dispensa introduttiva

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dispensa introduttiva
Anna Carbone
Dispense Didattiche - AA 2013-14
Le principali tendenze evolutive del sistema agroalimentare italiano
dal secondo dopoguerra ad oggi1
1. Premessa
Ogni riflessione sulle caratteristiche attuali del sistema agroalimentare (SAA) italiano e sui fattori
che concorrono a definirne il livello di competitività, va necessariamente collocata in una duplice
prospettiva. Da un lato i dati strutturali che la caratterizzano in maniera sostanzialmente
immodificabile e, dall’altro lato, i sentieri evolutivi che concretamente sono stati attivati con
riferimento agli assetti produttivi ed organizzativi, sia per quanto riguarda la componente primaria
che, più in generale, il cosiddetto agribusiness. Questi processi, sono, infatti, la risultante di un
articolato percorso di modernizzazione dispiegatosi nel corso dell’ultimo mezzo secolo e più. Una
modernizzazione che, pur operando lungo linee di tendenza strettamente affini alle trasformazioni
settoriali ed intersettoriali tipiche delle economie industrializzate, appare tuttora caratterizzata da
tratti di incompiutezza e da non marginali aspetti di peculiarità. Ritardi e peculiarità riconducibili,
nella loro genesi e nella loro evoluzione, alla configurazione dello scenario di partenza, ossia agli
assetti economici e sociali propri dell’agricoltura italiana nell’immediato dopoguerra.
Volgendo, dunque, lo sguardo al presente, occorre anzitutto rilevare che il generale contesto in cui il
SAA, oggi ed in prospettiva, è chiamato ad operare, appare sollecitato e condizionato da alcune
variabili di primaria importanza.
L’intensificarsi della competizione globale sia sul mercato interno che su quelli internazionali,
caratterizzati dalla estrema articolazione delle filiere, dominati sempre più dall’azione delle catene
distributive, ma anche dalla complessità degli elementi che entrano in gioco nel quadro
macroeconomico generale.
Inoltre, l’evoluzione continua e rapida della domanda, o meglio, delle aspettative e richieste del
consumatore nei confronti del SAA richiede una notevole capacità di registrare tali mutamenti e di
adattarvisi. Agli occhi dei consumatori finali la performance del sistema appare sempre meno
associata alla crescita quantitativa del settore, ormai data per acquisita; mentre è sempre più legata a
ciò che l’agricoltura è invece in grado di esprimere in termini di salubrità e qualità degli alimenti e
di rispetto ambientale.
A riguardo di quest’ultimo aspetto, ovvero il contributo che il settore primario può e deve dare agli
equilibri ambientali, l’agricoltura si pone oggi in relazione non solo con le filiere produttive nelle
quali è inserita e con i clienti finali dei prodotti alimentari ma con settori molto più vasti della
1
Il testo di queste pagine riprende ampiamente l’articolo di A. Carbone ed M. De Benedictis “Processi di
trasformazione e competitività del sistema agroalimentare italiano in un’Europa più grande”, pubblicato sulla Rivista di
Economia Italiana, n.1, 2003. I dati inseriti nelle tabelle e commentati nel testo sono stati ampliati ed aggiornati
ovunque possibile.
1
società intera. In questo contesto il rapporto viene mediato non solo e non tanto dal mercato ma da
istituzioni pubbliche, locali, nazionali e talvolta sopranazionali.
Infine, proprio sul fronte del ruolo crescente che i vari soggetti pubblici sono chiamati a svolgere in
questo ambito, c’è da rilevare che, per quanto riguarda la Politica agricola comune (PAC) attualmente sotto (l’ennesima) fase di revisione- sono ampiamente maturate le condizioni per una
sua ulteriore e ancor più radicale riformulazione che sia capace di recepire, con nuovi obiettivi e
nuovi strumenti, le complesse sollecitazioni generate dalla radicale evoluzione dei compiti affidati
al settore primario dalla società europea nel suo insieme.
2. Economia, società e agricoltura in Italia nei primi anni del secondo dopoguerra
In questo breve paragrafo si vuole ricordare, attraverso una trattazione qualitativa e di tipo
meramente descrittivo, quale fosse la situazione del nostro paese all’indomani della seconda guerra
mondiale. Ciò è tanto più rilevante al fine della comprensione di come si siano determinati gli
assetti attuali e le performance del settore primario in quanto enorme è la differenza del quadro
fotografato dalle due istantanee: quella di allora e quella di oggi. La significatività e la velocità del
cambiamento non sono, pertanto, neutrali rispetto alla configurazione attuale del settore ed alla sua
collocazione, sia nell’economia nazionale che nei mercati agroalimentari internazionali.
Dunque, in estrema sintesi, l’Italia della seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso era un paese
povero ed arretrato non solo a confronto con la situazione attuale ma anche rispetto a come erano in
quegli stessi anni i grandi paesi dell’Europa continentale, quali, ad esempio, Regno Unito,
Germania e Francia. Questa situazione era il frutto del recente passato fascista ed autarchico del
paese e degli effetti, pur devastanti, della guerra; ma anche, e forse più, di un percorso storico lungo
secoli che aveva visto le popolazioni italiche:
- divise politicamente in tanti staterelli, sostanzialmente marginali rispetto ai processi di
trasformazione politica, economica e sociale, che avevano traghettato, nel corso dei secoli e più o
meno gradualmente, gran parte del resto dell’Europa verso la modernità 2;
-divise geograficamente da un territorio ad orografia difficile e con un atavico deficit di
investimenti in infrastrutture.
-povere a causa di una scarsissima industrializzazione e della diffusione di una agricoltura arretrata
e di una strutturale carenza di terra.
-ignoranti e organizzate secondo rapporti sociali risalenti alle modalità di arcaiche società rurali
(latifondismo, mezzadria, bracciantato,….).
In questo contesto, le aziende agricole producono in larga parte per l’autoconsumo, mentre la
produzione eccedente viene perlopiù venduta su mercati locali. Ciò implica che vi è una scarsissima
specializzazione produttiva e quindi bassi livelli di produttività. Ciò anche aggravato dalla scarsità
di mezzi tecnici utilizzati e dalla loro scarsa qualità ed arretratezza: i concimi sono rappresentati dal
letame, la forza motrice dal bestiame, le sementi sono parte della produzione accantonata. La
2
In estrema sintesi e semplificando molto: Nascita degli stati nazionali centralizzati, industrializzazione dell’economia,
affermazione del colonialismo e dei processi di accumulazione che ne seguirono, nascita della borghesia e affermazione
del suo ruolo sociale, economico e politico, sviluppo di commerci internazionali, e via dicendo.
2
manodopera è largamente eccedete mentre la terra è drammaticamente poca. Le intense ondate
migratorie che hanno preceduto il ventennio fascista hanno dato solo temporaneo e parziale
sollievo. La popolazione -soprattutto, ma non solo, quella delle campagne interne del meridione- è
malnutrita e denutrita; analfabeta o con livelli di istruzione molto bassi.
3. Aspetti evolutivi e caratteri attuali dell’agricoltura italiana
Il tratto distintivo forse più importante del processo di crescita economica realizzato in Italia nel
secondo ‘900, è senz’altro il suo carattere “esplosivo” che gli ha valso la definizione di boom
economico. Questa grande velocità di crescita ha fatto sì che si colmasse in breve tempo buona
parte della distanza dai paesi europei di più antica industrializzazione. I pochi indicatori riportati
nelle tabelle 1 e 2 testimoniano del percorso compiuto dall’economia Italiana e dalla sua agricoltura
in breve tempo e del suo attuale allineamento con i principali paesi europei.
Tavola 1. Crescita economica e declino agricoltura
1949
1967
1992
2002
2008-2009
27
48
56
125
12
23
52
89
4.2
6.5
50
-20%
3.7
5.5
50.0
87.0
2.3
5.2
43.8
-9.9%
Tx annuoVAR PIL pro capite
0.4
4.3
fonte: Fuà e elab. Su dati TIO ISTAT e INEA
*i dati % sono variazioni riferite al decennio
2-3%
PLVagr/Pil (Vaagr/Pil)
lavoro agr/lavoro totale
produttività lav agr/tot*
ragione di scambio agr/tot*
circa 1% -2%/-4%
….Tavola 2.
Agricoltura e sistema economico: Confronti Europei
2009-10
PILp (Euro)
Vaa/PIL
%occ. agr.
Germania
29617
0.9
1.3
Spagna
23081
2.7
4.8
Francia
29605
1.8
3.3
Italia
25507
1.9
4.7
Regno Unito
26413
0.7
1.0
8712
3.6
13.6
Polonia
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat
Il livello del reddito procapite, attestato ben al di sopra dei ventimila euro, è di poco inferiore, ad
esempio, a quello degli inglesi. Anche il ruolo del settore agricolo, sia in termini di quota della
ricchezza prodotta che di impiego di forza lavoro, si è molto ridimensionato, e si presenta
attualmente su valori del tutto in linea con quanto accade nei principali partner europei.
Analogamente, l’incidenza dei consumi alimentari sulle spese totali delle famiglie italiane è ben
inferiore ad un quinto del totale, in linea con quanto avviene negli altri paesi.
3
In questo paragrafo si mostrerà come anche il settore agricolo, è stato coinvolto, e per certi versi,
travolto, non solo nelle sue dimensioni complessive ma anche nei suoi equilibri interni, da questi
impetuosi processi di industrializzazione e modernizzazione del paese. L’obiettivo è di fornire
informazioni sui principali caratteri strutturali del SAA italiano e di offrire spunti interpretativi
dell’assetto attuale in chiave di punti di forza ed ai nodi irrisolti del processo di modernizzazione,
anche in chiave di competitività internazionale del paese.
3.1. La modernizzazione dell’agricoltura: le forze del cambiamento
Uno dei potenti motori del cambiamento in agricoltura è, come noto, il formarsi di una crescente
domanda di prodotti agricoli a seguito della dinamica demografica, della crescita del reddito e della
crescita della quota di popolazione urbana che ricorre al mercato per procurarsi i beni alimentari.
Per capire a pieno l’importanza di questo aspetto si devono ricordare, innanzitutto, le drammatiche
condizioni di partenza, soprattutto di alcune aree del paese caratterizzate da estrema povertà; dove
ancora nel dopoguerra malnutrizione e denutrizione affliggevano significative fasce della
popolazione. Questa vigorosa crescita della domanda di beni agricoli imprime un forte impulso
all’aumento dell’offerta, soprattutto attraverso aumenti di produttività ottenuti con profondi processi
riorganizzativi e con massicce iniezioni di progresso tecnico. Questi aspetti saranno ripresi più
sotto, ora si vuole sottolineare come questo aumento, in termini assoluti, della domanda di alimenti
corrisponda ad un suo declino in termini relativi: questi incidevano per il 55% del totale dei
consumi nel dopoguerra mentre sono ben al di sotto del 20% negli anni più recenti. Ciò si verifica
per più di una ragione. In primo luogo, in accordo con la ben nota legge di Engel, anche nell’Italia
di questo periodo, sono le voci di consumo non rivolte agli alimenti a crescere più rapidamente con
il reddito3. Inoltre, la domanda di alimenti va incontro a radicali modifiche qualitative, privilegiando
sempre più prodotti di prima e seconda trasformazione, per i quali la quota di valore aggiunto che
va all’industria agroalimentare cresce enormemente a discapito della quota che resta all’agricoltura.
Guardando il fenomeno dal lato dell’offerta, si ha che la nascita e lo sviluppo dei settori extra
agricoli hanno implicato, come ovvia conseguenza, un declino della partecipazione del settore
primario alla formazione del reddito nazionale (da più del 25% nel dopoguerra, al 12% del 1967,
fino a meno del 3% circa di questi anni), con gli ovvi corollari in termini di occupazione ed uso
delle risorse.
Inoltre, l’agricoltura stessa si è profondamente trasformata attraverso un radicale mutamento dei
processi produttivi che la hanno portata a connettersi intimamente con gli altri settori
dell’economia: a monte con le industrie fornitrici di fattori produttivi, macchinari e mezzi tecnici di
varia natura; e a valle con le industrie di prima e seconda trasformazione e con le diverse imprese
legate alla funzione distributiva. Ciò ha comportato una apertura al mercato ma anche una
3
La (cosiddetta) legge (empirica) di Engel afferma quanto segue: al crescere del reddito la spesa per beni alimentari,
pur crescendo in termini assoluti, si riduce in rapporto alla spesa complessiva. Ciò avviene in quanto, da un lato, i beni
alimentari sono beni di prima necessità per soddisfare i quali i consumatori spendono quote importanti del proprio
reddito quando questo è basso; dall’altro lato, i consumi alimentari danno luogo a sazietà e quindi sono relativamente
poco espandibili. Dunque, se cresce il reddito la quota destinata ad acquistare alimenti si riduce.
4
“industrializzazione” dell’agricoltura. Oltre al progresso tecnico anche la crescita degli investimenti
nel settore, avvenuta grazie al rapido processo di accumulazione di capitale, favorito dalla vivace
crescita economica, ha giocato un ruolo importante nella crescita della capacità produttiva del
settore primario. Il miglioramento delle condizioni strutturali ed infrastrutturali, si è largamente
basato sull’autofinanziamento e sull’auto-sfruttamento della manodopera familiare ed è stato
favorito da numerosi interventi legislativi e generose misure di sostegno succedutisi nel tempo.
Questo cambiamento tecnologico, a cui si è aggiunta la cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni
60, esogena al contesto nazionale, ha fatto crescere enormemente la produzione e la produttività
della terra e del lavoro. In presenza di un vincolo sulla quantità di terra coltivabile, l’aumento della
produttività del lavoro ha aggravato la situazione di “endemico” esubero di manodopera in
agricoltura. In venti anni circa (anni ’50 e ’60) hanno cambiato settore di attività non meno di 5
milioni di agricoltori. La rapidità che ha caratterizzato l’esodo ha avuto anche una conseguenza di
più lungo periodo in quanto si è trattato di un fenomeno selettivo soprattutto rispetto all’età dei
lavoratori. Questo processo di selezione è poi continuato nel tempo portando sempre più giovani in
cerca di primo impiego verso le attività extra-agricole e assottigliando progressivamente i flussi del
ricambio generazionale. Attualmente, quasi i due terzi (61,4%) delle aziende agricole sono gestite
da imprenditori con più di 55 anni, e, inoltre, di questi più della metà (pari al 37,7% del totale) sono
ultra 65enni: una situazione senza eguali in altri settori produttivi. Il fenomeno della cosiddetta
senilizzazione del lavoro in agricoltura - particolarmente accentuato in Italia anche se si riscontra
nella maggior parte dei paesi dell’Unione - ha riflessi significativi non solo in prospettiva, in quanto
mina il naturale processo di avvicendamento generazionale, ma anche in quanto ha ripercussioni
negative sulla dinamicità del settore in termini di propensione al rischio, all’innovazione,
all’aggiornamento professionale, e via dicendo; tanto da essere oggetto di specifiche misure
nell’ambito della PAC.
3.2. Strutture produttive e articolazione sociale
La fortissima riduzione del numero degli addetti, non ha, però, contribuito a risolvere l’annoso
problema della “fame” di terra che caratterizza l’agricoltura italiana e che si traduce in un vero e
proprio nodo strutturale irrisolto: quello delle dimensioni aziendali che oggi sono, in media di 7,9
ettari per azienda. Più nel dettaglio, il censimento generale dell’agricoltura del 2010, del quale
l’ISTAT comincia a rilasciare in questi mesi i primi dati provvisori, mostra che circa i quattro quinti
delle aziende agricole ha meno di 10 ettari mentre meno del 2% supera i 50 ettari concentrando,
però, a sè più del 40% dell’intera superficie coltivata.
Le aziende zootecniche sono anch’esse estremamente frammentate, nonostante che gli ultimi venti
anni abbiano portato vistosi processi di concentrazione e ristrutturazione 4. Con il 35,2% delle
4
Al riguardo, diversi fattori hanno giocato un ruolo determinante: 1) l’istituzione di un premio per l’abbattimento dei capi
(soprattutto vitelli e vacche lattifere), stabilito nel 1992 nell’ambito della riforma Mac Sharry; 2) le vicende connesse
all’effettiva applicazione delle quote latte a seguito della L.N. 468/1992; 3) le difficoltà di adeguamento alla nuova normativa
in materia igienico-sanitaria (direttive UE 92/46 e 92/47); 4) la crisi di mercato scatenata dalla BSE (la cosiddetta “mucca
pazza”). Più recentemente, la riduzione ed il successivo azzeramento del sostegno accordato agli allevamenti che ha
5
aziende scomparse dalla scena produttiva tra il 1990 ed il 2000 ed una ulteriore riduzione del 68%
negli ultimi dieci anni, restano oggi appena 210mila aziende con allevamenti nel nostro paese. La
situazione fotografata dall’ultimo Censimento è la seguente: gli allevamenti bovini con una media
di 45 capi restano decisamente frammentati anche se il numero medio di capi per stalla appare
decisamente in crescita, soprattutto per effetto della scomparsa dei piccolissimi allevamenti. La
situazione degli allevamenti ovini è del tutto analoga con una media di capi per azienda che è salita
da 70 del 2000 ai 130 attuali.
Una prospettiva più significativa per valutare le dimensioni delle imprese agricole è quella che tiene
conto della diversa intensività e redditività dei processi produttivi agricoli. Per far ciò viene
utilizzata una misura detta UDE, unità di dimensione economica fondata sul RLA, reddito lordo
standard5. Anche in questi termini, la polarizzazione delle aziende delle aziende agricole italiane
resta molto accentuata: nel 1990 circa i quattro quinti delle unità conseguiva, in termini di reddito
lordo standard (RLS), un valore inferiore ai diecimila euro. Questa percentuale è scesa al 72% circa
nel 2007, restando, quindi, ancora molto elevata. All’estremo opposto, oggi appena il 2,4% delle
aziende, ha una dimensione economica di 100mila euro o più, mentre venti anni fa questa
percentuale era inferiore all’unità.
Percentuale aziende agricole italiane per classe di UDE
1995
2000
2007
82.0
81.8
'8-40
14.9
15.0
40-100
2.3
2.4
> 100
0.8
0.8
totale (n.)
2664550 2482100
fonte: elaborazioni su dati eurostat
79.9
15.9
2.9
1.2
2153720
72.2
20.7
4.8
2.4
1679440
classi UDE
1990
0-8
In tutti i casi si tratta di una frammentazione ben più spinta di quella che caratterizza molti altri
paesi europei, come risulta anche evidente dal grafico a barre riportato di seguito. Questo mostra sempre in termini di dimensione economica, ma questa volta sulla base di due sole classi di
ampiezza molto ampie. Ciò consente si seguire al tempo stesso i confronti tra paesi, non solo in
termini statici ma anche nella loro dinamica temporale. Ne emerge che assieme all’Italia anche altri
paesi della sponda mediterranea dell’UE, quali la Grecia e la Spagna, soffrono di un analogo grave
problema di spinta frammentazione, anche se tra questi, il nostro paese è l’unico a mostrare una
determinato la fuoriuscita dal mercato di moltissime unità di produzione che non erano efficienti economicamente e
sopravvivevano esclusivamente grazie al sostegno pubblico.
5
Il RLS è calcolato sottraendo dal valore della produzione vendibile il costo dei mezzi tecnici (input chimici, sementi,
mangimi e foraggi, ecc.). Si dice standard in quanto valore della produzione e costi sono calcolati su una media triennale e con
riferimento ai processi medi adottati a livello regionale o provinciale. I UDE è pari ad un RLS aziendale di 1200 Euro, quindi
ad esempio, una azienda di 8 UDE ha un RLS di 10.000 Euro annui.
6
situazione totalmente invariata tra il 1990 ed il 2007. All’opposto, i paesi del Nord Europa mostrano
dimensioni mediamente più grandi ed un significativo incremento nell’arco di tempo osservato.
100.0
90.0
80.0
70.0
60.0
50.0
40.0
30.0
20.0
10.0
0.0
1990 <40 UDE
1990 > 40 UDE
2007 <40 UDE
2007 > 40 UDE
Le cause del permanere nel tempo di un’agricoltura a”maglie” tanto strette, nel nostro come in altri
apesi, sono soprattutto esogene al settore. In primis vi è la già ricordata scarsità relativa di terra
coltivabile. Ma occorre anche ricordare l’importanza del quadro normativo a questo riguardo. Da un
lato, le norme sulle successioni ereditarie non facilitano il mantenimento nel tempo dell’unitarietà
delle imprese; dall’altro lato, la normativa che regola gli affitti dei terreni non ne favorisce la
mobilità e dunque, i ri-accorpamenti e le gestioni di unità operative più ampie. Inoltre, sul fronte
dello scenario macroeconomico, tassi di inflazione elevati e perduranti nel tempo hanno conferito
alla terra la natura di bene rifugio, irrigidendo anche in questo caso il mercato fondiario. Infine, un
ruolo da molti riconosciuto è il significato di affermazione sociale connesso al possesso di terra che
rallenta ulteriormente l’offerta di terreni e contribuisce a mantenere elevati i valori
fondiari. Alla spinta dicotomia dimensionale corrispondono realtà economico sociali profondamente
differenti. Da un lato, pochissime centinaia di migliaia di aziende maggiori e più capitalizzate
rappresentano la componente più produttiva e efficiente del settore, spesso definita come quella
“professionale” in quanto raccoglie attorno a sè gli agricoltori più giovani, competenti e dedicati
esclusivamente o prevalentemente all’azienda.
Le restanti unità, all’incirca un milione o poco più, ricoprono una importanza molto più circoscritta
per quel che riguarda la produzione ma molto maggiore in termini di presenza diffusa e presidio del
territorio, di occupazione e di stabilità sociale. Queste, infatti, impiegano manodopera ai margini o
del tutto fuori dal mercato del lavoro e contribuiscono al reddito familiare che viene integrato da
redditi da lavoro di diversa natura e, spesso, da trasferimenti sociali. Tra questi ultimi, le pensioni di
anzianità sono i più frequenti data l’elevata età media degli agricoltori.
7
Questo aspetto della integrazione tra redditi agricoli ed extra-agricoli è cresciuto enormemente con i
processi di ristrutturazione industriale e con il miglioramento delle comunicazioni e attualmente
rappresenta uno dei dati peculiari del settore. Nel 2000 (manca il dato più aggiornato) circa un
quarto dei conduttori aziendali hanno svolto la doppia attività, percentuale che sale a circa il 43% se
si esclude dal conto l’elevato numero di imprenditori con più di 65 anni, che non partecipano al
mercato del lavoro per motivi anagrafici. Considerando il complesso degli addetti al settore il tasso
di pluriattività sale all’88%, il valore più alto tra i principali paesi dell’Unione. Tra le cause di
questa diffusione se ne rinvengono anche di endogene al settore: innanzitutto il part-time è reso
necessario dalla perdurante carenza di terra, soprattutto nelle aziende di stampo familiare dove la
manodopera è relativamente abbondante e legata all’azienda e, per giunta esso è reso possibile dalla
tipica ed accentuata stagionalità degli assorbimenti di manodopera nei processi produttivi agricoli.
Le conseguenze della diffusione di lavoratori pluriattivi sono numerose e profonde anche rispetto
all’attività agricola stessa; queste vanno dalla necessità di adeguare gli ordinamenti produttivi e le
tecnologie alle nuove disponibilità di lavoro della manodopera, alla mobilità sociale ed
all’acquisizione di nuove competenze, alla maggiore disponibilità di capitali da reinvestire in
azienda.
% di aziende per l'impegno aziendale del conduttore
aziende
anno 2000
Full Time Part Time
con
impegno
o preval
extraz
OTE
aziendale
preval
seminativi
77,0
23,0
2 Ortofloricoltura
86,7
13,3
# Viticoltura
75,1
24,9
Frutticoltura
71,7
28,3
# Olivicoltura
68,2
31,8
varie permanenti
72,2
27,8
allevamenti
80,2
19,8
OTE misti
79,3
20,7
UDE
0,0
<8
71,6
28,4
8-16
83,7
16,3
16-40
90,0
10,0
40-100
93,0
7,0
>100
93,2
6,8
0,0
totale
74,3
25,7
fonte: elab su Censimento ISTAT
8
Sul fronte dell’organizzazione della produzione, le piccole e piccolissime dimensioni delle imprese
non è senza conseguenze in termini di efficienza e competitività dell’intero settore6. Le dimensioni
produttive delle aziende sono, infatti, tali da non consentire una ottimale ripartizione dei costi fissi
(ad esempio legati alla meccanizzazione dei processi produttivi, all’adozione di innovazioni, agli
investimenti in logistica, pubblicità, ecc.). In altre parole, le imprese non raggiungono la dimensione
minima/ottimale che assicurerebbe la migliore proporzione tra input fissi né raggiungono la scala
produttiva alla quale i costi sono minimizzati (economie di scala dovute alla migliore
organizzazione ed operatività di tutti gli input). Inoltre, le piccole dimensioni delle imprese
determinano la debolezza della loro posizione nelle contrattazioni, esponendole al potere di mercato
delle controparti più concentrate che caratterizzano i settori a monte e a valle.
Soluzioni organizzative di vario tipo, adatte per contrastare, almeno in parte, questi elementi di
debolezza del settore (frequenti peraltro non solo in Italia) esistono anche se vengono adottati con
intensità e fortuna variabili a seconda dei contesti.
Ad esempio, per quanto riguarda la meccanizzazione dei processi produttivi, la larghissima
diffusione del contoterzismo, vale a dire dell’uso, per specifiche operazioni colturali, di macchine
agricole non di proprietà ma gestite da aziende di servizio specializzate, risponde all’esigenza di
contenere l’incidenza dei costi unitari relativi alla meccanizzazione ed., al tempo stesso, facilita ed
accelera l’adozione di macchinari più moderni e più efficienti.
Ancora, la pluriattività di molti degli occupati in agricoltura consente un più ampio utilizzo delle
disponibilità di lavoro, non sempre impiegabile pienamente nel corso dell’anno nelle attività a
ziendali a causa della irregolarità degli assorbimenti di lavoro da parte delle produzioni soprattutto
vegetali. Inoltre, l’integrazione di più fonti di reddito rende, meno preoccupante l’esiguo volume dei
redditi agricoli realizzati/realizzabili nelle imprese di più piccole dimensioni.
Per quel che concerne molti altri aspetti della produzione, come ad esempio, l’acquisizione dei
mezzi tecnici o la collocazione sul mercato dei prodotti, le inefficienze legate alle piccole
dimensioni produttive possono essere superate attraverso varie forme di coordinamento e/o
cooperazione, senza le quali le imprese sarebbero fortemente penalizzate non solo dall’incidenza
dei costi eccessivamente elevata ma dalle stesse possibilità di collocamento dei prodotti.
Dunque, la creazione di consorzi e cooperative risponde alla frequente duplice necessità di
aumentare la scala alla quale effettuare il condizionamento e/o la trasformazione dei prodotti e di
rafforzare la posizione di mercato delle imprese agricole.
2.3. L’agricoltura e il territorio
Si è fin qui descritto il processo di crescita ed evoluzione del settore primario nei suoi dati medi, ma
occorre immediatamente aggiungere che le diverse componenti che vi si rinvengono formano una
6
I due concetti di efficienza e competitività sono parzialmente legati ma ben distinti. Qui l’efficienza, sia tecnica che
più in generale economica, si riferisce al processo produttivo e si misura attraverso il livello dei costi unitari di
produzione: più bassi sono questi, maggiore è l’efficienza. La competitività è definita come la capacità di occupare un
mercato, un segmento della domanda, a scapito di potenziali o effettivi concorrenti. In questo senso, l’efficienza
determina un tipo di competitività, la competitività di prezzo: più un’impresa riesce a comprimere i costi di
produzione e più, a parità di tutto il resto, potrà spiazzare i concorrenti applicando prezzi bassi. Ma la competitività si
gioca anche (in alcuni casi soprattutto) sulle caratteristiche dei prodotti, sulla differenziazione, sulla qualità.
9
realtà tutt’altro che omogenea. In particolare, all’interno del settore le articolazioni e
differenziazioni di natura territoriale sono molto significative. Queste sono dovute ad un complesso
ed interagente insieme di fattori che vanno dalla notevole varietà di situazioni ambientali e
geografiche, ai diversi percorsi storici che, come è noto, caratterizzano le diverse aree della
penisola, fino al ritmo stesso del recente sviluppo economico che ha investito le diverse aree con
intensità variabile, in alcuni casi attenuando, in altri accentuando le distanze tra aree stagnanti ed
aree dinamiche.
La prima grande dicotomia, ovviamente, è quella Nord-Sud. Da una lato si ha un’agricoltura
settentrionale più industrializzata e capitalizzata, inserita in un SAA evoluto ed integrato, nel quale
si colloca la componente “forte” dell’industria alimentare nazionale. Qui, le imprese beneficiano di
una ricchezza di infrastrutture e servizi che non hanno uguali altrove nel paese. Inoltre, questa è
l’area del paese vicina ai grandi mercati nazionali ed ai canali che convogliano le merci all’ estero.
Viceversa, l’agricoltura meridionale è caratterizzata perlopiù in negativo rispetto a tutte le
condizioni di contesto relative al Nord. Infatti, pur beneficiando di un clima che le frutta potenziali
vantaggi competitivi per le produzioni ortofrutticole, e rende la sua offerta ampiamente
complementare al resto del paese ed alla maggior parte dei partner europei, stenta a dispiegare
pienamente questo potenziale competitivo a causa dello scarso sviluppo delle industrie correlate e
dell’insufficiente dotazione infrastrutturale, valga per tutti l’esempio della fallimentare gestione
delle acque che tanta parte avrebbero nell’aumentare il potenziale produttivo di molte aree vocate
del Mezzogiorno.
Negli ultimi trent’anni circa, si è rafforzata tra gli studiosi la consapevolezza che l’articolazione
territoriale dell’agricoltura italiana non si esaurisce in questa dicotomia. In ciascuna delle grandi
circoscrizioni territoriali esiste una differenziazione interna che a tratti è forte almeno quanto la
prima. La grande variabilità ambientale che caratterizza la nostra penisola si traduce nella
formazione di aree di specializzazione produttiva piuttosto circoscritte e caratterizzate da una forte
omogeneità interna. E’ stato ampiamente mostrato come molte delle principali produzioni agricole
della penisola provengano ciascuna in via quasi esclusiva da aree molto ristrette. E’ il caso, ad
esempio, dei seguenti prodotti: il pomodoro, la floricoltura, gli agrumi, il latte bovino, gli ovini, il
riso, il grano duro, gli allevamenti suini. Questa concentrazione territoriale della produzione,
assieme alla natura di piccole imprese diffuse sul territorio, propria del tessuto industriale italiano, e
assieme ad un tessuto sociale ed insediativo altrettanto diffusi, sono tra le premesse da cui trae
origine la forma di organizzazione della produzione che va sotto il nome di “sistemi produttivi
locali”. Si tratta di localizzazioni di filiere produttive, o di porzioni significative di queste, nelle
quali le imprese collocate ai vari stadi della produzione beneficiano della presenza di imprese
differenziate e tra loro complementari ed interagenti. Si generano, così, rilevanti economie di
localizzazione7, le quali giocano un ruolo tanto più rilevante quanto meno forti sono le economie
7
Economie di localizzazione: riduzione dei costi unitari di produzione realizzati dalle imprese grazie ad una
determinata localizzazione geografica della propria attività. Possono essere dovute a diversi fattori tra i quali,
l’abbattimento dei costi di transazione (dovuto alla intensità degli scambi, alla fiducia tra le controparti, alla
10
dimensionali legate alla tecnologia produttiva, quanto più spiccata è la differenziazione della
produzione (minore standardizzazione), e, dunque, quanto più necessaria è la flessibilità
nell’organizzazione dei processi. Altri aspetti che accrescono la valenza competitiva della
concentrazione produttiva sono: la possibilità di abbattere i costi di transazione 8attraverso la
contiguità delle imprese e la ripetitività dei contatti. Come vedremo meglio più avanti, le produzioni
di questo tipo sono spesso caratterizzate da forti legami con il territorio e la sua storia, e si
rivolgono al mercato locale ma anche, e sempre più, ai mercati globali, avvalendosi di un elemento
competitivo sempre più rilevante in ambito agroalimentare: la tipicità.
2.4. L’industria agroalimentare
Come si è già accennato, i continui e radicali mutamenti della domanda di alimenti a partire dal
dopoguerra fino ad oggi, hanno innanzitutto comportato un crescente grado di trasformazione,
fungendo da potente stimolo allo sviluppo dell’industria agroalimentare (IAA). Ed è per questa via
– come evidenziato a suo tempo- che si consolida l’inserimento dell’agricoltura italiana in un
moderno sistema agroalimentare di cui fanno parte i settori fornitori, a monte, e quelli acquirenti, a
valle.
specializzazione dei servizi, ecc.), allo svilupparsi di relazioni di tipo cooperativo, alla marcata concorrenzialità degli
scambi, ed altro ancora. Tipico vantaggio attribuito alle imprese che operano nei cosiddetti distretti industriali.
8 Costi di transazione: costi associati alla transazione. Sorgono a seguito della necessità di acquisire informazioni
non liberamente disponibili sul mercato; a seguito di condizioni di incertezza relative al bene ed ai termini della
transazion;, a seguito della complessità delle caratteristiche dei beni oggetto della transazione.
11
Struttura del SAA e consistenza attori
Agricoltura, for. e pesca
n. imp. 1.678.756
(di cui con p.IVA 901.559)
Industria alimentare
n. imp. 71.359
(di cui non artig.6.500)
Distribuzione spec. e non
Dettaglio
Distribuzione
tradizionale
a libero
servizio
ristorazione
P.A.
n. imp.
43.084
Commercio all’ingrosso
settori fornitori
151.812
57.005
226.567
esportatori/traders
L’industria agroalimentare (IAA) italiana, con più di 100 miliardi di fatturato annuo, è tra le
principali d’Europa, dopo di quella francese e di quella tedesca. L’IAA in Italia si caratterizza
anch’essa per l’elevatissima frammentazione delle unità produttive, per il carattere artigianale e per
la tradizionalità delle produzioni. In media, nel 1991, le imprese del settore contavano 7,5 addetti ed
erano composte di una unica unità locale. In alcuni comparti di rilievo, come ad esempio, quello
vitivinicolo e quello oleario, la trasformazione della materia prima agricola avviene in unità di
produzione che sono molto prossime alle aziende agricole per dimensioni, livello tecnologico,
capitale umano, ecc., quando addirittura non coincidono con queste. In un contesto di rapida
intensificazione degli scambi commerciali, di allargamento dei mercati e di crescente articolazione
delle filiere, con la partecipazione di una varietà di figure intermedie a vario titolo impegnate nella
catena del valore aggiunto, le ridotte dimensioni delle imprese non sono state senza conseguenze
rispetto alla competitività dell’intero SAA nazionale.
12
Fatturato dell’ industria alimentare nei primi 10 Paesi europei
- 2005
160
140
miliardi €
120
100
80
60
40
20
0
Francia Germania
Italia
Regno
Unito
Spagna
Olanda
Belgio
Polonia Danimarca Irlanda
Una prima, ovvia, causa di inefficienza si rinviene nel mancato raggiungimento di una dimensione
produttiva ottimale, ciò è stato soprattutto vero nella fase dei consumi standardizzati che ha
caratterizzato, anche in campo alimentare, il modello dominante fino a tutti gli anni settanta.
Tuttavia, in molti comparti le ridotte dimensioni delle imprese rappresentano tuttora un ostacolo al
raggiungimento di migliori livelli di competitività e all’accesso ai mercati. Inoltre, sul fronte
dell’approvvigionamento della materia prima, queste imprese raramente sono riuscite ad assumere
un ruolo di indirizzo e coordinamento delle aziende agricole, come è accaduto in realtà diverse, ad
esempio nei paesi dell’Europa Continentale o nel Nord America dove la diffusione di contratti di
vendita pluriennali se non di più strette forme di integrazione verticale ha modificato il quadro delle
relazioni tecnico economiche nel quale operano le aziende agricole, attenuando le condizioni di
volatilità che hanno caratterizzato i mercati delle commodities a partire dalla seconda metà degli
anni settanta; ma anche favorendo il processo di adeguamento tecnologico e sostenendo le imprese
del settore primario nelle loro funzioni imprenditoriali.
Valori medi della produzione x impresa: confronti EU
(.000 Euro)
IT
FR
D
E
UK
Agricoltura (2007)
29
Industria A. (2006)
1400
fonte: Nomisma/Eurostat
101
97
35
75
2200
5000
2900
15900
13
Quanto poi ai legami con la fase della distribuzione, l’IAA italiana è riuscita solo molto
parzialmente a fronteggiare il crescente potere di mercato della grande distribuzione, avvantaggiata
da forti economie, di scala e di scopo9, e dalla sua posizione di anello terminale della catena, a
diretto contatto con il consumatore finale. Anche se, occorre ricordarlo, in Italia, la concentrazione
della fase distributiva è anch’essa avvenuta con significativo ritardo rispetto al contesto europeo, sia
a causa dell’assetto urbanistico che di una legislazione orientata, fino ad anni recenti, alla
salvaguardia del commercio al “piccolo dettaglio”.
Censimento industria 2001, Consistenza e dimensioni dell'IAA
valore
numero n. addetti aggiunto add/imp
imprese
66936
imprese> 10 addetti
6910
Fonte: elab su dati ISTAT e INEA
446785 27190000
278000
6,7
VA/imp
406
VA/add
60,9
40,2
Tuttora, in Italia il processo di concentrazione della distribuzione è in uno stadio decisamente meno
avanzato rispetto agli altri principali paesi europei. Nessuna delle prime quindici imprese di
distribuzione, che hanno raddoppiato la loro quota di mercato nel corso degli anni novanta, è
italiana; mentre nel mercato italiano le prime 5 catene di distribuzione non rappresentano più del
30% del mercato.
9
Le economie di scopo di realizzano quando due produzioni distinte utilizzano uno o più fattori della produzione
in comune, determinando così un uso più efficiente degli stessi e quindi una riduzione dei costi unitari di produzione
per ciascuno dei diversi processi. Un concetto non coincidente ma assimilabile a quello delle economie di scopo e
quello delle economie di gamma che realizza una impresa nell’ampliamento della gamma dei prodotti offerti. Queste
economie, ad esempio
14
Più di recente, anche da noi l’IAA ha conosciuto significativi processi di concentramento ed
internazionalizzazione, con la proprietà di alcuni importanti gruppi passata dalle famiglie fondatrici
alle multinazionali che dominano il settore a livello mondiale. Come si vedrà meglio in seguito, la
perdurante caratterizzazione artigianale e la forte vocazione per prodotti di natura tradizionale ed a
forte radicamento territoriale, si sta traducendo, almeno in parte, in un vantaggio competitivo del
nostro SAA che, meglio di altri riesce a collocarsi nei segmenti di mercato che esprimono
apprezzamento crescente per questa connotazione dei prodotti nella attuale fase di spinta
diversificazione e frammentazione della domanda.
IAA per comparto: addetti, numero di imprese e dimensioni medie
anno 2004
imp
%
add
%
lav carne
3672
5,5
57769
Lav pesce
415
0,6
6640
frutta e ortaggi
1933
2,9
30317
oli e grassi anim. E veg
4416
6,6
16216
lattiero casearia
3927
5,9
54936
granaglie e amid
1966
2,9
12310
alim anim
607
0,9
9097
altri alim
46995
70,2
221642
bevande
3005
4,5
37858
tot IAA
66936
100,0
446785
fonte:elab su dati ismea, federalimentare
15
add/imp
12,9
1,5
6,8
3,6
12,3
2,8
2,0
49,6
8,5
100,0
16
16
16
4
14
6
15
5
13
7
2.5. La bilancia agroalimentare
Per un paese povero di materie prime, anche agricole, come l’Italia, la grande apertura commerciale
che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni di storia economica del paese ha giocato un ruolo
determinante nel processo di crescita. Questa apertura è testimoniata dai dati riportati in basso. La
forte vocazione per le produzioni agricole mediterranee e per diverse categorie di prodotti
trasformati e la strutturale carenza di alcune materie prime, sia per il consumo finale interno, sia per
l’industria di trasformazione sono alla base della grande apertura commerciale dell’Italia. A ciò si
aggiunge la complementarità che caratterizza buona parte delle produzioni agricole italiane rispetto
a quelle della maggior parte dei paesi del Centro-Nord Europa.
16
L’Italia è caratterizzata non solo da un basso rapporto tra superficie e popolazione ma anche da una
proporzione sfavorevole di terra coltivabile, ed, inoltre, gran parte di questa è formata da prati di
collina e montagna, adatti solo al pascolo estensivo del bestiame. A tutto questo si deve aggiungere
la crescente competizione nell’uso delle terre migliori, dal punto di vista agricolo, da parte di usi
alternativi sia sul fronte produttivo che insediativo ed infrastrutturale.
Evoluzione dell’import-export agroalimentare italiano (mrd euro)
Commercio agroalimentare totale dell'Italia con il resto del Mondo (mrd Euro)
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
2005
2006
2007
2008
2009
saldo commerciale -12.1
-12.0
-8.3
-7.0
-8.2
-9.0
-6.8
-7.4
-8.3
-8.8
-8.4
-7.6
-6.1
saldo normalizzato -38.0
fonte: Inea
-35.4
-21.8
-18.6
-19.8
-20.0
-15.3
-16.6
-16.4
-16.2
-14.5
-12.4
-10.9
Il paese è, dunque, strutturalmente deficitario di prodotti agroalimentari: il saldo normalizzato10 del
commercio agroalimentare del paese con l’estero, è notevolmente migliorato nel corso dell’ultimo
decennio, passando da –38,7 relativo al 1990 a – 18,6 del 1999, anche grazie alle svalutazioni
monetarie del ’92 e del ‘95. Sul fronte delle importazioni, alcune voci sono comunque da
considerarsi come dei dati strutturali perlopiù immutabili: si tratta della cosiddetta “bilancia rigida”.
Tra queste le principali sono: i prodotti per l’alimentazione animale ed i prodotti degli allevamenti, i
cereali, i prodotti cosiddetti tropicali, come il caffè ed il cacao 11. I settori di esportazione netta non
10
Il saldo normalizzato è dato dal rapporto tra il saldo commerciale (pari alla differenza tra esportazioni e
importazioni) e il volume di commercio (pari alla somma tra esportazioni e importazioni).
11
Se si vuole considerare l’intero settore primario, che include i prodotti delle foreste, ai prodotti citati, va aggiunto
il legname (import), con di tutta la filiera relativa alla lavorazione del legno (export).
17
mancano. Le esportazioni sono concentrate in alcuni comparti, che formano il cosiddetto “made in
Italy” dell’agroalimentare: vino, ortofrutta, pasta, pelati, acque minerali, bevande, conserve di frutta
e ortaggi, industria dolciaria, prodotti lattiero caseari, carni conservate e trasformate, l’olio di oliva.
Tuttavia, è bene rammentare che i vantaggi comparati 12dovuti alla dotazione di risorse ed alla
presenza di industrie tradizionali, non sono gli unici elementi che concorrono a spiegare la
collocazione internazionale del paese in ambito agroalimentare. Innanzitutto, i dati strutturali prima
ricordati circa l’IAA hanno rappresentato, e rappresentano tuttora, un serio ostacolo sia alla
penetrazione dei mercati esteri che alla difesa degli spazi interni sempre più appetiti dalle agguerrite
compagnie estere. E’ anche per questa ragione che gli scambi con i paesi europei, che rappresentano
i nostri principali partner commerciali anche in ambito agroalimentare, sono caratterizzati da una
più ampia proporzione di prodotti agricoli non trasformati, essenzialmente ortofrutta. Per queste
produzioni, infatti, i vantaggi comparati alla base degli scambi sono in buona parte determinati da
fattori ambientali, essenzialmente climatici. Viceversa, i prodotti trasformati risentono più
direttamente della concorrenza dei paesi nei quali l’industria di trasformazione opera ad una
maggiore scala, con migliori livelli tecnologici ed è inserita sui grandi circuiti distributivi. Questa
situazione è, naturalmente, tanto più accentuata quanto minore è la specificità nazionale dei diversi
prodotti. I prodotti di tipo tradizionale, di fattura artigianale e quelli tipici, sfuggono a questo tipo di
concorrenza ed anzi i loro spazi di mercato si fondano sul presupposto della esclusività territoriale e
culturale dei prodotti.
Infine, nonva scordato che, di non minor effetto nella determinazione della tendenza di lungo
periodo dei flussi commerciali, è stato l’apparato delle politiche comunitarie, con la creazione del
mercato unico e con le misure direttamente orientate ad influire sugli scambi, che attraverso il
sostegno delle produzioni continentali (soprattutto cereali e zootecnia) che hanno alterato le
convenienze relative delle diverse produzioni innescando un processo di “de specializzazione
dell’agricoltura italiana”.
2.6. Una differenziazione tipologica
L’incrocio delle variabili esplicative chiamate in causa per illustrare le diversificazioni interne
all’agricoltura italiana in termini organizzativi, sociali e territoriali, ci riconduce ad una tripartizione
dell’agricoltura italiana, o meglio dell’intero SAA. Questa si articola su tre tipologie, che
contemplano anche qualche intersezione: iniziando dall’agricoltura intensiva, si passa per quella che
potremmo definire di agricoltura di qualità e si giunge a quella cosiddetta svantaggiata. La prima
riguarda produzioni perlopiù standardizzate ed a domanda rigida e fonda i suoi elementi di
competitività sulle economie di scala, sulla dotazione di fattori e sulla continua adozione di
12
Vantaggi comparati: ad essi sono attribuiti il formarsi di flussi commerciali tra paesi e la loro reciproca
convenienza. Un paese possiede un vantaggio comparato nella produzione di un bene rispetto ad un altro paese se
per produrre quel bene impiega relativamente meno input rispetto a quanto ne impiega in un altro processo
produttivo, sempre relativamente all’altro paese. In altre parole, un vantaggio comparato si può definire confrontando
l’efficienza produttiva di due paesi con riguardo a due produzioni. In contrapposizione al vantaggio comparato, il
concetto di vantaggio assoluto, si determina valutando l’efficienza produttiva di due paesi con riferimento ad un solo
prodotto.
18
progresso tecnico. Alla luce di quanto sinora visto è chiaro come, nella realtà produttiva italiana,
l’agricoltura intensiva abbia spazi di espansione decisamente limitati in quanto vi agiscono vincoli
di natura ambientale e strutturale, sia interni al settore che all’intero sistema produttivo.
Agricoltura di qualità e agricoltura svantaggiata, che in taluni casi possono sovrapporsi,
rappresentano l’area di maggiore interesse nella prospettiva attuale. La prima in quanto rappresenta
le produzioni differenziate ed a maggiore elasticità di domanda e per le quali il paese appare essere
più competitivo, o mostra potenzialità in questo senso. La seconda in quanto oltre a potere offrire
prodotti di qualità presenta, in taluni casi, caratteristiche ambientali alle quali si connettono servizi
offerti dall’agricoltura per i quali la domanda della società, se non direttamente dei consumatori, è
crescente, o che conferiscono agli stessi prodotti o ai processi produttivi caratteristiche sempre più
richieste (servizi ambientali, processi non inquinanti, prodotti a minor tenore di residui chimici,
ecc.).
Rivolgendo lo sguardo al futuro, è plausibile sostenere che i potenziali incrementi di competitività
nelle due tipologie di maggiore interesse sono, in non piccola parte, strutturalmente legati a ciò che
accadrà negli ambiti di tre dimensioni analitiche cruciali, quelle relative alla salubrità degli alimenti,
alla loro diversificazione qualitativa, alla evoluzione dei legami tra attività agricole e contesto
ambientale.
3. La competitività del sistema
Nelle pagine precedenti si è accennato alle profonde modificazioni che la domanda di alimenti ha
subito nel corso degli ultimi decenni. I nuovi bisogni che, nel contesto europeo, la domanda di beni
alimentari ha via via incorporato sono caratterizzati da complessità ed estrema diversificazione. Tra
questi si possono citare, per la loro importanza, la crescente richiesta di alimenti sani per l’uomo e
per l’ambiente, la richiesta di alimenti tipici e tradizionali di un’area, trasformati artigianalmente, in
grado di soddisfare il gusto, ma anche sempre più sofisticate istanze e curiosità socio-culturali.
Inoltre, da una quasi esclusiva attenzione agli attributi di prodotto - quali, ad esempio, le
caratteristiche nutrizionali, organolettiche, o gli attributi di forma, i servizi aggiunti, ecc. - ci si è
spostati verso una crescente attenzione ad attributi di processo, tra cui, ad esempio, la genuinità, o
l’assenza di sofisticazioni, i legami con il territorio, le tecniche di produzione tradizionali, la eco
compatibilità dei processi produttivi, i processi “biologici”, il benessere degli animali. Questi
profondi mutamenti qualitativi della domanda determinano un radicale cambiamento degli elementi
da cui dipende la competitività dell’offerta, che diviene, sempre più, competitività di sistema e
sempre meno delle singole imprese, in quanto il modo in cui i processi produttivi si “dipanano”
lungo le filiere e il modo in cui i singoli soggetti coinvolti effettuano le transazioni, determinano il
grado di efficacia degli incentivi nel produrre beni di qualità. Naturalmente, un ruolo chiave nel
funzionamento del sistema lo svolge il soggetto pubblico, sia attraverso le politiche agricole, che,
più in generale, determinando le regole di comportamento delle imprese. In questo senso le
istituzioni affiancano il mercato - o lo sostituiscono nei casi di fallimento - nella definizione del
sistema di incentivi a cui le imprese reagiscono.
Con l’espressione generica di qualità degli alimenti, si fa riferimento alle caratteristiche
organolettiche, agli aspetti legati alla tipicità e tradizionalità, ma anche alle caratteristiche legate
19
alle modalità di preparazione e consumo, vale a dire, ai servizi incorporati. Con il termine di
salubrità si fa riferimento all’insieme delle caratteristiche nutrizionali ed igienico sanitarie dei cibi,
anche se, sempre più spesso, l’accezione di questo termine si allarga a comprendere gli impatti
ambientali dei processi produttivi agricoli. Ciò si può giustificare considerando la complessa rete di
interdipendenze che lega tutte le componenti della ecosfera, e, nel caso specifico, dalla circostanza
per cui lo stato di “salute” dell’ambiente ha, a sua volta, effetti diretti sulla salute umana.
Nonostante abbiano alcuni aspetti in comune, gli attributi della salubrità e quelli più genericamente
intesi come qualitativi, presentano differenze sostanziali che determinano la necessità di un diverso
intervento pubblico di regolamentazione, ma anche diverse strategie da parte delle imprese. Per
questa ragione anche questi due aspetti vengono approfonditi separatamente.
3.1. La salubrità degli alimenti
Il generico bisogno di crescenti livelli di sicurezza alimentare - proprio dei consumatori dei paesi a
più elevati livelli di scolarizzazione e di reddito pro-capite - trova un primo limite alla sua
soddisfazione nella stessa difficoltà di tradursi in comportamenti di acquisto e consumo coerenti. Le
ragioni di questa difficoltà sono molteplici. Innanzitutto, le informazioni nutrizionali e sulla
salubrità degli alimenti sono caratterizzate da complessità e difficoltà di elaborazione. Inoltre, le
conoscenze medico-scientifiche si evolvono rapidamente, talvolta contraddicendo precedenti
acquisizioni, pur essendo ben lontane dall’aver cancellato del tutto i significativi vuoti di
conoscenza che tuttora permangono e dai quali discendono margini non trascurabili di
indeterminazione circa i possibili effetti sulla salute e sull’ambiente di ciò che mangiamo e dei
processi produttivi adottati. Va, peraltro, anche segnalata la presenza di un elemento di
contraddittorietà nell’atteggiamento dei consumatori, i quali, da un lato, auspicano (esigono) una
riduzione (annullamento) del rischio alimentare, ma dall’altro, in presenza di un consolidato trend
negativo dei prezzi dei beni alimentari, adottano comportamenti di consumo caratterizzati da una
persistente forte attenzione alla competitività di prezzo. In altre parole, la disponibilità a pagare per
cibi migliori e più sicuri cresce più lentamente della consapevolezza dei rischi connessi
all’alimentazione.
L’altra faccia di questa componente della domanda e della difficoltà di soddisfarla è una crescente
diffidenza da parte dei consumatori circa la salubrità dei cibi disponibili sul mercato, in parte anche
motivata dalla scarsa conoscenza di processi produttivi che sono sempre più “industrializzati”,
complessi e distanti13.
La domanda di salubrità resta parzialmente inevasa nella misura in cui né le forze del mercato né il
sistema delle regole riescono ad assicurare che i beni scambiati posseggano le caratteristiche
13
Più estesamente si può affermare che “Il ritmo di adozione delle innovazioni è stato ben più rapido dell’acquisizione di una
piena e documentata consapevolezza di eventuali effetti sulla salute e sull’ambiente delle nuove tecnologie. In altri termini, la
discrasia tra i tempi dell’adozione delle innovazioni e quelli necessari all’ottenimento di una conferma scientifica ed
epidemiologica dei loro effetti determinano un intertempo di incertezza quasi mai completamente annullabile. Basti per tutti
l’esempio quanto mai attuale degli organismi geneticamente modificati (OGM) sui cui eventuali effetti sulla salute umana e
sugli equilibri ambientali esiste un enorme dibattito” .
20
desiderate. Un ruolo chiave, in questo senso, lo gioca la disponibilità di informazioni sulla base
delle quali i consumatori possono prendere le loro decisioni di consumo. I segni identificativi dei
prodotti, sia che scaturiscano dall’iniziativa delle imprese, come ad esempio i marchi dei produttori;
sia che derivino dall’intervento pubblico, come ad esempio le norme sull’etichettatura, svolgono
proprio questo ruolo informativo e di garanzia degli attributi non immediatamente valutabili dai
consumatori, tuttavia è innegabile che questo sistema di orientamento sia allo stato attuale
insoddisfacente e inadeguato. Ne sono prove evidenti le emergenze sanitarie che hanno investito i
mercati europei negli ultimi anni, quali quella della BSE, il caso dei “polli alla diossina”, ma anche
le frodi scoperte nel campo dei prodotti la cui origine viene certificata, come, ad esempio, è
accaduto per alcuni vini Doc che sono stati oggetto di falsificazioni e frodi vere e proprie. La
risposta dell’Unione Europea a questo stato di cose si è tradotta nella recente intensificazione dello
sforzo di intervento regolatore in questo ambito che va interpretato come il risultato della forte
sollecitazione scaturita dalle emergenze sanitarie appena ricordate. Il punto di partenza della nuova
politica europea per la tutela della salubrità degli alimenti è stato il Libro Bianco della
Commissione (2000) che ha introdotto in un quadro unitario, e non più frammentario come in
passato, i capisaldi su cui si impernierà la politica per la sicurezza alimentare: 1) la natura integrata
dell’approccio alla sicurezza, riassunto dallo slogan dai campi alla tavola; 2) la responsabilità di
tutti gli attori della filiera nel garantire la salubrità dei cibi e non dei soli anelli terminali; 3) la
rintracciabilità piena che consenta l’identificazione completa del percorso seguito dalla materia
prima fino al prodotto finito; 4) l’analisi del rischio intesa come attività da svolgere
sistematicamente e con continui aggiornamenti delle condizioni operative nelle filiere e delle
acquisizioni scientifiche.
L’esito complessivo di questo processo in termini di una migliore salubrità degli alimenti presenti
nel mercato europeo dipende anche della capacità di reazione e adeguamento del tessuto produttivo
al nuovo quadro normativo. In questo senso le trasformazioni più evidenti e complesse, e quindi
meno banali da realizzare, riguardano senz’altro il migliore coordinamento lungo tutta la filiera. Ciò
è vero soprattutto nella realtà italiana, caratterizzata, come ricordato in precedenza, da una elevata
frammentazione. Questo è un passo necessario per giungere a migliorare gli alimenti che arrivano al
consumatore ma anche per consentire una completa ed affidabile certificazione e tracciabilità
dell’intero processo produttivo. Negli ultimi anni, sotto l’azione di queste spinte, il sistema
agroalimentare italiano sta subendo alcune modificazioni significative. Le Istituzioni e le imprese
hanno reagito alla caduta di fiducia da parte dei cittadini/consumatori offrendo rassicurazioni sulla
natura dei processi produttivi, sui controlli e sulla responsabilità di eventuali inadempienze,
attraverso la tracciabilità dei processi produttivi. Tutto questo sta effettivamente determinando un
maggior livello di organizzazione e di coordinamento lungo le filiere. Ad esempio, la Grande
Distribuzione Organizzata tende ad acquistare sempre meno da intermediari e grossisti e a preferire
cooperative o consorzi di produttori, il cui prodotto è di provenienza nota. Questo rappresenta un
forte stimolo per i produttori a convergere in strutture comuni per la commercializzazione del
prodotto che altrimenti viene collocato con difficoltà. In definitiva, inizia a realizzarsi oggi, sotto
una forte pressione sociale che si traduce in una maggiore domanda di garanzie, quel
coordinamento, sia orizzontale che verticale, che si era auspicato e provato a favorire a lungo in
21
passato, ma senza successo. Che questo processo si sia messo in moto è un fatto certamente positivo
ma non bisogna nascondersi le difficoltà insite nella spinta frammentazione del tessuto produttivo
italiano e nelle scarse tradizioni in tema di cooperazione e gestione comune che impongono uno
sforzo particolare a tutti gli operatori del SAA nazionale, come del resto sta ad indicare la non
esaltante vicenda delle organizzazioni interprofessionali e delle organizzazioni dei produttori.
D’altra parte, alcune caratteristiche proprie del sistema agroalimentare italiano possono tradursi in
elementi competitivi. Il suo carattere ancora relativamente artigianale - ovvero l’essere composto
perlopiù da imprese, sia agricole che di trasformazione, di piccole dimensioni, a conduzione
familiare e che operano un basso grado di trasformazione e che si rivolgono ad un mercato ancora
in parte locale - ispira fiducia in quanto ritenuto più idoneo a produrre cibi “genuini”. E’ in questo
senso che si può interpretare anche la diffusione che hanno avuto negli ultimi anni le cosiddette
“filiere corte”: vendita diretta, o attraverso un numero limitato di passaggi, o sul posto o per
corrispondenza oppure ancora attraverso l’organizzazione di gruppi di acquisto. La conoscenza
diretta del produttore rappresenta una forma di garanzia che è in molti casi giudicata più affidabile
di certificazioni ufficiali il cui contenuto è difficilmente decifrabile e rispetto alle quali il livello dei
controlli è spesso valutato come insufficiente. In Italia le possibilità di dar vita alle diverse forme di
filiere sono rese relativamente facili dalla diffusione territoriale della produzione e dalla densità
della popolazione che si trova in insediamenti abitativi sparsi sul territorio. Inoltre, la presenza
sparsa sul territorio di amenità naturali ed artistiche crea occasioni di spostamento anche giornaliero
verso i luoghi di produzione di un gran numero di turisti che sono potenziali clienti.
3.2. La qualità degli alimenti
Come si è già avuto modo di ricordare, i consumatori esprimono una netta e crescente preferenza
per alcuni attributi qualitativi dei cibi che si traduce in disponibilità a pagare per alimenti in vario
modo specificati. Le caratteristiche richieste con maggiore frequenza sono molte: la tipicità, la
tradizionalità, l’artigianalità, la naturalità, l’esclusività. Assumono sempre maggiore importanza
anche i valori etici annessi ai prodotti, come il rispetto di condizioni commerciali che assicurano un
certo livello di remunerazione del lavoro, o il rispetto della salute e del benessere degli animali, il
non far uso di lavoro infantile, ecc.. Inoltre, come noto, i consumatori annettono un valore alla
diversificazione in sé, in quanto questa rappresenta un aumento delle possibilità di scelta. Molte di
queste caratteristiche qualitative sono di difficile accertamento da parte del consumatore, e spesso
riguardano più il processo produttivo che il prodotto finito, come già osservato anche a proposito
della salubrità. Ne segue che anche nel caso degli attributi di qualità degli alimenti la corretta
informazione dei consumatori è un elemento chiave del funzionamento dei mercati. Nel caso delle
caratteristiche che si manifestano con il consumo del bene, i marchi sono strumenti utili e quasi
sempre sufficienti per migliorare la comunicazione tra produttori e consumatori. I marchi collettivi
che si fondano sul territorio, raggruppando i produttori di un’area, possono svolgere analoghe
funzioni nei casi in cui il territorio influenzi significativamente la qualità del prodotto e le ridotte
dimensioni delle imprese rendano troppo elevata l’incidenza dei costi connessi alla formazione di
marchi individuali. Nel caso di caratteristiche qualitative che il consumatore non è in grado di
verificare neanche con l’uso (ad esempio ogm, Bse, agricoltura biologica), il marchio da solo non
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basta; a questo si deve aggiungere un sistema di norme che vincoli il produttore al rispetto delle
affermazioni fatte circa la qualità del prodotto, come ad esempio nel caso dei prodotti cosiddetti
biologici.
Più puntualmente, dal lato della domanda, la regolamentazione ha lo scopo di fornire assicurazioni
sulla rilevanza dell’informazione fornita e sulla sua veridicità. Dal lato dell’offerta, la
regolamentazione ha lo scopo di ridurre il pericolo di comportamenti di free riding14 da parte di
alcuni produttori; di limitare gli effetti restrittivi della concorrenza alle situazioni di oggettiva
differenziazione dei prodotti; e di riequilibrare il potere di mercato dei soggetti operanti lungo la
filiera a favore della fase agricola.
La ricchezza e la varietà di tradizioni gastronomiche nel nostro paese rappresenta senz’altro un
importante punto di forza in un contesto di apprezzamento crescente di prodotti tradizionali,
diversificati e con un forte contenuto di tipicità, in particolare, quindi, i prodotti a denominazione di
origine. In parte si tratta di un elemento che già entra in gioco nella collocazione dei prodotti italiani
anche rispetto ai mercati internazionali. Tuttavia, molti prodotti suscettibili di valorizzazione
commerciale restano tuttora confinati su piccolissimi mercati locali in quanto mancano alcune
condizioni necessarie per giungere sui mercati e sostenere la competitività dei concorrenti. Tra
questi, soprattutto le dimensioni delle imprese sono di ostacolo al raggiungimento di una scala
efficiente di produzione; mancano le capacità imprenditoriali necessarie alla commercializzazione
su mercati più distanti e inoltre la rete di servizi è spesso carente.
3.3 La qualità agroambientale
Nel complessivo scenario di evoluzione della domanda, o meglio, delle aspettative dei consumatori
europei nei confronti del SAA, una componente che con sempre maggiore evidenza è andata
emergendo negli ultimi decenni, è certamente quella delle relazioni tra agricoltura e contesto
ambientale.
Sebbene questo legame abbia da sempre assunto contorni e contenuti pluridimensionali, in questi
ultimi decenni l’attenzione degli studiosi, dei tecnici e, gradualmente, anche della società civile, si è
soprattutto concentrata sulla dimensione negativa di tale rapporto, ossia sull’insieme delle
esternalità negative imputabili al più generale processo di modernizzazione delle attività agricole.
Una colpevolizzazione tardiva, ma, a ben vedere, forse anche eccessiva, specie se raffrontata alle
massicce e prolungate responsabilità ambientali imputabili al settore industriale.
Con riferimento alle tre tipologie sopra richiamate, è soprattutto l’agricoltura intensiva ad essere
messa sotto accusa, in quanto sede primaria dei processi di intensificazione – in larga misura
perseguiti con un elevato impiego di mezzi chimici (fertilizzanti, pesticidi, diserbanti) – e delle
tendenze alla specializzazione-concentrazione – rispetto alle quali la meccanizzazione ha
certamente svolto un ruolo di primo piano. Ed è l’insieme delle componenti del capitale naturale ad
esserne stato, in qualche misura, coinvolto: suolo, acqua, aria, habitat naturali, paesaggio,
14
Free riding: aggirare regole/accordi a proprio vantaggio. Prende il nome dal cosiddetto free rider: colui che sale
sul bus senza pagare il biglietto. Riferito anche a chi scarica i costi di un azione sugli altri, approfittando però dei
benefici che l’azione genere. In collettivi di soggetti, il free rider si approfitta del beneficio generato dalle regole
comuni ma lui stesso non le osserva.
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biodiversità. Se la tipologia degli impatti, grazie ai contributi provenienti dalle varie discipline, è
ormai ben definita, la conoscenza empirica e la valutazione economica dei fenomeni di
deterioramento ambientale, della loro dinamica e localizzazione, sono viceversa quanto mai
frammentarie e territorialmente discontinue, ben lungi dal costituire l’indispensabile piattaforma
conoscitiva cui ancorare le specifiche azioni correttive. Ciò che è assodato, è che queste ultime
devono comunque prendere le mosse dalla consapevolezza che i processi di inquinamento,
imputabili alla moltitudine di imprese agrarie tecnologicamente omologate, sono caratterizzati dal
fatto di essere territorialmente diffusi – rendendo tecnicamente impossibile l’identificazione delle
“responsabilità” del singolo imprenditore – e territorialmente differenziati – con impatti che
dipendono dall’interazione tra la funzione di produzione e le caratteristiche pedo-climatiche
dell’habitat in cui essa viene applicata.
In altri termini, le caratteristiche di diffusione, di eterogeneità e di complessità tecnica dei processi
di inquinamento imputabili all’attività agricola conferiscono al problema del perseguimento di
migliori equilibri tra agricoltura e ambiente i connotati essenziali dei problemi di azione collettiva.
E, a ben considerare, a tale principio si sono in effetti ispirate le politiche che, da qualche tempo,
l’UE sta mettendo in campo, inserendo azioni con finalità di miglioramento ambientale nelle
politiche di sostegno all’agricoltura, sulle quali ci soffermeremo più avanti. Non è questa la sede per
una trattazione di dettaglio sulla natura del processo di greening15 della politica agricola comune,
dei progressi compiuti e delle questioni aperte, possiamo affermare che, sebbene le modalità di
intervento siano certamente da perfezionare sotto il profilo dell’efficacia tecnica e dell’equità
economica, il principio della “responsabilità tecnologica”, sia a livello di intero SAA che di singolo
imprenditore, è ormai fermamente acquisito, convertendosi di fatto in un vincolo strutturale che le
attività agricole, specie quelle di particolare intensività, saranno sempre più tenute a rispettare. Ciò
lo si deve anche ad un apprezzabile mutamento di approccio in sede comunitaria: mentre infatti
l’impostazione iniziale di (non obbligatoria) compensazione per la produzione di minori esternalità
negative, era in aperta contraddizione con il principio “chi inquina paga”, ad esso si avvicina invece
il criterio che si sta facendo strada in ambito comunitario, quello della condizionalità16.
Il fronte delle esternalità positive e della loro valorizzazione si presenta in termini altrettanto, se non
ancor più, complessi sotto il profilo analitico e della loro quantificazione. Pur nella consapevolezza
dei ruoli che l’agricoltura ha sempre dispiegato nei confronti di beni e servizi non di mercato
(gestione del paesaggio, conservazione degli habitat naturali, salvaguardia della biodiversità) è solo
abbastanza recente la diffusa percezione della crescente rilevanza di tali ambiti ai fini di una
gestione sostenibile del territorio e quindi della necessità di un loro efficace inserimento nelle
politiche di sostegno all’attività agricola.
15
Greening: letteralmente inverdimento. E’ il nome dato al progressivo inserimento di misure orientate
all’ambiente all’interno della Politica Agricola Europea.
16
O cross compliance, cioè l’obbligo dei produttori di osservare le norme europee in materia di ambiente, sicurezza
degli alimenti, sicurezza sul lavoro, sanità e benessere degli animali, pena la riduzione parziale o la soppressione
dell’aiuto.
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Né va dimenticata una terza dimensione altrettanto rilevante sotto il profilo della gestione
territoriale, vale a dire il contributo che l’agricoltura può recare sul fronte dello sviluppo integrato,
o dello sviluppo rurale, la cui rilevanza riposa sulla duplice consapevolezza dell’impossibilità di
risolvere, in molte realtà territoriali, i problemi di reddito e di occupazione delle risorse impegnate
in agricoltura nell’ambito esclusivo del settore agricolo, e, al tempo stesso, del contributo
determinante che può essere recato dall’agricoltura alla difesa ed al potenziamento del tessuto
produttivo e sociale delle economie locali.
Assai meno agevole è il passaggio dalla percezione della rilevanza di questi molteplici ruoli, ossia
di una agricoltura complessivamente vista sempre più in chiave “multifunzionale”, ad una loro
appropriata valorizzazione, sia a livello di singola impresa che di territorio, snodo analitico ed
operativo particolarmente rilevante per le tipologie di agricoltura di qualità e di quella svantaggiata.
Nel caso italiano, queste due realtà assumono un particolare rilievo, sia sul piano territoriale che
dell’entità di risorse umane e naturali impegnate, ed un’efficace valorizzazione delle potenzialità
ch’esse racchiudono costituisce pertanto una prospettiva di sviluppo certamente meritevole di
attenzione.
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