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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA DIP.TO TERRITORIO E SISTEMI AGRO-FORESTALI AGRO Pubblicazione del Corso di Cultura in Ecologia ATTI DEL 47° CORSO Sviluppo socio-economico socio economico delle Alpi nel terzo millennio: CORSO DI CULTURA IN ECOLOGIA una minaccia per le risorse naturali? A cura di Vinicio Carraro e Tommaso Anfodillo Centro Studi per l'Ambiente Alpino, L. Susmel S. Vito di Cadore, 6-8 giugno 2011 DIRETTORE DEL CORSO Tommaso Anfodillo ENTI PATROCINATORI Provincia di Belluno Comunità Montana Val Boite Comune di San Vito di Cadore In collaborazione con Fondazione G. Angelini Centro Studi sulla Montagna CITAZIONE DEL VOLUME: Carraro V. & Anfodillo A. (eds.), 2011. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Pubblicazioni del Corso di Cultura in Ecologia, Atti del 47.mo Corso, Università degli Studi, Padova. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 PREMESSA Il 47° Corso di Cultura in Ecologia è incentrato su come poter garantire lo sviluppo socioeconomico cercando di preservare la ricchezza di patrimonio naturalistico che caratterizza tutte le aree alpine. E’ noto che in molti casi lo sviluppo socio-economico è transitato attraverso un significativo consumo di risorse naturali (basti pensare al notevole sviluppo urbanistico delle cosiddette “seconde case” nei decenni passati) che non ha portato ad un miglioramento sensibile delle condizioni economiche dei residenti in montagna. E’ importante, quindi, cercare di trovare nuove soluzioni di sviluppo che garantiscano una remunerazione maggiore alle popolazioni di montagna senza portare ad un deterioramento del prezioso capitale di “natura” che ancora è presente nelle zone alpine. Il Corso vuole riunire esperti di diverse discipline (economisti, ecologi, sociologi, antropologi) in grado di proporre e di presentare casi studio ed esperienze efficaci di possibili strategie di sviluppo in aree di montagna. Il direttore del Corso Tommaso Anfodillo SOMMARIO CITTÀ E MONTAGNA: L'UNICO TURISMO POSSIBILE Enrico Camanni DOLOMITI PATRIMONIO DELL’UMANITÀ: LA DIFFICILE STRADA DI UNA CANDIDATURA Franco Viola OLTRE LE ALPI... BIODIVERSITY CONSERVATION AND ECOSYSTEM SERVICES OF TROPICAL MONTANE REGIONS OF COSTA RICA: A NEW CONSERVATION PARADIGM Fabrice De Clerck WINTER TOURISM AND CLIMATE CHANGE: IMPACTS ON ALPINE VEGETATION AND RESOURCE USE Christian Rixen SKIING AND ALPINE VEGETATION Christian Rixen L'ECONOMIA AGRO-SILVO-PASTORALE DELLA MONTAGNA ALPINA TRA CONSERVAZIONE DELLE RISORSE NATURALI ED ABBANDONO: QUALI MODELLI DI SVILUPPO E QUALI OPPORTUNITÀ? Paola Gatto LE TRASFORMAZIONI TERRITORIALI NELL’EVOLUZIONE SOCIO ECONOMICA DEI TERRITORI MONTANI: RISCHI ED OPPORTUNITÀ Diego Cason ATTIVITÀ ZOOTECNICHE ED INTEGRAZIONE TURISTICA SULLE ALPI Luca Battaglini LE PROPRIETÀ COLLETTIVE DELL'ARCO ALPINO: UN ESEMPIO DI GESTIONE EFFICIENTE DELLE RISORSE NATURALI Elisa Tomasella IL TURISMO SOSTENIBILE NELLE ALPI E IL RUOLO DEI PARCHI Claudio Ferrari A SPATIAL AGENT-BASED MODEL TO EXPLORE SCENARIOS OF ADAPTATION TO CLIMATE CHANGE IN AN ALPINE TOURISM DESTINATION Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi 5 11 19 37 49 59 71 87 101 123 127 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 CITTÀ E MONTAGNA: L'UNICO TURISMO POSSIBILE ENRICO CAMANNI SCRITTORE, ESPERTO DI MONTAGNA 6 Enrico Camanni Si usa contrapporre il mondo della montagna a quello della città, attribuendo alla montagna caratteri di “naturalità” e arcaicità (un po’ parco e un po’ museo) e alla metropoli espressioni di modernità e innovazione. Naturalmente si tratta di un luogo comune, che affonda ancora le sue radici nella matrice romantica della montagna, o meglio della scoperta urbana delle Alpi risalente alla seconda metà del Settecento. Ma oggi il panorama è completamente è cambiato, e per riflettere sulle relazioni tra montagna e città, dunque tra sguardi interni e sguardi esterni alle Alpi, o tra “locale” e “globale”, occorre affrontare un salto di prospettiva culturale. Non valgono più i vecchi concetti di cultura “alpina” e cultura “urbana”. Bisogna spostare il punto di vista. Il geografo Eugenio Turri ha scritto: «Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia». Ecco il punto fondamentale: una cultura sola non basta più. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella metropolitana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole l’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza e dignità solo se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori”, recependone le sollecitazioni utili e facendone emergere i limiti e le contraddizioni. In tal senso va analizzata la complessa e difficile relazione tra cultura interna e cultura esterna, che viene spesso declinata come uno scontro-incontro fra tradizione e turismo, ma in realtà non è altro che l’incontro-scontro tra interno alpino ed esterno metropolitano. Le due culture, appunto. Anche in riferimento alla “tradizione” credo occorra spostare i termini della questione, perché “tradizione” non è un concetto statico, la tradizione non si può congelare, ma appartiene a una realtà culturale in continuo divenire attraverso scambi, condizionamenti e contributi esterni. Dunque, riferendoci alla realtà alpina contemporanea, si può notare come il turismo faccia già parte della cultura alpina ottocentesca, e nel Novecento sia diventato “tradizione” esso stesso, cioè cultura locale motivata e condizionata da spinte esterne. Con grande lungimiranza l’abbé Gorret scriveva nell’Ottocento: «Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Gorret ragionava ancora nei termini dei “due mondi” contrapposti – città e montagna –, ma aveva capito perfettamente che, non foss’altro che per ragioni economiche, non si può proporre al turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città. Non si può e non si deve proporre un luogo in cui le automobili, le strade, le architetture urbane, i motori, gli impianti a fune annullino le specificità ambientali della montagna trasformandola in un surrogato. Ma anche la visione opposta, di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca: «La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende» scrive l’antropologo Duccio Canestrini. Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice, tutti valori violentemente annientati o falsificati dal turismo di massa fondato sul modello consumistico. Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il silenzio, la “genuinità”, la “tradizione”; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate, rispondano alle aspettative dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località, ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a “reinventarsi” a uso e consumo della città, con processi di rappresentazione che spesso non coincidono con l’anima del luogo, ma sono semplicemente il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole del mercato turistico. Una falsificazione, insomma. Città e montagna: l'unico turismo possibile 7 Ma allora, se non si può proporre la “città in montagna” e neppure la falsificazione della montagna romantica, del bel tempo che fu, su quali contenuti possono basarsi un abitare e frequentare le Alpi responsabili e capaci di futuro? Non esiste strada diversa da quella del dialogo tra le due culture, perché la città stessa si convinca dei valori che ha perduto cercando, in montagna, di individuare nuove soluzioni, imparare altre visioni, differenti rapporti con il territorio, diversi e più lungimiranti modelli di sviluppo. La montagna di domani sarà il risultato di un lungo e delicato processo di relazione e scambio con il modello urbano, e potrà candidarsi come risposta convincente e durevole proprio se saprà proporsi in alternativa alle patologie di un consumismo illimitato e senza futuro. In questa prospettiva vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e città, dunque tra “montanari” (vecchi e nuovi) e “cittadini” di ogni specie. Non nei termini di un incontro tra passato e presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli (molto diversi) di un mondo fragile ed eccezionale che incontra un mondo (apparentemente) più solido e sicuro di sé, ma che di fatto – proprio in funzione delle sue fragilità – può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita. Con questa prospettiva si possono contrastare le tentazioni del turismo cittadino di stampo coloniale, ma anche le chiusure di montanari che – pur beneficiando dell’industria turistica, o di altre agevolazioni territoriali – si concedono con grande sufficienza, ospitando senza garbo né convinzione, certi che il mondo di sopra non avrà mai niente da spartire con quello di sotto. Non è più così, siamo tutti parte dello stesso mondo. Altra domanda è: chi saranno i “montanari” di domani? Ecco un punto cruciale: valligiani disillusi che sognano la strada della città, oppure cittadini intraprendenti che decidono di salire in montagna per rilanciare “vecchie” attività con idee nuove, beneficiando delle tecnologie che riducono i tempi e le distanze? Sono forse più “montanari” questi pionieri che scelgono di vivere in un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che non hanno scelto di venire al mondo nel chiuso di una valle, e dall’età della ragione non sognano altro che scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione? Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene dell’ambiente alpino, si sarà sempre più montanari per scelta. Tanto più la montagna sarà capace di comprendere la cultura globale reinterpretandola, tanto più sarà padrona di sé. Naturalmente non chi imita acriticamente lo stile di vita urbano e non fa altro che estendere le patologie della città alla montagna, ma il montanaro consapevole, che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello urbano e sulle Alpi (o sull’Appennino) sogna di tentare nuove vie: il turismo dolce, le energie rinnovabili, la ricerca scientifica, l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità “sostenibile”. Il geografo Werner Bätzing scrive: «Per la stabilizzazione ecologica dei paesaggi culturali divenuti instabili e per la conservazione delle Alpi come spazio economico non è sufficiente elaborare programmi settoriali… C’è bisogno di un modo di fare economia che riconosca una grande importanza alla produzione ecologica, e di una cultura che consideri socialmente ragionevole questa forma economica e sviluppi una comune responsabilità. Senza un cambiamento fondamentale non si può realizzare uno sviluppo sostenibile. Ma con altrettanta chiarezza le Alpi ci fannno capire che senza un simile cambiamento il nostro sistema economico e sociale non ha futuro e distrugge per sempre le proprie basi materiali e immateriali. Questi nessi vengono oggi ripresi e discussi in molte località d’Europa. In questo dibattito le Alpi potrebbero però assumere un ruolo di “battistrada”: poiché in passato, proprio prendendo a modello le Alpi, l’Europa ha sviluppato la propria concezione della natura e dell’ambiente con immagini particolarmente dense, intense e impressionanti; sempre facendo riferimento alle Alpi si potrebbero discutere con particolare vigore anche le questioni di fondo dello sviluppo sostenibile… In tal modo le Alpi – proprio come “caso normale”! – potrebbero diventare le antesignane di uno sviluppo sostenibile in Europa». In questa visione le Alpi si pongono – sempre per usare le parole di Bätzing – come «una regione unica al centro dell’Europa», superando completamente il vecchio limite dei confini nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa il vecchio dal nuovo, l’alto dal basso, la montagna dalla pianura, la cosiddetta “cultura alpina” dalla cultura urbana. 8 Enrico Camanni Paradossalmente la sopravvivenza della montagna, e delle Alpi in particolare, dipenderà dalla loro capacità di trasformazione e dalla disponibilità a “contaminarsi” con altre culture difendendo i valori di base. Pena la museificazione o l’estinzione. La cultura alpina ha bisogno della cultura della città (ampiezza di visione, capacità di programmazione), così come i cittadini hanno bisogno delle montagne per ritrovare cieli liberi e tempi liberati. L’altrove non sta più nel “paradiso perduto” delle antiche genti walser, oltre le creste del Monte Rosa, dunque in un luogo estraneo nel tempo e nello spazio, e neppure nella proiezione romantica che contrapponeva con fede cieca la purezza delle vette alla corruzione del piano. L’altrove sta qui e ora, nel rovescio di questo stesso mondo, in una proposta contemporanea che non deriva dalla distanza o dall’irrangiungibilità, ma da una vicinanza di tempo e spazio che si fa avventura, alternativa e rifugio perché trattiene a sé valori centrifugati da un mondo disincantato: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali. Questi valori a prima vista ancestrali, perché apparentati con le società arcaiche, diventano attualissimi se letti come “altro” di una società frenetica, utilitarista, rumorosa, individualista e artificiale. Allora il passato assomiglia al futuro, e la tradizione ha sentore di avanguardia. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 DOLOMITI PATRIMONIO DELL’UMANITÀ: LA DIFFICILE STRADA DI UNA CANDIDATURA FRANCO VIOLA UNIVERSITÀ DI PADOVA FONDAZIONE G. VANGELINI CENTRO STUDI SULLA MONTAGNA 12 Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura PERCHÉ LE DOLOMITI SONO PATRIMONIO DELL’UMANITÀ? Il mondo politico e i media hanno dato grande risalto alla conquista, da parte dell’Italia, di un prestigioso riconoscimento: le Dolomiti sono state valutate da UNESCO meritevoli d’essere annoverate tra i beni del Patrimonio Naturale dell’Umanità (World Heritage List). Poca informazione è stata invece data sul significato del traguardo raggiunto dal nostro Paese e dalle cinque Provincie che per anni si sono impegnate nell’impresa; proveremo dunque a colmare questa lacuna. LA CONVENZIONE UNESCO PER LA CONSERVAZIONE DEL PATRIMONIO MONDIALE Al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, le Nazioni Unite diedero vita ad UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), organismo cui veniva affidato il compito di “… favorire la collaborazione internazionale (e la riconciliazione tra i popoli della Terra) anche nei campi della educazione, della scienza, della cultura e della comunicazione”. La nuova organizzazione trovò subito necessità di appoggiare le sue scelte strategiche in tema di natura e di cultura su competenze assolutamente provate e da tutti condivise. Vennero dunque attivati, nel 1948, due nuovi organismi. Quello deputato ad affrontare i temi scientifici, soprattutto legati agli assetti naturalistici e a quelli ambientali, fu denominato “Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (World Conservation Union)”, meglio conosciuto attraverso l’acronimo IUCN. È l'unica organizzazione che si occupi d’ambiente a disporre di un posto permanente di osservatore nell'Assemblea Generale dell’ONU. Sul finire degli anni sessanta IUCN denunciò il rapido diffondersi, a scala planetaria, di minacce portate al patrimonio naturalistico del pianeta; analoga denuncia venne formulata al riguardo dei beni culturali, quelli prodotti dall’ingegno degli uomini nel corso della loro storia millenaria. Per questo motivo UNESCO formulò il testo di una Convenzione i cui sottoscrittori avrebbero dovuto impegnarsi alla tutela dei beni culturali e naturali del mondo, ovvero, più propriamente, dell’Umanità. La convenzione venne proposta all’assemblea plenaria UNESCO nel 1972; il nostro Paese la sottoscrisse nello stesso anno e ne ratificò i suoi principi informatori, in leggi nazionali, quattro anni più tardi. La logica del procedimento di candidatura per poter inserire le Dolomiti nella Lista dei Beni Patrimonio dell’Umanità (World Heritage List) deriva dunque direttamente dalla Convenzione concepita quasi quaranta anni fa e ormai sottoscritta da 186 Paesi della Terra. Gli aspetti pratici del procedimento, e le regole formali (e sostanziali) da seguire per la preparazione dei documenti d’appoggio alla candidatura sono invece fissati da un apposito format, che viene periodicamente rivisitato e aggiornato, per i beni naturali, da IUCN. La stessa IUCN ha il compito di istruire il giudizio sulla qualità della candidatura e di suggerire a UNESCO la sua approvazione, o la bocciatura. Ogni anno, durante la sua assemblea plenaria, UNESCO delibera sulle proposte di candidatura, sempre rispettando la valutazione proposta dall’organismo di supporto scientifico. La decisione di avviare un procedimento di candidatura è presa liberamente dagli Stati e viene formalizzata attraverso una apposita domanda depositata a Parigi presso la sede UNESCO. Nel momento in cui la domanda viene presentata, il Bene candidato entra a far parte della cosiddetta Lista Provvisoria. L’Italia ha proposto le Dolomiti per l’iscrizione nella classe dei beni naturali nel luglio 2005, durante la 29 sessione di Word Heritage Committee, a Durban, South Africa. Il 26 giugno 2009 le Dolomiti sono state riconosciute da UNESCO come bene facente parte del Patrimonio dell’Umanità. Il percorso di candidatura è stato dunque lungo e, per la natura stessa del territorio dolomitico, ha dovuto affrontare alcuni importanti ostacoli, alcuni dei quali non sono stati ancora del tutto superati. Per comprendere appieno il senso del successo dell’iniziativa italiana, e delle cinque province che caparbiamente hanno lavorato alla candidatura, è però necessario porre attenzione ai passi fondamentali della convenzione e del format che ne chiarisce praticamente il significato. Nella sua premessa, il documento che già nel 1972 venne sottoscritto da ben 178 Paesi, riporta con assoluta chiarezza: «Considerato che molte convenzioni e risoluzioni internazionali dimostrano l’importanza, per tutti i popoli del mondo, della tutela dei beni culturali e naturali che sono riconosciuti unici e irripetibili a scala mondiale, e ciò indipendentemente dal popolo cui Franco Viola 13 appartengono, considerato anche che molti di questi beni sono da considerare un patrimonio culturale e naturale dell’umanità e come tali hanno un valore eccezionale che impone, all’umanità stessa, di prodigarsi per la loro conservazione, di fronte alla portata e alla gravità dei pericoli che li stanno minacciando... (i popoli della Terra ritengono che)... spetti alla collettività internazionale garantire la protezione del “patrimonio culturale e naturale di valore universale eccezionale” mediante forme di assistenza collettiva esercitata... secondo metodi scientifici e moderni... ». La convenzione non lascia dubbi sul significato della locuzione patrimonio mondiale. L’articolo 2 chiarisce infatti che il «patrimonio naturale» è composto da: «monumenti naturali costituiti da formazioni (o da gruppi di tali formazioni) fisiche e biologiche di valore universale eccezionale per aspetti estetici o per significato scientifico, formazioni geologiche e fisiografiche... che costituiscono l’habitat di specie animali e vegetali minacciate, anch’esse dotate di valore eccezionale per aspetti scientifici o conservativi, siti naturali o zone naturali provviste di valore eccezionale sotto il profilo scientifico, conservativo o estetico naturale». Va con forza ribadito che UNESCO non ha alcun potere per imporre qualche vincolo alla libera scelta degli Stati, ovvero delle loro comunità, che spontaneamente hanno sottoscritto la convenzione ed altrettanto liberamente decidono di sottoporre a tutela, sotto il vessillo di UNESCO, qualche “tesoro”, culturale e naturale, presente sul loro territorio. Lo ribadiscono gli articoli 4 e 5 della Convenzione: «Ogni Stato che abbia sottoscritto la Convenzione è... (solo)... per sua scelta obbligato a garantire... la protezione, la conservazione, la valorizzazione e la trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale situato sul proprio territorio». «Per garantire la protezione e la conservazione... (di questo) patrimonio, gli Stati... si impegnano, nei limiti delle proprie possibilità (scientifiche, tecniche ed economiche), a: assegnare al patrimonio una funzione nella vita della collettività locale e ad inserirne la protezione nella pianificazione del territorio (che vi viene coinvolto); di istituire servizi (tecnici ed amministrativi) per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio, dotati di personale adeguato e dei mezzi necessari... ; di sviluppare gli studi e le ricerche scientifiche necessari a far fronte ai pericoli che minacciano (o possono minacciare) il patrimonio; ... ». I CARDINI DELLA CANDIDATURA Proprio grazie ai passaggi di cui ora si è fatta sintesi si può comprendere come la prima idea di candidare queste montagne a Patrimonio dell’Umanità, inizialmente proposta, nel 1993, da associazioni ambientaliste guidate da Mountain Wilderness, non ebbe alcun seguito concreto. L’iniziativa non venne infatti allora sostenuta dalle amministrazioni locali, le uniche che avrebbero potuto, o dovuto, garantire il rispetto delle condizioni poste dalla Convenzione al riguardo del coinvolgimento delle popolazioni e alla stesura di apposite norme di pianificazione territoriale. Solo dieci anni più tardi, nel dicembre 2004, mosso forse dalle nuove “regole” di UNESCO che con la riformulazione del format ponevano il vincolo di un numero di candidature “naturali” pari a quello delle candidature “culturali” (praticamente la totalità di quelle italiane), il nostro Paese si raccordò con le cinque Province dolomitiche (Belluno, Bolzano, Pordenone, Trento e Udine) per proporre la tutela di un’area che, alla fine, cumulava ben 142.000 ettari di superficie, ovvero 230.000 ha considerando anche le cosiddette aree tampone, o di rispetto. Si tratta, dunque, della più grande area tutelata del nostro Paese! La candidatura venne depositata a Parigi, presso la sede di UNESCO. Venne presentata due volte, in settembre dell’anno 2005 e in febbraio del 2008. La prima fu una candidatura costruita intorno a tutti e quattro criteri naturalistici previsti dal format deliberato da IUCN nel 2004, cioè quello estetico-paesaggistico, quello geologicogeomorfologico, quello biologico-naturalistico e quello ecologico-ecosistemico. Dopo l’approfondita analisi compiuta da IUCN sui testi di appoggio della proposta e dopo la verifica tecnica-istituzionale sul territorio, questa candidatura venne sospesa, su suggerimento di UNESCO, giusto prima dell’apertura dell’assemblea plenaria del 2007. Si noti bene, sospesa, non bocciata. Al nostro Paese venne infatti suggerito di riformulare la domanda, seguendo alcuni importanti indicazioni, logiche e tecniche, tra cui quella di ridurre il numero dei sistemi montuosi 14 Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura che componevano il bene in candidatura. Si trattava, inizialmente, di ben 26 gruppi dolomitici, ridotti poi a 21, ma sempre eccedenti la dimensione ritenuta congrua col concetto di bene seriale cui la convenzione UNESCO fa riferimento. Sistema 1 Pelmo, Croda da Lago 2 Marmolada Pale di S. Martino e Pale di S. Lucano, Dolomiti Bellunesi,Vette Feltrine 3 area cuore 4.344 aree tampone 2.427 Totale (ha) 6.771 2.208 576 2.784 31.666 23.669 55.335 4 Dolomiti Friulane e d'Oltre Piave 21.461 25.028 46.489 5 Dolomiti Settentrionali 53.586 25.181 78.767 6 Puez-Odle 7.930 2.866 10.796 7 Sciliar-Catinaccio, Latemar 9.302 4.771 14.073 8 Bletterbach (Rio delle Foglie) 271 547 818 11.135 4.201 15.336 141.903 89.266 231.169 9 Dolomiti di Brenta area totale (ha) La convenzione UNESCO definisce invece i “beni seriali... (come insieme)... costituito da elementi disgiunti, ma tra loro correlati poiché appartengono a... la stessa formazione geologica, geomorfologica, (o alla) stessa provincia biogeografica, o (al)lo stesso tipo di ecosistema,... ammesso che sia la serie come insieme – e non necessariamente le singole parti di essa – ad avere un valore universale eccezionale”. Per questo motivo alla fine vennero inseriti in World Heritage List “solo” nove sistemi dolomitici. IUCN suggeriva poi ad UNESCO di porre molta attenzione nella valutazione della capacità del nostro Paese di garantire la tutela di beni il cui valore viene dichiarato in chiave biologica ed ecologica. IUCN rilevava infatti una importante vulnerabilità del territorio in merito alla conservazione delle specie, dei processi ecologici ed anche degli habitat naturali, quelli necessari alla conservazione in-situ della diversità biologica. Singolarmente, la numerosità e l’eterogeneità delle leggi e dei dispositivi regolamentari, che sono specchio di quella degli ordinamenti istituzionali delle cinque province, non sono state interpretate come strumento efficace di conservazione, ma quasi come elemento di rischio per l’efficienza della gestione tutelare che UNESCO chiede agli Stati (e non alle amministrazioni subordinate). L’Italia ritirò, o sospese, la candidatura e immediatamente si attivò per presentare una seconda proposta in piena aderenza ai suggerimenti di UNESCO. VALORE ECCEZIONALE, INTEGRITÀ, CONSERVAZIONE Il successo ottenuto con questo secondo passaggio è, nella forma e nella sostanza, figlio del pieno rispetto dei vincoli imposti dalla convenzione UNESCO, così come più dettagliatamente spiegati dal format IUCN. Per prima cosa si doveva dimostrare, e dichiarare, che i beni erano integri nella loro struttura formale e sostanziale e, in secondo luogo, si doveva dimostrare di essere in grado di poter conservare nel tempo lo stato di integrità di ciascuna parte del bene. Al riguardo il format non lasciava spazio a interpretazioni benevole, od elastiche. “L’integrità è una misura dell’interezza e della purezza del patrimonio naturale e delle sue caratteristiche; è tale se il bene include tutti gli elementi necessari per esprimere il suo valore universale eccezionale, oppure se è dotato di una estensione adeguata ad assicurare la rappresentazione completa delle caratteristiche e dei processi che esprimono il significato di un bene, ed ancora, se non soffre a causa degli effetti nocivi dello sviluppo e/o dell’abbandono”. “…. per i beni candidati sulla base dei criteri naturalistici, i processi biofisici e le caratteristiche della superficie terrestre dovranno essere pressoché intatti, non devono essere dunque alterati dalle attività colturali da parte delle popolazioni. ….. Si deve però considerare che molte attività, come quelle delle società tradizionali, si sviluppano in aree naturali … e possono quindi coesistere con il valore universale eccezionale dell’area nella quale esse risultano ecologicamente sostenibili”. Franco Viola 15 “Tutti i beni iscritti nella Lista per il patrimonio mondiale devono godere di una adeguata protezione legale, a carattere tradizionale e/o istituzionale a lungo termine, che ne assicuri la salvaguardia”. “Lo Stato... deve assicurare un uso sostenibile del bene, un uso cioè che non abbia effetti negativi sul valore universale e sull’integrità del bene”. La proposta di una candidatura seriale dava dunque anche la possibilità di enucleare, all’interno della ben più vasta area dolomitica, fatta anche da valli diffusamente e intensamente popolate, nelle quali l’economia è legata all’offerta turistica, solo le parti integre, nell’accezione propria di UNESCO. La riduzione della candidatura ai soli aspetti scenico-paesaggistici e geologicogeomorfologici ha poi apparentemente ridotto il campo della vulnerabilità antropica delle Dolomiti. La possibilità di portar danno alle forme delle pareti rocciose, e alla spettacolarità delle torri, delle guglie, dei vertiginosi strapiombi è, per questi criteri, quasi nulla. Restò in alcuni dei proponenti il rammarico di aver perduto un pezzo importante della identità culturale di questa regione. Il territorio dolomitico è unico al mondo sotto il profilo della documentazione storica del rapporto uomini - natura. Non esistono, infatti, sistemi montani che possano documentare l’antico impiego umano delle proprie risorse, in ogni valle, anche in quelle più remote e isolate. Qui si comprende nella più profonda e sperimentata accezione il senso della sostenibilità, e dei principi che la reggono. Ne possono essere splendido esempio i “laudi”, cioè le “regole” nell’uso del suolo stabilite dalle Comunità e dalle Comunioni familiari risalenti agli inizi del passato millennio, come quelle di Cadore, con Ampezzo, Zoldo e Agordino in provincia di Belluno, o quelle fissate in Val di Fiemme o nelle valli ladine del Sella. Ciò vale anche per le regole tecniche della selvicoltura, per i catasti della gestione forestale, per le regole del governo delle acque e dei versanti stabiliti e pubblicati dalla Serenissima sul principio del 1500. Gli uni e gli altri sono documenti che non trovano pari in nessuna altra parte del Pianeta. Con la storia documentata del buon rapporto tra uomini e territorio si è anche apparentemente messa da parte la necessità di elencare, e di quantificare attraverso idonei indicatori, le minacce che gravano sulla natura viva delle Dolomiti. Nella prima fase della candidatura se ne erano elencate alcune tra le più significative, come il consumo di territorio, le diffuse captazioni idriche, l’inquinamento, il carico dei turisti e l’ubiquità delle strutture per lo sport e per l’accoglienza, la viabilità e la sentieristica, il pascolamento e la selvicoltura, la coltivazione di cave e di miniere. Le dichiarazioni di valore e di integrità riguardano invece solo le rocce e le loro forme. La presenza dell’uomo permea però tutto il Piano di Gestione, che è il documento richiesto da UNESCO per comprendere e per valutare il reale impegno tutelare del Paese nei confronti del bene candidato. Nel caso nostro il Piano prevedeva l’attivazione (giuridica, legale e tecnica) di una apposita Fondazione, col mandato di coordinare la gestione tra le diverse amministrazioni competenti sul territorio, la stesura di un Master Plan trasversale a tutte le amministrazioni e vincolante per la specifica gestione programmata affidata ad ogni provincia, e la stesura di un Piano attuativo appositamente calibrato per ciascuno dei sistemi candidati. La filosofia del Piano di Gestione, bene espressa per mezzo di matrici che ne definivano gli obiettivi e le strategie di intervento e di azione, articolati sugli assi della conservazione, della promozione sociale e della valorizzazione sostenibile delle risorse, ha consentito l’approvazione “a pieni voti” della Candidatura. Anzi, il documento con cui IUCN suggeriva a UNESCO l’inserimento delle Dolomiti in World Heritage List contiene espressioni di apprezzamento mai riscontrate in altri analoghi documenti. Vale la pena riportarle integralmente. Criterio VII:“Le Dolomiti sono largamente considerate tra i più bei paesaggi montani del mondo. La loro intrinseca bellezza deriva da una varietà di spettacolari conformazioni verticali – come pinnacoli, guglie e torri – che contrastano con superfici orizzontali – come cenge, balze e altipiani – e che s’innalzano bruscamente da estesi depositi di falda detritica e rilievi dolci ed ondulati. La grande diversità di colorazione è provocata dai contrasti di roccia nuda con i pascoli e le foreste. Queste montagne s’innalzano in picchi interposti a gole, rimanendo isolati in alcuni luoghi o formando sconfinati panorami in altri. Alcune scogliere rocciose si ergono per più di 1.500 metri e sono fra le più alte pareti calcaree al mondo. Lo scenario caratteristico delle dolomiti è divenuto l’archetipo del “paesaggio dolomitico”. I pionieri della geologia sono stati i primi ad essere 16 Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura catturati dalla bellezza di queste montagne: i loro scritti e le successive opere pittoriche e fotografiche, evidenziano ulteriormente lo straordinario fascino estetico di tutto il bene.” Criterio VIII: “Dal punto di vista geomorfologico le Dolomiti sono di rilievo internazionale, come il sito classico dello sviluppo delle montagne di rocce dolomitiche. L’area mostra un ampia gamma di morfologie connesse all’erosione, al diastrofismo e alla glaciazione. La quantità e la concentrazione di formazioni carbonatiche estremamente varie è straordinaria in contesto globale ed include cime, torri, pinnacoli e alcune delle pareti verticali più alte del mondo. Di importanza internazionale sono inoltre i valori geologici, specie l’evidenza delle piattaforme carbonati che del Mesozoico, o “atolli fossili”, in modo particolare per la testimonianza che essi forniscono dell’evoluzione dei bio- costruttori sul confine fra Premiano e Triassico, e della conservazione delle relazioni fra le scogliere che hanno costruito ed i loro bacini circostanti. Le Dolomiti comprendono svariate sezioni tipo di importanza internazionale per la stratigrafia del periodo triassico. I valori scientifici del bene sono inoltre supportati dalle prove di una lunga storia di studi e ricognizioni a livello internazionale. Considerato nel suo insieme, il complesso di valori geomorfologici e geologici, costituisce un bene di importanza globale.” La candidatura è dunque stata considerata inoppugnabile in termini di contenuti scientifici e naturalistico/paesaggistici, grazie alle eccezionali caratteristiche di queste montagne. Il rischio di una frammentazione gestionale, determinata da un quadro istituzionale e amministrativo molto composito è stata comunque considerato da IUCN come un elemento di criticità per l’oggettiva difficoltà a garantire da un lato l’integrità del bene e dall’altro omogeneità e coerenza gestionale. Determinante, per IUCN, è stata la presenza di aree protette; si legge nel documento: “I nove siti che compongono il bene Dolomiti includono tutte le forme istituzionali di tutela essenziali per il mantenimento della bellezza del bene.... Il bene include parti di un parco nazionale, diversi parchi naturali regionali e provinciali, siti Natura 2000 ed un monumento naturale. Le aree tampone sono state definite per ciascun sito al fine di proteggerlo dalle minacce esterne ai suoi confini”. A garanzia dell’integrità del bene è stata assunta la presenza, ormai pluridecennale, di parchi e/o di siti di Natura 2000; quasi 99% delle aree cuore delle Dolomiti è già ampiamente protetto, come dimostra le articolate matrici delle attività proibite e di quelle concesse che, su richiesta di IUCN, sono state inserite in un documento integrativo al Piano di Gestione e al Dossier. IUCN ha dunque valutato che queste forme di tutela siano la premessa più valida per la formulazione e l’applicazione dei futuri Piani di Gestione dei singoli elementi della Serie. La Fondazione “Dolomiti (Dolomiten, Dolomites, Dolomitis) UNESCO”, i cui soci fondatori sono le Province e le Regioni al momento della sua istituzione, è il referente unico presso UNESCO “garante della coerenza tra la strategia gestionale e il mantenimento dei valori universali”. Purtroppo il nome dei monti è scritto in italiano, tedesco, ladino e friulano per dimostrare esplicitamente la volontà di non dimenticare le differenti radici culturali delle forme di gestione di questi luoghi; ma inconsapevolmente ciò serve a dichiarare e implicitamente le difficoltà di aggregare in una azione sinergica gli sforzi che le cinque amministrazioni sono chiamate a sviluppare nell’immediato futuro. Tuttavia il documento di IUCN riporta l’indicazione che la formula giuridica della Fondazione sarà proposta da UNESCO come pratica virtuosa, cioè come metodo efficace da adottare per analoghe, future, complesse candidature. LE ATTESE PER L’IMMEDIATO FUTURO Restano tuttavia sul tappeto questioni, prevalentemente di indole sociale, che la Convenzione indica come momenti essenziali e qualificanti per la corretta gestione dei beni Patrimonio dell’Umanità. Tra queste vi è la partecipazione delle comunità locali alle scelte gestionali e la loro adesione ai principi fondanti di UNESCO. Il Piano di Gestione fa riferimento ad una serie di soggetti coi quali la fondazione dovrà in ogni caso confrontarsi. Tra gli altri vi sono Parchi, Comuni, Club alpino (CAI-SAT-AVS), Guide Alpine, proprietari e gestori dei Rifugi Alpini, operatori turistici, Musei, enti di ricerca, Università, Scuole ed altre Organizzazioni attive nel campo dell’educazione e della formazione. Con tutti costoro la Fondazione dovrà discutere le strategie pratiche della conservazione, senza trascurare gli effetti dei flussi turistici, ma anche i temi della comunicazione e dei suoi strumenti, delle modalità dell’informazione, della formazione, della ricerca, soprattutto di quella applicata allo sviluppo Franco Viola 17 sostenibile, per finire alla individuazione delle più opportune fonti di finanziamento e di autofinanziamento. È un impegno da affrontare con lena e con grande determinazione. Si troveranno certamente ostacoli da superare, resistenze e molte incomprensioni, come sempre succede quando si travisano i significati della conservazione e della sostenibilità, confondendo l’interesse collettivo con quello personale e il breve col lungo periodo. Basti pensare che tra i titoli che dovranno figurare nei piani di gestione specifici per ogni sistema, IUCN colloca anche il rilevamento dei flussi turistici, il censimento dei sentieri e la stesura di norme unitarie per la loro gestione, la misura e il monitoraggio della capacità di carico turistico di ogni sito, quello degli accessi e delle ricettività dei rifugi e dei bivacchi e la definizione di un codice di condotta per i visitatori. C’è dunque da pensare che da questi argomenti possa venir toccata la sensibilità di qualche amministratore od operatore del turismo. IUCN è però anche attenta al benessere delle comunità locali, e suggerisce per questo la progettazione di azioni e di interventi che soddisfino la promozione dei luoghi, ovviamente nel rispetto dei principi della sostenibilità. In questa direzione muove, tra le molte altre, la proposta di un marchio delle DOLOMITI Patrimonio dell’Umanità da attribuire ai prodotti e ai servizi coerenti con lo spirito della candidatura, la predisposizione del sito web per dare possibilità al mondo intero di apprezzare la bellezza e la grandiosità di queste montagne, la preparazione di materiale informativo (brochure, manifesti, volantini) e della cartografia turistica, tecnica e scientifica delle Dolomiti, con mappe tematiche dei sentieri, con una mappa geo-turistica e dedicata al paesaggio, materiale che verrà distribuito come veicolo di promozione (pubblicità) anche dai gestori dei servizi di accoglienza, di ristorazione, delle attività sportive e del tempo libero. Altrettanto qualificante è l’attenzione che verrà riservata agli aspetti della comunicazione, mirati soprattutto alla creazione, o alla riaffermazione, nella gente di uno spirito identitario delle valli Dolomitiche, più che alla partecipazione ai diversi gruppi idiomatici, o etnici. Le proposte passano da aspetti assolutamente minuti, come sono quelli legati alla segnaletica stradale, e della toponomastica, oppure alla identificazione dei punti di accesso ai sentieri, ad aspetti di maggior significato territoriale e sociale, come la predisposizione e la localizzazione dei punti di informazione nelle aree focali delle Dolomiti, il coordinamento dei servizi di informazione in musei e in mostre permanenti, il coordinamento dei servizi d'informazione nei rifugi, la definizione di comuni strategie di apprendimento guidato, la organizzazione di seminari tematici per la formazione permanente di operatori in riferimento agli obiettivi di conduzione del territorio e delle sue risorse, o ai gestori di rifugio, di guide e di esperti di controllo ambientale (guide alpine, guide ambientali), fino alla predisposizione di moduli e di progetti didattici sul paesaggio sulla geologia dell’area dolomitica, differenziati per le scuole primarie e secondarie. Si tratta di uno sforzo importante, che deve permeare mondi che spesso già oggi si parlano con difficoltà, come quelli delle Amministrazioni e dei servizi, quelli dell’economia e la gente, cioè le famiglie. Aspetto focale della strategia, sotto il profilo economico, resta però la definizione di strategie di turismo sostenibile, di cui per altro esiste un modello da tempo sperimentato in una delle tessere più ampie del bene seriale Dolomiti UNESCO. Il tempo è poco! Al di là dei vincoli ristrettissimi posti da IUCN-UNESCO per una prima verifica dell’attendibilità del Paese, e delle province (due anni, a partire da giugno 2009), la scommessa riguarda i rapporti tra le Province e quelli tra le popolazioni. Bisogna che ognuno si senta responsabile del successo di questa iniziativa: la visibilità guadagnata con lo sforzo compiuto da pochi deve essere ora quotidianamente riconquistata con la partecipazione cosciente di tutti. Ne potranno venire solo benefici. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 OLTRE LE ALPI… BIODIVERSITY CONSERVATION AND ECOSYSTEM SERVICES OF TROPICAL MONTANE REGIONS OF COSTA RICA: A NEW CONSERVATION PARADIGM FRABRICE DECLERCK CATIE, TURRIALBA COSTA RICA 20 Fabrice DeClerck Costa Rica is a small mountain region of Central America well-known by many for its incredible biodiversity, beautiful beaches, world class coffee, and dedication to conservation. Indeed, although Costa Rica occupies less than 1% of the global landmass, it contains more than 5% of the world’s terrestrial biodiversity. Because of this rich biodiversity, Costa Rica, and to a larger extent Mesoamerica, have been considered a biodiversity hotspot. Much of this rich biodiversity is due to the geography of Costa Rica. The county occupies a central location within the Mesoamerican isthmus, a narrow stretch of land that less than 3 million years ago connected the North American continent to the South American continent. This led to two significant events that are tied to the rich biodiversity of the region. First formation of a land bridge between the North and South American continents permitted the mixing of species known as the Great American Biotic Exchange. Species such as coyotes and raccoons moved into South America from the north, and species such as sloths, tanagers, and opossums moved into North America from the south. The merging of two continents also meant the dividing of two oceans forming the Caribbean Sea to the east, leading to the evolution of new species and the formation of the Great Mayan Reef, the second largest coral reef in the world. The topography of the region also has much to play in maintaining such a rich diversity. Notably, Mesoamerica is a long, narrow landmass that generally runs north to south (its greatest extension in latitude, and a narrow longitudinal breadth). The isthmus is 130 km at its narrowest point, but includes changes in elevation from sea level to peaks as high as 3820 m (Mt. Chirripo) via the central mountain range that runs like a spine through the entire length of Mesoamerica – a pre-Andean range. Chirripo is one of only regions of Costa Rica with evidence of glaciation. Vegetation changes from tropical rainforest on the coastlines, to oak forests at high elevations, and paramo on mountain tops – for European, the higher one goes in elevation, the more familiar one becomes with the vegetation. This altitudinal change is essential to agriculture, as cool season crops, such as strawberries, broccoli, and tomatoes are cultivated between 1200 and 1500 m. The two slopes of this mountain range are also distinct. The western slopes are under Pacific influence with an annual dry season and the absence of rain between December and May. In contrast, the Caribbean slopes are rainy year round with annual precipitation that can exceed 8000 mm. It is this unique combination of topography, maritime influence, and land bridge geography that make Mesoamerica one of the most unique regions on earth for biodiversity. However, it also means that Mesoamerica’s biodiversity is amongst the most threatened globally. Rapid expansion of cattle ranching, particularly in the Pacific slopes, and montane areas for dairy farming, have led to rapid conversion of forests to agricultural land uses. These agricultural pressure has pushed many remaining forests upslope so that many of the protected areas are located on mountain tops, and have become veritable mountaintop islands of conservation. Many early conservation efforts focused on setting aside land in reserves and protected areas. Indeed, most countries in the region boast of having more than 25% of their landmass under some form of protected status. However many of these are paper parks which exist on maps, but where little enforcement of park boundaries or rules exists. A second important conservation initiative was the Mesoamerican Biological Corridor, which was initially known as “Paseo Pantera” or the Jaguar’s Path. This initiative’s main goal was to create biological corridors that would link the protected areas in Mesoamerica, in theory permitting a jaguar to cross from southern Mexico to Colombia without leaving forest cover. Although this initiative was tremendously successful in bringing the various governments of Central America together with a singular conservation objective, it failed to be followed up with actual on the ground interventions and was largely abandoned in the late 1990’s. The Mesoamerican Biological Corridor is exhibiting a resurgence however, in large part due to a renewed conservation focus on ecosystem services. Ecosystem services are human benefits derived from natural and agricultural ecosystems. Classic examples of ecosystem services are regulation of water flows, maintaining water quality, sediment reduction in waterways, pollination, pest control, and even cultural benefits such as scenic beauty. The goal the ecosystems service approach is to value the benefits that mankind receives from ecosystem systems. Lessons learned from the first iteration of the Mesoamerican Biological Corridor demonstrated that it was difficult to mobilize local communities around singular conservation goals – protecting jaguars and other species. However, once communities began to understand the link between forest conservation and the provision of ecosystem services, communities increasingly began to organize themselves into Biological Corridor Steering Committee’s, whose main purpose, Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 21 despite the name, was to develop a landscape scale vision for community management of ecosystem services. The Biological Corridor Steering Committees include conservationists of course, but more importantly they unify, or provide a platform for building consensus on important land management decisions. The majority of these decisions revolve around how the landscape can be better managed to provide essential ecosystem services, particularly clean and abundant water, reduced sedimentation for hydro-electric dams, pest control, and of course, connectivity for wild biodiversity. In this presentation, I will focus on one particular biological corridor, the Volcanica Central Talamaca Biological Corridor. This montane corridor links the central mountain range (the cordillera central) on the north, to the Talamanca Mountains to the south. Its altitudinal gradient ranges from 400 m up to 3340 m at the top of the Turrialba Volcano. The dominant land uses are coffee and dairy production, but sugar cane is also important as is the cultivation cold season crops on the upper slopes of the volcano. The corridor is also an important site for tourism, particularly rafting the Reventazon and Pacuare Rivers which offer class 5 rapids, and mountain biking the myriad of dirt tracks in the region. Finally, the corridor produced more than 35% of Costa Rica’s energy needs through a series of 5 dams on the Reventazon River. The focus of this talk will be to discuss the role of the ecosystem service approach to conservation in the management of these multiuse, and multifunctional landscapes. In the Volcanica Central Talamanca Biological Corridor, important ecosystem services are tied to ensuring high levels of water quality for drinking, recreation, and energy production. Coffee farmers are particularly interested in pest regulation functions, whereas the tourism boards is interested in preserving the scenic value of the landscape. Conservation Biologists in turn desire to ensure habitat and connectivity for wild biodiversity. I will discuss each of these ecosystem services in turn, and talk about the different incentive mechanisms in place to ensure the provision of these services. These include economic incentives such as the Payment for Ecosystem Service schemes financed by the federal government, water taxes managed by the municipality, to non-economic incentives tied to services received directly from the landowner. We will focus on the Turrialba region because of its montane nature with a particular focus on the spatial distribution of ecosystem services. I hope to generate an interesting discussion regarding the communal management of montane environments, using the Costa Rican example as a launching point. For further reading I provide an article written by a group a colleagues that focuses on the issues I will discuss, but throughout the greater Mesoamerican region. DeClerck, F.A.J., R Chazdon, K.D. Holl, J.C. Milder, B. Finegan, A. Martinez-Salinas, P. Imbach, L. Canet, and Z. Ramos. (2010). Biodiversity conservation in human-modified landscapes of Mesoamerica: past, present and future. Biological Conservation 143(2010): 2301-2313. 22 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 23 24 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 25 26 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 27 28 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 29 30 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 31 32 Fabrice DeClerck Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica: a new conservation paradigm 33 34 Fabrice DeClerck Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 WINTER TOURISM AND CLIMATE CHANGE: IMPACTS ON ALPINE VEGETATION AND RESOURCE USE CHRISTIAN RIXEN WSL DAVOS (CH) 38 Christian Rixen INTRODUCTION Reliable snow conditions represent a crucial economic prerequisite for the skiing industry (Elsasser and Messerli 2001; Scott et al 2003; Pröbstl 2006; Steiger and Mayer 2008). The lack of snow due to low precipitation or high temperatures is an immense challenge for winter sport destinations and especially the mountain railway companies. Artificial snow production is the key adaptation strategy to rising temperatures, enhanced economic competition and increasing requirements of winter tourists. The increase in snow-making facilities in the Alps has been dramatic in recent years. In Switzerland, artificial snow production has increased in cover from <10% of the total ski piste area in 2000 to 36% in 2010. Austria has already reached 62% while in some areas in the Italian Alps artificial snow can be produced on 100% of the ski runs. The winter 2010/2011 had below-average snow cover in most parts of the Swiss Alps, however, the mountain railway companies look back on an economically successful season, possibly in part due to improvements in snow-making technology. Given the expected climate change, the trend towards extensive snow production will continue and increase. Regional climate scenarios for Switzerland predict a rise in winter temperatures by +1°C until 2030 and +1.8°C until 20 50 (OcCC 2007). The snow cover at elevations below 1’300 m a.s.l. has already significantly decreased since 1980 (Laternser and Schneebeli 2003). In higher regions, a decrease in average snow depth was observed in early winter (November, December), which is a crucial period for winter sport. The tourism industry is faced with numerous concerns given the future challenges of climate change. Therefore, it needs to estimate potential negative effects of a reduced natural snow cover and potential positive mitigating effects of snow production (Hoffmann et al 2009). Frequently discussed ecological concerns are the consumption of water and energy for snow production (CIPRA 2004) or impacts of snow-making on vegetation and soil (Rixen et al 2003; Rixen et al 2008; Roux-Fouillet et al in press). While several studies have addressed ecological aspects (for an overview see Pröbstl 2006), published results of energy and water issues are rare. Furthermore, technical concerns arise about the snow-making potential in a warmer climate because higher temperatures will not only reduce the natural snow cover but also the ability to produce snow technically (Steiger and Mayer 2008; Steiger 2010). Our study aimed at analyzing the following aspects of winter climate change and snowmaking: resource consumption (water, energy), and snow reliability linked to the ability of snowmaking in a future climate (see details in Teich et al 2007). We addressed the following research questions: 1) How much energy and water is required for the production of snow and how does it relate to the regional and the resource consumption of other activities in tourism? 2) How may the snow reliability change, and will snow-making be possible under the predicted temperature increase? The results of this study contribute to the discussion of pros and cons of artificial snow and its different impacts. The findings improve the knowledge base of decision-making in planning and implementing of snowing facilities worldwide. METHODS Study sites Our investigations were carried out in the three Swiss tourism destinations of Davos (9° 50’ E, 46° 48’ N, Fig. 1), Scuol (10° 18’ E, 46° 48’ N) and Braunwald (8° 59’ E, 46° 56’ N). These regions represent different types of destinations and different climates in the Alps and may therefore be representative for other tourist destinations. Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use 39 Davos is one of the largest communities of 2 Switzerland (284 km , c. 12’500 inhabitants) and the highest town of Europe. The mean annual temperature is 2.8°C and the mean annual precipitation 1175 mm. Fi ve ski resorts range between 1560 and 2844 m a.s.l., the largest being Parsenn/Gotschna and Jakobshorn. Davos is also renowned for its congress infrastructure. 2 The municipality of Scuol covers 144 km (2’400 inhabitants), and its ski resort Motta Naluns ranges from 1250 to 2785 m a.s.l. Scuol is popular among tourists because of its relatively dry climate (750 mm annual precipitation, 6°C mean annual temperature) and a spa. Braunwald is a small 2 municipality of 10 km (c. 350 inhabitants). Its ski resort ranges from 1250 to 1904 m a.s.l., and the precipitation amounts 2000 mm (mean annual temperature 5°C). The destination is popular among tourists because of its vicinity to the town Zurich and because it is car-free and family friendly. Fig. 1. Ski piste with artificial snow in Davos where snow melts more than two weeks later than adjacent to the piste. Resource consumption in snow-making We compared the energy and water consumption in snow-making based on what could be expected from literature with what was actually used in the ski areas. According to reference values from the literature (SLF 2006; Steiger and Mayer 2008), the energy required for the production of 1 3 m of snow ranges between 1.5 and 9 kWh (or between 5’000 and 27’000 kWh for 1 ha with 30 cm 3 of artificial snow). The water consumption for the production of 1 m of snow ranges between 200 and 500 liters (or between 600’000 and 1’500’000 liters for 1 ha with 30 cm of artificial snow). These literature values were multiplied with the area with snow production per ski area, to calculate the expected range of resource consumption. Detailed information about the actual water and energy consumption for snow-making in the investigated ski areas in the winter season 2006/2007 was gathered from local experts from mountain railway companies and environmental agencies of the communities. These data were then compared with other tourist activities in the communities in 2006. In Davos, energy balances of the entire municipality were available from a detailed carbon footprint analysis (Walz et al 2008). Snow cover, snow-making and climate change Our calculations of snow days and snow-making days in the current and a future climate were based on data from a total of 17 snow and climate stations of MeteoSwiss and the SLF (Rhyner et al 2002) in or close to the respective communities. A snow day SD is characterized by a minimum snow depth of ≥ 30 cm required for alpine winter sports (Elsasser and Messerli 2001); a possible snow-making day DPB is defined by a dew point temperature ≤ -4°C (Schneider and Schönbein 2006). Daily mean values of air temperature (T), relative humidity (RH) and snow depth (HS) were used from 01 November to 15 April in the years 1982 through 2006 as the reference period. Scenarios of the future winter climate were taken from the latest reports for Switzerland (OcCC-Consortium 2007), which predict the following median temperature increases: +1°C by 2030 (95% probability: min. +0.4°C, max. +1.8°C); + 1.8°C by 2050 (min. +0.9; max. +3.4°C). The number of snow days SD between 01 November and 15 April for different altitudes within the communities was calculated with (1) SDi = βi1 h + βi2 40 Christian Rixen where h is the elevation of a climate station in a municipality i, and βi1 and βi2 are regression coefficients. The respective regressions for the investigated ski areas were: Davos SD = 0.050 h + 23.99; Scuol: SD = 0.092 h – 71.56; Braunwald: SD = 0.137 h – 71.26. The sensitivity of snow days to temperature changes was calculated with (2) SDi = βi3 Tseason + βi4 where Tseason is the mean air temperature between 1 Nov and 15 Apr, and βi3 and βi4 are regression coefficients (regressions: Davos SD = 8.44 Tseason + 97.23; Scuol SD = 8.33 Tseason + 36.58; Braunwald NA because of gaps in snow depth data). Based on formulas (1) and (2), we calculated the expected number of snow days in a warmer climate with (3) SDi = βi1 h + βi2 βi3 * ∆T where ∆T is the expected change in temperature (regressions: Davos SD = 0.050 h + 23.99 – 8.44 ∆T; Scuol SD = 0.092 h – 72.56 – 8.33 ∆T). The number of possible snow-making days (DPB) between 01 November and 15 April was counted for every climate station and regressed for each municipality according to the formula (4) DPB = βi h + βi. The respective regressions for the ski areas were: Davos DPB = 0.0532 h – 18.156; Scuol DPB = 0.0441 h + 12.248; Braunwald DPB = 0.0388 h + 1.8809. For the scenarios 2030 and 2050, the number of days with dew point temperatures ≤ -4°C was re-calculated based on the predicted temperatures. DPB was then calculated for a given elevation after formula (4). The calculations above are based on past climate data from few climate stations and can only be seen as a first innovative approach to estimate future changes in snow cover and snowmaking conditions. The calculations are based on the underlying assumptions that (1) variation in snow depth is largely driven by temperature and can usually not be explained by precipitation alone (Scherrer et al 2004), (2) climate warming will be similar across at different elevations, and (3) the relative humidity will be unchanged in a warmer climate (Schneider and Schönbein 2006). RESULTS AND DISCUSSION Resource consumption in snow-making and other ecological aspects The annual energy consumption for snow-making in our study areas ranged between c. 14’000 kWh in Braunwald (on 4.3 ha), c. 1 Mio. kWh in Scuol (on 144 ha) and 1.7 Mio. kWh in Davos (on 150 ha in the Parsenn ski area, Table 1). These numbers demonstrate the large differences in energy consumption between a small ski area with only 25 km of ski pistes and snow-making facilities for less than 5% of the pistes (Braunwald) and large ski areas with more than 80 km of pistes and snow-making facilities for 20-30% of the pistes (Scuol and Davos). Also the required energy per m² of ski slope equipped with snowmaking (kWh) differed considerably -2 -2 between ski areas with c. 0.33 kWh m in Braunwald and 1.13 kWh m in Davos (Table 1). These differences could be explained either by climatic differences (more precipitation in Braunwald) or by generally higher snow production in the areas with a more developed and intense ski industry (Scuol and Davos). The expected energy consumption for the ski areas showed a wide range because of the range in the literature values (SLF 2006; Steiger and Mayer 2008) that we used for the calculations (Table 1). Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use 41 Table 1. Size of ski area and area with snow-making facilities, expected (based on literature values) and actual energy and water consumption in three studied ski resorts. Interestingly, the actual energy consumption was in the lower range of what could have been expected based on literature values: the actual energy consumption in Braunwald amounted < 26’000 kWh compared with up to 116’000 kWh expected energy consumption and 1.7 Mio. kWh vs. up to 4 Mio kWh in Parsenn ski area in Davos. The lower than expected energy use may have been due to recent advances in more energy-efficient snow-making technology (Fauve and Rhyner 2004). Nevertheless, it has to be considered that all of the investigated communities are located at relatively high elevation with good conditions for snow-making. Other ski areas at lower elevation may consume much more energy for snow production because of higher temperatures or less natural precipitation. 3 The water consumption amounted approximately 300’000 m water in Parsenn, Davos (~ 0.2 3 m required water per m² of ski slope equipped with snowmaking) and 200’000 m in Motta Naluns, 3 Scuol (~ 0.14 m required water per m² of ski slope equipped with snowmaking; Table 1). The water consumption, other than the energy consumption, ranged rather higher than expected based 3 on the literature: in Davos, a maximum water use of 225’000 m was expected, which was 3 exceeded by the actual water use, and in Scuol, a maximum of 216’000 m was expected, which was nearly reached by the actual water consumption (Table 1). The higher than expected water consumption through snow-making may be explained with the relatively constant annual water consumption. I.e. in late fall and early winter, the weather of the upcoming winter is not known, and therefore, snow production in early winter is usually always high just to be safe (CIPRA 2004). Hence, the snow production is not much less even in years with high natural snowfall and cold temperatures. 3 In Davos, snow-making (only considering electric power) represented approximately 0.6% of the entire energy consumption in the municipality. The entire energy consumption of the mountain railways (only electric power) comprised 2.4% that of the municipality. Housing in the municipality of Davos (incl. oil and gas for heating and housing), on the other hand, required 32.5% of the entire energy budget (Walz et al 2008). The spa of Davos (heated with oil) consumed 0.7% of the municipality’s energy. These comparisons show that measures such as improving insulation of buildings would probably be the most efficient way to save energy in a high-elevation community with a relatively cold climate. On the other hand, calculations from CIPRA (2004) showed that the entire annual energy consumption for snow-making in the Alps may comprise up to 600 GWh, which compares to the energy consumption of 130’000 households in Switzerland. Therefore, it is crucial to improve also the energy-efficient technology of snow-making. The water consumption for snow-making in Davos comprised 21.5% of the entire drinking water consumption of the municipality; in Scuol it reached 36.2%. However, the water for snowmaking derived from independent sources (e.g. lakes) and therefore no conflict has originated so far from snow production competing with needs for drinking water (incl. agriculture). However, care must be taken that sufficient residual amounts of water remain in rivers because their water content in winter is already low (CIPRA 2004). Water reservoirs in the ski area, which are filled during summer, can help mitigating such water shortages (Pröbstl 2006). Another much discussed ecological issue of skiing and snow-making is the potential negative effect on vegetation and soil. It has been shown that skiing in general can exert 42 Christian Rixen disturbances to the vegetation because of the changed snow conditions (Wipf et al 2005) and that intact vegetation and plant biodiversity provide stabile soils and reduce surface erosion (Pohl et al 2009; Martin et al 2010). The compaction of the snow can induce hard soil frost, alter soil processes and mechanically damage plants (Keller et al 2004; Rixen et al 2004; Rixen et al 2008). The most dramatic disturbance on ski pistes especially at elevations around and above treeline, however, is the machine-grading in summer to create smooth surfaces (Wipf et al 2005; Burt and Rice 2009; Roux-Fouillet et al in press). The production of artificial snow actually has the potential to change vegetation through an input of water and ions and through postponing the time of meltout (Wipf et al 2005). Snow cover, snow-making and climate change In order to consider alpine winter sport economically viable for a ski resort by providing a reliable snow cover, snow depth needs to exceed 30 cm at least at on 100 days within the time period from 1 December through 15 April (Abegg 1996). Our analysis of the number of potential snow days showed that even today the snow cover is not reliable anymore at the lowest elevation (approx. 1’200 m a.s.l.) of some ski resorts (Fig. 2a): Scuol had only on average 43 potential snow days at 1250 m a.s.l. and Davos-Klosters (valley station of the Parsenn ski region) had 83 potential snow days at 1179 m a.s.l. in the present climate. Jakobshorn, Davos, and Braunwald were just above the limit with 101 potential snow days (Fig. 2a). At mid and high elevation, on the other hand, all ski areas had sufficient snow in the present climate of at least 114 potential snow days (mid elevation Scuol) and up to 190 snow days at high elevation in Braunwald. The number of snow days was highest at all elevations in Braunwald for climatic reasons (less continental climate with more precipitation as snow despite warmer temperatures). By 2030 the number of snow days was predicted to further decrease by 5 to 10 days, and in 2050 by 10 to 20 days. In all ski areas for which our calculations could be carried out, the number of potential snow days dropped to below the critical number of 100 at low elevation by the year 2030. By 2050 the number of snow days at low elevation may drop to 86 days in Jakobshorn, Davos, 68 days in Parsenn/Gotschna, Davos, and 28 days in Scuol. At mid and high elevations, on the other hand, the number of snow days will largely remain at or above 100 even by the year 2050: Scuol may drop to 99 snow days at mid elevation but will probably have c. 170 snow days at high elevation by 2050. The number of snow-making days at low elevations was considerably lower than at high elevations in all ski resorts (Fig. 2b). The snow-making potential was much lower in Braunwald than in the other areas, especially Scuol, because warmer temperatures limit the potential for snowmaking in Braunwald. According to our predictions for 2050, the number of snow-making days may drop by 50% at low elevation in Parsenn (Davos). The number of snow-making days early in the season, when artificial snow is mostly needed, may decrease to a critical limit in the coming decades: snow-making days at low elevation in Scuol amount c. six days in November today but may drop to four by 2050. In December the number may drop from c. sixteen to c. eleven. At the current state of technology, approximately ten snow-making days are required to provide a sufficient base layer of snow for the preparation of a ski run and skiing (Pröbstl 2006). Depending on the snow-making technology of a given ski area, the required number of snow-making days may be higher than ten days (up to 40 days) or even lower (e.g. five days). With advancing technology, it is fair to assume that snow-making will become more efficient in the future. Nevertheless, our results have shown that the number of snow-making days may become critical early in the season in some areas at low elevation but not at high elevation. Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use 43 a) b) Fig. 2. Number of snow days (a) and number of potential snow-making days (b) today and according to the scenarios for 2030 and 2050 (median, minimum and maximum values). Locations are the valley (L), mid (M) and high (H) elevation of the ski resorts Parsenn and Jakobshorn in Davos, Motta Naluns in Scuol and Braunwald. The dashed line at 100 snow days indicates the critical threshold according to the 100-day-rule (Abegg, 1996), above which winter sport tourism in ski resorts is considered economically viable. All of the investigated ski areas had sufficient and reliable snow cover for winter sports at mid and high elevations but not at low elevations (<100 snow days; Abegg 1996). In a warmer climate, almost none of the ski areas will have reliable snow conditions at low elevations, but high elevations would not be much affected. Other reports confirm that many ski areas may be threatened in a warmer climate. According to OECD (2007), countries with a large proportion of low elevation ski areas will be at the highest risk of losing reliable snow conditions: Germany, e.g., 44 Christian Rixen could face a 60% decrease in naturally snow-reliable ski areas under a warming scenario of just 1°C. Switzerland with a high proportion of high ele vation ski resorts would suffer the least of ski nations in the Alps with a decrease of only c. 10% snow-reliable ski areas under that scenario (OECD 2007). Most studies have not included the snow-making potential in their predictions of snow reliability (but see Steiger and Mayer 2008; Steiger 2010). Our calculations showed that temperatures in the investigated communities were sufficiently cold to provide enough base snow even at low elevations. In a warmer climate, snow production in general would still be possible, but the snow-making potential would be considerably reduced at low elevations and only be possible at high operation costs (i.e. below 1500 m; Steiger and Mayer 2008). However, microclimatic conditions need to be carefully considered when snow days or snow-making days are estimated. Elevation limits can only serve as guidelines for snow conditions, and snow-making may be possible at lower elevations on shady slopes with a cold microclimate (Pröbstl 2006). CONCLUSIONS AND IMPLICATIONS Resource consumption and availability as well as snow cover and snow-making potential are key issues when investing in snow-making facilities. Our study showed that the energy consumption in the ski resorts was in the lower range of what could be expected from literature values, and that the energy consumption was also moderate compared with other tourism-related activities. Water consumption, on the other hand, was in the higher range on what was expected from literature values, and was also high compared with other water uses (e.g. 36% compared with drinking water consumption in one community). Natural snow cover was partly critical for winter sports at low elevations around 1200 m a.s.l. but uncritical at higher elevations above c. 2000 m a.s.l. Snow cover will become even more critical in a warmer climate but will probably still be sufficient above c. 2000 m a.s.l. until 2050. Snow-making may become critical at lower elevations in the early months in the season (November and December) due to warmer temperatures that can be expected in the coming decades. Our study provides straightforward and feasible approaches to assess resource consumption and snow cover that could and should be applied in other winter sport destinations of the Alps and other mountain ranges in the world. Careful consideration of resource consumption and snow cover can foster technical and economical advances as well as sustainable development in mountains regions. We propose that before constructions of new ski pistes and installations of snow-making facilities, all stakeholders considered (i.e. mountain railway companies, communities, tourism organizations and nature conservation agencies) collaborate as early as possible in the planning process to optimize sustainable development and to minimize technical failures and ecological impacts. Modern and efficient snow-making technology should be applied to reduce energy and water consumption. Resource consumption and climatic conditions for snow-making could be estimated easily similar to the approach presented in this study. Potential ecological impacts should also be carefully considered. Finally, but not least, each tourist destination should determine its regional strength. Based on the importance of ski tourism for the regional economy in Davos (Pütz et al 2011, this volume), resource consumption of ski tourism was not higher than several other activities. The reliable snow cover was thus a regional strength in Davos (probably also in Scuol), and it probably reasonable to support this regional strength by artificial snow making in the next decades. Braunwald has clearly other regional strengths, and it seems adequate to concentrate on its other strengths. Given the increasing economic competition and the changing climate, it will be crucial to use the specific regional strengths to provide high-quality winter and summer tourism activities. Snow production at high-altitude destinations like Davos and Scuol represents a valuable adaptation strategy to enhance winter tourism. Climatic and socioeconomic conditions can differ considerably between regions, as our study demonstrates (Pütz et al 2011, this volume), and investment in snow-making may not be the appropriate and timely measure in all tourist destinations. Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use 45 REFERENCES Abegg B. 1996. Klimaänderung und Tourismus - Klimafolgenforschung am Beispiel des Wintertourismus in den Schweizer Alpen. Vdf Hochschulverlag AG, Zurich, Switzerland. Burt JW, Rice KJ. 2009. Not all ski slopes are created equal: Disturbance intensity affects ecosystem properties. Ecological Applications 19:2242-2253. CIPRA. 2004. Künstliche Beschneiung im Alpenraum - Ein Hintergrundbericht. alpMedia / Dezember 2004. Elsasser H, Messerli P. 2001. The vulnerability of the snow industry in the Swiss Alps. 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Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 SKIING AND ALPINE VEGETATION CHRISTIAN RIXEN WSL DAVOS (CH) ABSTRACT: Impacts of skiing on alpine and subalpine vegetation are expressed by multiple disturbances: snow is being compacted by skiers and heavy machinery, new ski pistes are constructed by means of machine-grading and, increasingly, artificial snow is being produced by snow-making facilities. This review compiles studies on ski piste vegetation from more than three centuries and skiing destinations across the world and distinguishes between different types of disturbances and elevations. Skiing in general can exert disturbances to the vegetation because of the changed snow conditions. The compaction of the snow can induce hard soil frost and mechanically damage plants. Machine-grading in summer to create smooth surfaces represents the most drastic disturbance on ski pistes especially at elevations around and above treeline. Artificial snow production has the potential to change vegetation through an input of water and ions and through postponing the time of melt-out. Restoration measures to re-establish local vegetation after machine-grading have improved considerably in the last decades, however, still the vegetation and soil rarely fully recovers after major disturbance. If constructions are unavoidable, it is vitally important that restoration measures follow restoration guidelines that represent today’s state of the art. 50 Christian Rixen INTRODUCTION Winter tourism has become a major economic factor in many mountain regions of the world (Abegg et al. 1997, Elsasser and Messerli 2001), and especially downhill skiing represents the economically most important activity in resorts for winter sports. However, downhill ski areas can have dramatic effects on vegetation and, as a result, the esthetics of the landscape. Numerous studies have looked intensively into skiing effects on vegetation for more than three decades (e.g. Bayfield 1974, Cernusca 1977, Bayfield and Barrow 1985, Mosimann 1985). A large number of studies originates from the European Alps (Mosimann 1985, Urbanska and Schütz 1986, Rixen 2002, Wipf et al. 2005) and North America (Price 1985, Titus and Tsuyuzaki 1999, Van Ommeren 2001, Burt and Rice 2009), but basically studies are available from most regions worldwide with a skiing industry, e.g. from Scotland (Bayfield 1980, Bayfield et al. 1984, Bayfield 1996) and Scandinavia (Ruth-Balaganskaya and Myllynen-Malinen 2000, Kangas et al. 2009), Japan (Tsuyuzaki 1990, 2005), New Zealand (Wardle and Fahey 1999) or Argentina (Puntieri 1991). The effects of downhill skiing and construction of ski pistes are probably that dramatic because alpine ecosystems are highly susceptible to damage. Alpine plants are slow-growing, and alpine soils have slowly developed over many decades or centuries due to low temperatures and a short growing season (Körner 2003). Any perturbations and disturbances in alpine habitats are likely to cause damages in soil and vegetation that are visible for a long time. Changing the snow cover by grooming and skiing is another likely reason for changes in vegetation. Snow is the predominating environmental factor in alpine ecosystems, and the vegetation period between snowmelt and fall amounts only a few weeks in some alpine depressions (Jones et al. 2001). Most plant species are highly adapted to specific snow conditions: some species grow exclusively on windy ridges with very little snow during the winter but extreme temperature fluctuations, others, the so-called snowbed species, are adapted to deep snow cover and a very late melt-out in spring and summer (Ellenberg 1988, Körner 2003). Mapping the timing of melt-out and alpine plant communities can therefore show almost identical patterns (Friedel 1961). Changing snow properties by compacting snow on ski pistes and potentially changing the timing of melt-out is therefore a likely cause for vegetation changes. Skiing intensity has increased considerably in the last decades. Modern transportation facilities enable a growing number of skiers to visit ski areas. Consequently, snow preparation techniques have to meet the growing demands of skiers. Modern skiing styles like carving require wider ski pistes that result in ever more piste constructions. Less natural snowfall due to warmer temperatures and, in some areas even more importantly, an increasing demand of skiers for perfect growing conditions early in the winter season are met with installations of snow-making facilities (Mosimann 1998). The search for reliable snow conditions results in the construction of new ski pistes at higher elevations than before, in areas that are knowingly highly susceptible to disturbance. Hence, despite decades of research into effects of skiing and piste construction, the need to find solutions to minimize negative impacts of skiing on the environment is more pressing than ever. In this chapter, I review a plethora of studies to illustrate how downhill skiing, snow preparation and ski piste construction affect vegetation. To better demonstrate mechanisms how plants are affected, I will differentiate different factors, namely the 1) snow compaction and skiing, 2) the construction and machine-grading of pistes and 3) technical snow production. Finally, I will briefly discuss restoration measures and solutions that can help minimizing negative effects of ski management practices in ski areas. SNOW COMPACTION BY SNOW-GROOMING VEHICLES AND SKIERS The compaction of snow on ski pistes leads to decreased insulation of the ground below the snow. Usually, in snow-dominated climates a snow cover more approx. 70 cm deep insulates sufficiently to decouple temperature fluctuations above the snow from the ground below the snow (Haeberli 1973). As a result, temperatures at the snow-ground interface (Bottom Temperatures of the Snow cover, BTS) remain constant during the winter at precisely 0°C. In permafrost areas, the ground temperatures go down to approx. -2 to -3°C ( Haeberli 1973). The insulation properties of compacted snow on ski pistes however are only about half that of uncompacted snow (Geiger Skiing and alpine vegetation 51 1961), which can lead to considerable fluctuations of ground temperatures that can drop to -15°C (Rixen et al. 2004b). Freezing of the ground can have profound ecological consequences either directly by affecting plants or indirectly by changing soil processes (Groffman et al. 2001, Monson et al. 2006). The clover Trifolium repens, for instance, was found to suffer directly from frost damage on ski pistes (Newesely 1997). Damage of fine roots can be caused by movement of soil aggregates due to freeze-thaw cycles (Tierney et al. 2001). Soil freezing also influences the microbial activity, which can alter nutrient dynamics and, subsequently, can also affect plant growth (Rixen et al. 2008a). Compaction of the snow by grooming can also cause ice layers in the snow cover (Newesely 1997). Such ice layers hinder the gas exchange through the snow cover leading to oxygen depletion below the ice layer due to respiration of microbes. This oxygen depletion could make plants even more susceptible to frost or pathogen damage (Newesely et al. 1994). The soil freezing leads to a delayed development of plants (phenology) in spring after meltout even if the actual melt-out is not delayed (Fig. 1). The adverse winter conditions can damage plant to the extent that the delay in development is still visible in summer – several weeks after melt-out (Rixen et al. 2008a). This example illustrates how winter conditions can have long-lasting effects during the growth period, even if summer conditions are actually unchanged. Fig. 1. Cross-country ski track during winter, spring and early summer in Davos. Although the melt-out on the ski track is not only marginally postponed, the phenology of flowering and fruit production of the dandelion (Taraxacum officinale agg.) is still visibly delayed in June (Photo: Priska Hiller). The plant phenology responds immediately (i.e. the same year) to altered snow conditions. However, also the plant species composition changes a few years after snow pack properties have been changed. In experiments where snow was added to plots, species from higher elevation had increased after five years (Knight et al. 1979, for an extensive list of snow manipulation experiments, see Wipf and Rixen in press). On ski pistes, two ecological plant groups can be affected. First, species that are characteristic for windy ridges became more frequent on ski pistes than on ambient plots (e.g. Elyna myosuroides and Loiseleuria procumbens, Wipf et al. 2002). This was probably because the winter conditions with soil freezing on ski pistes resembled those on ridges where the low insulation of the thin snow cover also causes soil freezing. Second, earlyflowering species were reduced on ski pistes in comparison to control plots next to pistes (Wipf et al. 2005, Roux-Fouillet et al. in prep.). The early-flowering species probably had a disadvantage in 52 Christian Rixen development compared to late-flowering species because of the harsh winter and spring conditions. Alpine early-flowering species often start to grow and even flower while they are still covered in snow. Solar radiation can be recognized by the plant’s photo-sensitive physiological systems through a snow cover that is still more than 30 cm deep (Starr and Oberbauer 2003), and plant growth can start in anticipation of the soon snow-free conditions. That way, some plant species flower on the day or a day after melt-out (e.g. Crocus albiflorus), or their flowers even penetrate the still existing snow cover (e.g. Soldanella pusilla, Fig. 2). If, however, this subnivean (under snow) development is hampered by hard frosts and subsequent damage on ski pistes, the temporal niche of the early-flowering species may be reduced in comparison to late-flowering species, which do not experience much change in growing conditions. Fig. 2. The early-flowering snowbed species Soldanella pusilla can sense solar radiation penetrating the snow cover and starts growing and even flowering under the snow. Mechanical damage by skiers and snow-grooming vehicles represents an obvious disturbance to plants on ski pistes. Especially when the protecting snow cover is thin, like early in the winter season, vegetation and soil are threatened by snow-grooming machinery and the sharp metal edges of skis. Most sensitive are woody plant species that have sensitive tissue above ground in winter. Those branches contain flowering and vegetative buds, and breakage of branches is a considerable loss to the plant. Woody species were indeed much less frequent on ski pistes than on ambient plots (Wipf et al. 2005, Pohl et al. 2009). Winter buds of other plant species, such as hemicryptophytes, are located directly at the ground surface and are therefore much less in danger of damage. The sum of impacts on ski pistes often (but not always) resulted in a decrease in aboveground annual productivity, in plant diversity (as expressed in species numbers) and vegetation cover (Wipf et al. 2005, Pohl et al. 2009). In some ecosystems, especially productive ones, disturbances can also increase diversity when dominant species are suppressed (Connell 1979, Vujnovic et al. 2002). However, in alpine habitats, productivity and dominance are already low due to abiotic stress. Hence, additional disturbance on ski pistes in the alpine zone apparently only further decreases plant diversity (Kammer and Möhl 2002). MACHINE-GRADING Machine-grading during summer exerts the most drastic disturbance on ski pistes (Fig. 2) (e.g. Kangas et al. 2009). Soil and vegetation are usually removed by heavy machinery to create a smooth ground surface. The smooth ground facilitates snow-grooming early in the winter season Skiing and alpine vegetation 53 when the snow cover is still thin. Restoration measures after machine-grading are not always successful or not applied at all (Bayfield et al. 1984, Urbanska 1995, Titus and Tsuyuzaki 1999, Fattorini 2001, see also 'High-altitude restoration' below). As a result, plant productivity, diversity and vegetation cover are considerably decreased and the proportion of bare ground increased (Rixen et al. 2004a, Wipf et al. 2005, Barni et al. 2007, Delgado et al. 2007, Burt and Rice 2009) (see also chapter X by Michele Freppaz). The proportion of bare ground was five times higher on graded that on ungraded ski pistes (Wipf et al. 2005). Unvegetated ground makes the soil particularly vulnerable to surface run-off and erosion (Mosimann 1985, Löhmannsröben and Cernusca 1990, Florineth 1994). Plant species that suffer most the intense disturbance are woody species. Species that profit are those that require high light values and low competition (Wipf et al. 2005). Fig. 3. A machine-graded ski piste is not easily re-colonized by plant species. ARTIFICAL SNOW The production of artificial snow represents yet another factor influencing vegetation on ski pistes. While in the 1990s snow production was applied only locally to stabilize the snow cover on very steep sections of ski pistes, nowadays the majority of ski pistes is covered by artificial snow in many countries (Pröbstl 2006). The effects of artificial snow are not only negative: the additional amount of snow can actually help to protect vegetation and soil to some extent from mechanical damage from snow-grooming vehicles and skiers (Wipf et al. 2005). Furthermore, the extreme temperatures that can lead to the freezing of the ground under the compacted snow on ski pistes can be attenuated by the additional artificial snow. Although artificial snow is even denser than compacted natural snow, the deeper snow cover of artificial plus natural snow insulates the ground better than only compacted natural snow (Rixen et al. 2004b). However, the large amounts of snow on pistes with snow production require a much longer time to melt than just the natural snow: the delay in melt-out amounts on average two to three weeks (Fig. 3), but in some cases up to four weeks (Rixen et al. 2004b). The delay in melt-out also causes a delay in plant development that can not always be made up for by the vegetation and results in a change in species composition 54 Christian Rixen (e.g. an increase in snowbed species, see Fig. 4) (Wipf et al. 2005). The application of artificial snow also exerts an additional input of melt-water during spring and summer. Furthermore, the water quality of artificial snow differs from that of natural snow: the input of ions was approximately 8fold higher on artificially snowed pistes (Rixen et al. 2003). The input of water and ions has the potential to alter vegetation, which can benefit species that require moist and base-rich conditions but suppress species from dry and acidic and/or nutrient poor habitats (Kammer and Hegg 1990, Kammer 2002). However, the comparison between ski pistes with and without artificial snow shows that despite some differences in vegetation, on both piste types the disturbance is considerable and leads to a reduction in species diversity and productivity (Wipf et al. 2005). Fig. 4. Artifical snow postpones the melt-out in spring and early summer by a mean of two to three weeks. HIGH-ALTITUDE RESTORATION Most studies on ski pistes investigated the restoration success on machine-graded pistes (see also chapter X by Bernhard Krautzer). In the alpine zone, many European studies found extremely slow succession after machine-grading when no additional restoration measures, e.g. by seeding, were taken (Mosimann 1985, Bayfield 1996, Urbanska 1997, Urbanska and Fattorini 1998, Fattorini 2001, Gros et al. 2004, Wipf et al. 2005, Barni et al. 2007, Delgado et al. 2007). But also below treeline, machine-grading changed the soil and vegetation structure to such extent that natural recovery of the systems did not occur without additional restoration measures (Ruth-Balaganskaya and Myllynen-Malinen 2000). On ski pistes below treeline, it makes a considerable difference if they were created by just clearing the forest (cutting and removing tall vegetation) or by clearing and machine-grading (Burt and Rice 2009): cleared pistes retained many ecological similarities to adjacent undisturbed forest, whereas machine-graded pistes showed considerable damage in multiple vegetation and soil parameters. Mosimann (1985) concluded from the analysis of more than 200 sites the following about restoration success in the Central Alps (treeline at approx. 2000 m asl): 1) Re-establishment hardly ever occurred at elevations above approx. 2200 m asl even when re-seeding was applied. Plants rarely colonized the pistes (see alsoDelarze 1994). 2) Between approx. 1600 and 2200 m asl, the local microclimate largely determined re-vegetation, resulting in large variation in restoration success. 3) Below approx. 1600 m asl, restoration with both natural and seeded plant species was usually rapid and successful apart from areas with poorly drained soils. Nevertheless, restoration ecology made progress in the years after the study of Mosimann (1985), and a few re-vegetation measures were successful even at approx. 2500 m asl in the Central Alps: Urbanska (1997) found that safety island could increase the restoration success after machine-grading considerably. Such safely island consisted of turfs of natural local vegetation and provided both seeds that were necessary to re-colonize the graded area and sites where seeds could germinate and establish (see also Van Ommeren 2001, Isselin-Nondedeu et al. 2006). Also some sites in Scotland showed success with restoration measures at that time. Machine-graded and re-seeded pistes at approx. 1000 m asl (treeline at approx. 650 m asl) blended well in with the Skiing and alpine vegetation 55 surrounding ground 25 years after construction (Bayfield 1996). Local vascular plant species had gradually increased and exceeded the seeded grass species in cover. However, despite some successful examples, machine-grading at high elevation exerts high risk of erosion and permanent damage to ecosystem functions, and even successful restorations do rarely succeed in reestablishing the natural vegetation, but the vegetation of the ski pistes usually differs from adjacent climax vegetation (Bayfield 1996, Isselin-Nondedeu and Bedecarrats 2009). Recently, research has focused on the effects of biodiversity on ecosystem functions like soil stability and surface erosion (Rixen et al. 2008b, Pohl et al. 2009, Martin et al. submitted, Pohl et al. submitted). Investigations of soil aggregate stability on ski pistes showed that the number of plant species was positively correlated with soil aggregate stability, and species number was a better explanatory variable than any other variable related to soil or vegetation (Pohl et al. 2009). Higher plant diversity was associated with a higher number of different root types. Another study with rainfall simulation experiments showed that surface erosion was strongly driven by the percent of vegetation cover, but at a vegetation cover of approx. 60%, an increase in plant diversity significantly reduced surface erosion (Martin et al. submitted).These findings imply that the restoration focus should include the re-establishment of a divers vegetation and not only on creating a high percentage of vegetation cover. IMPLICATIONS FOR MANAGEMENT The review of the literature indicates that skiing impacts on vegetation vary greatly between regions, elevations and, especially, the type of impact. Based on the findings of many studies, the following recommendations regarding specific elevations and types of impact can be made. Machine-grading has the most dramatic and negative effects on vegetation and soil and should therefore be avoided or carried out with greatest care. Even below treeline, machinegrading can damage the soil structure almost irreparably and cause erosion. Only at elevations several hundred meters below treeline (e.g. 1600 m asl in the Central Alps), re-establishment of vegetation occurs rapidly and reliably. When ski pistes are constructed in the forest zone, clearing of the vegetation (cutting of tall vegetation) is preferable to machine-grading of the ground. Restoration technology has made considerable progress in recent years, and specific revegetation measures are available that make use of local seeds and plants that are adapted to and suited for high elevation. The available practical and detailed guidelines need to be followed in all constructions at high elevation (e.g. installations of snow-making facilities, machine-grading etc.) (Krautzer et al. 2006, Locher Oberholzer et al. 2008). Regarding the increasing application of artificial snow, it can be concluded that not all impacts are negative because some impacts of skiing in general (e.g. mechanical disturbance by skiers and snow-grooming vehicles) are mitigated. Nevertheless, artificial snow can cause changes in vegetation e.g. through an input of ions and water and altering the timing of melt-out that is postponed by two to three weeks. In sensitive vegetation types such as nutrient-poor as fens and low-nutrient meadows, the input of water and ions may exert the threat that endangered species are suppressed by more competitive species. In areas with very sensitive vegetation or high erosion risk, ski pistes with or without artificial snow may have negative effects because plant diversity and productivity are often decreased on both piste types. However, large alpine areas can be suitable for skiing, e.g. where land is already utilized by man as fertilized meadow or pasture. 56 Christian Rixen REFERENCES Abegg, B., U. Koenig, R. Buerki, and H. Elsasser. 1997. Climate Impact Assessment im Tourismus. Die Erde 128:105-116. Barni, E., M. Freppaz, and C. Siniscalco. 2007. Interactions between vegetation, roots, and soil stability in restored high-altitude ski runs in the Alps. Arctic Antarctic and Alpine Research 39:25-33. Bayfield, N. 1974. Burial of vegetation by erosion debris near ski lifts on Cairngorm, Scotland. Biological Conservation 6:246-251. Bayfield, N. and G. C. Barrow. 1985. The ecological impacts of outdoor recreation on mountain areas in Europe and North America. Recreation Ecol. 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PAOLA GATTO, DAVIDE PETTENELLA, LAURA SECCO E DARIA MASO UNIVERSITÀ DI PADOVA 60 Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso INTRODUZIONE Nel decennio scorso, segnato dal 2002 proclamato Anno Internazionale della Montagna, numerosissime sono state le pubblicazioni che hanno affrontato il tema dello sviluppo socioeconomico della montagna, e delle Alpi in particolare. Significativi riferimenti bibliografici al proposito sono i lavori curati da Nomisma (2003), Censis (2003), Raffaelli (2005), Longo e Viola (2005), Massarutto (2008) e Borghi (2009). Le analisi riportate nei lavori citati, compiute anche da diverse prospettive – delle scienze sociali, economiche, e naturali – concordano nel sottolineare i profondi mutamenti intervenuti nelle aree montane negli ultimi cinquant’anni, che ne hanno scardinato i modelli sociali tradizionali, basati su un’economia locale quasi esclusivamente agro-silvo-pastorale e rimasti immutati per secoli. Le stesse analisi concordano anche sulla necessità di individuare nuovi modelli di sviluppo armonico e sostenibile per la montagna, mettendo in guardia su due possibili e opposti rischi: l’adozione di modelli di sviluppo troppo intensivi, che possono pregiudicare la conservazione delle risorse naturali, finora oculatamente custodito e gestito quale base stessa della sopravvivenza: a questo primo punto ben si ricollega il tema del Corso: ‘Sviluppo socio-economico delle Alpi: una minaccia per le risorse naturali?’ il pericolo del progressivo abbandono delle stesse risorse, legato alla scarsa redditività di attività economiche troppo estensive, condotte in ambienti difficili, incapaci quindi di remunerare adeguatamente gli operatori in uno scenario di competizione oramai globalizzato. Nella ricerca del corretto modello di sviluppo, quello del rischio dell’abbandono è un’ulteriore dimensione che questo intervento vuole considerare rispetto al tema centrale del corso, nel presupposto che il valore attribuito dalla collettività alle risorse naturali della montagna, valore inteso come risultato di un processo culturale che ha ricadute anche sul piano economico, sia indissolubilmente legato ad una presenza umana, senza la quale si assisterebbe ad un suo deterioramento. Nella consapevolezza dell’esistenza di queste due opposte dimensioni, l’individuazione dei modelli e delle opportunità legate ad essi non può che basarsi su un compromesso, o meglio, come dice Gios (2005), ‘sull’equilibrio, che, richiedendo un alto grado di integrazione e sinergia tra le diverse attività umane, non può che essere basato su modelli di sviluppo almeno parzialmente originali’ (p. 4). MONTAGNA TRA ABBANDONO, CONSERVAZIONE E VALORE-VALORIZZAZIONE Il percorso analitico passa, da un lato attraverso l’esame dell’evoluzione dell’uso dei suoli compiuto da Merlo (2005) e confermato recentemente da Baldini (2009), che evidenza, in chiave negativa, l’abbandono dell’agricoltura montana. La Tabella 1 (Merlo, 2005) riporta l’evoluzione dell’uso dei suoli agricoli delle aree montane del veneto nei settant’anni che vanno dal 1930 al 2000, da cui si rilevano notevoli cambiamenti: i seminativi si riducono di più dell’80%, i prati e pascoli di quasi il 40%, la SAU nel suo complesso quasi si dimezza. Tabella 1 – Evoluzione della Superficie Agricola Utilizzata (SAU) nella montagna veneta (valori in ettari) – dati Censimenti dell’Agricoltura 1930 1970 1982 1990 2000 Seminativi 36.970,00 8.599,29 6.350,97 5.507,04 6.063,75 Coltivazioni legnose 2.596,00 4.687,24 3.397,87 2.427,52 2.971,49 Prati e pascoli permanenti Superficie Agricola Utilizzata 149.034,00 125.777,02 116.025,45 96.722,52 92.705,91 105.432,79 101.935,14 191.110 139.063,55 126.590,89 Fonte: Merlo, 2005 Se i cambiamenti nella SAU colpiscono per la loro entità, ancora più significative appaiono le cifre relativi al numero delle aziende agricole e delle relative dimensioni medie (Tabella 2), da cui si osserva la diminuzione del numero di aziende, ad un ritmo assai maggiore di quello manifestato dalla superficie aziendale. L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono: quali modelli di sviluppo e quali opportunità? 61 Tabella 2 – Evoluzione del numero delle aziende agricole, della loro superficie totale e dimensione media nella montagna veneta (dati Censimenti dell’Agricoltura) Numero Aziende 1930 59.540 1970 36.890 1982 30.979 1990 24.744 2000 17.437 Superficie totale (ha) 471.663 397.397,11 375.963,15 356.824,21 308.207,27 Superficie media aziendale (ha) 7,92 10,77 12,13 14,42 17,67 Fonte: Merlo, 2005 La riduzione del numero delle aziende, significativa dell’abbandono del settore da parte degli operatori, si accompagna ad un aumento della scala delle aziende sopravvissute, operanti su ampiezze aziendali più consistenti, che non devono più affrontare problemi di ampliamento, dato che terreni in comodato o in affitto verbale vengono facilmente reperiti (Merlo, 2005). Le aziende sono più grandi ma estremamente frammentate, anche in diverse centinaia di particelle catastali, con ovvie difficoltà di gestione e aumento dei costi (un fenomeno accentuatosi negli ultimi anni come effetto perverso delle politiche di sviluppo rurale, con la corresponsione di premi ad ettaro e la spinta all’estensivizzazione). Per contro, risulta invece quasi impossibile l’ingresso di nuove aziende. Infine, il dato che completa il quadro dell’abbandono è quello che riporta la variazione del numero di capi bovini allevati (Tabella 3). Si osserva che, nella montagna veneta le aziende con allevamento, che nel 1970 erano la metà delle aziende agricole, si sono ridotte soltanto al 15% nel 2000. Cresce invece ovunque l’ampiezza media dell’allevamento bovino che nel 1970 era di 5,8 capi mentre nel 2000 sale a 26,6 capi. Tabella 3 – Evoluzione del numero di aziende con bovini e del numero di capi allevati nella montagna veneta (dati Censimenti dell’Agricoltura) 1930 1961 27.764 17.161 8.894 5.315 2.698 Numero di capi allevati 118.762 106.702 99.811 101.646 85.952 71.858 di cui vacche da latte 64.675 58.399 70.985 42.605 43.085 33.530 Numero aziende con bovini 1970 1982 1990 2000 Fonte: Merlo, 2005 Le conclusioni di questa analisi sono così espresse da Merlo (2005): ‘l’evoluzione nel secolo scorso degli usi del suolo indica la crescente difficoltà, in pratica impossibilità, dell’agricoltura montana a conservare sistemi di produzione e ordinamenti produttivi tradizionali. Mantengono una certa vitalità solo aziende sufficientemente ampie, ed in grado di organizzare e remunerare in maniera congrua il lavoro agricolo prestato ed i relativi capitali. Si è registrato quindi una consistente diminuzione del capitale fondiario, dei capitali agrari e delle forze lavoro impiegate in agricoltura. Tutto questo ha comportato un mutamento rapido e radicale nel paesaggio, ma anche nell’ambiente e nei sistemi di regolazione delle acque, […] con l’insorgenza di un problema di instabilità dell’attuale sistema agricolo montano e dei dissesti che questo può portare all’ambiente ed al territorio in generale. Le analisi condotte al riguardo appaiono tuttavia abbastanza controverse. Posto che gli usi del suolo esistenti nel passato non si possono ricreare, salvo mantenere piccole isole per finalità storico culturali, appare fuor di dubbio che un qualche nuovo equilibrio deve essere realizzato. Molti osservano che una ri-naturalizzazione del territorio è già avvenuta nei fatti, seguendo le forze della natura e del mercato, indipendentemente dalle politiche per la montagna, tutto sommato irrilevanti. Si rilevano nuovi ecosistemi forestali generatisi sui coltivi – prati – pascoli abbandonati. Il problema è probabilmente quello di orientare questo abbandono o ritrovata naturalità che dir si voglia verso obiettivi socialmente condivisi, evitando forme di degrado – oggi definite di ‘non sostenibilità’. Nella comune accettazione dell’evidenza della marginalità dell’agricoltura montana, ma per ampliarne la prospettiva, si inseriscono i risultati di una recente indagine del Censis volta a misurare il ‘Valore della Montagna’ (Censis, 2003; Baldi, 2009). Analizzando il valore aggiunto 62 Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso creato dalle attività produttive in aree montane (quindi non solo le attività agricole), il Censis ha modificato la visione negativa che emerge dalla sola analisi dei dati agricoli, evidenziando invece come ‘montagna’ non sia necessariamente sinonimo di svantaggio competitivo, né configuri, di per sé, un modello arretrato di sviluppo: secondo questa ricerca, infatti, la montagna contribuisce per il 18,7% alla formazione del Pil nazionale avendo il 16,1% della popolazione, quindi in modo solo leggermente inferiore alla media dell’intero territorio nazionale. Ma c’è di più: aggiornamenti di queste stime mostrano che, nel 2007, il Pil montano è cresciuto del 10,5%, contro il 6,5% della media nazionale, evidenziando il carattere ‘anticiclico’ dell’economia montana (Baldi, 2009, p. 150). Questi dati mostrano la montagna sotto una diversa luce, e sembrano indicare una capacità generale di resilienza del suo sistema economico. Quando però il ‘Valore della Montagna’ viene esaminato con maggiore dettaglio, lo studio Censis rivela come il tessuto economico del territorio montano sia tutt’altro che omogeneo, ma abbia invece uno sviluppo ‘a macchia di leopardo’, in cui aree deboli si alternano ad aree con valore aggiunto elevato (Censis, 2003, p. 13). Così sono stati individuati 177 comuni (tra l’altro prevalentemente localizzati lungo l’arco alpino) in cui la montagna – definita quindi ‘come risorsa’ – contribuisce al 4,5% del Pil montano con meno del 3% della popolazione. All’estremo opposto stanno i 1.343 comuni della ‘montagna marginale’, dove il valore aggiunto pro-capite è meno della metà dei precedenti. Nella Figura 1 si riporta la situazione per la Regione Veneto. Figura 1 – Il valore della montagna veneta secondo il Censis (2003) Nel 2007 il Censis ha completato l’analisi del valore della montagna, riconoscendo 65 ‘Territori Turistici di Eccellenza, in cui la montagna ha un peso numerico (in termini di comuni compresi in detti territori) del 52% , con 24 territori composti unicamente da comuni montani. La complessità del problema esaminato, e le sue molte sfaccettature, richiamano alla necessità di individuare nuovi ruoli e nuove soluzioni per la montagna e le sue risorse. Modelli capaci di introdurre nuove strategie produttive, di orientare le produzioni agro-silvo-pastorali verso ambiti multifunzionali e sostenibili, integrati e condivisi. Da molti s’individua, come elemento centrale di questi nuovi modelli, la qualità del prodotto in un significato ampio, cui concorrano anche le caratteristiche materiali ed immateriali del sistema di produzione, in particolare l’identità e la specificità che questo comunica (Fonte e Agostino, 2006, Caroli, 2006). Concetti ancora una volta ben espressi dal Censis, per cui i connotati dell’eccellenza montana sono, tra gli altri (Baldi, 2009, p. 154): L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono: quali modelli di sviluppo e quali opportunità? 63 l’esistenza di una politica complessiva di manutenzione e tutela del paesaggio e di valorizzazione dell’ambiente naturale (attenzione alla pianificazione territoriale, lotta all’abusivismo e all’inquinamento, recupero e restauro del patrimonio storico) la presenza di iniziative pubbliche e private tese a recuperare e valorizzare le produzioni tipiche e la cultura locale proponendo un’offerta integrata di tutto il territorio e di uno specifico brand la diffusione di una cultura amministrativa e imprenditoriale consapevole dell’importanza di una organizzazione dell’accoglienza di qualità’. Vi è un’ulteriore ed importante ragione che spinge a riconvertire, nelle aree rurali più marginali, gli attuali modelli produttivi, e sta nel fatto che questi ultimi non sembrano più in grado di evitare lo spopolamento, l’abbandono e quindi il degrado ambientale in atto. Pur tuttavia, capitale naturale e sociale delle aree rurali, proprio per la loro scarsa mobilità e soprattutto difficile riproducibilità, possono costituire anche degli elementi di fragilità del sistema, ponendo limiti di cui i nuovi modelli non potranno non tener conto. LO STRUMENTO PES - PAGAMENTI PER I SERVIZI AMBIENTALI Parallelamente alla diminuzione di redditività delle tradizionali attività agro-silvo-pastorali della montagna, è andata invece sviluppandosi una crescente attenzione alla domanda di prodotti e soprattutto di servizi ambientali di interesse pubblico che gli ecosistemi, soprattutto quelli ad alto grado di naturalità quali quelli montani, sono in grado di fornire: protezione idrogeologica, conservazione della biodiversità, fissazione di anidride carbonica, attività turistico-ricreative, ecc. Ciò richiede da un lato una gestione sempre più orientata alla multifunzionalità, con il rischio peraltro che emergano conflitti tra obiettivi di gestione diversi e diversi portatori di interesse (i cosiddetti stakeholder) (Solberg & Miina 1997, Hellström 2001, Niemelä et al. 2005), e dall’altro la capacità di trovare strumenti in grado non solo di valutare le esternalità (Marinelli, 1988; Merlo e Muraro, 1988; Gios, 2008) ma anche di remunerarle. L’economia ambientale mette a disposizione a questo scopo un insieme molto articolato di strumenti (Cubbage et al., 2007), che negli ultimi anni si è arricchito di esperienze applicative a diversa scala e in diverse aree geografiche, includendo sia strumenti di regolamentazione e controllo (command and control) che strumenti di mercato. Se si pensa anche ad alcuni strumenti indiretti importanti nel contesto italiano, come ad esempio la realizzazione di infrastrutture, l’assistenza tecnica, la formazione degli operatori, lo sviluppo di forme associative ed altri ancora, la ricchezza di mezzi di cui si dispone è davvero molto ampia. Tuttavia appare evidente come la creazione di nuovi mercati, accompagnata da un ruolo pro-attivo della società civile nei processi decisionali (attraverso strumenti di informazione e partecipazione), sia ormai ritenuta una delle forme di intervento più innovative e promettenti nell’ambito delle politiche di sviluppo della montagna. Tra gli altri, si parla oggi di Pagamenti per i Servizi Ambientali, o PES Payments for Ecosystem Services, facendo riferimento ad una denominazione apparsa di recente nella letteratura ambientale per indicare forme e modalità di trasformazione dei beni e servizi pubblici della foresta in nuovi prodotti di mercato, nella logica della transazione diretta tra il consumatore e il produttore. L’idea dei PES, che viene proposta con grande risalto in ambito internazionale in campo sia agricolo che forestale (Sherr et al., 2004; Grieg-Gran et al., 2005), non è affatto nuova nella politica forestale italiana. Ciò che è nuovo sono i diversi approfondimenti teorico-metodologici e i numerosi casi di studio realizzati negli ultimi anni (vedi le rassegne di Pagiola et al., 2002; Landell-Mills e Porras, 2002; Wunder et al., 2008), che, mettendo a disposizione nuovi elementi di valutazione, permettono di guardare ai PES come ad uno strumento con notevoli potenzialità operative per la remunerazione dei servizi delle nostre aree montane. Secondo alcune definizioni riscontrate in letteratura, si può parlare di PES solo quando un servizio prodotto da un ecosistema venga scambiato volontariamente in un mercato, ovvero quando la transazione tra fornitore e fruitore del servizio stesso (i) è volontaria, (ii) riguarda un ben preciso servizio ambientale (o una forma d’uso del suolo che ne garantisce la fornitura); (iii) il servizio viene acquistato da (minimo) un consumatore e (iv) venduto da (minimo) un produttore, (v) se e solamente se il produttore garantisce continuità nella fornitura (Wunder, 2005; Engel et al., 2008). Fissazione di carbonio, regimazione delle acque nei bacini montani, biodiversità, le bellezze paesaggistiche e ricreazione si possono considerare tutti servizi ambientali. A livello italiano esiste un’ampia casistica di servizi ricreativo-ambientali (Mantau et al., 2001) in cui sono riscontrabili quasi tutti gli elementi tipici di un PES (Gatto e Secco, 2009). Anzi, lo strumento PES appare 64 Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso maggiormente consolidato proprio nel settore turistico-ricreativo, poichè vi predominano le situazioni in cui escludibilità e rivalità sembrano più facili da attuare (rispetto ad esempio alle difficoltà di commercializzazione – pratica ma anche etica – di un servizio come la ‘biodiversità’), mentre il mercato (turistico) è più maturo. La conseguente maggiore prospettiva di remunerazione catalizza le iniziative del settore privato, come appare nelle rassegne predisposte da Merlo et al. (1999) e Maso (2009). La struttura base di un progetto di implementazione di un PES prevede di attivare un meccanismo finanziario, a volte indotto tramite un intervento pubblico di assegnazione dei diritti di proprietà o un intervento regolativo, attraverso il quale da un lato si trasforma il servizio ambientale in un vero e proprio prodotto, creandone il mercato, e dall’altro si riconosce il diritto al produttore di chiedere il rispettivo prezzo al consumatore del bene. Premessa sostanziale di tale implementazione è l’individuazione precisa del servizio, di chi lo produce, dei possibili utenti finali e, aspetti alquanto delicati, la stima del valore del servizio e quindi del suo possibile prezzo di mercato e la definizione delle modalità contrattuali e di pagamento. ESEMPI DI BEST PRACTICES: OPPORTUNITÀ PER GLI IMPRENDITORI DELLA MONTAGNA Le possibilità di valorizzazione a finalità economica delle funzioni turistiche, ricreative e ambientali delle risorse naturali delle aree montane sono diverse. Molte sono attività già note e ormai consolidate nell’esperienza forestale italiana: la produzione di legname ad uso industriale, di biomasse legnose a fini energetici, di prodotti forestali non legnosi (si pensi alla vendita di permessi per la raccolta funghi), così come l’organizzazione di attività ricreative informali e di attività di educazione ambientale. Meno note, ma più interessanti per le potenzialità che sembrano dimostrare nel creare opportunità di occupazione e reddito, sono invece alcune attività decisamente innovative. Nel seguito, se ne fa una breve rassegna, che non intende essere esaustiva ma solo fornire – a proprietari e gestori di un’area forestale montana, pubblici o privati che siano - un quadro d’insieme su quante e diverse possano essere le soluzioni per differenziare e integrare le proprie fonti di reddito, divenendo direttamente gestori di qualche iniziativa o affittando il terreno agli interessati. Alcuni approfondimenti sono riservati alle iniziative che potrebbero assumere un ruolo particolarmente rilevante in montagna (ai pensi alla vendita di servizi ricreativi o di tutela delle risorse idriche). Acqua e foreste Sebbene le interazioni positive tra foresta, regimazione delle acque e diminuzione del rischio idrogeologico siano state uno dei principi ispiratori della politica forestale italiana sin dalla sua nascita (si pensi all’istituzione del vincolo idrogeologico con la Legge Serpieri del 1923), il ricorso a strumenti strettamente considerabili come PES per la remunerazione del servizio idrogeologico dei boschi è piuttosto recente. Una traccia dell’idea di PES si trova per la verità già nella Legge 959/1953 di istituzione dei Bacini Imbriferi Montani, in cui si prevedeva di far pagare ai concessionari di derivazione delle risorse idriche montane un sovracanone da destinare ad opere di sistemazione montana e di valorizzazione del territorio a compensazione dei disagi causati alle popolazioni montane dalla presenza di opere di captazione. Tuttavia è solo con l’approvazione della legge Galli sul ciclo integrato dell’acqua (L 36/1994) che l’idea di PES trova compimento nel contesto italiano. All’Art. 24, infatti, la legge prevede che una quota della tariffa idrica possa venire destinata ad interventi di salvaguardia delle aree nel bacino di captazione. A tutt’oggi, la normativa ha visto il recepimento da parte della Regione Piemonte (art. 8 comma 4 della LR 13/97), della Regione Emilia Romagna (LR 25/99 e successive modifiche), e recentemente della Regione Veneto (DGR 3483 del 30 dicembre 2010). Nell’ottica PES, il bene oggetto di compravendita è il servizio di regimazione svolto dalle aree montane nei riguardi della risorsa idrica – nella normativa si parla specificatamente di ‘favorimento della riproducibilità’ nel tempo e ‘miglioramento del livello di qualità’. I beneficiari sono le Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale (AATO) e, per loro tramite, gli utenti finali della fornitura idrica; i fornitori vengono intesi come gli abitanti delle aree montane in generale, per il tramite degli Enti locali (Provincie e Comunità Montane). Per la Regione Piemonte, dove l’applicazione dello strumento è in fase più avanzata, il meccanismo di pagamento prevede che una quota di tariffa variabile dal 3 all’8% venga destinata alle attività di difesa e tutela del territorio montano e gestita dalle Comunità Montane tramite un Piano Pluriennale di Manutenzione. Nel 2007 tali fondi hanno ammontato a L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono: quali modelli di sviluppo e quali opportunità? 65 circa 18.500 euro ed hanno fatto fronte al 54% del costo dei previsti interventi di manutenzione e sistemazioni idrogeologiche e idraulico-forestali del territorio montano (Regione Piemonte, dati non pubblicati). Un bilancio dell’esperienza italiana nell’ambito dell’applicazione dei PES al settore idrico appare prematuro, e le iniziative delle due Regioni sono da considerarsi di fatto esperienze pilota. Esperienze già avanzate in questo campo sono invece in atto in molti altri Paesi. Una delle più note è l’iniziativa della città di New York. L’azienda municipalizzata per la fornitura dei servizi idrici e i proprietari forestali del bacino di captazione hanno sottoscritto un accordo in base al quale i proprietari si impegnano a gestire i propri boschi secondo un programma che prevede pratiche di gestione forestale che abbiano effetti positivi sulla costanza qualitativa e quantitativa del deflusso idrico. La compensazione per il servizio di depurazione e regimazione svolto viene corrisposta attraverso un’addizionale sulla tariffa idrica, pagata dagli utenti finali. L’implementazione del programma ha permesso un parziale risparmio di spesa sui 6-9 miliardi di dollari necessari per realizzare impianti di depurazione, un costo che avrebbe comunque gravato sui cittadini, mentre i proprietari forestali hanno potuto contare su un flusso annuo e costante di reddito (Landell-Mills e Porras, 2002). Altri esempi sono il Programma di Pagamenti per i Servizi Idrici implementato dal governo messicano (Muños-Piña et al., 2008), i pagamenti agro-ambientali corrisposti agli agricoltori dal soggetto titolare di una concessione per acque minerali nella Francia nord-orientale (Perrot-Maître, 2006), o, per rimanere in Italia, quanto in progetto, anche se poi rimasto inattuato, nella Val Nossana, principale fonte di approvvigionamento idrico dell’acquedotto della città di Bergamo (Pettenella et al., 2006). Foreste e sport Sono molteplici le attività sportive che si possono svolgere in foresta: si va dalle attività classiche, come l’escursionismo estivo e invernale (con le racchette da neve) e lo sci da fondo, al mountain biking, all’escursionismo a cavallo (ippo-turismo) o al meno diffuso trekking con i muli, fino all’ormai noto e sempre più diffuso orienteering, per giungere infine a varie altre attività più originali. Anche tra chi frequenta i boschi, infatti, sta crescendo la domanda di attività sportive organizzate, con servizi di supporto e infrastrutture (percorsi a tema, guide, aree attrezzate, ecc.), a scapito delle tradizionali modalità informali (semplice escursione su sentieri), e ciò offre notevoli possibilità per il proprietario o gestore forestale. Tutti gli sport in foresta hanno in comune la necessità di percorsi (sentieri, aree di accesso, strade forestali) ben organizzati e sottoposti ad una buona manutenzione, in modo da continuare ad essere funzionali e quindi attrattivi per i fruitori, e questo fa sì che il bosco risulti nel complesso più attentamente gestito a vantaggio di tutta la comunità. Le iniziative sportive incentrate sul bosco possono avere effetti diretti (creazione di posti di lavoro: istruttori, guide, noleggio attrezzature, ecc.) o indiretti (sviluppo di servizi: bar, alloggi, parcheggi, ecc.) sull’economia locale. Anche se spesso i posti di lavoro creati sono per lo più stagionali e a volte sono richieste figure professionali altamente specializzate (istruttori) non disponibili in loco (aspetti, questi, da affrontare e gestire in modo che i benefici economici derivanti dalla pratica delle attività sportive rimangano in zona rurale), il numero di persone coinvolte nella pratica di alcuni di questi sport è notevole e quindi anche il potenziale movimento economico ad essi legato è consistente (basti pensare ai pacchetti turistici per il fine settimana o le settimane di vacanza). Un caso particolare di sport in foresta è quello che si può svolgere nell’ambito dei cosiddetti Parchi Avventura, un’esperienza nata a partire dal 2001 sul modello francese. Si tratta generalmente di percorsi aerei sospesi tra gli alberi di una foresta, costruiti mediante piattaforme in legno appoggiate sui fusti delle piante e passaggi acrobatici tra una pianta e l’altra. Il tipo di investimento da realizzare per la predisposizione degli spazi di svolgimento dell’attività è più consistente rispetto ad altri sport e anche in termini di organizzazione e coordinamento l’impegno richiesto dal gestore è maggiore (ad esempio sono necessari istruttori qualificati e adeguate attrezzature di sicurezza). Negli ultimi cinque anni sono sorte in Italia circa 70 di queste strutture, soprattutto nell’arco Alpino, anche se non mancano esempi in località marine e nel centro-sud Italia (Loreggian, 2008). La proprietà e la gestione dei Parchi Avventura sono nella maggior parte dei casi private, anche se spesso localizzate su aree forestali di proprietà pubblica, cedute al gestore del Parco tramite 66 Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso contratti di concessione. Per un Parco di dimensioni medio-grandi (circa 10.000 visitatori all’anno, su una superficie di un ettaro), i costi di realizzazione sono dell’ordine di alcune centinaia di migliaia di euro e il tempo di ritorno dell’investimento è di 5-6 anni. L’accesso alle strutture da parte degli utenti avviene tramite acquisto di un biglietto a tempo o a percorso. Loreggian (2008) ha stimato una disponibilità a pagare media del consumatore intorno a 12,00 euro per visita. Elementi di successo sono la localizzazione in aree già rinomate dal punto di vista turistico, la facilità di accesso e di parcheggio, la capacità di creare sinergie con altre attività turistico-ricreative offerte dal territorio. Il mercato per questo servizio ricreativo strutturato è relativamente maturo (l’offerta si rivolge al turismo sportivo ed escursionistico, ma anche scolastico), ma il prodotto offerto è nuovo e richiede capitali, imprenditorialità e competenze tecniche specifiche, caratteristiche più facilmente rinvenibili nei soggetti privati piuttosto che negli enti locali (ad esempio i Comuni, proprietari forestali nelle aree montane). Le dimensioni sono quelle di un mercato di nicchia ma in crescita sia sul lato della domanda che dell’offerta. I dati economici a disposizione sembrano indicare che il Parco Avventura può costituire una buona opportunità di reddito per il proprietario forestale privato, anche se per un numero ristretto di siti e di imprenditori. Produzione legnosa e gestione a fini ricreativi sono tra l’altro obiettivi gestionali in competizione tra loro - soprattutto nei siti migliori, i più pianeggianti ed accessibili (non nei siti marginali, con piante piccole o troppo distanti dalla viabilità). Difficile quindi che questi Parchi possano offrire una risposta per il recupero a media scala di aree forestali altrimenti abbandonate. In un’ottica collettiva, la questione è più sfumata. L’interesse di un proprietario forestale pubblico nei riguardi di un Parco Avventura risiede sia nella partecipazione diretta ai redditi – tramite concessioni o forme associate di gestione – sia nella capacità dell’attività di produrre indotto nell’occupazione, di essere un elemento di richiamo turistico parte di un’offerta territoriale più ampia e un mezzo di avvicinamento all’attività sportiva e all’educazione ambientale. Foreste e arte In questo caso la valorizzazione delle aree forestali e montane avviene attraverso l’istallazione di percorsi d’arte, secondo la corrente artistica della Land Art, dove l’ambiente e la natura determinano la scelta dei materiali usati nella creazione delle opere e le modalità e i ritmi per la visita delle esposizioni (si vedano ad esempio Fienarte, Pietrarte ed altre ancora). Di solito, le esposizioni di opere d’arte in foresta consistono in una serie di percorsi nel bosco lungo i quali sono dislocate le varie opere, appositamente ideate e create dagli artisti al fine di inserirsi nel contesto. Nella maggior parte dei casi le opere sono realizzate con materiali reperiti nel bosco stesso (rami, tronchi, sassi, foglie) e anche la loro creazione avviene sul posto, ma non mancano quelle realizzate in ferro, plexiglas, ecc. Al termine del periodo di durata dell’esposizione, le opere possono essere trasferite in musei o gallerie oppure lasciate in loco. Le soluzioni operative sono molteplici: le estensioni di foresta dedicate alle esposizioni possono essere molto varie, da pochi ettari ad aree molto vaste; gli organizzatori e gestori delle esposizioni possono essere associazioni culturali ma anche aziende private familiari; il bosco può essere di proprietà pubblica, privata o collettiva; l’accesso ai percorsi può essere gratuito o a pagamento. Negli esempi censiti in Italia, l’affluenza annua di visitatori varia dai circa 6.000 di Opera Bosco ai 40.000 di Arte Sella (Torreggiani, 2011) E’ evidente che il richiamo esercitato dalla presenza delle opere d’arte potrebbe tradursi in una fonte di reddito per i proprietari o gestori del bosco. Tuttavia, dalle informazioni finora reperite, gli introiti derivanti da un’eventuale vendita dei biglietti – almeno nei modi di organizzazione attuali – non sembrano sufficienti per coprire le spese delle attività di gestione e manutenzione necessarie all’accessibilità e adeguata fruizione dell’area boscata come spazio espositivo. Resta quindi necessario, almeno in una fase di avvio, l’intervento di Enti locali o privati e l’investimento in promozione e attività di richiamo aggiuntive (il bosco d’arte può essere sede di altri eventi e manifestazioni quali incontri di poesia, visite didattiche, lezioni di pittura e scultura, concerti, ecc.), anche in questo caso nella prospettiva di una strategia più ampia, di marketing territoriale. Foreste e musica Le manifestazioni come i “concerti in foresta” sono tra le attività culturali e ricreative in bosco più innovative e che più si stanno diffondendo in alcune parti d’Italia come validi esempi di marketing territoriale e come fonti integrative di reddito per i proprietari di boschi. In genere, si L'economia agro-silvo-pastorale pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono: quali modelli di sviluppo e quali opportunità? 67 tratta di una serie di concerti di vario genere (musica classica, etnica, jazz, canzone d’autore ecc.) i cui protagonisti sono musicisti di fama, sia italiani che stranieri. Tali concerti si tengono all’aria aperta, in radure e conche nche nei pressi di rifugi e malghe che tutti, dal pubblico ai musicisti con i rispettivi strumenti, raggiungono per mezzo di escursioni non particolarmente impegnative. Il concerto, un servizio che viene in questo caso fortemente associato al mondo forestale foresta e più in generale montano, funge da traino ad un turismo culturale-escursionistico culturale escursionistico importante per l’economia locale. Ne beneficiano infatti in modo diretto malghe e rifugi nei pressi dei quali si svolge il concerto, ma in modo indiretto anche altre strutture strutture ricettive nonché altre iniziative locali (ad esempio manifestazioni sportive e gastronomiche) e in definitiva l’intero territorio, che viene qualificato in termini di immagine. La partecipazione ai concerti è gratuita e i costi sono a carico di enti pubblici, a volte con la compartecipazione finanziaria di privati e fondazioni. Questa forma di finanziamento è di solito necessaria nella fase di lancio di un servizio innovativo, che una volta consolidatosi potrà essere finanziato dai beneficiari economici economici (diretti e indiretti) o dagli stessi fruitori dell’evento (turisti, visitatori) attraverso il pagamento di un biglietto di accesso. Foreste e altre iniziative Infine, tra altre attività innovative da ricordare, già avviate altrove, vi sono la realizzazione realizz di campeggi in foresta e di case sugli alberi. Numerosi iniziano ad essere ad esempio gli alberghi e i centri di ristorazione costruiti tra le chiome degli alberi in varie parti del mondo – si pensi al Sanya Nanshan Treehouse Resort and Beach Club aperto aperto nel 2000 in Cina, sull’isola di Hainan (www.treehousesofhawaii.com www.treehousesofhawaii.com), ), ma simili esempi si trovano anche in Austria (www.baumkronenweg.at,, Figura 2) Bretagna, Inghilterra, hilterra, India, Stati Uniti e perfino già in Italia (in provincia di Viterbo la camera di un agriturismo è stata realizzata su un albero: www.lapiantata.it). Figura 2 – La struttura Baumkronenweg in Austria: 170 metri di passeggiata tra le chiome degli alberi, ad un’altezza di 24 metri dal suolo. Fonte: Leader+ Best practices. CONCLUSIONI Alcune delle attività forestali sopra descritte potrebbero rivelarsi molto mol adatte all’ambito montano, dove la proprietà del terreno (soprattutto privata) è spesso molto frammentata e non sempre vi sono le condizioni per l’organizzazione di forme associative di gestione, con la conseguenza di notevoli difficoltà ad avviare attività attività economiche redditizie basate sulla produzione di legno. Iniziative innovative come quelle basate sulla vendita di servizi ricreativi-ambientali ricreativi organizzati in foresta si prestano ad essere avviate anche su superfici boschive di limitata estensione e/o o richiedono investimenti iniziali non elevatissimi. Un nodo fondamentale per l’avvio e il consolidamento di tali iniziative rimane comunque la proprietà del terreno, o quanto meno la possibilità di disporne (in affitto o in concessione) per un periodo di tempo adeguato al tipo di attività che si intende realizzare. Nel caso di un privato che prenda in gestione terreni forestali di proprietà pubblica, anche l’Ente proprietario avrebbe dei vantaggi: potrebbe ad esempio ottenere che il suo patrimonio boschivo venga adeguatamente gestito (cure e manutenzioni sarebbero necessarie per garantire la fruizione del bosco da parte dei visitatori) senza doverne sostenere i relativi costi. A fronte delle potenzialità connesse ai Pagamenti dei Servizi Ambientali, non bisogna bi però dimenticare le potenzialità e l’importanza di altre iniziative (si pensi alla raccolta e commercializzazione della legna da ardere o più in generale delle biomasse legnose ad uso 68 Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso energertico; alla raccolta di prodotti forestali non legnosi, come i funghi ma anche le castagne, le fragole o i lamponi; o altro ancora), che riguardano prodotti forestali più tradizionali, ma che potrebbero essere sviluppate con modalità organizzative innovative (si pensi per i funghi all’esperienza di Borgo Valditaro – Pettenella et al., 2008). Tutte le iniziative descritte, dalle più semplici alle più complesse, possono essere annoverate tra le attività da sviluppare per infondere nuovo vigore all’economia delle zone montane, ma laddove realizzate singolarmente rischierebbero di dare risultati limitati . Diverso sarebbe il loro impatto se fossero invece parte di una politica di sviluppo integrato, che preveda iniziative complementari e in grado di attivarsi reciprocamente nello stesso territorio, in un contesto di strategia di marketing territoriale ben organizzata e pianificata che valorizzi al meglio il “capitale sociale” della comunità locale, ovvero la capacità di cooperazione nello sviluppo di attività economiche coordinate tra diversi soggetti. BIBLIOGRAFIA Baldi M. (2009) Il carattere anticiclico dei sistemi economici montani. In: Borghi E. (2009) (a cura di) La sfida dei territori nella green economy. Bologna: AREL Il Mulino, pp. 149-162 Borghi E. (2009) (a cura di) La sfida dei territori nella green economy. Bologna: AREL Il Mulino, pp. 1-400. Caroli M.G. (2006), Il marketing territoriale. Strategie per la competitività sostenibile del territorio, Franco Angeli Editore, Milano. Censis (2003) Il valore della montagna. Milano: Franco Angeli, pp. 1-208. 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Esistono studi, anche molto accurati, su questi aspetti. Ci sono, infatti, molte informazioni sulla transizione tra le diverse categorie d’uso del suolo che sono spesso richieste per la definizione di strategie di gestione sostenibile del patrimonio paesistico-ambientale e per valutare le politiche ambientali settoriali (agricoltura, industria, turismo, ecc.). Esiste una direzione interpretativa di queste trasformazioni da un uso “naturale” (foreste e parchi) a un uso “semi-naturale” (in agricoltura) o artificiale’ (edilizia, industria, infrastrutture). Tali transizioni, determinano la perdita, nella maggior parte dei casi permanente e irreversibile, di suolo fertile, e producono altri impatti negativi, quali la frammentazione del territorio, la riduzione della biodiversità, le alterazioni del ciclo idrogeologico e le modificazioni microclimatiche. Questo non c’è solo per i suoli ma anche per i mari, per il clima, per sistemi complessi come le coste, ecc. Allo stesso modo sono numerosi gli studi e le ricerche relativi agli ambienti (in senso ecologico), il territorio (inteso come organizzazione), i luoghi (in senso cognitivo e storico), il locale (in senso relazionale). Le forme sociali nello spazio (nei sensi e significati prima riassunti) sono soggette a tre conflittualità che determinano situazioni in equilibrio instabile. A) il conflitto tra decentramento (di cui sono manifestazioni i decentramenti amministrativi, il federalismo, le politiche di sviluppo locali, ecc) e integrazione (soprattutto economica, con la globalizzazione ma anche telematica, delle infrastrutture, politica , ecc); B) il conflitto tra processi di individualismo anomico mobile e corporativismo (inteso come una sorta di autoreferenzialità locale); C) il conflitto tra razionalità economica (urbanesimo, economie di scala, eccellenza nei servizi urbani, monopolio, ecc) e razionalità ecologica (autosufficienza, rivalutazione attività primarie, concorrenza, ecc). Decentramento, corporativismo e razionalità ecologica hanno un contenuto centripeto e moltiplicativo, integrazione, individualismo e razionalità economica hanno un contenuto centrifugo e uniformatore. E’ evidente, per chi abbia un minimo di esperienza, che questa semplificazione della complessità ha una mera utilità descrittiva poiché per loro natura gli eventi sociali e i problemi che producono hanno sempre una natura complessa e controversa. Perciò non si considerino le polarizzazioni nei tre conflitti descritti come le uniche possibili, tra esse ci sono innumerevoli possibilità di declinazioni diverse. Per lo stesso motivo non c’è ragione, se non nel pregiudizio o nell’ideologia (che a ben vedere non è che un pregiudizio sul mondo intero) di prendere, a priori, una posizione favorevole all’una o all’altra. Sono due modelli interpretativi che hanno sicuramente una loro valenza politica ma non è necessario ottenebrare l’intelligenza per avere una propria predilezione teorica. Chi scrive, ad esempio, ritiene che i fenomeni che consolidano le comunità locali siano preferibili a quelli che le erodono o le distruggono. E’ chiaramente un modo di vedere che non dovrebbe impedire di valutare gli aspetti positivi che hanno (e li hanno quasi sempre) anche fenomeni che vanno in direzione opposta a quella che si considera “buona” per adesione ad una visione del mondo. 1 Per citarne uno, di rilevante qualità, si pensi alle ricerche dell’European enviroment agency e dell’ISPRA sulla perdita di superfici territoriali, in particolare agricole, raccolte nel programma CORINE (Coordination of information on the environment). Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 73 Il fatto che si scambino metodi di progettazione, in particolare territoriale, per strumenti di comprensione della realtà progettata e che rinominino consolidati strumenti con nuovi nomi (oggi dal generale al particolare è chiamato top-down e il processo inverso bottom-up) non cambia la natura dei problemi né la loro complessità. Come dimostra la divertente vignetta a fianco di Larson che siamo abituati a considerare solo nella sua parte destra (top-down) e non nelle implicazioni rappresentate a sinistra (bottom-up). Lo spazio naturale diventa sociale ogni volta che viene usato, qualsiasi sia l’uso cui esso è sottoposto. In questo modo esso assume significato (giuridico, economico, simbolico ecc.) e diventa “altro” da ciò che era, diventa un luogo. Numerosi sono i contributi che analizzano i diversi modelli di “uso” dello spazio. Possiamo fare una riduzione dicendo che possono essere definiti come approcci: Ecologici nel quale lo spazio è inteso come ambiente al quale anche la nostra specie attua pratiche di adattamento il cui elemento centrale sono gli equilibri naturali definiti in relazione ad aree e popolazioni ben definite. Questo approccio di ricerca si declina in: ecologia sociale, che studia le specializzazioni funzionali dentro al territorio inteso come un organismo capace di processi di adattamento. ecologia delle popolazioni, che studia l’ambiente come teatro di interazioni tra popolazioni e specie ove si svilupano competizione e collaborazione. ecologia sistemica che teorizza le relazioni tra specie come una catena di interdipendenze governate dalla seconda legge della termodinamica o entropia che evidenzia il senso del limite ed ha identificato concetti come gli indici di sostenibilità e di impronta ecologica. Organizzativi nei quali lo spazio è inteso come territorio nel quale si premiano le competenze di sistemi dominati dalla tecnica, dalle specializzazioni e dai bisogni sociali. I sistemi sociali tendono così a divenire più complessi e a reagire ai vincoli ambientali con maggiore o minore flessibilità sia nell’insieme sia nelle singole parti del sistema. Questa logica si traduce con una specializzazione e compartimentazione del territorio (urbano, infrastrutture, agricolo, protetto, parchi, ecc..). Questo modello è quello tipico occidentale e, in generale ha un cattivo rapporto con l’incertezza e l’imprevedibile. S’affida in modo irrazionale alla tecnica, alla tecnologia e alla pianificazione affidando ad esse funzioni sociali rassicuranti e riduce la percezione della responsabilità sociale degli attori. Le città e l’urbanesimo contemporaneo sono nei fatti un dispositivo tecnico per il controllo capillare del territorio. Poi però assistiamo alla loro inabitabilità e alle periferie che sono il regno del caos e la dimostrazione della inconsistenza dell’illusione tecnicista. Per sintetizzare l’organizzazione territoriale risponde più a criteri tecnici della divisione del lavoro e delle attività produttive che a criteri di qualità della residenza umana. Culturali nei quali prevale l’aspetto percettivo dello spazio e i modi con i quali gli umani riconoscono il proprio ambiente. L’uso dello spazio diviene fortemente simbolico ed è uno degli elementi dell’identità di coloro che lo abitano. In questo caso c’è una visione cognitiva dello spazio che ha al proprio centro la relazione vicino-lontano (prossemica sociale). Nota la tassonomia di Kevin Lynch su percorsi, margini, quartieri, nodi, riferimenti che si presente come un clichè utile per interpretare e comprendere un’area e le sue funzioni simboliche. In questo caso si parla di luoghi con caratteri unici, oggettivi, dotati di significato sociale condiviso. Le piccole patrie e il ritorno a luoghi di vita colmi di significati fuori dall’urbano dal senso indistinto e sradicante, sono manifestazioni di questo approccio così come la teoria della contrapposizione tra urbano e rurale. Una visione fortemente ideologica. 74 Diego Cason Relazionale nei quali lo spazio è inteso come luogo, necessariamente limitato ove avvengono interazioni significative e non meramente strumentali. Ciò che dà senso e funzione ai luoghi sono i rapporti sociali che si possono definire come un “comportamento reciproco dotato di senso e orientato in modo da consolidare e rinforzare tale senso”. E’ un orientamento verso l’altro che assume significato proprio in base al luogo ove questa relazione avviene e, alo stesso tempo, il luogo assume significato in base alle relazioni che in esso avvengono. Le relazioni non sono solo funzionali ma hanno un proprio valore autonomo che si manifesta nella forma delle reti (flusso continuo di contatti) e nella reciprocità-gratuità. Queste relazioni reiterate diventano legami sociali che legano le persone e le costituisce in comunità fortemente ancorate allo spazio che abitano. Non è difficile comprendere come i meccanismi dell’inclusione-esclusione operino in quest’approccio allo spazio. Appartengono a questa situazione le analisi della strumentalità urbana (densità, ampiezza demografica, eterogeneità, promiscuità), dei non luoghi,della definizione del concetto di paesaggio, dell’appartenenza territoriale, delle identità locali. In sintesi questi sono i riferimenti teorici più rilevanti intorno ai quali si sviluppa la riflessione sugli usi dello spazio e del territorio. Quali riflessioni, sulla base di questa ricognizione astratta, possiamo fare, in relazione alle trasformazioni socio economiche avvenute in area dolomitica, per poter valutare le prospettive future in questa parte di territorio? Ritengo sia utile fare una prima valutazione dei più rilevanti cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni. Per non appesantire questa presentazione mi limito ad elencare i cinque che ritengo più importanti: 1) Abbandono quasi completo delle attività agricole sopra gli 800 metri di quota e formidabile riduzione a bassa quota con trasformazione delle tipologie d’impresa, delle pratiche colturali, dei metodi di allevamento e della silvicoltura. Gli attivi in agricoltura cambiano dal 54% del 1951 al 2,1% del 2011 in Provincia di Belluno. Dalla varietà colturale tipica dell’agricoltura di montagna alla monocoltura (mais e foraggio a Belluno, meleti e vigneti a Trento e Bolzano.) Il ridursi degli agricoltori produce riduce la minuta manutenzione del territorio, penalizza il turismo, rende più instabili i versanti, riduce la biodiversità e rende monotoni i paesaggi con l’espansione del bosco, impedisce la produzione di alimenti di qualità locali, apre la strada alle decisioni tecniche in luogo di quelle basate sull’esperienza riducendo il controllo democratico sullo sviluppo locale. 2) Redistribuzione degli attivi verso le attività manifatturiere a Belluno (47% degli occupati e 58,6% degli addetti nell’industria e 48% nei servizi) e verso un mix di servizi a Trento (28% occupati nell’industria, 67% nei servizi) e Bolzano (24% occupati nell’industria, 69% nei servizi). Questo squilibrio espone l’occupazione in provincia di Belluno a gravi rischi di ridimensionamento, in un periodo troppo breve per riuscire a creare nei sevizi nuova occupazione in tempo utile. Nelle provincie montane contermini gli addetti in manifatture sono meno del 30%. E’ evidente quale sia l’esposizione della occupazione bellunese alla concorrenza internazionale. 3) Crescente mobilità territoriale con fenomeni di crescita demografica delle aree urbane a bassa quota e abbandono delle residenze d’alta quota con conseguente rapido e rilevante abbandono della montagna. Fenomeno più evidente a Belluno (- 30% della popolazione residente, dal 1951 al 2001, in Agordino, Cadore, Zoldano, contro la media provinciale del -9%). Lo spopolamento diminuisce ma non si ferma nell’ultimo decennio in particolare nelle Dolomiti bellunesi. La mobilità non è solo definitiva ma anche pendolare, il 75% del traffico è prodotto da microspostamenti indotto dal lavoro e dall’accesso ai servizi pubblici e privati. La conseguenza è che i veicoli circolanti in provincia di Belluno, dal 1981, sono raddoppiati, sono oggi circa 160 mila mentre la rete stradale è rimasta sostanzialmente immutata. Questo in paesi di montagna crea notevoli problemi nella gestione del traffico locale e turistico e nel consumo di territorio per parcheggi. 4) Aumento delle abitazioni non occupate che sono il 36% del totale a Belluno, il 34% a Trento e il 13% a Bolzano. In montagna il dato medio peggiora, e di molto. Ad esempio, a Selva di Cadore ci sono 300 famiglie e 800 abitazioni e le abitazioni non occupate sono il 77% del totale, a San Vito di Cadore sono il 70% a Cortina d’Ampezzo sono il 60%. In questo modo s’è verificato un rilevante trasferimento delle proprietà immobiliari dai residenti a non residenti. Il fenomeno è diverso nei poli dell’abbandono (Gosaldo) e nei poli dello sviluppo. Nei primi le abitazioni non occupate sono quelle dei residenti, abbandonate o vendute, nei secondi sono seconde abitazioni a Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 75 scopo turistico prevalentemente di nuova costruzione. In entrambi i casi c’è una perdita evidente di controllo sul patrimonio territoriale. Questo produce un effetto paradossale. I luoghi in cui manca lo sviluppo vengono abbandonati per mancanza di lavoro, quello dove lo sviluppo c’è, trainato dal turismo o dalle manifatture, vengono abbandonati per la crescita della rendita immobiliare. 5) Formidabile cambiamento della struttura demografica delle comunità e delle famiglie. Le prime si ristrutturano intorno ai poli di accumulazione del valore aggiunto manifatturiero (per esempio le aree Agordo-Taibon, Longarone-Puos d’Alpago, Sedico-Trichiana, Feltre-Fonzaso e in parte Domegge-Pieve di Cadore) e turistico (Cortina-San Vito di Cadore, Alleghe-Selva-Rocca Pietore-Zoldo Alto, Falcade, Livinallongo, Auronzo-Padola, Sappada) ed abbandonalo le aree marginali (Basso Cadore, Comelico, Basso Agordino, Basso Feltrino, Lamon e Sovramonte). Ad esempio in Agordino i residenti sono diminuiti del 4% negli ultimi 10 anni, ma a Gosaldo il calo è stato del 14,5% mentre Taibon cresce dell’1,8%. Ma la manifattura in alcuni casi produce effetti paradossali come il casi di Agordo dove gli addetti alla manifattura sono il 94% dei residenti! E’ evidente che questi poli sono attrattivi di addetti e occupati da tuto il bacino circostante e oltre, innescando una mobilità, che in montagna, assume ancora di più il significato di scadimento della qualità della vita. Le famiglie aumentano di numero e si riducono nei componenti, ci sono sempre meno matrimoni (664 nel 2009 contro i 1.780 del 1971) e sempre più tardi, si fanno sempre meno figli e sempre più tardi, ci sono sempre più famiglie formate da una sola persona. Il peso sociale di giovani ed anziani si rovescia ed oggi ci sono 50 mila anziani con più di 65 anni e 27 mila giovani con meno di 15 anni. In alcuni Comuni ci sono 3 anziani per ogni giovane e nasce un bambino ogni due anni e dei 1.900 bambini nati nel 2009 un terzo è nato fuori dal matrimonio. Inoltre cresce l’instabilità coniugale e i divorziati nel 1991 erano 1.300 ed oggi sono circa 4.700. Il crollo nella nuzialità (3 matrimoni su 1.000 residenti) e della natalità (7,96 ogni 1.000 residenti), largamente al di sotto della media nazionale e Veneta hanno prodotto un calo dei giovani dai 25 ai 29 anni da 9.500 a 6.500 dal 2000 al 2009 determinando una perdita di circa 8 mila attivi in dieci anni contraendo il numero degli attivi di circa il 10%. 6) Evoluzione del turismo squilibrata su alcune località e con una crescita troppo debole. Il turismo ha però trasformato in modo molto rilevante l’uso del territorio e la forma mentis dei residenti. Esso è fortemente pulsante tra le due stagioni, il 51% in estate e 41% in inverno, solo l’8% nei cinque mesi di fuori stagione. Ciò significa accogliere 830 mila ospiti ogni anno, e 4,5 milioni di presenze in una provincia con 212 mila residenti e che questi ospiti si concentrano in un terzo dei Comuni determinando in media circa 14 mila arrivi per Comune, che significa circa 33 arrivi al giorno e un totale medio di 71 mila presenze per Comune con circa 200 presenze al giorno. Questo flusso determina un mercato del lavoro nel turismo che assorbe circa 8.000 occupati a stagione che devono essere “importati” su un totale di circa 110 mila occupati totali. Si comprende da queste scarne cifre quale sia l’impatto del turismo su comunità indebolite demograficamente, sottoposte ad un andamento pulsante di popolazione, che muta i rapporti e la gerarchia degli interessi locali, mettendo quelli dei residenti in secondo piano rispetto a quelli degli ospiti. Questo è particolarmente evidente sul mercato immobiliare dove la rendita dei beni immobili, scaccia i residenti dal loro Comune di residenza ed impedisce alle imprese locali di reggere la concorrenza indebolendo la struttura produttiva stabile e locale. Questo in particolare in comunità che si votano alla monocultura produttiva esponendosi come tutti gli organismi troppo semplici alle avversità di settore senza avere alternative praticabili. L’evoluzione recente della provincia di Belluno ha prodotto due effetti principali che s’innestano su eventi avvenuti in precedenza: a) frattura nelle dinamiche evolutive tra la Val Belluna e la parte montana del territorio provinciale; b) ulteriore frattura tra le aree montane a vocazione turistica e quelle escluse, per varie ragione, dalla crescita dei servizi turistici. 76 Diego Cason Sulle comunità residenti questa frantumazione ha prodotto: la percezione delle proprie debolezze, la riduzione della stima di sé e della fiducia nelle proprie competenze e capacità, un tentativo di ritrovare in immagini streotipate e inattuali un rifugio dalle aperture indotte dalla globalizzazione e dalla conseguente concorrenza internazionale, un processo di chiusura che contrasta con le esigenze di sostituzione degli attivi mancanti (politiche immigratorie insufficienti), una grave difficoltà nel ricambio delle imprese attive (sono 15 mila da almeno 20 anni con un vistoso calo di piccole manifatture e la crescita di minuscole imprese di costruzioni), una riduzione delle risorse pubbliche che impedirà a breve di fornire altri servizi essenziali per la residenza in quota. In questa situazione è facile per una comunità pensare che un qualsiasi investimento, una qualsiasi opportunità di lavoro e di produzione sia una cosa buona, a priori. Invece è proprio in queste situazioni di grave disagio che è necessario avere la vista lunga, che è mancata nei periodi di sviluppo rapido intenso e radicale. Si tratta di valutare con attenzione che una qualsiasi attività d’impresa ha necessità di fattori di produzione in equilibrio e che se il fattore più debole è il lavoro è inutile accrescere il capitale o le risorse naturali. Il fattore critico insufficiente sarà sempre un ostacolo alla crescita. Per capirci se manca lievito nella pasta della pizza non serve a nulla aggiungere farina ed acqua perché l’assenza del lievito diventerà ancora più critica ed ancora più penalizzante. Nell’ambito di questo ragionamento, senza preclusioni ideologiche o preconcette è possibile ad esempio valutare l’opportunità o meno di introdurre nuovi tipi di utilizzo del territorio montano che rispetto ad altre aree pone alcuni problemi particolari a cominciare dalla sua instabilità irriducibile. Alcune delle proposte di mutamento delle “destinazioni d’uso” meritano un approfondimento particolare perché emergenti, paradigmatiche e praticabili da subito. Anche in questo caso ne elenco alcune che meriterebbero ben altra intensità d’interesse ed analisi: La viabilità e l’accessibilità delle località montane. E’ un bene rendere maggiormente accessibili e quindi penetrabili dai consumatori le località montane turistiche e non turistiche. Quali vantaggi e quali rischi sollevano? Serve una viabilità veloce di attraversamento o una trasversale di rete? E vero che la migliore viabilità aumenta i flussi turistici e il business ad esso collegato? Gli impianti per lo sci alpino. Quando e perché gli impianti favoriscono lo sviluppo delle comunità locali? Si può dare per scontato che la presenza d’impianti sia fattore strategico per il turismo invernale? La doppia stagionalità è indispensabile per tutti i tipi di strutture ricettive? Si può dare per scontata la produzione di effetti benefici per la comunità locale? Quali sono i costi sociali di questo tipo d’investimento? Si può pensare ad un turismo invernale senza impianti di risalita e piste di discesa? L’ulteriore sfruttamento delle acque per la produzione di energia idroelettrica e per utilizzi agricoli della pianura. C’è ancora la possibilità di sottrarre acque agli alvei dei torrenti montani? Quale vantaggio deriva alla popolazione locale dallo sfruttamento idroelettrico? L’acqua è un bene disponibile o una merce? L’incremento degli indici di edificabilità, la trasformazione d’uso degli immobili agricoli e l’espansione dei volumi degli edifici esistenti. E’ un bene incrementare la dotazione di immobili in una provincia che ha già 50 mila seconde case? Quali effetti ha sull’offerta turistica e sui servizi agli ospiti, quali effetti sui tipi di ricettività locale? Chi sopporta gli oneri che derivano dalla manutenzione degli impianti tecnologici e delle reti pubbliche? Il riutilizzo delle capacità produttive agricole in montagna, per coltivazioni specializzate e per allevamenti di qualità. Ci sono opportunità di crescita nel settore primario in tempi di concorrenza globale sui prodotti agricoli? Il modello di agricoltura estensiva è un modello applicabile in montagna, con quali costi e con quali ricavi? A quali tipi di prodotti competitivi è possibile pensare in montagna? Ci sono modelli diversi di utilizzo e governo dei boschi alpini rispetto a quelli tradizionali? Le bio masse forestali possono essere un nuovo modo per coltivare Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 77 boschi di scadente qualita? C’è il modo per ricostruire una filiera del legno sostanzialmente abbandonata negli ultimi 30 anni salvo eccezioni? Quali sono le possibili applicazioni in ambito edilizio per il risparmio energetico, per la produzione di energia eolica e fotovoltaica al fine di creare una filiera virtuosa della certificazione degli edifici esistenti invece che costruirne di nuovi? Quali sono le possibili applicazioni dei network in montagna. E’ possibile pensare ad una nuova residenza di qualità in montagna con l’applicazione di procedure di lavoro a domicilio, a progetto, a distanza o di telelavoro? Come ultima considerazione dopo tanti interrogativi. E’ possibile che le dolomiti siano oggetti di tre quattro modelli di “governance pubblica” diversi dei quali tre hanno a disposizione risorse incomparabili con quelle disponibili nell’area dolomitica bellunese? Quali effetti produce questo squilibrio sulle comunità? Possono le une contare, per sempre, sul privilegio acquisto e possono le altre reggere una concorrenza sleale che svuota ogni possibile progetto in ambito turistico ed agricolo? Il problema è: come affrontare le sfide della post-modernità globale, le sue opportunità e i problemi che pone, consolidando le comunità locali mantenendole adatte alla concorrenza internazionale senza esporle al pericolo di dissoluzione? Come coniugare rafforzamento dei vincoli comunitari aprendo i confini, integrando lo straniero, ridimensionando la manifattura, sviluppando i servizi, in particolare turistici, e la qualità della vita? Per fare un esempio di cambiamento in corso sulle fruizioni ed usi della montagna proviamo ad approfondire la riflessione sul recente progetto di utilizzo per lo sci alpino del territorio a sud del Pelmo. La proposta che è contenuta entro lo strumento, che dovrebbe essere di programmazione regionale, del Piano neve. Il quale non programma ma accumula interventi, senza definire strategie, priorità e procedure di realizzazione e accompagnamento per l’integrazione funzionale a un offerta concorrenziale. Nel piano sono previsti almeno otto grandi nuovi interventi (Casera Razzo 150 milioni, Pelmo 80 milioni, Val Marzon 100 milioni, Forca Rossa 60 milioni, Palantina 60 milioni, Verena-Larici, Gallio-Val Maron, Tonezza.) per un totale di investimenti valutabile in circa 600-700 milioni di euro quando nel bilancio 2011 della regione sono previsti per il 2011, per le attività turistiche in complesso (F0011), venti milioni di euro e per la tutela del territorio montano 2 (F0013) 29 milioni di euro. Tali previsioni sono state fatte nonostante lo stesso Piano neve affermi che: “In questi ultimi anni nelle stazioni invernali alpine e estere si è notato un regresso dell’interesse per gli sport invernali da parte degli utenti. E’ probabile che tale regresso sia da imputarsi ad una situazione di crisi economica delle famiglie, meno disponibili a pagare l’aumento dei costi dei servizi delle stazioni alpine dovuti al progressivo spopolamento, e conseguente carenza di manodopera locale. A causa degli elevati prezzi delle abitazioni il fenomeno dello spopolamento delle comunità alpine risulta essere universalmente diffuso, con la conseguente continua migrazione dei servizi generali che si spostano verso la pianura, al punto che alcuni paesi troppo piccoli rimangono addirittura sprovvisti di servizio postale. Questo comporta ovviamente un aumento di costi generali. La migrazione della parte più giovane della popolazione ha causato la piena occupazione e la carenza di manodopera, in particolare della manodopera stagionale impiegata normalmente nelle aziende turistiche. Il fenomeno è grave perché provoca un aumento del costo del lavoro a causa della manodopera contesa fra le varie aziende. Altri aumenti sono dovuti alla necessità di importare manodopera dall’esterno cui bisogna offrire vitto e alloggio oltre allo stipendio.” 2 Il Piano appare assai carente sotto il profilo dell’analisi di fattibilità economica degli interventi. Se si considera che, i numerosi nuovi collegamenti intervallivi comporterebbero la necessità di imponenti investimenti finanziari, (a fronte della più volte dichiarata contrazione della domanda e della riduzione della durata della stagione anche a seguito delle note modificazioni climatiche) non si vede con quali risorse essi potrebbero essere finanziati, anche in considerazione della posizione della Commissione Europea che ha più volte ribadito (si veda, ad es., la decisione 27 febbraio 2008 su aiuto di Stato n. 731/2007 Italia) che sono da ritenersi legittimi eventuali interventi di sostegno pubblico solo se disposti a favore di stazioni di sport invernali di interesse puramente locale (intendendosi come tali quelle aventi un numero di impianti non superiore a 3, per una lunghezza complessiva non superiore a 3 km, ovvero aventi un numero di posti letto alberghieri disponibili non superiore a 2000 ovvero con un numero di pass settimanali venduti non superiore al 15% del numero totale). 78 Diego Cason Il turismo indotto dalla pratica dello sci alpino, nelle sue varie forme (come lo snow board) è 3 un segmento che si caratterizza per la propria giovane età e dei suoi praticanti. Lo sci come offerta di piste ed impianti di risalita ha meno di mezzo secolo mentre la fruizione turistica delle Alpi ha due secoli di vita. Malgrado la giovane età, il settore è già maturo. Ha avuto una sua prima configurazione tra gli anni '50 e '60, si è rapidamente sviluppato negli anni '70 e '80 ma mostra evidenti segni di rallentamento già dagli anni '90. Negli ultimi otto anni c’è una stagnazione della domanda e le previsioni indicano una crescita, globale non superiore all'uno o due per cento l'anno. Le attività collegate agli sport invernali restano però molto rilevanti e, in Europa, producono un business di circa 20 miliardi di Euro con un'offerta che riguarda 10 Paesi e oltre 1000 stazioni che dispongono di circa 10-11 milioni di letti turistici, con quattro Paesi leader (Francia, Austria, Svizzera e Italia). La domanda, in Europa, interessa quindici Paesi da cui si muovono annualmente tra i 35 e i 40 milioni tra sciatori, snowborder e accompagnatori. Il modello di offerta americano è diverso da quello alpino, perché la domanda è prevalentemente domestica (con l’eccezione di Aspen e Veil) ma anche oltre oceano la domanda è modesta. E’ quindi un settore che è in fase di piena maturità. Per prima cosa su mercati di così grandi dimensioni a crescita lenta, la concorrenza tende ad una crescita vigorosa (i modelli di successo trovano sempre imitatori tardivi e quindi perciò votati all’insuccesso). Le imprese sono tali solo se crescono ma crescere, in un mercato fermo, significa sottrarre clientela e quote di mercato ai concorrenti. L'esito sarà l’eliminazione, nei prossimi 10-20 anni, dei competitor più deboli e l'aumento delle dimensioni medie delle imprese che non corrisponde all’aumento delle dimensioni dei comprensori. Si assiste già alla concentrazione dell'offerta, necessaria per affrontare la competizione. In quest’ambito offerte puntuali e locali non hanno alcuna possibilità di sopravvivere. Le stazioni sciistiche non potranno più puntare per competere soltanto sulla qualità delle piste e degli impianti di risalita. I clienti sempre più internazionali, potranno confrontare il mix di servizi messo loro a disposizione dalle stazioni nel (accessibilità, accoglienza, ricettività, ecc.) e sceglierà. Ciò esige grande capacità di management delle imprese nei comprensori sciistici, per determinare adeguata integrazione dell'offerta. Si assiste anche alla evidente divaricazione tra l’offerta di stazioni locali e quelle internazionali. Le prime sono destinate a specializzarsi con grandi difficoltà di equilibrio economico costrette a ricorrere alle amministrazioni pubbliche locali per il finanziamento degli investimenti. E’ evidente che le amministrazioni delle provincie e regioni autonome ai nostri confini avranno risorse almeno 10 volte più rilevanti di quelle messe a disposizione del bellunese dalla regione Veneto. La questione è così rilevante che anche il Piano neve regionale ne fa cenno: “La concorrenza effettuata dalle regioni confinanti è per la regione Veneto motivo di rilevante preoccupazione. Le amministrazioni della regione Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto-Adige hanno stanziato elevate somme a sostegno dell’industria turistica, sia per la ricettività tradizionale, sia per gli impianti a fune e le piste da sci. Tale fenomeno è rilevante particolarmente in provincia di Bolzano, dove si è avuto un rapido rinnovo degli impianti di trasporto con la sostituzione progressiva di vecchie sciovie e seggiovie con moderni impianti ad agganciamento automatico, molto più confortevoli e assai più rapidi e quindi più apprezzati da parte del turista. Questa situazione concorrenziale anomala è subita anche dalle stazioni turistiche austriache, che non godono di pari aiuti pubblici, tanto da sfociare in una denuncia presso l’Unione Europea di violazione delle regole di concorrenza da parte delle regioni italiane a statuto speciale. Le regioni vicine sono in definitiva riuscite ad accumulare un notevole vantaggio nei confronti delle strutture turistiche invernali della regione Veneto.” 3 Secondo un’analisi del CISET (Centro Internazionale di Studi sull’Economia Turistica) gli sciatori sono persone giovani (quasi il 78% ha un’età inferiore ai 44 anni, di cui il 34% tra 25 e 34 anni) e di livello socio-economico medio-alto (l’80% è in possesso di un diploma di scuola media superiore o della laurea, il 20% è imprenditore/libero professionista, mentre il 33% è impiegato). Lo sci alpino è quello che raccoglie la maggior parte degli appassionati (78,7%), seguito dallo sci di fondo (12,1%, con punte del 25,6% tra le persone dai 55 anni in su) e dallo snowboard (4,7%), quest’ultimo praticato soprattutto dagli uomini (7,4% contro 2,1% tra le donne) e dai giovani (9,2% tra le persone al di sotto dei 34 anni). In genere, oltre il 60% degli sciatori scia da più di dieci anni mentre il 21% ha un‘esperienza da cinque a dieci anni. Il Trentino è la principale area montana di destinazione degli sciatori italiani (39%), seguita dall'Alto Adige (14%), dal Veneto (12%), dalla Lombardia (9%) e dalla Valle d’Aosta (6%). Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 79 Per quelle internazionali il successo (o la sopravvivenza), saranno determinati dal mercato, dai propri vantaggi competitivi, dalla capacità di anticipare i concorrenti comprendendo in anticipo i processi evolutivi del settore. Il progetto del collegamento sciistico S.Vito Civetta prevede un investimento di 85 milioni di euro, per realizzare 7 impianti di risalita e 16 piste. Per realizzare gli impianti si dovranno spendere 43 milioni di euro, per l'elettrificazione 2.750.000 euro; per i servizi 3.550.000 euro; per l'innevamento 12 milioni; per le piste 7.500.000 euro; per le apparecchiature skipass 700 mila euro; per i mezzi battipista 2 milioni; per i parcheggi e la viabilità 2 milioni e mezzo; per le spese tecniche 6 milioni e 5 milioni per i costi della fase di attivazione. S’ipotizza che gli impianti possano essere attivi per 120 giornate, con 2.150.000 passaggi che produrrebbero un ricavo annuo di 8.478.000 euro. Tale ipotesi è stata fatta confrontando i passaggi del Faloria dove, nella stagione 2009-2010, i passaggi sono stati 2.200.000 e della Tofana dove sono stati 3 milioni, e del Civetta dove stati 6 milioni e mezzo. Il piano economico finanziario per realizzare il collegamento prevede di reperire il 65% delle risorse dalle banche, ossia 55 milioni di euro, il 14% dovrebbe arrivare dai contributi pubblici, (cioè una cifra attorno ai 12 milioni di euro), il 5% da investitori locali cioè 3 milioni e mezzo, e il 16% da investitori finanziari, percentuale che corrisponde a 14 milioni e mezzo di euro. Tutto questo va inserito nello scenario di riferimento che ha le seguenti caratteristiche: I cambiamenti climatici. La temperatura media del pianeta è aumentata di circa 0.6-1° C negli ultimi 100 anni (IPCC 2001- International Panel Climate Change formato dai massimi esperti mondiali sul clima). Gli anni alla fine degli anni 90 sono stati i più caldi del secolo. Le temperature globali aumenteranno in futuro. Naturalmente ci sono molte incertezze sugli scenari futuri del riscaldamento globale. IPCC stima un incremento di temperature di 1.4-5.8° C sino al 2100. Il riscaldamento globale sarà più forte sulla superficie terrestre, l’emisfero settentrionale e in inverno: la localizzazione e la stagione del turismo montano invernale. L’impatto del cambiamento climatico sulle località invernali può essere più pesante nei paesi come la Germania e in Austria, a causa delle basse altitudini delle stazioni sciistiche. In Austria, l’attuale linea d’innevamento sarà 200-300 metri più in alto con il cambiamento climatico nei prossimi 30-50 anni. Molti paesi di montagna, soprattutto quelli situati nell’Austria Centrale e orientale, perderanno la loro industria turistica invernale a causa del cambiamento climatico (Breiling & Charanza 1999). In Italia metà delle stazioni sciistiche si trovano sotto i 1300 metri. Rispetto al decennio 1982 1992 nel decennio 1993/2003 le precipitazioni nevose invernali nelle dolomiti sono diminuite secondo quanto riportato nella tabella seguente. Il calo medio del manto nevoso è stato di 1,91 metri contro una riduzione media nell’arco alpino di -0,75 mt. Se l’altitudine per la disponibilità di neve si alza ai 1500 metri, a causa del cambiamento climatico, gli sport invernali saranno solo possibili nelle alte zone delle aree sciistiche, e molte stazioni non avranno nessuna autosufficienza economica per il futuro. 80 Diego Cason 800 700 600 500 400 300 200 y = -8,1752x + 507,26 y = -5,4888x + 478,25 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 1987 1986 1985 1984 1983 1982 100 y = -7,1854x + 402,65 Alpi Occidentali Alpi Centrali Alpi Orientali Lineare (Alpi Occidentali) Lineare (Alpi Centrali) Lineare (Alpi Orientali) Quantità medie annuali (anno idrologico) di neve fresca (in cm) relative ai tre settori alpini, 1982-2003 Si afferma che questo problema può essere superato con l’innevamento programmato o artificiale. Gli investimenti nell'innevamento programmato, iniziati timidamente negli anni '80, oggi sono indispensabili per la sopravvivenza economica di una stazione di dimensioni medio-grandi. Anni fa gli impianti per produrre neve difficilmente arrivavano ai 2000 metri oggi sono realizzati, in certi casi, anche al di sopra dei 2500 metri. Queste apparecchiature garantiscono la produzione di neve solo a partire da certe temperature. Se oltre a non nevicare aumenterà progressivamente la temperatura dell'aria, anche tale rimedio rischierà di essere un'arma spuntata. E stazioni con poca neve o con neve di scarsa qualità saranno abbandonate dalla clientela perché in difetto proprio della materia prima. Con un metro cubo di acqua si possono produrre in media da 2 a 2,5 metri cubi di neve; per l’innevamento di base di una pista da 1 ha occorrono almeno 1.000 metri cubi di acqua, mentre gli innevamenti successivi richiedono un consumo superiore. La CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) che per i 23.800 ha di piste innevabili delle Alpi, occorrono ogni anno circa 95 milioni di metri cubi di acqua, pari al consumo annuo di una città con 1,5 milioni di abitanti. È da tenere in particolare attenzione che l’acqua utilizzata è attinta dalla rete idrica naturale e da quella potabile, eventualmente anche con la costruzione di bacini di raccolta che garantiscono la disponibilità in breve tempo di grandi quantità di acqua, in un periodo di scarsità. È stato calcolato che per innevare l’intero arco alpino (23.800 ha), il consumo energetico totale è pari a 600 GWh, corrispondente all’incirca al consumo annuo di energia elettrica di 130.000 famiglie di quattro persone. In Provincia di Bolzano, dove s’innevano artificialmente i due terzi delle piste da sci, i consumi idrici aumentano: per alimentare i cannoni sono quasi raddoppiati in cinque anni, passando dai 2,2 milioni di metri cubi del 1996/1997 ai quasi 4 milioni del 2003/2004. Questo trend è indipendente dalle condizioni nivo-meteorologiche locali testimoniando così come sia più importante avere a disposizione l’acqua in novembre e dicembre, quando è preparato “il fondo” del manto nevoso. Tutti aspetti di cui non si tiene conto nel valutare il bilancio fra costi e benefici. I costi, com’è ovvio, non sono solo ambientali ed energetici; CIPRA International ha calcolato che per ogni ettaro di pista da innevare si spendono in investimenti mediamente 136.000 euro/anno. Gli impianti d’innevamento presenti nelle Alpi hanno comportato quindi un investimento superiore ai 3 miliardi di euro. Le modificazioni di gusti e di abitudini dei consumatori Si fanno sempre più vacanze brevi, e più frequenti con la ricerca di maggiore qualità e questo è un elemento che deve indurre a ri-pensare offerta e organizzazione delle stazioni Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 81 turistiche. Se le settimane bianche sono in calo e sono in crescita i tre-quattro giorni, bisogna adeguare a questo i prodotti, i servizi e le tariffe. Se nella vacanza si riduce la domanda dell'attività sciistico-sportiva a vantaggio di altre si dovrebbero progettate e offrire nuove soluzioni. Queste modifiche sono riassumibili nelle seguenti tendenze: a. Lo sci diventa sempre meno un’attività familiare, per effetto della riduzione dei figli e sempre più veicolato, soprattutto in fase di apprendimento, dai gruppi sportivi e que-sto comporta una specie di mancato ricambio generazionale degli sciatori che smetto-no; b. La scelta delle località da parte della gran parte degli sciatori è piuttosto rigida perché è fortemente condizionata da costi, distanze, accessibilità, proprietà immobiliari (seconde case) e questo è particolarmente evidente per la valle del Boite che risente in modo determinante della fidelizzazione su Cortina. E’ molto difficile scardinare questa motivazione originaria. c. Cresce la domanda di attività complementari e alternative allo sci alpino. La tendenza è verso la ricerca di nuove esperienze e nuovi stimoli, e prodotti per target specifici. Questa tendenza s’inserisce in una più generale trasformazione dei modelli di consumo che, come accennato in precedenza, stimola anche a cambiare tipo di vacanza. d. Assume sempre più importanza la percezione dell’accoglienza, intesa come capacità e competenza degli operatori e dei residenti nel fornire quegli elementi immateriali del prodotto turistico che sono la cortesia, la professionalità degli operatori, la disponibilità della popolazione locale, la chiarezza delle offerte, la lealtà economica dei prezzi, la serenità e la sicurezza degli ambienti. e. Gli ospiti invernali non sono solo sciatori gli sciatori non sono tutti uguali. Le località alpine sono frequentate anche da persone che non praticano gli sport invernali tradizionali (48% del totale). I non sciatori sono più anziani degli sciatori (il 37% ha più di 44 anni contro il 22% degli sciatori), prevalentemente di sesso femminile (65% contro 35% uomini) e di profilo socio-economico medio. Tra i non sciatori due sono i principali segmenti di domanda: I non sciatori “al seguito”, cioè persone che non sciano e che trascorrono una vacanza in montagna perché “costretti” da familiari, parenti e amici amanti degli sport invernali. Rappresentano oltre l’80% dei non sciatori totali. I non sciatori indipendenti, cioè coloro che, pur non sciando, decidono in prima persona di trascorrere una vacanza sulla neve. Si tratta di una minoranza (meno del 20% del totale) che viaggia da sola oppure che, anche se con familiari e amici, partecipa attivamente alla scelta della vacanza. Gli sciatori sono almeno di due tipi: gli sciatori veri e propri e quelli vacanzieri. Quelli veri rappresentano meno di un quarto degli sciatori, sono adulti (il 65% ha tra 25 e 44 anni, mentre il 25% più di 44 anni) e di sesso maschile (52%). L’84% pratica esclusivamente sci da discesa, mentre l’11% lo sci di fondo e il 3,9% lo snowboard. Sono gli amanti per eccellenza dello sci e seguono un modello di consumo tipico degli anni ’70. Arrivano generalmente all’apertura degli impianti e trascorrono tutta la giornata sulle piste, perché lo sci è l’unica loro motivazione. Questo segmento appare progressivamente in fase di estinzione, in concomitanza con una generale modificazione dei modelli di vacanza, che investe non solo il turismo montano. La percezione è che lo sciatore puro tenderà a mantenere una quota di mercato soprattutto tra gli escursionisti del weekend. L’evoluzione in atto consiste in una tendenza alla fruizione di attività sportive e ricreative alternative o complementari allo sci tradizionale (es. escursioni in quota con gli sci, itinerari enogastronomici, ecc.). Sono molto più numerosi gli sciatori vacanzieri, che vanno in montagna non solo per sciare ma anche per svolgere altre attività durante la vacanza, e che rappresentano oltre i due terzi degli sciatori totali. Anche tra i vacanzieri prevalgano gli sciatori adulti (il 66% ha tra 25-44 anni, mentre il 21,4% dai 44 anni in su), aumenta il peso relativo dei giovani (12,6% tra 18 e 24 anni contro il 9,8% tra gli sciatori puri) e soprattutto delle donne (53% contro 47%), il che indica come questi siano i segmenti più interessati a svolgere anche attività al-ternative o complementari allo sci. Il 77,2% pratica lo sci da discesa, il 12,4% lo sci di fondo e il 4,9% lo snowboard, mentre rispetto agli sciatori puri aumenta la quota di coloro che pratica altri sport, come lo sci alpinismo, il trekking sulla neve, (5,5% contro 1,2%) . Sono in rapida espansione. Dalla vacanza sulla neve si aspettano stimoli ed esperienze, oltre l’avere piste innevate e impianti efficienti che continuano a essere richiesti. La pratica degli sport invernali rimane uno dei motivi principali alla vacanza, ma sono importanti anche il relax/contatto con la natura, la possibilità di fare passeggiate rilassanti e di visitare parchi e aree naturali. Diversamente dagli sciatori puri, le ragioni di convenienza (es. vicinanza alla residenza abituale, presenza di una seconda casa), sono meno importanti. Per 82 Diego Cason questi clienti sono rilevanti le infrastrutture e servizi per lo sci; alloggio, ristorazione e infrastrutture per altri sport; altre attività per il tempo libero; rapporto qualità/prezzo dei vari servizi; Altri elementi di scenario che non intendo approfondire sono i seguenti: L’invecchiamento della popolazione occidentale; La concorrenza di altri tipi di vacanza invernale nell’emisfero sud, resa possibile dai bassi costi dei trasporti aerei e dalla evoluzione dei mercati turistici nord e sud-americani, africani, del sud est asiatico e dell’Oceania. La necessità di preservare il capitale dell’offerta turistica estiva che non deve essere disperso dal turismo invernale. La consistente presenza di seconde case che indeboliscono le imprese turistiche alberghiere. I caratteri propri del turismo in Valle del Boite, molto condizionato da Cortina d’Ampezzo che ha caratteri di domanda e di offerta particolari e che determina in modo rilevante i flussi dell’intera valle. Non è necessario trarre conclusioni da questa incompleta serie d’informazioni. Ci basta cogliere l’essenziale, ovvero, che in sistemi complessi si interviene solo se ci sono tre requisiti: 1) la conoscenza accurata e condivisa delle variabili in campo che ci permetta di valutare con serenità e accuratezza i vantaggi e gli svantaggi delle scelte da operare; 2) la democrazia, non di facciata ma praticata, che governi le discussioni e le scelte mettendo tutti i protagonisti nelle condizioni di farsi un’idea precisa (ovviamente ognuno si farà la propria) sugli interessi comunitari e personali in gioco; 3) la montagna non serve a fare business fine a sé stesso, ben venga il business, ma solo se si traduce in consolidamento e arricchimento delle comunità locali. Questo non significa che non possano intervenire investitori estranei alla comunità locale, anzi, sono i benvenuti ma devono fare i conti anche con gli interessi di chi in montagna ci vive e lavora ogni giorno. In merito all’unica questione, parzialmente affrontata, della possibile costruzione di nuovi impianti tra Pelmo e Civetta forse i requisiti ricordati non sono ancora del tutto presenti. Appare conveniente valutare con maggiore attenzione il problema e solo dopo prendere delle decisione dalle quali dipende non sono il presente dei montanari ma anche il futuro dei loro figli e nipoti. CONCLUSIONI Anche se in modo non del tutto soddisfacente, da questa sommaria analisi appare evidente che la montagna, in particolare, le Dolomiti bellunesi ha la necessità di trovare nuove forme di fruizione del territorio. Queste nuove forme devono però essere adottate entro lo scenario internazionale in cui si pongono e non possono applicare ricette che funzionavano in passato ma che oggi non sono più in grado di soddisfare il bisogno di espansione dell’occupazione e di ricerca di nuovi strumenti per la produzione di valore aggiunto locale. Bisogna essere consapevoli che in assenza di una capacità innovativa, rispettosa della sostenibilità ambientale, per le comunità della montagna bellunese non c’è che la prospettiva del declino e dell’estinzione. L’assenza di una comunità viva e attiva in montagna, diversamente da quel che si può credere, produrrebbe, non un ritorno a una vagheggiata rinaturalizzazione dei luoghi e dei territori, ma un progressivo degrado dell’ambiente dolomitico, fortemente trasformato dall’opera degli uomini che hanno, nel tempo, utilizzato diversi modelli di “sfruttamento” anche intensivo e devastante degli habitat. Le Dolomiti diverrebbero un territorio privo di gestori interessati alla loro conservazione, facile preda di speculatori che lo trasformerebbero in luogo di rendita immobiliare e in spazio ludico fasullo e privo del principale carattere che deve avere una località turistica ovvero di essere abitato da comunità dotate di cultura materiale che possano costruire relazioni paritarie e significative con gli ospiti turisti ed escursionisti. Senza questa relazione umana i territori non sono luoghi e quindi non trasmettono esperienze vissute ma solo visioni fugaci e poco significative. E, per questo, insoddisfacenti e fatue. Si pone anche un altro problema, che riguarda proprio e solo la montagna Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità 83 bellunese, ovvero, quello di una evidente e non più tollerabile sperequazione nelle distribuzione del potere politico e quindi della capacità di governo delle risorse e del territorio tra regioni alpine contigue, che sta compromettendo, forse in modo irreversibile, la tenuta sociale ed economica delle comunità residenti nella montagna bellunese. E’ necessario, in tempi brevi, ripristinare l’equilibrio, altrimenti un vasto territorio alpino, pieno di opportunità economiche, di formidabile qualità ambientale, con una storia millenaria, si svuoterà dei suoi abitanti e perderà ogni attrattiva, diventando una merce indistinta sul mercato del turismo e del consumo, per il quale ogni aumento del valore della marce produce un decadimento di senso nelle relazioni che lo rendono utile e possibile. 4 BIBLIOGRAFIA Autori vari, Perspectives pour un nouveau siècle de sports d’hiver , Atti della Conferenza CIMES 2002 , FACIM, Courchevel 9/10-dicembre 2002. Bartaletti F., Le grandi stazioni turistiche nello sviluppo delle Alpi italiane, Patron Editore, Bologna 1994. Cioccarelli G., Turismo alpino e innovazione, Giuffrè Editore, Milano, 2003. Hudson, S., Snow Business, Cassell, New York, 2000. Macchiavelli A. 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Undicesima edizione 2002”, Mercury- ENIT, ISTAT, Firenze 2002 (a). Vanzi, G. (1994), “Il marketing del turismo nelle Dolomiti”, in Borghesi A. (a cura di), Il marketing delle località turistiche. Aspetti metodologici e ricerche empiriche, Giappichelli Editore, Torino, pp. 205-249. Bonardi Luca, Università degli studi di Milano, Istituto di geografia Umana, Le fluttuazioni recenti del clima alpino e le loro conseguenze sul turismo invernale, pubblicato sul rapporto WWF, Alpi turismo e ambiente alla ricerca di un equilibrio. All’interno del dossier, scritto Luca Bonardi – geografo, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano, Riccardo Scotti geologo, libero professionista, Rolf Burki, Hnas Elsasser, Bruno Abegg , Università di Zurigo, Giorgio Daidola, docente di Ragioneria e Economia e Gestione delle imprese turistiche all’Università di Trento, Andrea Macchiavelli, Docente di Economia del Turismo all’Università di Bergamo, Valeria Minghetti - CISET-Centro Internazionale di Studi sull’Economia Turistica Università Ca’ Foscari (Ve), Riccardo Scotti - geologo, libero professionista, Chiara Tonghini , naturalista, ci sono molti contributi dei vari autori che ho utilizzato per costruire il testo che vi propongo. 84 Diego Cason Manente M., Cerato M. (2002), “Metodi e strumenti di analisi per le destinazioni alpine” in Pechlaner H., Manente M. ( a cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring University Press, Milano, pp. 121-140. Manente M., Minghetti V. Cerato M. (2002), La domanda turistica nelle Dolomiti del Veneto. Segmentazione del mercato per lo sviluppo di nuovi prodotti, in Pechlaner H., Manente M. (a cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring University Press, Milano, pp. 421-446. Minghetti V. (2002), “Il turista della neve in Italia. Profilo, esigenze, nuovi modelli di consumo”, in Pechlaner H., Manente M. ( a cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring University Press, Milano, pp. 209-230. Richards, G. (1996), “Skilled consumption and UK ski holidays”, Tourism Management, Vol. 17, No. 1, pp. 25-34. Adriano Plati eventi meteorologici particolari per l’anno 2002 http://www.meteobarzio.it/maggio2002.htm. Attilio Adami, Valutazione dell’incidenza dei consumi idrici per l’innevamento artificiale nei confronti del bilancio idrico dei bacini A.N.E.F. 1997. 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Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 LIVESTOCK FARMING AND TOURISM INTEGRATION IN NORTH WESTERN ITALIAN ALPS: EXPERIENCES AND CASE STUDIES LUCA BATTAGLINI UNIVERSITÀ DI TORINO 88 Luca Battaglini In the last decades a step‐by‐step transformation process has interested the agriculture of North‐Western Italian Alps. This change was structural but also socio‐economic being several agricultural activities abandoned. Nevertheless, in this general context, animal production appears to be able to maintain some integrity, due to the long history of its presence in the Alps revealing to be one of the few economic opportunities for local resources still valuable (Orland, 2004; Bätzing, 2003). In this context initiatives are needed to respect the natural vocation of mountain areas, which consists not only in the capability to bred animals, utilizing for their feeding medium and high pastures, but even in the cleverness to hand down and keep alive local traditions and milk and typical dairy productions too (Battaglini et al., 2006). In the past, alpine farming period was preceded by middle mountain pastures staying, locally called mountains. These places represented a strong source of forage productions which was consumed by cattle from April until the beginning of June. Cattle herds, transferred from bottom of valley stables, stayed on middle‐mountain grasslands until high altitude pastures vegetal growth, after snow melting. During this period they consumed hay produced in the preceding year. In autumn, when cattle left alpine farming areas, stopped a second time on these grasslands thus exploited before returning to the valley bottom stables. Middle‐mountain pastures were generally provided with buildings for cattle and farmers, since they constituted independent units of the farming business, due to the transport and communication difficulties (Verona, 2006). THE REASONS OF A GUIDED TOURISM It has already been mentioned that mountain livestock farming has gained during the last decades a multipurpose relevance. In this frame alpine farming ‐ seen as a complex of pastures, rural buildings, animals, typical products and traditions – represents a resource not only for the shepherd but also for the whole population of that region, for its touristic, environmental, landscape and historic‐cultural values (Table 1). Table 1. The cultural alpine-pasture heritage Vernacular architecture (barns, shelters, cheese-houses, sheds, etc.) Semi-natural elements (wells, hedges, etc.) Tangible heritage Biologically based cultural heritage Non-tangible heritage Artefacts (fountains, bridges, dry stone border walls, fences, etc.) Tools (for transport, milk processing, animals handling, etc.) Domestic autochthonous breeds Pastoral and anthropogenic cultural landscape animal knowledge: ethology, physiology of Knowledge and lore domestic and wild animals; related to pastoral and technological knowledge on foods: cheese dairy activities and making and storage of dairy products, relationship with nature preparing and preserving meat botanical knowledge: toxicological, food, technological properties of plants and derivates, phenological stages, growing season, etc. environmental knowledge: hydrological, soil, geology, meteorology, etc. Linguistic heritage toponymy lexicon Folk heritage rituals of propitiation and fertility, legends, taboos, supernatural presence, etc. For these reasons and for the intimate and harmonic interactions between man and Alps, during several generations, the cultural alpine‐pasture heritage needs to be protected. Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi 89 Terracing, woods and pastures care, water management, vernacular architecture, local 1 breeds are typical examples thereof. As a consequence alpine farming reaches a relevant cultural meaning for livestock farming and e.g. cheese‐making techniques and needs to be preserved. RURAL TOURISM, ECOMUSEUMS Rural tourism harmoniously combines specific natural (e.g., farmed and forested environments), cultural-educational (e.g., traditions) and socio-economic (e.g., local cooperation) features in a small-scaled, nature-friendly and ethno-cultured way. Such a combination generally allows rural tourism to be considered sustainable (Gopal et al., 2008). Rural tourism mainly develops in areas not traditionally considered tourism destinations, and thus generally less frequented. Urbanization, that is the population shift from rural to urban areas (historically from agricultural to industrial ones), has determined also the need of city dwellers to temporarily escape from the anonymous, crowded and stressful metropolis. While searching tranquility, they rush to the countryside to relax, to live a purer and simpler life, to recover a lost physical and mental relationship with nature. The attractiveness of rural areas for tourism and recreation has first of all to be consequently associated with the image of rurality per se (Roberts and Hall, 2001). The importance attributed to rural tourism is relatively recent, deriving from the ascertainment that abandonment can negatively impact the territory as well as excessive exploitation can do. This kind of tourism can have several advantages on rural areas and their whole development since it is often linked to projects aimed at valorizing and promoting, by means of a responsive fruition, the related territories, the latter being the expression of unique and localized cultures. Tourists are generally offered a complete knowledge and understanding of the territory through an integrated system of different kinds of services. Among them, a key role in the sustainability attempt of rural tourism can be played by rural museums. According to the International Council of Museums, “a museum is a non-profit making, permanent institution in the service of society and of its development, and open to the public, which acquires, conserves, researches, communicates and exhibits, for purposes of study, education and enjoyment, material evidence of people and their environment” (ICOM Statutes, 2007). Rural museums always focus on themes related to the rural world (country life, landscape, ethnography, folklore, agricultural and breeding systems, etc.) (Boatti, 2004). They act as agents of local development as well as local centres whose main purpose is the preservation of heritages otherwise destined to disappear, making them available for collective use. They operate as attractive elements especially for a peculiar public aware and desirous to discover (or re-discover) the identity of typical territories, cultures, and traditions. The ecomuseums represent an important advancement in the evolution of rural museums. They were created about forty years ago as specific institutions dedicated to the promotion and valorisation of the economic-cultural and environmental development of a territory, a job or a population. They are able to meet the need of local communities to go through again and fix into memory their own history, to pursue their own roots and to establish their own identities (Sibilla and Porcellana, 2009). Ecomuseums promote the preservation, conservation and safeguarding of heritage resources in situ, thus exerting an important social role by representing the culture of their local communities (Corsane et al., 2007). 1 La biodiversità zootecnica alpina L’allevamento dei ruminanti e le problematiche ad esso connesse hanno un ruolo indubbiamente importante nell’economia agricola delle alpi nord-occidentali. Negli ultimi decenni, è stato privilegiato l’allevamento di razze cosmopolite altamente produttive a scapito di razze autoctone meno competitive ma molto ben adattate ad ambienti difficili come quelli montani: tuttavia, attualmente, molti allevatori si stanno indirizzando verso la salvaguardia di queste razze. Esse, infatti, oltre a costituire un importante patrimonio sotto l’aspetto culturale e della tradizione, hanno un ruolo fondamentale nella gestione del territorio, attraverso la capacità di sfruttare in modo ottimale anche risorse pastorali molto povere che altrimenti rimarrebbero inutilizzate. L’abbandono delle aree un tempo pascolate, soprattutto nelle zone montane, è difatti una delle cause più evidenti del dissesto idrogeologico, dello sviluppo degli incendi boschivi e della semplificazione del paesaggio con la formazione di coperture boschive di bassa qualità. Per questi motivi l’alpicoltura, prevalentemente con razze locali deve essere incoraggiato, soprattutto laddove le più selezionate non trovino le condizioni ambientali e gestionali più confacenti per assicurare idonea produttività e buon adattamento nel contesto territoriale. 90 Luca Battaglini Since 1970s ecomuseums have become essential components of the museum scene in several European (mainly France, Italy, Spain, Portugal, and Sweden) and extra-European (mainly Canada, Mexico, Brazil, Japan, and China) countries (Maggi and Falletti, 2000). Especially in the last years they have gained broad and increasing interest by both public and local authorities. Ecomuseums revitalize, study, document, collect, expose, preserve and let the public know a given heritage. In this sense, the basic tasks of an ecomuseum do not differ from those of a “traditional” museum. However, the handed down heritage is identified by the ethnological and historical patrimony of the related territories (Grasseni, 2010). Moreover, the typical character of ecomuseums is active, dynamic and evolutive rather than static, as instead normally occurs in the case of “traditional” museums (Babić, 2009). The interpretation that ecomuseums are able to give to the heritage and local history is holistic and interdisciplinary (Davis, 1999). In order to hand down local evidences and memories, ecomuseums recognize the value of all records, both material (e.g., objects widely used in past times whose meaning and utility are now vanishing) and non-material (oral histories, intangible heritage) ones, that identify people as inhabitants of a distinct place. The community participation in the definition and management of the museological practice should be an appropriate, essential and intrinsic feature of this kind of museology (Kreps, 2008). This means that local people should be actively involved in the activities carried out by the rural museums, directly participating to their life and not just suffering the tourist flux as something alien from their interests (tourism colonization) (Maggi, 2009). In rural museum, the local community and its territory, can be consequently considered a well recognizable historical-anthropological unit. Rural museums provide a sustainable management of tourist practices. Differently from the unreflexive consumer attitude that characterize most visitors of “traditional” museums, tourists in rural museums have the possibility to come back to past times and have direct and unique experiences of places, domestic habits and everyday lifestyle of local people. Great importance is attributed by rural museums also to educational activities. Education is seen as a primary tool aimed at i) awakening the population towards a sustainable development, ii) positively modifying the population behaviour, iii) stimulating the participation and a sense of individual responsibility in every citizen (especially in the younger ones) for the solution of the most important environmental problems. Schools can find in rural museums very interesting and important meeting points for didactic experimentation, education to the future, participatory processes, local development and transversality. Rural museums often play as well an active role and involvement in research projects concerning the natural and cultural heritage, by collaborating with universities and research centres, sometimes also providing facilities to undergraduates (e.g., stage opportunities). HUSBANDRY-RELATED PRACTICES IN MOUNTAIN AREAS: TWO RURAL MUSEUMS EXPERIENCES IN NORTH-WESTERN ITALIAN ALPS The study of mountain territory and of its economic and social evolution has a great importance especially in the present historic situation, during which industrialization and progress are more and more quickly expanding themselves (Battaglini et al., 2010). Since the end of the XIX century an intense negative demographic trend associated with the ageing of local residents has characterized the alpine mountain areas. Such trend has been essentially due to the need of the mountain populations to improve their social position by finding new job opportunities and better public services in plains and big cities (Bätzing, 2005). The mountain depopulation has generated negative effects on local environment, economy and culture. From a socio-economic point of view, the demographic decline progressively impoverished the alpine valleys, depriving them of local entrepreneurship and workforce by determining retirement from business and services. Moreover, it depauperized the local communities, gradually threatening the rural identity and the traditional cultural values. Rural museums may represent useful tolls in order to avoid the loss of antiquities, written and oral sources, historical, literary, and photographic documents, that are essential elements of values and traditions of mountain areas. They may constitute one of the primary connections among the territory, its inhabitants and visitors as well, reversing the above mentioned negative trend by means of a sustainable tourism. In the alpine territories, the rural museums experiences are numerous and widely diversified. Each museum offers a unique proposal for the exploration of the related mountain territory. Visitors Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi 91 are allowed to discover, through unique and different trails, both local inhabitants’ activities and places, as well as the elements of rural culture and of the alpine civilization. Here is given an insight into two representative museum initiatives carried out in Piedmont (North-Western Italian Alps) in the last ten years. Piedmont extensively contributed to the spreading of ecomuseums in Italy by enacting the first Italian legislation on the role and constitution of this museological practice in 1995 (Pressenda and Sturani, 2007). Today, the ecomuseums network in Piedmont is widely developed: twenty-five ecomuseums have already been founded while seven other ones are going to be set up on the regional territory. The two museum projects that will be presented in the next chapters were created with the purpose to protect and promote animal biodiversity and husbandry-related activities in mountain areas. They aspire to deepen, divulge and develop farming activities that are deeply linked to the territory, being able to exploit natural resources in marginal areas and to play a fundamental role in the safeguard and conservation of mountain landscapes and typical animal-derived food productions (Renna, 2010). The two museum initiatives respect the natural vocation of these farming activities, which consists not only in the capability to till and bred animals, but even in the cleverness to hand down and keep alive local agricultural- and husbandry-related traditions (Battaglini et al., 2006). Ecomuseum of Sheep Farming (Ecomuseo della Pastorizia2) – The Ecomuseum of Sheep Farming was officially established in 2000 by the Piedmont Region according to the th Regional Law n° 31 of 14 March 1995. It was created, as it usually happens in the case of ecomuseums, as a result of an agreement between the local institutions and the local community. The ecomuseum is located in the Stura di Demonte Valley, a typical mountain rural area (Cuneo province). It represents one of the most important outcomes deriving from more than twenty years of work carried out by the Comunità Montana Valle Stura (local authority) and aimed at the rehabilitation and development of sheep farming, an economic and cultural practice typical of the valley (Martini and Pianezzola, 2001). The very support of the ecomuseum has to be sought in the recovery and revitalization of the Sambucana (also known as “Demontina”) sheep breed. It is therefore necessary to understand the story of this autochthonous breed. The names Demontina and Sambucana derive from Demonte and Sambuco, two villages located in the Stura di Demonte Valley. The main characteristics of the Sambucana breed are rusticity, agility, and hardiness, which make it particularly adapted to the poor, rocky, and marginal pastures and the harsh climate conditions typical of the valley (Brignone and Martini, 2001). th During the second half of the 20 century, another sheep breed native of the Piedmont Region (the Biellese), characterized by bigger size, was introduced by the local shepherds in the Stura di Demonte Valley in order to obtain, by means of a cross-breeding practice with the Sambucana, a higher birth weight of the lambs. The main rationale of this practice was to increase the shepherds’ economic profits since the lambs were sold by their weight. Unfortunately, the cross-breeding resulted in increased weight of lambs due to larger and heavier bone structure rather than to major growth rate and meat yield, and both meat and wool quality suffered a significant deterioration. Even worse, the number of Sambucana purebreds significantly decreased and in the Eighties the breed, with no more than 80 survived purebreds, was then inserted in the FAO extinction-threatened breeds list (FAO, 1980). The Ecomuseum of Sheep Farming is part of a composite project thought and developed by the local authorities in collaboration with the local inhabitants, who both intensely wanted to: i) 2 L’Ecomuseo della pastorizia è ufficialmente istituito nel 2000, ma la sua nascita risale, in un certo qual senso, a molti anni prima, a quando la Comunità Montana Valle Stura ha intrapreso una strada di rinascita culturale ed al contempo di rivitalizzazione economica dell’attività della pastorizia e di tutto il contesto ad essa collegato. L’Ecomuseo nasce da una parte, con il recupero della razza Sambucana che, autoctona della valle, negli anni ‘80 rischiava di scomparire e dall’altra, con la riscoperta di tutta una cultura e tradizione legata al mondo pastorale della valle Stura. Negli anni, nasce dapprima il consorzio l’Escaroun, poi una cooperativa per la diffusione e commercializzazione della carne di agnello sambucano ed anche la lana viene trasformata in manufatti di ottima qualità. Parallelamente si sviluppa il discorso del recupero culturale con l’avvio di numerose ricerche in valle ed in collaborazione con l’università di Aix en Provence e la Maison de la Transhumance di Saint Martin de Crau. Ne deriva in primis la mostra, accompagnata da una pubblicazione, “La Routo – sulle vie della transumanza tra le Alpi e il mare” che ha coinciso con l’inaugurazione ufficiale dell’ecomuseo. (Martini S., Brignone A., 2007, La pecora Sambucana: il ruolo dell’Ecomuseo della Pastorizia per lo sviluppo di una razza tradizionale di una vallata alpina, Comunità Montana Valle Stura di Demonte ed Ecomuseo della Pastorizia, Pontebernardo -CN). 92 Luca Battaglini recover their autochthonous sheep breed, whose above-mentioned characteristics of rusticity, agility, and hardiness were highly appreciated by the local shepherds, and ii) rediscover the entire culture and the traditions linked to the pastoral activities in the Stura di Demonte Valley. The ecomuseum is composed of well-defined spaces that are sited into two buildings standing in the centre of the small alpine hamlet of Pontebernardo, village of Pietraporzio, only about five kilometers from the French border as the crow flies. This hamlet, located at 1,300 m a.s.l., was at once identified as particularly suited to host the ecomuseum since it is the last permanently all year-round inhabited village in the valley and many residents of the village are still engaged in livestock husbandry and sheep farming activities. The Comunità Montana acquired a first building, renovated and prepared it to accommodate groups of visitors, exhibitions and educational activities. In 2006 at the ground floor of this first building a small and modern cheese-factory was set up. The cheese-factory allows a local family of shepherds to prepare the typical cheese called “toumo”, prepared with Sambucana raw milk only. Visitors are allowed to buy the toumo cheese from autumn to late spring, while cheeses are not sold in summer when the flocks are transferred to high altitude alpine pastures. The same cheesefactory is also an important teaching facility since the visiting schools are allowed to directly observe the cheese-making process, through transparent walls. Table 2. A community-based project for a local sheep preservation Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi 93 Inside the same building, an osteria (restaurant) has been recently opened, where visitors can taste traditional recepies and local products, including the famous guaranteed “Sambucano” lamb. The top floor of the building is instead used as a laboratory and a room for temporary exhibitions, the latter especially offered to visitors during the season of more intense tourist flow. A second wider building, located in the proximity of the first one, has been acquired and completely renovated by the Comunità Montana as well. On its ground floor a Rams Centre was established in 1988 thanks to the support of a specific European financing (Council Regulation No 2078/92 on agricultural production methods compatible with the requirement of the protection of the environment and the maintenance of the countryside). The Rams Centre was created to perform a genetic selection program (performance test of rams), with the primary objective of recovering the genetic heritage of the pure Sambucana breed. Since its establishment, the Rams Centre has been cared of by a family of shepherds living in the village and has been administered by the Consortium Escaroun (whose name refers in the local Occitan language to a small group of sheep that leave the flock to find the highest and best pastures). The Consortium was founded by the local authority and the Sambucana sheep breeders in 1988 as well. After 20-years in situ preservation and recovery program of the Sambucana sheep breed, the number of animals listed in the Official Register of the breed significantly increased. In fact, while only hundreds of Sambucana purebreds were reared in the Stura di Demonte Valley in the early ‘80s, about 5,000 purebreds can be found today (Cornale et al., 2010). The first floor of the second building houses the Documentation Centre of the Ecomuseum. It deals with the theme of pastoralism and transhumance, and it is made up of a permanent and extensive exhibition called “Na Draio per Vioure”, which translated from Occitan language means “a path to live”. The “Draio” is precisely the path that the visitor is invited to walk on to find out how the tradition of pastoralism in the Stura di Demonte Valley is something still very “alive” (Lebaudy, 2010). The Documentation Centre presents a long journey over the centuries to discover pastoralism from its birth to its evolution in different areas around the Mediterranean countries. The Museum experience is fun, “alive” and suitable for younger visitors. It shows in words, pictures, videos, research publications and reconstructions the history and the development of sheep farming. Among reconstructions, it is possible to discover different kinds of materials belonged to the local shepherds and a very popular and attractive (especially for children) faithful reproduction of a shepherd’s hut in alpine pasture, where the visitor is invited to climb. One of the distinguishing features of the Documentation Centre of the Ecomuseum of Sheep Farming is the direct link with research activities, carried out with Italian and French partners, such as the University of Torino, the University of Aix en Provence, the Maison de la Transhumance, the Chambre d’Agriculture des Boches, and the Musée Dauphinois. The research activities were initially focused on the local reality, but today the ecomuseum can be properly considered a centre for research, documentation and dissemination of knowledge about the entire world of pastoralism 3 in the Western Alps and adjacent regions (e.g. the Community maps program, 2002 ). Tourists are allowed to buy precious textiles made with pure Sambucana wool in the store arranged in the same building. Some research aimed at enhancing the wool and preserve old customs related to its processing was carried out by the Consortium Escaroun in collaboration with the famous wool company F.lli Piacenza located in Pollone (Biella district, Piedmont). The results of this research project evidenced that the Sambucana wool is thick, light and bright, thus showing a general relatively good quality. For this reason, the same company started to produce sweaters, scarves, waistcoats, plaids, socks, caps, and gloves made with pure Sambucana wool. In the last 3 The Community Maps program – In 2002 the Ecomuseum of Sheep Farming was chosen among other Ecomuseums of the Piedmont region to be involved in a test case aimed at creating a “community map”. The community map is a participatory process, developed in England in the early Eighties (with the name of Parish Map) and then thoroughly tested in various Ecomuseums worldwide. The community map is an innovative tool of knowledge and enhancement of the landscape patrimony in relation to local and sustainable development since it aims at reproducing, in its heterogeneity, the noteworthy social and cultural elements of the territory. The map is generally a specific cartographic/photographic representation (but it could be any other product) directly created by the local inhabitants. In order to give birth to the community maps of its territory, the Ecomuseum of Sheep Farming was also technically and scientifically supported by a group of experts in museology practice (the so-called “Laboratory Ecomuseums”) established in 1998 by the Piedmont Region (Clifford et al., 2006). The community map of Pietraporzio has been the first one realized by an ecomuseum in Italy. 94 Luca Battaglini few years about 40 tons of wool have been processed. It has to be considered that in Europe local sheep wool has been severely neglected, representing more often a cost instead of a resource, and that the introduction of fine wool from extra-European countries has almost completely excluded the autochthonous breeds from the production of textiles. The remarkable technical and commercial results obtained by the Consortium Escaroun thanks to the collaboration with the F.lli Piacenza company especially resulted in positive implications for the shepherds who were finally able to commercialize a product otherwise destined to be sold off at their expense. Museum of Alpine Farming and Alpine Pastures Without Borders (Museo dell’Alpeggio e 4 Alpeggi Senza Confini ) The projects worked on a territory still alive, where already other recent initiatives aimed to know alpine farming structures and their productions, such as Bettelmat cheese (registered mark) and Ossolano cheese, whose production areas and technologies have been widely studied (Battaglini et al., 2001). These studies pointed out that in this alpine valley as to yield and quality of the milk destined to local cheese production it is possible to see important differences according to the management. Evident effects on quality were related to the breeding season: during alpine pastures season when animals utilised fresh grass were observed important increases of monounsaturated and polyunsaturated fatty acids and decreases of saturated ones with beneficial effects on human health as observed by other Authors in different alpine regions (Ferlay et al., 2002; Dewhurst et al., 2006). As a consequence in Ossola valley alpine pasture seems to have a determinant role in milk quality. That suggested an exact trend in choosing animals to be bred in such mountain environments preferring breeds less exposed to important quality variation, particularly negative for a typical cheese making. On the other hand, it can be observed that more extensive breeding systems could guarantee typical productions, animal welfare and a good environment management. The Museum of Alpine Farming and the excursionist itinerary called “Alpine Pastures Without Borders” are parts of the European Community Interreg IIIA 2000-2006 project between Italy and Switzerland. This Interreg project was thought with the main purpose of creating a cultural system for the spread of the alpine pasture knowledge. Its main actions were dedicated to the development and promotion of mountain territories and to the enhancement of environment, culture, crafts, and local products. After a feasibility study, the project started in January 2006. Two focal points of reference were identified in the Museum of Alpine Farming on the Italian side, and in the Gottardo dairy factory on the Swiss side. These facilities, opened all year round, were thought to be connected by the itinerary “Alpine Pastures Without Borders” that crosses the main pastures of the related crossborder mountain territories. The Museum of Alpine Farming is hosted in the protected area of the Veglia-Devero Natural Park, in a former abandoned station of the cable that connected Goglio to Devero (sold under licence by Enel, the largest Italian electricity company). The premises, located in the Baceno commune, were appropriately adapted to recreate a typical alpine environment. 4 L’iniziativa Museo dell’alpeggio si è posta l’obiettivo di favorire e valorizzare l’attività agricola di montagna, rendendo solido il legame tra sviluppo rurale e tutela del territorio, incoraggiando la polifunzionalità degli alpeggi, sostenendo le produzioni agro-alimentari di qualità e compatibili con l’ambiente. I principali effetti sono stati: a) creazione di un sistema culturale transfrontaliero per la diffusione della conoscenza degli alpeggi; implementazione di una rete museale con collegamenti transfrontalieri per la conoscenza del patrimonio naturale degli ambienti d’alpeggio (analogie tra Italia e Svizzera); b) valorizzazione culturale e turistica dell’alpeggio (identità culturale degli operatori, professionalità, ruolo della componente femminile, dei giovani, miglioramento dei rapporti sociali e delle opportunità e relazioni interpersonali); c) impatto sul turista, realizzazione di gratificazioni non solo economiche dell’alpeggiatore (sviluppo di interazioni socioculturali positive per un rinnovato e recuperato prestigio personale dell’operatore alpicolturale); d) ricadute in ambito didattico universitario (soggiorni, stage, tirocini,ricerche sul tema dell’alpeggio) (Battaglini et al., Regione Piemonte, 2007) Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi 95 The realization of the museum was possible thank to the collaboration of the inhabitants of the valleys, the technicians working in the Veglia-Devero Natural Park, experts in anthropology and animal science, as well as other people interested in the project. All these people actively contributed to further enhance a public good belonging to the whole community. The museum was created to meet the need of presenting to a wide audience the alpine pastures and their activities, as significant elements of the alpine cultural identity and strategic resources for the alpine mountain economy. The museum is in effect a Documentation Centre dedicated to what the pasture formerly was and what the pasture still represents today. The museum covers various communication and dissemination tools: audiovisual, library materials, photographs, multimedia, objects and equipments typically used at alpine pasture. They conveniently describe the protagonists, working activities, animals, everyday life, traditions and typical products by looking back to the past and projecting to the future. These popular and cultural initiatives linked to the world of alpine pastures can also offer local herders the possibility to meet people totally alien to their rural reality. The itinerary “Alpine Pastures Without Borders” connects with excursionist signs nineteen alpine pastures. Eleven of them (Alpe Cornù, Pian dùl Scricc, Alpe Buscagna, Alpe Sangiatto, Alpe Satta, Alpe Forno, Alpe Vannino, Alpe Morasco, Alpe Bettelmatt, Alpe Kaste and Alpe Regina) are located in the Italian territory of the Veglia-Devero Natural Park, while the remaining (Val d’Olgia, Stabbiascio, Valleggia, Stabiello Grande, Cristallina, Piano di Pescia, Alpe Ruinò and Cascina Nuova) are located inside the near Swiss territory of the Bedretto Valley. Informative panels containing general information about the itinerary are positioned at some most important tourist attractions of the area, such as the main entrance of the Park (Alpe Devero), at the San Giacomo Pass, at the Gottardo dairy factory, at the Social Antigoriana dairy factory of Crodo, at the Cooperative of Formazza, and at the Museum of Alpine Farming in Baceno. Other panels reporting more specific and detailed information are placed on the walls of each individual pasture. The itinerary is a prod for tourists and mountain excursionists to visit these Alpine pastures and their infrastructures, acquiring information on the mangement of pasture lands. Visitors can consequently be connected with rural realities and the local people, fully understanding their rythms, problems, needs and reasons. Moreover, the itinerary invites toursists to approach consciously to the rural mountain world in order to totally appreciate the real value of animal derived food products besides their mere nutritional and sensory characteristics. Besides the realization of the Museum and of the excursionist itinerary, the project aimed at the development of other connected initiatives. Firstly, it is possible to highlight didactic and research activities (organization of stages and research projects concerning farming systems, forage species and husbandry-related techniques) in collaboration with the University of Torino. Moreover, tourist activities during both winter (snowshoe trips, cross-country and alpine skiing) and summer months (trips at alpine pasture where tourists can interact with animals and farming activities) are planned each year, as well as excursions specifically dedicated to children attending primary schools. OTHER PROJECTS WITH TOURISM IMPLICATION Sheep-breeding and transhumance. A guide for tourists “Sheep-breeding and transhumance: a guide for valorisation and safeguard of Piedmont autochthonous endangered breeds” is a project financed by “Sinapsi scrl”(Turin) and supported by “Scienze Zootecniche” Department of Turin University, R.A.R.E (Association of autochthonous endangered breeds), “La Nuova Antichi Passi” and the Natural Park of Avigliana Lakes. The contribution concerns a study about autochthonous endangered breeds bred in Susa Valley(Turin), Pellice Valley(Turin) and Stura Valley(Cuneo): Frabosana and Sambucana sheep. After the selection of the breeds, it has been looked for three farmers that use to take transhumance from the valley to the summer grazing in the mountains, passing through interesting places by the historical, cultural and naturalistic point of view. During the project these places have been visited and all the information collected has been included in a guide with a map of the flocks and flock roads. This guide, suitable on the web (http://www.arcanova.info/progParalleli_pastorizia.htm) is also enriched by some livestock information about breeds, breeding techniques and farm products. (cfr. http://www.sozooalp.it/fileadmin/superuser/quaderni/quaderno_4/17_Grassino_SZA4.pdf) 96 Luca Battaglini ProPast: a project for the sustainability of pastoral breeding in Piedmont The wolf presence in the Maritime Alps of Piedmont dates back to the beginnings of the Nineties. Due to the wolf successful dispersion all the valleys of the Cuneo province have been eventually colonized with the presence of stable packs. Many areas of the mountains of the Turin province have been colonized as well. During the last years the number of heads preyed on single attack has decreased due to the adoption of protection measures. The incidence of predation remains high in the areas of new appearance of wolves or when effective protection measures are lacking. Furthermore even where protection tools are introduced (guard dogs, electrified fences) predation does not cease and it involves not only losses of killed and wounded animals but also uneasiness and other indirect costs that are only partially counterbalanced by the managed pasture compensations payments. The need of all day round guarding and of an increased number of shepherds raises manpower costs especially in the case of great transhumant sheep flocks. On the other side the small dairy farms face new difficulties in order to manage both animal shepherding and cheese-manufacturing or hay harvesting in the bottom valley. A three years project has been sponsored by the Regione Piemonte administrative agriculture offices for supporting the pastoral systems (‘Sustainability of pastoral breeding in Piedmont: individualization and realization of intervention and support lines‘) are presented. The project aims to assess the middle and long term impact of the awkward ’cohabitation‘ with the predator on the different types of pastoral systems. The predation related constraints on flocks management will be evaluated in terms of decline of flocks, livestock units, and grazed surfaces, as well as a loss of values like traditional knowledge and practices, local high quality products, genetic diversity and landscape quality. Other initiatives and events on AmAMont (http://www.amamont.eu/), (http://www.sozooalp.it/) and Dislivelli (http://www.dislivelli.eu/). SoZooAlp REFERENCES AA.VV. (2002). Il Formaggio Ossolano. 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"Un uomo doveva fare un lungo viaggio: chiamò dunque i suoi servi e affidò loro i suoi soldi. A uno consegnò cinquecento monete d'oro, a un altro duecento e a un altro cento: a ciascuno secondo le sue capacità. Poi partì. Il servo che aveva ricevuto cinquecento monete andò subito a investire i soldi in un affare, e alla fine guadagnò altre cinquecento monete. Quello che ne aveva ricevute duecento fece lo stesso, e alla fine ne guadagnò altre duecento. Quello invece che ne aveva ricevute soltanto cento scavò una buca in terra e vi nascose i soldi del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone ritornò e cominciò a fare i conti con i suoi servi. Venne il primo, quello che aveva ricevuto cinquecento monete d'oro, portò anche le altre cinquecento e disse: - Signore, tu mi avevi consegnato cinquecento monete. Guarda: ne ho guadagnate altre cinquecento. "E il padrone gli disse: Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore. Poi venne quello che aveva ricevuto duecento monete e disse: - Signore, tu mi avevi consegnato duecento monete d'oro. Guarda: ne ho guadagnate altre duecento. E il padrone gli disse: Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore! Infine venne quel servo che aveva ricevuto solamente cento monete d'oro e disse: Signore, io sapevo che sei un uomo duro, che raccogli anche dove non hai seminato e che fai vendemmia anche dove non hai coltivato. Ho avuto paura, e allora sono andato a nascondere i tuoi soldi sotto terra. Ecco, te li restituisco. Ma il padrone gli rispose: Servo cattivo e fannullone! Dunque sapevi che io raccolgo dove non ho seminato e faccio vendemmia dove non ho coltivato. Perciò dovevi almeno mettere in banca i miei soldi e io, al ritorno, li avrei ritirati con l'interesse. Via, toglietegli le cento monete e datele a quello che ne ha mille. Perché chi ha molto riceverà ancora di più e sarà nell'abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha. E questo servo inutile gettatelo fuori, nelle tenebre: là piangerà come un disperato”. Anche ai regolieri è stato consegnato un vasto patrimonio che ha consentito alle genti della montagna bellunese di sopravvivere in un ambiente ostile. Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 103 Di fronte a questi immensi patrimoni si possono assumere diversi atteggiamenti: ci si può impegnare per farli fruttare, oppure, si può scegliere di non fare nulla e di non gestirli, lasciando che per essi provveda direttamente la Divina Provvidenza. Non dobbiamo però dimenticare che la Provvidenza de “I Malavoglia”, è naufragata, non una volta, ma addirittura due. La visione di Verga è certo tragica e pessimistica e, forse, l’accenno che ho appena fatto alla sua opera può non spronare i regolieri all’impegno, visto che i personaggi dei romanzi dello scrittore siciliano, nonostante i loro sforzi, non migliorano mai le proprie condizioni. Forse potrebbe giovare di più l’accenno all’opera di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, visto che il profitto generato dall’impegno è per l’Autore segno tangibile della grazia divina. 2. I regolieri, tuttavia, non hanno mai assunto nei confronti del proprio patrimonio un atteggiamento passivo. La gestione collettiva, l’amministrazione comune, dei pascoli e delle foreste ha permesso la sopravvivenza in montagna. In uno stato di natura dove non erano assicurate pace, sicurezza e cibo, i primi regolieri, hanno rinunciato alla loro egoistica libertà per condividere le ricchezze del suolo e mettere assieme le loro forze per contrastare l’ambiente. Il risultato di queste rinunce non ha portato alla costituzione di uno stato assoluto, come quello teorizzato da Hobbes, ma alla costituzione di una comunità che si è auto-imposta delle regole di gestione dei beni in modo tale da consentire a tutti di avere i mezzi di sussistenza. I principi fondamentali che hanno costituito l’ossatura principale della vita regoliera erano costituiti dall’equità e dalla solidarietà. 3. Il fulcro della vita regoliera era appunto rappresentato dalla gestione dei beni nell’interesse dell’intera collettività. Nella comunità ogni regoliere partecipava della gestione dei propri beni, che non era dunque demandata a nessuna autorità esterna. Anche oggi la forma di democrazia presente all’interno del mondo regoliero deve far riflettere. A differenza degli enti locali dove, aldilà dell’elezione dei rappresentati della comunità, i cittadini non sono chiamati ad esprimersi direttamente in ordine all’amministrazione della cosa comune, l’assemblea dei regolieri non solo controlla l’operato delle proprie commissioni amministrative, ma addirittura si esprime in ordine alle scelte di indirizzo più importanti per la gestione dei beni regolieri. L’esempio più forte che mi piace citare è costituito dall’assemblea dei regolieri delle Regole d’Ampezzo chiamata ad approvare il Piano ambientale del Parco. 4. Dunque, alla vita della Regola sono chiamati a partecipare tutti e l’interesse che viene perseguito non è solo quello immediato, perché le risorse non vanno bruciate o consumate, ma vanno conservate, di modo che le generazioni future possano anch’esse godere di questi immensi patrimoni. Il regime di tipo pubblicistico che regge i beni collettivi ha impedito, infatti, la divisione dei beni e la distruzione della ricchezza. Si tratta di un regime autoimposto (esempio i colonnelli di Mareson). Tra il particolare regime che caratterizza le proprietà collettive e la loro destinazione all’attività agricola, il legislatore riconosce, infatti, un legame profondo, a tal punto che una volta determinato il mutamento di destinazione si verifica allo stesso tempo uno dei presupposti per l’estinzione del diritto. L’inalienabilità, l’inusucapibilità e l’indivisibilità sono giustificate dalla persistenza del vincolo di destinazione dei beni collettivi alle attività agro-silvo-pastorali, poiché nel tempo il regime di appartenenza collettiva delle terre ha dimostrato di costituire un modello di gestione efficiente delle risorse agricole. 5. Nella proprietà collettiva, finalità produttive e ambientali si coniugano perfettamente. La sopravvivenza di tale istituto dimostra come questo modello proprietario, garantendo l’efficiente gestione dei pascoli e delle foreste montane meglio del dominio individuale, abbia preservato il territorio dall’abbandono e conservato l’integrità delle risorse anche in favore delle generazioni future. Alcuni studi di economisti nord-americani, tra i quali vanno senz’altro citati quelli condotti da Elinor Ostrom, hanno sottolineato, attraverso l’analisi di casi concreti, come la gestione collettiva delle risorse non solo consenta alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso tempo, a mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali 104 Elisa Tomasella e future, sia idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai codici civili modellati sull’esempio del codice Napoleone del 1804. Esempio del lago pescoso. L’importanza dell’interesse ambientale è stata sottolineata per la prima volta dal legislatura nella cd. Legge Galasso, la quale eleva a beni ambientali gli usi civici e le università agraria. La Corte Costituzionale nella sentenza del 1° aprile 1 993, n. 133, in «Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente», 1993, pp. 279 e ss. ha dichiarato che nei beni civici «emerge l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio». L’orientamento è stato confermato anche dalla successiva sentenza 20 febbraio 1995, n. 46, in «Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente», 1995, p. 145. Anche la legge 31 gennaio 1994, n. 97 sulla montagna ha riconosciuto l’interesse ambientale sotteso ai beni regolieri. E così anche la leggere regionale 19 agosto 1996, n. 26 stabilisce che il regime e il vincolo alle attività agro-silvo-pastorali è di interesse generale. 6. L’interesse ambientale sotteso ai beni regoleri non viene conseguito grazie ad una gestione completamente immobile. L’immobilismo, oltre a non essere conforme allo spirito e alle consuetudini regoliere, depaupera il patrimonio della Regola. 7. Non c’è un unico modo di gestire i beni della Regola. Secondo il legislatore, dunque, la destinazione agro-silvo-pastorale determina l’oggetto del diritto di proprietà collettiva. Le modalità del godimento e le possibilità di sfruttamento dei beni collettivi sono legate all’agricoltura. I titolari dei diritti di proprietà collettiva possono, infatti, trarre dai beni le utilitates connesse alla gestione agro-silvo-pastorale dei patrimoni antichi. Il riconoscimento della personalità giuridica operato dall’art. 3 della legge n. 97/1994 non ha comportato anche il trasferimento della proprietà dei patrimoni antichi dalle collettività all’ente gestore, sicché le Regole si limitano solo ad amministrare e a gestire i beni collettivi in nome e nell’interesse dei singoli compartecipanti secondo i consolidati principi solidaristici. Ciò comporta che la gestione dei patrimoni collettivi da parte delle organizzazioni montane non può comprimere, fino addirittura ad azzerare, i diritti di ciascun proprietario. Tuttavia, il fatto che gli enti gestori siano tenuti a soddisfare preliminarmente i diritti dei singoli partecipanti, non ha per conseguenza il venir meno della natura imprenditoriale delle attività esercitate sui patrimoni antichi. Si tratta di attività economiche organizzate professionalmente e condotte dagli enti gestori montani al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi per il mercato, così come prescritto dall’art. 2082 cod.civ. E poiché i patrimoni collettivi sono destinati in perpetuo alle attività agro-silvo-pastorali e connesse, è scontato attendersi che siffatte attività presentino caratteri dell’impresa agricola ex art. 2135 cod.civ. Come si è detto, l’attività di impresa esercitata dagli enti gestori sui patrimoni collettivi incontra quale limite invalicabile la tutela dei diritti riconosciuti ai singoli partecipanti. Gli statuti definiscono i diritti di godimento dei singoli consorti che in tutti i casi si compongono del diritto di legnatico, di rifabbrico, di pascolo e di erbatico (con le differenze che poi diremo). In alcuni casi viene esplicitamente aggiunto il diritto di cavar sabbia e sassi, di caccia e pesca; in altri ancora vengono menzionati anche il diritto di semina e di estrazione della torba. Gli statuti individuano, inoltre, i limiti che i singoli diritti dei consorti incontrano. In questo senso il laudo della Comunanza delle Regole d’Ampezzo riconosce ai regolieri il diritto all’erbatico, al legnatico, al “fabbisogno”, in relazione alle esigenze familiari e non industriali, mentre lo Statuto della Comunità delle Regole di Spinale e Manez, al pari dello Statuto dei vicini della Magnifica Comunità di Fiemme prevede che i limiti dei diritti dei consorti siano individuati nell’art. 1021 del cod.civ. La limitazione del diritto di rifabbrico o di fabbisogno è di facile intuizione. Essi attribuiscono ai consorti il diritto alla concessione del legname da opera e da lavoro per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei fabbricati civili e rurali dei consorti stessi. Considerando che il taglio per il commercio del legname è stato in passato, e per certi versi anche attualmente, una delle attività principali delle organizzazioni montane, è chiaro come per il singolo non sia possibile fare commercio o industria del legname in proprietà collettiva perché in tal caso si approprierebbe indebitamente di una risorsa destinata all’attività comune. Il contenimento che gli enti gestori incontrano nell’esercizio delle loro iniziative economiche fa sì, dunque, che siffatte attività vengano condotte in completa armonia tra interessi della collettività generale, diritti dell’insieme di proprietari e diritti dei singoli. Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 105 8. Occorre ora considerare quali attività imprenditoriali possono essere esercitate sui terreni in proprietà collettiva regoliera: 1) imprese zootecniche. Tradizionalmente l’attività zootecnica veniva esercitata in forma individuale dai singoli consorti. In passato la titolarità del diritto di proprietà sul bestiame condotto a pascolare sui patrimoni collettivi veniva conservata in capo ai singoli consorti, mentre l’assemblea dei comproprietari stabiliva i limiti e i divieti che ciascun avente diritto era tenuto a rispettare durante il periodo del pascolo sui beni collettivi. Pur essendo l’attività zootecnica fondata sulla proprietà individuale dei capi di bestiame, ciò nondimeno l’attività era esercitata in comune, in ragione dell’unica sorveglianza e cura istituita per tutto il bestiame, oltre che per la gestione collettiva della malga. L’appartenenza individuale degli animali comportava che i prodotti caseari venissero distribuiti, secondo complessi calcoli, ai singoli proprietari i quali potevano anche farne commercio. Il numero dei consorti e la scarsità di risorse esigevano, peraltro, che l’uso dei beni comuni fosse limitato, di modo che a ciascun consorte fosse garantita la sopravvivenza. Peraltro, mentre in passato l’esigenza di contenere i diritti di ciascun consorte era imposta dalla necessità di garantire la sopravvivenza dell’intera collettività, le mutate condizioni economiche delle vallate montane italiane rendono ora la zootecnia una fonte secondaria di reddito. Anche la richiesta di utilizzo dei pascoli comuni da parte dei singoli consorti è venuta calando. Nulla osta al fatto che l’attività zootecnica venga esercitata anche solo da alcuni dei consorti, a condizione che venga garantito il pari accesso alla risorsa a tutti gli aventi diritto. Il contenuto del diritto di proprietà collettiva è, infatti, dotato di una certa elasticità di modo che, soddisfatti i principi generali di equità e di solidarietà, le facoltà di godimento riconosciute a ciascun consorte possono espandersi fino a comprendere l’intero bene. Ciò almeno temporaneamente e fintantoché non vi sia l’ulteriore richiesta di altri consorti. Anche in siffatta ipotesi, tuttavia, tra singolo consorte e la collettività non si instaurerebbe un rapporto obbligatorio avente ad oggetto il godimento esclusivo del bene collettivo, riconducibile alla fattispecie tipica del contratto di affitto di fondo rustico. Il godimento del bene rientrerebbe, invece, tra le facoltà dominicali espressione del diritto di proprietà collettiva. Pur essendo la proprietà del bestiame ancora oggi individuale, gli enti gestori mantengono la loro antica funzione originaria relativa al coordinamento delle operazioni di pascolo ed alla nomina del pastore conservando, quindi, un ruolo di gestione attiva. Gli enti, infatti, garantiscono la parità di accesso alle risorse e il loro corretto sfruttamento, affinché i beni collettivi non vengano danneggiati o depauperati. Peraltro, oggi nulla impedirebbe agli enti gestori delle proprietà collettive di assumere direttamente la gestione dei pascoli e delle malghe assumendo così essi stessi la veste di imprenditori zootecnici. Qualora i membri delle collettività proprietarie non richiedano in assegnazione i beni pascolivi, è consentito all’organizzazione montana di trasferire i terreni in godimento a terzi attraverso contratti di natura personale disciplinati dal diritto privato , tra i quali anche i contratti di affitto di fondo rustico di cui alla legge n. 203/1982. Sui beni collettivi potranno, allora, trovare spazio anche attività di impresa esercitate da non proprietari. 2) imprese forestali. Le risorse collettive forestali si prestano a due diversi tipi di utilizzo: il primo è prettamente individuale e nasce dal godimento diretto dei proprietari attraverso il prelievo delle risorse naturali per usi propri. In Ampezzo, ad esempio, il regoliere esercita ancora in natura i diritti tradizionali consistenti nell’assegnazione del legname da opera e della legna da ardere. Anche i Vicini della Magnifica Comunità di Fiemme sono titolari del diritto del legnatico ad uso domestico e del legnatico utile. Tali diritti vengono esercitati dai singoli capi famiglia per conto di tutti i componenti del nucleo familiare. La Comunità di Fiemme esercita il controllo sul prelievo, determinando ogni anno i quantitativi massimi di legname da opera e di legna da ardere che possono essere utilizzati nella rispettiva annata. Per quanto riguarda, invece il legname da opera le utilizzazioni boschive spettano alla Comunità, essendo precluso il prelievo individuale. Trova spazio, dunque, accanto al rapporto diretto tra regoliere o vicino e il patrimonio antico, anche la gestione unitaria delle organizzazioni montane. L’attività produttrice delle organizzazioni montane è diretta alla coltura del bosco e non solo al suo sfruttamento ed è costituita dall’insieme ordinato di operazioni dirette a sottoporre il bosco a tagli periodici e alla sua rinnovazione. Siffatta 106 Elisa Tomasella attività presenta i caratteri della coltivazione del bosco come prescritto dall’art. 2135 cod.civ., in quanto non solo puramente estrattiva o di puro disboscamento Accanto alle attività tradizionali possono oggi trovare spazio altre attività economiche. Si pensi, ad esempio, alle attività agrituristiche o all’attività di produzione e vendita di energia. La presenza contemporanea di varie fonti rinnovabili di energia sui patrimoni collettivi rende particolarmente interessante la ricerca di un possibile collegamento tra le forme di godimento collettivo delle terre montane e l’utilizzazione delle risorse rinnovabili a scopi energetici. Quelle appena elencate sono alcuni esempi di gestione tradizionali dei beni collettivi. La storia ci insegna che non vi è stata un’unica forma di gestione dei beni collettivi. Nei primi secoli di vita delle Regole non si assisteva al commercio di legname, che si impose dopo il patto di dedizione alla Serenissima Repubblica. Nel rispetto dei principi fondamentali dell’istituto, garantendo i diritti dei singoli, si può pensare ad altre forme di gestione che consentano il mero prelievo o che sfruttino con più incisione il patrimonio collettivo. Vari esempi: • Regola di Soverzene: attività tradizionali; • Regole del Comelico: attività tradizionali; • Regole d’Ampezzo: attività tradizionali; • Magnifica Comunità di Fiemme: (attività forestale tradizionale – e attività legata alla bioenergia) Impresa forestale per eccellenza. Gestione manageriale consentita dalla gestione accentrata (la forma di amministrazione ha sicuramente avuto riflessi anche sulla gestione del patrimonio); 5) Comunali parmensi e Fungo di borgotaro (attività nuova – creazione di un consorzio ex novo). Sull'Appennino emiliano crescono funghi d'oro: sono quelli delle comunalie parmensi, 32 realtà agricole e forestali riunitesi in consorzio nel 1957. Pascolo e legnatico hanno perso d'importanza nel tempo (anche se è ancora attivo il commercio della legna da ardere) a favore della raccolta dei funghi, organizzata in apposite riserve istituite nel 1963 e oggi principale fonte di denari e lustro. Le comunalie più rinomate per questo aspetto sono quelle di Albareto e di Borgo Val di Taro che hanno ottenuto -caso unico in Europa- l'Indicazione geografica protetta (Igp), con relativo bollino, per il "Fungo di Borgotaro", che raggruppa diverse varietà, anche se il più ambito e pregiato resta il porcino. Grazie ai permessi di raccolta, che chi è ghiotto di funghi è obbligato a richiedere per poter accedere alle riserve, le sole comunalie di Borgo Val di Taro e Albareto raccolgono oltre 200 mila euro l'anno. Un'altra attività del Consorzio è la produzione di piante officinali: 13 specie diverse dall'arnica alla camomilla, ma anche lavanda, menta, issopo, salvia e zafferano. I proventi delle diverse attività, anche qui come in esperienze analoghe, vengono utilizzati per la manutenzione del bosco e della viabilità forestale o degli acquedotti rurali, ma anche per opere di "pubblica utilità", come la costruzione di edifici scolastici nelle varie frazioni del Consorzio. Al momento l'organico tecnico del Consorzio Comunalie Parmensi è formato da due laureati in scienze forestali, che si occupano della progettazione degli interventi di forestazione anche per conto della Comunità Montana delle Valli del Taro e del Ceno, e di un diplomato geometra che si occupa del settore della viabilità forestale; inoltre sono in servizio due ragionieri ed un applicato per la tenuta della contabilità delle Comunalie che ne fanno richiesta, ed una squadra di operai forestali per lavori di forestazione da eseguirsi nel comprensorio. L’ASBUC di Zeri (attività tradizionale). In Lunigiana, nel territorio di Zeri, in provincia di Massa-Carrara, esiste da tempi immemorabili una razza ovina autoctona, la Zerasca. Questa razza è riuscita a mantenere intatte nel tempo le sue caratteristiche in virtù dell'isolamento di quest'area. E' una pecora rustica, di taglia medio grande, con la testa proporzionata, ha manto bianco e di solito corna ben sviluppate. Il bestiame viene condotto al pascolo sulle terre collettive, la cui sopravvivenza ha consentito anche la sopravvivenza di questa antica razza. Senza le terre civiche le aziende che praticano allevamento non avrebbero sufficiente terra per condurre le bestie al pascolo. Partecipanze agrarie e set-aside. Le Partecipanze hanno costituito nel passato una importante presenza sul territorio, essendo dotate di una forte capacità di coesione e di sostegno finanziario della popolazione, nonché di miglioramento del territorio e di spinta economica alla coltivazione delle campagne. Una parte del territorio viene concessa direttamente agli utenti affinché svolgano le proprie coltivazioni. Un’altra parte viene direttamente coltivata dall’Ente. Tali Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 107 enti però hanno visto perdere progressivamente i loro tratti caratteristici, al pari dell'intero settore agricolo, anche con riferimento ad una continua diminuzione dei consociati che per quel che riguarda Villa Fontana ha assunto dimensioni preoccupanti. Le amministrazioni però stanno orientando il loro operato soprattutto verso il recupero delle radici storico-culturali delle Partecipanze e verso una rinnovata attenzione al territorio, legata soprattutto al tema dell'ambiente, con tentativi di ricostituire le aree boschive e paludose scomparse in seguito alle opere di bonifica e alla conseguente coltivazione dei terreni. A seguire, un testo generale sugli usi civici e le proprietà collettive che chiarisce la definizione di proprietà collettive, usi civici, terre civiche. 108 Elisa Tomasella LA PROPRIETÀ COLLETTIVA E LA TUTELA DELL’AMBIENTE INTRODUZIONE Il recente premio Nobel per l’economia, conferito alla studiosa nordamericana Elinor Ostrom per i suoi studi sul governo dei beni comuni (“for her analysis of economic governance, especially the commons”), conferma l’attualità della proprietà collettiva, ritenuta ancora a torto una reliquia del passato da liquidare. Eppure già nell’Ottocento Carlo Cattaneo, esponente dell’individualismo economico all’epoca imperante, chiamato a rendere il proprio parere tecnico- economico su alcune proprietà collettive della piana di Mogadino, nel Canton Ticino, non concluse, come ci si poteva attendere, le proprie ricerche sostenendo l’opportunità della loro soppressione. Egli, invece, preferì affermare che i diritti collettivi rappresentano “un altro modo di possedere”, un antichissimo “altro ordine 1 sociale” da conservare poiché parte della storia . La voce del Cattaneo rimase pressoché isolata se si considera che nel corso di tutto l’Ottocento la proprietà collettiva fu sopraffatta dal dominio individuale di stampo romanistico, che con il Code civil del 1804 si è imposto quale unico modello di appropriazione efficiente, intorno al quale la società borghese otto-novecentesca ha poi costruito un coerente modello di sviluppo 2 socio-economico, etichettato come moderno e progressivo . Risalgono, infatti, a questo periodo i vari tentativi abolizionistici compiuti ai danni delle proprietà collettive in nome di un marcato individualismo e delle nuove teorie economiche che consideravano la proprietà individuale, libera 3 da qualsiasi forma di vincolo, l’unica garanzia per raggiungere il pieno sviluppo in agricoltura . 4 Le ricerche condotte da Elinor Ostrom attestano, invece, come la gestione collettiva delle risorse non solo consenta alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso tempo, a mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali e future, sia idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai codici civili modellati sull’esempio del codice Napoleone del 1804. La proprietà collettiva ha saputo garantire l’efficiente gestione dei pascoli e delle foreste montane, preservando il territorio dall’abbandono e conservando l’integrità delle risorse anche in favore delle generazioni future. Per questi motivi, negli ultimi decenni del Novecento, il riconoscimento giuridico della proprietà collettiva ha trovato sostegno non tanto nel loro valore storico, quanto nell’interesse di tutela ambientale che il modello proprietario in esame riesce con più efficienza a conseguire rispetto a quello individuale. TERRE COLLETTIVE, TERRE CIVICHE ED USI CIVICI Gli usi civici e la proprietà collettiva, che a sua volta si articola nelle diverse forme delle terre civiche e delle terre collettive, vengono spesso tra loro confusi, pur essendo istituti giuridici assai differenti. Con “uso civico” in senso stretto, si intende il diritto di godimento, riconosciuto dalla l. 16.06.1927, n. 1766 in capo ad una collettività avente ad oggetto il prelievo di determinate utilitates 5 (es. uso civico di legnatico, di macchiatico, di pesca, di caccia, di vagantivo ), provenienti da un fondo che appartiene ad un altro titolare, il quale trae da esso le utilitates rimanenti. 1 GROSSI, Un altro modo di possedere, Milano, 1977, riporta in epigrafe alla propria opera le celebri parole del Cattaneo secondo il quale, appunto, i diritti collettivi “non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale che, inosservato, discese da remotissimi secoli fino a noi”. 2 ROSSI G., Le radici storiche dei demani civici e le proprietà collettive, in Archivio Scialoja-Bolla, 2003, 84. 3 TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, 359. 4 OSTROM, Come alcune comunità hanno evitato la tragedia delle risorse comuni, in NERVI (a cura), Le terre civiche tra l'istituzionalizzazione del territorio e il declino dell'autorità locale di sistema. Atti della IV Riunione Scientifica (Trento, 7-8 novembre 1998), Padova, 2000, 35; GAMBARO, Beni, proprietà, comunione, in ZATTI, IUDICA (Trattato di diritto privato), Giuffré Milano, 1990, 136, riflette anch’egli sulla tragedy of commons, evidenziando come l’apprensione egoistica senza controllo dei beni comuni porti ineluttabilmente alla loro tragedia. 5 L’uso civico di vagantivo è caratteristico della zona veneta e consiste nel diritto di vagare nelle valli paludose a scopo di pesca, caccia, falciar canna e raccogliere altri prodotti naturali. CACCIAVILLANI, La proprietà collettiva nella montagna veneta Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 109 Nelle terre civiche, regolate anch’esse dalla l. 16.06.1927, n. 1766, la collettività non divide il godimento della res con nessun altro proprietario. La dottrina dell'Italia del Mezzogiorno attribuiva a 6 questa forma di godimento collettivo il nome di demanio universale (o demanio comunale) . Si riteneva, infatti, che il pieno dominio delle popolazioni sulle terre, da esse originariamente occupate e lavorate prima dell’infeudazione, dovesse essere garantito anche dal regime feudale per il soddisfacimento dei bisogni essenziali delle genti, in nome di un diritto alla sussistenza in capo agli individui jure naturale sui terreni di loro originaria appartenenza. Nelle terre civiche sono ammessi a ritrarre le risorse naturali provenienti dalla res tutti gli abitanti residenti in una determinata zona legati da un vincolo di incolato, i quali ne godono uti 7 singuli e uti cives, ma non uti universi . Queste terre sono dette, per tale motivo, “aperte”, in quanto sono ammessi nel gruppo di utenti tutti coloro che si siano insediati stabilmente sul territorio, seppur non originari. Ne consegue, per converso, che coloro che si trasferiscono altrove perdono il diritto di godimento sui beni in proprietà collettiva della comunità a cui erano appartenuti come habitatores dal luogo. Diverse sono invece le proprietà collettive cd. “chiuse”, disciplinate dall’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97, presenti soprattutto nell’Italia settentrionale, principalmente nelle zone montane, che possiamo chiamare “terre collettive”. Nelle zone alpine l’albo “chiuso” costituisce la naturale difesa, di chi ha redento e bonificato le terre comuni, e soprattutto ha avuto cura dei boschi e dei pascoli impedendone la degradazione, contro i sopravvenuti che, per un malinteso spirito di eguaglianza, vedono la limitazione alle famiglie originarie addirittura come lesiva di un loro 8 diritto . Per essere ammessi al godimento delle terre comuni “chiuse”, dunque, non è sufficiente il solo rapporto di incolato, essendo necessaria anche la presenza del vincolo agnatizio che si sostanzia nella discendenza dagli antichi originari. Solo in limitati casi eccezionali sono ammessi a 9 partecipare nel gruppo chiuso anche i nuovi arrivati . Pur essendo diversi nella loro natura, gli usi civici, le terre civiche e le terre collettive hanno in comune il regime caratterizzato dalla inalienabilità, inusucapibilità, indivisibilità e perpetua destinazione agro-silvo-pastorale. Tuttavia, a differenza degli usi civici in senso stretto, solo nelle terre civiche e nelle terre collettive il diritto di godimento è attribuito ai componenti della collettività jure dominii. In proposito, va, tuttavia, precisato che la legge del 16.06.1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici, non è chiara nello stabilire a chi spetti la proprietà della terre civiche. L’art. 11 fa riferimento ai terreni “posseduti” da Comuni, frazioni di comuni, università ed altre associazioni agrarie, mentre l’art. 1, co. 2, stabilisce che “I diritti delle popolazioni su detti terreni”, ovvero sulle terre civiche, “saranno conservati” e l’art. 58 del r.d. 26.02.1928, n. 332, recante il regolamento per sotto la Serenissima, Padova, 1988, 54 riporta l’etimologia del termine proposta da Baldi, in base alla quale “vagantivo” deriverebbe da vacuum (vuoto antico), cioè uno spazio che non apparteneva a nessuno in particolare, e che di conseguenza poteva essere usato da tutti. 6 I feudisti meridionali ponevano, accanto al demanio universale, il demanio pubblico, goduto dai cives uti universi, e il dominio privato o patrimoniale dell’ente Comune. Coll’andar del tempo, quando iniziò a perdersi la distinzione tra le famiglie originarie e il complesso cittadino del Comune, le terre dei demani universali cominciarono a confluire nel patrimonio del Comune. I demani universali furono poi oggetto, insieme agli usi civici in senso stretto, delle usurpazioni dei baroni e dei privati più potenti, e successivamente della politica liquidatrice, ispirata alle idee economiche del XVIII sec. Le leggi amministrative francesi assegnarono le terre in proprietà collettiva all’ente Comune, contribuendo così a render ancora più confusa l’originaria distinzione tra demanio universale e patrimonio del Comune (con conseguente confusione anche di regimi, in quanto in principio solo il demanio universale era considerato inalienabile e inusucapibile, mentre il patrimonio del Comune seguiva il regime privatistico). Tutti questi elementi portarono alla progressiva riduzione delle terre civiche. Cfr. GERMANÒ, Le comunioni familiari montane come formazioni sociali, in Riv. giur. sarda, 1992, 277. 7 GERMANÒ, Carneade, chi era costui? Ovvero degli usi civici, in Riv. dir. agr., 1994, II, 209. 8 ROMAGNOLI, Regole dell’arco alpino, in Noviss. Dig. it., Appendice, VI, Torino, 1986, 608. Quando nel XIX sec. a seguito della dominazione francese si strutturò il Comune quale ente amministrativo, in alcuni casi l’antica comunità originaria si fuse con questo, e il patrimonio passò al nuovo ente, in altri casi resistette, affermando la propria autonomia e indipendenza. 9 Le condizioni per poter fare ingresso nel gruppo chiuso variano da zona a zona. Ad. es., in passato, nel Cadore il foresto poteva essere ammesso a far parte della Regola, dopo aver acquistato la cittadinanza cadorina, solo se l’assemblea si dichiarava favorevole, attraverso un giudizio discrezionale. Nel bresciano e nel veronese, invece, a seguito della legge veneta del 1674, i foresti potevano accedere al godimento dei “beni comunali veneti”, automaticamente con la residenza protratta per cinquant’anni, e con la contribuzione di tutte le “fazioni” reali e personali. 110 Elisa Tomasella l’esecuzione della legge 16.06.1927 n. 1766, si riferisce ai beni delle associazioni agrarie come beni “di originario godimento comune” . In dottrina la maggioranza degli Autori ritiene, invece, che la titolarità delle terre civiche spetti 10 senz’altro alla collettività , anche se per alcuni le terre civiche dovrebbero ritenersi di proprietà dell’ente Comune, aperte all’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti di un determinato 11 territorio . 12 13 La giurisprudenza di legittimità e di merito conferma l’indirizzo espresso dalla dottrina 14 maggioritaria. Anche la Corte Costituzionale nella sentenza del 30.10.1995, n. 46 fa riferimento alle popolazioni titolari dei diritti di proprietà collettiva o di uso civico, considerando i Comuni solo quali enti rappresentativi delle collettività proprietarie. Per le terre collettive della montagna italiana, l’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97 conferma, invece, senza alcuna ombra di dubbio che si tratta di «beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva», nei confronti dei quali l’organizzazione montana, a cui viene riconosciuta la personalità giuridica di diritto privato, si configura come semplice amministratore piuttosto che effettivo titolare 15 dei beni . TERRE CIVICHE, TERRE COLLETTIVE E COMUNIONE ROMANISTICA Il codice civile e le leggi speciali non contengono una precisa definizione delle terre civiche, delle terre collettive e degli usi civici. Questa indeterminatezza non aiuta il giurista che corre il 10 Cfr. GERMANÒ, Usi civici, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 535 ; TREBESCHI C., Favole, Gaggi, regole, vicinie. Alla ricerca di un diritto sopravvissuto, anzi vivente. Un dato al plurale, in TREBESCHI C., TREBESCHI A., ROMAGNOLI, GERMANÒ, Comunioni familiari montane, vol. II, Brescia, 1992, 163.; CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983, 60; FULCINITI, I beni di uso civico, Padova, 1990, 109; ROSSI G., I demani civici e le proprietà collettive tra passato e presente, in Quaderni di ricerca del Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive di Trento, 2001, n. 12; MARINELLI, Gli usi civici. Aspetti e problemi delle proprietà collettive, Napoli, 2000 . 11 É dell’avviso contrario, invece, PETRONIO, il quale ritiene che le terre civiche siano in proprietà dell’ente Comune, aperte all’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti di un determinato territorio. Rivisitando le fonti dei giuristi napoletani, l'A. afferma che, ad avviso di quest’ultimi, i diritti di uso civico sul demanio comunale consistevano in «diritti con un contenuto specifico e determinato, esercitati su beni che erano in proprietà di soggetti diversi da quelli che esercitavano gli usi: proprietario dei beni era il Comune, utenti i cives che facevano proprie le singole utilitates del territorio» (intervento di PETRONIO in CARLETTI (a cura di), Demani civici e risorse ambientali, Napoli, 1993, 277). Di conseguenza l’A. ritiene che non sia possibile parlare, a proposito di terre civiche, di proprietà collettiva: la cui forma pura è riscontrabile invece nelle sole cd. proprietà collettive chiuse. Cfr. anche PETRONIO, Rileggendo la legge sugli usi civici, in Riv. dir. civ, 2006.; Id., Usi civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in CORTESE E. (a cura di), La proprietà e le proprietà, Milano, 1988, 491; Id., Usi civici, in Enc. Dir., XLV, Milano, 1992, 930; Id., L’attuale dibattito in materia di usi civici: problematiche nazionali e locali, in Rivista amministrativa della Regione Veneto, 1995, 167 e ss.; Id., Alcune osservazioni sui rapporti tra Regole e Comuni cadorini (in margine ad una controversia tra le Regole di Costalta, Presenaio, San Pietro e Valle e il Comune di San Pietro di Cadore) in Agricoltura e diritto, Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Milano, 2000, 683. Ma sul tema cfr. anche BARBACETTO, Servitù di pascolo, civicus usus e beni comuni nell’opera di Giovanni Battista De Luca (†1683), in NERVI, (a cura), Cosa apprendere dalla proprietà collettiva: la consuetudine fra tradizione e modernità. Atti della VIII riunione scientifica (Trento, 14-15 novembre 2002), Padova, 2003, 267. 12 Cass., 18 marzo 1949, n. 602; Cass. 18 dicembre 1952, n. 3233; Cass. 3 febbraio 1962, n. 210; Cass. 11 febbraio 1974, n. 387, in FEDERICO, codice degli usi civici, sentenze nn 213, 248, 308. Più recentemente cfr. Cass., 16-03- 2007, n. 6165, in Mass. Giur. It, 2007; Cass., 9.-2-2001, n. 1870, in Dir. giur. agr. amb., 2002, 113, con nota di DEL PAPA. L’indirizzo viene confermato anche dal Consiglio di Stato: cfr. C. St., 6-03-2003, n. 1247, in Cons. Stato, 2003, I 1080. Cfr. anche Cons. Giust. Amm. Sic., 22-12-1995, n. 379, in Cons. Stato, 1995, I, 1724. 13 Cfr. A. Roma, U.C, 14-02- 1990, in Giust. civ., 1990, I, 1105; T.R.G.A. Trentino – A. Adige Trento, 29-05-2006, n. 179, in Massima redazionale. 14 In Dir. giur. agr.amb., 1995, 145, con nota di PETRONIO, Ad avere l’ultima parola... 15 La personalità giuridica doveva considerarsi concetto estraneo per le genti di montagna. Nelle Regole cadorine, ad esempio, ciascun regoliere era considerato proprietario dei beni collettivi e l’assemblea li gestiva secondo le modalità stabilite dal laudo, senza dover ricorrere alla costruzione artificiosa di un soggetto terzo inteso quale centro di imputazione di tutte le situazioni giuridiche attive e passive. Ritiene che il riconoscimento della personalità giuridica non abbia comportato il trasferimento dei diritti di proprietà dalla collettività all’ente SANTI ROMANO, Il Comune. Parte generale, in ORLANDO V.E. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, 1900, vol. 2, parte II, p. 1616; GIANNINI., I beni pubblici, Roma, 1963, 44; DE MARTIN, Profili giuridici degli enti regolieri nel quadro del nuovo assetto degli enti montani, Milano, 1973, 41. Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 111 rischio di confondere questi istituti giuridici con la comunione romanistica, certamente a lui più familiare. La proprietà collettiva non può, tuttavia, essere assimilata alla comunione, disciplinata dagli artt. 1100 e s.s. del codice civile, che rispecchia il paradigma individualistico della proprietà, visto che il singolo compartecipante risulta quale indiscusso dominus della propria quota, di cui può disporre liberamente. Nelle terre civiche e nelle terre collettive, invece, i membri della collettività non sono titolari di un diritto su una quota ideale del bene di cui possano liberamente disporre ma, al contrario, ciascuno è titolare di un diritto soggettivo che comprende il bene nella sua totalità e che non è localizzabile in una parte determinata del bene. Inoltre, le collettività non possono liberamente disporre dei loro diritti, poiché diversamente dalla comunione disciplinata dal codice civile, essi non sono trasferibili, e al contrario di quanto previsto dall’art. 1111, co. 1, c.c., non sono nemmeno legittimati a chiedere la divisione del bene. La proprietà collettiva è, infatti, una situazione giuridica perpetua, fondata su un regime parademaniale vicino al regime che regge i beni pubblici, in base al quale non sono ammessi l’usucapione, l’alienazione e la divisione. I principi posti a fondamento del regime pubblicistico della proprietà collettiva costituiscono l’essenza dei diritti delle collettività e contribuiscono a conferire a questo modello proprietario un volto assai differente rispetto alla proprietà individuale liberamente disponibile. IL RIORDINO DEGLI USI CIVICI E DELLE TERRE PROPRIETÀ COLLETTIVE La disciplina fondamentale delle terre civiche e degli usi civici è contenuta nella l. 16.06.1927, n. 1766. Si tratta di una legge generale con la quale viene perseguito l’obiettivo di addivenire alla sistemazione definitiva delle varie forme di proprietà collettiva e di uso civico diffusi 16 su tutta la penisola italiana . Non essendo più tollerate situazioni di promiscuo godimento tra collettività e proprietario, in presenza di usi civici in senso stretto il legislatore fascista prescriveva la liquidazione dei diritti collettivi su terre altrui, di preferenza, attraverso l’attribuzione in piena proprietà al Comune di una parte del bene gravato dai diritti (cfr. artt. 5 e seguenti della l. 16.06.1927, n. 1766). Nonostante la legge favorisse lo scorporo in natura, nella prassi venne tuttavia privilegiata la liquidazione in danaro. Secondo l’art. 7 del regolamento 26.02.1928, n. 332, infatti, non è consentito procedere alla divisione nei casi, assai frequenti, in cui i terreni abbiano ricevuto dal proprietario sostanziali e permanenti migliorie o in presenza di piccoli appezzamenti non raggruppabili in unità agrarie. In tali ipotesi è riconosciuto al Comune solo il diritto di percepire il pagamento di un canone enfiteutico annuo. 17 Per le terre civiche un delegato tecnico provvede, invece, alla redazione di un piano di massima, sulla scorta del quale la Regione, a seconda della natura dei beni, assegna le terre alle diverse categorie. Nella categoria a) sono inclusi i terreni convenientemente utilizzabili come bosco o pascolo permanente. Su tali terreni i diritti delle collettività debbono essere esercitati in conformità di un piano economico. Il richiamo all’art. 1021 cod. civ., contenuto nell’art. 12, co. 3, della l. 16.06.1927, n. 1766, limita, comunque, l’utilizzo e il prelievo delle risorse a quanto necessario per il bisogno degli utenti e della loro famiglia. Il regime giuridico dei terreni assegnate alla categoria a) è disciplinato dall’art. 12, co. 2, della l. 16.06.1927, n. 1766, del 1927, il quale preclude l’alienazione o il mutamento di destinazione 18 delle terre civiche in assenza della prescritta autorizzazione regionale . 16 Sulle operazioni di sistemazione dei beni civici cfr. CERVATI, Aspetti della legislazione vigente circa usi civici e terre d’uso civico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1967, 88 ; GERMANÒ, Usi civici, cit., 535; CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 343, PETRONIO, Usi civici, cit., 941; FULCINITI, I beni di uso civico, cit., 166. 17 L’art. 65, r.d. 26.02.1928, n. 332 prevede, tuttavia, che le disposizioni contenute nel capo II della legge sugli usi civici relative alla sistemazione, ripartizione, e godimento dei beni dei Comuni e delle Associazioni agrarie, comprese quindi le disposizioni in tema di quotizzazione delle terre coltivabili, non vengano applicate alle Associazioni agrarie, composte da determinate famiglie, che, possedendo esclusivamente terre atte a coltura agraria, vi abbiano apportato sostanziali e permanenti migliorie. L’applicazione della norma doveva avvenire con decreto del Ministro dell’economia nazionale, su istanza da presentarsi entro 90 giorni dall’entrata in vigore del regolamento. Solo le Partecipanze agrarie emiliane hanno potuto godere del regime differenziato della legge del 1927. Sulle Partecipanze cfr. GALGANO, Sulla natura giuridica delle partecipanze agrarie emiliane, in Riv. dir. agr., 1993, I, 179. 112 Elisa Tomasella Alla categoria b) vengono invece assegnati i terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria (art. 14). In seguito alla redazione di un piano tecnico di sistemazione fondiaria e di avviamento colturale, i beni vengono ripartiti tra le famiglie dei coltivatori diretti del Comune e della frazione, con preferenza di quelli meno abbienti, purché diano affidamento di trarne la maggiore utilità (art. 13). Il demanio viene, quindi, trasformato in allodio, proprietà piena e libera, assegnato ai privati sulla base della presunzione che solo la proprietà individuale sia in grado di incrementare la produzione agricola. LE TERRE COLLETTIVE Anche le proprietà collettive dell’arco alpino furono assoggettate alla disciplina generale della legge sul riordino. Nell’immediato dopoguerra, la tenace battaglia condotta dalle Regole della montagna 19 bellunese , spinse il legislatore repubblicano a riconoscere la personalità giuridica di diritto 20 pubblico alle Regole Cadorine (decreto legislativo 3.05.1948, n. 1104) . Successivamente, l’art. 34 della legge 25.07.1952, n. 991, meglio nota come la prima legge 21 sulla montagna, sancì il principio in base al quale tutte le comunioni familiari montane dovevano continuare a godere e ad amministrare i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini riconosciuti dal diritto anteriore. La giurisprudenza, tuttavia, non colse affatto la portata innovativa del dettato legislativo, continuando ad applicare la legge sugli usi civici del 1927 anche alle terre 22 collettive chiuse . Successivamente la l. 3.12.1971, n, 1102 stabilì a chiare lettere l’inapplicabilità della legge sugli usi civici per le comunioni familiari montane, tra le quali vennero espressamente incluse le Regole ampezzane, quelle del Comelico, le Servitù della Val Canale e le Società di antichi originari della Lombardia. L’ultimo provvedimento legislativo a favore dei territori montani ribadisce il riconoscimento delle terre collettive, giustificando la loro sopravvivenza per la capacità intrinseca del loro particolare regime di perseguire e di raggiungere obiettivi fondamentali quale, appunto, la protezione dell’ambiente (art. 3, l. 31.01.1994, n. 97). IL COLLEGAMENTO TRA IL REGIME GIURIDICO DELLE PROPRIETÀ COLLETTIVE E LA TUTELA DELL’AMBIENTE Il particolare regime della proprietà collettiva, retto dai principi dell’inalienabilità, indivisibilità, inusucapibilità e vincolo di destinazione perpetua alle attività agro-silvo-pastorali, ha consentito la 23 conservazione del patrimonio attraverso l’avvicendarsi delle varie generazioni , nell’interesse dei singoli e dell’intera collettività, con vantaggio (indiretto) dell'ambiente che dal sistema di proprietà 24 collettiva è stato ed è protetto . 18 Sulle sanatorie degli atti di alienazione e di mutamento di destinazione intervenuti prima dell’assegnazione a categoria v. infra. 19 TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime dei beni regolieri, Belluno, 2000, 59. 20 In tema cfr. POTOTSCHNIG, Le Regole della Magnifica Comunità Cadorina, Milano, 1953. 21 BOLLA, Criteri di interpretazione e di applicazione dell’art. 34 della legge 25 luglio 1952, n. 991, in Riv. dir. agr., 1960, I, p. 591. 22 A. Roma, U.C., 18- 02-1956, in TREBESCHI C., ROMAGNOLI (a cura di), Comunioni familiari montane, Brescia, 1975, 246. 23 CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 341, definisce parademaniale il regime dei beni in proprietà collettiva. Sulla differenza tra beni pubblici e beni in proprietà collettiva cfr. anche CERULLI IRELLI, Uso pubblico, in Enc. Dir., XLV, Milano, 1992, 969, e per ulteriori riferimenti bibliografici TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime dei beni regolieri, cit., 81. 24 Cfr. ROMAGNOLI, Le comunioni familiari montane: natura privata e interesse pubblico, in DE MARTIN (a cura di), Comunità di villaggio in Italia e in Europa, Cedam, 1990, 152. Sull’interesse ambientale protetto dal regime parademaniale dei beni in proprietà collettiva cfr. GERMANÒ, Riordino e tutela delle Regole e delle organizzazioni montane per la gestione dei beni agro-silvo-pastorali: il caso della regione Veneto, in Dir. agricoltura, 1995, I, 59 e ss.; CROSETTI, Il rapporto tra usi civici e il paesaggio, in NERVI (a cura di), Il ruolo economico e sociale dei demani civici e delle proprietà collettive. Le terre civiche: dove, per chi, per che cosa, Atti della III Riunione scientifica del Centro Studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive (Trento, 13-14 novembre 1997), Padova, 1999, 203. Anche la Corte Costituzionale con la sentenza del 20-02-1995, n. 46, ha ritenuto legittimi i poteri ufficiali del Commissario liquidatore degli usi civici in quanto necessari per un’efficace tutela delle zone gravate da usi civici in quanto beni ambientali e paesaggistici. Sul tema GERMANÒ, Sul Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 113 L’interesse ambientale sotteso alle proprietà collettiva viene conseguito grazie al vincolo di destinazione (perpetuo) dei patrimoni all’attività agricola. Le modalità del godimento e le possibilità di sfruttamento dei beni collettivi sono, infatti, legate all’agricoltura, poiché i titolari dei diritti di proprietà collettiva possono trarre dai beni solo le utilitates connesse alla gestione agro-silvopastorale dei patrimoni antichi. Tra il regime di pubblicistico e il vincolo di destinazione alle attività agro-silvo-pastorale il legislatore riconosce un legame profondo, a tal punto che una volta determinato il mutamento di destinazione si verifica allo stesso tempo uno dei presupposti per l’estinzione del diritto. L’inalienabilità, l’inusucapibilità e l’indivisibilità sono giustificate dalla persistenza del vincolo di destinazione dei beni collettivi alle attività agro-silvo-pastorali, poiché nel tempo il regime di appartenenza collettiva delle terre ha dimostrato di costituire un modello di gestione efficiente delle risorse agricole che ha conservato e protetto l’ambiente in favore delle generazioni future. Il collegamento tra la proprietà collettiva e la tutela dell’ambiente è stato colto anche dal diritto. Nel nostro ordinamento giuridico lo stretto legame tra la proprietà collettiva e la tutela dell’ambiente venne riconosciuto per la prima volta nella legge Galasso, dell’8.8.1985, n. 431, la quale ha elevato le “aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici” a beni 25 ambientali . Il legislatore ha così introdotto accanto al sistema di vincoli di cose e località di particolare pregio estetico isolatamente considerate, una diversa ed immediata tutela delle bellezze naturali, mediante l'indicazione legislativa di vaste porzioni del territorio. Dottrina minoritaria ha tuttavia dubitato della legittimità dell’apposizione del vincolo ai beni d’uso civico e alle aree assegnate alle Università agrarie, rilevando come l’interesse ambientale sarebbe stato individuato senza alcun riferimento alla ubicazione o alla struttura fisico-morfologica 26 dei beni, in assenza dell’effettivo riconoscimento del loro valore estetico e culturale . 27 La Corte Costituzionale ha, invece, ritenuto che tra le zone vincolate assumono legittimamente “rilievo le aree di proprietà delle università agrarie ovvero quelle assoggettate ad usi civici, che, proprio per l'esistenza di obblighi correlati al carattere di comunità con rilevanza anche pubblicistica, sono rimaste destinate ad usi agricoli, agro-silvo-pastorali tradizionali o, per la maggior parte, conservate nelle destinazioni che consentono usi collettivi (pascolo, legnatico ecc.)”. L’assoggettamento a vincolo di tali aree risponde ad una scelta, tutt'altro che irrazionale, diretta a salvaguardare vaste porzioni di territorio, non solo secondo profili tipicamente paesistici ovvero secondo ubicazioni o aspetti morfologici, ma anche secondo lo speciale regime giuridico. Secondo la Corte proprio il regime ha consentito di conservare “vaste aree con destinazione a pascolo naturale o a bosco, o agricole tradizionali, e risalenti nel tempo nelle diverse Regioni in relazione agli obblighi gravanti e alla particolare sensibilità alla conservazione da parte delle collettività o comunità interessate, in modo da consentire il mantenimento di una serie di porzioni omogenee del territorio, accomunate da speciale regime o partecipazione collettiva o comunitaria, e caratterizzate da una tendenza alla conservazione dell'ambiente naturale o tradizionale, come patrimonio dell'uomo e della società in cui vive”. La relazione tra proprietà collettiva ed ambiente è stata valorizzata dalla giurisprudenza anche per giustificare la permanenza nel nostro ordinamento dei poteri d’impulso processuale attribuiti al Commissario liquidatore dall’art. 29 della l. 16.07.1927, n. 1766 nei giudizi di sua competenza. La Corte Costituzionale nella sentenza del 1° aprile 1993, n. 133, ha collegato i poteri officiosi del Commissario “all'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui ciò contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio (art. 1 della legge n. 431 del 1985), la cui tutela non può essere rimessa esclusivamente a soggetti portatori di interessi locali - quali le Regioni e le popolazioni titolari dei diritti civici - ma postula anche il potere di azione giurisdizionale in capo ad un organo di giustizia, sia pur diverso dal commissario-giudice”. L’orientamento è stato successivamente condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità . procedimento commissariale agli usi civici, in Dir. giur. agr. amb., 1995, 494; PETRONIO, La Corte Costituzionale timida, cit., 80; Id., Ad avere l’ultima parola..., cit., 145. 25 La tutela ambientale prevista per le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici è ora contenuta nell'art. 142 del Codice dei Beni culturali e paesaggistici, approvato con d.lgs. 22.01. 2004, n. 42. 26 PETRONIO, L’attuale dibattito in materia di usi civici: problematiche nazionali e locali, cit.; ID., La Corte Costituzionale timida, cit. 80. 27 C. Cost. (ord,), 22-07-1998, n. 316, in CED Cassazione, 1998, confermata da C. Cost. (ord.), 18-03- 1999, n. 71, in Foro It., 1999, I, 3462. 114 Elisa Tomasella L’OGGETTO DEL VINCOLO AMBIENTALE Non è chiaro se l’art. 142 del Codice dei Beni culturali e paesaggistici, riferendosi genericamente alle aree assegnate alle università agrarie e alle zone gravate da usi civici, debba trovare applicazione anche nel caso delle terre collettive disciplinate dall’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97. 28 Sul punto la Corte Costituzionale nell’ordinanza del 22 luglio 1998, n. 316 ,ha ritenuto che le zone gravate da usi civici e le aree assegnate alle università agrarie soggette a vincolo vadano individuate in quelle aree assoggettate allo speciale regime “di appartenenza a determinati soggetti pubblici (università agrarie), caratterizzati da natura associativa e da gestione di domini collettivi e dall'amministrazione di terre demaniali di uso civico e, nelle province dell'ex Stato pontificio, anche dalla provenienza da affrancazione da servitù di uso civico (legge 4 agosto 1894, n. 397), con attività rivolta alla cura di interessi generali senza connotati imprenditoriali ed in stretto collegamento, nella maggior parte dei casi, con le strutture municipali, e con la frequente coesistenza, quantomeno nell'origine in talune regioni, con vincoli di uso civico”; ovvero quei terreni assoggettati al “regime della particolarità della disciplina pubblicistica (aree gravate da usi civici), caratterizzata da appartenenza a comunità di utenti (demani collettivi, comunali o universali) o da usi che si esercitano su terre aliene da parte di comunità di utenti”. Sotto quest’ultimo profilo non vi sarebbe ragione per escludere dall’applicazione dell’art. 142 del Codice dei beni culturali e paesaggistici anche le terre collettive, assoggettate, come le terre civiche, allo stesso regime di tipo parademaniale e con patrimoni che appartengono iure dominii alle collettività. Le implicazioni anche di tipo penale che discendono dalla violazione dei vincoli ambientali, ci impongono tuttavia di considerare che nel nostro ordinamento vige il principio di stretta legalità, in 29 base al quale non è possibile ricavare norme incriminatici non chiare e sicure per via analogica . Ebbene, la natura privatistica, la sostanziale differenza rispetto agli usi civici e alla terre civiche e il fatto che non sono espressamente comprese nell’elenco dell’art. 142, dovrebbe essere di conforto a chi sostiene invece l’esclusione delle terre collettivo dal vincolo ambientale. Tale esclusione non annulla, tuttavia, l’importanza del collegamento tra le terre collettive e la tutela dell’ambiente, riconosciuto invece dall’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97. IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE SECONDO LA LEGGE SUGLI USI CIVICI Se l’interesse ambientale sotteso alle proprietà collettive è conseguito attraverso il mantenimento della loro consistenza funzionale, ne consegue che il mutamento di destinazione e l’alienazione delle terre oggetto dei diritti collettivi incidono direttamente anche sull’interesse ambientale protetto dal legislatore. Nonostante la delicatezza dei problematiche connesse al mutamento di destinazione e all’alienazione, che si sostanziano nella necessità di contemperare la protezione degli interessi della collettività proprietaria e degli interessi prettamente ambientali della collettività generale con esigenze di sviluppo urbanistico, l’art. 12 della legge n. 1766/1927 non indica i requisiti in presenza dei quali l’autorità pubblica possa autorizzare la vendita o una destinazione diversa delle terre civiche. Autorevole dottrina ha ritenuto di colmare la lacuna ricavando dalla destinazione pubblica forestale impressa ai beni civici dalla legge sul riordino un riferimento alle norme (oggi) stabilite in 30 tema di alienazione dei beni costituenti il patrimonio forestale delle Regioni . L’art. 119 della legge 28 C. Cost. (ord,), 22 -07-1998, n. 316, cit. Cass. pen., 25-05-1993, in Cass. pen., 1995, 372, “In tema di tassatività della fattispecie penale, l'interprete non può ricavare norme incriminatrici non chiare e sicure per via analogica, dovendosi attenere al principio di stretta legalità. Ne deriva che, quando non risulti con precisione che un comportamento sia colpito da una determinata norma incriminatrice, va esclusa l'incriminabilità della condotta. (Nella specie la Corte ha ritenuto non configurabile la violazione dell'art. 1-sexies l. 08.08.1985, n. 431 nell'ipotesi di ancoraggio e sosta con una imbarcazione da diporto a trenta metri dalla costa dell'isola di Giannutri, dove è vietato il transito di barche a motore. La Corte ha osservato che la legge de qua protegge i parchi e le riserve, ma non quelli marini). 30 CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 386 ritiene che «la normazione speciale relativa ai beni collettivi a destinazione pubblica nulla dispone, perché rinvia alla disciplina generale dei beni a destinazione pubblica cui i primi sono 29 Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 115 n. 30.12.1923, n. 3267 consente, infatti, l’alienazione solo per quelle terre che, per loro natura e struttura, non rispondano più ai fini di tutela della stabilità dei suoli, oppure non siano destinati alla produzione di legname o a scopi sperimentali e di guida per i produttori privati, sempre che le terre non possano essere utilizzate per importanti trasformazioni agrarie e sempre che per la loro esiguità materiale l’alienazione non sia pregiudizievole alle esigenze del patrimonio circostante e, 31 invece, sia necessaria a soddisfare esigenze locali di abitazione e di industria . In questo modo la lesione all'integrità dei patrimoni collettivi che l'alienazione comporta assume un’importanza di second’ordine, poiché nel giudizio della p.a. vengono valutate 32 principalmente le finalità pubbliche a cui il patrimonio forestale sottende . Senza attingere alla legge forestale è, tuttavia, possibile ricavare dallo stesso sistema che regola i beni collettivi importanti elementi che permettono di guidare l’interprete nella comprensione dell’istituto. Infatti, considerando l’importanza che la proprietà collettiva ha assunto soprattutto ai fini di tutela ambientale, riconosciuta dalla legge Galasso e ribadita dalla Corte Costituzionale, si ricava che l’alienazione è possibile solo per limitate estensioni di terra, sempre che non venga impedito il soddisfacimento dell’interesse ambientale da parte del restante patrimonio collettivo. L’alienazione è sicuramente un momento forte di sottrazione del bene alla destinazione e alla disponibilità della collettività. In cambio del sacrificio a cui è sottoposta la collettività degli abitanti è previsto un compenso in danaro che ai sensi dell’art. 24, co. 2, della legge del 1927 deve essere investito in buoni del tesoro. La legge del 1927, non prevedendo il meccanismo della reintegrazione dei patrimoni delineato invece dalle successive leggi sulla montagna, disegna l’alienazione come un punto irrimediabile di frattura nel patrimonio collettivo. Per questi motivi, l’alienazione non può non rappresentare che un’ipotesi del tutto residuale, autorizzabile in concreto solo quando l’interesse prevalente conseguibile attraverso l’istituto risulti superiore rispetto agli interessi di tutela ambientale, e sempre che l’integrità della risorsa nel suo insieme non venga menomata. Nel bilanciare gli interessi che vengono conseguiti con l’alienazione, la p.a. dovrà, quindi, tener conto non solo dell’interesse della collettività proprietaria alla conservazione dei propri diritti, ma anche dell’interesse generale alla tutela ambientale che viene conseguita tramite la 33 conservazione dei beni in proprietà collettiva . Il mutamento di destinazione pare non rappresentare, invece, un punto di rottura così netto come l’alienazione. Dall’art. 41 del regolamento applicativo della legge del 1927 si ricava, infatti, che il mutamento deve essere possibilmente temporaneo e reversibile, pur non essendo escluso a 34 priori anche un mutamento stabile . L’unico limite previsto ex lege riguarda la necessità che il mutamento determini un generale beneficio per la collettività degli abitanti. assimilati. E’ la normazione forestale, dunque, che va esaminata sul punto». Secondo l’Autore il regime di inalienabilità proprio dei beni forestali dello Stato può essere derogato solo nei casi stabiliti dall’art. 119 della legge forestale. 31 Secondo CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 388 la vendita non deve nemmeno essere di nocumento al godimento dell’uso civico, ove questo sia effettivamente esercitato ed occorre la presenza di un interesse pubblico concreto che nella singola specie induca l’amministrazione ad autorizzare la vendita. 32 CARLETTI, Il demanio civico: interessi collettivi, interessi privati e generali, in Nuovo dir. agr., 1990, 331, non condivide l’impostazione del problema delineata da Cerulli Irelli. Secondo il primo «...poiché il mutamento di destinazione e l’alienazione comportano entrambi perdita della consistenza materiale del bene - destinata a concludersi, nel secondo caso, con la sua irreversibile trasformazione dell’equivalente monetario - la regola espressamente prevista per il primo caso può legittimamente estendersi anche al secondo». Ad avviso dello stesso A., Gli utilizzi d’uso civico come modello per la tutela dell’ambiente, in Nuovo dir. agr, 1983, 441 inoltre «la previsione di una qualche possibilità di alienazione sembra destinata a regolare i casi in cui - né tramite il mutamento di destinazione sulla richiesta degli originari, né, mancando un diretto interesse di costoro alla gestione, tramite la concessione a terzi - sia possibile rispettare la consistenza irrinunciabile del bene». 33 La Corte Costituzionale nella sentenza del 21-11-1997, n. 345, in Foro it ., 1999, I, p. 2171, sottolinea l'importanza dell'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, superando, in un certo modo, la pronuncia della C. Cost. 30-12-1991, n. 511, in Riv. dir. agr., 1992, II, p. 245, che nel ritenere costituzionalmente legittimo l'art. 10 della l. r. Abruzzo 1988, n. 25, nella parte in cui consente la sclassificazione di terre civiche che da tempo abbiano perso la conformazione fisica e la destinazione funzionale di terreni agrari, non tiene in alcun conto l'interesse ambientale sotteso ai beni collettivi. 34 Ai sensi dell’art. 41, co. 3, del r.d. 26.02.1928, n. 332 «Qualora non sia possibile ridare a queste terre l'antica destinazione, il Ministro per l'agricoltura e le foreste potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime». 116 Elisa Tomasella Non sembra rientrare nell’ambito del mutamento di destinazione la semplice interruzione 35 dell’esercizio dei diritti dei proprietari nel rispetto della destinazione forestale . Più correttamente, forse, si potrebbe ritenere che con il mutamento sia possibile imprimere alle terre collettive una destinazione diversa da quella forestale, ma questa destinazione non necessariamente potrà impedire l’utilizzo dei beni da parte della collettività proprietaria. Non sarebbe, invece, soggetta ad autorizzazione l’ipotesi inversa, e cioè l’interruzione dei diritti dei proprietari non attuata attraverso un mutamento di destinazione, perché ciò che interessa il controllo pubblico è solamente la destinazione forestale. Circa le alternative destinazioni autorizzabili ai sensi dell’art. 12 della l. 16.06.1927, n. 1766 la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato restrittivamente il dettato dell’art. 41 del 36 regolamento applicativo della legge del riordino, prevedendo solo l’esercizio di attività agricole . 37 La Corte di Cassazione, nella sentenza del 30 gennaio 2001, n. 1307 , ha invece rovesciato l’impostazione, consentendo non solo utilizzazioni agricole, ma anche destinazione pubbliche diverse, quali ad esempio strade od ospedali, ed anche la realizzazione di discariche, ritenendo che anche in questo caso sussista il beneficio generale della collettività. E’ difficile negare che i vantaggi derivanti dalla costruzione di importanti opere pubbliche, come le prime qui sopra descritte, ricadano anche sulla collettività proprietaria. Ma appare nel medesimo tempo difficile giustificare a priori la perdita della disponibilità del bene che la collettività proprietaria subisce a seguito di una destinazione stabile e di difficile reversibilità impressa alle proprie terre che impedisce di trarre dal patrimonio antico le utilitates cui ha diritto. Il vantaggio della costruzione di un’opera pubblica cade di riflesso anche sulla collettività proprietaria, ma il costo della privazione dei diritti collettivi non è in alcun modo compensato (a differenza di quanto accade nel caso dell’alienazione, come si è sopra ricordato). Sicché la pronuncia della Corte di Cassazione sembra trascurare la stessa generale disposizione dell’art. 42 co. 3 della Costituzione, che prevede anche per le forme anomale di espropriazione un equo indennizzo. Elemento questo che nel caso di specie la Suprema Corte non ha tenuto in conto. 38 Nel rispetto del diritto di proprietà e senza privare i titolari del diritto di utilizzo diretto del bene, si potrebbe, quindi, in prima battuta ritenere che attraverso il mutamento di destinazione si possano imprimere anche destinazioni diverse da quelle agricole, qualora venga assicurato il beneficio generale della collettività dei proprietari, inteso quale utile fruizione del bene, e mantenendo il bene (mutato nella sua destinazione) ancora nella loro disponibilità. Tuttavia, a nostro avviso, il limite del beneficio generale contenuto nell’art. 41 del regolamento applicativo della legge 1927 deve avere come punto di riferimento non solo la cerchia 35 Secondo CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 392, è pacifico che la fattispecie del mutamento di destinazione stabilita con provvedimento amministrativo attiene esclusivamente all’interruzione dell’esercizio degli usi civici. La valutazione da compiersi da parte dell’autorità amministrativa è rivolta esclusivamente a ponderare il danno che tale interruzione comporta nella vita e negli interessi economici della comunità d’abitanti a fronte dell’utilità che ad essa può pervenire per effetto della nuova destinazione impressa al bene. 36 CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 393, ritiene che non sia ammesso nella disciplina generale dei beni in proprietà collettiva a destinazione pubblica, che a tali beni o a singole loro porzioni siano attribuite destinazioni diverse da quelle comunque compatibili con la fondamentale destinazione forestale produttiva o agraria stabilita dalla legge per questa categoria di beni. In senso conforme cfr. l. Fulciniti, I beni di uso civico, cit., 240. 37 Cass., 30-01-2001, n. 1307, in Dir. giur. agr. amb., 2003, 237, con nota di TOMASELLA, I possibili mutamenti di destinazione delle terre civiche: la Cassazione include le discariche. 38 E’ necessario precisare che la problematica del mutamento di destinazione qui affrontata riguarda solamente le terre civiche, intese quali forme di proprietà collettive aperte al godimento degli abitanti di un Comune, di una Frazione, o degli appartenenti ad una Associazione agraria, e non gli usi civici in senso stretto che consistono in diritti di godimento su terra aliena per i quali la legge del 1927 prevede la liquidazione. Occorre inoltre precisare che la legge sul riordino degli usi civici non indica con chiarezza il titolare delle terre civiche. L’art. 11 e l’art. 8 fanno, infatti, riferimento alle terre d’uso civico possedute dai Comuni, Frazioni o Associazioni agrarie, ai terreni assegnati a Comuni, all’attribuzione dopo lo scorporo a ciascun Comune o a ciascuna frazione di una parte di terreno in piena proprietà, mentre l’art. 12 e l’art. 7, co. 2, si riferiscono ai diritti della popolazione. La dottrina è divisa tra chi sostiene che la collettività sia proprietaria delle terre civiche (CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 263 e ss., A. GERMANÒ, Sul soggetto cui debba imputarsi il diritto, cit., p. 163) e chi afferma, al contrario, facendo riferimento alla tradizione dei giuristi napoletani, che la titolarità delle terre debba essere imputata al Comune (PETRONIO, Usi civici fra tradizione storica, cit., p. 491). L’orientamento giurisprudenziale si è consolidato invece nel ritenere quali domini delle terre civiche gli abitanti di un Comune o di una frazione (Cass., 27-111954, n. 4329, in Giust. civ., 1954, I, p. 2835). Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 117 dei proprietari ma la collettività generale. Per tale motivo nella comparazione degli interessi pubblici che emergono nell’ipotesi di mutamento di destinazione, la p.a. deve tenere in considerazione 39 anche l’interesse ambientale che può essere compromesso con la nuova destinazione . A differenza dell’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97, la legge sul riordino degli usi civici non prevede l’obbligo di garantire l’originaria consistenza dei patrimoni antichi. La conservazione dell’interesse ambientale assicurata dalla legge sulla montagna attraverso la compensazione pare, quindi, essere estranea al sistema delineato nella legge del 1927. Occorre, tuttavia, fare attenzione all’importanza che l’obbligo di reintegra dei patrimoni silvopastorali sta acquisendo nell’ordinamento italiano. Anche nel decreto legislativo del 15.05.2001, n. 227, infatti, all'art. 4, co. 3, viene prevista la compensazione in caso di mutamento di destinazione 40 dei beni forestali privati . Pare quindi che, quale principio generale, il nostro ordinamento consenta la trasformazione del bene-bosco, ma solo previa reintegrazione delle risorse. D’altro canto, sotto questo punto di vista, la differenza di trattamento prevista per i beni collettivi siti in zone montane (ex legge 31.01.1994, n. 97) rispetto ai beni collettivi siti in zone diverse (ex legge 16.06.1927, n. 1766), che tuttavia hanno stessa natura e perseguono gli stessi interessi, sarebbe poco giustificabile. Se è interesse generale la conservazione del bene bosco e dei patrimoni collettivi, il beneficio generale a cui deve tendere il mutamento di destinazione, che deve riguardare non solo i proprietari ma la collettività nazionale intera, potrebbe essere conseguito anche tramite il meccanismo della compensazione attraverso la reintegrazione delle risorse, l’unico sistema che 41 sembra garantire il soddisfacimento dell’interesse ambientale . 39 Cfr. sentenze della C. Cost. 1-04-1993, n. 133; 20-02-1995, n. 46; 21-11-1997, n. 345 citt.; cfr. ancora T.A.R. Abruzzo, 22-07-1993, n. 369, con nota di POSTIGLIONE, La salvaguardia ambientale delle terre di uso civico, in Dir. giur. agr. amb., 1993, 561, che evidenziano l'importanza dell'interesse ambientale sotteso ai beni civici. Occorre, peraltro, sottolineare come la sentenza della Cass. 30-01-2001, n. 1307, cit., non consideri in alcun modo l'interesse agricolo-forestale del territorio in proprietà collettiva che la destinazione a discarica ineluttabilmente pregiudica. In generale la giurisprudenza ha, infatti, fino in questo momento negato rilievo giuridico ed azionabilità alla destinazione agricola. In proposito è sufficiente confrontare l'orientamento dei giudici amministrativi, ed in particolare il C. Stato, 15-06-2001, n. 3178, in Riv. giur. ambiente, 2002, 58 che ha dichiarato legittima la localizzazione di una discarica in zona agricola senza che fosse preventivamente valutata l'esistente utilizzazione agricola della zona. ALBISINNI, Territorio e impresa agricola di fase nella legislazione di orientamento, in Dir. giur. agr. amb., 2001, I, 566, sottolinea come l'introduzione da parte della legge 5.03.2001, n. 57, all'art. 7, co. 3, lett. a) del principio del rispetto delle “vocazioni produttive”, e all'art. 8, co. 1°, lett. e), del favore per «la conservazione … della destinazione agricola dei terreni» capovolge «la logica residuale e di risulta, per la quale il territorio agricolo era zona indistinta» e l'interesse agricolo (nei suoi aspetti insieme economici e sociali) diviene interesse esplicitamente protetto, chiamato ad orientare le scelte». Alla luce di questi nuovi principi anche per il mutamento di destinazione dei beni civici la pubblica amministrazione dovrebbe valutare non solo l'interesse ambientale ma anche quello propriamente agricolo e forestale. 40 L'art. 4, co. 6 prevede altresì che in luogo del rimboschimento compensativo, le Regioni possano stabilire «il versamento di una quota in numero corrispondente all'importo presunto dell'intervento compensativo» destinando tale somma alla realizzazione di interventi di riequilibrio idrogeologico nelle aree geografiche più sensibili ricadenti anche in altri bacini idrografici, oltre a poter stabilire la realizzazione di opere di miglioramento dei boschi esistenti. Sul d.lgs. 15.05.2001, n. 227/2001 cfr. GERMANÒ, Commento al decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227 in materia di orientamento e modernizzazione del settore forestale, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 714 e ss., e ABRAMI A., Nuovi contenuti e nuovi livelli di competenza fra Stato e Regioni in materia di foreste, in Dir. giur. agr. amb., 2001, I, 660. 41 E’ interessante constatare come la l.r. Veneto 23.04.2004, n. 11, recante «Norme per il governo del territorio», all’ art. 34, co. 3 preveda che «Il comune può, anche su proposta dei proprietari interessati, definire forme alternative all'espropriazione. Tali forme seguono i criteri della perequazione di cui all'articolo 35, ovvero possono consistere nella permuta con altri immobili o con quote edificatorie all'interno dei piani urbanistici, oppure nella partecipazione dei proprietari medesimi alla realizzazione delle attrezzature e dei servizi pubblici localizzati dal piano degli interventi su immobili dagli stessi posseduti». Detta norma estende a tutti i casi di espropriazione, anche per i beni in proprietà individuale, il principio della compensazione. Occorre, peraltro, evidenziare come in generale si sostenga l’inespropriabilità dei beni in proprietà collettiva in ragione del loro regime di tipo pubblicistico. Infatti, il legislatore ha stabilito che la titolarità dei beni collettivi debba permanere in capo alla collettività. Il trasferimento del diritto dominicale può, pertanto, avvenire solo attraverso la legge oppure attraverso il mutamento di destinazione ad iniziativa di parte. Ne consegue che la sottrazione di beni al patrimonio antico in favore di altre destinazione di pubblica utilità possa avvenire solo attraverso la reintegra in natura con altri beni. In questo senso cfr. la pronuncia del Comm. Reg. liquidatore usi civici Veneto, 13.05.2005, n. 26, in Dir. giur. agr. amb. alim., 2006, 404, il quale ha statuito che «sono assoggettabili ad espropriazione per pubblica utilità i beni di uso civico, qualora sia già avvenuta l’assegnazione a categoria a), prevista all’art. 11 della legge 1766/1927, purché sia stata ottenuta l’autorizzazione disposta dall’art. 12 della stessa legge. L’espropriazione di terreni per opere destinate alla difesa militare senza gli indispensabili antecedenti giuridico-fattuali, contrasta, quindi, con i caratteri di indisponibilità, 118 Elisa Tomasella In siffatta prospettiva, potrebbe trovare collocazione all’interno del complessivo sistema delineato dalla legislazione sugli usi civici, l’interpretazione da ultimo adottata dalla Suprema Corte, secondo la quale rientrano nel consentito mutamento di destinazione tutte le possibili utilizzazioni, non soltanto quelle agricole ma anche quelle che comportano addirittura un mutamento irreversibile e stabile (come nel caso di destinazioni edilizie o industriali). Per tale via, infatti, verrebbero congiuntamente soddisfatti due presupposti, entrambi presenti nella disciplina sopra richiamata: l’esistenza di un beneficio (anche di natura non agricola) per la collettività, e contestualmente il mantenimento in capo ai proprietari della disponibilità sull’insieme delle risorse, attraverso la compensazione con altre terre alle quali verrebbe impressa la destinazione sottratta alle prime. Per tale via verrebbe superato il limite di legge richiamato, poiché le collettività locali vedrebbero ristorata la parziale perdita del proprio patrimonio con un nuovo acquisto. Così facendo, da un lato si avrebbe una maggiore flessibilità nei possibili utilizzi anche delle terre civiche non montane, garantendo nello stesso tempo la loro originaria estensione e consistenza; e dall’altro lato potrebbe non essere più utile distinguere tra alienazione e mutamento 42 irreversibile di destinazione, come nella legge sulla montagna , perché la perdita di disponibilità delle risorse dovrebbe essere sempre compensata per rendere possibile la tutela dell’interesse 43 generale che è dato da un ambiente integro . IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE DELLE TERRE COLLETTIVE A differenza della l. 16.06.1927, n. 1766, l’art. 3 della legge statale (l. 31.01.1994, n. 97) sul riordino delle organizzazioni montane non ha fissato una normativa di dettaglio valida per ogni 44 forma di proprietà collettiva, ma si è limitata ad indicare alle Regioni le linee guida da seguire nel 45 suddetto riordino , precisando altresì i principi generali da seguire per autorizzare i mutamenti di destinazioni dei beni collettivi. Anche successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione, la potestà legislativa regionale incontra ancora il limite dei principi generali fissati dalla legge quadro statale, nel rispetto dell'autonomia statutaria delle collettività proprietarie secondo quanto previsto dall’art. 2 della Costituzione. La disciplina delle proprietà collettive è volta, come si è detto, a tutelare l’interesse ambientale sotteso a tali beni, in quanto la Repubblica vuole assicurare che i soggetti gestori continuino a conservare e a valorizzare le terre collettive nell’interesse dell’intera collettività 46 nazionale . Si potrebbe, quindi, ritenere che la materia rientri ora tra quelle in potestà esclusiva imprescrittibilità e inusucapibilità dei beni stessi, sacrificabili solo alle condizioni previste dalla legge». Cfr. sul tema CERULLI IRELLI, Beni pubblici, in Digesto pubbl., XIX, Torino, 1987, 300; GERMANÒ, Le concessioni per il pascolo, in Riv. dir. agr., 1995, II, 369; ci sia consentito rinviare inoltre a TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime, cit., pp. 109 e ss., nonché a TOMASELLA, Note sul regime «pubblicistico» dei beni regolieri, in Rivista amministrativa della Regione Veneto, 2000, pp. 310 e ss. 42 La stessa legge sugli usi civici non distingue con precisione i due istituti. 43 Resta da chiedersi se la collocazione di una discarica – che sottrae alla collettività proprietaria il godimento agro-silvo-pastorale di un terreno – possa considerarsi corrispondente all’interesse generale della collettività in ordine all’ambiente; e se sia sufficiente una traslazione del vincolo di destinazione su altri terreni per rendere legittima la trasformazione di un fondo conservatosi per secoli con l’originaria destinazione. 44 La legge prevede, in generale, che l’importante obiettivo di valorizzazione e salvaguardia delle zone montane venga raggiunto attraverso l’azione coordinata di Stato, Regioni e enti locali. DE MARTIN, Commento all’art. 1 della legge 31 gennaio 1994, n. 97, in COSTATO (a cura di), La nuova legge per le zone montane (Legge 31 gennaio 1994, n. 97), Padova 1995, 3, ritiene infatti che vi sia « ... la consapevolezza che una azione effettivamente incisiva e in grado di perseguire la gamma di obiettivi delineati dalla legge non può essere realizzata se non responsabilizzando ciascun soggetto del sistema nel quadro di una prospettiva coordinata e collaborativa di interventi speciali». Per evitare un eccessivo “centralismo”, infatti, molte competenze sono state demandate dalla legge 97/1994 alle Regioni, che ha assunto così il carattere di legge quadro. 45 A scanso di equivoci il legislatore, questa volta, indica tra le proprietà collettive oggetto del riordino, le Comunioni familiari di cui alle leggi 1971 n. 1102, le Regole cadorine di cui al d.lgs. 1948 n. 1104. Vengono inoltre comprese nell’elencazione le associazioni previste dalla l. n. 397/1894. 46 La tutela dell’ambiente nei beni collettivi si realizza proprio attraverso il regime pubblicistico parademaniale. Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali 119 47 statale ai sensi del co. 2, lett. s), dell’art. 117 della Cost. e forse nella materia dell'ordinamento civile (lett. e, 2° comma) trattandosi dell'istitut o civilistico della proprietà. L’attenzione dell’ordinamento statale è, infatti, rivolta direttamente ai beni in proprietà collettiva, perché questi interessano per la loro funzione (anche) pubblica/ambientale, e non 48 all’organizzazione interna del soggetto gestore . Nel riordino delle organizzazioni montane le Regioni devono, secondo quanto stabilito dall’art. 3 della l. 97/1994, garantire l’autonomia statutaria (lett. b) dei soggetti titolari delle terre collettive e assicurare il riconoscimento della loro personalità giuridica di diritto privato (lett. a), ad esse essendo state demandate le modalità concrete del procedimento di riconoscimento là dove i detti soggetti non abbiano già riconosciuta dalla legge la personalità giuridica come è il caso delle associazioni o università agrarie dell’ex Stato pontificio ai sensi della legge del 1894 (e dalle regole cadorine ai sensi del d.l. 1948). Fermi restando questi principi, e fermo restando il riconoscimento di tale forma di proprietà accanto a quella privata individuale ed a quella pubblica, alla legge regionale è affidato il compito di disciplinare alcuni aspetti delle proprietà collettive ed in particolare, per quel che riguarda specificatamente il regime dei beni, i limiti da osservare nei procedimenti tesi ad autorizzare il mutamento di destinazione d’uso (art. 3, co. 1, lett. b, n. 1). Alle Regioni, infatti, è attribuito il potere di fissare le condizioni per poter autorizzare i mutamenti di destinazione, di modo che l’interesse sotteso ai beni collettivi, che è anche 49 pubblico , e che ha spinto il legislatore al riconoscimento e alla tutela della proprietà collettiva, non subisca alcun pregiudizio. Nell’indicare i principi da seguire nel procedimento di cambio di destinazione l’art. 3, co. 1, lett. b, n. 1, della l. 97/1994 stabilisce che le Regioni siano tenute comunque ad osservare il rispetto della valorizzazione del profilo ambientale e produttivo dei beni collettivi e dell’autonomia 50 statutaria . E così, ad esempio, le Regioni non possono prescrivere che, in presenza di determinate condizioni, i proprietari debbano consentire il cambio di destinazione, in quanto il cambio di destinazione rientra tra le facoltà esclusive dell’assemblea dei proprietari. Per il cambio di destinazione le Regioni devono inoltre stabilire le condizioni che permettano di valutare caso per caso (art. 3, co.1, lett. b, n. 1), concretamente, la possibilità del mutamento, subordinato al rilascio di una autorizzazione. In questo senso, ad esempio, non potranno essere 47 Stabilire la linea di confine tra tutela dell’ambiente in potestà legislativa esclusiva e valorizzazione dei beni ambientali in potestà legislativa concorrente non è questione di semplice soluzione. La Corte Costituzionale si è recentemente pronunciata sulla distinguibilità tra tutela e valorizzazione in materia di beni culturali. Nella sentenza del 13-01-2004, n. 9, in www.cortecostituzionale.it, la Corte ha stabilito che «La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all'entrata in vigore della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3 sono state considerate attività strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili. Così l'art. 148 del d. lgs. 31.03.1998, n. 112 annovera, come s'è visto, tra le attività costituenti tutela quella diretta “a conservare i beni culturali e ambientali”, mentre include tra quelle in cui si sostanzia la valorizzazione quella diretta a “migliorare le condizioni di conservazione dei beni culturali e ambientali”. Tuttavia le espressioni che, isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano che la prima è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella del riconoscere il bene culturale come tale. La valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa». Sotto questo profilo, i principi delineati dalle Corte Costituzionale riportati nell’ambito della tutela e valorizzazione dell’ambiente, dovrebbero far ritenere che le norme dirette a impedire il depauperamento fisico dei beni collettivi debbano essere comprese all’interno della potestà legislativa statale esclusiva. 48 Cfr. GERMANÒ, Le comunioni familiari montane come formazioni sociali, in Riv. giur. sarda, cit., 67, secondo il quale i “paletti” dell’intervento regionale sono costituiti dalla gestione dei beni, senza che in esso possa essere coinvolto il modo di essere dei soggetti. 49 Si ricordi che il regime dei beni collettivi consente un’efficiente gestione del patrimonio boschivo e pascolivo nell’interesse dei regolieri, ma allo stesso tempo tutela anche l’interesse ambientale. 50 Tali principi informano ogni materia oggetto del riordino delle Comunioni familiari montane. L’art. 118 Cost. costituzionalizzando il principio di sussidiarietà (anche) orizzontale, intende favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini (…) associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale», sicché vanno favorite le regole di di autonormazione e di amministrazione che la società civile, nel perseguimento di interessi generali, è capace di esprimere, e va riconosciuta l’esistenza di un diritto alternativo, sussidiario appunto, rispetto a quello statale e/o regionale per la capacità dei cittadini associati di svolgere direttamente attività di interesse generale, tra le quali anche la tutela ambientale, secondo il principio di sussidiarietà. Cfr. GERMANÒ, ROOK BASILE, Per una legge regionale su beni ed usi civici, tra competenza legislativa e principio di sussidiarietà, in Riv. dir. agr., 2006, II, 37. 120 Elisa Tomasella stabilite condizioni generali ed astratte in presenza delle quali il mutamento di destinazione si configuri come automatico. Dovrà, infine, essere assicurata «al patrimonio antico la primitiva consistenza agro-silvopastorale compreso l’eventuale maggior valore che ne derivasse dalla diversa destinazione dei beni»(art. 3, co. 1, lett. b, n. 1). In questo senso, allora, qualora attraverso il mutamento venga impresso al bene già collettivo una destinazione di maggior valore, che comporti ad esempio l’edificabilità del suolo, il valore dei beni da vincolare alla destinazione agro-silvo-pastorale dovrà corrispondere al valore dei terreni edificabili e non agricoli. L’istituto della compensazione previsto dalla legge sulla montagna è fondamentale per garantire flessibilità al regime parademaniale dei beni in proprietà collettiva, in modo sia possibile sottrarre un ben determinato terreno a siffatto regime si da consentirvi usi diversi rispetto a quelli tradizionali, e allo stesso tempo che sia tutelata l’integrità delle risorse. Il legislatore statale mira, infatti, attraverso la compensazione ad assicurare principalmente la consistenza funzionale del patrimonio, affinché questo continui a possedere la capacità di soddisfare l’interesse ambientale e quello delle generazioni future dei proprietari. Attraverso il procedimento di mutamento di destinazione la Regione, quindi, si limita a controllare che l’interesse pubblico/ambientale non subisca alcun pregiudizio. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 IL TURISMO SOSTENIBILE NELLE ALPI E IL RUOLO DEI PARCHI CLAUDIO FERRARI PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO 124 Claudio Ferrari LA CARTA EUROPEA DEL TURISMO SOSTENIBILE La Carta Europea per il turismo sostenibile (Cets) rappresenta uno strumento volontario e contrattuale tra l’Ente di gestione di un parco, le imprese turistiche, la popolazione locale, per lo sviluppo di un turismo in armonia con la gestione sostenibile delle risorse naturali dell’area protetta. Si tratta della combinazione tra un processo di cooperazione intensa e pianificazione partecipata e di un sistema di gestione e controllo teso al miglioramento continuo. La Cets tra le proprie origini dalle priorità mondiali ed europee espresse dalle raccomandazioni dell’Agenda 21, adottate durante il Summit della Terra a Rio nel 1992 e dal 6° programma comunitario di azioni per lo sviluppo sostenibile. Sviluppata da un gruppo di lavoro europeo con rappresentanti delle aree protette, del settore turistico e dei loro partner, sotto l’egida della Federazione EUROPARC (organizzazione paneuropea che riunisce più di 400 aree protette) per la realizzazione di un programma di buone pratiche di turismo sostenibile nelle aree protette, la Carta prende spunto dalle raccomandazioni stilate nello studio di EUROPARC del 1993 dal titolo “Loving Them to Death? Sustainable Tourism in Europe’s Nature and National Parks”. La Cets, inoltre, è una delle priorità per i parchi europei definite nel programma d’azione dell’UICN Parks for Life (1994). L’importanza crescente di uno sviluppo turistico sostenibile, come tema d’interesse internazionale, è stata sottolineata anche dalle “Linee guida per il Turismo Sostenibile Internazionale” della Convenzione sulla Diversità Biologica. Lo strumento con il quale si concretizza inizialmente la Carta (1° fase) è un Programma di Azione quinquennale costruito dalla collaborazione e dal partenariato tra settore pubblico, settore privato e popolazione che riflette la strategia dell’area protetta nel settore del turismo sostenibile. Aderire alla Carta significa realizzare una diagnosi, consultare e coinvolgere i partner, stabilire gli obiettivi strategici, assegnare i mezzi necessari e valutarne i risultati. La combinazione tra Programma di Azione e una positiva verifica ispettiva e valutazione della commissione di esperti individuata dalla Federazione EUROPARC permette all’area protetta di ottenere la Carta e di distinguersi quale territorio che garantisce forme di turismo sostenibili. Per la definizione della strategia, la metodologia della Carta prevede che il Parco avvii dei forum territoriali ovvero un processo di consultazione e cooperazione sistematico, organizzato ed allargato a tutte le componenti economiche, sociali, ambientali operanti sul proprio territorio. Il Forum è concepito come luogo di pianificazione dal basso e momento di incontro volto a stimolare il confronto, la discussione, l’apprendimento e il lavorare in comune, il cui obiettivo finale è quello di individuare, insieme agli attori locali, quale strategia sviluppare nei 5 anni di implementazione della Carta e attraverso quali azioni progettuali. Aderire alla Cets significa, quindi, adottare un metodo di lavoro fondato sul principio dell’ascolto e del partenariato, che si esprime in tutte le fasi di definizione e di attuazione del programma di sviluppo turistico sostenibile e che va coltivato e mantenuto nel tempo, attraverso l’istituzione di un forum permanente quale luogo di continuo confronto e dialogo. La Cets ha rappresentato per i parchi la prima importante occasione di confronto (sia a livello locale cha tra aree protette) su tematiche, come il turismo sostenibile, che vanno oltre la conservazione e la tutela ambientale, passando da un concetto di tutela passiva del proprio territorio ad un concetto più ampio ed esteso di “conservazione attiva”, che vede i parchi, insieme agli altri attori del territorio, “motori” di sviluppo sostenibile. Attraverso la Cets le aree protette diventano quindi “laboratori di buone pratiche” legate alla sostenibilità, diventando i luoghi ideali nei quali sperimentare progetti innovativi. Più in particolare, l’implementazione della Cets è stata progettata in tre fasi: nella 1ª Fase, è l’area protetta che richiede e riceve il riconoscimento della Cets, con l’accordo delle imprese turistiche e di altri attori locali (5 anni di validità); nella 2ª Fase, sono le imprese turistiche delle aree protette accreditate che possono aderire alla Cets (3 anni validità); la fase II della Carta prevede di andare al di là del semplice coinvolgimento già avvenuto nella fase I, permettendo alle imprese collaboratrici di ricevere dall’area protetta riconoscimenti individuali come firmatari della Carta; nella 3ª Fase, possono aderire alla Cets le agenzie di viaggio e tour operator (1 anno di validità). Il turismo sostenibile nelle Alpi e il ruolo dei parchi 125 La fase I della Carta, avviata nel 2001, è in via di completa attuazione. Nel 2009 questo importante riconoscimento risulta ottenuto da 75 Aree Protette di 8 Paesi europei, tra cui 7 aree protette italiane: Parco naturale Alpi Marittime, Parco nazionale Monti Sibillini, Parco naturale Adamello Brenta, Parco regionale Adamello Lombardo, Aree Protette delle Alpi Lepontine/ Riserva Naturale Lago di Piano, Sistema di Aree Protette dell'Oltrepò Mantovano e Comunità Montana del Parco Alto Garda Bresciano che ha ottenuto il riconoscimento lo scorso 12 settembre in Svezia, in occasione dell’ultima conferenza di EUROPARC Federation. Per quanto riguarda la fase II, il processo si trova ancora ad uno stadio embrionale. La prima Nazione ad aver avviato la seconda fase è la Spagna che, nel 2006, ha creato un gruppo di lavoro coordinato da EUROPARC-Spagna, con l’obiettivo di progettare il Sistema di Adesione volontario degli imprenditori turistici alla Cets, in modo che potesse essere applicabile a tutte le aree protette spagnole. Questa fase si pone l’obiettivo strategico di estendere i valori, i doveri e i benefici della Cets alle imprese che operano nel territorio di competenza del Parco, puntando a rafforzare le relazioni, in parte già instaurate durante la fase I, e ampliare la conoscenza reciproca tra l’area protetta e le imprese collegate al settore turistico. Tramite la collaborazione di tutte le parti coinvolte, il turismo sostenibile soddisfa le esigenze dei visitatori, delle imprese e della popolazione locale, senza nuocere all’ambiente nel presente o in futuro. Per l’area protetta, oltre ad essere evidentemente un’operazione che favorisce il consenso sociale, potendo moltiplicare gli alleati nel proprio territorio, rappresenta una straordinaria opportunità per amplificare i fondamenti della propria cultura e concretizzare i principi della sostenibilità dello sviluppo. Sulla base della positiva esperienza spagnola, anche l’Italia ha cominciato a lavorare sulla fase II. A questo scopo è stato organizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta in collaborazione con Federparchi, nel maggio 2009 a Caderzone Terme, il 1° Workshop nazionale sulla Cets. Il meeting si è proposto come primo momento di verifica sui percorsi di turismo sostenibile attuati dai singoli parchi attraverso la Carta e importante occasione di confronto sulla fase II e sulle sue modalità di implementazione in Italia. E’ stata creata una “cabina di regia” formata dai direttori dei parchi italiani Cets e da Federparchi, con il compito di redigere il documento metodologico per la fase 2 della Cets in Italia. Si sta lavorando alla redazione di una metodologia flessibile integrata, ovvero un documento che da un lato ponga le linee guide generali, quindi una piattaforma di requisiti comuni a tutti i parchi italiani basati necessariamente sui principi della Carta, e dall’altro tenga conto delle specificità socio-economiche di ogni area protetta, generando tutta una serie di requisiti di adesione diversi da parco a parco. In questo modo necessariamente verranno individuati diversi standard di qualità richiesti alle imprese (e offerti di conseguenza al turista) a seconda della realtà dell’area protetta con il rischio di disorientare il cliente, problema che trova però spiegazione nel fatto la Cets non rappresenta una certificazione – per cui si dovrebbero garantire i medesimi standard prestazionali – ma piuttosto un accordo volontario tra parco e impresa, in base al quale l’impresa garantisce il proprio impegno a migliorare via via le proprie prestazioni – non solo ambientali ma anche comunicative e di qualità del servizio – e il Parco, a sua volta, si impegna a segnalare al mercato, attraverso il logo Cets questa alleanza come titolo preferenziale. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 A SPATIAL AGENT-BASED MODEL TO EXPLORE SCENARIOS OF ADAPTATION TO CLIMATE CHANGE IN AN ALPINE TOURISM DESTINATION 1 2 1 STEFANO BALBI , PASCAL PEREZ , CARLO GIUPPONI 1 2 UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI, VENEZIA, AUSTRALIAN NATIONAL UNIVERSITY, CANBERRA Working Papers D e p a r t me nt o f Ec o n o mi c s C a ’ F o s c a r i U n i v e r s i t y o f V e n i c e N o. 0 5 / W P /2010 ISSN 1827-3580 This Working Paper is published under the auspices of the Department of Economics of the Ca’ Foscari University of Venice. Opinions expressed herein are those of the authors and not those of the Department. The Working Paper series is designed to divulge preliminary or incomplete work, circulated to favour discussion and comments. Citation of this paper should consider its provisional character. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 ABSTRACT A vast body of literature suggests that the European Alpine region may be one of the most sensitive to climate change impacts. Adaptation to climate change of Alpine socio- ecosystems is increasingly becoming an issue of interest for the scientific community while the people of the Alps are often unaware of or simply ignore the problem. ClimAlpTour is a European research project of the Alpine Space Programme, bringing together institutions and scholars from all countries of the Alpine arch, in view of dealing with the expected decrease in snow and ice cover, which may lead to a rethinking of tourism development beyond the traditional vision of winter sports. The research reported herein analyses the municipality of Auronzo di Cadore (22,000 ha) in the Dolomites under the famous peaks of the “Tre Cime di Lavaredo”. The local economy depends on tourism which is currently focused on the summer season, while the winter season is weak. As a whole, the destination receives approximately 65,000 guests per year with a resident population of 3,600 inhabitants. Since recently the Community Council is considering options on how to stimulate a further development of the winter tourism. This paper refers to a prototype agent-based model, called AuronzoWinSim, for the assessment of alternative scenarios of future local development strategies, taking into account complex spatial and social dynamics and interactions. Different typologies of winter tourists compose the set of human agents. Climate change scenarios are used to produce temperature and snow cover projections. The model is mainly informed by secondary sources, including demographic and economic time series, and biophysical data which feed-in its spatial dimension. Primary data from field surveys are used to calibrate the main parameters. AuronzoWinSim is planned for use in a participatory context with groups of local stakeholders. Keywords Alpine Winter Tourism, Spatial Agent-Based Model, Climate Change Adaptation JEL Codes Q A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 129 INTRODUCTION The Alpine region in Europe is among the areas that are most rapidly affected by climate change. In general, the mean temperature of this region has increased up to +2° C for some high altitude sites over the 1900-1990 period against +0.78° C in the l ast 100 years at a global level (IPCC 2007, ESFR ClimChAlp 2008). With a certain degree of local variability, glaciers have lost 50% of their volume since 1850 and snow cover is decreasing especially at the lowest altitudes and in fall and spring. A clear signal of climate change about precipitations is not detectable yet, but increasing risks of extreme events have been projected including floods, debris flows, avalanches, glacial hazards, and mountain mass movements (Castellari 2008). The main expected impacts on the Alps concern the hydrological conditions and water management, forests and biodiversity, agriculture, energy management, and eventually tourism, which is the focus of this paper. While summer tourism is most probably going to be favored by climate change (Bourdeau 2009), the World Tourism Organization started warning about the possible negative implications for winter tourism and sports since 2003 (UNWTO 2003). Nowadays 1 already 57 of the main 666 ski resorts of the European Alps are considered to not be snow-reliable (OECD 2007). However, climate change is also an opportunity for those resorts that are snow-reliable, as they will face less competition in the future (Simpson et al. 2008, p. 62). The Alpine people are often unaware of or simply ignore the problem, which is a common problem of climate change 3 adaptation. Perhaps, at a very local level, climate patterns are not evident enough to question the development model based on the “white dream” which has prevailed since the seventies. Indeed, a model of development based on snow, no matter if natural or artificial, is still somehow surviving notwithstanding the maturity of the traditional ski product and the stagnation of the market demand (Macchiavelli 2009). At this point very careful assessments should be carried on before any further snow-based development plan (WWF 2007). ClimAlpTour is a European project of the Alpine Space Programme, bringing together institutions and scholars from all countries of the Alpine arch, in view of dealing with the expected decrease in snow and ice cover, which may lead to a rethinking of tourism development beyond the traditional vision of 2 winter sports . The project analyses 22 pilot areas with diverse environmental, social and economic conditions in order to provide a global perspective on the Alpine tourism. Raising the awareness of the stakeholders including tourists, population and businesses on the impact of climate change on tourist economy of the Alps and on possible adaptation strategies is one of the goals of the whole project. This paper explores the conceptualization phase of an agent-based model (ABM) capable of gathering the available heterogeneous information and assess different scenarios of future local development, and eventually tourist supply, taking into account complex spatial and social dynamics and interactions. This methodology has already proven to be successful for other tourism related issues (i.e. Perez et al. 2009). However, to our knowledge, this is one of the first attempts to explore the interactions between climate change and winter mountain tourism by means of an agent-oriented 3 4 approach . Our work is still in progress and is meant to complement a decision support system (DSS) , which will be implemented during a series of participatory workshops. CASE STUDY The research reported herein analyses the municipality of Auronzo di Cadore located in the province of Belluno, in the Veneto region, in the north-east of Italy. It covers a vast area (22.000 ha) which includes Misurina with its lake and the most famous mountain of the Dolomites, namely the “Tre Cime di Lavaredo”, part of the UNESCO world heritage since 2009. The village of Auronzo (866m on the sea level) hosts almost the entire population of the municipality of approximately 3,600 inhabitants. It is located in the middle of the valley of the Ansiei river, which forms the artificial Santa Caterina Lake, due to the presence of an old dam. The lake basin is 3 km long and is endowed with beach facilities that periodically host motor nautical and canoe competitions. Misurina is a small settlement at 25 km from the main village, placed at an altitude of 1754 1 In general, a ski resort is considered to be snow-reliable if, in 7 out of 10 winters, a sufficient snow covering of at least 30 to 50 cm is available for ski sport on at least 100 days between December 1 and April 15 (Burki at al. 2007) . 2 The project website is www.climalptour.eu 3 See also Sax et al. 2007. 4 See Giupponi and Sgobbi 2008. 130 Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi meters, just under the Tre Cime di Lavaredo peak, which is accessible both by means of several mountain paths and by a toll regulated carriageway. The local economy depends on tourism which is currently focused on the summer season, while the winter season is weak, with only 25% of arrivals (Regione Veneto 2009). Indeed, hiking (200 km of signed mountain paths and alpine refuges) and relax are the main elements of attraction. The total hosting capacity is of approximately 7.300 beds of which around 1700 in the hotel sector and the remainder in the extra-hotel sector (B&Bs, lodgings, etc.). The 75% of the hotels’ beds concern structures with 1 or 2 stars. In 2008 63.700 arrivals and 305.400 tourist nights were registered, showing a slight decrease from the previous year. The last 10 years have witnessed the increase of arrivals and the contraction of average stay. Notwithstanding the presence of two small downhill ski areas and two cross-country ski centers some hotels don’t even open for the winter season. The four ski-lifts of Mount Agudo, which reach a maximum elevation of 1600m, supply seven ski-trails covering 15 km. In the locality of Palus San Marco, just at halfway between Auronzo and Misurina, there is the Somadida Forest, one of the largest of the province, which becomes a cross-country ski centre (with nine loops of 52.5 km in total) during the winter season. The Marmarole sled-dog centre and an ice-kart circuit are also placed Palus. In addition, Misurina, which has an hosting capacity of approximately 500 beds is endowed with the two ski-lifts of Col de Varda (from 1756 m to 2220 m) that supply five ski-tracks, and 17 km of cross-country ski loops. Since recently the Community Council is considering options on how to stimulate a further development of the winter tourism. There exist several projects of ski-areas development. The most ambitious is located in Marzon valley, a few km from the main village, which would connect the valley to the ski-area of Misurina (with an average altitude over 2000 m). The main problem at stake is how to develop winter tourism in the next 40 years, in a context of climate change and market demand that is not favorable. In particular, the spatial heterogeneity given by the bipolarity of the case study, suggested the elaboration of a spatially explicit ABM. Figure 1. Map of the Municipality of Auronzo di Cadore MODEL DEVELOPMENT The development of a conceptual model has been carried out to support the design of the ABM by integrating three methods gravitating around different research groups of the heterogeneous ABM scientific community. The ARDI (Actor, Resources, Dynamics, and Interactions) method belongs to the A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 131 companion modeling tradition, mainly applied to natural research management. It can be extremely efficient for jumpstarting the process of visual formalization of the domain model (Etienne 2006). The ODD (Overview, Design concepts, Details) protocol belongs to the individual-based modeling branch of ecology, but is gaining further diffusion in social science. Differently from the other methods, it consists of a narrative description of the various elements of an ABM, contributing to a more rigorous formulation phase (Grimm et al. 2006). Finally, the UML (Unified Modeling Language) belongs to the computer science tradition and is probably the most effective methods, preceding the coding phase, which can guarantee the full replicability of the model (Boch et al. 1999). These methods have been firstly applied in the order in which are presented, subsequently leading to a more iterative approach. By means of ARDI we identified the tourist facilities as the main resources of the system, the winter tourists as the acting agents and the meta-economic agents as the economic units in charge of accounting the economic flows for each tourism sub-sector. The application of ODD led to the definition of the tourists’ heterogenic behavior and of the future scenarios. Finally, through UML, we were able to formalize in diagrams all the details. The clear advantage is that the modeler is endowed with a set of tools mutually checking the model internal consistency with regards to both its static and the dynamic aspects. Representing Heterogeneous Market Behavior Even though winter sports, and especially downhill skiing, are still the essence of winter mountain tourism the market has reached its maturity and is challenged by (a) loss of shares in the tourist market in the Alpine countries throughout Europe, (b) competition from other tourist destinations, (c) the growing economic and territorial divide between large and small resorts, (d) the need for huge new investments against the background of a reduction of public funding, (e) new recreational practices (freestyle and freeride), (f) the ageing of the tourist population, (g) demand for environmental quality, (h) 5 the changed notion of resort , (i) the inclination toward shortened and repeated holidays, (j) behavioral unpredictability, due to wheatear forecasts, and finally (k) the search for new markets (Minghetti, 2002, Daidola, 2006, Bourdeau 2009, Macchiavelli 2009). However, according to Camanni [2002] and 6 Daidola [2007], a new light ski industry, with less investments and more flexibility with regard to climate conditions, is possible and the small resorts may thus be advantaged. ABMs can be of great value in dealing with such dynamics because they are particularly well suited to incorporate heterogeneity of behavior. Our approach focuses on the simulation of tourists’ response (demand-side) to alternative strategies of development of tourism facilities of the destination (supply-side) in order to provide the local stakeholders (residents, entrepreneurs, local tourism organizations, community council), with quantitative indicators of possible futures which depend on their collective decisions. Drawing on the above cited literature and especially on secondary data from marketing surveys of 7 the tourism statistical observatories of Trentino and Alto Adige (Provincia Autonoma di Trento 2007, Provincia Autonoma di Bolzano 2009), we created a set of eight tourist profiles which is rich enough to take into account (1) the actual winter tourists of Auronzo, (2) the actual winter tourist visiting Auronzo’s main competitors, and (3) the potential winter tourist of tomorrow (table 1). 5 “The idea of the resort as a unity of place, time and action, can be circumvented or deviated by a new interpretation of the mountain playground. One example is the striking contrast that can be observed by the expansion and interconnection of large ski areas, and the micro-scale of space in which the new sports are practiced by young snow surfers such as the snowparks” (Bourdeau 2009) . 6 Daidola’s hypothesis is that artificial snow is less satisfying and more dangerous than natural snow. Because of artificial snow, the current ski style has become repetitive, expensive and boring, and at the same time too easy to learn and too fast. On the contrary ski and snowboard magazines mainly propose powdery snow and exciting experiences. Moreover artificial snow is responsible for the vicious circle of huge investments of the last years. 7 These are the two most important winter tourism regions of the Italian Alps. 132 Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi Table 1. Narratives describing the tourist profiles Representing Alternative Futures Every simulation run requires the users to make three choices: (1) the development strategy to be tested; (2) the societal scenario that sets the conditional context in terms of number of tourists that could be available to choose the destination; and (3) the climate projection, in terms of snow cover and temperature. The combination of these choices defines the future conditions, from 2011 to 2050, under which the tourists’ response is simulated. The underlying idea that has inspired the model is to identify the most robust development strategy. In this regard, we have defined four spatially explicit alternative strategies which are able to A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 133 take into account various orientation towards tourism and the perception of climate change from the local stakeholders’ point of view. The first strategy is the pursue of the traditional ski intensive paradigm. Indeed, one of the most familiar measures in the struggle against snow-deficient winters is the construction of high cost artificial snowmaking facilities (Burki et al. 2007). However, in this strategy Auronzo not only maintains the ski areas of Mount Agudo and Misurina, but also develops two new ski areas with snowpark, on the basis of two projects about Marzon and Da Rin valleys, which have different spatial conditions. The overall hosting capacity remains untouched while a minor increase concerning restaurants and retailers supply is included. The second strategy embraces the vision of Daidola [2006] and Burdeau [2009] of an alternative light ski oriented and postmodern development. It integrates the wilderness and the playground concepts increasing the supply of controlled off-piste tracks (Marzon and Da Rin valleys), cross-country itineraries (Palus) and snow parks (Mount Agudo). These are assisted by a very limited development of the existing ski lifts and a more sober artificial snowmaking behavior. The third is the non-snow strategy that is the well established, but often not self-sustaining, process of diversification and enlargement of tourist offer by means of higher quality hotels, shopping, gastronomy, pubs and bars, and, most of all, wellness and spa centers. This is mainly implemented in Auronzo, Misurina and Palus villages. The ski areas remain in function without the support of artificial snow. Finally the fatalistic strategy consists of no changes in the supply behavior, which could also be described as “business as usual”. We are planning to consider 2 societal scenarios, one more conservative and one more optimistic, which will be derived interpolating historic European population dynamics and the alpine tourism fluxes. The climate projections will be developed in order to represent 3 IPCC scenarios of 8 aerosol and GHG forcings (A2, A1B and B1), drawing on the Ensembles European project . MODEL DESCRIPTION This concise model description loosely follows the ODD protocol (Grimm et al. 2006). We also provide the UML class, sequence and activities diagrams (the first two as appendices and the rest in the project website: http://www.dse.unive.it/clim/ climalptour.htm). Model Overview The model purpose is to analyze alternative winter development strategies for the case study simulating the tourists’ response under different climate scenarios. Entities and state variables are visually presented in the UML class diagram (Appendix A). The main entities are the tourists, the tourism facilities and the meta-economic agents. The tourists are divided in eight profiles: traditional ski-intensive (TSI), ski part-time (SPT), sporty alternative crosscountry (SAX), sporty alternative wilderness (SAW), idle (ID), eclectic (EC), counterculture wilderness (CCW) and counter-culture playground (CCP). According to the profile they belong to (variable “type”), agents have different preferences and behavior with regards to the tourism facilities. The tourism facilities, which in turn compose the destination supply structure, are divided in eight types: four are snow related (facilities dedicated to downhill skiing, snowparks, cross-country skiing and off-piste skiing) and four are non-snow related (accommodations, restaurants, retailers, and other facilities including those for kids, wellness and spa, and other sports). The meta-economic agents are the accountants of the tourism facilities. One metaeconomic agent is in charge of managing one type of tourism facility. They keep track of the investment required to put in place their facilities, defined by the development strategy to be analyzed, and of their money flow. The development strategies, which represent possible orientations of the local stakeholders, are set exogenously by the model. Concerning the scales, both the snow and the non-snow related facilities are located in a spatial grid of approximately 10.000 cells which represent the destination. Each cell represents a 150 x 150 meters square and contains the actual geographical information of the area. Nine spatially distributed reference points have been identified in order to represent the different snow conditions under alternative climate scenarios. A simulation is composed of 40 cycles, which are the winter seasons from 8 8 See http://ensembles-eu.metoffice.com/ 134 Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi st 2011 to 2050. Each cycle consists of 126 days (time steps) that represent the 18 weeks from the 1 of th December to the 6 of April. Summing up, every simulation takes into account 720 weeks and 5040 time steps. Process overview and scheduling are captured in the UML sequence diagram (Appendix B), which shows the sequence of operations performed by each class. Every operation is then further described as activity diagram. Initially, the spatial units (patches) update their attributes and configure the tourism facilities presence as per selected development strategy. Each of the meta-economic agent is assigned with the investment needed to meet that configuration. The reference points read snow cover and temperature from the climate data which describe the selected climate projection. They also perform three kinds of forecasts concerning snow cover, at short and medium term, and snow security, at short term. Then, the snow facilities check those forecasts and store the information that they will subsequently pass to the tourists. Downhill and snowparks can decide to produce artificial snow. After that, the tourists, whose total amount is taken by the societal scenario, can check the destination in order to become visitors, if their requirements are met. According to their behavior, they can check the forecasts and go to the planning phase, in which they decide their day of arrival. If they are in the destination they enter into a loop of operations which describe the use of the tourism facilities. Then, every facility can check its own users and pass the information to the patches that can visually describe the tourists density on the grid. The meta-economic agent calculates the return associated to the facilities use and update their balance sheet. Finally, the tourists in their last day of vacation calculate their overall satisfaction. If this is negative they exit from the simulation, if it is positive they remain among the potential visitors and can plan a further vacation. Those that eliminated are substituted by other tourist agents, but they are also accounted for in the statistics about dissatisfaction. Input data is provided in various forms. The spatial units are georeferentiated, based on GIS (geographical information system) layers concerning elevation, slope and radiation. The reference points are provided with climate data in form of time series of snow cover and temperature, according to the selected climate projection. Finally, the societal data provides the total number of tourist agents available for each of the 40 cycles during every simulation. Most of the operations make use of submodels in form of simple algorithms and logical tests which are presented in detail in the activity diagrams. Most of the parameters used in the activity diagrams are calibrated on the case study, by means of field surveys. The rest are retrieved from the literature. The model initialization represents the destination winter tourism conditions in 2011 concerning the actual amount, type and spatial configuration of the tourism facilities. ABM Design Concepts Emergence. Once the boundary conditions of possible futures are set by the 3 choices on the scenarios for any model run, then the performance of the destination is a phenomenon that emerges from the tourists’ behavior. This is numerically expressed in terms of tourist attracted and money flow produced by each facility type (see updateUsers and updateBalance activity diagrams) and visualized on the spatial grid at each time step in terms of tourists’ density (see checkOccupation activity diagram). Objectives. The tourists can choose whether to go or not to the destination, according to their preferences about the destination supply and to the weather forecasts (see checkDestination and doForecast activity diagrams). Prediction. Tourists’ expectations are based on the facilities available and their spatial configuration in the destination and on the snow cover and security forecasts. Sensing. The tourists are fully aware of the destination’s facilities and spatial attributes before the vacation, but they perceive the environmental conditions of the facilities they use only in loco. Learning. Each day of their vacation the tourists calculate their satisfaction which depends on the effective environmental conditions encountered in terms of snow cover and tourists’ density, so that their availability to a subsequent vacation depends on the memories of the previous one (see calcSatisfaction activity diagram). Adaptation. The tourists adapt by not visiting Auronzo again once their satisfaction goes negative, in favor of other competing destinations (see updateSatisfaction activity diagram). Interaction. The tourists directly receive stimuli, through sensing, from the destination’s facilities and spatial attributes, which affect their eligibility to book their vacation. They also indirectly interact among each other with negative effects on their respective satisfaction, over certain density thresholds. A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 135 Stocasticity is used to reproduce variability in the various agents’ decision processes, primarily by means of normal distributions (see the activity diagrams). Observation. The model collects data on the economic performance of the eight types of facilities and on the spatially distributed tourist fruition of the destination. DISCUSSION AND CONCLUSION Our work is still in progress but it can already provide some interesting insights on the modeling of climate change and tourism. First of all, the scale of analysis and the level of detail represent a significant improvement in the climate change research, which is normally performed at a much higher level of spatial and temporal aggregation. This scale perfectly fits the crucial socioeconomic dynamics of local adaptation that have to be investigated. Second, to our knowledge this is one of the first attempts to formalize the supply structure of a winter tourism destination in classes by means of UML. The result is simple and clear but is able to represent complex interactions, for alternative development strategies, in a spatially explicit way. This is extremely valuable giving our objective of assessing robustness and flexibility rather than finding optimal solutions. This conceptualization can eventually become a generic ontology, if it will be proved to fit the application to other case studies. Third, the simulation focuses on the feed-backs of the demand side of tourism, which is often missing in the existing tourism models. However, the tourists are the ultimate judges of a destination adaptation strategy, because they will decide the winners and losers of the future. This is why we regarded as fundamental to focus on their agency in an heterogeneous way, drawing from disciplines such as customer behavior, which could only be done by means of an the agent-based approach. Fourth, the model development itself is a novelty because we integrated some of the main practices of the ABM community which are never found together but can mutually benefit each other. The next steps of our work include the implementation of the UML model into a software for computer simulation. AuronzoWinSim will then be tested and refined, before being used in a participatory context with groups of local stakeholders, in two ways. Initially, it will support the collective discussion on possible adaptation and development strategies, and the criteria to assess their robustness. Secondly, it will incorporate the strategic adjustments proposed by the stakeholders. REFERENCES AuronzoWinSim Model Website, http://www.dse.unive.it/clim/ climalptour.htm. Boch, G., J. Rumbaugh, I. 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Stefania Zorzi & Silvano Mattedi, Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione Duncan McCollin & Janet Jackson, Hedgerows as habitat corridors for forest herbs Margherita Lucchin, Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la stima della funzionalità Tommaso Sitzia, La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari: indici sintetici di valutazione delle siepi arboree nel paesaggio agrario Giuseppe De Togni, Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: problemi tecnici e amministrativi Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Remiero, Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica potenziale Giustino Mezzalira, Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei Federico Correale Santacroce, Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la progettazione dei boschi di pianura ATTI DEL 41° CORSO - 2005 Conoscere il sistema fium e in ambiente alpino Gianfranco Zolin, Corsi d’acqua alpini: ecologia e paesaggio Giancarlo Dalla Fontana, I processi di formazione del reticolo idrografico Diego Sonda, Utilizzo di gis per l'analisi del bacino idrografico Paolo Paiero e Giovanni Paiero, La vegetazione rivierasca alpina Antonio Andrich, Conoscere la vegetazione riparia: l’influenza del regime idrologico e della manutenzione Silvia Degli Esposti, Daniele Norbiato, Roberto Dinale,, Marco Borga, Valutazione di alcune componenti del bilancio idrologico in bacini di tipo alpino Gian Battista Bischetti, Interazione tra vegetazione e deflusso e stabilità delle sponde Paolo Billi, I torrenti come condizione di equilibrio morfodinamico e la portata formativa Vincenzo D'agostino, Morfologia e dinamica dei corsi d’acqua di montagna Alessandro Vianello, L’analisi granulometrica dei sedimenti nei corsi d’acqua montani Lorenzo Marchi, Il trasporto solido di fondo e le colate detritiche: fenomenologia ed effetti sull’assetto dei corsi d’acqua a forte pendenza Mario Cerato, Il controllo dei torrenti per mezzo delle opere di sistemazione montana: la ricerca di un compromesso fra la tutela della naturalità e gli obiettivi di protezione ATTI DEL 42° CORSO - 2006 Stima del carbonio in for esta: metodologie e aspetti normativi Pettenella D. 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ATTI DEL 44° CORSO - 2008 Disturbi in foresta ed ef fetti sullo stock di carbonio: il problema della non permanenza - Forest disturbances and effects on carbon stock:the non-permanence issue Elena Dalla Valle, Forest disturbances and effects on carbon stock: general overview. Ana Isabel Miranda, Forest fires and air pollution. Domingo Molina, Mediterranean fire regimes and impacts on forest permanence cases from northern California, ne spain and Canary islands. Jean- Francois Boucher Simon Gaboury, Réjean Gagnon, Daniel Lord, Claude Villeneuve, Permanence of the carbon stocks in the north american boreal forest under natural and anthropogenic disturbance regimes. Ionel Popa, Windthrow risk management. results from romanian forests. Giacomom Grassi, Reducing emissions from deforestation in developing countries: the new challenge for climate mitigation. 144 Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali? Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011 ATTI DEL 45° CORSO – 2009 Selvicoltura naturalistic a: basi ecologiche, applicazioni e contesto normativo Pietro Piussi, Selvicoltura naturalistica: le vicende delle origini. Luca Soraruf, Marco Carrer, Aree permanenti e monitoraggio di lungo periodo: potenzialità, limiti e approcci metodologici. Tommaso Anfodillo, Marco Carrer, Filippo Simini, Vinicio Carraro, Giai Petit, Amos Maritan, Nuove prospettive per la definizione funzionale della struttura delle foreste. Massimo Stroppa, Pianificazione forestale e selvicoltura neturalistica: applicazioni in regione Friuli Venezia Giulia. Tommaso Sitzia, Michele Cassol, Selvicoltura naturalistica e conservazione degli habitat forestali a scala di popolamento. Pierantonio Zanchetta, Intervento alla tavola rotonda. ATTI DEL 46° CORSO – 2010 Gestione multifunzionale e sostenibile dei boschi cedui: criticità e prospettive Robero Mercurio, Principi e metodi per il restauro forestale (con particolare riferimento ai boschi cedui). Gianfranco Fabbio, Il ceduo tra passato e attualità: opzioni colturali e dinamica dendro-auxonomica e strutturale nei boschi di origine cedua. Francesco Grohmann, Mauro Frattegiani, Giorgio Iorio, Paola Savini, La selvicoltura nel piano forestale regionale dell’umbria. Adriano Giusti, Francesco Grohmann, La nuova normativa forestale dell’umbria. Paola Savini, Nuove tecniche d’intervento nei boschi cedui: l’esperienza del progetto SUMMACOP. Marco Conedera, Mario Pividori, Gianni Boris Pezzatti, Eric Gehring, Il ceduo come opera di sistemazione idraulica, La stabilità dei cedui invecchiati. Paolo Cantiani, Selvicoltura delle cerrete (prove di matricinatura e conversione). Maria Chiara Manetti, Selvicoltura dei cedui di castagno. Giorgio Iorio, Mauro Frattegiani, Boschi cedui e rete natura 2000. Francesco Renzaglia, Emidia Santini, Matteo Giove, Carlo Urbinati, Dinamismi strutturali e di accrescimento in boschi cedui abbandonati ed in conversione dell‘appennino centrale. Gianluca Giovannini, Ungulati e bosco ceduo. Francesco Pelleri, La selvicoltura d’albero e le specie sporadiche nei cedui.