veglie... lei che fra tutti gli esseri
Viventi sulla terra sembrava essere l'unica
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Che egli amasse, com’era naturale, dato il vincolo
Di sangue, Lady Astarte, sua...
Ce n'è a sufficienza, come si vede, per presumere che un parallelo con l'episodio di
Augusta sia legittimo. Con Manfredi, ed è indicativo, Byron passa a una struttura
“drammatica”, ma sarebbe un errore voler giudicare quest'opera come si giudica
un'opera scritta per il teatro; se non altro perché il poeta stesso affermò ripetutamente di
provare un profondo disprezzo per le scene. E il non averne tenuto conto che ha
probabilmente portato la critica, più volte, a considerare Manfredi un dramma mancato,
perché assurdo nell'assunto e indifferenziato per quanto riguarda la psicologia o la
concretezza dei personaggi. Si è ormai ripetuto troppe volte come in Byron la poesia si
manifesti come “presenza”' senza gradazioni e contrasti, in un tono alto e uniforme, e
non sarà quindi il caso di insistere su questi aspetti, evidenti anche qui; ma
significherebbe esser legati a un preconcetto voler negare che in Manfredi non esista una
potenza elementare notevole, una rara abilità narrativa (basterebbe un paragone anche
superficiale con uno qualsiasi dei poemetti orientali) e qualità liriche non indifferenti.
Il soggiorno svizzero con Shelley e Claire Clairmont non durò a lungo. In ottobre il
poeta raggiunse l'Italia attraverso il Sempione, si fermò brevemente a Milano e in
novembre era già a Venezia.
VENEZIA: IL CULMINE DEL ROMANTICISMO
BYRONIANO E IL POEMA SATIRICO
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La fama che lo accompagnava ci può apparire oggi inverosimile, e assunse in realtà
dimensioni che toccarono il ridicolo. Basterà citare una pagina del Guerrazzi e un
frammento di lettera di Schopenhauer. “Dicevanlo sangue di re, potentissimo di averi,
d'indole sanguigno, per costume feroce, negli esercizi cavallereschi maestro: era Giorgio
Byron, desiderai vederlo: mi parve Apollo del Vaticano... Se costui è un tristo, pensai,
Dio è un ingannatore; negando risolutamente che il Creatore avesse voluto riporre
un'anima male in sembianze tanto formose...” E Schopenhauer, nel 1819: “Avevo una
lettera di presentazione di Goethe a Byron. In Venezia fui per tre mesi durante la dimora
di Byron. Sempre volevo andare da lui con la lettera di Goethe, quando un giorno vi
rinunciai definitivamente. Con la mia amata ero a passeggio sul Lido, quando la mia
Dulcinea con la più grande eccitazione gridò: 'Ecco il poeta inglese!' Byron mi passò
innanzi a cavallo, e la donna per tutto il giorno non si poté liberare di questa
impressione. Allora decisi di non consegnare la lettera di Goethe. Mi spaventai delle
corna.”
A Venezia, dove a parte alcuni viaggi (a Roma, a Ravenna, a Bologna) rimase fino al
1819, Byron non mancò di tener fede al personaggio. “Ho preso in fitto un ottimo
appartamento nella casa di un 'mercante di Venezia' che è un negoziante sempre
occupato pei suoi affari ed ha una moglie di ventidue anni. Marianna (questo è il suo
nome) è nel suo aspetto completamente simile a un'antilope. Ha occhi grandi, neri,
orientali... la bocca piccola - la pelle chiara e morbida, con una specie di color di etisia la fronte ben fatta: i suoi capelli sono neri, lucidi e inanellati, del colore di quelli di lady
Jersey: la persona è sottile e graziosa”, scrive in una lettera a Moore ii 17 novembre
1816. E poi, a Murray: “Io sono caduto in amore, amore senza fondo”. Gli amori, il
nuoto, le cavalcate ce lo mostrano (ingrassato, pallido, le spalle arrotondate un po'
cadenti, le mani piccole gonfie) sulla scena di palazzo Mocenigo, la nuova dimora, fra
servitori e cani, scimmie, uccelli, un lupo e una volpe, come un principe orientale o un
raffinato decadente annoiato.
Ma mentre in questa specie di harem pazzesco continua a sperimentare con Marianna
Segato (e poi con Margherita Cogni, moglie di un fornaio) il suo “lungo labirinto del
peccato”, non dimentica, con lo stesso impeto, di essere un poeta. Scrive The Lament of
Tasso (Il lamento di Tasso), il quarto canto del Giovane Aroldo; Beppo, A Venetian
Story (Beppo, Una storia veneziana) e comincia Don Juan (Don Giovanni), il suo
capolavoro. “Scaverò la miniera della mia giovinezza fino alle ultime radici del
minerale, e poi - buona notte. Ho vissuto e sono contento” (Lettera a Moore del 2
febbraio 1818).
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E intanto, però, scavava più a fondo anche in se stesso e nei problemi della poesia,
propria e altrui. La presa di coscienza delle sue più vere qualità deve farsi risalire a
questi anni, con la rilettura del Pope sempre ammirato e con il contatto diretto con la
poesia burlesca italiana e con l'ottava rima usata per la prima volta in Beppo.
Al cortese lettor del nostro sobrio clima
Questo modo di scrivere parrà piuttosto esotico;
Ma fu Luigi Pulci il prence della rima
Semiseria...
Il riferimento (Don Juan, IV, 6) è la testimonianza diretta e inequivocabile del nuovo
stile, anche se com'è naturale - altre fonti e suggestioni contribuirono a spingere Byron
verso il poema eroicomico: il Casti de Gli animali parlanti (tradotto in inglese da W. S.
Rose nel 1816), il Tasso e il Berni (“Berni è il padre di tal genere di scritti, che io credo
si adattino benissimo anche nella nostra lingua”: da una lettera del marzo 1818 a
Murray) fra gli italiani; e poi W. Tennant, il primo ad avere introdotto lo stile eroicomico
in Inghilterra, e J. H. Frere, Butler, Boileau. È una tradizione che si accorda
perfettamente al temperamento di Byron, e che gli permette di ritornare per altra via a
Pope, uno dei pochi poeti che egli abbia realmente ammirato, e di avvicinarglisi (e di
superano) come non gli era accaduto mai prima di allora. E sarà il caso di accennare a
certe posizioni critiche assunte dal poeta, tipiche, anche queste, della sua
contraddittorietà di fondo. Spesso limitate e dettate da forti pregiudizi, ma raramente
banali, le sue affermazioni sembrerebbero denunciare una netta scissione fra ispirazioni
e natura: meditative, di “pensiero” (da cui una certa affinità con Shelley) le prime, tutta
improntata al gesto e all'immediatezza la seconda. Una frattura (un equilibrio dei due
aspetti mai raggiunto) che potrebbe in parte spiegare come Byron e Shelley - nelle stesse
circostanze, entrambi in rivolta contro la società del loro tempo - si ritrovino alla fine su
fronti opposti: nichilismo da una parte, socialismo utopistico dall'altra. Una frattura che
porta necessariamente, come accade a Herbert Read, a chiedersi in che misura, e come,
Byron sia un romantico rispetto ai romantici. Nel Diario del 1813 Byron pone Walter
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Scott, “il più inglese dei bardi”, alla sommità di un'ideale piramide di valori, e Coleridge
e Wordsworth molto più in basso, un solo gradino prima degli “altri” indifferenziati. Il
18 novembre 1820, in una lettera a Murray definisce la poesia di Keats “una specie di
masturbazione mentale”. Il 5 settembre 1821 scrive a Octavius Gilchrist: “Quei poveri
idioti dei Laghi... stanno diluendo la letteratura tanto quanto possono”: e fra i “poveri
idioti” sono da annoverare, ancora, Coleridge e Wordsworth. Rivelatrice, e assai più
ragionevole, la lettera a Murray del 17 settembre 1817: “Riguardo alla poesia in generale
sono convinto, quanto più ci penso, che egli e tutti noi - Scott, Southey, Wordsworth,
Moore, Campbell, io - siamo tutti nel falso, l'uno come l'altro, e siamo in un falso
sistema, o sistemi, poetico rivoluzionario, e dal quale nessuno, tranne Rogers e Crabbe, è
libero: e che la presente e le future generazioni saranno finalmente di questa opinione. Io
sono più confermato in questo per avere di recente riletto alcuni dei nostri classici,
particolarmente Pope, che questo ho provato: ho preso le poesie di Moore, le mie e di
alcuni altri, e le ho paragonate tratto per tratto con quelle di Pope, e son rimasto davvero
meravigliato (avrei voluto che non fosse così) e mortificato dall'ineffabile distanza del
senso, dell'armonia, dell'effetto, e anche dell'immaginazione, passione e invenzione che
c'è fra il piccolo uomo della regina Anna e noi del Basso Impero. Dipende da ciò che
allora era tutto Orazio, ed era tutto Claudiano, fra noi, e se dovessi ricominciare mi
modellerei in conformità.”
Da simili giudizi è facile rilevare come in Byron vi fosse una nostalgia fortissima per
quell'ordine, per quella disciplina classica che gli erano negati. Se aderire all'universo e
fondersi con l'universo è un modo di procedere romantico, nota Herbert Read, allora
Byron è un romantico, mentre Wordsworth e Coleridge (“sempre attenti a porre logiche
distinzioni fra uomo e natura”) sono classici. “Ma se scrivere versi di questa facilità e
soavità è essere classici, allora Byron era classico, e i poeti di Kubla Khan e di Michael
erano sperimentalisti romantici, ossessionati da una nozione di corrispondenza tra forma
e sentimento”. [10] Si può non essere d'accordo sull'affermazione che in Byron siano
tipici i passaggi per i quali appare legittimo parlare di “soavità” (e in realtà simili
passaggi sono rarissimi), e si può discutere sui termini usati da Read per distinguere un
atteggiamento classico da uno romantico; ma quel che è certo è che Byron non si è mai
preoccupato molto - prima del Don Juan - di far corrispondere forma e sentimento (forse
sarebbe meglio dire, sia pure con distinzione assai sospetta, forma e contenuto) ed è
quindi significativo che egli abbia raggiunto l'unità espressiva, e il rigore e la disciplina
che ammirava nel “piccolo uomo della regina Anna”, in un poema che è, sì, ancora
romantico, ma non nel senso (nel cliché, se si vuole) in cui il romanticismo, e quello di
Byron in particolare, è stato inteso generalmente. Nella parabola compositiva del poeta,
c'è a questo punto, uno scarto nettissimo che coinvolge intenzioni, forma, struttura,
linguaggio.
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In pratica, il quarto canto del Giovane Aroldo e Don Juan sono contemporanei; ma
mentre nel Giovane Aroldo si sentono ancora, e in qualche caso persino accentuate, le
ragioni che io motivarono fin dall'inizio (“essere divertente e patetico, descrittivo e
sentimentale, tenero e satirico”: avere cioè una varietà di modi e tutti, per così dire, di
tipo emozionale), Don Juan è subito improntato a una misura diversa, a un tono più
controllato. Il Giovane Aroldo (anche nel quarto canto) è ancora un'opera
d'appassionata eloquenza. Si vedano, come esempio, alcuni frammenti su Venezia e
Roma:
Or non più l'eco di Vinegia il verso
Di Torquato ripete, e taciturno
Discorre il gondolier per la laguna.
Crollan di sulla riva i suoi superbi
Palagi: né all'orecchio ormai lusinga
Vien di musiche note. Ahimè! già furo
Suoi dì di gloria! - e pur Vinegia è bella;
Bella è tuttor. - Cadon gl'imperi, e sperse
Le arti sen van - ma non però si spegne
Natura mai: quanto costei diletta
Un dì le fu già non obblìa: divino
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D'ogni piacer costei soggiorno, e della
Terra t'eliso, e dell'Italia incanto.
Roma! Città dell'alma! O tu eletta
Sovra ogni terra a me! Qui si riduca
Quale ha vedovo il cor, e in te s'affissi,
D'imperi che già fur madre diserta!
E nel petto profondo i suoi soffoghi
Levi martiri - Oh! che mia fieno i nostri
Affanni, i nostri guai? - Vien! tu cui sono
Angosce del morir d'un dì le pene;
Vieni, e questi cipressi osserva, e il tristo
Odi gufo ulular, e l'orme imprimi
Sovra troni spezzati, e le ruine
De' templi; - sotto a' nostri pié s'accoglie
Fral come frale è umana argilla - un mondo.
L'edra, il cipresso, i rovi, e le serpenti
Erbe miste, confuse, ed ammontate
Qui crescono: poggetti, ove già turo
Dorate loggie, formansi; crollanti
Archi, colonne scavezzate, e scisse
Volte, e grotte soavi in sotterrane
Converse umide stanze, ove a dilungo
Poiché di notte tenebre le estima
Che a mezzo giunta sia - volteggia il gufo;
Palagi questi son, terme, delubri?
Chi 'l può decida: ché null'altro, nulla,
Fuor che nude pareti, intravedervi
La scienza potrìa. Leva lo sguardo
Al monte Imperial! Così finisce
Ogni grandezza tua, mortal superbo! [12]
E spesso emergono, nel tono concitato ad esclamativo che caratterizza quest'ultimo canto
dominato dal senso delle glorie passate e del presente abbandono, quegli appelli alla
libertà di fronte ai quali gli italiani non potevano restare indifferenti nel clima in cui si
stavano preparando i moti del '21:
Eppur, - tuo sacro, o Libertà, vessillo
Lacero, e innanzi ognor sospinto, al nembo
Simìl che porta il folgore, lottante
Sta contro i venti...
Sfrondata è la tua pianta, e rozza e vile
E della scure al tempestar la scorza.
Ma serba ancor succo vitale - e posti
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Profondamente i bei semi ne furo
Fin nelle boreali ultime terre;
Ond'è che il cor nello sperar s'allieta
D'almi germogli in più ridente aprile. [13]
Pur non negando che nella sua opera vi siano momenti di lirico abbandono (ma sono
scarsi, e la poesia in cui si avvicinò maggiormente a un certa purezza è in verità assai
fragile: “Così mai più andremo vagabondi / Fin nella tarda notte, / Anche se il cuore
continua a amare / E la luna continua a risplendere”' ecc.), Byron non fu né tentò mai di
essere un poeta lirico.
Piuttosto, fra vari modi diversi e talvolta contrastanti finché non riuscì a trovare un
soggetto che richiedesse un linguaggio diretto più secco e quotidiano e permettesse
finalmente il passaggio dall'enfasi al “parlato” senza che si venissero a perdere, per
questo, le possibilità di mantenere quella tematica corrispondente sia alla natura del
poeta sia ai gusti del tempo. In Don Juan, satira epica, si potrebbe dire che gli ingredienti
sono ancora - almeno in buona parte - gli stessi dei racconti in versi o del Giovane
Aroldo (esotismo, passioni, tragedie, donne, corsari, ecc.) ma non più trattati con
intenzioni nostalgiche o evasive. Qui Byron si muove su un terreno concreto, sembra
sapere con esattezza cosa vuole (vede con occhi diversi i paesaggi e la società visitati e
vissuti) e mantenendosi vicino a una realtà mondana (cose, persone, scene e avvenimenti
veri) la sua voce ha un registro tagliente, un timbro severo anche nei momenti di
apparente cinismo. La sua opposizione alla società non è più astratta, i suoi bersagli sono
dichiarati e riconoscibili, così che se il suo modello era la poesia di Pope (poesia togata
anche nell'espressione satirica) ora il modello è superato, ed è opportuno rifarsi piuttosto
all'incisiva denuncia di Swift. Nell'impianto tutto terreno delle avventure di Don
Giovanni dalla Spagna alla Grecia, dall'oriente alla Russia e all'Inghilterra non solo i
personaggi (Donna Giulia, Haidèe, Gulbeyaz, lord Henry, lady Adeline: volta a volta
teneri, appassionati, tragici o distorti in una satira feroce) acquistano un'evidenza mai
prima raggiunta dal poeta, ma persino la natura è restituita più felicemente. Come nota il
Grierson, in certe scene “la natura stessa sembra prendere la penna e scrivere in versi più
semplici e appassionati, sebbene meno solenni, di quelli che dettò a Wordsworth” [14]
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Era la costa - penso fosse la costa che prima
Vi descrivevo - Sì, era quella costa
Al momento serena come il cielo,
Le sabbie immote e l'onde azzurre quiete,
E ogni cosa era in pace, se si esclude il grido
Dell'uccello marino e il balzo del delfino e il lieve
Fremito d'onde minuscole respinte
Da rocce basse o scogliere e rigettate
Contro quei limiti che a stento intimidivano.
Era l'ora più fresca, quando il sole tondo
Affonda rosso dietro il colle azzurro
Che sembra allora il limite del mondo
E la natura immobile recinge di silenzio e d'ombra,
Col rilievo dei monti lontani che da un lato
Si stende a semicerchio, e il mare fondo e freddo
E quieto al lato opposto, e il cielo roseo
Con un'unica stella che splende come un occhio...
Don Juan, come ogni poema che abbia compiutezza, non si presta a citazioni, ma non
sarà inopportuno disporre, a fronte dei momenti più liberi e aperti appena suggeriti, altri
momenti da cui risulta con maggiore evidenza la vena satirica eroicomica, come
nell'episodio del naufragio:
Lo spirito non v'è nulla che calmi
Come il rumme e la vera religione:
Chi spiriti bevea, chi dicea salmi;
Le voci bianche il vento, ed il bordone
Facean l'onde che urlavan lì a due palmi;
Curò il terrore l'indisposizione
Del mal di mare, e rispondeano in coro
Preci e bestemmie all'ocean sonoro...
E alcun metteva in mare le scialuppe,
Altri guardava sulla tolda, e c'era
Un tal che assoluzion chiese a Pedrillo:
Il qual, confuso, al diavolo spedillo. [15]
O come nelle scene inglesi, in cui sembra quasi di ravvisare un mondo pariniano.
Pallide Dame, ed altre imbellettate
Ingannano del giorno l'ore liete;
Se vaghe sono fanno cavalcate
Di comparir sfogando la lor sete;
Ed altre sul sola vedi sdraiate
Cui fu natura avara, e stanno quiete
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Ragionando sul diritto e sul dovere,
O van scrivendo a qualche cavaliere. [16]
Qualunque siano state, per Byron, le fonti della leggenda di Don Giovanni (Tirso de
Molina o Molière, Mozart o la pantomima del clown Grimaldi al Covent Garden), il
poeta utilizzò queste fonti in vista di uno scopo preciso, che era di fustigare i costumi di
una società ipocrita e vanitosa quanto feroce e ridicola; e il valore del risultato non sta, o
non sta soltanto, nelle qualità liriche o realistiche del dettato espressivo o nella varietà e
nell'ampiezza narrative.
Byron utilizzò le fonti del “burlador de Sevilla” allo stesso modo in cui, per esempio,
Giraudoux ha utilizzato nel suo teatro alcune fonti classiche, ed ebbe il merito di fare di
Don Giovanni un personaggio contemporaneo e significativo.
DAL PO ALL'ARNO
Nell'aprile del 1819, terminato il secondo canto del Don Juan e in aspra polemica con
l'editore e con amici e critici fra i quali il Foscolo (“Perché non fa qualcosa di più delle
Lettere di Ortis... che ha fatto in tutto questo tempo?”), Byron incontra Teresa Gamba,
moglie diciassettenne del più che sessantenne conte Guiccioli, e la segue a Ravenna. Ii
29 giugno scrive a Murray: “... cavalco o guido ogni giorno nella foresta, la pineta... e
vedo la mia Dama ogni giorno in ore proprie (o improprie)... Perdendo lei, perderei un
essere che ha corso per me molti rischi, e che ho molte ragioni d'amare... Io non so cosa
farei se morisse, se non farmi saltare il cervello...”
In breve tempo diviene l'amante legittimo della contessa. Ma quasi per stanchezza, si
direbbe, dopo il disordine di palazzo Mocenigo, con quella specie di passività che viene
a volte il sospetto fosse la componente più vera del suo comportamento con le donne. O
solo un tentativo di coerenza con il modello oramai costituito. “L'amore? Che sfaticata!”,
gli sfuggì detto una volta. A Ravenna non rinuncia al suo serraglio (nel catalogo sono
inclusi dieci cavalli, otto cani, tre scimmie, cinque gatti, cinque pavoni, un corvo,
un'aquila, un falco, un paio di porcellini d'India e una gru egiziana) né alle cavalcate, al
nuoto e alla caccia, ma lo show diventa fiacco, il poeta si imborghesisce, diventa avaro
(eppure aveva venduto da poco la proprietà inglese), e alle pubblicizzate abitudini
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eroiche e stravaganti se ne sovrappongono altre: solo verdura, biscotti secchi, acqua
minerale e magnesia fatta arrivare dall'Inghilterra. La romantica testarda Teresa, né di
particolare intelligenza né di particolare bellezza con quella sua testa sproporzionata,
non gli offre in pratica che un surrogato di vita matrimoniale, senza furie, senza slanci
autentici. Il poeta, dopo la separazione della contessa dal marito, entra in famiglia, e
poiché i Gamba erano ardenti patrioti anche il poeta partecipa alla loro attività politica
ed entra a far parte della Carboneria. Quando Shelley lo va a visitate lo trova
“grandemente migliorato sotto tutti gli aspetti... nel genio, nel temperamento, nelle
vedute morali...”. C'è da dubitarne. Nel genio: certo Byron scrisse moltissimo in questo
periodo, dal quinto canto del Don Juan ai drammi poetici The Two Foscari (I due
Foscari), Sardanapalus (Sardanapalo), Cain (Caino) e Marino Faliero, da The
Prophecy of Dante (La profezia di Dante) a The Vision of judgment (La visione del
Giudizio) oltre a una parziale traduzione del Morgante Maggiore e ad alcune poesie fra
le quali può essere citata Stanzas to the Po (Stanze al Po) per il riferimento a Ravenna e
all'amante:
Fiume che scorri presso antiche mura
Dove dimora la donna del mio amore, quando
Ella cammina lungo le tue sponde e forse
Di me richiama un lieve fugace ricordo...
Ma anche se Caino (“un soggetto metafisico, qualcosa nello stile di Manfredi”) contiene
alcuni passi di indubbio vigore ed avvicina Byron a certe posizioni eterodosse,
“sataniche”, di Shelley; anche se La visione del Giudizio può essere considerato un
capolavoro di satira privata nessuna di queste opere è paragonabile a Don Juan, né ad
alcune parti del Giovane Aroldo. Sono piuttosto il risultato di una attività frenetica, di
gesto, scomposta e spesso superficiale: “una convulsione in fondo a cui non succede
niente” (Cecchi) o ben poco. Nel temperamento e nelle vedute morali è altrettanto
difficile notare un miglioramento: basterebbe citare il cinismo con cui si comporta in
varie occasioni nei confronti di Shelley, e l'irresponsabilità verso Allegra, la figlia avuta
da Claire Clairmont e lasciata in un convento di Bagnacavallo, dove morirà nel marzo
del 1821. E fino a che punto fu autentica, efficace (e rischiosa) l'attività politica?
Sembrerebbe onesto dire che almeno le intenzioni furono sincere: è difficile infatti
affermare che a Byron difettasse l'entusiasmo per qualsiasi impresa in cui fosse implicito
un movente di pur generico anticonformismo. Ma è proprio il fatto che qualsiasi impresa
di questo genere riscuoteva il suo interesse a sollevare il sospetto che l'impegna fosse
unicamente individualistico, una semplice necessità di estorsione. Se si pensa alla reale
situazione politica italiana del 1821, la cui gravità non è il caso di sottolineare
retoricamente, e poi si pensa a Byron che sta “fra tutto il sudore, la polvere e le
bestemmie di un universale imballaggio” in procinto di partire per Pisa (“dove vado a
passare l'inverno”) perché con il fallimento dei moti rivoluzionari la famiglia Gamba al
completo è stata condannata all'esilio e il poeta naturalmente la segue; se si pensa a
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questo si ha una vaga sensazione di superficialità, la sensazione che tutto sommato
Byron, con i suoi sogni di Italia libera, non avesse capito molto, o per lo meno non
avesse “sentito” molto. Avevano invece probabilmente capito i suoi “amici carbonari”' a
giudicare da quanto si legge in una pagina di diario (18 febbraio 1821): “Io credo che
essi mi considerino solo come un deposito da essere sacrificato in caso di accidenti.” La
scelta di Pisa come nuova residenza dipese dal giudizio del poeta: “Eravamo incerti fra
la Svizzera e la Toscana, e io detti il mio voto a Pisa, che è più vicina al Mediterraneo,
che amo per le sponde che bagna e per i miei ricordi giovanili del 1809. La Svizzera è un
maledetto, egoista, porco paese di bruti, situata nella regione più romantica del mondo.
Non ho mai potuto sopportare i suoi abitanti, e ancora meno i loro visitatori inglesi...”
(da una lettera a Moore del 19 settembre 1821). E a Pisa, mentre si scatenavano i giudizi
- negativi e positivi, sempre estremi - sul contenuto del Caino (“contro la bontà e la
potenza della divinità, contro la ragionevolezza della religione in genere”), si apre un
nuovo periodo, che vedrà la nascita e il fallimento del periodico “The Liberal” (Il
liberale) e la messa a punto di altri canti del Don Juan, ripreso con la promessa alla
Guiccioli di non toccare argomenti troppo spinti. In casa Lanfranchi (“Sto qui in un
vecchio famoso palazzo feudale sull'Arno, abbastanza grande per una guarnigione, con
prigioni sotterranee e segrete nelle mura...”) si formò presto un curioso, eterogeneo
circolo d'amici di Shelley, che già si era stabilito nella città toscana: Edward Williams,
Thomas Medwin, E. J. Trelawny, il pittore americano West e John Taaffe, ai quali si
aggiungerà più tardi Leigh Hunt con la numerosa famiglia. L'idea di far giungere Leigh
Hunt dall'Inghilterra era stata di Shelley, che intendeva finalmente realizzare quel
“giornale proprio” di cui tante volte aveva parlato con l'amico. Il primo numero di “The
Liberal (ne uscirono in tutto solo quattro numeri) apparve il 15 ottobre 1822, e di Byron
conteneva La visione del Giudizio, una prosa e alcuni epigrammi. Ma Shelley, che vi
aveva collaborato con una traduzione del Faust di Goethe e con una poesia, non poté
vederlo. L'8 luglio, mentre tornava da Pisa a Villa Magni (fra Lerici e San Terenzo) dove
si era intanto stabilito, un'improvvisa tempesta travolse la barca aperta dove viaggiava
con l'amico Williams e un marinaio. Il suo corpo fu ritrovato dieci giorni dopo, e arso
sulla spiaggia alla presenza di Byron e di Trelawny. “Abbiamo bruciato i corpi di
Shelley e di Williams sulla spiaggia, per poterli rimuovere e render loro regolare
sepoltura. Non potete avere alcuna idea dello straordinario effetto di una simile pira
funeraria, su una spiaggia desolata, con le montagne per sfondo e il mare davanti, e il
singolare aspetto che il sale e l'incenso davano alla fiamma. Tutto di Shelley si consumò,
tranne il cuore che non volle prender la fiamma ed è ora conservato in spirito di vino”
(Byron a Moore il 27 agosto 1822). E anche l'avventura di Byron si avvicinava al
termine, con pochi sussulti prima dell'impresa finale. Nello stesso mese in cui era
accaduta la tragedia di Shelley la famiglia Gamba dovette lasciare la Toscana: una lite di
strada fra i servi di casa Byron e un sergente maggiore pisano aveva coinvolto anche il
poeta e i suoi amici, per cui il governo, che non vedeva il momento di liberarsi di questo
gruppo eterogeneo continuamente vigilato da agenti del governo austriaco, colse
l'occasione per invitarli a lasciare la città. In settembre Byron raggiunse i Gamba a
Genova, dove si erano sistemati nella villa Saluzzo di Albaro, e qui gli pervennero le
prime feroci reazioni della stampa inglese a “The Liberal”: “una sozza macchia sulla
nostra letteratura, “una pubblicazione ignobile”, “lord Byron vi ha collaborato con
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empietà, volgarità, e assenza d'umanità e di cuore; Shelley con una ridicola cosa su
Goethe; e Leigh Hunt con stupidaggini, vuotezza, ignoranza e cattivi versi”. Questi
alcuni dei giudizi che apparvero su “The Literary Gazette” e su “The Courier”.
L'entusiasmo di Byron per la rivista si affievolì ben presto, notevolmente aiutato dalle
difficoltà che gli procurava la turbolenta convivenza col direttore e la sua numerosa
famiglia. In più, nel poeta si era fatta strada la convinzione che gli attacchi fossero stati
determinati unicamente dalla sua presenza. D'altra parte Byron, che apparve a lady
Blessington sempre più eccentrico e demodé, sempre più simile a qualcosa dei suoi
primi incredibili personaggi, doveva nascondere sotto gli atteggiamenti consueti una
profonda stanchezza, una tristezza e un'insoddisfazione più vere di quanto avesse mai
confessato poeticamente, e forse la coscienza di un momento di aridità espressiva. A
parte alcuni nuovi canti del Don Juan, le sue opere di questo periodo sembrerebbero
confermare per lo meno un'incertezza di direzione. The Age of Bronze (L'età del
bronzo) è un poema satirico ispirato dal congresso di Verona, il dramma incompiuto The
Deformed Transformed (Il deforme trasformato) è una variazione del tema di Faust su
sfondo storico, The Island (L'isola) è un poemetto narrativo fondato sulla storia
dell'ammutinamento del “Bounty” e sulla vita degli ammutinati a Tahiti, di tono non
diverso, anche per le parentesi amorose (l'idillio di Neuka e Torquil) e l'ambientazione
esotica, da quello dei primi racconti in versi. Byron aveva bisogno di un radicale
mutamento di scena, e per un certo periodo pensò anche di abbandonare l'Europa per
l'America. Non poteva, imborghesito negli scialbi affetti domestici di Teresa,
dimenticare quel modulo eroico che si era costruito e di cui doveva fatalmente essere
vittima. Già nel febbraio del 1823, giungendogli le notizie della ripresa delle lotte per
l'indipendenza della Grecia, il poeta aveva cominciato a pensare alla possibilità di offrire
il suo aiuto agli insorti, e ne aveva parlato a Hobhouse e ad altri amici inglesi. Ma fu in
aprile, con l'arrivo del capitano Blaquière inviato a Genova dal comitato inglese per gli
aiuti alla Grecia, che si precisò il suo destino. L'ultimo atto era cominciato.
“ALLORA GUARDATI ATTORNO, E SCEGLI
LA TUA TERRA, E PRENDI IL TUO RIPOSO”
Secondo molte testimonianze, i preparativi per il viaggio in Grecia furono
particolarmente meditati e seri. Byron lasciò ben poco all'ispirazione “romantica”' e anzi
si sforzò di comprendere quali fossero realmente le necessità dei rivoluzionari: informò
il comitato che ai greci mancava quasi completamente l'artiglieria, raccolse tutto il suo
denaro, si procurò medicinale, equipaggiò il brigantino inglese “The Hercules” con barili
di polvere da sparo e due piccoli cannoni. Era davvero - come se avesse deciso, quasi
consapevole della morte che io attendeva, di abbandonare la poesia per un gesto che
avrebbe dato a molta della sua poesia un vero significato. Da allora scrisse solo quattro
brevi composizioni, fra cui quella che può essere considerata il compendio dei suoi
ultimi mesi di vita: On this day I complete my thirty-sixth year (In questo giorno
concludo
il
mio
trentaseiesimo
anno),
datata
22
gennaio
1824.
Sebbene tutt'altro che memorabili per particolari qualità poetiche, alcuni di questi versi
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sono di un certo interesse ai fini biografici, in quanto costituiscono il riflesso esatto di
una nuova condizione:
È tempo che questo cuore si fermi,
Poiché il cuore di altri ha cessato di battere:
Eppure, per quanto non possa essere amato,
Che io continui a amare.
I miei giorni oramai hanno il colore
Della foglia gialla; e i fiori
E i frutti dell'amore sono fuggiti...
Calpesta le passioni che sempre si rinnovano
Umanità immeritevole! - verso di te indifferenti
Il sorriso o lo sguardo severo
Della Bellezza.
Se tu hai rimpianto la giovinezza,
Perché mai vivere?
Allora guardati attorno, e scegli la tua terra,
E prendi il tuo riposo.
Le difficoltà pratiche e sentimentali furono superate abbastanza rapidamente, e il 16
luglio 1823 “The Hercules” lasciò Genova. Erano a bordo Byron, Pietro Gamba,
Trelawny e un giovane medico italiano, nonché otto servitori cinque cavalli e due cani.
A Livorno salì sul brigantino un giovane scozzese, Hamilton Browne. Il 2 agosto
giunsero in vista delle isole dello Ionio, e osservando il profilo delle lontane montagne
della Morea Byron confidò a Trelawny di sentirsi come se “il peso degli undici lunghi
anni d'amarezza trascorsi da quando fui qui la prima volta mi fosse stato tolto dalle
spalle”. Il mattino seguente il gruppo sbarcò a Cefalonia, che si presentava come uno dei
luoghi più adatti per soffermarsi a studiare gli sviluppi dell'intricata situazione politica
greca. Byron volle fin dall'inizio mostrarsi del tutto diverso da come si era dipinto nel
Giovane Aroldo: a Itaca, per esempio, si rifiutò di visitare qualsiasi luogo di interesse
storico, e affermò di detestare l'antiquariato. Una volta sbarcato in Grecia il suo
desiderio fu di vivere e agire nel presente, senza rimpianti per le glorie di un tempo. In
effetti, e non perché vi morì, l'avventura greca fu la meno retorica, la più “umana” fra
quelle del poeta. Ma non era facile agire. Byron si rese conto ben presto che l'impresa
cui si era accinto non sarebbe stata semplice. Nel labirinto della politica greca la
passione si mutò in decisione. Nella piccola casa di Metaxata, di fronte al mare, l'estate e
l'autunno passarono, e non c'era altro da fare che cavalcare fra gli olivi, leggere i
romanzi di Walter Scott, ricevere talvolta qualche emissario delle varie correnti
rivoluzionarie per riceverne notizie contrastanti: il denaro diminuiva, aumentava il
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dubbio di riuscire a portare un aiuto concreto alla causa che era stata scelta con tanto
entusiasmo. Finalmente in dicembre al poeta parve opportuno mettersi dalla parte del
principe Mavrocordato, che più di altri garantiva una seria possibilità di costituire
un'autorità alquanto stabile, e salpò per Missolungi, dove giunse ii 5 gennaio 1824. Qui,
in una casa a tre piani occupata dal colonnello Stanhope e da un gruppo di sulioti che
Byron aveva assoldato a Cefalonia, riprese con instancabile ostinazione a lavorare per
rafforzare la resistenza greca. I compiti principali erano due: formare una brigata
d'artiglieria, assalire e conquistare Lepanto al comando di forze il cui nucleo avrebbe
dovuto essere costituito dalla sua guardia di slioti. Purtroppo non riuscì a concretare
nulla. Il febbraio e il marzo trascorsero fra ribellioni, pioggia, scaramucce, scosse
telluriche, dimostrazioni di incompetenza, richieste di rimpatrio da parte degli artificeri
inglesi, tradimenti. Quando la flotta turca apparve all'orizzonte e sembrò chiaro che la
città difficilmente avrebbe potuto difendersi se fosse stata assalita, il poeta volle
organizzare personalmente le poche truppe e rincuorare i cittadini terrorizzati. La sera,
dopo una cavalcata di miglia sotto una pioggia dirotta e insistente, ebbe un violento
attacco di febbre reumatica. Il 10 e l’11 di aprile volle uscire di nuovo a cavallo, ma la
sua fibra - già provata negli ultimi due mesi dalle fatiche e dal clima - non era ormai pii
in grado di reggere a simili sforzi, e i medici cominciarono ad essere seriamente
preoccupati, tanto che pensarono di imbarcarlo per Zante se le condizioni del mare lo
avessero consentito. Il giorno 15 Byron era già grave. William Parry, in The Last Days
of Lord Byron (Gli ultimi giorni di Lord Byron), riferisce: “...parlò con me delle mie
avventure. Parlò anche di morte con grande compostezza, e per quanto non credesse che
la sua fine fosse vicina c'era qualcosa in lui di così serio e fermo, di così rassegnato e
composto, di così diverso da quanto avessi visto prima in lui, che la mia mente cominciò
a temere, e a tratti mi parve di presentire la sua rapida dissoluzione”. I suoi discorsi
cominciarono a farsi sconnessi. Fra le altre cose affermò che avrebbe desiderato tornare
in Inghilterra per vivere con la moglie e la figlia Ada. Il giorno 18 delirava: in italiano e
in inglese, immaginando forse l'attacco a Lepanto, gridava: “Avanti! Avanti! Coraggio!
Seguite il mio esempio!”. E nel delirio più volte nominò la sorella, la moglie, la figlia, i
luoghi dell'infanzia. Le sue ultime parole furono: “Ora devo dormire”. Morì il giorno
dopo, lunedì 19 aprile 1824, alle sei e un quarto del pomeriggio.
Vittima di un mito creato da se stesso, eroe forse solo al momento in cui diviene vittima,
Byron continuò dopo la morte ad essere o troppo ingiustamente lodato o troppo
ingiustamente negato. Senza dubbio la sua figura umana si confonde con la sua opera e
la domina come è raro che accada, e di fronte all'una e all'altra pare inevitabile una presa
di posizione estrema: “ci si attendeva di trovare un poeta, e ci si trova di fronte a un
uomo”. Rimane in ogni caso il fatto, come ha notato il Grierson [17], che l'Europa alla
quale Byron si rivolgeva era disposta a comprendere e comprese meglio la sua violenza
che “la metafisica di Shelley o i lumi che venivano da Wordsworth”' e che la poesia
inglese “sarebbe di gran lunga più povera senza la voce appassionata ed essenzialmente
umana, che declama in Araldo e scorre come un torrente in Don Juan”.
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