GOFFREDO PARISE: LA PAGINA, LA MORTE

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GOFFREDO PARISE: LA PAGINA, LA MORTE
GOFFREDO PARISE:
LA PAGINA, LA MORTE
Dovrei forse cominciare col ribaltare i termini annunciati dal titolo di
questo breve lavoro su Parise e scrivere: la morte, la pagina. Perché, se
mi rifaccio a Freud, padre padrone di tutte le idee intercorrenti tra
analisi della psiche e letteratura, non posso fare altro che pensare alla
pagina creativa come elaborazione, normale o surnormale, del lutto,
della mancanza o della privazione, cioè della morte.
Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata
o di una astrazione che ne ha preso il posto.
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Parise, si sa, crebbe da orfano (solo tredicenne fu adottato da un
giornalista). La madre, abbandonata dal marito ancora prima del parto,
non trovò di meglio che comportarsi, nei riguardi del figlio, come se il
padre fosse morto.
Accade allora inevitabilmente che cerchiamo un sostituto a ciò a cui
nella vita dobbiamo rinunciare, che lo cerchiamo nel mondo della
finzione, nella letteratura, nel teatro.
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La morte è un imputato che, nel corso o in fine di istruttoria, ossia
della vita, nessuno può rinviare a giudizio, tanto meno lo scrittore che
sembra talvolta possedere le più schiaccianti prove dei suoi misfatti. Se
dunque la morte è un non luogo a procedere, Parise, dal canto suo,
scelse di procedere verso il non luogo, l'inesplicabilità, l'assurdo,
l'enigma, con la sola forza della parola sulla pagina.
Non è intenzione del presente lavoro spiegare l'inserzione continua
dell'immagine della morte nell'opera di Parise. La morte c'è, come
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parola e come condizione, come tesi, antitesi e sintesi nei libri dello
scrittore veneto e si racconta, in una notizia biografica che lo riguarda,
che un suo primissimo perduto racconto dal titolo I movimenti remoti
fosse la storia allucinante di un uomo chiuso nella tomba che sentiva
evaporare la coscienza assieme al disfacimento del corpo. Come pure
si riferiscono, di Parise, le sue frequentazioni infantili dei cimiteri e le
sue prime folgorazioni culturali da Poe, da Hoffmann e da Shakespeare,
nonché taluni suoi "giochi proibiti," d'ambientazione e di contenuto
mortuari.
La morte abita le pagine di Parise a partire dal titolo del suo primo
libro, Il ragazzo morto e le comete. Vivi che sono defunti e defunti che
sono vivi; morte che non è del tutto morte; morte e resurrezione;
conflitti vita-morte e, nella vita, simboli e parole della non-vita.
Attribuito alla tavola dialettica del "realismo magico," o al ramo
nostrano della vegetazione surrealistica europea, questo atteggiamento
di tranquilla (potrei anche dire indolore e gratuita) commistione
dell'esserci con il nulla, mostra qualcosa di più radicale di una semplice
lezione di poetica. La confidente interferenza anima-corpo (per altro
totalmente sprovvista di dimensione o speranza metafisica), ancorché
irraggiata di luminose esuberanze giovanili, non approda mai né
all'idillio, né alla riqualificazione della realtà, né ad uno status che
profitti positivamente di uno scambio di identità tra morte e vita, sogno
e realtà, alba e tramonto, oblio e epifania.
Fosse stato un documento del contemporaneo neorealismo, Il
ragazzo morto e le comete avrebbe ovviamente esentato la fantasia dalla
dissoluzione del reale. In ogni caso, magico-realiste o surrealiste che
siano, le linee tematiche di Parise non danno mai una manifestazione di
vita in positivo spareggio sul regno della morte: tutto si riduce, prima
o poi, al fantasma di un'illusione, quando non alla subitanea e arresa
predominanza del nero su qualsiasi colore dell'esistenza.
Il nulla profila i suoi invincibili diritti sin dal principio. Il tentativo
di smistare dal suo binario forzato quel terrestre destino che sancisce il
termine di ogni cosa vivente, va invariabilmente incontro alla sua
sconfitta. La morte, che solo apparentemente, e solo nel primo Parise,
presenta i caratteri dell'evasione da un risaputo percorso materialista e
deterministico, rimane con immediata evidenza l'impenetrato segreto,
il cieco mistero, l'ignoto buio. E, quel che più conta, un nulla totale: un
invincibile fine e mai, in nessun caso, un fine o il fine di alcunché.
Quando dal Ragazzo morto transita al Prete bello, nel ripensamento
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della sua iniziale poetica Parise brucia le tappe verso quella sua precoce
e irreversibile maturità tutta imperniata in una reductio dei sogni e delle
visioni a più immediate contingenze quotidiane.
La morte, "gentile pensiero di Dio" (un Dio a sua volta morto e
ridotto a trasvolante cometa), è come dimenticata: prima, nei fugaci
riferimenti contenuti nella Grande vacanza (la morte del parroco, dei
dieci tedeschi, della nonna e di tutti quelli che la incurante lotta tra
Cristo e il Diavolo procurerà); poi, nello stesso Prete bello (la morte di
Cena e, al più, i funebri richiami delle divise fasciste).
Bisognerà saltare a piè pari qualche libro intermedio (Il
fidanzamento e Amore fervore, o Atti impuri, che dir si voglia), perché
la morte trovi di nuovo un suo motivato appuntamento con la pagina di
Parise. Ma da allora (Il padrone, Il crematorio di Vienna, il Sillabario
uno e due, più il recente, ma "antico," trancio romanzesco intitolato
Arsenico) non si lasceranno più, consumando un feroce matrimonio
concettuale ed effettuale, immaginario e consuetudinario.
Al passaggio degli anni Sessanta, l'Italia andava spiccando quel
salto economico e sociale (culturale e antropologico) da cui sarebbe
uscita non senza fratture o distorsioni. La neo-avanguardia, dal canto
suo, veniva radiografando un trauma letterario e Parise, se non proprio
all'interno ma in parallelo a questa esperienza, scopriva i portati delle
scienze naturali e umane come istigazioni della sua scrittura creativa:
legge della selezione (naturale e innaturale), etologia, psicanalisi,
multicrazia tecnologica, neocapitalismo consumista, teologia del potere.
Se mai Parise aveva sacrificato a qualche "divinità" (etica, poetica
o estetica), ora è la logica meccanica e laico-razionale della neociviltà
ipercapitalista a impossessarsi della sua vena e obbligarla alla presa in
carico del darwinismo aziendale, dell'alienazione produttivistica,
dell'industrializzazione del mondoe del modo di vivere e di pensare.
La tendenza alla fiaba resta, ma come componente straniante e
straziante nel disporsi dei temi da affrontare; prova ne sia il grottesco
che ne deriva come tono di fondo e pedale disarmonico nello sconcerto
della storia.
Del resto, in parallelo o in convergenza su specifici contenuti che
si vollero archiviare nel faldone intestato a "Letteratura e industria," non
pochi erano, né trascurabili, i nomi in attività di servizio: da Bianciardi
a Calvino, da Moravia a Ottieri, da Piovene a Vittorini.
Questa scienza del behaviour neoindustriale, questa cibernetica
biologica, esistenziale non meno che dello spirito, con tutti i suoi effetti
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di robotizzante codificazione, è morte e più che morte, per Parise.
Assumere uno dei contenuti della selvaggia inciviltà delle macchine, è
parlare di morte e più che di morte: di vita, cioè, lasciata vivere con la
certezza che non può capitare fine peggiore; di inavvertenza di morte
nella morte totale della coscienza.
Da "gentile pensiero di Dio," la morte diventa sgradevole progetto
del "padrone," dio terreno (tanto più potente del nascosto o riposto Dio
delle religioni) che impartisce i comandamenti della produzione e i
catagorici imperativi del consumo, perché lui è quel che ha e vale quel
che vuole.
La sua legge è la nuova morale del mondo; essa ha decretato
l'inversione di tendenza dal biologico all'antropologico, anzi, ha
instaurato un'etica nuova e tutta particolare: quella della violenza
programmatica alla natura e al maggior numero possibile di esseri
viventi, dal momento che il padrone della produzione diventa anche il
padrone della vita e della morte del pianeta, della pace e della guerra tra
uomini singoli e società organizzate.
Il padrone è il libro che, nel complesso dell'opera di Parise, si pone
come lo stadio più realizzato del trionfo della morte. E potrebbe essere
altrimenti, se la morte è descritta come proprietà di un potere che uccide
per affermarsi, per difendersi o per non scomparire? Che ha dalla sua
tutto il diritto e tutta la licenza: economici, civili, politici, sociali,
medici, giuridici e religiosi? Che si presenta e si legittima come fatto
tecnico (o di dinamica contrattuale) acquisito dal padrone a fronte del
salario e assieme alla forza-lavoro?
L'uomo fatto strumento all'altro uomo è già morto.
Ma lei a che cosa aspira?...L'ho interrotto, per la prima volta, e ho
risposto: 'Sì, anch'io aspiro a qualcosa.' - 'E a che cosa aspira?
Sentiamo.' Per farlo felice ho risposto: 'Alla morte.' Ma ho provato
dolore perché quello che dicevo era la verità.
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Raramente, in un contesto letterario, si trova una così frontale e
schiacciante idea della morte, una assoluta "ragione pratica" del suo uso
ideologico. Certo, Parise ha dovuto coltivarla in sé, e acculturarla, con
intenzionato sforzo filosofico e cognitivo. Come la vede lui, la morte
non è tanto quell'inefficiente fenomeno che la società esorcizza
attraverso il rito o il mito o l'occultamento; essa è piuttosto lo stadio
finale di una linea di pensiero che, se dal nulla porta al nulla, lo fa
attraverso un infallibile processo d'industrializzazione del tempo e
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dell'essere: oltre le filosofie fenomenologiche ed esistenzialistiche
(Husserl, Heidegger, Sartre), in un parisiano "essere per la morte" che
non è più né pensiero, né volontà, né circostanza ontologica, ma gelido
assioma, silenzio della negazione totale, muto orrore, esercizio
commerciale e merceologico.
Siamo qui per morire, conclude Parise, puramente e semplicemente,
non altro; siamo prodotti per essere consumati dall'immane officina
dell'universo, ma anche prima, dai padroni del pianeta, che anticipano
a loro piacimento tecnico e scientifico il già empio insulto biologico del
morire.
Ormai, la sola realtà possibile è la morte e assolutamente naturale
è quindi il progressivo spegnersi, se non proprio del numerico consistere
delle vite ( ma non è detto; lasciamo ai sistemi il tempo per esprimersi),
certamente della qualità della vita.
Per ciò che fa o che è, l'uomo non si distingue dal nulla.
... se mi adattassi, come fanno tutti gli altri dipendenti, a essere
soltanto uno strumento, così come sono strumenti le macchine
meccanografiche dell'amministrazione o tutti gli altri oggetti di
proprietà del dottor Max, se mi adattassi ad essere appunto una cosa
come m'era parso di adattarmi addirittura con entusiasmo all'inizio,
tutto andrebbe bene: vivrei appunto come una cosa e, proprio come
una cosa, né felice né infelice. Vivrei e basta; potrei anch'io sposarmi
come hanno fatto e fanno tanti altri, metter su famiglia, avere figli.
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Ma, per completar l'opera, "figli dementi," come preciserà poco più
oltre; figli dalla "vita simile a quella del barattolo." Così nessuno potrà
fargli del male; così non s'accorgeranno di niente, non impareranno mai
bene chi sono, non si assilleranno per sapere da dove vengono e dove
vanno. In altri termini, non capiranno mai di essere nulla, di vivere per
nulla e di morire per nulla.
Privata delle sue metafore, la morte non è più nemmeno sonno
eterno, o annullamento cosmico, o attesa, e neanche è simbolo amaro
di finitudine umana. La morte è un "attrezzo," è una soluzione
tecnologica che prende sempre più consistenza, comunque il tempo
corra e dovunque lo spazio confini o sconfini.
Impossibilitato a portare a stadio ulteriore il distillato della
negatività, Parise staziona ora al fondo della sua tossica filosofia
materialista, vivendo una tragica tenebra di valori: quella che si coglie
nelle pagine del Crematorio di Vienna, prima che i due Sillabari
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dispongano al tentativo di una qualche risalita.
Non sembri contradditorio il fatto di giudicare Il padrone più
terrificante e spento del Crematorio, dove pure è messa in moto e
funziona brillantemente la macchina dell'eliminazione; dove cessare una
attività è sinonimo di scomparsa fisica; dove gli episodi
dell'incenerimento sono vissuti dal personaggio, una volta da spettatore
e una volta da interessato, in un racconto dalla imperfettibile tragicità.
È la teoria a determinare la pratica, anche se spaventa meno. E
spaventa certo molto meno l'ideologia del Padrone che non l'esercizio
del Crematorio: là dove l'abitudine della vita era alla morte, ma non la
si vedeva all'atto; dove si sapeva di essere morti il giorno in cui non si
sarebbe più stati produttivi, ma quel giorno non sorgeva ancora; là dove
si sapeva di esser merce per una convenzione di morte, per un contratto,
che però ancora non scadeva. Ma tutto era cominciato là, nelle pagine
del Padrone, quando s'era annunciata l'identità dell'uomo con la
macchina, l'artificialità della vita, la vita strumento anch'essa della
convenzione produttiva, la morte come cosa vivente, vorace e
predatoria, e così via.
Ora, niente di più conseguente e di meno assurdo delle parole del
protagonista del Crematorio:
Ho quarant'anni, una professione, una casa di quattro stanze, una
moglie, un figlio e, da qualche tempo, una sensazione che mi
accompagna dal momento in cui mi sveglio fino al momento in cui
torno a letto e mi addormento. Questa sensazione è una sensazione
d'immobilità, di staticità, di immutabilità, in poche parole di morte.
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Né che vi aggiunga queste altre:
Oltre queste mete naturali [una professione, una casa, una moglie e
un figlio, nda] non ve ne sono altre e una volta raggiunte queste io
avrei smesso di vivere. Il resto che mi avanza non sarebbe altro che
un moto d'inerzia della vita vera e propria che è, come si sa, una
corsa continua per il raggiungimento di un fine naturale.
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O che concluda:
Ed ecco, in tutto quest'immaginare e fantasticare, sento che quella
sensazione mortuaria, di decomposizione, di disgregazione e di
funebre immobilità, scompare di colpo... Significa molto
semplicemente che non vi è alcuna differenza tra persone e cose.
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Nulla, o quasi, di meravigliante se, nel prosieguo dei racconti che
formano il Crematorio, si legge del suicidio di una moglie e
dell'omicidio di un bambino; di un automobilista che attende i pedoni
per finirli sulle strisce; di un piccolo gettato dalla finestra; di un
matricidio; di tiri al bersaglio su "sagome mobili" (alias, uomini); di
"combinazioni di natura politico-militare" (alias, annientamento di esseri
umani o, a meglio dire, di decisioni omicide che tuttavia si appellano
a "leggi che regolano la statica e la dinamica dei corpi nello spazio").
È esatto, a questo punto, dire che Parise si è spinto un po' troppo
in là nella sua panica affermazione di morte? Forse no, perchè le ragioni
tematiche non sono sempre quelle che decidono il limite di una pagina
letteraria. Sta di fatto che dopo tanta quantità e qualità di morte (suicidi,
omicidi, genocidi; morti innaturali, tragiche, folli, gratuite e allucinanti),
a Parise non resta che tentare la ricomposizione del mondo dalle sue
ceneri. O tacere. Nella fattispecie letteraria, non resta a Parise che
risillabare il mondo e la vita; dopo l'ideologia, insomma, tentare un
impegno naturale, umano. Tentare, alla fine della vita (e, ora, della sua
stessa vita), una sorta di testamento, fosse anche pietoso, amareggiato,
pieno di pena ma, se non proprio edificante, meno distruttivo di quello
rilasciato finora.
La morte avanza, stavolta, fuori di pagina, dal breve rettilineo
dell'esistenza giunto inopinatamente alla curva fatale:
...poi la vita finirà, ma l'illusione della vita è già finita da qualche
anno e non so come fare.
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Non si tratta più nè di teorizzare nè di rappresentare, ma di
impersonare. La morte, mai così vicina, stranamente scompare come
lemma, come accezione da vocabolario, ma ne permane la presenza, la
sostanza semantica, diciamo pure il contenuto dell'espressione. Allora,
breve e dolce, riappare la vita:
Solo allora egli vide che era una folaga, provò dispiacere, di nuovo
gli tornarono i pensieri sulla brevità della vita.
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Si potrebbe pensare ad un inizio di contraddizione, se prendessimo
la letteratura come scienza esatta, o come costruzione teologica, o come
cattedrale di pietre non intercambiabili, pena il crollo.
Di fatto, in questo ultimo Parise c'è una certa "restaurazione" di
precedenti, primitivi pensieri: quelli giovanili, ad esempio, se è vero che
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nel Sillabario N. 2 Parise riapproda, vecchio senza gli anni del vecchio,
a una certa aura di stupore giovanile, di adolescenziale confidenza col
tempo della vita o, se non proprio a quella primordiale felicità
dell'esistere, a una piccola gioia da consumarsi senza troppo allargare
la lente, né sull'essere né sull'esserci.
Rimane ferma, questo sì, l'idea del nulla oltre la vita; l'idea della
vita come la costante imminenza di una scomparsa, di un buio. La vita
rimane nei pensieri di Parise come avaro anticipo di morte, istantaneo
alito di primavera in un giorno d'inverno.
Ma stavolta la morte va oltre la pagina. Quella contrada assurda e
ostile, quell'imposizione intollerabile, quel macabro carnevale, quel
grottesco ultimo atto della biologia, ebbene, prendono i connotati di una
condizione presente, di un paese che d'un subito gli diventa più adatto.
Di un nulla per il quale si sente più adeguato che non a quel qualcosa
— piccola cosa — che era la vita.
Scrivere della morte, studiare questo maledetto frutto dell'esistere,
non produce né sottrae, non procura né nasconde attitudini a inattitudini
al morire. Mettere al mondo della pagina così tanta morte, come ha
fatto Parise, non è, alla fin fine, se non lo sforzo di uno che ha sempre
voluto vivere, sempre sapendo di dover morire; di uno che mai nella
vita ha provato un istante la dolcissima e smemorante illlusione
dell'immortalità.
A lui che aveva predicato, o il romanzo ideologico o il nulla, dopo
la morte dell'ideologia, e quindi del romanzo, non fosse altro che del
"suo" romanzo, viene ancora la pagina. Una pagina che, stavolta, ha
chiaro il concetto dell' inutilità di una rappresentazione ideologica, sia
della realtà sotto il segno del lutto, sia del lutto medesimo.
La pagina dei Sillabari. La pagina oltre la quale sta la morte, ma
quella vera; quella personale; quella unica fra le tante altre.
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CLAUDIO TOSCANI
Castelleone
NOTE
1
Sigmund Freud. Opere, III (Torino: Boringhieri, 1966), pp. 102-103.
2
Ibid., p. 139.
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3
Autori Vari. "Parise e il 'Corriere'," Milano, Supplemento al numero del
29 ottobre 1986 del "Corriere della Sera", p. 17.
4
G. Parise. Il padrone, in Opere, I (Milano: Mondadori, 1987), p. 923.
5
Ibid., p. 983.
6
Ibid., p. 1073.
7
Parise. Il crematorio di Vienna (Milano: Feltrinelli, 1969), p. 122.
8
Ibid., p. 124.
9
Ibid., pp. 125-126.
10
Parise. Sillabario N. I (Torino: Einaudi, 1972), p. 82.
11
Ibidem.
12
Parise. Opere, op.cit., p. 1539 ("Fogli sparsi").
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