Hermann Grosser SUL NARRARE

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Hermann Grosser SUL NARRARE
Hermann Grosser
SUL NARRARE
Lezione tenuta all’Università di Ginevra il 16 aprile 2010 nell’ambito del Seminario di ricerca
«Momenti e aspetti della lingua italiana»
1. Si dice che Stephen King, raccogliendo la sfida di un giornalista che gli aveva chiesto se fosse capace
di inventare seduta stante un racconto non più lungo di una riga, dopo un solo attimo di concentrazione
rispondesse: «L'ultimo uomo sulla Terra è in casa. Bussano». Non so se è vero. Desumo la notizia da una
fonte attendibile del web (treccani.it). Ma forse King non l’ha proprio inventato: Toc, toc un ironico racconto di Frederic Brown del 1948 incomincia «L’ultimo uomo della Terra sedeva solo in una stanza.
Qualcuno bussò alla porta…». Ma se ne trovano anche numerose altre varianti, a cercare sul web. In ogni
caso il microracconto di King, come un Haiku giapponese, in quanto racconto è del tutto compiuto e autosufficiente. E non una misura classica, né una ferrea disciplina nipponica, bensì l’uso dei cellulari e nella
fattispecie degli sms, ha reso di moda anche da noi la micronarrazione. Recentemente «Il Sole 24 ore» ha
indetto un concorso per il miglior racconto di non più di un centinaio di battute e, a quanto pare, ha riscosso molto successo.
Noi in realtà non siamo abituati a forme narrative così brevi. Anzi, la nostra tradizione ha privilegiato,
all’opposto le forme lunghe: poemi, romanzi; ma anche i racconti della tradizione boccacciana hanno una
discreta estensione e articolazione (rispetto alle forme più brevi della parabola, dell’exemplum cristiano
medievale o anche di qualcuno dei racconti duecenteschi del Novellino).
Tuttavia ai fini del nostro discorso sul narrare l’esempio del microracconto è funzionale per
un’asserzione di base: per comporre un enunciato intrinsecamente narrativo e dunque – a prescindere da
ogni giudizio di valore – per comporre un racconto sono sufficienti alcune semplici condizioni: un personaggio, un evento, un tempo e normalmente un ambiente, anche solo sommariamente evocato. Tradotto
in termini meramente linguistici potrebbero bastare un soggetto e un predicato (un verbo d’azione coniugato nel tempo), benché di norma, anche nelle forme più brevi, qualcosa si aggiunga sempre per caratterizzare il soggetto, l’azione, il tempo o l’ambiente.
«La scintilla, poiché era agile e lucente, pensava di diventare una stella ma venne meno» recita uno degli Apologi centum dell’Alberti,1 dove notiamo che il personaggio non è umano, ma è sommariamente descritto e caratterizzato moralmente (nel senso della vanagloria).
E un altro: «Il libro, in cui era stata scritta tutta l’arte libraria, chiedeva aiuto per non essere divorato
dal topo. Il topo sghignazzò». Qui le cose si complicano ancora perché i personaggi – entrambi non umani
– sono due e contrapposti: un eroe e un antagonista, un buono, il libro in cui probabilmente Alberti immaginava ci identificassimo, e un cattivo, il topo, da temere (ma non è detto: qualche professore esausto o
qualche studente un po’ vessato potrebbe volersi identificare col topo). Vengono meglio evocati anche il
luogo (una polverosa biblioteca medievale) e forse anche il tempo (l’età delle grandi riscoperte librarie umanistiche, immortalate in una celebre lettera dal Bracciolini) – ma queste, come spesso capita, sono soprattutto legittime inferenze del lettore informato.
1
L. B. Alberti, Apologhi ed elogi, a c. di Rosario Contarino, Costa & Nolan, Genova 1984. Cito nell’ordine i nn. LXV,
XIX e C.
1
Talora si può aggiungere anche un dialogo, come nel caso, sempre dell’Alberti: «L’invidioso aveva detto al pavone: “O sciocco, ti sei posto in testa da te stesso la corona?” Rispose il pavone: “non hai considerato che ho preso pure una collana variopinta? Risero le ninfe». Qui intanto i personaggi sono diventati tre,
l’invidioso, il vanaglorioso – in relazione di antagonismo – e le ninfe, che ridono di entrambi e così li giudicano. Acquista rilievo qualche tratto descrittivo del pavone. Viceversa tempo e luogo rimangono indefiniti.
Mutando scenario, Flaubert nell’Educazione sentimentale condensa in poche righe quello che potrebbe
essere il soggetto di un intero romanzo: «Il voyagea. | Il connut la mélancolie des paquebots, le froids réveils sous la tente, l’étourdissement des paysages et des ruines, l’amertume des sympathies interrompues. |
Il revint».2 Qui, pur nella stringatezza del testo, rileviamo inequivocabili tratti romantici: l’unicità del personaggio evoca solitudine (le sympathies interrompues implicano certo altri personaggi ma sono tutte orientate a caratterizzare il soggetto), le poche espansioni puntano tutte sui sentimenti (mélancolie, froids réveils,
étourdissement, amertume) e sul paesaggio emotivamente vissuto (soprattutto i paquebots e le ruines); i due
verbi che delimitano il segmento (voyagea, revint) delineano classicamente una storia con un inizio e una
fine, ma evocano anche romanticamente una vicenda on the road alla ricerca di sé o di un’impossibile felicità, che a quel tempo poteva già suggerire al lettore numerosi antecedenti.
L’esegesi potrebbe proseguire a lungo su questo e su altri microracconti. Gli Apologi centum dell’Alberti
o i Detti piacevoli del Poliziano costituiscono un valido terreno di esercizio. Ma gli esempi bastino per osservare che anche se di poche parole un racconto può essere emotivamente efficace (King) e assai denso,
psicologicamente, moralmente, culturalmente, semanticamente e così via (Alberti, Flaubert). Pur nella loro
brevità i tre tipi di racconto rivelano anche l’appartenenza a un genere e a una cultura: apologo classico,
racconto introspettivo romantico, moderna fantascienza. Ma gli esempi bastino anche per osservare che sia
le descrizioni, sia i dialoghi – e si potrebbero aggiungere anche gli enunciati argomentativi o lirici
(l’espressione patetica di stati d’animo da parte di un soggetto monologante) – sono elementi accessori,
non strettamente indispensabili a fare di un enunciato o di un racconto un testo narrativo, ma normalmente presenti in tutti o quasi tutti i racconti reali di una certa ampiezza e complessità.
2. Qui si potrebbe aprire il tema delle forme pure e quello dei confini dei generi e della loro contaminazione. Ad esempio: può essere considerato un racconto una narrazione soggettiva composta prevalentemente di enunciati lirici? può esserlo un testo composto solo o quasi solo di enunciati descrittivi? Ma il
quesito ora non ci interessa più di tanto. È soprattutto la narrativa moderna e contemporanea che – per
ben note ragioni di poetica – ha contaminato il racconto puro, mettendolo a contatto e in attrito, e talora
sbilanciandolo verso altre forme o generi. Tra Sette e Ottocento il romanzo ha inclinato verso la lirica, in
certi romanzi epistolari o in forma di memoria o confessione. Nell’Ottocento verista per amore di obiettività e impersonalità De Roberto ha ipotizzato e realizzato un racconto in forma di «processo verbale»,
composto cioè solo di dialoghi e di brevi didascalie, come si usa nel teatro, inclinando verso la dissoluzione
del racconto nel dramma.3 Tra Otto e Novecento si è sperimentato il poème en prose, tipico prodotto di
2
G. Flaubert, L’éducation sentimentale, texte établi et annoté par A. Thibaudet et R. Dumensil, Bibliothèque de la
Pléiade, Gallimard, Paris 1952, p. 448.
3
F. De Roberto, Processi verbali, Sellerio, Palermo 1976: «L’impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro
dialogo, e l’ideale della rappresentazione obbiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro. [...] La parte dello
scrittore che voglia sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni indispensabili
all’intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie» (p. 4).
2
una contaminazione tra lirica e narrativa. Nel Novecento si è sperimentato diffusamente, da Musil in poi,
la forma del romanzo-saggio; e con Robbe Grillet ha fatto la sua comparsa il racconto puramente descrittivo,4 per non fare che qualche esempio. Ma tutto ciò, o quasi, attiene alle ragioni sperimentali, contestatrici
e provocatorie dell’arte, dopo che le poetiche romantiche e poi quelle avanguardistiche hanno decretato la
lotta a una tradizione plurimillenaria, la contestazione delle poetiche normative, la dissoluzione dei generi
classici e moderni e la pretesa di quella che Calvino una volta ha definito «rivoluzione permanente delle
forme». 5
3. Torniamo però al punto – trascurando le forme-limite o degenerative – : un racconto tipico è necessariamente costituito da almeno un personaggio che agisce in una dimensione spazio-temporale. Attorno a
questo nucleo – abbiamo visto – si addensano numerosi altri elementi relativamente accessori: altri personaggi, dialoghi, analisi psicologiche, morali o socio-culturali talora in forma espressamente argomentativa
fatte dal narratore o da qualche personaggio, descrizioni, patetiche esposizioni di stati d’animo e di sentimenti e così via. E dalla forma pura, astratta se vogliamo, si passa alle forme contaminate, concrete, dei
racconti reali.
Dal nucleo base del racconto si evincono le principali categorie dell’analisi narratologica, o – se si preferisce – della retorica della narrativa. Personaggio, azione, spazio, tempo. La presenza di un personaggio
suggerisce quella che si potrebbe chiamare la retorica del personaggio singolo: Forster ha introdotto la distinzione tra personaggio piatto e personaggio a tutto tondo,6 il tipo e l’individuo, a seconda della quantità
e della qualità dei suoi tratti psicologici e comportamentali (il sarto dei Promessi sposi che tante cose vorrebbe dire al cardinale e viceversa non spiccica altro che un «si figuri!» che lo ha immortalato; e all’opposto
l’Innominato; il dottore della Cognizione del dolore o la figlia Pina, caratterizzata quasi solo come spericolata guidatrice, e viceversa don Gonzalo, con la vertiginosa profondità del suo «male oscuro»).
Ma il semplice fatto che il personaggio agisca induce all’analisi delle motivazioni dell’agire, talora esplicite talora implicite. Se esplicite sono il frutto di introspezioni e analisi interne da parte del narratore – don
Abbondio sappiamo «non aveva un cuor di leone» – o di dichiarazioni verbali del personaggio stesso o di
altri personaggi. Se implicite, sono desumibili per inferenza del lettore dalle stesse azioni o parole del personaggio o da altri indizi. In ambito retorico, Genette, ad esempio, ci ha introdotto ai diversi tipi e gradi di
motivazione del racconto («La marchesa chiese la vettura e si mise a letto» / «La marchesa chiese la vettura
e si mise a letto perché era capricciosa» / «La marchesa chiese la vettura e si mise a letto perché, come tutte
le marchese, era capricciosa»), che al contempo rivelano o non rivelano qualcosa del personaggio (la marchesa) ma anche qualcosa del locutore (il narratore).7 È questo anche il caso dell’aggettivazione giudicante
manzoniana – «la povera Lucia», «il perfido Griso», «la sventurata rispose» – che al contempo qualifica psicologicamente o moralmente i personaggi e rivela qualcosa dello stato d’animo e del sistema di valori del
narratore. Ma più in generale la natura stessa del personaggio e i dati testuali possono suggerire considerazioni e indagini di natura psicologica, morale, storica e via via anche psicanalitica, che esulano dalla retorica della narrativa, ma aprono prospettive su altri settori della critica letteraria.
Il personaggio raramente è solo in scena: nel caso normale di più personaggi diventano pertinenti
all’analisi le interazioni dei personaggi sul piano dell’azione, della psicologia, dei comportamenti, delle pa4
A. Robbe Grillet, Istantanee, Einaudi, Torino 1963.
I. Calvino, La sfida al labirinto, in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 91.
6
E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Il Saggiatore, Milano 1968.
7
G. Genette, Figure II. La parola letteraria, Einaudi, Torino 1972, p. 69.
5
3
role; si definiscono così dei possibili ruoli e, più in astratto, delle possibili funzioni che delineano quello che
si suole chiamare il sistema dei personaggi (protagonista, antagonista, aiutanti dell’uno e dell’altro, sono solo
le formule e i ruoli più semplici, desunti in origine dallo schema delle fiabe di Propp).8 Io personalmente
diffido da un eccesso di formalizzazione e astrazione in questi casi (attori, attanti e via discorrendo) e preferisco forme di caratterizzazione dei ruoli più flessibili e aderenti anche alla storicità del testo e della vicenda.9
L’azione di uno o più personaggi nel tempo delinea una storia e al contempo la trama del racconto:
l’analisi di fabula (gli eventi in successione logico-cronologica) e intreccio (gli eventi così come si succedono
nel racconto) consente di descrivere la trama e valutare alcuni degli effetti fondamentali della strategia narrativa soprattutto (in modo più evidente) del racconto detto appunto d’intreccio, ad esempio un romanzo
d’avventura o un romanzo poliziesco. Tutti sappiamo che alcuni fatti cronologicamente antecedenti e che
stanno all’origine della storia e in cima alla fabula – ad esempio il movente di un omicidio e l’identità
dell’assassino – di solito per creare suspense e poi sorpresa, sono posposti nell’intreccio e compaiono talora
come un coup de théatre solo alla fine del racconto. Quell’artificioso «effetto della catastrofe» che invece il
verista Verga voleva assolutamente limitare alla natura stessa degli eventi, tendenzialmente narrati secondo
l’ordine logico-cronologico, e di cui pure Manzoni diffidava. Ma gli effetti prodotti dalla rielaborazione
della fabula sono molteplici e variano a seconda dei generi e degli autori.
Un personaggio, però, oltre che agire, normalmente pensa e parla e l’analisi narratologica dedica una
particolare attenzione anche ai modi e alle forme di rappresentazione dei pensieri e delle parole dei personaggi (discorso diretto, indiretto, indiretto libero, monologo interiore, flusso di coscienza sono alcune delle
categorie più note), che introducono quell’elemento accessorio, ma comune, che è la dialogicità e dunque
la potenziale teatralità del racconto. Tali forme sono svariate e complesse e – come vedremo – anche in evoluzione storica. Quando poi il personaggio (o il narratore) si confessa o esprime i propri sentimenti si
aprono spazi verso la dimensione lirica e quando argomenta verso la dimensione saggistica.
L’azione, l’intreccio si collocano però in una dimensione spazio-temporale. Da ciò discende la possibilità di delineare i movimenti dei personaggi nello spazio (spesso carichi di significato) e di analizzare le
forme della descrizione: del personaggio stesso (talora in segmenti descrittivi estesi, talora per tratti dispersi
nella narrazione), dell’ambiente naturale e sociale in cui agisce che può essere convenzionale od originale,
realistico o fantastico, in forma sintetica o analitica, e può ad es. diventare, come capita soprattutto nel caso del romanzo ottocentesco, un ambiente naturale emotivamente connotato o un milieu social storicamente caratterizzato, tanto da assumere in qualche caso un ruolo da protagonista.
E così infine è per il tempo, la cui retorica è tra le più complesse del racconto e le cui manipolazioni
producono alcuni tra gli effetti più eclatanti del racconto (compresi quelli legati alle nozioni di fabula e intreccio). Nessuno meglio di Genette ne ha mostrato e codificato la complessità strutturale analizzando la
Recherche di Proust.10
Ma in questa rapida rassegna manca ancora un elemento fondamentale. Il romanzo e il racconto non
sono solo una serie di enunciati e di rappresentazioni, ma sono anche una narrazione, cioè un atto di enunciazione verbale, che presuppone che qualcuno (autore, narratore o voce narrante) lo compia. Questo
8
V. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966.
Per questo aspetto del problema e, in generale, per approfondire l’abbozzo di classificazione presente in questo paragrafo, rimando al mio Narrativa, Principato, Milano 1985 (per la questione specifica, cfr. pp. 237- 251).
10
G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976.
9
4
qualcuno è il narratore, che può avere caratteristiche diverse e intrattenere diversi rapporti con l’autore
empirico (cioè la persona storica reale che ha scritto il romanzo) e con i personaggi. Da questo insieme di
rapporti deriva in sostanza anche la categoria del punto di vista (da cui sono descritti, rappresentati, giudicati i personaggi e gli eventi) e il concetto di focalizzazione, su cui però ora sorvolo.
La situazione retorica di base potrebbe essere la seguente: l’autore si identifica / non si identifica col
narratore il quale narra la propria storia / una storia d’altri (di cui è stato testimone o di cui in qualche
modo è venuto a conoscenza), rivelando nulla / poco / tanto di sé, della propria personalità e delle proprie
idee. Il narratore può mostrarsi a conoscenza di tutto, storia e motivazioni anche le più recondite di tutti i
personaggi (ed essere quindi definito onnisciente, il che è tipico del narratore esterno ottocentesco) o viceversa avere delle conoscenze limitate (e ciò è tipico ad es. di un narratore interno, che è parte della storia e
sa solo quel che vede sente o quello che gli viene riferito).11 Ma sono normali le trasgressioni: Marcel il narratore della Recherche, che è un personaggio e dunque dovrebbe avere conoscenze limitate, in pratica sa tutto di tutti e si comporta a tratti come un vero e proprio narratore onnisciente. E così in certi casi il narratore esterno mostra di proposito di avere conoscenze limitate perché si attiene a fatti obiettivi e documentali o per altre ragioni di poetica (tipico il caso del naturalismo-verismo).
Infine il narratore onnisciente, tipico del romanzo realistico ottocentesco (Manzoni, Balzac o Stendhal), è un’autorità indiscutibile e rassicurante – quel che dice il lettore accetta di considerarlo veritiero –,
mentre non sempre è così per il narratore interno, che esprime un punto di vista che noi siamo legittimati
a considerare soggettivo e discutibile, con numerose possibili implicazioni derivate (dobbiamo prendere
tutto per vero quel che ci racconta Zeno, tanto più che in molti casi egli stesso ci dice di non saper più
come sono veramente andate le cose che racconta?). Ma nell’uno e nell’altro caso per volontà dell’autore si
può anche dare la figura del narratore inattendibile che intenzionalmente mente e manipola il racconto con
ovvie ripercussioni destabilizzanti e stranianti sul lettore. Caso eclatante è un racconto di Agatha Christie,
L’assassinio di Roger Ackroyd, in cui il narratore ci racconta una detective story apparentemente convenzionale, tacendo però il fatto che egli stesso è l’assassino. E naturalmente si potrebbe distinguere tra un narratore
inattendibile che semplicemente bara (in quest’ultimo caso) e uno che lo è perché ha perso la capacità di
mettere ordine nel magma delle proprie esperienze.
Non sono che esempi sommari di una tipologia assai articolata, addotti tuttavia per dimostrare come
dalla situazione base si delinei, mediante osservazioni e deduzioni tutto sommato semplici e lineari, in pratica tutta la retorica della narrativa nella sua complessità e anche tutta la talora sofisticata analisi descrittiva
e critica che si fa dei testi reali presi ad uno ad uno.
4. In effetti la narratologia come retorica del narrare ne ha indagato e descritto tutte o quasi le forme e
tipologie possibili, a partire da quelle storicamente date (molteplici, ma tutto sommato limitate). Ma proprio in quanto retorica dei possibili narrativi ha anche individuato in linea teorica forme o tipologie mai o
raramente sperimentate, suggerendo complicazioni, interazioni e contaminazioni delle forme base del narrare che si potrebbero forse definire ‘manieristiche’.
11
Di recente alcune di queste categorie (ad es. il narratore onnisciente) sono state messe in discussione da J. Wood, in
modo in verità più brillante che persuasivo (J. Wood, Come funzionano i romanzi. Breve storia delle tecniche narrative
per lettori e scrittori, Mondadori, Milano 2010). Categorie entrate nell’uso come quella di narratore onnisciente, evidentemente metaforica, mantengono però la loro validità descrittiva, alludendo in modo sintetico e intuitivo a forme
e strutture narrative (in questo caso un narratore in grado – quando gli fa comodo – di conoscere e riferire ad esempio anche i pensieri reconditi di qualsiasi personaggio, talora meglio di quanto il personaggio stesso possa fare) che
possono essere anche definite in modo più preciso e analitico.
5
Questo effetto indotto dalla teoria letteraria novecentesca sulla prassi narrativa è uno degli aspetti macroscopici della narrativa degli anni Sessanta / Ottanta del Novecento. Forme narratologicamente complesse, ibride, paradossali, tali addirittura da mettere a repentaglio la logica stessa del racconto, si diffondono
in questi anni. In taluni casi davvero funambolici di sperimentalismo formale e strutturale ci troviamo al
centro di un fenomeno di intellettualismo quasi enigmistico (sul tipo degli esercizi di stile di Queneau e
dell’Oulipo) che lo apparenta con i funambolismi manieristici e barocchi.
Un paio di esempi: per ovvie ragioni mimetiche il racconto (anche quello fantascientifico, proiettato
nel futuro) è narrato perlopiù al passato («Nel lontano 2045 accadde che...»); gli eventi si collocano nel futuro del lettore, ma nel passato, anche recente (ieri) del narratore; sono in altri termini il narratore e il punto di narrazione che si proiettano nel futuro; rispetto ad essi gli eventi narrati devono quasi necessariamente collocarsi nel passato. Di racconti coniugati al futuro ce ne sono – dall’Apocalissi in avanti – ma tutti limitati al genere profetico. Il Novecento è però riuscito a sperimentare anche il romanzo narrato per lunghi
tratti quasi esclusivamente al presente (in pratica il narratore si racconta in presa diretta).12
Per ragioni analoghe, pur tenendo conto di tutte le possibili analessi e prolessi che rendono dinamico e
appassionante l’intreccio, un racconto normalmente si sviluppa grosso modo secondo lo svolgersi del tempo, da un passato più remoto ad un passato più recente fino magari al presente del narratore. Ebbene nella
narrativa contemporanea si è sperimentato il racconto concepito rigidamente a ritroso nel tempo: è il caso
del film Memento di Christopher Nolan (da un romanzo di Jonathan Nolan). Più moderata è invece la soluzione adottata da Yehoshua nel Signor Mani, che presenta lunghe sequenze tradizionali montate però a
ritroso nel tempo.
Si diffondono anche forme metanarrative, che – nate forse da quelle stesse suggestioni teoriche – esplorano e riflettono sui meccanismi del narrare. Un caso eclatante in questo senso è certo Se una notte
d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino.
Ci si può forse domandare se oggi tutti i possibili narrativi sono stati effettivamente sperimentati e,
quasi quasi, si inclinerebbe a dire che sì, pensando ad esempio ai casi di vertiginosa mise en abyme della
narrazione (fino al settimo grado e forse più) e a quelli appena citati.
Questa tendenza, direi, nasce in un contesto moderno di tipo avanguardistico / neoavanguardistico
(dissolvere le forme canoniche tramandate) e poi travalica in un contesto che oggi taluni definiscono postmoderno (ripresa e variazione manieristica, più o meno ironica, di tutti i modelli possibili), effetto
dell’industrializzazione culturale e della serializzazione della produzione narrativa. Anche molto banalmente: di fronte alla dilagante abbondanza di testi che fare per distinguersi e farsi notare? Basterebbe pensare
all’evoluzione di un genere moderno come il racconto poliziesco, inventato da Poe a metà Ottocento in
termine di detective story, si sia complicato, variato, combinato e anche scombinato (in tutti i sensi) e poi
ricombinato, tanto che ora per trovare qualcosa di nuovo i serial televisivi giungono a contaminare persino
la detective story con il racconto di vampiri con effetti, a mio avviso, raccapriccianti, quasi come un reality
show.
5. Queste sparse considerazioni su certe tipologie storiche, ci hanno portato però ad una svolta del discorso. E ad un punto per me qualificante. Proprio come nel caso delle scelte retorico-stilistiche, talora alcune particolari scelte formali e strutturali dei narratori assumono un valore simbolico e una pregnante rilevanza storico-letteraria. È questo soprattutto l’aspetto che ora più mi interessa: il momento in cui una
12
È il caso di G. Gramigna, Il testo del racconto, Rizzoli, Milano 1975.
6
scelta stilistica, tecnica o strutturale assume un valore simbolico nella prospettiva dell’evoluzione complessiva del sistema letterario.
Tutto ciò naturalmente attiene anche all’atteggiamento dell’analista. Talora – ad esempio quando, come a me è capitato, si deve scrivere un manuale di narratologia – ci si esercita a ricercare tutte le forme e le
strutture di un testo singolo allo scopo di illustrare la teoria stessa. È anche il caso, spesso ozioso ma indispensabile, dell’esercitazione retorica che si fa per apprendere la retorica stessa. Insomma un atteggiamento
descrittivo, preliminare alla critica.
Un secondo livello si ha quando noi esaminiamo criticamente un testo. L’esercizio critico implica selezione e giudizio. Di un racconto seriale individueremo le invarianti, gli aspetti cioè che lo riconducono a
una tipologia o a un genere (è – secondo Eco – il punto forte della semiotica);13 ma quanto più il racconto
è originale, ricercheremo e valorizzeremo forme, figure e strutture che introducono uno scarto dalla norma
e caratterizzano individualmente un testo (non tutte dunque, ma solo quelle che risultano realmente significative per la nostra tesi). La qualità e il senso stesso di un testo – ci ha insegnato lo strutturalismo – talora
dipendono dall’interazione di tutti gli elementi che si costituiscono in una struttura coerente: in questo caso anche se esaminiamo molti dati testuali, lo facciamo per giungere a delineare una struttura in qualche
misura unica. È la prospettiva che potremmo approssimativamente definire di critica pura.
In verità – sia detto tra parentesi – oggi è invalsa la tendenza, anche a livello critico, per scrupolo scientifico e magari per disponibilità di strumenti informatici, a individuare e catalogare tutte le figure (o tutte
le tipologie di figure) ad analizzare tutti gli endecasillabi di una raccolta o di un poema, ad annotare tutte
le possibili fonti di un testo. A tal proposito a me piace citare una frase di Debenedetti che ricordava e lamentava, durante una lezione universitaria, come il «galateo critico» allora imponesse allo studioso di
«chiudere nel cassetto le schede» analitiche («ammesso che si scrivano», ironicamente precisava) che lo avevano portato all’interpretazione.14 Era, è chiaro che in una prospettiva didattica (anche accademica) tirare
fuori le schede dal cassetto per mostrare il processo che porta dall’intuizione, o dall’ipotesi, all’analisi e infine all’interpretazione, è fondamentale. Ma pubblicare tutte le schede, come talora oggi si fa, è un’altra
cosa e forse è un segno dei tempi.
Un terzo livello si ha quando noi individuiamo forme, figure e strutture (o temi e motivi) utili a qualificare storicamente (secondo una dialettica tradizione / innovazione) il senso di un testo. È la prospettiva
che potremmo definire di critica storica (almeno nel senso con cui Emilio Bigi definiva «stilistica storica» la
sua analisi stilistica profondamente calata nella storia), o forse, meglio, di interazione tra storiografia e critica. Metafore sono presenti in quasi tutti i testi poetici di tutte le epoche, ma un conto è l’uso classicistico
moderato della metafora (come voleva Aristotele), un altro è l’uso arguto e concettuoso della metafora che
si fa in età barocca (un uso vizioso, avrebbe detto un classicista). Un conto sono le strutture simmetriche
presenti nel Petrarca, un altro l’uso esasperato, manieristico che ne fa il Tasso in alcune sue opere. Potremmo dire, banalizzando, che l’uso moderato ed equilibrato e anche dissimulato delle forme retoriche in
genere (secondo il precetto dell’ars est celare artem) è tipico del rinascimento, l’abuso delle figure in verbis
coniunctis è tipico del manierismo tardo cinquecentesco, l’abuso della metafora tipico del barocco.
Dicevo dunque che l’interesse per il valore simbolico che le forme e le strutture narrative possono assumere dipende in parte anche dall’atteggiamento del lettore e dell’analista. Ma non solo da questo. C’è
qualcosa negli stessi fatti verbali e talora nell’intentio auctoris che conta.
13
14
U. Eco, La critica semiotica, in I metodi attuali della critica in Italia, a c. di M. Corti e C. Segre, ERI, Torino 1980.
G. Debenedetti, Pascoli: la rivoluzione inconsapevole, Garzanti, Milano 1979, p. 99.
7
6. Ciascuno degli elementi fondanti il discorso narrativo può avere una funzione e un valore che potremmo dire neutri (un grado zero di significato storico-simbolico). È chiaro che per narrare una storia devo in ogni caso evocare un ambiente, delineare una struttura temporale, uno o più personaggi, farli parlare
e agire, creare un intreccio e via dicendo. In molti casi l’autore – per così dire – si limita a questo, senza
ulteriori intenzioni o implicazioni, ponendosi nel solco di modelli consolidati. È palesemente il caso di un
autore di racconti seriali, ma anche della maggior parte degli epigoni di ogni epoca (e certo anche della
maggior parte degli aspetti retorici di qualsiasi opera, anche della più geniale e innovativa).
Talora viceversa c’è un di più di intenzione o comunque una potenzialità ulteriore (anche inintenzionale) che io tenderei a definire appunto, con qualche approssimazione, simbolica. In effetti in molti casi e
soprattutto nei grandi autori, quelli più densi e originali, e in alcuni snodi storici, talune scelte formali e
strutturali acquisiscono un senso forte e si collocano – per così dire – nel cuore di una poetica, com’è il caso della metafora barocca.
Esaminiamo dunque, per concludere, alcuni esempi narrativi attinenti a diversi momenti storici e a diversi ambiti retorici.
7. Il passaggio cruciale dall’esempio cristiano medievale alla novella è stato magistralmente analizzato e
descritto anche nei suoi aspetti espressamente retorici da Salvatore Battaglia.15 Non ho il tempo di rievocarlo nei dettagli, ma è un capitolo importante della storia letteraria e culturale medievale, che – fra l’altro
– comporta il passaggio da una concezione pedagogica e moralistica dell’arte a una concezione più libera e
varia che ci riporta ai modelli dell’estetica antica (arte come intrattenimento, divertimento, consolazione,
insegnamento pratico e morale meno rigidamente vincolato però dall’etica cristiana) e soprattutto a una
rifunzionalizzazione di molte delle forme e strutture stesse del narrare.
L’esempio cristiano medievale finalizzava ogni elemento narrativo ad una strategia di edificazione morale. I personaggi era preferibilmente dei tipi perché dovevano evocare categorie generali in cui tutti potessero facilmente riconoscersi: essenzialmente santi e peccatori, declinati secondo una tipologia ben codificata di vizi e virtù; talora erano designati genericamente (un lussurioso, un invidioso ecc.) o erano addirittura
astratte figure allegoriche (la Fede, l’Eresia ecc.); quando venivano identificati in modo più preciso era per
attestare la veridicità del racconto. La vicenda rispecchiava quasi sempre lo schema della tentazione vinta,
della virtù premiata o della colpa punita. Ogni dettaglio della narrazione era in qualche modo funzionale
all’insegnamento morale: se si nominava la foglia di un cavolo, era perché vi si nascondeva un diavolo e
una monaca ne veniva tentata per il peccato della gola; se nel corso di una visione oltremondana di una
donna si diceva che era nuda e con i capelli scomposti al vento, la nudità significava lussuria e i capelli
sciolti (anch’essi con una connotazione di lascivia) poco dopo sarebbero stati afferrati dal cavaliere che era
incaricato di punirla. Quasi tutti i dettagli del racconto potevano poi facilmente rientrare nella spiegazione
del senso morale dell’exemplum, che spesso compariva esplicitamente come un fabula docet.
Allora la comparsa nella novella di ispirazione laica di personaggi perlopiù fittizi, ma caratterizzati da
un nome e un cognome, da uno stato sociale, un ambiente, relazioni e motivazioni più varie e complesse
già di per sé costituisce un fattore di enorme portata simbolica. Ma basta soffermarsi su qualche dettaglio.
Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti sviluppa in forma parodica un tema tipico degli esempi
(la caccia infernale: nella pineta di Classe incontra una donna nuda inseguita da feroci mastini e da un ca-
15
S. Battaglia, L’esempio medievale e Dall’«esempio» alla «novella», ora in Capitoli per una storia della novellistica italiana dalle origini al Cinquecento, Liguori, Napoli 1993.
8
valiere, proprio come nella fonte del Passavanti): Cesare Segre lo ha esemplarmente analizzato mostrando
come Boccaccio lavorando sulle strutture temporali trasforma radicalmente il messaggio morale della fonte
(lussuria punita) in un messaggio profano (un invito all’amore) e il protagonista da semplice intermediario
fra Dio e l’umanità, in uno scaltro regista per fini propri e profani.16 Ma forse il dato storicamente più importante per quanto concerne in termini generali la retorica del narrare lo possiamo trovare, quando Nastagio tenta di opporsi al cavaliere, in una semplice frase: «Ma senz’arme trovandosi, ricorse a prendere un
ramo d’albero in luogo di bastone e cominciò a farsi incontro a’ cani e al cavaliere». A parte la reazione di
Nastagio, impensabile nel Passavanti, ma ancora spiegabile col fatto che Nastagio non sa ancora che si tratta di una visione oltremondana, quel che importa è quel ramo d’albero in luogo di bastone che introduce un
dettaglio realistico che non ha altro fine che di farci vedere più analiticamente la scena. Così il racconto si
arricchisce di numerosi dettagli puramente visuali: padiglioni e trabacche, pini, albuscelli, frasche e pruni...
È qualcosa che ha a che fare con la nozione retorica dei motivi liberi e legati. Il racconto moderno, liberandosi da una troppo rigida funzionalizzazione dei motivi (tutti legati al significato morale del racconto)
si apre a una più varia e libera rappresentazione della realtà.
8. La rappresentazione dello spazio (e dei movimenti dei personaggi nello spazio) può condurci ad altri
snodi storici. In un felice saggio Jurij Lotman, coadiuvato da Simonetta Salvestroni, ha descritto la portata
simbolica della struttura spaziale della Commedia (come Bigi ha descritto il potenziale valore simbolico della terzina e di altre forme metriche dantesche).17 La Commedia è un’opera, per sua natura e per la matrice
culturale medievale, intrinsecamente simbolica e si può ben pensare che Dante nel concepire il suo viaggio
dalla dispersione nella selva oscura («la diritta via era smarrita») fino alla vertiginosa ascesa nell’alto dei cieli
avesse ben presente il valore simbolico di questo percorso che da tortuoso e lento e dispersivo si fa progressivamente sempre più lineare, rapido e convergente ad un fine inequivocabile. E forse lo poteva mettere
egli stesso in relazione di affinità con quella verticalità che le forme gotiche andavano imponendo alla spazialità e alla plasticità delle chiese. In ogni caso il dato strutturale è quello di un cammino che prima – sotto la guida di Virgilio – discende in modo più tortuoso e vario agli Inferi e poi dal centro della terra risale
faticosamente all’emisfero opposto e qui, con una più coerente spirale, fino alla vetta del Purgatorio e al
Paradiso terrestre. Da qui infine – sotto la guida di Beatrice – si innalza in linea ormai retta verso
l’Empireo e Dio stesso. Non so se è mai stato fatto in questi termini, ma è chiaro che è possibile collegare il
movimento più lento, tortuoso e faticoso in terra alla figura di Virgilio in quanto ragione (lumen naturale);
e quello rapido, lineare, levissimo, alla figura di Beatrice in quanto Grazia (lumen fidei, gratiae, revelationis). Comunque sia – tornando a Lotman – la discesa fisica e morale nel regno del peccato, e poi la risalita
fisica e morale in quelli del riscatto e della beatitudine, nell’immaginario dantesco sono due fasi complementari di un itinerario unico e nel suo complesso lineare. Linearità e tensione verticale sono i tratti simbolicamente salienti della struttura spaziale della Commedia.
16
C. Segre, La novella di Nastagio degli Onesti: i due tempi della visione, in Semiotica filologica, Einaudi, Torino 1979.
E cfr. H. Grosser, Narrativa, cit., pp. 289-303.
17
J. Lotman e S. Salvestroni, Il viaggio di Ulisse nella «Divina Commedia» di Dante, in J. Lotman, Testo e contesto.
Semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Bari 1980; ed E. Bigi, Forme e significati nella «Divina Commedia», Cappelli, Bologna 1981, che, tra l’altro scrive: «La vera novità di Dante nei confronti delle Artes e della letteratura medievale,
latina e volgare, a cui esse si riferiscono, risiede, direi, nella particolare intensità con cui il primo avverte il significato
della retorica come “imitazione” o corrispettivo, sul piano dell’espressione, delle strutture divine entro cui l’universo è
inquadrato, o, se si vuole, delle strutture mentali, intellettuali e morali, che riflettono quelle strutture divine»» (p. 16;
ma si vedano i primi due saggi).
9
Ora prendiamo un poema come l’Orlando furioso, per cui un esercizio simile di schematizzazione grafica dello spazio e dei percorsi dei personaggi non è stato fatto e sarebbe arduo fare seriamente. Ma, per le
note analisi ad esempio del valore simbolico del girovagare dei personaggi nella selva del primo canto, o
per le affermazioni di Caretti sul policentrismo e sul libero e confuso dinamismo dei personaggi nel complesso dell’opera, non fatichiamo a immaginare uno schema-mondo in cui i protagonisti, mossi dal caso e
dal variare dei loro desideri e progetti, che partono da un medesimo punto (Parigi) e via via si disperdono
per incrociarsi e ritrovarsi e ridisperdersi più e più volte nella selva d’Ardenna, ma poi per tutto o quasi lo
scenario del mondo noto. Comprendiamo facilmente come la struttura spaziale del Furioso, intricata e caotica, ma sostanzialmente orizzontale, terrestre (a parte un’ironica salita al cielo della luna e relativa ridiscesa
in terra) non sia altro che il corrispettivo simbolico dell’ideologia ariostesca, di un uomo del Rinascimento,
ormai incline a un pacato scetticismo, che pone tutto o gran parte del suo orizzonte in terra, senza però poter più credere del tutto nel mito umanistico dell’homo faber fortunae suae, e così ci dipinge un’umanità in
preda a passioni dispersive che la ragione non riesce più (sempre) a controllare e dominare, ma mosso ancora da un profondo vitalismo, illuso e impegnato a inseguire i propri sogni.
Se infine passiamo alla Gerusalemme liberata non fatichiamo a trovare fin dai primi versi la chiave di
volta critica per leggere la rappresentazione dello spazio a cui obbedisce il poema. Rifluito dal recente laicismo rinascimentale in un clima di religiosità non più saldo come quello dantesco, ma perplesso e turbato
come è quello del secondo Cinquecento (e suo in particolare), Tasso individua per il poema un centro di
attrazione che è intrinsecamente etico-religioso: Gerusalemme, il luogo del dovere essere, la meta di un viaggio di riscatto (in molteplici sensi). Con felice baldanza i crociati giungono alle sue porte, fin dalla giovanile intuizione del Gierusalemme: «ecco apparir Gierusalem si vede, / ecco additar Gierusalem si scorge, /
ecco da mille voci unitamente / Gierusalemme salutar si sente» (III,3). Ma nei primi versi del poema è posto anche il tema dei «compagni erranti» che Goffredo, col favore del cielo, «sotto i santi / segni ridusse ».
L’errare, l’erranza nell’Innamorato poteva ancora risentire alla lontana del mito liberale dei cavalieri erranti
per cercare onore, amore, o solo per amore dell’avventura e nel Furioso era l’affannoso ma vitale errare
dell’uomo nel mondo per tentare di realizzare i suoi scopi e sogni e al contempo un laicissimo errore di
giudizio («Ecco il giudicio uman come spesso erra», I, 7,2). Ebbene ora col Tasso diventa l’errore morale,
la deviazione dalla retta via come nell’incipit della Commedia (l’aggettivo erranti ha una forte pregnanza
semantica nel senso etico controriformistico). La storia ha un relativo, cruento lieto fine: Gerusalemme
viene conquistata, ma l’alter ego di Tasso, Tancredi, dal suo errare fisico e morale rimane comunque segnato per sempre, rimanendo nell’ombra del lutto per Clorinda. Ma prima di quell’esito è tutta imperniata
sull’umana fatica del convergere su Gerusalemme, obiettivo del dover essere. Armida intenzionalmente allontana (in senso fisico e morale) i più valorosi cavalieri dal campo cristiano; Clorinda inconsapevolmente
allontana (soprattutto in senso morale) Tancredi. Al forte vettore che indica convergenza verso il luogo ideale del dovere, della fede e della purificazione, fanno da contraltare numerosi vettori che allontanano da
quel centro di attrazione verso un dispersivo, colpevole policentrismo del piacere. Se alla fine tutti si ritrovano nella città conquistata, la Liberata non può essere tuttavia definito il poema della liberazione e
dell’ascesa (come era la Commedia); è invece il poema del conflitto, anche e soprattutto nel senso del conflitto intimo tra Inferno e Cielo, tra etica laica e religiosa, tra il piacere e il dovere, che distoglie e distrae.
Anche in questo caso insomma un corrispettivo simbolico di una concezione del mondo.
9. La struttura narrativa di tutti questi poemi è in ogni caso ben salda e si potrebbe anche dire «chiusa»
od organica. L’Orlando furioso può lasciare nel lettore un’impressione di ‘apertura’ (così Caretti) per via del
10
«senso libero, estroso, incalcolabile e inesauribile della vita»18 rappresentato nella sua multiforme varietà,
nel suo accadere e manifestarsi secondo tempi e ritmi imprevedibili, in luoghi e spazi continuamente e liberamente mutati, obbedendo non a un ordine provvidenziale, ma solo al caso, ma per via anche della
fluidità con cui è concepita e realizzata la tecnica dell’entrelacement. In realtà – come ormai si è chiarito –
questi fattori sono ampiamente compensati da un finale plausibile (Ruggiero e Bradamante si sposano, Orlando impazzito rinsavisce, i cristiani sbaragliano i saraceni invasori), dalla presenza di calcolate simmetrie
strutturali, dal motivo unificante dell’inchiesta (che introduce elementi di coesione, rispetto alle procedure
per accumulo dei cantari) e soprattutto dalla sapiente funzione di regia messa in atto dall’Ariosto, che domina narrativamente e moralmente la propria così varia e dinamica materia: un esempio ne sono i sistematici interventi a commento che avvertono il lettore dei trapassi, introducono raccordi e quasi costantemente commentano e riportano ad un ordine morale e artistico lo scomposto fluire delle traiettorie e dei destini dei personaggi. Una saggezza e un’armonia faticosamente conquistata, ma di fatto conquistata e realizzata sul piano dell’arte anche quando deve ironicamente constatare il fallimento della ragione o la vanità degli ideali cavallereschi («Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!», I, 22,1).
Pensiamo, invece, a quel che ha scritto il vostro e nostro padre Pozzi, a proposito della struttura
dell’intreccio di un poema come l’Adone del Marino ai primi del Seicento, fondata sulla divagazione e la
proliferazione per accumulo, rispetto alle strutture razionalmente dominate e in vario modo unitarie, dei
poemi precedenti dalla Commedia alla Gerusalemme liberata: la struttura divagante dell’Adone – e in verità
anche l’abolizione dell’eroe epico – gli appariva come una sorta di rivoluzione copernicana nella forma del
narrare, effetto e simbolo di quel rivolgimento culturale in grado di sconvolgere anche le residue certezze
dell’uomo rinascimentale: «Il Marino – scrive Pozzi – si indusse a modellare un poema che è esso stesso un
sistema copernicano, ed obbligò il lettore a viverci dentro».19
10. Mutiamo epoca e strutture retoriche. Un autore ha sempre potuto scegliere tra le diverse opzioni
teoriche del narratore omo ed eterodiegetico, o come io dico interno ed esterno alla storia, nei casi limite colui
che narra la propria storia (Il fu Mattia Pascal) o un’altrui storia essendo estraneo alla vicenda (I promessi
sposi) o magari testimone di essa. Posto questo, appare del tutto evidente che la scelta convergente da parte
di molti scrittori di fine Settecento e primo Ottocento di privilegiare il narratore omodiegetico, che si confessa oralmente (René di Chateaubriand) o per iscritto (il Werther di Goethe, l’Ortis di Foscolo), talora anche per la forte suggestione delle Confessioni di Rousseau, acquista un valore storico-simbolico del tutto
particolare: è precisamente la volontà di mettere in scena una narrazione soggettiva, fortemente lirica, che
privilegia l’introspezione nella forma anche patetica, tumultuosa, abissale dell’autointrospezione. È
l’emersione romantica dell’individualismo nella forma narrativa.
Che poi il Manzoni – e con lui Balzac, Stendhal e molti altri scrittori nel corso di tutto il medio Ottocento – dia vita al modello del ‘realismo classico’ con narratore esterno ed onnisciente, che interviene spesso a commento (sostituendo i giudizi dell’anonimo con i propri), è certo una scelta tecnica, tra le possibili.
Ma nel caso del Manzoni – oltre che essere una scelta consona alla sua indole sobria e riservata e alla sua
visione del mondo eticamente rigorosa (sappiamo quanto diffidasse dall’eccesso di emotività, di passionalità) – assume anche il valore di un distanziamento oggettivante e giudicante nella prospettiva di una sintesi
18
19
L. Caretti, Ariosto, in Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Einaudi, Torino 1976, pp. 100-101.
Cfr. G. Pozzi, Metamorfosi di Adone, «Strumenti critici», 16, 1971 e Presentando l’«Adone», «Paradigma», 2, 1978.
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di razionalità e concretezza illuministica20 e di una supervisione etico-religiosa ispirata ai valori di un moderno cattolicesimo, non dimentico per un verso delle direttive conciliari (del concilio di Trento) che ribadivano la necessaria mediazione del clero nel rapporto tra uomo e Dio, ma non dimentico per altro verso
neppure del fardello delle responsabilità morali che questa funzione assegnava al clero. Qualcosa di analogo
ci dice pure la descrizione di Franco Fido del sistema dei personaggi dei Promessi sposi che pone al centro
del sistema quattro religiosi, mediatori essenziali nei rapporti tra i protagonisti, vittime (Renzo e Lucia) e
oppressori (don Rodrigo e l’Innominato): sono don Abbondio e Fra Cristoforo, la monaca di Monza e il
cardinale Borromeo, la cui diversa natura e funzione di coadiutori degli opposti contendenti, addita proprio quella responsabilità morale.21 Pur con tutte le cautele e le dichiarazioni di umiltà il ruolo del narratore dei Promessi sposi è al contempo quello dello storico liberale post-illuminista che indaga e giudica le vicende storiche e quello di un moralista che indaga e (in parte, fin dove è umanamente possibile) giudica i
moti del cuore umano e i comportamenti degli individui.
Per il Flaubert di Madame Bovary l’eclissi del narratore (un narratore eterodiegetico, che si immedesima nei personaggi senza esplicitamente giudicarli) è una funzione che esplicitamente comporta il paragone
con Dio (il narratore è invisibile ma onnipresente nella narrazione, come Dio nel mondo) ma in fondo è
solo una metafora laica e probabilmente suggerisce un più complesso gioco di specchi («Bovary c’est moi»).
L’eclissi del narratore negli scrittori veristi obbedisce esplicitamente a intenti di impersonalità e obiettività che hanno lontane ragioni di scientismo positivistico (mediatrice la poetica di Zola). Ma quando poi,
tramonta questa ideologia, noi assistiamo ad una impetuosa ripresa della forma del narratore omodiegetico: Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno ne sono solo gli esempi italiani più clamorosi. Solo che ora
l’opzione tecnica ha un significato diverso da quello che aveva avuto un secolo prima. Tutto ora converge a
delineare la crisi del personaggio uomo, la disgregazione del personaggio unitario ottocentesco. La scelta di
vederlo dall’interno tramite il narratore omodiegetico non è la sola possibile (tant’è che Svevo ottiene risultati analoghi anche con la forma eterodiegetica in Una vita e in Senilità) ma è una scelta simbolica, funzionale a far deflagrare le contraddizioni, le disarmonie intime, i conflitti identitari. Zeno si sente malato e
infelice e vede e crede gli altri sani e felici (ma alla fine scoprirà e dichiarerà che non è così, che tutti siamo
malati); Zeno dice e contraddice, evolve nel tempo scoprendosi contraddittorio e mutevole; Zeno, narrando dal suo punto di vista, soggettivo e arbitrario, potenzia al massimo grado l’effetto di soggettività implicito nella forma autodiegetica, fino a mettere in dubbio – contro il moralismo manzoniano e lo scientismo
positivistico – lo statuto stesso della malattia e la possibilità di giungere a una qualche verità su se stesso e
sul mondo. Il soggettivismo della narrazione omodiegetica è potenziato fino a diventare quasi un relativismo antioggettivistico, una critica all’oggettività del reale e dei giudizi che noi possiamo formulare sul reale
(interiore ed esteriore).22 Siamo all’interno di un flusso inarrestabile. Inutile insistere sul relativismo di Pirandello.
11. Una funzione analoga, che sarebbe qui troppo lungo analizzare in dettaglio e del resto è cosa ben
nota, assolve la destrutturazione dell’intreccio. Sia nel senso dell’abbandono della forma chiusa classica e
20
Per una più precisa definizione dell’invenzione manzoniana rispetto alla struttura della narrazione rimando al mio
Osservazioni sulla tecnica narrativa e sullo stile nei «Promessi sposi», «Giornale storico della letteratura italiana», CLVIII,
503, 1981, pp. 409-440.
21
F. Fido, Per una descrizione dei «Promessi sposi»: il sistema dei personaggi, in «Strumenti critici», VII, 1974, p. 346.
22
Su tutta la questione rimando al mio Le narrateur autodiégétique comme forme symbolique. Notes pour une typologie et
une histoire du je narrant dans le roman italien, d’Ortis à Zeno, in Aspects du roman italien aux XIXe et XXe siècles, Ètudes réunies et présentées par Denise Alexandre, Publications de l’Université de Saint-Etienne, 2000.
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ottocentesca, del racconto compiuto con un inizio e una fine logici (dal matrimonio impedito al matrimonio realizzato, attraverso la posizione e il superamento di ostacoli che possono moltiplicarsi ad libitum), per
adottare forme aperte o incompiute. Non penso ora alla tranche de vie naturalistica, che pure ha il suo valore simbolico, in quanto addita non tanto una vicenda, quanto una condizione psicologica o una società i
cui meccanismi e le cui patologie possono cogliersi in vitro anche attraverso segmenti incompiuti di storie.
Penso piuttosto ancora al racconto e la romanzo novecentesco che complica e destruttura per significare
l’assurdità della condizione umana, l’illogicità degli accadimenti del vivere individuale e sociale, il sottrarsi
della realtà al controllo razionale.
Il caso Gadda, con le sue storie quasi programmaticamente incompiute, è l’esempio dello scacco di una
razionalità, d’origine forse positivistica, che muove per dipanare gli infiniti garbugli dell’esistenza individuale e del «fenomenico mondo» e si impegna a ricercare le cause e le concause, ma alla fine deve arrendersi
di fronte all’indecifrabilità del caos. La scelta di trame delittuose e poliziesche e la loro incompiutezza – la
detective story del Pasticciaccio che non si compie, il delitto della Cognizione che non rivela il colpevole –
sono elementi ironici e drammatici al tempo stesso, ma certamente – forse al di là delle intenzioni – simbolici.
È però anche il caso di infinite storie divaganti, che procedono per aggregazioni e digressioni libere e
perturbanti, diluendo o dissolvendo la linearità e la logicità dell’intreccio classico.
Ed è il caso della tendenza del romanzo novecentesco verso l’acronia, cioè verso la dissoluzione
dell’ordine temporale, fino all’impossibilità da parte del narratore e del lettore di ricostruire all’interno del
racconto un qualsiasi plausibile ordine logico-cronologico degli eventi. Il valore simbolico di questa procedura è vario e complesso, coerentemente con la complessità della nozione contemporanea di tempo (a partire da Bergson e Proust). Ma perlopiù addita la perdita di certezze e di identità del personaggio-uomo novecentesco, come sembra dirci e contrario molto semplicemente Musil quando afferma che
quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un
matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui
è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: “allorché”, “prima che” e “dopo che”! Avrà magari avuto tristi vicende, si
sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco.23
La complicazione delle prospettive temporali percepite e narrate dalla specola soggettiva del narratore
omodiegetico significa sostanzialmente, in progressione, 1) non avere più la possibilità di mettere ordine
nell’evoluzione degli eventi, 2) mettere in discussione il principio di causa / effetto (se non posso dire esattamente che cosa accade prima e che cosa accade dopo come potrò stabilire che cosa causa che cosa?) e
quindi 3) la propria identità divisa tra stati di coscienza differenti e contraddittori dispersi in una temporalità caotica, che fa tutt’uno con la nostra interiorità, e infine anche 4) mettere in discussione il principio di
oggettività e di verità (in pratica questa destrutturazione mette in discussione alcuni dei principi fondamentali della logica e della filosofia occidentale). Ricordiamo invece i manzoniani abissi del cuore umano,
allora dominati da una prospettiva morale e razionale che, pur conscia dei propri limiti, poteva alludere a
una prospettiva superiore e trovar riparo e conforto nel cono d’ombra e nella certezza di un disegno provvidenziale che garantiva ordine e senso. (Tra parentesi la prospettiva superiore è anche quella che, per addi23
R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, pp. 629-630.
13
tare un altro dato tecnico di valore più limitatamente simbolico, nelle prime righe del romanzo viene evocata dall’adozione di un punto di vista – quello di Dio è stato detto – che dall’alto, da cui domina tutta
l’alta Lombardia, cala giù giù fino alla stradina della collina lecchese dove si agita il misero dramma di don
Abbondio e poi quelli di tutti gli altri poveri personaggi umani). Ebbene i manzoniani abissi del cuore umano ora divengono magma indominabile, di fronte al quale non c’è razionalità sufficiente né ordine superiore, tanto che per combattere l’angoscia non ci si può forse che affidare al caso. A quel caso che fa di
Zeno, ad esempio, un inetto tutto sommato fortunato, e forse neanche troppo infelice, ma solo perché
comunque mirando a un bersaglio riesce a far centro in quello accanto.
La coscienza di Zeno è appunto il romanzo esemplare di questa destrutturazione dell’ordine logicocronologico: narrato per episodi, confessioni scritte del narratore, che ci portano continuamente e ricorsivamente da un tempo all’altro, da uno stato di coscienza all’altro, lungo un itinerario logico-cronologico
complessivo che parte dalla constatazione della malattia psichica per giungere alla dichiarazione di una
guarigione, che però nella pagina finale viene bruscamente convertita in una opposta dichiarazione della
universalità della malattia, della sua natura congenita nell’essere umano, il racconto quasi ad ogni pagina
confronta due e più stadi della coscienza e dell’identità del narratore, lo Zeno vecchio, lo Zeno narratore
che scrive e i tanti Zeno narrati, più o meno giovani, non sempre esattamente collocabili in una chiara
cronologia, che agiscono, senza mai che l’uno e gli altri possano costituirsi in un ritratto unitario e veramente coerente. Il tempo si frantuma, si disarticola e si disperde, e così la povera identità del protagonistanarratore, simbolo l’uno e l’altro della crisi del personaggio novecentesco. Tempo, forma della narrazione,
struttura dell’intreccio convergono tutti ad alludere simbolicamente a quella crisi etica e gnoseologica che
caratterizza l’ingresso nel Novecento.
12. Troppo lungo ora sarebbe indugiare, per questo medesimo contesto storico, sul valore simbolico
che assumono le scelte tecniche operate nella rappresentazione delle parole e dei pensieri dei personaggi da
parte di scrittori come Joyce, con il suo uso geniale del discorso diretto libero (o monologo interiore) nella
forma innovativa del flusso di coscienza. Un flusso verbale regolato da una sintassi precaria senza alcuna
punteggiatura caratterizza il monologo di Molly Bloom. Ma tutta il romanzo alterna liberamente discorsi
diretti, indiretti, indiretti liberi e diretti liberi con accenni di flusso di coscienza. Ci si può interrogare sul
senso (intenzionale) di questa scelta: semplice mimesi realistica del pensiero, più realistica che in passato,
sulla base delle acquisizioni della psicologica contemporanea (William James, ad esempio);24 o modalità di
alludere anche in questo caso a una degradazione e a una disintegrazione (come Bloom è il protagonista di
una moderna degradata e disgregata Odissea, senza senso e senza esito, colta nel corso di un giorno qualsiasi)? Certo è che siamo a una svolta coerente e convergente con molti altri fenomeni tecnici e tematici e ideologici di cui un poco si è discorso.
E in ogni caso qui apertamente si infrange il galateo letterario, ironicamente evocato dal Manzoni
nell’episodio dell’osteria della Luna piena quando smette di riferire le parole di Renzo ubriaco, perché erano ormai prive si senso o facevano mostra di esserlo, cosa che non gli pareva ammissibile in un discorso affidato alla carta stampata.25 La storia remota della rappresentazione delle parole e dei pensieri dei perso24
Cfr. W. James, Il flusso di coscienza. I principi di filosofia. Capitoli IX e X, a c. di L Demartis, Bruno Mondadori,
Milano 1998.
25
«Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che
tralasciamo, disdirebbero troppo; perchè, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato» (XIV, 286).
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naggi è stata efficacemente riassunta da Scholes e Kellog, che ad esempio ricordano come nel poema antico
i pensieri dei personaggi, sintatticamente ineccepibili, sono concepiti come discorsi retoricamente elaborati
e per lo più in forma di dialogo con una divinità o con se stessi.26 Manzoni poi, che rifiuta anche la secentesca dicitura dell’anonimo, non osa far parlare Renzo e Lucia come avrebbero dovuto davvero parlare a
quel tempo, in un dialetto arcaico, ma per distinguere la parlata dei personaggi altolocati (che certo non si
esprimevano nella lingua risciacquata in Arno del Manzoni) adotta una sintassi più articolata e accorta,
mentre riserva una sintassi più elementare non priva di qualche solecismo ai popolani, che per la prima
volta nella letteratura italiana assurgono all’onore di una storia potenzialmente tragica e parlano tanto. Nel
Novecento, dapprima con qualche scandalo (Pasolini, Ragazzi di vita), si adotteranno invece gerghi e dialetti per fini realistici o comunque espressivi.
E allora Joyce forse mette in atto quel che altri si limitavano a dire, che i pensieri fluiscono spesso
scomposti nella mente dell’individuo. Ma forse non vuole dire solo questo. O forse dicendo questo non fa
che mostrare un altro degli aspetti della crisi della ragione ordinatrice protagonista della narrativa contemporanea.
Certo è che in tutti questi casi e in molti altri, che si potrebbero addurre e studiare meglio di quanto
non si sia finora fatto, la retorica della narrativa non si limita ad essere un prontuario di tecniche neutre,
ma – come volevasi dimostrare – un repertorio di strumenti almeno potenzialmente simbolici.
26
R. Scholes e R. Kellog, La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 223-259.
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