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n. 229
Il Sole 24 Ore
DOMENICA - 21 AGOSTO 2016
25
Con Gadda un’«amicizia improbabile e acuta»
Il 31 maggio 2015 Domenico Scarpa raccontava su Domenica il carteggio tra
Carlo Emilio Gadda e Goffredo Parise, lettere «che testimoniano una grande
amicizia: improbabile e acuta come una malattia o un innamoramento».
Secondo Scarpa nessuno ha capito l'ingegnere quanto l’autore vicentino, tanto
che in punto di morte lo scrittore milanese desidera sia lui a tenergli una mano
www.archiviodomenica.ilsole24ore.com
Personaggi
goffredo parise (8 dicembre 1929 - 31 agosto 1986) / l’opera
Un autore singolare e plurale
di Alfonso Berardinelli
U
niverso e mondi. Vorrei usare questa
formula, echeggiante un titolo di Giordano Bruno, per identificare il doppio
regime fantastico che governa, in concomitanza e in alternativa, tutta l’opera di Goffredo Parise. Non è una tesi da dimostrare, è una
semplice evidenza. Sul fronte denominabile
“universo” combatte la capacità mostrata da Parise, soprattutto nel Padrone, di costruire una macchina narrativa ossessiva e visionaria perfettamente funzionante e provvista di tutti i suoi componenti, giocati da vero ingegnere letterario e secondo una logica implacabile.
Il padrone è una “favola nera” pubblicata a metà
del decennio sessanta, il decennio degli onnipre-
senti discorsi su alienazione, reificazione, sistema e dominio del Capitale. Parise trasformò
l’ideologia diffusa in una parabola alla Swift, applicando il teorema sociologico del rapporto servo-padrone al romanzo contemporaneo “di denuncia”. La potente intuizione, l’accanimento sadico con cui Parise scrisse quel libro esemplare segnalano che l’autore è abitato da un genio
paranoide che gli fa vedere, in senso propriamente visionario, grottesco e parodistico, la realtà come un insieme in cui «tout se tient». Parise prende
un po’ di quel Marx, già di per sé piuttosto parodistico che circolava in quegli anni (secondo cui
niente sfugge al Sistema), lo riduce a uno schema
ancora più elementare, universale-eterno o fiabesco, e infine lo mescola con una sua propensione per l’altro schema, diciamo darwinistico, secondo cui sopravvive solo il più forte e il più adatto
all’ambiente, usando il più debole come un preda
da cui succhiare energie e sangue per alimentarsi.
Queste operazioni raccapriccianti marxdarwiniane, in cui Parise esprime tutta la sua visione atrabiliare dell’universo bio-antropologico, vengono sceneggiate secondo uno stile che sa
di Kafka, o piuttosto di Moravia e di fumetto.
Quando scrive Il padrone, Parise ha perduto il
microcosmo della provincia e ha incontrato Milano, capitale aziendale e produttiva. Sono gli anni
fra “boom economico” e anticapitalismo radicale
in cui Bianciardi scrive La vita agra, Volponi Me­
moriale e La macchina mondiale, mentre Pasolini
si sente già «una forza del passato», comincia a
evadere dall’Italia e a compiere sempre più frequenti sopralluoghi cinematografici nel Terzo
Mondo di allora, tra Africa e Asia.
Con una costanza e una curiosità maggiori,
Parise fa lo stesso. Evade dall’Italia e cerca di sottrarsi all’universo concentrazionario che aveva
appena profetizzato in sogno. A rischio della vita, esplora mondi in cui la violenza non è implici-
ta e nascosta, ma esplosiva. Dopo il reportage
Cara Cina, scrive quelli di Guerre politiche, su
Vietnam, Biafra, Laos, Cile.
A questa evasione da reporter Parise ne affianca un’altra, che corrisponde alla sua passione per
quei microcosmi in cui ci si può imbattere nella vita di tutti i giorni. Sono i mondi indagati e alfabeticamente collezionati nei Sillabari (1972-82). La
semplificazione stilistica attuata qui da Parise fece scalpore e somiglia a un’autoterapia disintossicante. Niente idee, ma atmosfere, luoghi, ore del
giorno, gesti, cose, corpi. Si trattava di ricominciare da zero, dall’abc della narrazione breve, del racconto-parabola o del poemetto in prosa.
Secondo alcuni i Sillabari sono il capolavoro
di Parise. Non credo che sia così. Il capolavoro di
Parise è piuttosto nel salto mortale (e vitale) dal
Padrone ai Sillabari, tra universo e mondi, nei
raptus della sua predatoria curiosità per le forme di vita, che a volte si consumano in una voracità distruttiva e a volte si liberano in una pluralità iridescente di monadi narrative, ognuna
con il suo clima e il suo tipo di luce, aurorale, crepuscolare o meridiana.
Ancora più che nei Sillabari, questi microcosmi
vitali in cui l’universo si frammenta ed esige il
massimo di intensità percettiva e descrittiva, popolano libri solo in apparenza secondari come
Quando la fantasia ballava il “boogie” e Lontano,
raccolte di saggi e di elzeviri curate da Silvio Perrella. Libri che Parise non ha mai scritto, che si sono formati per accumulo, senza programma, afferrandointuizioniestemporaneeeframmentidi
memorie. Rispondono alla stessa ispirazione dei
Sillabari, ma invece di procedere secondo una regola si semplificazione terapeutica e polemica,
seguono l’istinto opposto: complicano, infoltiscono, ramificano e focalizzano le percezioni creando effetti di vertigine labirintica. Nel piccolo,
nel semplice e nel singolare Parise trova l’inesauribile, oltre che l’irripetibile.
È soprattutto negli artisti che Parise incontra le
monadi più memorabili. Gli artisti e la loro assolutasingolaritàloipnotizzano.Nelladescrizionedel
loro corporeo modo di essere Parise sprofonda.
Stravinskij visto a diciannove anni al cimitero di
San Michele a Venezia, De Pisis che dipinge in
gondola, Comisso dotato di un corpo ubbidiente
alla natura come quello di un ortaggio o di un bruco. Per Parise i veri artisti, con la naturalezza della
loro produttività e la loro unicità reattiva e autodifensiva garantiscono come nessun altro la biodi-
goffredo parise / l’inedito
libri e mostre | Poesie di Goffredo Parise il 7 settembre esce in edizione bilingue (traduzione di Maria­José Tramuta, introduzione e commento di Dalila Colucci , Cahiers de l’Hôtel de Galliffet, Bruxelles). L’8 settembre, sempre di Parise, esce Gli americani a Vicenza e
altri racconti 1952-1965, a cura di Domenico Scarpa, nota introduttiva di Cesare Garboli, (Adelphi). Viene ristampato anche Veneto barbaro di muschi e nebbie (Minerva), silloge di scritti di Parise sulla sua terra, con foto di Lorenzo Capellini. Alla Galleria Corraini di Mantova, dal 7/9 all’8/10, si terrà la mostra «Giosetta Fioroni. Lettere d’amore», accompagnata dall’omonima plaquette. (A sinistra una foto di Parise scelta come copertina di «Riga», a destra un suo ritratto di Fioroni). La politica secondo Parise
Un nuovo «Principe»
F
ra i capisaldi della vulgata che
dopo la sua scomparsa ha fatto
di Parise un autore di culto, c’è
quello che vede in lui un pioniere dell’anti-politica oggi à la page. Ma
non solo Guerre politiche (la sconvolgente raccolta dei suoi viaggi in Vietnam, e
poi nel Biafra, o nel Cile all’indomani del
golpe) ci mostra quanto politica, invece,
sia stata la sua vicenda: il che dovrebbe
impedire di farne un antesignano degli
anticonformisti a contratto d’oggidì.
“Politica” nel suo caso, si capisce, non
equivale a dire “ideologica”: come
mostrano le correzioni di rotta, puntigliosamente “empiriche”, sulla vicenda
vietnamita.
Su «Riga» (per la cortesia di Giosetta
Fioroni, che conserva in modo esemplare l’archivio di Parise) è ora possibile
leggere per la prima volta in forma
integrale il principale inedito rimasto fra
le sue carte, che proprio La politica s’intitola (col sottotitolo irridente Trotto leggero). Si conferma – dopo i pionieristici affondo del Marco Belpoliti di
Settanta, nel 2001 – come sia questo il
testo-chiave del Parise interprete non
dell’anti-politica (sintomatica la sua
posizione su quello che definisce lo
«squadrismo regionalistico» della Lega
nascente: «La Tribuna di Treviso», 23
dicembre 1984) bensì di una concezione
della politica, più che sentimentale,
umorale e corporale (biologica dunque):
agli antipodi da quanto di astratto,
irreale, appunto ideologico Parise percepiva nell’Italia in cui scrisse queste
pagine, quella degli anni Settanta. Difficile immaginare nel clima odierno, per
esempio, la virulenza delle polemiche
che accolsero il primo Sillabario, nel
quale nel ’72 Parise aveva raccolto i
racconti brevi pubblicati sul «Corriere
della Sera». Quella copertina con un
cuore rosa shocking di Giosetta, per
molti, è né più né meno che un pugno in
faccia. In un’intervista, provocatorio più
che mai, alla giornalista che gli chiede se
sia davvero divenuto un reazionario,
risponde Parise che ora purtroppo deve
lasciarla: è in partenza per Parigi, dove
non vede l’ora di avvolgersi nelle lenzuola freschissime di un albergo di lusso.
Con ogni probabilità nel 1977, Parise
mette mano a un altro testo: col quale dà
conto di come sia nato, in lui, il distacco
dal modo in cui la politica veniva conce-
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parise / il ritratto
«Nessuno fa niente per niente»
di Andrea Cortellessa
versità umana. Montale è descritto come una creatura marina, Gadda nella fisiologica lentezza del
suo modo di camminare, Marilyn Monroe che
«era un unicum, si sarebbe detto organico», con il
suo odore «tra lo zolfo e una capretta di latte».
Nelle mani di Parise la caccia alla realtà diventa ricerca di singolarità, anomalie, anacronismi, momenti in cui la materia vivente entra
in vibrazione e rivela un aldilà della materia. È
questa la sua lotta letteraria contro l’idolatria
delle idee e anche dell’idea unificante e generalizzante di realtà.
Di qualunque arte parli, la parola chiave di Parise è “stile”, accompagnata da “inutilità” o più raramente da un termine impegnativo come “metafisica”: che però diventa ovvio quando si tratta
di De Chirico e di Savino. Stile, biologismo e metafisica rivendicano il fatto che non tutto è storia.
L’arte e gli artisti esistono fra storia e natura. Soprattutto quando non sono di moda e sembrano
fuori tempo, i prodotti dell’arte suggeriscono la
misura della loro grandezza. L’ «inutile beauté» e
l’attenzione che la riconosce sono valori incalcolabili che sfuggono a ogni ordine e a ogni potere.
La sola fede di Parise è stata questa.
pita nel suo paese, nel suo tempo. Il
romanzo, incompiuto, è trasparentemente autobiografico: nei suoi sedici
capitoli (per settantuno cartelle dattiloscritte) l’avatar Giacomo, sin dalla prima
scuoletta di provincia – ritratta in una
serie di scene frizzanti, quasi da opera
buffa –, si rende conto della trama di
opportunismi, scambi di favori e false
coscienze cui non sa dare altro nome che
«politica», appunto. Nell’ultima pagina,
qui riportata, lo troviamo a cena col
conoscente Ignazio, che «lavorava in un
partito di sinistra, non diremo quale»
(ma, specifica Parise, non è il PCI), e al
quale spiega la visione disincantata,
esplicitamente machiavellica, cui è
giunto: della politica come mero rapporto di forze. Un’«associazione a delinquere» alla quale ha scelto di sottrarsi. Gli
formula una profezia e gli dà un insegnamento. Primo, «la gente crederà
sempre meno in dio e nei parroci e
sempre più alle cose, alle proprietà, ai
vantaggi». Secondo, quello che può fare
un partito come il suo è «aumentare il
valore delle tangenti», sottrarre cioè la
corruzione al piccolo cabotaggio dell’arricchimento personale per farne un
dispositivo di potere.
Proprio come Machiavelli a suo tempo, mostrando al potere la strada per
perfezionarsi, Parise ne segna a dito, in
realtà, il volto più osceno. La profezia è
ancora più lucida di quella che pochi
anni dopo Italo Calvino pubblicherà col
titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Più lucida e più amara: intollerabile anche per colui che l’ha formulata.
E che la chiude in un cassetto.
Si sa come una parola, nella sua astrazione, sintetizzasse per Parise tutto ciò
cui i Sillabari intendevano reagire: la
parola «rivoluzionarizzare». E si sa, ora,
che è a Pasolini che apparteneva quella
parola. Ma è sintomatico che in un
reportage dall’Albania, del 1969, l’avesse
impiegata lo stesso Parise. Esempio
illuminante di come le sue reazioni e i
suoi scatti d’umore fossero spesso nei
confronti – anche – di sé medesimo. La
sua guerra politica interiore era una
guerra civile, una guerra con l’ombra che
vedeva allo specchio: così aveva imparato a fare, nel proprio stesso sangue
percepito come impuro, sin dall’adolescenza. Di qui la sua multanimità, la sua
capacità di cambiare strada – di fare le
sue «mute», per dirla alla maniera di
Zanzotto – in modo repentino, sorprendente, sempre vitale.
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A 30 anni dalla morte
esce per la prima volta
su «Riga» un romanzo
incompiuto
di cui anticipiamo
un brano
di Goffredo Parise
G
iacomo si trasferì da solo a Milano
dove dapprima insegnò in un liceo
come supplente, poi trovò lavoro
nella redazione di un'enciclopedia.
Si annoiava. […] Viveva solo in una
camera ammobiliata, anzi ne passò molte di camere ammobiliate e conobbe molte
persone, tra cui uno, un segaligno rosso di capelli
[…] che lavorava in un partito di sinistra, non diremo quale. […] Stranamente quest'uomo, che si
chiamava Ignazio, era molto attratto da Giacomo e
dal suo modo di pensare, del suo, diciamolo pure,
disprezzo per la politica, dal suo considerare sempre più freddamente e per così dire economicamente la politica come un rapporto di forze, elettorali in prima istanza, ma soprattutto interne, tra
membri di un partito. Un piccolo Machiavelli, come aveva pensato di lui suo padre, affascinava
Ignazio. E, a differenza di tutti gli altri che avevano
avuto modo di parlare di politica con Giacomo, mai
alzava il dito per insegnare, per far la predica, la
predica ideologica di cui tutti, Licurgo in testa erano o si atteggiavano maestri.
«Vista dal tuo punto di vista insomma, la politica sarebbe un puro gioco di do ut des, camorra,
mafia, insomma: che non cambia mai col cambiare dei regimi».
«Fai conto» rispose Giacomo. Stavano seduti al
Biffi Scala, una sera d'estate.
Ignazio rifletteva: «Qualunquismo insomma…».
Giacomo sorrise: «no, il contrario».
«Come sarebbe il contrario?»
«Il contrario sarebbe non mettere le carte in
tavola».
«E cioè?»
«Se tu metti le carte in tavola e dici che la politica è mafia, camorra, rapporto intricatissimo di
interessi e ramificazioni diretti o indiretti fino
all'ultimo elettore, se dici questo, se ti pronunci in
questo senso, allora appare che la politica è priva
di contenuto, come dici tu ideologico, e le masse
non vogliono credere a questa vaccata generale e
non votano».
«Come? L'uomo qualunque».
«È già caduto, non poteva stare in piedi, e voi
l'avete preso perfino sul serio, preoccupati come
sempre del particolare, del voto, dal numero di voti e non dell'essenziale. L'uomo qualunque era
perdente in partenza: era una protesta, non una
speranza». […]
«Basterebbe darla a bere, in sostanza, questo è
il tuo pensiero».
«Non basta nemmeno questo: la gente, l'elettore non è più così coglione. Non basta darla a bere,
sono necessari fatti, sia demagogici, di massa, di
pubblicità, e sopratutto fatti contingenti, ad personam, famiglia per famiglia, come fanno i preti. Invece voi della sinistra vi riempite la bocca prima di
rivoluzione, poi di cammino verso il socialismo,
per non parlare di egualitarismo, e così vi fregate.
L'uomo moderno, cioè l'elettore, ha bisogno di cose, la politica la vuole tradotta in pratica nelle sue
mani, dai capi mafia che si va a fare? Si va a chiedere
un favore, no?»
«Corruzione cioè, quello che fanno i democristiani…».
«Loro hanno imparato dai parroci, che la sanno
lunga e che, di favori ad personam ne fanno tanti,
ma la cosa è molto più complessa. L'immagine di
un partito dev'essere integra e corrotta al tempo
stesso. Integra all'esterno e corrotta all'interno, così chi si accosta ha la faccia pulita ma pronto ad avere le mani sporche. In fondo non è che un excursus
di Machiavelli anche questo. Insomma la speranza
nelle parole, la certezza nei fatti. Ti premetto, e del
resto tu lo sai, che non so nulla di politica e dunque
non me ne intendo. Io non voto».
«Non voti?»
La domanda di Ignazio non era minacciosa,
moralistica, pedagogica come Giacomo aveva udito molte altre volte nella voce di molti altri. Non era
scandalizzata, ma, per così dire equidistante e neutra. «E perché non voti?»
«Ma te l'ho già detto. Grazie a Dio siamo in libertà e nessuno mi obbliga a farlo. Inoltre non ho
alcun vantaggio persale a votare per l'uno o per
l'altro partito».
«Vota per noi allora…».
«Potrei farlo ma innanzitutto è soltanto un voto
e lo farei esclusivamente per te, anzi per il fatto che
facciamo quattro chiacchiere insieme qui al Biffi
Scala. Mi pare troppo poco».
«Meno male che non tutti ragionano come te».
«riga» dedicata a parise
Quello qui presentato è uno dei molti scritti inediti o dispersi di Goffredo Parise contenuti nel numero 36 della rivista «Riga»: 540 pagine, edite da Marcos y Marcos e curate da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, nel trentennale della scomparsa dello scrittore (31 agosto 1986). Si segnalano i Sillabari esclusi nel ’72 e nell’82, il carteggio con Italo Calvi­
no e ampie parti di quelli con le compagne Omaira Rorato e Giosetta Fioroni, un raro diario del ’76 e molti reportage mai raccolti. Come sempre in «Riga» i materiali sono accompagnati da una corposa sezione critica: diciassette saggi scritti da studiosi d’oggi, più un’antologia nella quale sfilano i tanti amici di Parise (e qualche suo nemico): da Montale a Zanzotto, da Piovene a Pasolini, da Moravia alla Ginzburg, da Pampaloni a Sanguine­
ti, da Bocca a Garboli, da Guglielmi a Golino, da Arbasino a Cordelli, La Capria, Ceronetti, Berardi­
nelli, Magrelli, Scarpa. Completano il numero gli omaggi di Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan, e una galleria dei ritratti fatti a Parise da Giosetta Fioroni. Un volto
intagliato
nel legno
di Elisabetta Rasy
A
«Ci si arriverà vedrai. Non ci sarà altro modo di
prendere voti per un partito. Già lo fanno i democristiani e anche i comunisti sub specie sindacale, così
anche il vostro. Ma non basterà. A poco a poco e prima di quanto pensi, l'obbedienza che tu chiami ideologica e che io chiamo tradizionale verrà a mancare. La gente crederà sempre meno in dio e nei parroci e sempre più alle cose, alle proprietà, ai vantaggi.
Chi ha le proprietà cerca di difenderle, chi non le ha
vorràvantaggi.Equellichepuòdareilpartitocomunista saranno sempre meno. E i sindacati invece finiranno per mettere i padroni con le spalle al muro e
spremerli fino all'ultimo quattrino, fino ai debiti.
Senza poter fare nulla, esercitare, loro, la loro potestà sulla proprietà che sono appunto e fabbriche e
operai. […] I partiti stessi devono impadronirsi del
capitale da distribuire, con giudizio, ai loro votanti.
E poi alla gente non occorre affatto dare tutto e indirettamente: basta dare tutto poco ma direttamente.
È molto più efficace. I parroci insegnano. In poche
parole ciò che si ottiene non deve aver l'aria di un diritto, bensì di un regalo, per non dire beneficenza. E
questo regalo è il partito che deve aver l'aria di darlo.
In nome di astratti diritti e doveri non si ottiene un
bel niente in cambio. Difendere e sostenere l'idea
del diritto per tutti non significa affatto diritto del
singolo. La cosa prende forza».
Ignazio ascoltava Giacomo in certo qual modo
affascinato. Certo, il suo ragionamento non faceva
una grinza, logico e utilitaristico. E forse anche dal
punto di vista politico. Ma a quanto gli pareva di
aver inteso si trattava di corruzione capillare, di beneficenza casa per casa, di tangenti di mafia insomma, per dirla come stava[…].
«Una associazione a delinquere» disse quasi tra
sé e sé, ma Giacomo comprese quelle parole.
«Solo in senso teorico perché io non so nulla di
politica, non mi intendo, non so nulla di quanto si
fa dentro la direzione di un partito. Solo in senso
teorico. Ma vedi, teoricamente si intende, esiste
una tangente da estorcere alla massa e questo è il
voto e una tangente da estorcere allo stato, cioè al
parlamento, al senato, agli altri partiti e perfino
alla magistratura e questa tangente è il potere.
Entrambe corrono di pari passo, tenendo sempre
presente però che se non c'è l'uno, non c'è nemmeno l'altro, mi pare. Tuttavia per ottenere l'uno,
il voto, è necessario pagare una taglia, una piccola
taglia, magari piccolissima che sono tutti i milioni di piaceri, piccoli favori che ogni deputato si affanna a procurare ai suoi elettori. Per farlo non
esige altrettanta tangente dallo stato? Un posto
fisso di bidello ottenuto per il fratello del barista
del tuo paese non è una tangente estorta allo stato? E vuoi che quello non ti dia il voto?»
«Ma questa, si sa, è operazione comune di tutti
i partiti».
«Si tratta di andare avanti su questa strada ma in
direzioni diverse. Aumentando il valore delle tangenti, che sono di natura diversa come tu ben sai e
hannomoltesfumature.Questo,seidemocristiani
lo fanno da che mondo è mondo, ma in modo grossolano e sciupone, i comunisti lo possono fare pochissimo,perilmomento.Voipotrestefarlodipiùe
con più, diciamo, con più sottigliezza».
«E come?»
Giacomo rise: «non ti voglio rubare il mestiere.
Pensaci, pensateci. C'è anche un proverbio. Nessuno fa niente per niente».
veva un viso che era difficile
scordare, io l’ho conosciuto
quando la sua salute non era più
buona, ma la fisionomia era
quella, la stessa che si vede nelle fotografie
di lui giovane ai tempi di Il ragazzo morto e
le comete. A quell’epoca – l’inizio dei Cinquanta - Goffredo Parise assomigliava ai
personaggi erranti e lunatici del suo romanzo d’esordio, e quella sua faccia così
affilata faceva pensare al personaggio di
Baptiste, il mimo interpretato da JeanLouis Barrault nell’indimenticabile film
di Marcel Carné del 1945, Les enfants du Pa­
radis, che in Italia uscì col più convenzionale titolo di Amanti Perduti. Poi gli anni
avevano ispessito la sua figura, ma conservava sempre l’aspetto di una statua intagliata nel legno, soprattutto il viso, come costruito a sciabolate, o scalpellato, di
modo che l’ossatura risaltava netta sotto
la pelle. Aveva un mento sporgente, aguzzo, con una fessura al centro, e un naso un
po’ a becco che lo faceva somigliare a un
rapace delle montagne che tanto amava.
Effettivamente quel naso e quel mento gli
conferivano un che di aggressivo, ma questa curvatura predace era totalmente contraddetta dai suoi occhi, o per meglio dire
da tutto il paesaggio del suo sguardo. Gli
occhi erano molto grandi, scuri, infinitamente melanconici, e incastonati nelle
orbite come in delle grotte, sotto la protezione delle sopracciglia sporgenti. Era un
effetto strano, un volto diviso tra combattività e un’ involontaria dolcezza. Sono
questi occhi, incappucciati e assorti di
fronte allo spettacolo del mondo, che risaltano come l’elemento più significativo
e più affascinante nei ritratti che gli ha fatto la compagna Giosetta Fioroni.
Per quanto sia arbitrario trovare un
nesso o un riflesso dell’opera di un artista
o di uno scrittore nei tratti del suo viso,
non posso fare a meno di pensare che la
fisionomia, anzi la stessa conformazione
e alloggiamento dei lineamenti nel volto
di Parise fossero una specie di mappa della sua bibliografia, o perlomeno della sua
vocazione letteraria. C’è una parte aggressiva, polemica, anche beffarda nella
sua storia di intellettuale – naso e mento –
e poi c’è l’aerea impassibile malinconia
contemplativa dei Sillabari – gli occhi, lo
sguardo. Era come se gli occhi, più che
guardare, scrutassero e meditassero.
Qualcosa di diverso dall’osservare. Occhi
pronti a cogliere, laddove occasionalmente si trovasse, la douceur de vivre, o la
più nera delle catastrofi. Benché quando
l’ho conosciuto fossi in quella fase della
giovinezza in cui la timidezza è esorcizzata da una certa indifferente temerarietà
sociale, pure Goffredo - il suo sguardo mi ha sempre messo soggezione. Anche il
suo modo di fare mi sembrava contraddittorio. Era gentile e brusco, ironico e invincibilmente serio, un po’ presente un
po’ assente, come se quei viaggi in paesi
lontani durante i quali si congedava dal
mondo fossero in atto dentro di lui mentre sedeva a tavola o in un salotto. E a proposito di contraddizioni (e di salotti), eccone un’altra: anche quando era amabilmente mondano c’era qualcosa di duramente ascetico in lui. Amava molto i
pittori, da qualche parte mi pare che abbia
scritto che invidiava quel diretto, carnale
rapporto con la tela e i colori, ma anche
lui, così insofferente delle idee correnti,
delle ideologie, delle acrobazie intellettuali e delle chiacchiere culturali, faceva
pensare a un pittore della scrittura, imprigionato nella tirannia del suo talento.
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