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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIP.TO TERRITORIO E SISTEMI AGRO-FORESTALI
AGRO
Pubblicazione del Corso di Cultura in Ecologia
ATTI DEL 47° CORSO
Sviluppo socio-economico
socio economico delle Alpi nel terzo millennio:
CORSO DI CULTURA IN ECOLOGIA
una minaccia per le risorse naturali?
A cura di
Vinicio Carraro e Tommaso Anfodillo
Centro Studi per l'Ambiente Alpino, L. Susmel
S. Vito di Cadore, 6-8 giugno 2011
DIRETTORE DEL CORSO
Tommaso Anfodillo
ENTI PATROCINATORI
Provincia di Belluno
Comunità Montana
Val Boite
Comune di
San Vito di Cadore
In collaborazione con
Fondazione G. Angelini
Centro Studi sulla Montagna
CITAZIONE DEL VOLUME:
Carraro V. & Anfodillo A. (eds.), 2011. Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una
minaccia per le risorse naturali? Pubblicazioni del Corso di Cultura in Ecologia, Atti del 47.mo
Corso, Università degli Studi, Padova.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
PREMESSA
Il 47° Corso di Cultura in Ecologia è incentrato su come poter garantire lo sviluppo socioeconomico cercando di preservare la ricchezza di patrimonio naturalistico che caratterizza tutte le
aree alpine.
E’ noto che in molti casi lo sviluppo socio-economico è transitato attraverso un significativo
consumo di risorse naturali (basti pensare al notevole sviluppo urbanistico delle cosiddette
“seconde case” nei decenni passati) che non ha portato ad un miglioramento sensibile delle
condizioni economiche dei residenti in montagna. E’ importante, quindi, cercare di trovare nuove
soluzioni di sviluppo che garantiscano una remunerazione maggiore alle popolazioni di montagna
senza portare ad un deterioramento del prezioso capitale di “natura” che ancora è presente nelle
zone alpine.
Il Corso vuole riunire esperti di diverse discipline (economisti, ecologi, sociologi, antropologi) in
grado di proporre e di presentare casi studio ed esperienze efficaci di possibili strategie di sviluppo
in aree di montagna.
Il direttore del Corso
Tommaso Anfodillo
SOMMARIO
CITTÀ E MONTAGNA: L'UNICO TURISMO POSSIBILE
Enrico Camanni
DOLOMITI PATRIMONIO DELL’UMANITÀ:
LA DIFFICILE STRADA DI UNA CANDIDATURA
Franco Viola
OLTRE LE ALPI...
BIODIVERSITY CONSERVATION AND ECOSYSTEM SERVICES OF TROPICAL
MONTANE REGIONS OF COSTA RICA: A NEW CONSERVATION PARADIGM
Fabrice De Clerck
WINTER TOURISM AND CLIMATE CHANGE:
IMPACTS ON ALPINE VEGETATION AND RESOURCE USE
Christian Rixen
SKIING AND ALPINE VEGETATION
Christian Rixen
L'ECONOMIA AGRO-SILVO-PASTORALE DELLA MONTAGNA ALPINA TRA
CONSERVAZIONE DELLE RISORSE NATURALI ED ABBANDONO: QUALI MODELLI DI
SVILUPPO E QUALI OPPORTUNITÀ?
Paola Gatto
LE TRASFORMAZIONI TERRITORIALI NELL’EVOLUZIONE SOCIO ECONOMICA DEI
TERRITORI MONTANI: RISCHI ED OPPORTUNITÀ
Diego Cason
ATTIVITÀ ZOOTECNICHE ED INTEGRAZIONE TURISTICA SULLE ALPI
Luca Battaglini
LE PROPRIETÀ COLLETTIVE DELL'ARCO ALPINO:
UN ESEMPIO DI GESTIONE EFFICIENTE DELLE RISORSE NATURALI
Elisa Tomasella
IL TURISMO SOSTENIBILE NELLE ALPI E IL RUOLO DEI PARCHI
Claudio Ferrari
A SPATIAL AGENT-BASED MODEL TO EXPLORE SCENARIOS OF ADAPTATION TO
CLIMATE CHANGE IN AN ALPINE TOURISM DESTINATION
Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
CITTÀ E MONTAGNA: L'UNICO TURISMO POSSIBILE
ENRICO CAMANNI
SCRITTORE, ESPERTO DI MONTAGNA
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Enrico Camanni
Si usa contrapporre il mondo della montagna a quello della città, attribuendo alla montagna
caratteri di “naturalità” e arcaicità (un po’ parco e un po’ museo) e alla metropoli espressioni di
modernità e innovazione. Naturalmente si tratta di un luogo comune, che affonda ancora le sue
radici nella matrice romantica della montagna, o meglio della scoperta urbana delle Alpi risalente
alla seconda metà del Settecento. Ma oggi il panorama è completamente è cambiato, e per
riflettere sulle relazioni tra montagna e città, dunque tra sguardi interni e sguardi esterni alle Alpi, o
tra “locale” e “globale”, occorre affrontare un salto di prospettiva culturale. Non valgono più i vecchi
concetti di cultura “alpina” e cultura “urbana”. Bisogna spostare il punto di vista.
Il geografo Eugenio Turri ha scritto:
«Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza
speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la
megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere
nel difficile mondo della complessità che ci assedia».
Ecco il punto fondamentale: una cultura sola non basta più. Chi si illude di salvare e
rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue
tradizioni, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura,
quella metropolitana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica
difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole
l’identità alpina non può porsi come un “locale” impermeabile al “globale”, ma può rivendicare forza
e dignità solo se accetta di misurarsi con il “mondo di fuori”, recependone le sollecitazioni utili e
facendone emergere i limiti e le contraddizioni.
In tal senso va analizzata la complessa e difficile relazione tra cultura interna e cultura
esterna, che viene spesso declinata come uno scontro-incontro fra tradizione e turismo, ma in
realtà non è altro che l’incontro-scontro tra interno alpino ed esterno metropolitano. Le due culture,
appunto.
Anche in riferimento alla “tradizione” credo occorra spostare i termini della questione, perché
“tradizione” non è un concetto statico, la tradizione non si può congelare, ma appartiene a una
realtà culturale in continuo divenire attraverso scambi, condizionamenti e contributi esterni.
Dunque, riferendoci alla realtà alpina contemporanea, si può notare come il turismo faccia già parte
della cultura alpina ottocentesca, e nel Novecento sia diventato “tradizione” esso stesso, cioè
cultura locale motivata e condizionata da spinte esterne.
Con grande lungimiranza l’abbé Gorret scriveva nell’Ottocento:
«Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che
rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato».
Gorret ragionava ancora nei termini dei “due mondi” contrapposti – città e montagna –, ma
aveva capito perfettamente che, non foss’altro che per ragioni economiche, non si può proporre al
turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città. Non si può e non
si deve proporre un luogo in cui le automobili, le strade, le architetture urbane, i motori, gli impianti
a fune annullino le specificità ambientali della montagna trasformandola in un surrogato.
Ma anche la visione opposta, di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé
un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi
turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso
che consuma e distrugge ciò che cerca:
«La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e
dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende»
scrive l’antropologo Duccio Canestrini.
Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo
si è nutrito più a lungo e in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura
rigeneratrice, tutti valori violentemente annientati o falsificati dal turismo di massa fondato sul
modello consumistico.
Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul
consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il
silenzio, la “genuinità”, la “tradizione”; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate,
rispondano alle aspettative dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località,
ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a “reinventarsi” a
uso e consumo della città, con processi di rappresentazione che spesso non coincidono con
l’anima del luogo, ma sono semplicemente il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole
del mercato turistico. Una falsificazione, insomma.
Città e montagna: l'unico turismo possibile
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Ma allora, se non si può proporre la “città in montagna” e neppure la falsificazione della
montagna romantica, del bel tempo che fu, su quali contenuti possono basarsi un abitare e
frequentare le Alpi responsabili e capaci di futuro?
Non esiste strada diversa da quella del dialogo tra le due culture, perché la città stessa si
convinca dei valori che ha perduto cercando, in montagna, di individuare nuove soluzioni, imparare
altre visioni, differenti rapporti con il territorio, diversi e più lungimiranti modelli di sviluppo. La
montagna di domani sarà il risultato di un lungo e delicato processo di relazione e scambio con il
modello urbano, e potrà candidarsi come risposta convincente e durevole proprio se saprà proporsi
in alternativa alle patologie di un consumismo illimitato e senza futuro.
In questa prospettiva vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e città, dunque tra
“montanari” (vecchi e nuovi) e “cittadini” di ogni specie. Non nei termini di un incontro tra passato e
presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli (molto diversi) di un mondo fragile ed
eccezionale che incontra un mondo (apparentemente) più solido e sicuro di sé, ma che di fatto –
proprio in funzione delle sue fragilità – può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del
tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato
alla qualità della vita.
Con questa prospettiva si possono contrastare le tentazioni del turismo cittadino di stampo
coloniale, ma anche le chiusure di montanari che – pur beneficiando dell’industria turistica, o di
altre agevolazioni territoriali – si concedono con grande sufficienza, ospitando senza garbo né
convinzione, certi che il mondo di sopra non avrà mai niente da spartire con quello di sotto. Non è
più così, siamo tutti parte dello stesso mondo.
Altra domanda è: chi saranno i “montanari” di domani? Ecco un punto cruciale: valligiani
disillusi che sognano la strada della città, oppure cittadini intraprendenti che decidono di salire in
montagna per rilanciare “vecchie” attività con idee nuove, beneficiando delle tecnologie che
riducono i tempi e le distanze? Sono forse più “montanari” questi pionieri che scelgono di vivere in
un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che non hanno
scelto di venire al mondo nel chiuso di una valle, e dall’età della ragione non sognano altro che
scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione?
Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene dell’ambiente alpino, si
sarà sempre più montanari per scelta. Tanto più la montagna sarà capace di comprendere la
cultura globale reinterpretandola, tanto più sarà padrona di sé. Naturalmente non chi imita
acriticamente lo stile di vita urbano e non fa altro che estendere le patologie della città alla
montagna, ma il montanaro consapevole, che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello
urbano e sulle Alpi (o sull’Appennino) sogna di tentare nuove vie: il turismo dolce, le energie
rinnovabili, la ricerca scientifica, l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale,
la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità “sostenibile”.
Il geografo Werner Bätzing scrive:
«Per la stabilizzazione ecologica dei paesaggi culturali divenuti instabili e per la
conservazione delle Alpi come spazio economico non è sufficiente elaborare programmi settoriali…
C’è bisogno di un modo di fare economia che riconosca una grande importanza alla produzione
ecologica, e di una cultura che consideri socialmente ragionevole questa forma economica e
sviluppi una comune responsabilità. Senza un cambiamento fondamentale non si può realizzare
uno sviluppo sostenibile. Ma con altrettanta chiarezza le Alpi ci fannno capire che senza un simile
cambiamento il nostro sistema economico e sociale non ha futuro e distrugge per sempre le
proprie basi materiali e immateriali.
Questi nessi vengono oggi ripresi e discussi in molte località d’Europa. In questo dibattito le
Alpi potrebbero però assumere un ruolo di “battistrada”: poiché in passato, proprio prendendo a
modello le Alpi, l’Europa ha sviluppato la propria concezione della natura e dell’ambiente con
immagini particolarmente dense, intense e impressionanti; sempre facendo riferimento alle Alpi si
potrebbero discutere con particolare vigore anche le questioni di fondo dello sviluppo sostenibile…
In tal modo le Alpi – proprio come “caso normale”! – potrebbero diventare le antesignane di uno
sviluppo sostenibile in Europa».
In questa visione le Alpi si pongono – sempre per usare le parole di Bätzing – come «una
regione unica al centro dell’Europa», superando completamente il vecchio limite dei confini
nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite
invisibile che separa il vecchio dal nuovo, l’alto dal basso, la montagna dalla pianura, la cosiddetta
“cultura alpina” dalla cultura urbana.
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Enrico Camanni
Paradossalmente la sopravvivenza della montagna, e delle Alpi in particolare, dipenderà
dalla loro capacità di trasformazione e dalla disponibilità a “contaminarsi” con altre culture
difendendo i valori di base. Pena la museificazione o l’estinzione. La cultura alpina ha bisogno
della cultura della città (ampiezza di visione, capacità di programmazione), così come i cittadini
hanno bisogno delle montagne per ritrovare cieli liberi e tempi liberati.
L’altrove non sta più nel “paradiso perduto” delle antiche genti walser, oltre le creste del
Monte Rosa, dunque in un luogo estraneo nel tempo e nello spazio, e neppure nella proiezione
romantica che contrapponeva con fede cieca la purezza delle vette alla corruzione del piano.
L’altrove sta qui e ora, nel rovescio di questo stesso mondo, in una proposta contemporanea
che non deriva dalla distanza o dall’irrangiungibilità, ma da una vicinanza di tempo e spazio che si
fa avventura, alternativa e rifugio perché trattiene a sé valori centrifugati da un mondo disincantato:
la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali.
Questi valori a prima vista ancestrali, perché apparentati con le società arcaiche, diventano
attualissimi se letti come “altro” di una società frenetica, utilitarista, rumorosa, individualista e
artificiale. Allora il passato assomiglia al futuro, e la tradizione ha sentore di avanguardia.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
DOLOMITI PATRIMONIO DELL’UMANITÀ:
LA DIFFICILE STRADA DI UNA CANDIDATURA
FRANCO VIOLA
UNIVERSITÀ DI PADOVA
FONDAZIONE G. VANGELINI CENTRO STUDI SULLA MONTAGNA
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Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura
PERCHÉ LE DOLOMITI SONO PATRIMONIO DELL’UMANITÀ?
Il mondo politico e i media hanno dato grande risalto alla conquista, da parte dell’Italia, di un
prestigioso riconoscimento: le Dolomiti sono state valutate da UNESCO meritevoli d’essere
annoverate tra i beni del Patrimonio Naturale dell’Umanità (World Heritage List). Poca informazione
è stata invece data sul significato del traguardo raggiunto dal nostro Paese e dalle cinque Provincie
che per anni si sono impegnate nell’impresa; proveremo dunque a colmare questa lacuna.
LA CONVENZIONE UNESCO PER LA CONSERVAZIONE DEL PATRIMONIO MONDIALE
Al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, le Nazioni Unite diedero vita ad
UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), organismo cui veniva
affidato il compito di “… favorire la collaborazione internazionale (e la riconciliazione tra i popoli
della Terra) anche nei campi della educazione, della scienza, della cultura e della comunicazione”.
La nuova organizzazione trovò subito necessità di appoggiare le sue scelte strategiche in tema di
natura e di cultura su competenze assolutamente provate e da tutti condivise.
Vennero dunque attivati, nel 1948, due nuovi organismi. Quello deputato ad affrontare i temi
scientifici, soprattutto legati agli assetti naturalistici e a quelli ambientali, fu denominato “Unione
Internazionale per la Conservazione della Natura (World Conservation Union)”, meglio conosciuto
attraverso l’acronimo IUCN. È l'unica organizzazione che si occupi d’ambiente a disporre di un
posto permanente di osservatore nell'Assemblea Generale dell’ONU.
Sul finire degli anni sessanta IUCN denunciò il rapido diffondersi, a scala planetaria, di
minacce portate al patrimonio naturalistico del pianeta; analoga denuncia venne formulata al
riguardo dei beni culturali, quelli prodotti dall’ingegno degli uomini nel corso della loro storia
millenaria. Per questo motivo UNESCO formulò il testo di una Convenzione i cui sottoscrittori
avrebbero dovuto impegnarsi alla tutela dei beni culturali e naturali del mondo, ovvero, più
propriamente, dell’Umanità. La convenzione venne proposta all’assemblea plenaria UNESCO nel
1972; il nostro Paese la sottoscrisse nello stesso anno e ne ratificò i suoi principi informatori, in
leggi nazionali, quattro anni più tardi.
La logica del procedimento di candidatura per poter inserire le Dolomiti nella Lista dei Beni
Patrimonio dell’Umanità (World Heritage List) deriva dunque direttamente dalla Convenzione
concepita quasi quaranta anni fa e ormai sottoscritta da 186 Paesi della Terra. Gli aspetti pratici del
procedimento, e le regole formali (e sostanziali) da seguire per la preparazione dei documenti
d’appoggio alla candidatura sono invece fissati da un apposito format, che viene periodicamente
rivisitato e aggiornato, per i beni naturali, da IUCN. La stessa IUCN ha il compito di istruire il
giudizio sulla qualità della candidatura e di suggerire a UNESCO la sua approvazione, o la
bocciatura.
Ogni anno, durante la sua assemblea plenaria, UNESCO delibera sulle proposte di
candidatura, sempre rispettando la valutazione proposta dall’organismo di supporto scientifico.
La decisione di avviare un procedimento di candidatura è presa liberamente dagli Stati e
viene formalizzata attraverso una apposita domanda depositata a Parigi presso la sede UNESCO.
Nel momento in cui la domanda viene presentata, il Bene candidato entra a far parte della
cosiddetta Lista Provvisoria.
L’Italia ha proposto le Dolomiti per l’iscrizione nella classe dei beni naturali nel luglio 2005,
durante la 29 sessione di Word Heritage Committee, a Durban, South Africa. Il 26 giugno 2009 le
Dolomiti sono state riconosciute da UNESCO come bene facente parte del Patrimonio
dell’Umanità. Il percorso di candidatura è stato dunque lungo e, per la natura stessa del territorio
dolomitico, ha dovuto affrontare alcuni importanti ostacoli, alcuni dei quali non sono stati ancora del
tutto superati.
Per comprendere appieno il senso del successo dell’iniziativa italiana, e delle cinque
province che caparbiamente hanno lavorato alla candidatura, è però necessario porre attenzione ai
passi fondamentali della convenzione e del format che ne chiarisce praticamente il significato.
Nella sua premessa, il documento che già nel 1972 venne sottoscritto da ben 178 Paesi,
riporta con assoluta chiarezza: «Considerato che molte convenzioni e risoluzioni internazionali
dimostrano l’importanza, per tutti i popoli del mondo, della tutela dei beni culturali e naturali che
sono riconosciuti unici e irripetibili a scala mondiale, e ciò indipendentemente dal popolo cui
Franco Viola
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appartengono, considerato anche che molti di questi beni sono da considerare un patrimonio
culturale e naturale dell’umanità e come tali hanno un valore eccezionale che impone, all’umanità
stessa, di prodigarsi per la loro conservazione, di fronte alla portata e alla gravità dei pericoli che li
stanno minacciando... (i popoli della Terra ritengono che)... spetti alla collettività internazionale
garantire la protezione del “patrimonio culturale e naturale di valore universale eccezionale”
mediante forme di assistenza collettiva esercitata... secondo metodi scientifici e moderni... ».
La convenzione non lascia dubbi sul significato della locuzione patrimonio mondiale.
L’articolo 2 chiarisce infatti che il «patrimonio naturale» è composto da:
«monumenti naturali costituiti da formazioni (o da gruppi di tali formazioni) fisiche e
biologiche di valore universale eccezionale per aspetti estetici o per significato scientifico,
formazioni geologiche e fisiografiche... che costituiscono l’habitat di specie animali e vegetali
minacciate, anch’esse dotate di valore eccezionale per aspetti scientifici o conservativi,
siti naturali o zone naturali provviste di valore eccezionale sotto il profilo scientifico,
conservativo o estetico naturale».
Va con forza ribadito che UNESCO non ha alcun potere per imporre qualche vincolo alla
libera scelta degli Stati, ovvero delle loro comunità, che spontaneamente hanno sottoscritto la
convenzione ed altrettanto liberamente decidono di sottoporre a tutela, sotto il vessillo di UNESCO,
qualche “tesoro”, culturale e naturale, presente sul loro territorio. Lo ribadiscono gli articoli 4 e 5
della Convenzione: «Ogni Stato che abbia sottoscritto la Convenzione è... (solo)... per sua scelta
obbligato a garantire... la protezione, la conservazione, la valorizzazione e la trasmissione alle
generazioni future del patrimonio culturale e naturale situato sul proprio territorio».
«Per garantire la protezione e la conservazione... (di questo) patrimonio, gli Stati... si
impegnano, nei limiti delle proprie possibilità (scientifiche, tecniche ed economiche), a:
assegnare al patrimonio una funzione nella vita della collettività locale e ad inserirne la
protezione nella pianificazione del territorio (che vi viene coinvolto);
di istituire servizi (tecnici ed amministrativi) per la conservazione e la valorizzazione del
patrimonio, dotati di personale adeguato e dei mezzi necessari... ;
di sviluppare gli studi e le ricerche scientifiche necessari a far fronte ai pericoli che
minacciano (o possono minacciare) il patrimonio;
... ».
I CARDINI DELLA CANDIDATURA
Proprio grazie ai passaggi di cui ora si è fatta sintesi si può comprendere come la prima idea
di candidare queste montagne a Patrimonio dell’Umanità, inizialmente proposta, nel 1993, da
associazioni ambientaliste guidate da Mountain Wilderness, non ebbe alcun seguito concreto.
L’iniziativa non venne infatti allora sostenuta dalle amministrazioni locali, le uniche che avrebbero
potuto, o dovuto, garantire il rispetto delle condizioni poste dalla Convenzione al riguardo del
coinvolgimento delle popolazioni e alla stesura di apposite norme di pianificazione territoriale. Solo
dieci anni più tardi, nel dicembre 2004, mosso forse dalle nuove “regole” di UNESCO che con la
riformulazione del format ponevano il vincolo di un numero di candidature “naturali” pari a quello
delle candidature “culturali” (praticamente la totalità di quelle italiane), il nostro Paese si raccordò
con le cinque Province dolomitiche (Belluno, Bolzano, Pordenone, Trento e Udine) per proporre la
tutela di un’area che, alla fine, cumulava ben 142.000 ettari di superficie, ovvero 230.000 ha
considerando anche le cosiddette aree tampone, o di rispetto. Si tratta, dunque, della più grande
area tutelata del nostro Paese!
La candidatura venne depositata a Parigi, presso la sede di UNESCO. Venne presentata
due volte, in settembre dell’anno 2005 e in febbraio del 2008.
La prima fu una candidatura costruita intorno a tutti e quattro criteri naturalistici previsti dal
format deliberato da IUCN nel 2004, cioè quello estetico-paesaggistico, quello geologicogeomorfologico, quello biologico-naturalistico e quello ecologico-ecosistemico.
Dopo l’approfondita analisi compiuta da IUCN sui testi di appoggio della proposta e dopo la
verifica tecnica-istituzionale sul territorio, questa candidatura venne sospesa, su suggerimento di
UNESCO, giusto prima dell’apertura dell’assemblea plenaria del 2007.
Si noti bene, sospesa, non bocciata.
Al nostro Paese venne infatti suggerito di riformulare la domanda, seguendo alcuni
importanti indicazioni, logiche e tecniche, tra cui quella di ridurre il numero dei sistemi montuosi
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Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura
che componevano il bene in candidatura. Si trattava, inizialmente, di ben 26 gruppi dolomitici,
ridotti poi a 21, ma sempre eccedenti la dimensione ritenuta congrua col concetto di bene seriale
cui la convenzione UNESCO fa riferimento.
Sistema
1
Pelmo, Croda da Lago
2
Marmolada
Pale di S. Martino e Pale di S. Lucano, Dolomiti
Bellunesi,Vette Feltrine
3
area cuore
4.344
aree tampone
2.427
Totale (ha)
6.771
2.208
576
2.784
31.666
23.669
55.335
4
Dolomiti Friulane e d'Oltre Piave
21.461
25.028
46.489
5
Dolomiti Settentrionali
53.586
25.181
78.767
6
Puez-Odle
7.930
2.866
10.796
7
Sciliar-Catinaccio, Latemar
9.302
4.771
14.073
8
Bletterbach (Rio delle Foglie)
271
547
818
11.135
4.201
15.336
141.903
89.266
231.169
9
Dolomiti di Brenta
area totale (ha)
La convenzione UNESCO definisce invece i “beni seriali... (come insieme)... costituito da
elementi disgiunti, ma tra loro correlati poiché appartengono a... la stessa formazione geologica,
geomorfologica, (o alla) stessa provincia biogeografica, o (al)lo stesso tipo di ecosistema,...
ammesso che sia la serie come insieme – e non necessariamente le singole parti di essa – ad
avere un valore universale eccezionale”.
Per questo motivo alla fine vennero inseriti in World Heritage List “solo” nove sistemi
dolomitici.
IUCN suggeriva poi ad UNESCO di porre molta attenzione nella valutazione della capacità
del nostro Paese di garantire la tutela di beni il cui valore viene dichiarato in chiave biologica ed
ecologica. IUCN rilevava infatti una importante vulnerabilità del territorio in merito alla
conservazione delle specie, dei processi ecologici ed anche degli habitat naturali, quelli necessari
alla conservazione in-situ della diversità biologica. Singolarmente, la numerosità e l’eterogeneità
delle leggi e dei dispositivi regolamentari, che sono specchio di quella degli ordinamenti istituzionali
delle cinque province, non sono state interpretate come strumento efficace di conservazione, ma
quasi come elemento di rischio per l’efficienza della gestione tutelare che UNESCO chiede agli
Stati (e non alle amministrazioni subordinate).
L’Italia ritirò, o sospese, la candidatura e immediatamente si attivò per presentare una
seconda proposta in piena aderenza ai suggerimenti di UNESCO.
VALORE ECCEZIONALE, INTEGRITÀ, CONSERVAZIONE
Il successo ottenuto con questo secondo passaggio è, nella forma e nella sostanza, figlio del
pieno rispetto dei vincoli imposti dalla convenzione UNESCO, così come più dettagliatamente
spiegati dal format IUCN.
Per prima cosa si doveva dimostrare, e dichiarare, che i beni erano integri nella loro struttura
formale e sostanziale e, in secondo luogo, si doveva dimostrare di essere in grado di poter
conservare nel tempo lo stato di integrità di ciascuna parte del bene.
Al riguardo il format non lasciava spazio a interpretazioni benevole, od elastiche.
“L’integrità è una misura dell’interezza e della purezza del patrimonio naturale e delle sue
caratteristiche; è tale se il bene include tutti gli elementi necessari per esprimere il suo valore
universale eccezionale, oppure se è dotato di una estensione adeguata ad assicurare la
rappresentazione completa delle caratteristiche e dei processi che esprimono il significato di un
bene, ed ancora, se non soffre a causa degli effetti nocivi dello sviluppo e/o dell’abbandono”.
“…. per i beni candidati sulla base dei criteri naturalistici, i processi biofisici e le
caratteristiche della superficie terrestre dovranno essere pressoché intatti, non devono essere
dunque alterati dalle attività colturali da parte delle popolazioni. ….. Si deve però considerare che
molte attività, come quelle delle società tradizionali, si sviluppano in aree naturali … e possono
quindi coesistere con il valore universale eccezionale dell’area nella quale esse risultano
ecologicamente sostenibili”.
Franco Viola
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“Tutti i beni iscritti nella Lista per il patrimonio mondiale devono godere di una adeguata
protezione legale, a carattere tradizionale e/o istituzionale a lungo termine, che ne assicuri la
salvaguardia”.
“Lo Stato... deve assicurare un uso sostenibile del bene, un uso cioè che non abbia effetti
negativi sul valore universale e sull’integrità del bene”.
La proposta di una candidatura seriale dava dunque anche la possibilità di enucleare,
all’interno della ben più vasta area dolomitica, fatta anche da valli diffusamente e intensamente
popolate, nelle quali l’economia è legata all’offerta turistica, solo le parti integre, nell’accezione
propria di UNESCO.
La riduzione della candidatura ai soli aspetti scenico-paesaggistici e geologicogeomorfologici ha poi apparentemente ridotto il campo della vulnerabilità antropica delle Dolomiti.
La possibilità di portar danno alle forme delle pareti rocciose, e alla spettacolarità delle torri, delle
guglie, dei vertiginosi strapiombi è, per questi criteri, quasi nulla.
Restò in alcuni dei proponenti il rammarico di aver perduto un pezzo importante della identità
culturale di questa regione. Il territorio dolomitico è unico al mondo sotto il profilo della
documentazione storica del rapporto uomini - natura. Non esistono, infatti, sistemi montani che
possano documentare l’antico impiego umano delle proprie risorse, in ogni valle, anche in quelle
più remote e isolate. Qui si comprende nella più profonda e sperimentata accezione il senso della
sostenibilità, e dei principi che la reggono. Ne possono essere splendido esempio i “laudi”, cioè le
“regole” nell’uso del suolo stabilite dalle Comunità e dalle Comunioni familiari risalenti agli inizi del
passato millennio, come quelle di Cadore, con Ampezzo, Zoldo e Agordino in provincia di Belluno,
o quelle fissate in Val di Fiemme o nelle valli ladine del Sella. Ciò vale anche per le regole tecniche
della selvicoltura, per i catasti della gestione forestale, per le regole del governo delle acque e dei
versanti stabiliti e pubblicati dalla Serenissima sul principio del 1500.
Gli uni e gli altri sono documenti che non trovano pari in nessuna altra parte del Pianeta.
Con la storia documentata del buon rapporto tra uomini e territorio si è anche
apparentemente messa da parte la necessità di elencare, e di quantificare attraverso idonei
indicatori, le minacce che gravano sulla natura viva delle Dolomiti. Nella prima fase della
candidatura se ne erano elencate alcune tra le più significative, come il consumo di territorio, le
diffuse captazioni idriche, l’inquinamento, il carico dei turisti e l’ubiquità delle strutture per lo sport e
per l’accoglienza, la viabilità e la sentieristica, il pascolamento e la selvicoltura, la coltivazione di
cave e di miniere.
Le dichiarazioni di valore e di integrità riguardano invece solo le rocce e le loro forme.
La presenza dell’uomo permea però tutto il Piano di Gestione, che è il documento richiesto
da UNESCO per comprendere e per valutare il reale impegno tutelare del Paese nei confronti del
bene candidato.
Nel caso nostro il Piano prevedeva l’attivazione (giuridica, legale e tecnica) di una apposita
Fondazione, col mandato di coordinare la gestione tra le diverse amministrazioni competenti sul
territorio, la stesura di un Master Plan trasversale a tutte le amministrazioni e vincolante per la
specifica gestione programmata affidata ad ogni provincia, e la stesura di un Piano attuativo
appositamente calibrato per ciascuno dei sistemi candidati.
La filosofia del Piano di Gestione, bene espressa per mezzo di matrici che ne definivano gli
obiettivi e le strategie di intervento e di azione, articolati sugli assi della conservazione, della
promozione sociale e della valorizzazione sostenibile delle risorse, ha consentito l’approvazione “a
pieni voti” della Candidatura.
Anzi, il documento con cui IUCN suggeriva a UNESCO l’inserimento delle Dolomiti in World
Heritage List contiene espressioni di apprezzamento mai riscontrate in altri analoghi documenti.
Vale la pena riportarle integralmente.
Criterio VII:“Le Dolomiti sono largamente considerate tra i più bei paesaggi montani del
mondo. La loro intrinseca bellezza deriva da una varietà di spettacolari conformazioni verticali –
come pinnacoli, guglie e torri – che contrastano con superfici orizzontali – come cenge, balze e
altipiani – e che s’innalzano bruscamente da estesi depositi di falda detritica e rilievi dolci ed
ondulati. La grande diversità di colorazione è provocata dai contrasti di roccia nuda con i pascoli e
le foreste. Queste montagne s’innalzano in picchi interposti a gole, rimanendo isolati in alcuni
luoghi o formando sconfinati panorami in altri. Alcune scogliere rocciose si ergono per più di 1.500
metri e sono fra le più alte pareti calcaree al mondo. Lo scenario caratteristico delle dolomiti è
divenuto l’archetipo del “paesaggio dolomitico”. I pionieri della geologia sono stati i primi ad essere
16
Dolomiti Patrimonio dell’Umanità: la difficile strada di una candidatura
catturati dalla bellezza di queste montagne: i loro scritti e le successive opere pittoriche e
fotografiche, evidenziano ulteriormente lo straordinario fascino estetico di tutto il bene.”
Criterio VIII: “Dal punto di vista geomorfologico le Dolomiti sono di rilievo internazionale,
come il sito classico dello sviluppo delle montagne di rocce dolomitiche. L’area mostra un ampia
gamma di morfologie connesse all’erosione, al diastrofismo e alla glaciazione. La quantità e la
concentrazione di formazioni carbonatiche estremamente varie è straordinaria in contesto globale
ed include cime, torri, pinnacoli e alcune delle pareti verticali più alte del mondo. Di importanza
internazionale sono inoltre i valori geologici, specie l’evidenza delle piattaforme carbonati che del
Mesozoico, o “atolli fossili”, in modo particolare per la testimonianza che essi forniscono
dell’evoluzione dei bio- costruttori sul confine fra Premiano e Triassico, e della conservazione delle
relazioni fra le scogliere che hanno costruito ed i loro bacini circostanti. Le Dolomiti comprendono
svariate sezioni tipo di importanza internazionale per la stratigrafia del periodo triassico. I valori
scientifici del bene sono inoltre supportati dalle prove di una lunga storia di studi e ricognizioni a
livello internazionale. Considerato nel suo insieme, il complesso di valori geomorfologici e
geologici, costituisce un bene di importanza globale.”
La candidatura è dunque stata considerata inoppugnabile in termini di contenuti scientifici e
naturalistico/paesaggistici, grazie alle eccezionali caratteristiche di queste montagne. Il rischio di
una frammentazione gestionale, determinata da un quadro istituzionale e amministrativo molto
composito è stata comunque considerato da IUCN come un elemento di criticità per l’oggettiva
difficoltà a garantire da un lato l’integrità del bene e dall’altro omogeneità e coerenza gestionale.
Determinante, per IUCN, è stata la presenza di aree protette; si legge nel documento: “I
nove siti che compongono il bene Dolomiti includono tutte le forme istituzionali di tutela essenziali
per il mantenimento della bellezza del bene.... Il bene include parti di un parco nazionale, diversi
parchi naturali regionali e provinciali, siti Natura 2000 ed un monumento naturale. Le aree tampone
sono state definite per ciascun sito al fine di proteggerlo dalle minacce esterne ai suoi confini”.
A garanzia dell’integrità del bene è stata assunta la presenza, ormai pluridecennale, di
parchi e/o di siti di Natura 2000; quasi 99% delle aree cuore delle Dolomiti è già ampiamente
protetto, come dimostra le articolate matrici delle attività proibite e di quelle concesse che, su
richiesta di IUCN, sono state inserite in un documento integrativo al Piano di Gestione e al Dossier.
IUCN ha dunque valutato che queste forme di tutela siano la premessa più valida per la
formulazione e l’applicazione dei futuri Piani di Gestione dei singoli elementi della Serie.
La Fondazione “Dolomiti (Dolomiten, Dolomites, Dolomitis) UNESCO”, i cui soci fondatori
sono le Province e le Regioni al momento della sua istituzione, è il referente unico presso
UNESCO “garante della coerenza tra la strategia gestionale e il mantenimento dei valori
universali”. Purtroppo il nome dei monti è scritto in italiano, tedesco, ladino e friulano per
dimostrare esplicitamente la volontà di non dimenticare le differenti radici culturali delle forme di
gestione di questi luoghi; ma inconsapevolmente ciò serve a dichiarare e implicitamente le difficoltà
di aggregare in una azione sinergica gli sforzi che le cinque amministrazioni sono chiamate a
sviluppare nell’immediato futuro. Tuttavia il documento di IUCN riporta l’indicazione che la formula
giuridica della Fondazione sarà proposta da UNESCO come pratica virtuosa, cioè come metodo
efficace da adottare per analoghe, future, complesse candidature.
LE ATTESE PER L’IMMEDIATO FUTURO
Restano tuttavia sul tappeto questioni, prevalentemente di indole sociale, che la
Convenzione indica come momenti essenziali e qualificanti per la corretta gestione dei beni
Patrimonio dell’Umanità.
Tra queste vi è la partecipazione delle comunità locali alle scelte gestionali e la loro
adesione ai principi fondanti di UNESCO.
Il Piano di Gestione fa riferimento ad una serie di soggetti coi quali la fondazione dovrà in
ogni caso confrontarsi. Tra gli altri vi sono Parchi, Comuni, Club alpino (CAI-SAT-AVS), Guide
Alpine, proprietari e gestori dei Rifugi Alpini, operatori turistici, Musei, enti di ricerca, Università,
Scuole ed altre Organizzazioni attive nel campo dell’educazione e della formazione. Con tutti
costoro la Fondazione dovrà discutere le strategie pratiche della conservazione, senza trascurare
gli effetti dei flussi turistici, ma anche i temi della comunicazione e dei suoi strumenti, delle modalità
dell’informazione, della formazione, della ricerca, soprattutto di quella applicata allo sviluppo
Franco Viola
17
sostenibile, per finire alla individuazione delle più opportune fonti di finanziamento e di
autofinanziamento.
È un impegno da affrontare con lena e con grande determinazione. Si troveranno
certamente ostacoli da superare, resistenze e molte incomprensioni, come sempre succede
quando si travisano i significati della conservazione e della sostenibilità, confondendo l’interesse
collettivo con quello personale e il breve col lungo periodo. Basti pensare che tra i titoli che
dovranno figurare nei piani di gestione specifici per ogni sistema, IUCN colloca anche il
rilevamento dei flussi turistici, il censimento dei sentieri e la stesura di norme unitarie per la loro
gestione, la misura e il monitoraggio della capacità di carico turistico di ogni sito, quello degli
accessi e delle ricettività dei rifugi e dei bivacchi e la definizione di un codice di condotta per i
visitatori.
C’è dunque da pensare che da questi argomenti possa venir toccata la sensibilità di qualche
amministratore od operatore del turismo.
IUCN è però anche attenta al benessere delle comunità locali, e suggerisce per questo la
progettazione di azioni e di interventi che soddisfino la promozione dei luoghi, ovviamente nel
rispetto dei principi della sostenibilità. In questa direzione muove, tra le molte altre, la proposta di
un marchio delle DOLOMITI Patrimonio dell’Umanità da attribuire ai prodotti e ai servizi coerenti
con lo spirito della candidatura, la predisposizione del sito web per dare possibilità al mondo intero
di apprezzare la bellezza e la grandiosità di queste montagne, la preparazione di materiale
informativo (brochure, manifesti, volantini) e della cartografia turistica, tecnica e scientifica delle
Dolomiti, con mappe tematiche dei sentieri, con una mappa geo-turistica e dedicata al paesaggio,
materiale che verrà distribuito come veicolo di promozione (pubblicità) anche dai gestori dei servizi
di accoglienza, di ristorazione, delle attività sportive e del tempo libero.
Altrettanto qualificante è l’attenzione che verrà riservata agli aspetti della comunicazione,
mirati soprattutto alla creazione, o alla riaffermazione, nella gente di uno spirito identitario delle valli
Dolomitiche, più che alla partecipazione ai diversi gruppi idiomatici, o etnici.
Le proposte passano da aspetti assolutamente minuti, come sono quelli legati alla
segnaletica stradale, e della toponomastica, oppure alla identificazione dei punti di accesso ai
sentieri, ad aspetti di maggior significato territoriale e sociale, come la predisposizione e la
localizzazione dei punti di informazione nelle aree focali delle Dolomiti, il coordinamento dei servizi
di informazione in musei e in mostre permanenti, il coordinamento dei servizi d'informazione nei
rifugi, la definizione di comuni strategie di apprendimento guidato, la organizzazione di seminari
tematici per la formazione permanente di operatori in riferimento agli obiettivi di conduzione del
territorio e delle sue risorse, o ai gestori di rifugio, di guide e di esperti di controllo ambientale
(guide alpine, guide ambientali), fino alla predisposizione di moduli e di progetti didattici sul
paesaggio sulla geologia dell’area dolomitica, differenziati per le scuole primarie e secondarie.
Si tratta di uno sforzo importante, che deve permeare mondi che spesso già oggi si parlano
con difficoltà, come quelli delle Amministrazioni e dei servizi, quelli dell’economia e la gente, cioè le
famiglie.
Aspetto focale della strategia, sotto il profilo economico, resta però la definizione di strategie
di turismo sostenibile, di cui per altro esiste un modello da tempo sperimentato in una delle tessere
più ampie del bene seriale Dolomiti UNESCO.
Il tempo è poco! Al di là dei vincoli ristrettissimi posti da IUCN-UNESCO per una prima
verifica dell’attendibilità del Paese, e delle province (due anni, a partire da giugno 2009), la
scommessa riguarda i rapporti tra le Province e quelli tra le popolazioni.
Bisogna che ognuno si senta responsabile del successo di questa iniziativa: la visibilità
guadagnata con lo sforzo compiuto da pochi deve essere ora quotidianamente riconquistata con la
partecipazione cosciente di tutti.
Ne potranno venire solo benefici.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
OLTRE LE ALPI…
BIODIVERSITY CONSERVATION AND ECOSYSTEM SERVICES OF
TROPICAL MONTANE REGIONS OF COSTA RICA:
A NEW CONSERVATION PARADIGM
FRABRICE DECLERCK
CATIE, TURRIALBA COSTA RICA
20
Fabrice DeClerck
Costa Rica is a small mountain region of Central America well-known by many for its
incredible biodiversity, beautiful beaches, world class coffee, and dedication to conservation.
Indeed, although Costa Rica occupies less than 1% of the global landmass, it contains more than
5% of the world’s terrestrial biodiversity. Because of this rich biodiversity, Costa Rica, and to a
larger extent Mesoamerica, have been considered a biodiversity hotspot.
Much of this rich biodiversity is due to the geography of Costa Rica. The county occupies a
central location within the Mesoamerican isthmus, a narrow stretch of land that less than 3 million
years ago connected the North American continent to the South American continent. This led to
two significant events that are tied to the rich biodiversity of the region. First formation of a land
bridge between the North and South American continents permitted the mixing of species known
as the Great American Biotic Exchange. Species such as coyotes and raccoons moved into South
America from the north, and species such as sloths, tanagers, and opossums moved into North
America from the south. The merging of two continents also meant the dividing of two oceans
forming the Caribbean Sea to the east, leading to the evolution of new species and the formation of
the Great Mayan Reef, the second largest coral reef in the world.
The topography of the region also has much to play in maintaining such a rich diversity.
Notably, Mesoamerica is a long, narrow landmass that generally runs north to south (its greatest
extension in latitude, and a narrow longitudinal breadth). The isthmus is 130 km at its narrowest
point, but includes changes in elevation from sea level to peaks as high as 3820 m (Mt. Chirripo)
via the central mountain range that runs like a spine through the entire length of Mesoamerica – a
pre-Andean range. Chirripo is one of only regions of Costa Rica with evidence of glaciation.
Vegetation changes from tropical rainforest on the coastlines, to oak forests at high elevations, and
paramo on mountain tops – for European, the higher one goes in elevation, the more familiar one
becomes with the vegetation. This altitudinal change is essential to agriculture, as cool season
crops, such as strawberries, broccoli, and tomatoes are cultivated between 1200 and 1500 m.
The two slopes of this mountain range are also distinct. The western slopes are under
Pacific influence with an annual dry season and the absence of rain between December and May.
In contrast, the Caribbean slopes are rainy year round with annual precipitation that can exceed
8000 mm.
It is this unique combination of topography, maritime influence, and land bridge geography
that make Mesoamerica one of the most unique regions on earth for biodiversity. However, it also
means that Mesoamerica’s biodiversity is amongst the most threatened globally. Rapid expansion
of cattle ranching, particularly in the Pacific slopes, and montane areas for dairy farming, have led
to rapid conversion of forests to agricultural land uses. These agricultural pressure has pushed
many remaining forests upslope so that many of the protected areas are located on mountain tops,
and have become veritable mountaintop islands of conservation.
Many early conservation efforts focused on setting aside land in reserves and protected
areas. Indeed, most countries in the region boast of having more than 25% of their landmass under
some form of protected status. However many of these are paper parks which exist on maps, but
where little enforcement of park boundaries or rules exists. A second important conservation
initiative was the Mesoamerican Biological Corridor, which was initially known as “Paseo Pantera”
or the Jaguar’s Path. This initiative’s main goal was to create biological corridors that would link the
protected areas in Mesoamerica, in theory permitting a jaguar to cross from southern Mexico to
Colombia without leaving forest cover. Although this initiative was tremendously successful in
bringing the various governments of Central America together with a singular conservation
objective, it failed to be followed up with actual on the ground interventions and was largely
abandoned in the late 1990’s.
The Mesoamerican Biological Corridor is exhibiting a resurgence however, in large part due
to a renewed conservation focus on ecosystem services. Ecosystem services are human benefits
derived from natural and agricultural ecosystems. Classic examples of ecosystem services are
regulation of water flows, maintaining water quality, sediment reduction in waterways, pollination,
pest control, and even cultural benefits such as scenic beauty. The goal the ecosystems service
approach is to value the benefits that mankind receives from ecosystem systems.
Lessons learned from the first iteration of the Mesoamerican Biological Corridor
demonstrated that it was difficult to mobilize local communities around singular conservation goals
– protecting jaguars and other species. However, once communities began to understand the link
between forest conservation and the provision of ecosystem services, communities increasingly
began to organize themselves into Biological Corridor Steering Committee’s, whose main purpose,
Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica:
a new conservation paradigm
21
despite the name, was to develop a landscape scale vision for community management of
ecosystem services.
The Biological Corridor Steering Committees include conservationists of course, but more
importantly they unify, or provide a platform for building consensus on important land management
decisions. The majority of these decisions revolve around how the landscape can be better
managed to provide essential ecosystem services, particularly clean and abundant water, reduced
sedimentation for hydro-electric dams, pest control, and of course, connectivity for wild biodiversity.
In this presentation, I will focus on one particular biological corridor, the Volcanica Central
Talamaca Biological Corridor. This montane corridor links the central mountain range (the cordillera
central) on the north, to the Talamanca Mountains to the south. Its altitudinal gradient ranges from
400 m up to 3340 m at the top of the Turrialba Volcano. The dominant land uses are coffee and
dairy production, but sugar cane is also important as is the cultivation cold season crops on the
upper slopes of the volcano. The corridor is also an important site for tourism, particularly rafting
the Reventazon and Pacuare Rivers which offer class 5 rapids, and mountain biking the myriad of
dirt tracks in the region. Finally, the corridor produced more than 35% of Costa Rica’s energy
needs through a series of 5 dams on the Reventazon River.
The focus of this talk will be to discuss the role of the ecosystem service approach to
conservation in the management of these multiuse, and multifunctional landscapes. In the
Volcanica Central Talamanca Biological Corridor, important ecosystem services are tied to
ensuring high levels of water quality for drinking, recreation, and energy production. Coffee farmers
are particularly interested in pest regulation functions, whereas the tourism boards is interested in
preserving the scenic value of the landscape. Conservation Biologists in turn desire to ensure
habitat and connectivity for wild biodiversity. I will discuss each of these ecosystem services in turn,
and talk about the different incentive mechanisms in place to ensure the provision of these
services. These include economic incentives such as the Payment for Ecosystem Service schemes
financed by the federal government, water taxes managed by the municipality, to non-economic
incentives tied to services received directly from the landowner. We will focus on the Turrialba
region because of its montane nature with a particular focus on the spatial distribution of
ecosystem services. I hope to generate an interesting discussion regarding the communal
management of montane environments, using the Costa Rican example as a launching point.
For further reading I provide an article written by a group a colleagues that focuses on the
issues I will discuss, but throughout the greater Mesoamerican region.
DeClerck, F.A.J., R Chazdon, K.D. Holl, J.C. Milder, B. Finegan, A. Martinez-Salinas, P.
Imbach, L. Canet, and Z. Ramos. (2010). Biodiversity conservation in human-modified landscapes
of Mesoamerica: past, present and future. Biological Conservation 143(2010): 2301-2313.
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Fabrice DeClerck
Biodiversity conservation and ecosystem services of tropical montane regions of Costa Rica:
a new conservation paradigm
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Fabrice DeClerck
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
WINTER TOURISM AND CLIMATE CHANGE: IMPACTS ON
ALPINE VEGETATION AND RESOURCE USE
CHRISTIAN RIXEN
WSL DAVOS (CH)
38
Christian Rixen
INTRODUCTION
Reliable snow conditions represent a crucial economic prerequisite for the skiing industry
(Elsasser and Messerli 2001; Scott et al 2003; Pröbstl 2006; Steiger and Mayer 2008). The lack of
snow due to low precipitation or high temperatures is an immense challenge for winter sport
destinations and especially the mountain railway companies. Artificial snow production is the key
adaptation strategy to rising temperatures, enhanced economic competition and increasing
requirements of winter tourists. The increase in snow-making facilities in the Alps has been
dramatic in recent years. In Switzerland, artificial snow production has increased in cover from
<10% of the total ski piste area in 2000 to 36% in 2010. Austria has already reached 62% while in
some areas in the Italian Alps artificial snow can be produced on 100% of the ski runs. The winter
2010/2011 had below-average snow cover in most parts of the Swiss Alps, however, the mountain
railway companies look back on an economically successful season, possibly in part due to
improvements in snow-making technology.
Given the expected climate change, the trend towards extensive snow production will
continue and increase. Regional climate scenarios for Switzerland predict a rise in winter
temperatures by +1°C until 2030 and +1.8°C until 20 50 (OcCC 2007). The snow cover at
elevations below 1’300 m a.s.l. has already significantly decreased since 1980 (Laternser and
Schneebeli 2003). In higher regions, a decrease in average snow depth was observed in early
winter (November, December), which is a crucial period for winter sport.
The tourism industry is faced with numerous concerns given the future challenges of climate
change. Therefore, it needs to estimate potential negative effects of a reduced natural snow cover
and potential positive mitigating effects of snow production (Hoffmann et al 2009). Frequently
discussed ecological concerns are the consumption of water and energy for snow production
(CIPRA 2004) or impacts of snow-making on vegetation and soil (Rixen et al 2003; Rixen et al
2008; Roux-Fouillet et al in press). While several studies have addressed ecological aspects (for
an overview see Pröbstl 2006), published results of energy and water issues are rare. Furthermore,
technical concerns arise about the snow-making potential in a warmer climate because higher
temperatures will not only reduce the natural snow cover but also the ability to produce snow
technically (Steiger and Mayer 2008; Steiger 2010).
Our study aimed at analyzing the following aspects of winter climate change and snowmaking: resource consumption (water, energy), and snow reliability linked to the ability of snowmaking in a future climate (see details in Teich et al 2007).
We addressed the following research questions: 1) How much energy and water is required
for the production of snow and how does it relate to the regional and the resource consumption of
other activities in tourism? 2) How may the snow reliability change, and will snow-making be
possible under the predicted temperature increase?
The results of this study contribute to the discussion of pros and cons of artificial snow and
its different impacts. The findings improve the knowledge base of decision-making in planning and
implementing of snowing facilities worldwide.
METHODS
Study sites
Our investigations were carried out in the three Swiss tourism destinations of Davos (9° 50’
E, 46° 48’ N, Fig. 1), Scuol (10° 18’ E, 46° 48’ N) and Braunwald (8° 59’ E, 46° 56’ N). These
regions represent different types of destinations and different climates in the Alps and may
therefore be representative for other tourist destinations.
Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use
39
Davos is one of the largest communities of
2
Switzerland (284 km , c. 12’500 inhabitants) and the
highest town of Europe. The mean annual temperature is
2.8°C and the mean annual precipitation 1175 mm. Fi ve ski
resorts range between 1560 and 2844 m a.s.l., the largest
being Parsenn/Gotschna and Jakobshorn. Davos is also
renowned for its congress infrastructure.
2
The municipality of Scuol covers 144 km (2’400
inhabitants), and its ski resort Motta Naluns ranges from
1250 to 2785 m a.s.l.
Scuol is popular among tourists because of its
relatively dry climate (750 mm annual precipitation, 6°C
mean annual temperature) and a spa. Braunwald is a small
2
municipality of 10 km (c. 350 inhabitants). Its ski resort
ranges from 1250 to 1904 m a.s.l., and the precipitation
amounts 2000 mm (mean annual temperature 5°C). The
destination is popular among tourists because of its vicinity
to the town Zurich and because it is car-free and family
friendly.
Fig. 1. Ski piste with artificial snow in
Davos where snow melts more than two
weeks later than adjacent to the piste.
Resource consumption in snow-making
We compared the energy and water consumption in snow-making based on what could be
expected from literature with what was actually used in the ski areas. According to reference values
from the literature (SLF 2006; Steiger and Mayer 2008), the energy required for the production of 1
3
m of snow ranges between 1.5 and 9 kWh (or between 5’000 and 27’000 kWh for 1 ha with 30 cm
3
of artificial snow). The water consumption for the production of 1 m of snow ranges between 200
and 500 liters (or between 600’000 and 1’500’000 liters for 1 ha with 30 cm of artificial snow).
These literature values were multiplied with the area with snow production per ski area, to calculate
the expected range of resource consumption.
Detailed information about the actual water and energy consumption for snow-making in the
investigated ski areas in the winter season 2006/2007 was gathered from local experts from
mountain railway companies and environmental agencies of the communities. These data were
then compared with other tourist activities in the communities in 2006. In Davos, energy balances
of the entire municipality were available from a detailed carbon footprint analysis (Walz et al 2008).
Snow cover, snow-making and climate change
Our calculations of snow days and snow-making days in the current and a future climate
were based on data from a total of 17 snow and climate stations of MeteoSwiss and the SLF
(Rhyner et al 2002) in or close to the respective communities. A snow day SD is characterized by a
minimum snow depth of ≥ 30 cm required for alpine winter sports (Elsasser and Messerli 2001); a
possible snow-making day DPB is defined by a dew point temperature ≤ -4°C (Schneider and
Schönbein 2006). Daily mean values of air temperature (T), relative humidity (RH) and snow depth
(HS) were used from 01 November to 15 April in the years 1982 through 2006 as the reference
period. Scenarios of the future winter climate were taken from the latest reports for Switzerland
(OcCC-Consortium 2007), which predict the following median temperature increases: +1°C by
2030 (95% probability: min. +0.4°C, max. +1.8°C); + 1.8°C by 2050 (min. +0.9; max. +3.4°C).
The number of snow days SD between 01 November and 15 April for different altitudes
within the communities was calculated with
(1)
SDi = βi1 h + βi2
40
Christian Rixen
where h is the elevation of a climate station in a municipality i, and βi1 and βi2 are regression
coefficients. The respective regressions for the investigated ski areas were: Davos SD = 0.050 h +
23.99; Scuol: SD = 0.092 h – 71.56; Braunwald: SD = 0.137 h – 71.26.
The sensitivity of snow days to temperature changes was calculated with
(2)
SDi = βi3 Tseason + βi4
where Tseason is the mean air temperature between 1 Nov and 15 Apr, and βi3 and βi4 are
regression coefficients (regressions: Davos SD = 8.44 Tseason + 97.23; Scuol SD = 8.33 Tseason
+ 36.58; Braunwald NA because of gaps in snow depth data).
Based on formulas (1) and (2), we calculated the expected number of snow days in a
warmer climate with
(3)
SDi = βi1 h + βi2 βi3 * ∆T
where ∆T is the expected change in temperature (regressions: Davos SD = 0.050 h + 23.99
– 8.44 ∆T; Scuol SD = 0.092 h – 72.56 – 8.33 ∆T).
The number of possible snow-making days (DPB) between 01 November and 15 April was
counted for every climate station and regressed for each municipality according to the formula
(4)
DPB = βi h + βi.
The respective regressions for the ski areas were: Davos DPB = 0.0532 h – 18.156; Scuol
DPB = 0.0441 h + 12.248; Braunwald DPB = 0.0388 h + 1.8809.
For the scenarios 2030 and 2050, the number of days with dew point temperatures ≤ -4°C
was re-calculated based on the predicted temperatures. DPB was then calculated for a given
elevation after formula (4).
The calculations above are based on past climate data from few climate stations and can
only be seen as a first innovative approach to estimate future changes in snow cover and snowmaking conditions. The calculations are based on the underlying assumptions that (1) variation in
snow depth is largely driven by temperature and can usually not be explained by precipitation alone
(Scherrer et al 2004), (2) climate warming will be similar across at different elevations, and (3) the
relative humidity will be unchanged in a warmer climate (Schneider and Schönbein 2006).
RESULTS AND DISCUSSION
Resource consumption in snow-making and other ecological aspects
The annual energy consumption for snow-making in our study areas ranged between c.
14’000 kWh in Braunwald (on 4.3 ha), c. 1 Mio. kWh in Scuol (on 144 ha) and 1.7 Mio. kWh in
Davos (on 150 ha in the Parsenn ski area, Table 1). These numbers demonstrate the large
differences in energy consumption between a small ski area with only 25 km of ski pistes and
snow-making facilities for less than 5% of the pistes (Braunwald) and large ski areas with more
than 80 km of pistes and snow-making facilities for 20-30% of the pistes (Scuol and Davos). Also
the required energy per m² of ski slope equipped with snowmaking (kWh) differed considerably
-2
-2
between ski areas with c. 0.33 kWh m in Braunwald and 1.13 kWh m in Davos (Table 1). These
differences could be explained either by climatic differences (more precipitation in Braunwald) or by
generally higher snow production in the areas with a more developed and intense ski industry
(Scuol and Davos). The expected energy consumption for the ski areas showed a wide range
because of the range in the literature values (SLF 2006; Steiger and Mayer 2008) that we used for
the calculations (Table 1).
Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use
41
Table 1. Size of ski area and area with snow-making facilities, expected (based on literature values) and
actual energy and water consumption in three studied ski resorts.
Interestingly, the actual energy consumption was in the lower range of what could have been
expected based on literature values: the actual energy consumption in Braunwald amounted <
26’000 kWh compared with up to 116’000 kWh expected energy consumption and 1.7 Mio. kWh vs.
up to 4 Mio kWh in Parsenn ski area in Davos. The lower than expected energy use may have
been due to recent advances in more energy-efficient snow-making technology (Fauve and Rhyner
2004). Nevertheless, it has to be considered that all of the investigated communities are located at
relatively high elevation with good conditions for snow-making. Other ski areas at lower elevation
may consume much more energy for snow production because of higher temperatures or less
natural precipitation.
3
The water consumption amounted approximately 300’000 m water in Parsenn, Davos (~ 0.2
3
m required water per m² of ski slope equipped with snowmaking) and 200’000 m in Motta Naluns,
3
Scuol (~ 0.14 m required water per m² of ski slope equipped with snowmaking; Table 1). The
water consumption, other than the energy consumption, ranged rather higher than expected based
3
on the literature: in Davos, a maximum water use of 225’000 m was expected, which was
3
exceeded by the actual water use, and in Scuol, a maximum of 216’000 m was expected, which
was nearly reached by the actual water consumption (Table 1). The higher than expected water
consumption through snow-making may be explained with the relatively constant annual water
consumption. I.e. in late fall and early winter, the weather of the upcoming winter is not known, and
therefore, snow production in early winter is usually always high just to be safe (CIPRA 2004).
Hence, the snow production is not much less even in years with high natural snowfall and cold
temperatures.
3
In Davos, snow-making (only considering electric power) represented approximately 0.6% of
the entire energy consumption in the municipality. The entire energy consumption of the mountain
railways (only electric power) comprised 2.4% that of the municipality. Housing in the municipality
of Davos (incl. oil and gas for heating and housing), on the other hand, required 32.5% of the entire
energy budget (Walz et al 2008). The spa of Davos (heated with oil) consumed 0.7% of the
municipality’s energy. These comparisons show that measures such as improving insulation of
buildings would probably be the most efficient way to save energy in a high-elevation community
with a relatively cold climate. On the other hand, calculations from CIPRA (2004) showed that the
entire annual energy consumption for snow-making in the Alps may comprise up to 600 GWh,
which compares to the energy consumption of 130’000 households in Switzerland. Therefore, it is
crucial to improve also the energy-efficient technology of snow-making.
The water consumption for snow-making in Davos comprised 21.5% of the entire drinking
water consumption of the municipality; in Scuol it reached 36.2%. However, the water for snowmaking derived from independent sources (e.g. lakes) and therefore no conflict has originated so
far from snow production competing with needs for drinking water (incl. agriculture). However, care
must be taken that sufficient residual amounts of water remain in rivers because their water content
in winter is already low (CIPRA 2004). Water reservoirs in the ski area, which are filled during
summer, can help mitigating such water shortages (Pröbstl 2006).
Another much discussed ecological issue of skiing and snow-making is the potential
negative effect on vegetation and soil. It has been shown that skiing in general can exert
42
Christian Rixen
disturbances to the vegetation because of the changed snow conditions (Wipf et al 2005) and that
intact vegetation and plant biodiversity provide stabile soils and reduce surface erosion (Pohl et al
2009; Martin et al 2010). The compaction of the snow can induce hard soil frost, alter soil
processes and mechanically damage plants (Keller et al 2004; Rixen et al 2004; Rixen et al 2008).
The most dramatic disturbance on ski pistes especially at elevations around and above treeline,
however, is the machine-grading in summer to create smooth surfaces (Wipf et al 2005; Burt and
Rice 2009; Roux-Fouillet et al in press). The production of artificial snow actually has the potential
to change vegetation through an input of water and ions and through postponing the time of meltout (Wipf et al 2005).
Snow cover, snow-making and climate change
In order to consider alpine winter sport economically viable for a ski resort by providing a
reliable snow cover, snow depth needs to exceed 30 cm at least at on 100 days within the time
period from 1 December through 15 April (Abegg 1996). Our analysis of the number of potential
snow days showed that even today the snow cover is not reliable anymore at the lowest elevation
(approx. 1’200 m a.s.l.) of some ski resorts (Fig. 2a): Scuol had only on average 43 potential snow
days at 1250 m a.s.l. and Davos-Klosters (valley station of the Parsenn ski region) had 83 potential
snow days at 1179 m a.s.l. in the present climate. Jakobshorn, Davos, and Braunwald were just
above the limit with 101 potential snow days (Fig. 2a). At mid and high elevation, on the other
hand, all ski areas had sufficient snow in the present climate of at least 114 potential snow days
(mid elevation Scuol) and up to 190 snow days at high elevation in Braunwald. The number of
snow days was highest at all elevations in Braunwald for climatic reasons (less continental climate
with more precipitation as snow despite warmer temperatures).
By 2030 the number of snow days was predicted to further decrease by 5 to 10 days, and in
2050 by 10 to 20 days. In all ski areas for which our calculations could be carried out, the number
of potential snow days dropped to below the critical number of 100 at low elevation by the year
2030. By 2050 the number of snow days at low elevation may drop to 86 days in Jakobshorn,
Davos, 68 days in Parsenn/Gotschna, Davos, and 28 days in Scuol. At mid and high elevations, on
the other hand, the number of snow days will largely remain at or above 100 even by the year
2050: Scuol may drop to 99 snow days at mid elevation but will probably have c. 170 snow days at
high elevation by 2050.
The number of snow-making days at low elevations was considerably lower than at high
elevations in all ski resorts (Fig. 2b). The snow-making potential was much lower in Braunwald than
in the other areas, especially Scuol, because warmer temperatures limit the potential for snowmaking in Braunwald. According to our predictions for 2050, the number of snow-making days may
drop by 50% at low elevation in Parsenn (Davos).
The number of snow-making days early in the season, when artificial snow is mostly needed,
may decrease to a critical limit in the coming decades: snow-making days at low elevation in Scuol
amount c. six days in November today but may drop to four by 2050.
In December the number may drop from c. sixteen to c. eleven. At the current state of
technology, approximately ten snow-making days are required to provide a sufficient base layer of
snow for the preparation of a ski run and skiing (Pröbstl 2006). Depending on the snow-making
technology of a given ski area, the required number of snow-making days may be higher than ten
days (up to 40 days) or even lower (e.g. five days). With advancing technology, it is fair to assume
that snow-making will become more efficient in the future. Nevertheless, our results have shown
that the number of snow-making days may become critical early in the season in some areas at low
elevation but not at high elevation.
Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use
43
a)
b)
Fig. 2. Number of snow days (a) and number of potential snow-making days (b) today and according to the
scenarios for 2030 and 2050 (median, minimum and maximum values). Locations are the valley (L), mid (M)
and high (H) elevation of the ski resorts Parsenn and Jakobshorn in Davos, Motta Naluns in Scuol and
Braunwald. The dashed line at 100 snow days indicates the critical threshold according to the 100-day-rule
(Abegg, 1996), above which winter sport tourism in ski resorts is considered economically viable.
All of the investigated ski areas had sufficient and reliable snow cover for winter sports at
mid and high elevations but not at low elevations (<100 snow days; Abegg 1996). In a warmer
climate, almost none of the ski areas will have reliable snow conditions at low elevations, but high
elevations would not be much affected. Other reports confirm that many ski areas may be
threatened in a warmer climate. According to OECD (2007), countries with a large proportion of low
elevation ski areas will be at the highest risk of losing reliable snow conditions: Germany, e.g.,
44
Christian Rixen
could face a 60% decrease in naturally snow-reliable ski areas under a warming scenario of just
1°C. Switzerland with a high proportion of high ele vation ski resorts would suffer the least of ski
nations in the Alps with a decrease of only c. 10% snow-reliable ski areas under that scenario
(OECD 2007).
Most studies have not included the snow-making potential in their predictions of snow
reliability (but see Steiger and Mayer 2008; Steiger 2010). Our calculations showed that
temperatures in the investigated communities were sufficiently cold to provide enough base snow
even at low elevations. In a warmer climate, snow production in general would still be possible, but
the snow-making potential would be considerably reduced at low elevations and only be possible at
high operation costs (i.e. below 1500 m; Steiger and Mayer 2008). However, microclimatic
conditions need to be carefully considered when snow days or snow-making days are estimated.
Elevation limits can only serve as guidelines for snow conditions, and snow-making may be
possible at lower elevations on shady slopes with a cold microclimate (Pröbstl 2006).
CONCLUSIONS AND IMPLICATIONS
Resource consumption and availability as well as snow cover and snow-making potential are
key issues when investing in snow-making facilities. Our study showed that the energy
consumption in the ski resorts was in the lower range of what could be expected from literature
values, and that the energy consumption was also moderate compared with other tourism-related
activities. Water consumption, on the other hand, was in the higher range on what was expected
from literature values, and was also high compared with other water uses (e.g. 36% compared with
drinking water consumption in one community). Natural snow cover was partly critical for winter
sports at low elevations around 1200 m a.s.l. but uncritical at higher elevations above c. 2000 m
a.s.l. Snow cover will become even more critical in a warmer climate but will probably still be
sufficient above c. 2000 m a.s.l. until 2050. Snow-making may become critical at lower elevations
in the early months in the season (November and December) due to warmer temperatures that can
be expected in the coming decades.
Our study provides straightforward and feasible approaches to assess resource consumption
and snow cover that could and should be applied in other winter sport destinations of the Alps and
other mountain ranges in the world. Careful consideration of resource consumption and snow cover
can foster technical and economical advances as well as sustainable development in mountains
regions. We propose that before constructions of new ski pistes and installations of snow-making
facilities, all stakeholders considered (i.e. mountain railway companies, communities, tourism
organizations and nature conservation agencies) collaborate as early as possible in the planning
process to optimize sustainable development and to minimize technical failures and ecological
impacts. Modern and efficient snow-making technology should be applied to reduce energy and
water consumption. Resource consumption and climatic conditions for snow-making could be
estimated easily similar to the approach presented in this study. Potential ecological impacts
should also be carefully considered.
Finally, but not least, each tourist destination should determine its regional strength. Based
on the importance of ski tourism for the regional economy in Davos (Pütz et al 2011, this volume),
resource consumption of ski tourism was not higher than several other activities. The reliable snow
cover was thus a regional strength in Davos (probably also in Scuol), and it probably reasonable to
support this regional strength by artificial snow making in the next decades. Braunwald has clearly
other regional strengths, and it seems adequate to concentrate on its other strengths. Given the
increasing economic competition and the changing climate, it will be crucial to use the specific
regional strengths to provide high-quality winter and summer tourism activities.
Snow production at high-altitude destinations like Davos and Scuol represents a valuable
adaptation strategy to enhance winter tourism. Climatic and socioeconomic conditions can differ
considerably between regions, as our study demonstrates (Pütz et al 2011, this volume), and
investment in snow-making may not be the appropriate and timely measure in all tourist
destinations.
Winter tourism and climate change: impacts on alpine vegetation and resource use
45
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
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SKIING AND ALPINE VEGETATION
CHRISTIAN RIXEN
WSL DAVOS (CH)
ABSTRACT: Impacts of skiing on alpine and subalpine vegetation are expressed by multiple disturbances:
snow is being compacted by skiers and heavy machinery, new ski pistes are constructed by means of
machine-grading and, increasingly, artificial snow is being produced by snow-making facilities.
This review compiles studies on ski piste vegetation from more than three centuries and skiing
destinations across the world and distinguishes between different types of disturbances and elevations. Skiing
in general can exert disturbances to the vegetation because of the changed snow conditions. The compaction
of the snow can induce hard soil frost and mechanically damage plants. Machine-grading in summer to create
smooth surfaces represents the most drastic disturbance on ski pistes especially at elevations around and
above treeline. Artificial snow production has the potential to change vegetation through an input of water and
ions and through postponing the time of melt-out.
Restoration measures to re-establish local vegetation after machine-grading have improved considerably
in the last decades, however, still the vegetation and soil rarely fully recovers after major disturbance. If
constructions are unavoidable, it is vitally important that restoration measures follow restoration guidelines that
represent today’s state of the art.
50
Christian Rixen
INTRODUCTION
Winter tourism has become a major economic factor in many mountain regions of the world
(Abegg et al. 1997, Elsasser and Messerli 2001), and especially downhill skiing represents the
economically most important activity in resorts for winter sports. However, downhill ski areas can
have dramatic effects on vegetation and, as a result, the esthetics of the landscape. Numerous
studies have looked intensively into skiing effects on vegetation for more than three decades (e.g.
Bayfield 1974, Cernusca 1977, Bayfield and Barrow 1985, Mosimann 1985). A large number of
studies originates from the European Alps (Mosimann 1985, Urbanska and Schütz 1986, Rixen
2002, Wipf et al. 2005) and North America (Price 1985, Titus and Tsuyuzaki 1999, Van Ommeren
2001, Burt and Rice 2009), but basically studies are available from most regions worldwide with a
skiing industry, e.g. from Scotland (Bayfield 1980, Bayfield et al. 1984, Bayfield 1996) and
Scandinavia (Ruth-Balaganskaya and Myllynen-Malinen 2000, Kangas et al. 2009), Japan
(Tsuyuzaki 1990, 2005), New Zealand (Wardle and Fahey 1999) or Argentina (Puntieri 1991).
The effects of downhill skiing and construction of ski pistes are probably that dramatic
because alpine ecosystems are highly susceptible to damage. Alpine plants are slow-growing, and
alpine soils have slowly developed over many decades or centuries due to low temperatures and a
short growing season (Körner 2003). Any perturbations and disturbances in alpine habitats are
likely to cause damages in soil and vegetation that are visible for a long time.
Changing the snow cover by grooming and skiing is another likely reason for changes in
vegetation. Snow is the predominating environmental factor in alpine ecosystems, and the
vegetation period between snowmelt and fall amounts only a few weeks in some alpine
depressions (Jones et al. 2001). Most plant species are highly adapted to specific snow conditions:
some species grow exclusively on windy ridges with very little snow during the winter but extreme
temperature fluctuations, others, the so-called snowbed species, are adapted to deep snow cover
and a very late melt-out in spring and summer (Ellenberg 1988, Körner 2003). Mapping the timing
of melt-out and alpine plant communities can therefore show almost identical patterns (Friedel
1961). Changing snow properties by compacting snow on ski pistes and potentially changing the
timing of melt-out is therefore a likely cause for vegetation changes.
Skiing intensity has increased considerably in the last decades. Modern transportation
facilities enable a growing number of skiers to visit ski areas. Consequently, snow preparation
techniques have to meet the growing demands of skiers. Modern skiing styles like carving require
wider ski pistes that result in ever more piste constructions. Less natural snowfall due to warmer
temperatures and, in some areas even more importantly, an increasing demand of skiers for
perfect growing conditions early in the winter season are met with installations of snow-making
facilities (Mosimann 1998). The search for reliable snow conditions results in the construction of
new ski pistes at higher elevations than before, in areas that are knowingly highly susceptible to
disturbance. Hence, despite decades of research into effects of skiing and piste construction, the
need to find solutions to minimize negative impacts of skiing on the environment is more pressing
than ever.
In this chapter, I review a plethora of studies to illustrate how downhill skiing, snow
preparation and ski piste construction affect vegetation. To better demonstrate mechanisms how
plants are affected, I will differentiate different factors, namely the 1) snow compaction and skiing,
2) the construction and machine-grading of pistes and 3) technical snow production. Finally, I will
briefly discuss restoration measures and solutions that can help minimizing negative effects of ski
management practices in ski areas.
SNOW COMPACTION BY SNOW-GROOMING VEHICLES AND SKIERS
The compaction of snow on ski pistes leads to decreased insulation of the ground below the
snow. Usually, in snow-dominated climates a snow cover more approx. 70 cm deep insulates
sufficiently to decouple temperature fluctuations above the snow from the ground below the snow
(Haeberli 1973). As a result, temperatures at the snow-ground interface (Bottom Temperatures of
the Snow cover, BTS) remain constant during the winter at precisely 0°C. In permafrost areas, the
ground temperatures go down to approx. -2 to -3°C ( Haeberli 1973). The insulation properties of
compacted snow on ski pistes however are only about half that of uncompacted snow (Geiger
Skiing and alpine vegetation
51
1961), which can lead to considerable fluctuations of ground temperatures that can drop to -15°C
(Rixen et al. 2004b).
Freezing of the ground can have profound ecological consequences either directly by
affecting plants or indirectly by changing soil processes (Groffman et al. 2001, Monson et al. 2006).
The clover Trifolium repens, for instance, was found to suffer directly from frost damage on ski
pistes (Newesely 1997). Damage of fine roots can be caused by movement of soil aggregates due
to freeze-thaw cycles (Tierney et al. 2001). Soil freezing also influences the microbial activity,
which can alter nutrient dynamics and, subsequently, can also affect plant growth (Rixen et al.
2008a). Compaction of the snow by grooming can also cause ice layers in the snow cover
(Newesely 1997). Such ice layers hinder the gas exchange through the snow cover leading to
oxygen depletion below the ice layer due to respiration of microbes. This oxygen depletion could
make plants even more susceptible to frost or pathogen damage (Newesely et al. 1994).
The soil freezing leads to a delayed development of plants (phenology) in spring after meltout even if the actual melt-out is not delayed (Fig. 1). The adverse winter conditions can damage
plant to the extent that the delay in development is still visible in summer – several weeks after
melt-out (Rixen et al. 2008a). This example illustrates how winter conditions can have long-lasting
effects during the growth period, even if summer conditions are actually unchanged.
Fig. 1. Cross-country ski track during winter, spring and early summer in Davos. Although the melt-out
on the ski track is not only marginally postponed, the phenology of flowering and fruit production of the
dandelion (Taraxacum officinale agg.) is still visibly delayed in June (Photo: Priska Hiller).
The plant phenology responds immediately (i.e. the same year) to altered snow conditions.
However, also the plant species composition changes a few years after snow pack properties have
been changed. In experiments where snow was added to plots, species from higher elevation had
increased after five years (Knight et al. 1979, for an extensive list of snow manipulation
experiments, see Wipf and Rixen in press). On ski pistes, two ecological plant groups can be
affected. First, species that are characteristic for windy ridges became more frequent on ski pistes
than on ambient plots (e.g. Elyna myosuroides and Loiseleuria procumbens, Wipf et al. 2002). This
was probably because the winter conditions with soil freezing on ski pistes resembled those on
ridges where the low insulation of the thin snow cover also causes soil freezing. Second, earlyflowering species were reduced on ski pistes in comparison to control plots next to pistes (Wipf et
al. 2005, Roux-Fouillet et al. in prep.). The early-flowering species probably had a disadvantage in
52
Christian Rixen
development compared to late-flowering species because of the harsh winter and spring
conditions. Alpine early-flowering species often start to grow and even flower while they are still
covered in snow. Solar radiation can be recognized by the plant’s photo-sensitive physiological
systems through a snow cover that is still more than 30 cm deep (Starr and Oberbauer 2003), and
plant growth can start in anticipation of the soon snow-free conditions. That way, some plant
species flower on the day or a day after melt-out (e.g. Crocus albiflorus), or their flowers even
penetrate the still existing snow cover (e.g. Soldanella pusilla, Fig. 2). If, however, this subnivean
(under snow) development is hampered by hard frosts and subsequent damage on ski pistes, the
temporal niche of the early-flowering species may be reduced in comparison to late-flowering
species, which do not experience much change in growing conditions.
Fig. 2. The early-flowering snowbed species Soldanella pusilla can sense solar radiation penetrating
the snow cover and starts growing and even flowering under the snow.
Mechanical damage by skiers and snow-grooming vehicles represents an obvious
disturbance to plants on ski pistes. Especially when the protecting snow cover is thin, like early in
the winter season, vegetation and soil are threatened by snow-grooming machinery and the sharp
metal edges of skis. Most sensitive are woody plant species that have sensitive tissue above
ground in winter. Those branches contain flowering and vegetative buds, and breakage of
branches is a considerable loss to the plant. Woody species were indeed much less frequent on ski
pistes than on ambient plots (Wipf et al. 2005, Pohl et al. 2009). Winter buds of other plant species,
such as hemicryptophytes, are located directly at the ground surface and are therefore much less
in danger of damage.
The sum of impacts on ski pistes often (but not always) resulted in a decrease in aboveground annual productivity, in plant diversity (as expressed in species numbers) and vegetation
cover (Wipf et al. 2005, Pohl et al. 2009). In some ecosystems, especially productive ones,
disturbances can also increase diversity when dominant species are suppressed (Connell 1979,
Vujnovic et al. 2002). However, in alpine habitats, productivity and dominance are already low due
to abiotic stress. Hence, additional disturbance on ski pistes in the alpine zone apparently only
further decreases plant diversity (Kammer and Möhl 2002).
MACHINE-GRADING
Machine-grading during summer exerts the most drastic disturbance on ski pistes (Fig. 2)
(e.g. Kangas et al. 2009). Soil and vegetation are usually removed by heavy machinery to create a
smooth ground surface. The smooth ground facilitates snow-grooming early in the winter season
Skiing and alpine vegetation
53
when the snow cover is still thin. Restoration measures after machine-grading are not always
successful or not applied at all (Bayfield et al. 1984, Urbanska 1995, Titus and Tsuyuzaki 1999,
Fattorini 2001, see also 'High-altitude restoration' below). As a result, plant productivity, diversity
and vegetation cover are considerably decreased and the proportion of bare ground increased
(Rixen et al. 2004a, Wipf et al. 2005, Barni et al. 2007, Delgado et al. 2007, Burt and Rice 2009)
(see also chapter X by Michele Freppaz). The proportion of bare ground was five times higher on
graded that on ungraded ski pistes (Wipf et al. 2005). Unvegetated ground makes the soil
particularly vulnerable to surface run-off and erosion (Mosimann 1985, Löhmannsröben and
Cernusca 1990, Florineth 1994). Plant species that suffer most the intense disturbance are woody
species. Species that profit are those that require high light values and low competition (Wipf et al.
2005).
Fig. 3. A machine-graded ski piste is not easily re-colonized by plant species.
ARTIFICAL SNOW
The production of artificial snow represents yet another factor influencing vegetation on ski
pistes. While in the 1990s snow production was applied only locally to stabilize the snow cover on
very steep sections of ski pistes, nowadays the majority of ski pistes is covered by artificial snow in
many countries (Pröbstl 2006). The effects of artificial snow are not only negative: the additional
amount of snow can actually help to protect vegetation and soil to some extent from mechanical
damage from snow-grooming vehicles and skiers (Wipf et al. 2005). Furthermore, the extreme
temperatures that can lead to the freezing of the ground under the compacted snow on ski pistes
can be attenuated by the additional artificial snow. Although artificial snow is even denser than
compacted natural snow, the deeper snow cover of artificial plus natural snow insulates the ground
better than only compacted natural snow (Rixen et al. 2004b). However, the large amounts of snow
on pistes with snow production require a much longer time to melt than just the natural snow: the
delay in melt-out amounts on average two to three weeks (Fig. 3), but in some cases up to four
weeks (Rixen et al. 2004b). The delay in melt-out also causes a delay in plant development that
can not always be made up for by the vegetation and results in a change in species composition
54
Christian Rixen
(e.g. an increase in snowbed species, see Fig. 4) (Wipf et al. 2005). The application of artificial
snow also exerts an additional input of melt-water during spring and summer. Furthermore, the
water quality of artificial snow differs from that of natural snow: the input of ions was approximately
8fold higher on artificially snowed pistes (Rixen et al. 2003). The input of water and ions has the
potential to alter vegetation, which can benefit species that require moist and base-rich conditions
but suppress species from dry and acidic and/or nutrient poor habitats (Kammer and Hegg 1990,
Kammer 2002). However, the comparison between ski pistes with and without artificial snow shows
that despite some differences in vegetation, on both piste types the disturbance is considerable
and leads to a reduction in species diversity and productivity (Wipf et al. 2005).
Fig. 4. Artifical snow postpones the melt-out in spring and early summer by a mean of two to three
weeks.
HIGH-ALTITUDE RESTORATION
Most studies on ski pistes investigated the restoration success on machine-graded pistes
(see also chapter X by Bernhard Krautzer). In the alpine zone, many European studies found
extremely slow succession after machine-grading when no additional restoration measures, e.g. by
seeding, were taken (Mosimann 1985, Bayfield 1996, Urbanska 1997, Urbanska and Fattorini
1998, Fattorini 2001, Gros et al. 2004, Wipf et al. 2005, Barni et al. 2007, Delgado et al. 2007).
But also below treeline, machine-grading changed the soil and vegetation structure to such
extent that natural recovery of the systems did not occur without additional restoration measures
(Ruth-Balaganskaya and Myllynen-Malinen 2000). On ski pistes below treeline, it makes a
considerable difference if they were created by just clearing the forest (cutting and removing tall
vegetation) or by clearing and machine-grading (Burt and Rice 2009): cleared pistes retained many
ecological similarities to adjacent undisturbed forest, whereas machine-graded pistes showed
considerable damage in multiple vegetation and soil parameters.
Mosimann (1985) concluded from the analysis of more than 200 sites the following about
restoration success in the Central Alps (treeline at approx. 2000 m asl): 1) Re-establishment hardly
ever occurred at elevations above approx. 2200 m asl even when re-seeding was applied. Plants
rarely colonized the pistes (see alsoDelarze 1994). 2) Between approx. 1600 and 2200 m asl, the
local microclimate largely determined re-vegetation, resulting in large variation in restoration
success. 3) Below approx. 1600 m asl, restoration with both natural and seeded plant species was
usually rapid and successful apart from areas with poorly drained soils.
Nevertheless, restoration ecology made progress in the years after the study of Mosimann
(1985), and a few re-vegetation measures were successful even at approx. 2500 m asl in the
Central Alps: Urbanska (1997) found that safety island could increase the restoration success after
machine-grading considerably. Such safely island consisted of turfs of natural local vegetation and
provided both seeds that were necessary to re-colonize the graded area and sites where seeds
could germinate and establish (see also Van Ommeren 2001, Isselin-Nondedeu et al. 2006). Also
some sites in Scotland showed success with restoration measures at that time. Machine-graded
and re-seeded pistes at approx. 1000 m asl (treeline at approx. 650 m asl) blended well in with the
Skiing and alpine vegetation
55
surrounding ground 25 years after construction (Bayfield 1996). Local vascular plant species had
gradually increased and exceeded the seeded grass species in cover. However, despite some
successful examples, machine-grading at high elevation exerts high risk of erosion and permanent
damage to ecosystem functions, and even successful restorations do rarely succeed in reestablishing the natural vegetation, but the vegetation of the ski pistes usually differs from adjacent
climax vegetation (Bayfield 1996, Isselin-Nondedeu and Bedecarrats 2009).
Recently, research has focused on the effects of biodiversity on ecosystem functions like soil
stability and surface erosion (Rixen et al. 2008b, Pohl et al. 2009, Martin et al. submitted, Pohl et
al. submitted). Investigations of soil aggregate stability on ski pistes showed that the number of
plant species was positively correlated with soil aggregate stability, and species number was a
better explanatory variable than any other variable related to soil or vegetation (Pohl et al. 2009).
Higher plant diversity was associated with a higher number of different root types. Another study
with rainfall simulation experiments showed that surface erosion was strongly driven by the percent
of vegetation cover, but at a vegetation cover of approx. 60%, an increase in plant diversity
significantly reduced surface erosion (Martin et al. submitted).These findings imply that the
restoration focus should include the re-establishment of a divers vegetation and not only on
creating a high percentage of vegetation cover.
IMPLICATIONS FOR MANAGEMENT
The review of the literature indicates that skiing impacts on vegetation vary greatly between
regions, elevations and, especially, the type of impact. Based on the findings of many studies, the
following recommendations regarding specific elevations and types of impact can be made.
Machine-grading has the most dramatic and negative effects on vegetation and soil and
should therefore be avoided or carried out with greatest care. Even below treeline, machinegrading can damage the soil structure almost irreparably and cause erosion. Only at elevations
several hundred meters below treeline (e.g. 1600 m asl in the Central Alps), re-establishment of
vegetation occurs rapidly and reliably.
When ski pistes are constructed in the forest zone, clearing of the vegetation (cutting of tall
vegetation) is preferable to machine-grading of the ground.
Restoration technology has made considerable progress in recent years, and specific revegetation measures are available that make use of local seeds and plants that are adapted to and
suited for high elevation. The available practical and detailed guidelines need to be followed in all
constructions at high elevation (e.g. installations of snow-making facilities, machine-grading etc.)
(Krautzer et al. 2006, Locher Oberholzer et al. 2008).
Regarding the increasing application of artificial snow, it can be concluded that not all
impacts are negative because some impacts of skiing in general (e.g. mechanical disturbance by
skiers and snow-grooming vehicles) are mitigated. Nevertheless, artificial snow can cause changes
in vegetation e.g. through an input of ions and water and altering the timing of melt-out that is
postponed by two to three weeks. In sensitive vegetation types such as nutrient-poor as fens and
low-nutrient meadows, the input of water and ions may exert the threat that endangered species
are suppressed by more competitive species.
In areas with very sensitive vegetation or high erosion risk, ski pistes with or without artificial
snow may have negative effects because plant diversity and productivity are often decreased on
both piste types. However, large alpine areas can be suitable for skiing, e.g. where land is already
utilized by man as fertilized meadow or pasture.
56
Christian Rixen
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
L'ECONOMIA AGRO-SILVO-PASTORALE DELLA MONTAGNA ALPINA
TRA CONSERVAZIONE DELLE RISORSE NATURALI ED ABBANDONO:
QUALI MODELLI DI SVILUPPO E QUALI OPPORTUNITÀ?
PAOLA GATTO, DAVIDE PETTENELLA, LAURA SECCO E DARIA MASO
UNIVERSITÀ DI PADOVA
60
Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso
INTRODUZIONE
Nel decennio scorso, segnato dal 2002 proclamato Anno Internazionale della Montagna,
numerosissime sono state le pubblicazioni che hanno affrontato il tema dello sviluppo socioeconomico della montagna, e delle Alpi in particolare. Significativi riferimenti bibliografici al
proposito sono i lavori curati da Nomisma (2003), Censis (2003), Raffaelli (2005), Longo e Viola
(2005), Massarutto (2008) e Borghi (2009).
Le analisi riportate nei lavori citati, compiute anche da diverse prospettive – delle scienze
sociali, economiche, e naturali – concordano nel sottolineare i profondi mutamenti intervenuti nelle
aree montane negli ultimi cinquant’anni, che ne hanno scardinato i modelli sociali tradizionali,
basati su un’economia locale quasi esclusivamente agro-silvo-pastorale e rimasti immutati per
secoli. Le stesse analisi concordano anche sulla necessità di individuare nuovi modelli di sviluppo
armonico e sostenibile per la montagna, mettendo in guardia su due possibili e opposti rischi:
l’adozione di modelli di sviluppo troppo intensivi, che possono pregiudicare la conservazione
delle risorse naturali, finora oculatamente custodito e gestito quale base stessa della
sopravvivenza: a questo primo punto ben si ricollega il tema del Corso: ‘Sviluppo socio-economico
delle Alpi: una minaccia per le risorse naturali?’
il pericolo del progressivo abbandono delle stesse risorse, legato alla scarsa redditività di
attività economiche troppo estensive, condotte in ambienti difficili, incapaci quindi di remunerare
adeguatamente gli operatori in uno scenario di competizione oramai globalizzato.
Nella ricerca del corretto modello di sviluppo, quello del rischio dell’abbandono è un’ulteriore
dimensione che questo intervento vuole considerare rispetto al tema centrale del corso, nel
presupposto che il valore attribuito dalla collettività alle risorse naturali della montagna, valore
inteso come risultato di un processo culturale che ha ricadute anche sul piano economico, sia
indissolubilmente legato ad una presenza umana, senza la quale si assisterebbe ad un suo
deterioramento. Nella consapevolezza dell’esistenza di queste due opposte dimensioni,
l’individuazione dei modelli e delle opportunità legate ad essi non può che basarsi su un
compromesso, o meglio, come dice Gios (2005), ‘sull’equilibrio, che, richiedendo un alto grado di
integrazione e sinergia tra le diverse attività umane, non può che essere basato su modelli di
sviluppo almeno parzialmente originali’ (p. 4).
MONTAGNA TRA ABBANDONO, CONSERVAZIONE E VALORE-VALORIZZAZIONE
Il percorso analitico passa, da un lato attraverso l’esame dell’evoluzione dell’uso dei suoli
compiuto da Merlo (2005) e confermato recentemente da Baldini (2009), che evidenza, in chiave
negativa, l’abbandono dell’agricoltura montana.
La Tabella 1 (Merlo, 2005) riporta l’evoluzione dell’uso dei suoli agricoli delle aree montane
del veneto nei settant’anni che vanno dal 1930 al 2000, da cui si rilevano notevoli cambiamenti: i
seminativi si riducono di più dell’80%, i prati e pascoli di quasi il 40%, la SAU nel suo complesso
quasi si dimezza.
Tabella 1 – Evoluzione della Superficie Agricola Utilizzata (SAU) nella montagna veneta (valori in
ettari) – dati Censimenti dell’Agricoltura
1930
1970
1982
1990
2000
Seminativi
36.970,00
8.599,29
6.350,97
5.507,04
6.063,75
Coltivazioni legnose
2.596,00
4.687,24
3.397,87
2.427,52
2.971,49
Prati e pascoli permanenti
Superficie Agricola
Utilizzata
149.034,00
125.777,02
116.025,45
96.722,52
92.705,91
105.432,79
101.935,14
191.110
139.063,55
126.590,89
Fonte: Merlo, 2005
Se i cambiamenti nella SAU colpiscono per la loro entità, ancora più significative appaiono le
cifre relativi al numero delle aziende agricole e delle relative dimensioni medie (Tabella 2), da cui si
osserva la diminuzione del numero di aziende, ad un ritmo assai maggiore di quello manifestato
dalla superficie aziendale.
L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono:
quali modelli di sviluppo e quali opportunità?
61
Tabella 2 – Evoluzione del numero delle aziende agricole, della loro superficie totale e dimensione
media nella montagna veneta (dati Censimenti dell’Agricoltura)
Numero Aziende
1930
59.540
1970
36.890
1982
30.979
1990
24.744
2000
17.437
Superficie totale (ha)
471.663
397.397,11
375.963,15
356.824,21
308.207,27
Superficie media
aziendale (ha)
7,92
10,77
12,13
14,42
17,67
Fonte: Merlo, 2005
La riduzione del numero delle aziende, significativa dell’abbandono del settore da parte degli
operatori, si accompagna ad un aumento della scala delle aziende sopravvissute, operanti su
ampiezze aziendali più consistenti, che non devono più affrontare problemi di ampliamento, dato
che terreni in comodato o in affitto verbale vengono facilmente reperiti (Merlo, 2005). Le aziende
sono più grandi ma estremamente frammentate, anche in diverse centinaia di particelle catastali,
con ovvie difficoltà di gestione e aumento dei costi (un fenomeno accentuatosi negli ultimi anni
come effetto perverso delle politiche di sviluppo rurale, con la corresponsione di premi ad ettaro e
la spinta all’estensivizzazione). Per contro, risulta invece quasi impossibile l’ingresso di nuove
aziende.
Infine, il dato che completa il quadro dell’abbandono è quello che riporta la variazione del
numero di capi bovini allevati (Tabella 3). Si osserva che, nella montagna veneta le aziende con
allevamento, che nel 1970 erano la metà delle aziende agricole, si sono ridotte soltanto al 15% nel
2000. Cresce invece ovunque l’ampiezza media dell’allevamento bovino che nel 1970 era di 5,8
capi mentre nel 2000 sale a 26,6 capi.
Tabella 3 – Evoluzione del numero di aziende con bovini e del numero di capi allevati nella montagna
veneta (dati Censimenti dell’Agricoltura)
1930
1961
27.764
17.161
8.894
5.315
2.698
Numero di capi allevati
118.762
106.702
99.811
101.646
85.952
71.858
di cui vacche da latte
64.675
58.399
70.985
42.605
43.085
33.530
Numero aziende con bovini
1970
1982
1990
2000
Fonte: Merlo, 2005
Le conclusioni di questa analisi sono così espresse da Merlo (2005):
‘l’evoluzione nel secolo scorso degli usi del suolo indica la crescente difficoltà, in pratica
impossibilità, dell’agricoltura montana a conservare sistemi di produzione e ordinamenti produttivi
tradizionali. Mantengono una certa vitalità solo aziende sufficientemente ampie, ed in grado di
organizzare e remunerare in maniera congrua il lavoro agricolo prestato ed i relativi capitali. Si è
registrato quindi una consistente diminuzione del capitale fondiario, dei capitali agrari e delle forze
lavoro impiegate in agricoltura. Tutto questo ha comportato un mutamento rapido e radicale nel
paesaggio, ma anche nell’ambiente e nei sistemi di regolazione delle acque, […] con l’insorgenza
di un problema di instabilità dell’attuale sistema agricolo montano e dei dissesti che questo può
portare all’ambiente ed al territorio in generale. Le analisi condotte al riguardo appaiono tuttavia
abbastanza controverse. Posto che gli usi del suolo esistenti nel passato non si possono ricreare,
salvo mantenere piccole isole per finalità storico culturali, appare fuor di dubbio che un qualche
nuovo equilibrio deve essere realizzato. Molti osservano che una ri-naturalizzazione del territorio è
già avvenuta nei fatti, seguendo le forze della natura e del mercato, indipendentemente dalle
politiche per la montagna, tutto sommato irrilevanti. Si rilevano nuovi ecosistemi forestali generatisi
sui coltivi – prati – pascoli abbandonati. Il problema è probabilmente quello di orientare questo
abbandono o ritrovata naturalità che dir si voglia verso obiettivi socialmente condivisi, evitando
forme di degrado – oggi definite di ‘non sostenibilità’.
Nella comune accettazione dell’evidenza della marginalità dell’agricoltura montana, ma per
ampliarne la prospettiva, si inseriscono i risultati di una recente indagine del Censis volta a
misurare il ‘Valore della Montagna’ (Censis, 2003; Baldi, 2009). Analizzando il valore aggiunto
62
Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso
creato dalle attività produttive in aree montane (quindi non solo le attività agricole), il Censis ha
modificato la visione negativa che emerge dalla sola analisi dei dati agricoli, evidenziando invece
come ‘montagna’ non sia necessariamente sinonimo di svantaggio competitivo, né configuri, di per
sé, un modello arretrato di sviluppo: secondo questa ricerca, infatti, la montagna contribuisce per il
18,7% alla formazione del Pil nazionale avendo il 16,1% della popolazione, quindi in modo solo
leggermente inferiore alla media dell’intero territorio nazionale. Ma c’è di più: aggiornamenti di
queste stime mostrano che, nel 2007, il Pil montano è cresciuto del 10,5%, contro il 6,5% della
media nazionale, evidenziando il carattere ‘anticiclico’ dell’economia montana (Baldi, 2009, p. 150).
Questi dati mostrano la montagna sotto una diversa luce, e sembrano indicare una capacità
generale di resilienza del suo sistema economico.
Quando però il ‘Valore della Montagna’ viene esaminato con maggiore dettaglio, lo studio
Censis rivela come il tessuto economico del territorio montano sia tutt’altro che omogeneo, ma
abbia invece uno sviluppo ‘a macchia di leopardo’, in cui aree deboli si alternano ad aree con
valore aggiunto elevato (Censis, 2003, p. 13). Così sono stati individuati 177 comuni (tra l’altro
prevalentemente localizzati lungo l’arco alpino) in cui la montagna – definita quindi ‘come risorsa’ –
contribuisce al 4,5% del Pil montano con meno del 3% della popolazione. All’estremo opposto
stanno i 1.343 comuni della ‘montagna marginale’, dove il valore aggiunto pro-capite è meno della
metà dei precedenti. Nella Figura 1 si riporta la situazione per la Regione Veneto.
Figura 1 – Il valore della montagna veneta secondo il Censis (2003)
Nel 2007 il Censis ha completato l’analisi del valore della montagna, riconoscendo 65
‘Territori Turistici di Eccellenza, in cui la montagna ha un peso numerico (in termini di comuni
compresi in detti territori) del 52% , con 24 territori composti unicamente da comuni montani.
La complessità del problema esaminato, e le sue molte sfaccettature, richiamano alla
necessità di individuare nuovi ruoli e nuove soluzioni per la montagna e le sue risorse. Modelli
capaci di introdurre nuove strategie produttive, di orientare le produzioni agro-silvo-pastorali verso
ambiti multifunzionali e sostenibili, integrati e condivisi. Da molti s’individua, come elemento
centrale di questi nuovi modelli, la qualità del prodotto in un significato ampio, cui concorrano
anche le caratteristiche materiali ed immateriali del sistema di produzione, in particolare l’identità e
la specificità che questo comunica (Fonte e Agostino, 2006, Caroli, 2006). Concetti ancora una
volta ben espressi dal Censis, per cui i connotati dell’eccellenza montana sono, tra gli altri (Baldi,
2009, p. 154):
L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono:
quali modelli di sviluppo e quali opportunità?
63
l’esistenza di una politica complessiva di manutenzione e tutela del paesaggio e di
valorizzazione dell’ambiente naturale (attenzione alla pianificazione territoriale, lotta all’abusivismo
e all’inquinamento, recupero e restauro del patrimonio storico)
la presenza di iniziative pubbliche e private tese a recuperare e valorizzare le produzioni
tipiche e la cultura locale proponendo un’offerta integrata di tutto il territorio e di uno specifico
brand
la diffusione di una cultura amministrativa e imprenditoriale consapevole dell’importanza di
una organizzazione dell’accoglienza di qualità’.
Vi è un’ulteriore ed importante ragione che spinge a riconvertire, nelle aree rurali più
marginali, gli attuali modelli produttivi, e sta nel fatto che questi ultimi non sembrano più in grado di
evitare lo spopolamento, l’abbandono e quindi il degrado ambientale in atto. Pur tuttavia, capitale
naturale e sociale delle aree rurali, proprio per la loro scarsa mobilità e soprattutto difficile
riproducibilità, possono costituire anche degli elementi di fragilità del sistema, ponendo limiti di cui i
nuovi modelli non potranno non tener conto.
LO STRUMENTO PES - PAGAMENTI PER I SERVIZI AMBIENTALI
Parallelamente alla diminuzione di redditività delle tradizionali attività agro-silvo-pastorali
della montagna, è andata invece sviluppandosi una crescente attenzione alla domanda di prodotti
e soprattutto di servizi ambientali di interesse pubblico che gli ecosistemi, soprattutto quelli ad alto
grado di naturalità quali quelli montani, sono in grado di fornire: protezione idrogeologica,
conservazione della biodiversità, fissazione di anidride carbonica, attività turistico-ricreative, ecc.
Ciò richiede da un lato una gestione sempre più orientata alla multifunzionalità, con il rischio peraltro
che emergano conflitti tra obiettivi di gestione diversi e diversi portatori di interesse (i cosiddetti
stakeholder) (Solberg & Miina 1997, Hellström 2001, Niemelä et al. 2005), e dall’altro la capacità di
trovare strumenti in grado non solo di valutare le esternalità (Marinelli, 1988; Merlo e Muraro, 1988;
Gios, 2008) ma anche di remunerarle.
L’economia ambientale mette a disposizione a questo scopo un insieme molto articolato di
strumenti (Cubbage et al., 2007), che negli ultimi anni si è arricchito di esperienze applicative a
diversa scala e in diverse aree geografiche, includendo sia strumenti di regolamentazione e
controllo (command and control) che strumenti di mercato. Se si pensa anche ad alcuni strumenti
indiretti importanti nel contesto italiano, come ad esempio la realizzazione di infrastrutture,
l’assistenza tecnica, la formazione degli operatori, lo sviluppo di forme associative ed altri ancora,
la ricchezza di mezzi di cui si dispone è davvero molto ampia. Tuttavia appare evidente come la
creazione di nuovi mercati, accompagnata da un ruolo pro-attivo della società civile nei processi
decisionali (attraverso strumenti di informazione e partecipazione), sia ormai ritenuta una delle
forme di intervento più innovative e promettenti nell’ambito delle politiche di sviluppo della
montagna. Tra gli altri, si parla oggi di Pagamenti per i Servizi Ambientali, o PES Payments for
Ecosystem Services, facendo riferimento ad una denominazione apparsa di recente nella
letteratura ambientale per indicare forme e modalità di trasformazione dei beni e servizi pubblici
della foresta in nuovi prodotti di mercato, nella logica della transazione diretta tra il consumatore e
il produttore. L’idea dei PES, che viene proposta con grande risalto in ambito internazionale in
campo sia agricolo che forestale (Sherr et al., 2004; Grieg-Gran et al., 2005), non è affatto nuova
nella politica forestale italiana. Ciò che è nuovo sono i diversi approfondimenti teorico-metodologici
e i numerosi casi di studio realizzati negli ultimi anni (vedi le rassegne di Pagiola et al., 2002;
Landell-Mills e Porras, 2002; Wunder et al., 2008), che, mettendo a disposizione nuovi elementi di
valutazione, permettono di guardare ai PES come ad uno strumento con notevoli potenzialità
operative per la remunerazione dei servizi delle nostre aree montane.
Secondo alcune definizioni riscontrate in letteratura, si può parlare di PES solo quando un
servizio prodotto da un ecosistema venga scambiato volontariamente in un mercato, ovvero
quando la transazione tra fornitore e fruitore del servizio stesso (i) è volontaria, (ii) riguarda un ben
preciso servizio ambientale (o una forma d’uso del suolo che ne garantisce la fornitura); (iii) il
servizio viene acquistato da (minimo) un consumatore e (iv) venduto da (minimo) un produttore, (v)
se e solamente se il produttore garantisce continuità nella fornitura (Wunder, 2005; Engel et al.,
2008). Fissazione di carbonio, regimazione delle acque nei bacini montani, biodiversità, le bellezze
paesaggistiche e ricreazione si possono considerare tutti servizi ambientali. A livello italiano esiste
un’ampia casistica di servizi ricreativo-ambientali (Mantau et al., 2001) in cui sono riscontrabili
quasi tutti gli elementi tipici di un PES (Gatto e Secco, 2009). Anzi, lo strumento PES appare
64
Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso
maggiormente consolidato proprio nel settore turistico-ricreativo, poichè vi predominano le
situazioni in cui escludibilità e rivalità sembrano più facili da attuare (rispetto ad esempio alle
difficoltà di commercializzazione – pratica ma anche etica – di un servizio come la ‘biodiversità’),
mentre il mercato (turistico) è più maturo. La conseguente maggiore prospettiva di remunerazione
catalizza le iniziative del settore privato, come appare nelle rassegne predisposte da Merlo et al.
(1999) e Maso (2009).
La struttura base di un progetto di implementazione di un PES prevede di attivare un
meccanismo finanziario, a volte indotto tramite un intervento pubblico di assegnazione dei diritti di
proprietà o un intervento regolativo, attraverso il quale da un lato si trasforma il servizio ambientale
in un vero e proprio prodotto, creandone il mercato, e dall’altro si riconosce il diritto al produttore di
chiedere il rispettivo prezzo al consumatore del bene. Premessa sostanziale di tale
implementazione è l’individuazione precisa del servizio, di chi lo produce, dei possibili utenti finali
e, aspetti alquanto delicati, la stima del valore del servizio e quindi del suo possibile prezzo di
mercato e la definizione delle modalità contrattuali e di pagamento.
ESEMPI DI BEST PRACTICES: OPPORTUNITÀ PER GLI IMPRENDITORI DELLA MONTAGNA
Le possibilità di valorizzazione a finalità economica delle funzioni turistiche, ricreative e
ambientali delle risorse naturali delle aree montane sono diverse. Molte sono attività già note e
ormai consolidate nell’esperienza forestale italiana: la produzione di legname ad uso industriale, di
biomasse legnose a fini energetici, di prodotti forestali non legnosi (si pensi alla vendita di permessi
per la raccolta funghi), così come l’organizzazione di attività ricreative informali e di attività di
educazione ambientale. Meno note, ma più interessanti per le potenzialità che sembrano
dimostrare nel creare opportunità di occupazione e reddito, sono invece alcune attività
decisamente innovative. Nel seguito, se ne fa una breve rassegna, che non intende essere
esaustiva ma solo fornire – a proprietari e gestori di un’area forestale montana, pubblici o privati
che siano - un quadro d’insieme su quante e diverse possano essere le soluzioni per differenziare
e integrare le proprie fonti di reddito, divenendo direttamente gestori di qualche iniziativa o
affittando il terreno agli interessati. Alcuni approfondimenti sono riservati alle iniziative che
potrebbero assumere un ruolo particolarmente rilevante in montagna (ai pensi alla vendita di
servizi ricreativi o di tutela delle risorse idriche).
Acqua e foreste
Sebbene le interazioni positive tra foresta, regimazione delle acque e diminuzione del rischio
idrogeologico siano state uno dei principi ispiratori della politica forestale italiana sin dalla sua
nascita (si pensi all’istituzione del vincolo idrogeologico con la Legge Serpieri del 1923), il ricorso a
strumenti strettamente considerabili come PES per la remunerazione del servizio idrogeologico dei
boschi è piuttosto recente. Una traccia dell’idea di PES si trova per la verità già nella Legge
959/1953 di istituzione dei Bacini Imbriferi Montani, in cui si prevedeva di far pagare ai
concessionari di derivazione delle risorse idriche montane un sovracanone da destinare ad opere
di sistemazione montana e di valorizzazione del territorio a compensazione dei disagi causati alle
popolazioni montane dalla presenza di opere di captazione. Tuttavia è solo con l’approvazione
della legge Galli sul ciclo integrato dell’acqua (L 36/1994) che l’idea di PES trova compimento nel
contesto italiano. All’Art. 24, infatti, la legge prevede che una quota della tariffa idrica possa venire
destinata ad interventi di salvaguardia delle aree nel bacino di captazione.
A tutt’oggi, la normativa ha visto il recepimento da parte della Regione Piemonte (art. 8
comma 4 della LR 13/97), della Regione Emilia Romagna (LR 25/99 e successive modifiche), e
recentemente della Regione Veneto (DGR 3483 del 30 dicembre 2010). Nell’ottica PES, il bene
oggetto di compravendita è il servizio di regimazione svolto dalle aree montane nei riguardi della
risorsa idrica – nella normativa si parla specificatamente di ‘favorimento della riproducibilità’ nel
tempo e ‘miglioramento del livello di qualità’. I beneficiari sono le Autorità d’Ambito Territoriale
Ottimale (AATO) e, per loro tramite, gli utenti finali della fornitura idrica; i fornitori vengono intesi
come gli abitanti delle aree montane in generale, per il tramite degli Enti locali (Provincie e
Comunità Montane). Per la Regione Piemonte, dove l’applicazione dello strumento è in fase più
avanzata, il meccanismo di pagamento prevede che una quota di tariffa variabile dal 3 all’8%
venga destinata alle attività di difesa e tutela del territorio montano e gestita dalle Comunità
Montane tramite un Piano Pluriennale di Manutenzione. Nel 2007 tali fondi hanno ammontato a
L'economia agro-silvo-pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono:
quali modelli di sviluppo e quali opportunità?
65
circa 18.500 euro ed hanno fatto fronte al 54% del costo dei previsti interventi di manutenzione e
sistemazioni idrogeologiche e idraulico-forestali del territorio montano (Regione Piemonte, dati non
pubblicati).
Un bilancio dell’esperienza italiana nell’ambito dell’applicazione dei PES al settore idrico
appare prematuro, e le iniziative delle due Regioni sono da considerarsi di fatto esperienze pilota.
Esperienze già avanzate in questo campo sono invece in atto in molti altri Paesi. Una delle
più note è l’iniziativa della città di New York. L’azienda municipalizzata per la fornitura dei servizi
idrici e i proprietari forestali del bacino di captazione hanno sottoscritto un accordo in base al quale
i proprietari si impegnano a gestire i propri boschi secondo un programma che prevede pratiche di
gestione forestale che abbiano effetti positivi sulla costanza qualitativa e quantitativa del deflusso
idrico. La compensazione per il servizio di depurazione e regimazione svolto viene corrisposta
attraverso un’addizionale sulla tariffa idrica, pagata dagli utenti finali. L’implementazione del
programma ha permesso un parziale risparmio di spesa sui 6-9 miliardi di dollari necessari per
realizzare impianti di depurazione, un costo che avrebbe comunque gravato sui cittadini, mentre i
proprietari forestali hanno potuto contare su un flusso annuo e costante di reddito (Landell-Mills e
Porras, 2002).
Altri esempi sono il Programma di Pagamenti per i Servizi Idrici implementato dal governo
messicano (Muños-Piña et al., 2008), i pagamenti agro-ambientali corrisposti agli agricoltori dal
soggetto titolare di una concessione per acque minerali nella Francia nord-orientale (Perrot-Maître,
2006), o, per rimanere in Italia, quanto in progetto, anche se poi rimasto inattuato, nella Val
Nossana, principale fonte di approvvigionamento idrico dell’acquedotto della città di Bergamo
(Pettenella et al., 2006).
Foreste e sport
Sono molteplici le attività sportive che si possono svolgere in foresta: si va dalle attività
classiche, come l’escursionismo estivo e invernale (con le racchette da neve) e lo sci da fondo, al
mountain biking, all’escursionismo a cavallo (ippo-turismo) o al meno diffuso trekking con i muli,
fino all’ormai noto e sempre più diffuso orienteering, per giungere infine a varie altre attività più
originali.
Anche tra chi frequenta i boschi, infatti, sta crescendo la domanda di attività sportive
organizzate, con servizi di supporto e infrastrutture (percorsi a tema, guide, aree attrezzate, ecc.),
a scapito delle tradizionali modalità informali (semplice escursione su sentieri), e ciò offre notevoli
possibilità per il proprietario o gestore forestale. Tutti gli sport in foresta hanno in comune la
necessità di percorsi (sentieri, aree di accesso, strade forestali) ben organizzati e sottoposti ad una
buona manutenzione, in modo da continuare ad essere funzionali e quindi attrattivi per i fruitori, e
questo fa sì che il bosco risulti nel complesso più attentamente gestito a vantaggio di tutta la
comunità. Le iniziative sportive incentrate sul bosco possono avere effetti diretti (creazione di posti
di lavoro: istruttori, guide, noleggio attrezzature, ecc.) o indiretti (sviluppo di servizi: bar, alloggi,
parcheggi, ecc.) sull’economia locale. Anche se spesso i posti di lavoro creati sono per lo più
stagionali e a volte sono richieste figure professionali altamente specializzate (istruttori) non
disponibili in loco (aspetti, questi, da affrontare e gestire in modo che i benefici economici derivanti
dalla pratica delle attività sportive rimangano in zona rurale), il numero di persone coinvolte nella
pratica di alcuni di questi sport è notevole e quindi anche il potenziale movimento economico ad
essi legato è consistente (basti pensare ai pacchetti turistici per il fine settimana o le settimane di
vacanza).
Un caso particolare di sport in foresta è quello che si può svolgere nell’ambito dei cosiddetti
Parchi Avventura, un’esperienza nata a partire dal 2001 sul modello francese. Si tratta
generalmente di percorsi aerei sospesi tra gli alberi di una foresta, costruiti mediante piattaforme in
legno appoggiate sui fusti delle piante e passaggi acrobatici tra una pianta e l’altra. Il tipo di
investimento da realizzare per la predisposizione degli spazi di svolgimento dell’attività è più
consistente rispetto ad altri sport e anche in termini di organizzazione e coordinamento l’impegno
richiesto dal gestore è maggiore (ad esempio sono necessari istruttori qualificati e adeguate
attrezzature di sicurezza).
Negli ultimi cinque anni sono sorte in Italia circa 70 di queste strutture, soprattutto nell’arco
Alpino, anche se non mancano esempi in località marine e nel centro-sud Italia (Loreggian, 2008).
La proprietà e la gestione dei Parchi Avventura sono nella maggior parte dei casi private, anche se
spesso localizzate su aree forestali di proprietà pubblica, cedute al gestore del Parco tramite
66
Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso
contratti di concessione. Per un Parco di dimensioni medio-grandi (circa 10.000 visitatori all’anno,
su una superficie di un ettaro), i costi di realizzazione sono dell’ordine di alcune centinaia di
migliaia di euro e il tempo di ritorno dell’investimento è di 5-6 anni. L’accesso alle strutture da parte
degli utenti avviene tramite acquisto di un biglietto a tempo o a percorso. Loreggian (2008) ha
stimato una disponibilità a pagare media del consumatore intorno a 12,00 euro per visita. Elementi
di successo sono la localizzazione in aree già rinomate dal punto di vista turistico, la facilità di
accesso e di parcheggio, la capacità di creare sinergie con altre attività turistico-ricreative offerte
dal territorio.
Il mercato per questo servizio ricreativo strutturato è relativamente maturo (l’offerta si rivolge
al turismo sportivo ed escursionistico, ma anche scolastico), ma il prodotto offerto è nuovo e
richiede capitali, imprenditorialità e competenze tecniche specifiche, caratteristiche più facilmente
rinvenibili nei soggetti privati piuttosto che negli enti locali (ad esempio i Comuni, proprietari
forestali nelle aree montane). Le dimensioni sono quelle di un mercato di nicchia ma in crescita sia
sul lato della domanda che dell’offerta. I dati economici a disposizione sembrano indicare che il
Parco Avventura può costituire una buona opportunità di reddito per il proprietario forestale privato,
anche se per un numero ristretto di siti e di imprenditori. Produzione legnosa e gestione a fini
ricreativi sono tra l’altro obiettivi gestionali in competizione tra loro - soprattutto nei siti migliori, i più
pianeggianti ed accessibili (non nei siti marginali, con piante piccole o troppo distanti dalla viabilità).
Difficile quindi che questi Parchi possano offrire una risposta per il recupero a media scala di aree
forestali altrimenti abbandonate. In un’ottica collettiva, la questione è più sfumata. L’interesse di un
proprietario forestale pubblico nei riguardi di un Parco Avventura risiede sia nella partecipazione
diretta ai redditi – tramite concessioni o forme associate di gestione – sia nella capacità dell’attività
di produrre indotto nell’occupazione, di essere un elemento di richiamo turistico parte di un’offerta
territoriale più ampia e un mezzo di avvicinamento all’attività sportiva e all’educazione ambientale.
Foreste e arte
In questo caso la valorizzazione delle aree forestali e montane avviene attraverso
l’istallazione di percorsi d’arte, secondo la corrente artistica della Land Art, dove l’ambiente e la
natura determinano la scelta dei materiali usati nella creazione delle opere e le modalità e i ritmi
per la visita delle esposizioni (si vedano ad esempio Fienarte, Pietrarte ed altre ancora).
Di solito, le esposizioni di opere d’arte in foresta consistono in una serie di percorsi nel
bosco lungo i quali sono dislocate le varie opere, appositamente ideate e create dagli artisti al fine
di inserirsi nel contesto. Nella maggior parte dei casi le opere sono realizzate con materiali reperiti
nel bosco stesso (rami, tronchi, sassi, foglie) e anche la loro creazione avviene sul posto, ma non
mancano quelle realizzate in ferro, plexiglas, ecc. Al termine del periodo di durata dell’esposizione,
le opere possono essere trasferite in musei o gallerie oppure lasciate in loco. Le soluzioni operative
sono molteplici: le estensioni di foresta dedicate alle esposizioni possono essere molto varie, da
pochi ettari ad aree molto vaste; gli organizzatori e gestori delle esposizioni possono essere
associazioni culturali ma anche aziende private familiari; il bosco può essere di proprietà pubblica,
privata o collettiva; l’accesso ai percorsi può essere gratuito o a pagamento. Negli esempi censiti in
Italia, l’affluenza annua di visitatori varia dai circa 6.000 di Opera Bosco ai 40.000 di Arte Sella
(Torreggiani, 2011)
E’ evidente che il richiamo esercitato dalla presenza delle opere d’arte potrebbe tradursi in
una fonte di reddito per i proprietari o gestori del bosco. Tuttavia, dalle informazioni finora reperite,
gli introiti derivanti da un’eventuale vendita dei biglietti – almeno nei modi di organizzazione attuali
– non sembrano sufficienti per coprire le spese delle attività di gestione e manutenzione necessarie
all’accessibilità e adeguata fruizione dell’area boscata come spazio espositivo. Resta quindi
necessario, almeno in una fase di avvio, l’intervento di Enti locali o privati e l’investimento in
promozione e attività di richiamo aggiuntive (il bosco d’arte può essere sede di altri eventi e
manifestazioni quali incontri di poesia, visite didattiche, lezioni di pittura e scultura, concerti, ecc.),
anche in questo caso nella prospettiva di una strategia più ampia, di marketing territoriale.
Foreste e musica
Le manifestazioni come i “concerti in foresta” sono tra le attività culturali e ricreative in bosco
più innovative e che più si stanno diffondendo in alcune parti d’Italia come validi esempi di
marketing territoriale e come fonti integrative di reddito per i proprietari di boschi. In genere, si
L'economia agro-silvo-pastorale
pastorale della montagna alpina tra conservazione delle risorse naturali ed abbandono:
quali modelli di sviluppo e quali opportunità?
67
tratta di una serie di concerti di vario genere (musica classica, etnica, jazz, canzone d’autore ecc.) i
cui protagonisti sono musicisti di fama, sia italiani che stranieri. Tali concerti si tengono all’aria
aperta, in radure e conche
nche nei pressi di rifugi e malghe che tutti, dal pubblico ai musicisti con i
rispettivi strumenti, raggiungono per mezzo di escursioni non particolarmente impegnative. Il
concerto, un servizio che viene in questo caso fortemente associato al mondo forestale
foresta e più in
generale montano, funge da traino ad un turismo culturale-escursionistico
culturale escursionistico importante per
l’economia locale. Ne beneficiano infatti in modo diretto malghe e rifugi nei pressi dei quali si
svolge il concerto, ma in modo indiretto anche altre strutture
strutture ricettive nonché altre iniziative locali
(ad esempio manifestazioni sportive e gastronomiche) e in definitiva l’intero territorio, che viene
qualificato in termini di immagine. La partecipazione ai concerti è gratuita e i costi sono a carico di
enti pubblici, a volte con la compartecipazione finanziaria di privati e fondazioni. Questa forma di
finanziamento è di solito necessaria nella fase di lancio di un servizio innovativo, che una volta
consolidatosi potrà essere finanziato dai beneficiari economici
economici (diretti e indiretti) o dagli stessi
fruitori dell’evento (turisti, visitatori) attraverso il pagamento di un biglietto di accesso.
Foreste e altre iniziative
Infine, tra altre attività innovative da ricordare, già avviate altrove, vi sono la realizzazione
realizz
di
campeggi in foresta e di case sugli alberi. Numerosi iniziano ad essere ad esempio gli alberghi e i
centri di ristorazione costruiti tra le chiome degli alberi in varie parti del mondo – si pensi al Sanya
Nanshan Treehouse Resort and Beach Club aperto
aperto nel 2000 in Cina, sull’isola di Hainan
(www.treehousesofhawaii.com
www.treehousesofhawaii.com),
),
ma
simili
esempi
si
trovano
anche
in
Austria
(www.baumkronenweg.at,, Figura 2) Bretagna, Inghilterra,
hilterra, India, Stati Uniti e perfino già in Italia (in
provincia di Viterbo la camera di un agriturismo è stata realizzata su un albero: www.lapiantata.it).
Figura 2 – La struttura Baumkronenweg in Austria: 170 metri di passeggiata tra le chiome degli alberi,
ad un’altezza di 24 metri dal suolo. Fonte: Leader+ Best practices.
CONCLUSIONI
Alcune delle attività forestali sopra descritte potrebbero rivelarsi molto
mol adatte all’ambito
montano, dove la proprietà del terreno (soprattutto privata) è spesso molto frammentata e non
sempre vi sono le condizioni per l’organizzazione di forme associative di gestione, con la
conseguenza di notevoli difficoltà ad avviare attività
attività economiche redditizie basate sulla produzione
di legno.
Iniziative innovative come quelle basate sulla vendita di servizi ricreativi-ambientali
ricreativi
organizzati in foresta si prestano ad essere avviate anche su superfici boschive di limitata
estensione e/o
o richiedono investimenti iniziali non elevatissimi. Un nodo fondamentale per l’avvio e
il consolidamento di tali iniziative rimane comunque la proprietà del terreno, o quanto meno la
possibilità di disporne (in affitto o in concessione) per un periodo di tempo adeguato al tipo di
attività che si intende realizzare. Nel caso di un privato che prenda in gestione terreni forestali di
proprietà pubblica, anche l’Ente proprietario avrebbe dei vantaggi: potrebbe ad esempio ottenere
che il suo patrimonio boschivo venga adeguatamente gestito (cure e manutenzioni sarebbero
necessarie per garantire la fruizione del bosco da parte dei visitatori) senza doverne sostenere i
relativi costi.
A fronte delle potenzialità connesse ai Pagamenti dei Servizi Ambientali, non bisogna
bi
però
dimenticare le potenzialità e l’importanza di altre iniziative (si pensi alla raccolta e
commercializzazione della legna da ardere o più in generale delle biomasse legnose ad uso
68
Paola Gatto, Davide Pettenella, Laura Secco, Daria Maso
energertico; alla raccolta di prodotti forestali non legnosi, come i funghi ma anche le castagne, le
fragole o i lamponi; o altro ancora), che riguardano prodotti forestali più tradizionali, ma che
potrebbero essere sviluppate con modalità organizzative innovative (si pensi per i funghi
all’esperienza di Borgo Valditaro – Pettenella et al., 2008).
Tutte le iniziative descritte, dalle più semplici alle più complesse, possono essere annoverate
tra le attività da sviluppare per infondere nuovo vigore all’economia delle zone montane, ma
laddove realizzate singolarmente rischierebbero di dare risultati limitati . Diverso sarebbe il loro
impatto se fossero invece parte di una politica di sviluppo integrato, che preveda iniziative
complementari e in grado di attivarsi reciprocamente nello stesso territorio, in un contesto di
strategia di marketing territoriale ben organizzata e pianificata che valorizzi al meglio il “capitale
sociale” della comunità locale, ovvero la capacità di cooperazione nello sviluppo di attività
economiche coordinate tra diversi soggetti.
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
LE TRASFORMAZIONI TERRITORIALI NELL’EVOLUZIONE SOCIO
ECONOMICA DEI TERRITORI MONTANI: RISCHI ED OPPORTUNITÀ
DIEGO CASON
SOCIOLOGO
72
Diego Cason
I cambiamenti nelle strutture sociali ed economiche delle comunità residenti e dell’intero
pianeta influiscono, direttamente, indirettamente e per induzione, sui modelli e sulle pratiche di
utilizzo dei territori. A loro volta, gli utilizzi del territorio, producono un effetto di feed-back sulle
strutture sociali, trasformandole. Affermazioni solo apparentemente banali e riferibili a conoscenze
1
acquisite. Esistono studi, anche molto accurati, su questi aspetti.
Ci sono, infatti, molte informazioni sulla transizione tra le diverse categorie d’uso del suolo
che sono spesso richieste per la definizione di strategie di gestione sostenibile del patrimonio
paesistico-ambientale e per valutare le politiche ambientali settoriali (agricoltura, industria, turismo,
ecc.). Esiste una direzione interpretativa di queste trasformazioni da un uso “naturale” (foreste e
parchi) a un uso “semi-naturale” (in agricoltura) o artificiale’ (edilizia, industria, infrastrutture). Tali
transizioni, determinano la perdita, nella maggior parte dei casi permanente e irreversibile, di suolo
fertile, e producono altri impatti negativi, quali la frammentazione del territorio, la riduzione della
biodiversità, le alterazioni del ciclo idrogeologico e le modificazioni microclimatiche. Questo non c’è
solo per i suoli ma anche per i mari, per il clima, per sistemi complessi come le coste, ecc. Allo
stesso modo sono numerosi gli studi e le ricerche relativi agli ambienti (in senso ecologico), il
territorio (inteso come organizzazione), i luoghi (in senso cognitivo e storico), il locale (in senso
relazionale). Le forme sociali nello spazio (nei sensi e significati prima riassunti) sono soggette a
tre conflittualità che determinano situazioni in equilibrio instabile.
A) il conflitto tra decentramento (di cui sono manifestazioni i decentramenti
amministrativi, il federalismo, le politiche di sviluppo locali, ecc) e integrazione
(soprattutto economica, con la globalizzazione ma anche telematica, delle
infrastrutture, politica , ecc);
B) il conflitto tra processi di individualismo anomico mobile e corporativismo (inteso
come una sorta di autoreferenzialità locale);
C) il conflitto tra razionalità economica (urbanesimo, economie di scala, eccellenza nei
servizi urbani, monopolio, ecc) e razionalità ecologica (autosufficienza, rivalutazione
attività primarie, concorrenza, ecc).
Decentramento, corporativismo e razionalità ecologica hanno un contenuto centripeto e
moltiplicativo, integrazione, individualismo e razionalità economica hanno un contenuto centrifugo
e uniformatore. E’ evidente, per chi abbia un minimo di esperienza, che questa semplificazione
della complessità ha una mera utilità descrittiva poiché per loro natura gli eventi sociali e i problemi
che producono hanno sempre una natura complessa e controversa. Perciò non si considerino le
polarizzazioni nei tre conflitti descritti come le uniche possibili, tra esse ci sono innumerevoli
possibilità di declinazioni diverse. Per lo stesso motivo non c’è ragione, se non nel pregiudizio o
nell’ideologia (che a ben vedere non è che un pregiudizio sul mondo intero) di prendere, a priori,
una posizione favorevole all’una o all’altra. Sono due modelli interpretativi che hanno sicuramente
una loro valenza politica ma non è necessario ottenebrare l’intelligenza per avere una propria
predilezione teorica.
Chi scrive, ad esempio, ritiene che i fenomeni che consolidano le comunità locali siano
preferibili a quelli che le erodono o le distruggono. E’ chiaramente un modo di vedere che non
dovrebbe impedire di valutare gli aspetti positivi che hanno (e li hanno quasi sempre) anche
fenomeni che vanno in direzione opposta a quella che si considera “buona” per adesione ad una
visione del mondo.
1
Per citarne uno, di rilevante qualità, si pensi alle ricerche dell’European enviroment agency e dell’ISPRA sulla perdita di
superfici territoriali, in particolare agricole, raccolte nel programma CORINE (Coordination of information on the
environment).
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
73
Il fatto che si scambino metodi
di
progettazione,
in
particolare
territoriale,
per
strumenti
di
comprensione della realtà progettata e
che rinominino consolidati strumenti
con nuovi nomi (oggi dal generale al
particolare è chiamato top-down e il
processo inverso bottom-up) non
cambia la natura dei problemi né la
loro complessità. Come dimostra la
divertente vignetta a fianco di Larson
che siamo abituati a considerare solo
nella sua parte destra (top-down) e
non nelle implicazioni rappresentate a
sinistra (bottom-up).
Lo spazio naturale diventa
sociale ogni volta che viene usato,
qualsiasi sia l’uso cui esso è sottoposto. In questo modo esso assume significato (giuridico,
economico, simbolico ecc.) e diventa “altro” da ciò che era, diventa un luogo. Numerosi sono i
contributi che analizzano i diversi modelli di “uso” dello spazio. Possiamo fare una riduzione
dicendo che possono essere definiti come approcci:
Ecologici nel quale lo spazio è inteso come ambiente al quale anche la nostra specie attua
pratiche di adattamento il cui elemento centrale sono gli equilibri naturali definiti in relazione ad
aree e popolazioni ben definite. Questo approccio di ricerca si declina in:
ecologia sociale, che studia le specializzazioni funzionali dentro al territorio inteso come un
organismo capace di processi di adattamento.
ecologia delle popolazioni, che studia l’ambiente come teatro di interazioni tra popolazioni e
specie ove si svilupano competizione e collaborazione.
ecologia sistemica che teorizza le relazioni tra specie come una catena di interdipendenze
governate dalla seconda legge della termodinamica o entropia che evidenzia il senso del limite ed
ha identificato concetti come gli indici di sostenibilità e di impronta ecologica.
Organizzativi nei quali lo spazio è inteso come territorio nel quale si premiano le
competenze di sistemi dominati dalla tecnica, dalle specializzazioni e dai bisogni sociali. I sistemi
sociali tendono così a divenire più complessi e a reagire ai vincoli ambientali con maggiore o
minore flessibilità sia nell’insieme sia nelle singole parti del sistema. Questa logica si traduce con
una specializzazione e compartimentazione del territorio (urbano, infrastrutture, agricolo, protetto,
parchi, ecc..). Questo modello è quello tipico occidentale e, in generale ha un cattivo rapporto con
l’incertezza e l’imprevedibile. S’affida in modo irrazionale alla tecnica, alla tecnologia e alla
pianificazione affidando ad esse funzioni sociali rassicuranti e riduce la percezione della
responsabilità sociale degli attori. Le città e l’urbanesimo contemporaneo sono nei fatti un
dispositivo tecnico per il controllo capillare del territorio. Poi però assistiamo alla loro inabitabilità e
alle periferie che sono il regno del caos e la dimostrazione della inconsistenza dell’illusione
tecnicista. Per sintetizzare l’organizzazione territoriale risponde più a criteri tecnici della divisione
del lavoro e delle attività produttive che a criteri di qualità della residenza umana.
Culturali nei quali prevale l’aspetto percettivo dello spazio e i modi con i quali gli umani
riconoscono il proprio ambiente. L’uso dello spazio diviene fortemente simbolico ed è uno degli
elementi dell’identità di coloro che lo abitano. In questo caso c’è una visione cognitiva dello spazio
che ha al proprio centro la relazione vicino-lontano (prossemica sociale). Nota la tassonomia di
Kevin Lynch su percorsi, margini, quartieri, nodi, riferimenti che si presente come un clichè utile per
interpretare e comprendere un’area e le sue funzioni simboliche. In questo caso si parla di luoghi
con caratteri unici, oggettivi, dotati di significato sociale condiviso. Le piccole patrie e il ritorno a
luoghi di vita colmi di significati fuori dall’urbano dal senso indistinto e sradicante, sono
manifestazioni di questo approccio così come la teoria della contrapposizione tra urbano e rurale.
Una visione fortemente ideologica.
74
Diego Cason
Relazionale nei quali lo spazio è inteso come luogo, necessariamente limitato ove
avvengono interazioni significative e non meramente strumentali. Ciò che dà senso e funzione ai
luoghi sono i rapporti sociali che si possono definire come un “comportamento reciproco dotato di
senso e orientato in modo da consolidare e rinforzare tale senso”. E’ un orientamento verso l’altro
che assume significato proprio in base al luogo ove questa relazione avviene e, alo stesso tempo,
il luogo assume significato in base alle relazioni che in esso avvengono. Le relazioni non sono solo
funzionali ma hanno un proprio valore autonomo che si manifesta nella forma delle reti (flusso
continuo di contatti) e nella reciprocità-gratuità. Queste relazioni reiterate diventano legami sociali
che legano le persone e le costituisce in comunità fortemente ancorate allo spazio che abitano.
Non è difficile comprendere come i meccanismi dell’inclusione-esclusione operino in
quest’approccio allo spazio. Appartengono a questa situazione le analisi della strumentalità urbana
(densità, ampiezza demografica, eterogeneità, promiscuità), dei non luoghi,della definizione del
concetto di paesaggio, dell’appartenenza territoriale, delle identità locali.
In sintesi questi sono i riferimenti teorici più rilevanti intorno ai quali si sviluppa la riflessione
sugli usi dello spazio e del territorio. Quali riflessioni, sulla base di questa ricognizione astratta,
possiamo fare, in relazione alle trasformazioni socio economiche avvenute in area dolomitica, per
poter valutare le prospettive future in questa parte di territorio? Ritengo sia utile fare una prima
valutazione dei più rilevanti cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni. Per non appesantire
questa presentazione mi limito ad elencare i cinque che ritengo più importanti:
1) Abbandono quasi completo delle attività agricole sopra gli 800 metri di quota e formidabile
riduzione a bassa quota con trasformazione delle tipologie d’impresa, delle pratiche colturali, dei
metodi di allevamento e della silvicoltura. Gli attivi in agricoltura cambiano dal 54% del 1951 al
2,1% del 2011 in Provincia di Belluno. Dalla varietà colturale tipica dell’agricoltura di montagna alla
monocoltura (mais e foraggio a Belluno, meleti e vigneti a Trento e Bolzano.) Il ridursi degli
agricoltori produce riduce la minuta manutenzione del territorio, penalizza il turismo, rende più
instabili i versanti, riduce la biodiversità e rende monotoni i paesaggi con l’espansione del bosco,
impedisce la produzione di alimenti di qualità locali, apre la strada alle decisioni tecniche in luogo di
quelle basate sull’esperienza riducendo il controllo democratico sullo sviluppo locale.
2) Redistribuzione degli attivi verso le attività manifatturiere a Belluno (47% degli occupati e
58,6% degli addetti nell’industria e 48% nei servizi) e verso un mix di servizi a Trento (28%
occupati nell’industria, 67% nei servizi) e Bolzano (24% occupati nell’industria, 69% nei servizi).
Questo squilibrio espone l’occupazione in provincia di Belluno a gravi rischi di ridimensionamento,
in un periodo troppo breve per riuscire a creare nei sevizi nuova occupazione in tempo utile. Nelle
provincie montane contermini gli addetti in manifatture sono meno del 30%. E’ evidente quale sia
l’esposizione della occupazione bellunese alla concorrenza internazionale.
3) Crescente mobilità territoriale con fenomeni di crescita demografica delle aree urbane a
bassa quota e abbandono delle residenze d’alta quota con conseguente rapido e rilevante
abbandono della montagna. Fenomeno più evidente a Belluno (- 30% della popolazione residente,
dal 1951 al 2001, in Agordino, Cadore, Zoldano, contro la media provinciale del -9%). Lo
spopolamento diminuisce ma non si ferma nell’ultimo decennio in particolare nelle Dolomiti
bellunesi. La mobilità non è solo definitiva ma anche pendolare, il 75% del traffico è prodotto da
microspostamenti indotto dal lavoro e dall’accesso ai servizi pubblici e privati. La conseguenza è
che i veicoli circolanti in provincia di Belluno, dal 1981, sono raddoppiati, sono oggi circa 160 mila
mentre la rete stradale è rimasta sostanzialmente immutata. Questo in paesi di montagna crea
notevoli problemi nella gestione del traffico locale e turistico e nel consumo di territorio per
parcheggi.
4) Aumento delle abitazioni non occupate che sono il 36% del totale a Belluno, il 34% a
Trento e il 13% a Bolzano. In montagna il dato medio peggiora, e di molto. Ad esempio, a Selva di
Cadore ci sono 300 famiglie e 800 abitazioni e le abitazioni non occupate sono il 77% del totale, a
San Vito di Cadore sono il 70% a Cortina d’Ampezzo sono il 60%. In questo modo s’è verificato un
rilevante trasferimento delle proprietà immobiliari dai residenti a non residenti. Il fenomeno è
diverso nei poli dell’abbandono (Gosaldo) e nei poli dello sviluppo. Nei primi le abitazioni non
occupate sono quelle dei residenti, abbandonate o vendute, nei secondi sono seconde abitazioni a
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
75
scopo turistico prevalentemente di nuova costruzione. In entrambi i casi c’è una perdita evidente di
controllo sul patrimonio territoriale. Questo produce un effetto paradossale. I luoghi in cui manca lo
sviluppo vengono abbandonati per mancanza di lavoro, quello dove lo sviluppo c’è, trainato dal
turismo o dalle manifatture, vengono abbandonati per la crescita della rendita immobiliare.
5) Formidabile cambiamento della struttura demografica delle comunità e delle famiglie. Le
prime si ristrutturano intorno ai poli di accumulazione del valore aggiunto manifatturiero (per
esempio le aree Agordo-Taibon, Longarone-Puos d’Alpago, Sedico-Trichiana, Feltre-Fonzaso e in
parte Domegge-Pieve di Cadore) e turistico (Cortina-San Vito di Cadore, Alleghe-Selva-Rocca
Pietore-Zoldo Alto, Falcade, Livinallongo, Auronzo-Padola, Sappada) ed abbandonalo le aree
marginali (Basso Cadore, Comelico, Basso Agordino, Basso Feltrino, Lamon e Sovramonte). Ad
esempio in Agordino i residenti sono diminuiti del 4% negli ultimi 10 anni, ma a Gosaldo il calo è
stato del 14,5% mentre Taibon cresce dell’1,8%. Ma la manifattura in alcuni casi produce effetti
paradossali come il casi di Agordo dove gli addetti alla manifattura sono il 94% dei residenti! E’
evidente che questi poli sono attrattivi di addetti e occupati da tuto il bacino circostante e oltre,
innescando una mobilità, che in montagna, assume ancora di più il significato di scadimento della
qualità della vita.
Le famiglie aumentano di numero e si riducono nei componenti, ci sono sempre meno
matrimoni (664 nel 2009 contro i 1.780 del 1971) e sempre più tardi, si fanno sempre meno figli e
sempre più tardi, ci sono sempre più famiglie formate da una sola persona. Il peso sociale di
giovani ed anziani si rovescia ed oggi ci sono 50 mila anziani con più di 65 anni e 27 mila giovani
con meno di 15 anni. In alcuni Comuni ci sono 3 anziani per ogni giovane e nasce un bambino ogni
due anni e dei 1.900 bambini nati nel 2009 un terzo è nato fuori dal matrimonio. Inoltre cresce
l’instabilità coniugale e i divorziati nel 1991 erano 1.300 ed oggi sono circa 4.700.
Il crollo nella nuzialità (3 matrimoni su 1.000 residenti) e della natalità (7,96 ogni 1.000
residenti), largamente al di sotto della media nazionale e Veneta hanno prodotto un calo dei
giovani dai 25 ai 29 anni da 9.500 a 6.500 dal 2000 al 2009 determinando una perdita di circa 8
mila attivi in dieci anni contraendo il numero degli attivi di circa il 10%.
6) Evoluzione del turismo squilibrata su alcune località e con una crescita troppo debole. Il
turismo ha però trasformato in modo molto rilevante l’uso del territorio e la forma mentis dei
residenti. Esso è fortemente pulsante tra le due stagioni, il 51% in estate e 41% in inverno, solo
l’8% nei cinque mesi di fuori stagione. Ciò significa accogliere 830 mila ospiti ogni anno, e 4,5
milioni di presenze in una provincia con 212 mila residenti e che questi ospiti si concentrano in un
terzo dei Comuni determinando in media circa 14 mila arrivi per Comune, che significa circa 33
arrivi al giorno e un totale medio di 71 mila presenze per Comune con circa 200 presenze al
giorno. Questo flusso determina un mercato del lavoro nel turismo che assorbe circa 8.000
occupati a stagione che devono essere “importati” su un totale di circa 110 mila occupati totali. Si
comprende da queste scarne cifre quale sia l’impatto del turismo su comunità indebolite
demograficamente, sottoposte ad un andamento pulsante di popolazione, che muta i rapporti e la
gerarchia degli interessi locali, mettendo quelli dei residenti in secondo piano rispetto a quelli degli
ospiti. Questo è particolarmente evidente sul mercato immobiliare dove la rendita dei beni immobili,
scaccia i residenti dal loro Comune di residenza ed impedisce alle imprese locali di reggere la
concorrenza indebolendo la struttura produttiva stabile e locale. Questo in particolare in comunità
che si votano alla monocultura produttiva esponendosi come tutti gli organismi troppo semplici alle
avversità di settore senza avere alternative praticabili.
L’evoluzione recente della provincia di Belluno ha prodotto due effetti principali che
s’innestano su eventi avvenuti in precedenza:
a) frattura nelle dinamiche evolutive tra la Val Belluna e la parte montana del territorio
provinciale;
b) ulteriore frattura tra le aree montane a vocazione turistica e quelle escluse, per varie
ragione, dalla crescita dei servizi turistici.
76
Diego Cason
Sulle comunità residenti questa frantumazione ha prodotto:
la percezione delle proprie debolezze,
la riduzione della stima di sé e della fiducia nelle proprie competenze e capacità,
un tentativo di ritrovare in immagini streotipate e inattuali un rifugio dalle aperture
indotte dalla globalizzazione e dalla conseguente concorrenza internazionale,
un processo di chiusura che contrasta con le esigenze di sostituzione degli attivi
mancanti (politiche immigratorie insufficienti),
una grave difficoltà nel ricambio delle imprese attive (sono 15 mila da almeno 20
anni con un vistoso calo di piccole manifatture e la crescita di minuscole imprese di
costruzioni),
una riduzione delle risorse pubbliche che impedirà a breve di fornire altri servizi
essenziali per la residenza in quota.
In questa situazione è facile per una comunità pensare che un qualsiasi investimento, una
qualsiasi opportunità di lavoro e di produzione sia una cosa buona, a priori. Invece è proprio in
queste situazioni di grave disagio che è necessario avere la vista lunga, che è mancata nei periodi
di sviluppo rapido intenso e radicale. Si tratta di valutare con attenzione che una qualsiasi attività
d’impresa ha necessità di fattori di produzione in equilibrio e che se il fattore più debole è il lavoro è
inutile accrescere il capitale o le risorse naturali. Il fattore critico insufficiente sarà sempre un
ostacolo alla crescita. Per capirci se manca lievito nella pasta della pizza non serve a nulla
aggiungere farina ed acqua perché l’assenza del lievito diventerà ancora più critica ed ancora più
penalizzante.
Nell’ambito di questo ragionamento, senza preclusioni ideologiche o preconcette è possibile
ad esempio valutare l’opportunità o meno di introdurre nuovi tipi di utilizzo del territorio montano
che rispetto ad altre aree pone alcuni problemi particolari a cominciare dalla sua instabilità
irriducibile. Alcune delle proposte di mutamento delle “destinazioni d’uso” meritano un
approfondimento particolare perché emergenti, paradigmatiche e praticabili da subito. Anche in
questo caso ne elenco alcune che meriterebbero ben altra intensità d’interesse ed analisi:
La viabilità e l’accessibilità delle località montane. E’ un bene rendere maggiormente
accessibili e quindi penetrabili dai consumatori le località montane turistiche e non
turistiche. Quali vantaggi e quali rischi sollevano? Serve una viabilità veloce di
attraversamento o una trasversale di rete? E vero che la migliore viabilità aumenta i
flussi turistici e il business ad esso collegato?
Gli impianti per lo sci alpino. Quando e perché gli impianti favoriscono lo sviluppo
delle comunità locali? Si può dare per scontato che la presenza d’impianti sia fattore
strategico per il turismo invernale? La doppia stagionalità è indispensabile per tutti i
tipi di strutture ricettive? Si può dare per scontata la produzione di effetti benefici per
la comunità locale? Quali sono i costi sociali di questo tipo d’investimento? Si può
pensare ad un turismo invernale senza impianti di risalita e piste di discesa?
L’ulteriore sfruttamento delle acque per la produzione di energia idroelettrica e per
utilizzi agricoli della pianura. C’è ancora la possibilità di sottrarre acque agli alvei dei
torrenti montani? Quale vantaggio deriva alla popolazione locale dallo sfruttamento
idroelettrico? L’acqua è un bene disponibile o una merce?
L’incremento degli indici di edificabilità, la trasformazione d’uso degli immobili
agricoli e l’espansione dei volumi degli edifici esistenti. E’ un bene incrementare la
dotazione di immobili in una provincia che ha già 50 mila seconde case? Quali effetti
ha sull’offerta turistica e sui servizi agli ospiti, quali effetti sui tipi di ricettività locale?
Chi sopporta gli oneri che derivano dalla manutenzione degli impianti tecnologici e
delle reti pubbliche?
Il riutilizzo delle capacità produttive agricole in montagna, per coltivazioni
specializzate e per allevamenti di qualità. Ci sono opportunità di crescita nel settore
primario in tempi di concorrenza globale sui prodotti agricoli? Il modello di agricoltura
estensiva è un modello applicabile in montagna, con quali costi e con quali ricavi? A
quali tipi di prodotti competitivi è possibile pensare in montagna?
Ci sono modelli diversi di utilizzo e governo dei boschi alpini rispetto a quelli
tradizionali? Le bio masse forestali possono essere un nuovo modo per coltivare
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
77
boschi di scadente qualita? C’è il modo per ricostruire una filiera del legno
sostanzialmente abbandonata negli ultimi 30 anni salvo eccezioni?
Quali sono le possibili applicazioni in ambito edilizio per il risparmio energetico, per
la produzione di energia eolica e fotovoltaica al fine di creare una filiera virtuosa
della certificazione degli edifici esistenti invece che costruirne di nuovi?
Quali sono le possibili applicazioni dei network in montagna. E’ possibile pensare ad
una nuova residenza di qualità in montagna con l’applicazione di procedure di lavoro
a domicilio, a progetto, a distanza o di telelavoro?
Come ultima considerazione dopo tanti interrogativi. E’ possibile che le dolomiti siano oggetti
di tre quattro modelli di “governance pubblica” diversi dei quali tre hanno a disposizione risorse
incomparabili con quelle disponibili nell’area dolomitica bellunese? Quali effetti produce questo
squilibrio sulle comunità? Possono le une contare, per sempre, sul privilegio acquisto e possono le
altre reggere una concorrenza sleale che svuota ogni possibile progetto in ambito turistico ed
agricolo?
Il problema è: come affrontare le sfide della post-modernità globale, le sue opportunità e i
problemi che pone, consolidando le comunità locali mantenendole adatte alla concorrenza
internazionale senza esporle al pericolo di dissoluzione? Come coniugare rafforzamento dei vincoli
comunitari aprendo i confini, integrando lo straniero, ridimensionando la manifattura, sviluppando i
servizi, in particolare turistici, e la qualità della vita?
Per fare un esempio di cambiamento in corso sulle fruizioni ed usi della montagna proviamo
ad approfondire la riflessione sul recente progetto di utilizzo per lo sci alpino del territorio a sud del
Pelmo. La proposta che è contenuta entro lo strumento, che dovrebbe essere di programmazione
regionale, del Piano neve. Il quale non programma ma accumula interventi, senza definire
strategie, priorità e procedure di realizzazione e accompagnamento per l’integrazione funzionale a
un offerta concorrenziale. Nel piano sono previsti almeno otto grandi nuovi interventi (Casera
Razzo 150 milioni, Pelmo 80 milioni, Val Marzon 100 milioni, Forca Rossa 60 milioni, Palantina 60
milioni, Verena-Larici, Gallio-Val Maron, Tonezza.) per un totale di investimenti valutabile in circa
600-700 milioni di euro quando nel bilancio 2011 della regione sono previsti per il 2011, per le
attività turistiche in complesso (F0011), venti milioni di euro e per la tutela del territorio montano
2
(F0013) 29 milioni di euro.
Tali previsioni sono state fatte nonostante lo stesso Piano neve affermi che:
“In questi ultimi anni nelle stazioni invernali alpine e estere si è notato un regresso
dell’interesse per gli sport invernali da parte degli utenti. E’ probabile che tale regresso sia da
imputarsi ad una situazione di crisi economica delle famiglie, meno disponibili a pagare l’aumento
dei costi dei servizi delle stazioni alpine dovuti al progressivo spopolamento, e conseguente
carenza di manodopera locale. A causa degli elevati prezzi delle abitazioni il fenomeno dello
spopolamento delle comunità alpine risulta essere universalmente diffuso, con la conseguente
continua migrazione dei servizi generali che si spostano verso la pianura, al punto che alcuni paesi
troppo piccoli rimangono addirittura sprovvisti di servizio postale. Questo comporta ovviamente un
aumento di costi generali. La migrazione della parte più giovane della popolazione ha causato la
piena occupazione e la carenza di manodopera, in particolare della manodopera stagionale
impiegata normalmente nelle aziende turistiche. Il fenomeno è grave perché provoca un aumento
del costo del lavoro a causa della manodopera contesa fra le varie aziende. Altri aumenti sono
dovuti alla necessità di importare manodopera dall’esterno cui bisogna offrire vitto e alloggio oltre
allo stipendio.”
2
Il Piano appare assai carente sotto il profilo dell’analisi di fattibilità economica degli interventi. Se si considera che, i
numerosi nuovi collegamenti intervallivi comporterebbero la necessità di imponenti investimenti finanziari, (a fronte della più
volte dichiarata contrazione della domanda e della riduzione della durata della stagione anche a seguito delle note
modificazioni climatiche) non si vede con quali risorse essi potrebbero essere finanziati, anche in considerazione della
posizione della Commissione Europea che ha più volte ribadito (si veda, ad es., la decisione 27 febbraio 2008 su aiuto di
Stato n. 731/2007 Italia) che sono da ritenersi legittimi eventuali interventi di sostegno pubblico solo se disposti a favore di
stazioni di sport invernali di interesse puramente locale (intendendosi come tali quelle aventi un numero di impianti non
superiore a 3, per una lunghezza complessiva non superiore a 3 km, ovvero aventi un numero di posti letto alberghieri
disponibili non superiore a 2000 ovvero con un numero di pass settimanali venduti non superiore al 15% del numero totale).
78
Diego Cason
Il turismo indotto dalla pratica dello sci alpino, nelle sue varie forme (come lo snow board) è
3
un segmento che si caratterizza per la propria giovane età e dei suoi praticanti.
Lo sci come offerta di piste ed impianti di risalita ha meno di mezzo secolo mentre la
fruizione turistica delle Alpi ha due secoli di vita. Malgrado la giovane età, il settore è già maturo.
Ha avuto una sua prima configurazione tra gli anni '50 e '60, si è rapidamente sviluppato negli anni
'70 e '80 ma mostra evidenti segni di rallentamento già dagli anni '90. Negli ultimi otto anni c’è una
stagnazione della domanda e le previsioni indicano una crescita, globale non superiore all'uno o
due per cento l'anno. Le attività collegate agli sport invernali restano però molto rilevanti e, in
Europa, producono un business di circa 20 miliardi di Euro con un'offerta che riguarda 10 Paesi e
oltre 1000 stazioni che dispongono di circa 10-11 milioni di letti turistici, con quattro Paesi leader
(Francia, Austria, Svizzera e Italia).
La domanda, in Europa, interessa quindici Paesi da cui si muovono annualmente tra i 35 e i
40 milioni tra sciatori, snowborder e accompagnatori. Il modello di offerta americano è diverso da
quello alpino, perché la domanda è prevalentemente domestica (con l’eccezione di Aspen e Veil)
ma anche oltre oceano la domanda è modesta. E’ quindi un settore che è in fase di piena maturità.
Per prima cosa su mercati di così grandi dimensioni a crescita lenta, la concorrenza tende ad una
crescita vigorosa (i modelli di successo trovano sempre imitatori tardivi e quindi perciò votati
all’insuccesso). Le imprese sono tali solo se crescono ma crescere, in un mercato fermo, significa
sottrarre clientela e quote di mercato ai concorrenti. L'esito sarà l’eliminazione, nei prossimi 10-20
anni, dei competitor più deboli e l'aumento delle dimensioni medie delle imprese che non
corrisponde all’aumento delle dimensioni dei comprensori. Si assiste già alla concentrazione
dell'offerta, necessaria per affrontare la competizione. In quest’ambito offerte puntuali e locali non
hanno alcuna possibilità di sopravvivere.
Le stazioni sciistiche non potranno più puntare per competere soltanto sulla qualità delle
piste e degli impianti di risalita. I clienti sempre più internazionali, potranno confrontare il mix di
servizi messo loro a disposizione dalle stazioni nel (accessibilità, accoglienza, ricettività, ecc.) e
sceglierà. Ciò esige grande capacità di management delle imprese nei comprensori sciistici, per
determinare adeguata integrazione dell'offerta.
Si assiste anche alla evidente divaricazione tra l’offerta di stazioni locali e quelle
internazionali. Le prime sono destinate a specializzarsi con grandi difficoltà di equilibrio economico
costrette a ricorrere alle amministrazioni pubbliche locali per il finanziamento degli investimenti. E’
evidente che le amministrazioni delle provincie e regioni autonome ai nostri confini avranno risorse
almeno 10 volte più rilevanti di quelle messe a disposizione del bellunese dalla regione Veneto. La
questione è così rilevante che anche il Piano neve regionale ne fa cenno:
“La concorrenza effettuata dalle regioni confinanti è per la regione Veneto motivo di rilevante
preoccupazione. Le amministrazioni della regione Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto-Adige hanno
stanziato elevate somme a sostegno dell’industria turistica, sia per la ricettività tradizionale, sia per
gli impianti a fune e le piste da sci. Tale fenomeno è rilevante particolarmente in provincia di
Bolzano, dove si è avuto un rapido rinnovo degli impianti di trasporto con la sostituzione
progressiva di vecchie sciovie e seggiovie con moderni impianti ad agganciamento automatico,
molto più confortevoli e assai più rapidi e quindi più apprezzati da parte del turista. Questa
situazione concorrenziale anomala è subita anche dalle stazioni turistiche austriache, che non
godono di pari aiuti pubblici, tanto da sfociare in una denuncia presso l’Unione Europea di
violazione delle regole di concorrenza da parte delle regioni italiane a statuto speciale. Le regioni
vicine sono in definitiva riuscite ad accumulare un notevole vantaggio nei confronti delle strutture
turistiche invernali della regione Veneto.”
3 Secondo un’analisi del CISET (Centro Internazionale di Studi sull’Economia Turistica) gli sciatori sono persone giovani
(quasi il 78% ha un’età inferiore ai 44 anni, di cui il 34% tra 25 e 34 anni) e di livello socio-economico medio-alto (l’80% è in
possesso di un diploma di scuola media superiore o della laurea, il 20% è imprenditore/libero professionista, mentre il 33%
è impiegato). Lo sci alpino è quello che raccoglie la maggior parte degli appassionati (78,7%), seguito dallo sci di fondo
(12,1%, con punte del 25,6% tra le persone dai 55 anni in su) e dallo snowboard (4,7%), quest’ultimo praticato soprattutto
dagli uomini (7,4% contro 2,1% tra le donne) e dai giovani (9,2% tra le persone al di sotto dei 34 anni). In genere, oltre il
60% degli sciatori scia da più di dieci anni mentre il 21% ha un‘esperienza da cinque a dieci anni. Il Trentino è la principale
area montana di destinazione degli sciatori italiani (39%), seguita dall'Alto Adige (14%), dal Veneto (12%), dalla Lombardia
(9%) e dalla Valle d’Aosta (6%).
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
79
Per quelle internazionali il successo (o la sopravvivenza), saranno determinati dal mercato,
dai propri vantaggi competitivi, dalla capacità di anticipare i concorrenti comprendendo in anticipo i
processi evolutivi del settore.
Il progetto del collegamento sciistico S.Vito Civetta prevede un investimento di 85 milioni di
euro, per realizzare 7 impianti di risalita e 16 piste. Per realizzare gli impianti si dovranno spendere
43 milioni di euro, per l'elettrificazione 2.750.000 euro; per i servizi 3.550.000 euro; per
l'innevamento 12 milioni; per le piste 7.500.000 euro; per le apparecchiature skipass 700 mila euro;
per i mezzi battipista 2 milioni; per i parcheggi e la viabilità 2 milioni e mezzo; per le spese tecniche
6 milioni e 5 milioni per i costi della fase di attivazione. S’ipotizza che gli impianti possano essere
attivi per 120 giornate, con 2.150.000 passaggi che produrrebbero un ricavo annuo di 8.478.000
euro. Tale ipotesi è stata fatta confrontando i passaggi del Faloria dove, nella stagione 2009-2010,
i passaggi sono stati 2.200.000 e della Tofana dove sono stati 3 milioni, e del Civetta dove stati 6
milioni e mezzo. Il piano economico finanziario per realizzare il collegamento prevede di reperire il
65% delle risorse dalle banche, ossia 55 milioni di euro, il 14% dovrebbe arrivare dai contributi
pubblici, (cioè una cifra attorno ai 12 milioni di euro), il 5% da investitori locali cioè 3 milioni e
mezzo, e il 16% da investitori finanziari, percentuale che corrisponde a 14 milioni e mezzo di euro.
Tutto questo va inserito nello scenario di riferimento che ha le seguenti caratteristiche:
I cambiamenti climatici. La temperatura media del pianeta è aumentata di circa 0.6-1° C
negli ultimi 100 anni (IPCC 2001- International Panel Climate Change formato dai massimi esperti
mondiali sul clima). Gli anni alla fine degli anni 90 sono stati i più caldi del secolo. Le temperature
globali aumenteranno in futuro. Naturalmente ci sono molte incertezze sugli scenari futuri del
riscaldamento globale. IPCC stima un incremento di temperature di 1.4-5.8° C sino al 2100. Il
riscaldamento globale sarà più forte sulla superficie terrestre, l’emisfero settentrionale e in inverno:
la localizzazione e la stagione del turismo montano invernale. L’impatto del cambiamento climatico
sulle località invernali può essere più pesante nei paesi come la Germania e in Austria, a causa
delle basse altitudini delle stazioni sciistiche. In Austria, l’attuale linea d’innevamento sarà 200-300
metri più in alto con il cambiamento climatico nei prossimi 30-50 anni. Molti paesi di montagna,
soprattutto quelli situati nell’Austria Centrale e orientale, perderanno la loro industria turistica
invernale a causa del cambiamento climatico (Breiling & Charanza 1999). In Italia metà delle
stazioni sciistiche si trovano sotto i 1300 metri. Rispetto al decennio 1982 1992 nel decennio
1993/2003 le precipitazioni nevose invernali nelle dolomiti sono diminuite secondo quanto riportato
nella tabella seguente. Il calo medio del manto nevoso è stato di 1,91 metri contro una riduzione
media nell’arco alpino di -0,75 mt.
Se l’altitudine per la disponibilità di neve si alza ai 1500 metri, a causa del cambiamento
climatico, gli sport invernali saranno solo possibili nelle alte zone delle aree sciistiche, e molte
stazioni non avranno nessuna autosufficienza economica per il futuro.
80
Diego Cason
800
700
600
500
400
300
200
y = -8,1752x + 507,26
y = -5,4888x + 478,25
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1990
1989
1988
1987
1986
1985
1984
1983
1982
100
y = -7,1854x + 402,65
Alpi Occidentali
Alpi Centrali
Alpi Orientali
Lineare (Alpi Occidentali)
Lineare (Alpi Centrali)
Lineare (Alpi Orientali)
Quantità medie annuali (anno idrologico) di neve fresca (in cm) relative ai tre settori alpini, 1982-2003
Si afferma che questo problema può essere superato con l’innevamento programmato o
artificiale. Gli investimenti nell'innevamento programmato, iniziati timidamente negli anni '80, oggi
sono indispensabili per la sopravvivenza economica di una stazione di dimensioni medio-grandi.
Anni fa gli impianti per produrre neve difficilmente arrivavano ai 2000 metri oggi sono realizzati, in
certi casi, anche al di sopra dei 2500 metri. Queste apparecchiature garantiscono la produzione di
neve solo a partire da certe temperature. Se oltre a non nevicare aumenterà progressivamente la
temperatura dell'aria, anche tale rimedio rischierà di essere un'arma spuntata. E stazioni con poca
neve o con neve di scarsa qualità saranno abbandonate dalla clientela perché in difetto proprio
della materia prima.
Con un metro cubo di acqua si possono produrre in media da 2 a 2,5 metri cubi di neve; per
l’innevamento di base di una pista da 1 ha occorrono almeno 1.000 metri cubi di acqua, mentre gli
innevamenti successivi richiedono un consumo superiore. La CIPRA (Commissione Internazionale
per la Protezione delle Alpi) che per i 23.800 ha di piste innevabili delle Alpi, occorrono ogni anno
circa 95 milioni di metri cubi di acqua, pari al consumo annuo di una città con 1,5 milioni di abitanti.
È da tenere in particolare attenzione che l’acqua utilizzata è attinta dalla rete idrica naturale e da
quella potabile, eventualmente anche con la costruzione di bacini di raccolta che garantiscono la
disponibilità in breve tempo di grandi quantità di acqua, in un periodo di scarsità. È stato calcolato
che per innevare l’intero arco alpino (23.800 ha), il consumo energetico totale è pari a 600 GWh,
corrispondente all’incirca al consumo annuo di energia elettrica di 130.000 famiglie di quattro
persone. In Provincia di Bolzano, dove s’innevano artificialmente i due terzi delle piste da sci, i
consumi idrici aumentano: per alimentare i cannoni sono quasi raddoppiati in cinque anni,
passando dai 2,2 milioni di metri cubi del 1996/1997 ai quasi 4 milioni del 2003/2004. Questo trend
è indipendente dalle condizioni nivo-meteorologiche locali testimoniando così come sia più
importante avere a disposizione l’acqua in novembre e dicembre, quando è preparato “il fondo” del
manto nevoso. Tutti aspetti di cui non si tiene conto nel valutare il bilancio fra costi e benefici. I
costi, com’è ovvio, non sono solo ambientali ed energetici; CIPRA International ha calcolato che
per ogni ettaro di pista da innevare si spendono in investimenti mediamente 136.000 euro/anno. Gli
impianti d’innevamento presenti nelle Alpi hanno comportato quindi un investimento superiore ai 3
miliardi di euro.
Le modificazioni di gusti e di abitudini dei consumatori
Si fanno sempre più vacanze brevi, e più frequenti con la ricerca di maggiore qualità e
questo è un elemento che deve indurre a ri-pensare offerta e organizzazione delle stazioni
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
81
turistiche. Se le settimane bianche sono in calo e sono in crescita i tre-quattro giorni, bisogna
adeguare a questo i prodotti, i servizi e le tariffe. Se nella vacanza si riduce la domanda dell'attività
sciistico-sportiva a vantaggio di altre si dovrebbero progettate e offrire nuove soluzioni. Queste
modifiche sono riassumibili nelle seguenti tendenze:
a. Lo sci diventa sempre meno un’attività familiare, per effetto della riduzione dei figli e
sempre più veicolato, soprattutto in fase di apprendimento, dai gruppi sportivi e que-sto comporta
una specie di mancato ricambio generazionale degli sciatori che smetto-no;
b. La scelta delle località da parte della gran parte degli sciatori è piuttosto rigida perché è
fortemente condizionata da costi, distanze, accessibilità, proprietà immobiliari (seconde case) e
questo è particolarmente evidente per la valle del Boite che risente in modo determinante della
fidelizzazione su Cortina. E’ molto difficile scardinare questa motivazione originaria.
c. Cresce la domanda di attività complementari e alternative allo sci alpino. La tendenza è
verso la ricerca di nuove esperienze e nuovi stimoli, e prodotti per target specifici. Questa tendenza
s’inserisce in una più generale trasformazione dei modelli di consumo che, come accennato in
precedenza, stimola anche a cambiare tipo di vacanza.
d. Assume sempre più importanza la percezione dell’accoglienza, intesa come capacità e
competenza degli operatori e dei residenti nel fornire quegli elementi immateriali del prodotto
turistico che sono la cortesia, la professionalità degli operatori, la disponibilità della popolazione
locale, la chiarezza delle offerte, la lealtà economica dei prezzi, la serenità e la sicurezza degli
ambienti.
e. Gli ospiti invernali non sono solo sciatori gli sciatori non sono tutti uguali.
Le località alpine sono frequentate anche da persone che non praticano gli sport invernali
tradizionali (48% del totale). I non sciatori sono più anziani degli sciatori (il 37% ha più di 44 anni
contro il 22% degli sciatori), prevalentemente di sesso femminile (65% contro 35% uomini) e di
profilo socio-economico medio. Tra i non sciatori due sono i principali segmenti di domanda: I non
sciatori “al seguito”, cioè persone che non sciano e che trascorrono una vacanza in montagna
perché “costretti” da familiari, parenti e amici amanti degli sport invernali. Rappresentano oltre
l’80% dei non sciatori totali. I non sciatori indipendenti, cioè coloro che, pur non sciando, decidono
in prima persona di trascorrere una vacanza sulla neve. Si tratta di una minoranza (meno del 20%
del totale) che viaggia da sola oppure che, anche se con familiari e amici, partecipa attivamente
alla scelta della vacanza.
Gli sciatori sono almeno di due tipi: gli sciatori veri e propri e quelli vacanzieri.
Quelli veri rappresentano meno di un quarto degli sciatori, sono adulti (il 65% ha tra 25 e 44
anni, mentre il 25% più di 44 anni) e di sesso maschile (52%). L’84% pratica esclusivamente sci da
discesa, mentre l’11% lo sci di fondo e il 3,9% lo snowboard. Sono gli amanti per eccellenza dello
sci e seguono un modello di consumo tipico degli anni ’70. Arrivano generalmente all’apertura degli
impianti e trascorrono tutta la giornata sulle piste, perché lo sci è l’unica loro motivazione. Questo
segmento appare progressivamente in fase di estinzione, in concomitanza con una generale
modificazione dei modelli di vacanza, che investe non solo il turismo montano. La percezione è che
lo sciatore puro tenderà a mantenere una quota di mercato soprattutto tra gli escursionisti del
weekend. L’evoluzione in atto consiste in una tendenza alla fruizione di attività sportive e ricreative
alternative o complementari allo sci tradizionale (es. escursioni in quota con gli sci, itinerari
enogastronomici, ecc.).
Sono molto più numerosi gli sciatori vacanzieri, che vanno in montagna non solo per sciare
ma anche per svolgere altre attività durante la vacanza, e che rappresentano oltre i due terzi degli
sciatori totali. Anche tra i vacanzieri prevalgano gli sciatori adulti (il 66% ha tra 25-44 anni, mentre il
21,4% dai 44 anni in su), aumenta il peso relativo dei giovani (12,6% tra 18 e 24 anni contro il 9,8%
tra gli sciatori puri) e soprattutto delle donne (53% contro 47%), il che indica come questi siano i
segmenti più interessati a svolgere anche attività al-ternative o complementari allo sci. Il 77,2%
pratica lo sci da discesa, il 12,4% lo sci di fondo e il 4,9% lo snowboard, mentre rispetto agli
sciatori puri aumenta la quota di coloro che pratica altri sport, come lo sci alpinismo, il trekking sulla
neve, (5,5% contro 1,2%) . Sono in rapida espansione. Dalla vacanza sulla neve si aspettano
stimoli ed esperienze, oltre l’avere piste innevate e impianti efficienti che continuano a essere
richiesti. La pratica degli sport invernali rimane uno dei motivi principali alla vacanza, ma sono
importanti anche il relax/contatto con la natura, la possibilità di fare passeggiate rilassanti e di
visitare parchi e aree naturali. Diversamente dagli sciatori puri, le ragioni di convenienza (es.
vicinanza alla residenza abituale, presenza di una seconda casa), sono meno importanti. Per
82
Diego Cason
questi clienti sono rilevanti le infrastrutture e servizi per lo sci; alloggio, ristorazione e infrastrutture
per altri sport; altre attività per il tempo libero; rapporto qualità/prezzo dei vari servizi;
Altri elementi di scenario che non intendo approfondire sono i seguenti:
L’invecchiamento della popolazione occidentale;
La concorrenza di altri tipi di vacanza invernale nell’emisfero sud, resa possibile dai bassi
costi dei trasporti aerei e dalla evoluzione dei mercati turistici nord e sud-americani, africani, del
sud est asiatico e dell’Oceania.
La necessità di preservare il capitale dell’offerta turistica estiva che non deve essere
disperso dal turismo invernale.
La consistente presenza di seconde case che indeboliscono le imprese turistiche
alberghiere.
I caratteri propri del turismo in Valle del Boite, molto condizionato da Cortina d’Ampezzo che
ha caratteri di domanda e di offerta particolari e che determina in modo rilevante i flussi dell’intera
valle.
Non è necessario trarre conclusioni da questa incompleta serie d’informazioni. Ci basta
cogliere l’essenziale, ovvero, che in sistemi complessi si interviene solo se ci sono tre requisiti:
1) la conoscenza accurata e condivisa delle variabili in campo che ci permetta di
valutare con serenità e accuratezza i vantaggi e gli svantaggi delle scelte da
operare;
2) la democrazia, non di facciata ma praticata, che governi le discussioni e le scelte
mettendo tutti i protagonisti nelle condizioni di farsi un’idea precisa (ovviamente
ognuno si farà la propria) sugli interessi comunitari e personali in gioco;
3) la montagna non serve a fare business fine a sé stesso, ben venga il business, ma
solo se si traduce in consolidamento e arricchimento delle comunità locali. Questo
non significa che non possano intervenire investitori estranei alla comunità locale,
anzi, sono i benvenuti ma devono fare i conti anche con gli interessi di chi in
montagna ci vive e lavora ogni giorno.
In merito all’unica questione, parzialmente affrontata, della possibile costruzione di nuovi
impianti tra Pelmo e Civetta forse i requisiti ricordati non sono ancora del tutto presenti. Appare
conveniente valutare con maggiore attenzione il problema e solo dopo prendere delle decisione
dalle quali dipende non sono il presente dei montanari ma anche il futuro dei loro figli e nipoti.
CONCLUSIONI
Anche se in modo non del tutto soddisfacente, da questa sommaria analisi appare evidente
che la montagna, in particolare, le Dolomiti bellunesi ha la necessità di trovare nuove forme di
fruizione del territorio. Queste nuove forme devono però essere adottate entro lo scenario
internazionale in cui si pongono e non possono applicare ricette che funzionavano in passato ma
che oggi non sono più in grado di soddisfare il bisogno di espansione dell’occupazione e di ricerca
di nuovi strumenti per la produzione di valore aggiunto locale. Bisogna essere consapevoli che in
assenza di una capacità innovativa, rispettosa della sostenibilità ambientale, per le comunità della
montagna bellunese non c’è che la prospettiva del declino e dell’estinzione. L’assenza di una
comunità viva e attiva in montagna, diversamente da quel che si può credere, produrrebbe, non un
ritorno a una vagheggiata rinaturalizzazione dei luoghi e dei territori, ma un progressivo degrado
dell’ambiente dolomitico, fortemente trasformato dall’opera degli uomini che hanno, nel tempo,
utilizzato diversi modelli di “sfruttamento” anche intensivo e devastante degli habitat. Le Dolomiti
diverrebbero un territorio privo di gestori interessati alla loro conservazione, facile preda di
speculatori che lo trasformerebbero in luogo di rendita immobiliare e in spazio ludico fasullo e privo
del principale carattere che deve avere una località turistica ovvero di essere abitato da comunità
dotate di cultura materiale che possano costruire relazioni paritarie e significative con gli ospiti
turisti ed escursionisti. Senza questa relazione umana i territori non sono luoghi e quindi non
trasmettono esperienze vissute ma solo visioni fugaci e poco significative. E, per questo,
insoddisfacenti e fatue. Si pone anche un altro problema, che riguarda proprio e solo la montagna
Le trasformazioni territoriali nell’evoluzione socio economica dei territori montani: rischi ed opportunità
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bellunese, ovvero, quello di una evidente e non più tollerabile sperequazione nelle distribuzione del
potere politico e quindi della capacità di governo delle risorse e del territorio tra regioni alpine
contigue, che sta compromettendo, forse in modo irreversibile, la tenuta sociale ed economica
delle comunità residenti nella montagna bellunese. E’ necessario, in tempi brevi, ripristinare
l’equilibrio, altrimenti un vasto territorio alpino, pieno di opportunità economiche, di formidabile
qualità ambientale, con una storia millenaria, si svuoterà dei suoi abitanti e perderà ogni attrattiva,
diventando una merce indistinta sul mercato del turismo e del consumo, per il quale ogni aumento
del valore della marce produce un decadimento di senso nelle relazioni che lo rendono utile e
possibile.
4
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linee strategiche”, in Pechlaner H., Manente M. ( a cura di ) (2002), Manuale del Turismo
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CISET (1998), Prospettive, sviluppo e promozione del turismo alpino. Il caso Valle d’Aosta”,
Rapporto Finale, Regione Valle d’Aosta - Assessorato al Turismo.
CISET (2001), Prospettive, sviluppo e promozione delle Dolomiti del Veneto”, Rapporto finale, APT
1 Dolomiti, Programma Leader II, - GAL Alto Bellunese, Azione 5 – Predisposizione di
strumenti di marketing e pianificazione strategica.
Gaido L. (1998), « Les stations de neige de l’avenir », Revue du Tourisme, No. 2/98.
4
Ho utilizzato miei precedenti studi:
Relazione sulla situazione socio economica della Provincia di Belluno. Analisi per la redazione del Piano territoriale ci
coordinamento della Provincia di Belluno. Maggio 2008
E anche lavoratrici… Rapporto sul lavoro femminile in Provincia di Belluno, ottobre 2007, Belluno.
Materiali per la redazione del piano di zona dell’ULSS n1 di Belluno, analisi territoriale e demografica. Ottobre 2010.
Molti dei contributi che ho riassunto sono il frutto del lavoro dei se-guenti autori che ringrazio:
Macchiavelli A., Il turismo della neve, in AA.VV. “Rapporto sul turismo italiano. Undicesima edizione 2002”, Mercury- ENIT,
ISTAT, Firenze 2002 (a).
Vanzi, G. (1994), “Il marketing del turismo nelle Dolomiti”, in Borghesi A. (a cura di), Il marketing delle località turistiche.
Aspetti metodologici e ricerche empiriche, Giappichelli Editore, Torino, pp. 205-249.
Bonardi Luca, Università degli studi di Milano, Istituto di geografia Umana, Le fluttuazioni recenti del clima alpino e le loro
conseguenze sul turismo invernale, pubblicato sul rapporto WWF, Alpi turismo e ambiente alla ricerca di un equilibrio.
All’interno del dossier, scritto Luca Bonardi – geografo, ricercatore dell’Università degli Studi di Milano, Riccardo Scotti
geologo, libero professionista, Rolf Burki, Hnas Elsasser, Bruno Abegg , Università di Zurigo, Giorgio Daidola, docente di
Ragioneria e Economia e Gestione delle imprese turistiche all’Università di Trento, Andrea Macchiavelli, Docente di
Economia del Turismo all’Università di Bergamo, Valeria Minghetti - CISET-Centro Internazionale di Studi sull’Economia
Turistica Università Ca’ Foscari (Ve), Riccardo Scotti - geologo, libero professionista, Chiara Tonghini , naturalista, ci sono
molti contributi dei vari autori che ho utilizzato per costruire il testo che vi propongo.
84
Diego Cason
Manente M., Cerato M. (2002), “Metodi e strumenti di analisi per le destinazioni alpine” in
Pechlaner H., Manente M. ( a cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring
University Press, Milano, pp. 121-140.
Manente M., Minghetti V. Cerato M. (2002), La domanda turistica nelle Dolomiti del Veneto.
Segmentazione del mercato per lo sviluppo di nuovi prodotti, in Pechlaner H., Manente M. (a
cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring University Press, Milano, pp. 421-446.
Minghetti V. (2002), “Il turista della neve in Italia. Profilo, esigenze, nuovi modelli di consumo”, in
Pechlaner H., Manente M. ( a cura di ) (2002), Manuale del Turismo montano, Touring
University Press, Milano, pp. 209-230.
Richards, G. (1996), “Skilled consumption and UK ski holidays”, Tourism Management, Vol. 17,
No. 1, pp. 25-34.
Adriano
Plati
eventi
meteorologici
particolari
per
l’anno
2002
http://www.meteobarzio.it/maggio2002.htm.
Attilio Adami, Valutazione dell’incidenza dei consumi idrici per l’innevamento artificiale nei confronti
del bilancio idrico dei bacini A.N.E.F. 1997.
Elise Dugleux, Impact de la Production del la neige de culture sur la ressource en la eau,
communication pour le Colloqui: “l’eau en montagne: gestion integree des hauts bassins
versants” (Megere 5, sept 2002).
Felix Hahn, Innevamento artificiale nelle Alpi (CIPRA international 2004) www.alpmedia.net
OCSE, “Rapporto sulle Performance ambientali, Italia” (2002).
Provincia di Sondrio Piano territoriale di coordinamento provinciale: norme di attuazione
(Settembre 2005).
Rossana Bosi, Le componenti ambientali prioritarie per il Parco Nazionale dello Stelvio: Le risorse
idriche, in “Progetto Agenda 21 Locale nel Parco Nazionale dello Stelvio - Relazione sullo Stato
dell'Ambiente "Le impronte nel Parco"; cap. 6, luglio 2003.
SERVIZIO GLACIOLOGICO LOMBARDO Masse glaciali e nivoglaciali lombarde 1998-2001 Una
revisione qualitativa della copertura glaciale regionale alla fine del XX secolo (inedito).
www.anpnc.com/recueil/cadre%20recueil.htm
www.yorkneige.com/pdf/snomax-italia.pdf
www.funivie.org
www.provincia.bz.it
www.provincia.tn.it
www.provincia .bl.it
http://gruppovalmalenco.valtellina.net
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
LIVESTOCK FARMING AND TOURISM INTEGRATION IN NORTH
WESTERN ITALIAN ALPS: EXPERIENCES AND CASE STUDIES
LUCA BATTAGLINI
UNIVERSITÀ DI TORINO
88
Luca Battaglini
In the last decades a step‐by‐step transformation process has interested the agriculture of
North‐Western Italian Alps. This change was structural but also socio‐economic being several
agricultural activities abandoned. Nevertheless, in this general context, animal production appears
to be able to maintain some integrity, due to the long history of its presence in the Alps revealing to
be one of the few economic opportunities for local resources still valuable (Orland, 2004; Bätzing,
2003). In this context initiatives are needed to respect the natural vocation of mountain areas,
which consists not only in the capability to bred animals, utilizing for their feeding medium and high
pastures, but even in the cleverness to hand down and keep alive local traditions and milk and
typical dairy productions too (Battaglini et al., 2006).
In the past, alpine farming period was preceded by middle mountain pastures staying, locally
called mountains. These places represented a strong source of forage productions which was
consumed by cattle from April until the beginning of June. Cattle herds, transferred from bottom of
valley stables, stayed on middle‐mountain grasslands until high altitude pastures vegetal growth,
after snow melting. During this period they consumed hay produced in the preceding year. In
autumn, when cattle left alpine farming areas, stopped a second time on these grasslands thus
exploited before returning to the valley bottom stables. Middle‐mountain pastures were generally
provided with buildings for cattle and farmers, since they constituted independent units of the
farming business, due to the transport and communication difficulties (Verona, 2006).
THE REASONS OF A GUIDED TOURISM
It has already been mentioned that mountain livestock farming has gained during the last
decades a multipurpose relevance. In this frame alpine farming ‐ seen as a complex of pastures,
rural buildings, animals, typical products and traditions – represents a resource not only for the
shepherd but also for the whole population of that region, for its touristic, environmental, landscape
and historic‐cultural values (Table 1).
Table 1. The cultural alpine-pasture heritage
Vernacular architecture (barns, shelters, cheese-houses, sheds, etc.)
Semi-natural elements (wells, hedges, etc.)
Tangible heritage
Biologically based cultural heritage
Non-tangible heritage
Artefacts (fountains, bridges, dry stone border walls, fences, etc.)
Tools (for transport, milk processing, animals handling, etc.)
Domestic autochthonous breeds
Pastoral and anthropogenic cultural landscape
animal knowledge: ethology, physiology of
Knowledge and lore
domestic and wild animals;
related to pastoral and
technological knowledge on foods: cheese
dairy activities and
making and storage of dairy products,
relationship with nature
preparing and preserving meat
botanical knowledge: toxicological, food,
technological properties of plants and
derivates, phenological stages, growing
season, etc.
environmental knowledge: hydrological,
soil, geology, meteorology, etc.
Linguistic heritage
toponymy
lexicon
Folk heritage
rituals of propitiation and fertility, legends,
taboos, supernatural presence, etc.
For these reasons and for the intimate and harmonic interactions between man and Alps,
during several generations, the cultural alpine‐pasture heritage needs to be protected.
Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi
89
Terracing, woods and pastures care, water management, vernacular architecture, local
1
breeds are typical examples thereof. As a consequence alpine farming reaches a relevant cultural
meaning for livestock farming and e.g. cheese‐making techniques and needs to be preserved.
RURAL TOURISM, ECOMUSEUMS
Rural tourism harmoniously combines specific natural (e.g., farmed and forested
environments), cultural-educational (e.g., traditions) and socio-economic (e.g., local cooperation)
features in a small-scaled, nature-friendly and ethno-cultured way. Such a combination generally
allows rural tourism to be considered sustainable (Gopal et al., 2008).
Rural tourism mainly develops in areas not traditionally considered tourism destinations, and
thus generally less frequented. Urbanization, that is the population shift from rural to urban areas
(historically from agricultural to industrial ones), has determined also the need of city dwellers to
temporarily escape from the anonymous, crowded and stressful metropolis. While searching
tranquility, they rush to the countryside to relax, to live a purer and simpler life, to recover a lost
physical and mental relationship with nature. The attractiveness of rural areas for tourism and
recreation has first of all to be consequently associated with the image of rurality per se (Roberts
and Hall, 2001).
The importance attributed to rural tourism is relatively recent, deriving from the
ascertainment that abandonment can negatively impact the territory as well as excessive
exploitation can do. This kind of tourism can have several advantages on rural areas and their
whole development since it is often linked to projects aimed at valorizing and promoting, by means
of a responsive fruition, the related territories, the latter being the expression of unique and
localized cultures.
Tourists are generally offered a complete knowledge and understanding of the territory
through an integrated system of different kinds of services. Among them, a key role in the
sustainability attempt of rural tourism can be played by rural museums. According to the
International Council of Museums, “a museum is a non-profit making, permanent institution in the
service of society and of its development, and open to the public, which acquires, conserves,
researches, communicates and exhibits, for purposes of study, education and enjoyment, material
evidence of people and their environment” (ICOM Statutes, 2007). Rural museums always focus on
themes related to the rural world (country life, landscape, ethnography, folklore, agricultural and
breeding systems, etc.) (Boatti, 2004). They act as agents of local development as well as local
centres whose main purpose is the preservation of heritages otherwise destined to disappear,
making them available for collective use. They operate as attractive elements especially for a
peculiar public aware and desirous to discover (or re-discover) the identity of typical territories,
cultures, and traditions.
The ecomuseums represent an important advancement in the evolution of rural museums.
They were created about forty years ago as specific institutions dedicated to the promotion and
valorisation of the economic-cultural and environmental development of a territory, a job or a
population. They are able to meet the need of local communities to go through again and fix into
memory their own history, to pursue their own roots and to establish their own identities (Sibilla and
Porcellana, 2009). Ecomuseums promote the preservation, conservation and safeguarding of
heritage resources in situ, thus exerting an important social role by representing the culture of their
local communities (Corsane et al., 2007).
1
La biodiversità zootecnica alpina
L’allevamento dei ruminanti e le problematiche ad esso connesse hanno un ruolo indubbiamente importante
nell’economia agricola delle alpi nord-occidentali. Negli ultimi decenni, è stato privilegiato l’allevamento di razze cosmopolite
altamente produttive a scapito di razze autoctone meno competitive ma molto ben adattate ad ambienti difficili come quelli
montani: tuttavia, attualmente, molti allevatori si stanno indirizzando verso la salvaguardia di queste razze. Esse, infatti,
oltre a costituire un importante patrimonio sotto l’aspetto culturale e della tradizione, hanno un ruolo fondamentale nella
gestione del territorio, attraverso la capacità di sfruttare in modo ottimale anche risorse pastorali molto povere che altrimenti
rimarrebbero inutilizzate. L’abbandono delle aree un tempo pascolate, soprattutto nelle zone montane, è difatti una delle
cause più evidenti del dissesto idrogeologico, dello sviluppo degli incendi boschivi e della semplificazione del paesaggio con
la formazione di coperture boschive di bassa qualità. Per questi motivi l’alpicoltura, prevalentemente con razze locali deve
essere incoraggiato, soprattutto laddove le più selezionate non trovino le condizioni ambientali e gestionali più confacenti
per assicurare idonea produttività e buon adattamento nel contesto territoriale.
90
Luca Battaglini
Since 1970s ecomuseums have become essential components of the museum scene in
several European (mainly France, Italy, Spain, Portugal, and Sweden) and extra-European (mainly
Canada, Mexico, Brazil, Japan, and China) countries (Maggi and Falletti, 2000). Especially in the
last years they have gained broad and increasing interest by both public and local authorities.
Ecomuseums revitalize, study, document, collect, expose, preserve and let the public know a given
heritage. In this sense, the basic tasks of an ecomuseum do not differ from those of a “traditional”
museum. However, the handed down heritage is identified by the ethnological and historical
patrimony of the related territories (Grasseni, 2010). Moreover, the typical character of
ecomuseums is active, dynamic and evolutive rather than static, as instead normally occurs in the
case of “traditional” museums (Babić, 2009).
The interpretation that ecomuseums are able to give to the heritage and local history is
holistic and interdisciplinary (Davis, 1999). In order to hand down local evidences and memories,
ecomuseums recognize the value of all records, both material (e.g., objects widely used in past
times whose meaning and utility are now vanishing) and non-material (oral histories, intangible
heritage) ones, that identify people as inhabitants of a distinct place.
The community participation in the definition and management of the museological practice
should be an appropriate, essential and intrinsic feature of this kind of museology (Kreps, 2008).
This means that local people should be actively involved in the activities carried out by the rural
museums, directly participating to their life and not just suffering the tourist flux as something alien
from their interests (tourism colonization) (Maggi, 2009). In rural museum, the local community and
its territory, can be consequently considered a well recognizable historical-anthropological unit.
Rural museums provide a sustainable management of tourist practices. Differently from the
unreflexive consumer attitude that characterize most visitors of “traditional” museums, tourists in
rural museums have the possibility to come back to past times and have direct and unique
experiences of places, domestic habits and everyday lifestyle of local people.
Great importance is attributed by rural museums also to educational activities. Education is
seen as a primary tool aimed at i) awakening the population towards a sustainable development, ii)
positively modifying the population behaviour, iii) stimulating the participation and a sense of
individual responsibility in every citizen (especially in the younger ones) for the solution of the most
important environmental problems. Schools can find in rural museums very interesting and
important meeting points for didactic experimentation, education to the future, participatory
processes, local development and transversality.
Rural museums often play as well an active role and involvement in research projects
concerning the natural and cultural heritage, by collaborating with universities and research
centres, sometimes also providing facilities to undergraduates (e.g., stage opportunities).
HUSBANDRY-RELATED PRACTICES IN MOUNTAIN AREAS: TWO RURAL MUSEUMS
EXPERIENCES IN NORTH-WESTERN ITALIAN ALPS
The study of mountain territory and of its economic and social evolution has a great
importance especially in the present historic situation, during which industrialization and progress
are more and more quickly expanding themselves (Battaglini et al., 2010). Since the end of the XIX
century an intense negative demographic trend associated with the ageing of local residents has
characterized the alpine mountain areas. Such trend has been essentially due to the need of the
mountain populations to improve their social position by finding new job opportunities and better
public services in plains and big cities (Bätzing, 2005). The mountain depopulation has generated
negative effects on local environment, economy and culture. From a socio-economic point of view,
the demographic decline progressively impoverished the alpine valleys, depriving them of local
entrepreneurship and workforce by determining retirement from business and services. Moreover,
it depauperized the local communities, gradually threatening the rural identity and the traditional
cultural values.
Rural museums may represent useful tolls in order to avoid the loss of antiquities, written
and oral sources, historical, literary, and photographic documents, that are essential elements of
values and traditions of mountain areas. They may constitute one of the primary connections
among the territory, its inhabitants and visitors as well, reversing the above mentioned negative
trend by means of a sustainable tourism.
In the alpine territories, the rural museums experiences are numerous and widely diversified.
Each museum offers a unique proposal for the exploration of the related mountain territory. Visitors
Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi
91
are allowed to discover, through unique and different trails, both local inhabitants’ activities and
places, as well as the elements of rural culture and of the alpine civilization.
Here is given an insight into two representative museum initiatives carried out in Piedmont
(North-Western Italian Alps) in the last ten years. Piedmont extensively contributed to the
spreading of ecomuseums in Italy by enacting the first Italian legislation on the role and constitution
of this museological practice in 1995 (Pressenda and Sturani, 2007). Today, the ecomuseums
network in Piedmont is widely developed: twenty-five ecomuseums have already been founded
while seven other ones are going to be set up on the regional territory.
The two museum projects that will be presented in the next chapters were created with the
purpose to protect and promote animal biodiversity and husbandry-related activities in mountain
areas. They aspire to deepen, divulge and develop farming activities that are deeply linked to the
territory, being able to exploit natural resources in marginal areas and to play a fundamental role in
the safeguard and conservation of mountain landscapes and typical animal-derived food
productions (Renna, 2010). The two museum initiatives respect the natural vocation of these
farming activities, which consists not only in the capability to till and bred animals, but even in the
cleverness to hand down and keep alive local agricultural- and husbandry-related traditions
(Battaglini et al., 2006).
Ecomuseum of Sheep Farming (Ecomuseo della Pastorizia2) – The Ecomuseum of
Sheep Farming was officially established in 2000 by the Piedmont Region according to the
th
Regional Law n° 31 of 14 March 1995. It was created, as it usually happens in the case of
ecomuseums, as a result of an agreement between the local institutions and the local community.
The ecomuseum is located in the Stura di Demonte Valley, a typical mountain rural area (Cuneo
province). It represents one of the most important outcomes deriving from more than twenty years
of work carried out by the Comunità Montana Valle Stura (local authority) and aimed at the
rehabilitation and development of sheep farming, an economic and cultural practice typical of the
valley (Martini and Pianezzola, 2001).
The very support of the ecomuseum has to be sought in the recovery and revitalization of the
Sambucana (also known as “Demontina”) sheep breed. It is therefore necessary to understand the
story of this autochthonous breed.
The names Demontina and Sambucana derive from Demonte and Sambuco, two villages
located in the Stura di Demonte Valley. The main characteristics of the Sambucana breed are
rusticity, agility, and hardiness, which make it particularly adapted to the poor, rocky, and marginal
pastures and the harsh climate conditions typical of the valley (Brignone and Martini, 2001).
th
During the second half of the 20 century, another sheep breed native of the Piedmont
Region (the Biellese), characterized by bigger size, was introduced by the local shepherds in the
Stura di Demonte Valley in order to obtain, by means of a cross-breeding practice with the
Sambucana, a higher birth weight of the lambs. The main rationale of this practice was to increase
the shepherds’ economic profits since the lambs were sold by their weight. Unfortunately, the
cross-breeding resulted in increased weight of lambs due to larger and heavier bone structure
rather than to major growth rate and meat yield, and both meat and wool quality suffered a
significant deterioration. Even worse, the number of Sambucana purebreds significantly decreased
and in the Eighties the breed, with no more than 80 survived purebreds, was then inserted in the
FAO extinction-threatened breeds list (FAO, 1980).
The Ecomuseum of Sheep Farming is part of a composite project thought and developed by
the local authorities in collaboration with the local inhabitants, who both intensely wanted to: i)
2
L’Ecomuseo della pastorizia è ufficialmente istituito nel 2000, ma la sua nascita risale, in un certo qual senso, a molti anni prima, a
quando la Comunità Montana Valle Stura ha intrapreso una strada di rinascita culturale ed al contempo di rivitalizzazione economica
dell’attività della pastorizia e di tutto il contesto ad essa collegato. L’Ecomuseo nasce da una parte, con il recupero della razza
Sambucana che, autoctona della valle, negli anni ‘80 rischiava di scomparire e dall’altra, con la riscoperta di tutta una cultura e
tradizione legata al mondo pastorale della valle Stura. Negli anni, nasce dapprima il consorzio l’Escaroun, poi una cooperativa per la
diffusione e commercializzazione della carne di agnello sambucano ed anche la lana viene trasformata in manufatti di ottima qualità.
Parallelamente si sviluppa il discorso del recupero culturale con l’avvio di numerose ricerche in valle ed in collaborazione con
l’università di Aix en Provence e la Maison de la Transhumance di Saint Martin de Crau. Ne deriva in primis la mostra, accompagnata
da una pubblicazione, “La Routo – sulle vie della transumanza tra le Alpi e il mare” che ha coinciso con l’inaugurazione ufficiale
dell’ecomuseo. (Martini S., Brignone A., 2007, La pecora Sambucana: il ruolo dell’Ecomuseo della Pastorizia per lo sviluppo di una
razza tradizionale di una vallata alpina, Comunità Montana Valle Stura di Demonte ed Ecomuseo della Pastorizia, Pontebernardo -CN).
92
Luca Battaglini
recover their autochthonous sheep breed, whose above-mentioned characteristics of rusticity,
agility, and hardiness were highly appreciated by the local shepherds, and ii) rediscover the entire
culture and the traditions linked to the pastoral activities in the Stura di Demonte Valley.
The ecomuseum is composed of well-defined spaces that are sited into two buildings
standing in the centre of the small alpine hamlet of Pontebernardo, village of Pietraporzio, only
about five kilometers from the French border as the crow flies. This hamlet, located at 1,300 m
a.s.l., was at once identified as particularly suited to host the ecomuseum since it is the last
permanently all year-round inhabited village in the valley and many residents of the village are still
engaged in livestock husbandry and sheep farming activities.
The Comunità Montana acquired a first building, renovated and prepared it to accommodate
groups of visitors, exhibitions and educational activities. In 2006 at the ground floor of this first
building a small and modern cheese-factory was set up. The cheese-factory allows a local family of
shepherds to prepare the typical cheese called “toumo”, prepared with Sambucana raw milk only.
Visitors are allowed to buy the toumo cheese from autumn to late spring, while cheeses are not
sold in summer when the flocks are transferred to high altitude alpine pastures. The same cheesefactory is also an important teaching facility since the visiting schools are allowed to directly
observe the cheese-making process, through transparent walls.
Table 2. A community-based project for a local sheep preservation
Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi
93
Inside the same building, an osteria (restaurant) has been recently opened, where visitors
can taste traditional recepies and local products, including the famous guaranteed “Sambucano”
lamb. The top floor of the building is instead used as a laboratory and a room for temporary
exhibitions, the latter especially offered to visitors during the season of more intense tourist flow.
A second wider building, located in the proximity of the first one, has been acquired and
completely renovated by the Comunità Montana as well.
On its ground floor a Rams Centre was established in 1988 thanks to the support of a
specific European financing (Council Regulation No 2078/92 on agricultural production methods
compatible with the requirement of the protection of the environment and the maintenance of the
countryside). The Rams Centre was created to perform a genetic selection program (performance
test of rams), with the primary objective of recovering the genetic heritage of the pure Sambucana
breed. Since its establishment, the Rams Centre has been cared of by a family of shepherds living
in the village and has been administered by the Consortium Escaroun (whose name refers in the
local Occitan language to a small group of sheep that leave the flock to find the highest and best
pastures). The Consortium was founded by the local authority and the Sambucana sheep breeders
in 1988 as well. After 20-years in situ preservation and recovery program of the Sambucana sheep
breed, the number of animals listed in the Official Register of the breed significantly increased. In
fact, while only hundreds of Sambucana purebreds were reared in the Stura di Demonte Valley in
the early ‘80s, about 5,000 purebreds can be found today (Cornale et al., 2010).
The first floor of the second building houses the Documentation Centre of the Ecomuseum. It
deals with the theme of pastoralism and transhumance, and it is made up of a permanent and
extensive exhibition called “Na Draio per Vioure”, which translated from Occitan language means
“a path to live”. The “Draio” is precisely the path that the visitor is invited to walk on to find out how
the tradition of pastoralism in the Stura di Demonte Valley is something still very “alive” (Lebaudy,
2010).
The Documentation Centre presents a long journey over the centuries to discover
pastoralism from its birth to its evolution in different areas around the Mediterranean countries. The
Museum experience is fun, “alive” and suitable for younger visitors. It shows in words, pictures,
videos, research publications and reconstructions the history and the development of sheep
farming. Among reconstructions, it is possible to discover different kinds of materials belonged to
the local shepherds and a very popular and attractive (especially for children) faithful reproduction
of a shepherd’s hut in alpine pasture, where the visitor is invited to climb.
One of the distinguishing features of the Documentation Centre of the Ecomuseum of Sheep
Farming is the direct link with research activities, carried out with Italian and French partners, such
as the University of Torino, the University of Aix en Provence, the Maison de la Transhumance, the
Chambre d’Agriculture des Boches, and the Musée Dauphinois. The research activities were
initially focused on the local reality, but today the ecomuseum can be properly considered a centre
for research, documentation and dissemination of knowledge about the entire world of pastoralism
3
in the Western Alps and adjacent regions (e.g. the Community maps program, 2002 ).
Tourists are allowed to buy precious textiles made with pure Sambucana wool in the store
arranged in the same building. Some research aimed at enhancing the wool and preserve old
customs related to its processing was carried out by the Consortium Escaroun in collaboration with
the famous wool company F.lli Piacenza located in Pollone (Biella district, Piedmont). The results
of this research project evidenced that the Sambucana wool is thick, light and bright, thus showing
a general relatively good quality. For this reason, the same company started to produce sweaters,
scarves, waistcoats, plaids, socks, caps, and gloves made with pure Sambucana wool. In the last
3
The Community Maps program – In 2002 the Ecomuseum of Sheep Farming was chosen among other Ecomuseums of
the Piedmont region to be involved in a test case aimed at creating a “community map”. The community map is a
participatory process, developed in England in the early Eighties (with the name of Parish Map) and then thoroughly tested
in various Ecomuseums worldwide. The community map is an innovative tool of knowledge and enhancement of the
landscape patrimony in relation to local and sustainable development since it aims at reproducing, in its heterogeneity, the
noteworthy social and cultural elements of the territory. The map is generally a specific cartographic/photographic
representation (but it could be any other product) directly created by the local inhabitants.
In order to give birth to the community maps of its territory, the Ecomuseum of Sheep Farming was also technically and
scientifically supported by a group of experts in museology practice (the so-called “Laboratory Ecomuseums”) established in
1998 by the Piedmont Region (Clifford et al., 2006). The community map of Pietraporzio has been the first one realized by
an ecomuseum in Italy.
94
Luca Battaglini
few years about 40 tons of wool have been processed. It has to be considered that in Europe local
sheep wool has been severely neglected, representing more often a cost instead of a resource,
and that the introduction of fine wool from extra-European countries has almost completely
excluded the autochthonous breeds from the production of textiles. The remarkable technical and
commercial results obtained by the Consortium Escaroun thanks to the collaboration with the F.lli
Piacenza company especially resulted in positive implications for the shepherds who were finally
able to commercialize a product otherwise destined to be sold off at their expense.
Museum of Alpine Farming and Alpine Pastures Without Borders (Museo dell’Alpeggio e
4
Alpeggi Senza Confini )
The projects worked on a territory still alive, where already other recent initiatives aimed to
know alpine farming structures and their productions, such as Bettelmat cheese (registered mark)
and Ossolano cheese, whose production areas and technologies have been widely studied
(Battaglini et al., 2001).
These studies pointed out that in this alpine valley as to yield and quality of the milk destined
to local cheese production it is possible to see important differences according to the management.
Evident effects on quality were related to the breeding season: during alpine pastures season when
animals utilised fresh grass were observed important increases of monounsaturated and
polyunsaturated fatty acids and decreases of saturated ones with beneficial effects on human
health as observed by other Authors in different alpine regions (Ferlay et al., 2002; Dewhurst et al.,
2006).
As a consequence in Ossola valley alpine pasture seems to have a determinant role in milk
quality. That suggested an exact trend in choosing animals to be bred in such mountain
environments preferring breeds less exposed to important quality variation, particularly negative for
a typical cheese making.
On the other hand, it can be observed that more extensive breeding systems could
guarantee typical productions, animal welfare and a good environment management.
The Museum of Alpine Farming and the excursionist itinerary called “Alpine Pastures
Without Borders” are parts of the European Community Interreg IIIA 2000-2006 project between
Italy and Switzerland. This Interreg project was thought with the main purpose of creating a cultural
system for the spread of the alpine pasture knowledge. Its main actions were dedicated to the
development and promotion of mountain territories and to the enhancement of environment,
culture, crafts, and local products.
After a feasibility study, the project started in January 2006. Two focal points of reference
were identified in the Museum of Alpine Farming on the Italian side, and in the Gottardo dairy
factory on the Swiss side. These facilities, opened all year round, were thought to be connected by
the itinerary “Alpine Pastures Without Borders” that crosses the main pastures of the related crossborder mountain territories.
The Museum of Alpine Farming is hosted in the protected area of the Veglia-Devero Natural
Park, in a former abandoned station of the cable that connected Goglio to Devero (sold under
licence by Enel, the largest Italian electricity company). The premises, located in the Baceno
commune, were appropriately adapted to recreate a typical alpine environment.
4
L’iniziativa Museo dell’alpeggio si è posta l’obiettivo di favorire e valorizzare l’attività agricola di montagna,
rendendo solido il legame tra sviluppo rurale e tutela del territorio, incoraggiando la polifunzionalità degli
alpeggi, sostenendo le produzioni agro-alimentari di qualità e compatibili con l’ambiente. I principali effetti
sono stati: a) creazione di un sistema culturale transfrontaliero per la diffusione della conoscenza degli
alpeggi; implementazione di una rete museale con collegamenti transfrontalieri per la conoscenza del
patrimonio naturale degli ambienti d’alpeggio (analogie tra Italia e Svizzera); b) valorizzazione culturale e
turistica dell’alpeggio (identità culturale degli operatori, professionalità, ruolo della componente femminile, dei
giovani, miglioramento dei rapporti sociali e delle opportunità e relazioni interpersonali); c) impatto sul turista,
realizzazione di gratificazioni non solo economiche dell’alpeggiatore (sviluppo di interazioni socioculturali
positive per un rinnovato e recuperato prestigio personale dell’operatore alpicolturale); d) ricadute in ambito
didattico universitario (soggiorni, stage, tirocini,ricerche sul tema dell’alpeggio) (Battaglini et al., Regione
Piemonte, 2007)
Attività zootecniche ed integrazione turistica sulle Alpi
95
The realization of the museum was possible thank to the collaboration of the inhabitants of
the valleys, the technicians working in the Veglia-Devero Natural Park, experts in anthropology and
animal science, as well as other people interested in the project. All these people actively
contributed to further enhance a public good belonging to the whole community. The museum was
created to meet the need of presenting to a wide audience the alpine pastures and their activities,
as significant elements of the alpine cultural identity and strategic resources for the alpine mountain
economy. The museum is in effect a Documentation Centre dedicated to what the pasture formerly
was and what the pasture still represents today. The museum covers various communication and
dissemination tools: audiovisual, library materials, photographs, multimedia, objects and
equipments typically used at alpine pasture. They conveniently describe the protagonists, working
activities, animals, everyday life, traditions and typical products by looking back to the past and
projecting to the future. These popular and cultural initiatives linked to the world of alpine pastures
can also offer local herders the possibility to meet people totally alien to their rural reality.
The itinerary “Alpine Pastures Without Borders” connects with excursionist signs nineteen
alpine pastures. Eleven of them (Alpe Cornù, Pian dùl Scricc, Alpe Buscagna, Alpe Sangiatto, Alpe
Satta, Alpe Forno, Alpe Vannino, Alpe Morasco, Alpe Bettelmatt, Alpe Kaste and Alpe Regina) are
located in the Italian territory of the Veglia-Devero Natural Park, while the remaining (Val d’Olgia,
Stabbiascio, Valleggia, Stabiello Grande, Cristallina, Piano di Pescia, Alpe Ruinò and Cascina
Nuova) are located inside the near Swiss territory of the Bedretto Valley.
Informative panels containing general information about the itinerary are positioned at some
most important tourist attractions of the area, such as the main entrance of the Park (Alpe Devero),
at the San Giacomo Pass, at the Gottardo dairy factory, at the Social Antigoriana dairy factory of
Crodo, at the Cooperative of Formazza, and at the Museum of Alpine Farming in Baceno. Other
panels reporting more specific and detailed information are placed on the walls of each individual
pasture.
The itinerary is a prod for tourists and mountain excursionists to visit these Alpine pastures
and their infrastructures, acquiring information on the mangement of pasture lands. Visitors can
consequently be connected with rural realities and the local people, fully understanding their
rythms, problems, needs and reasons. Moreover, the itinerary invites toursists to approach
consciously to the rural mountain world in order to totally appreciate the real value of animal
derived food products besides their mere nutritional and sensory characteristics.
Besides the realization of the Museum and of the excursionist itinerary, the project aimed at
the development of other connected initiatives. Firstly, it is possible to highlight didactic and
research activities (organization of stages and research projects concerning farming systems,
forage species and husbandry-related techniques) in collaboration with the University of Torino.
Moreover, tourist activities during both winter (snowshoe trips, cross-country and alpine skiing) and
summer months (trips at alpine pasture where tourists can interact with animals and farming
activities) are planned each year, as well as excursions specifically dedicated to children attending
primary schools.
OTHER PROJECTS WITH TOURISM IMPLICATION
Sheep-breeding and transhumance. A guide for tourists
“Sheep-breeding and transhumance: a guide for valorisation and safeguard of Piedmont
autochthonous endangered breeds” is a project financed by “Sinapsi scrl”(Turin) and supported by
“Scienze Zootecniche” Department of Turin University, R.A.R.E (Association of autochthonous
endangered breeds), “La Nuova Antichi Passi” and the Natural Park of Avigliana Lakes. The
contribution concerns a study about autochthonous endangered breeds bred in Susa Valley(Turin),
Pellice Valley(Turin) and Stura Valley(Cuneo): Frabosana and Sambucana sheep. After the
selection of the breeds, it has been looked for three farmers that use to take transhumance from
the valley to the summer grazing in the mountains, passing through interesting places by the
historical, cultural and naturalistic point of view.
During the project these places have been visited and all the information collected has been
included in a guide with a map of the flocks and flock roads. This guide, suitable on the web
(http://www.arcanova.info/progParalleli_pastorizia.htm) is also enriched by some livestock
information about breeds, breeding techniques and farm products.
(cfr. http://www.sozooalp.it/fileadmin/superuser/quaderni/quaderno_4/17_Grassino_SZA4.pdf)
96
Luca Battaglini
ProPast: a project for the sustainability of pastoral breeding in Piedmont
The wolf presence in the Maritime Alps of Piedmont dates back to the beginnings of the
Nineties. Due to the wolf successful dispersion all the valleys of the Cuneo province have been
eventually colonized with the presence of stable packs. Many areas of the mountains of the Turin
province have been colonized as well. During the last years the number of heads preyed on single
attack has decreased due to the adoption of protection measures. The incidence of predation
remains high in the areas of new appearance of wolves or when effective protection measures are
lacking. Furthermore even where protection tools are introduced (guard dogs, electrified fences)
predation does not cease and it involves not only losses of killed and wounded animals but also
uneasiness and other indirect costs that are only partially counterbalanced by the managed pasture
compensations payments. The need of all day round guarding and of an increased number of
shepherds raises manpower costs especially in the case of great transhumant sheep flocks. On the
other side the small dairy farms face new difficulties in order to manage both animal shepherding
and cheese-manufacturing or hay harvesting in the bottom valley. A three years project has been
sponsored by the Regione Piemonte administrative agriculture offices for supporting the pastoral
systems (‘Sustainability of pastoral breeding in Piedmont: individualization and realization of
intervention and support lines‘) are presented. The project aims to assess the middle and long term
impact of the awkward ’cohabitation‘ with the predator on the different types of pastoral systems.
The predation related constraints on flocks management will be evaluated in terms of decline of
flocks, livestock units, and grazed surfaces, as well as a loss of values like traditional knowledge
and practices, local high quality products, genetic diversity and landscape quality.
Other initiatives and events on AmAMont (http://www.amamont.eu/),
(http://www.sozooalp.it/) and Dislivelli (http://www.dislivelli.eu/).
SoZooAlp
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
LE PROPRIETÀ COLLETTIVE DELL'ARCO ALPINO: UN ESEMPIO DI
GESTIONE EFFICIENTE DELLE RISORSE NATURALI
ELISA TOMASELLA
AVVOCATO IN BELLUNO
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
1. La parabola delle monete d’oro conosciuta anche come parabola dei talenti
(vedi Luca 19, 11-27)
"Così infatti sarà il regno di Dio.
"Un uomo doveva fare un lungo viaggio: chiamò dunque i suoi servi e affidò loro i suoi soldi.
A uno consegnò cinquecento monete d'oro, a un altro duecento e a un altro cento: a ciascuno
secondo le sue capacità. Poi partì. Il servo che aveva ricevuto cinquecento monete andò subito a
investire i soldi in un affare, e alla fine guadagnò altre cinquecento monete. Quello che ne aveva
ricevute duecento fece lo stesso, e alla fine ne guadagnò altre duecento. Quello invece che ne
aveva ricevute soltanto cento scavò una buca in terra e vi nascose i soldi del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone ritornò e cominciò a fare i conti con i suoi servi.
Venne il primo, quello che aveva ricevuto cinquecento monete d'oro, portò anche le altre
cinquecento e disse:
- Signore, tu mi avevi consegnato cinquecento monete. Guarda: ne ho guadagnate altre
cinquecento.
"E il padrone gli disse:
Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più
importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore.
Poi venne quello che aveva ricevuto duecento monete e disse:
- Signore, tu mi avevi consegnato duecento monete d'oro. Guarda: ne ho guadagnate altre
duecento.
E il padrone gli disse:
Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più
importanti. Vieni a partecipare alla gioia del tuo signore!
Infine venne quel servo che aveva ricevuto solamente cento monete d'oro e disse:
Signore, io sapevo che sei un uomo duro, che raccogli anche dove non hai seminato e che
fai vendemmia anche dove non hai coltivato. Ho avuto paura, e allora sono andato a nascondere i
tuoi soldi sotto terra. Ecco, te li restituisco.
Ma il padrone gli rispose:
Servo cattivo e fannullone! Dunque sapevi che io raccolgo dove non ho seminato e faccio
vendemmia dove non ho coltivato. Perciò dovevi almeno mettere in banca i miei soldi e io, al
ritorno, li avrei ritirati con l'interesse.
Via, toglietegli le cento monete e datele a quello che ne ha mille. Perché chi ha molto
riceverà ancora di più e sarà nell'abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che
ha. E questo servo inutile gettatelo fuori, nelle tenebre: là piangerà come un disperato”.
Anche ai regolieri è stato consegnato un vasto patrimonio che ha consentito alle genti della
montagna bellunese di sopravvivere in un ambiente ostile.
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
103
Di fronte a questi immensi patrimoni si possono assumere diversi atteggiamenti: ci si può
impegnare per farli fruttare, oppure, si può scegliere di non fare nulla e di non gestirli, lasciando
che per essi provveda direttamente la Divina Provvidenza. Non dobbiamo però dimenticare che la
Provvidenza de “I Malavoglia”, è naufragata, non una volta, ma addirittura due.
La visione di Verga è certo tragica e pessimistica e, forse, l’accenno che ho appena fatto
alla sua opera può non spronare i regolieri all’impegno, visto che i personaggi dei romanzi dello
scrittore siciliano, nonostante i loro sforzi, non migliorano mai le proprie condizioni.
Forse potrebbe giovare di più l’accenno all’opera di Max Weber “L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo”, visto che il profitto generato dall’impegno è per l’Autore segno tangibile
della grazia divina.
2. I regolieri, tuttavia, non hanno mai assunto nei confronti del proprio patrimonio un
atteggiamento passivo. La gestione collettiva, l’amministrazione comune, dei pascoli e delle foreste
ha permesso la sopravvivenza in montagna. In uno stato di natura dove non erano assicurate
pace, sicurezza e cibo, i primi regolieri, hanno rinunciato alla loro egoistica libertà per condividere
le ricchezze del suolo e mettere assieme le loro forze per contrastare l’ambiente. Il risultato di
queste rinunce non ha portato alla costituzione di uno stato assoluto, come quello teorizzato da
Hobbes, ma alla costituzione di una comunità che si è auto-imposta delle regole di gestione dei
beni in modo tale da consentire a tutti di avere i mezzi di sussistenza. I principi fondamentali che
hanno costituito l’ossatura principale della vita regoliera erano costituiti dall’equità e dalla
solidarietà.
3. Il fulcro della vita regoliera era appunto rappresentato dalla gestione dei beni
nell’interesse dell’intera collettività. Nella comunità ogni regoliere partecipava della gestione dei
propri beni, che non era dunque demandata a nessuna autorità esterna. Anche oggi la forma di
democrazia presente all’interno del mondo regoliero deve far riflettere. A differenza degli enti locali
dove, aldilà dell’elezione dei rappresentati della comunità, i cittadini non sono chiamati ad
esprimersi direttamente in ordine all’amministrazione della cosa comune, l’assemblea dei regolieri
non solo controlla l’operato delle proprie commissioni amministrative, ma addirittura si esprime in
ordine alle scelte di indirizzo più importanti per la gestione dei beni regolieri. L’esempio più forte
che mi piace citare è costituito dall’assemblea dei regolieri delle Regole d’Ampezzo chiamata ad
approvare il Piano ambientale del Parco.
4. Dunque, alla vita della Regola sono chiamati a partecipare tutti e l’interesse che viene
perseguito non è solo quello immediato, perché le risorse non vanno bruciate o consumate, ma
vanno conservate, di modo che le generazioni future possano anch’esse godere di questi immensi
patrimoni. Il regime di tipo pubblicistico che regge i beni collettivi ha impedito, infatti, la divisione dei
beni e la distruzione della ricchezza. Si tratta di un regime autoimposto (esempio i colonnelli di
Mareson).
Tra il particolare regime che caratterizza le proprietà collettive e la loro destinazione
all’attività agricola, il legislatore riconosce, infatti, un legame profondo, a tal punto che una volta
determinato il mutamento di destinazione si verifica allo stesso tempo uno dei presupposti per
l’estinzione del diritto. L’inalienabilità, l’inusucapibilità e l’indivisibilità sono giustificate dalla
persistenza del vincolo di destinazione dei beni collettivi alle attività agro-silvo-pastorali, poiché nel
tempo il regime di appartenenza collettiva delle terre ha dimostrato di costituire un modello di
gestione efficiente delle risorse agricole.
5. Nella proprietà collettiva, finalità produttive e ambientali si coniugano perfettamente.
La sopravvivenza di tale istituto dimostra come questo modello proprietario, garantendo
l’efficiente gestione dei pascoli e delle foreste montane meglio del dominio individuale, abbia
preservato il territorio dall’abbandono e conservato l’integrità delle risorse anche in favore delle
generazioni future.
Alcuni studi di economisti nord-americani, tra i quali vanno senz’altro citati quelli condotti
da Elinor Ostrom, hanno sottolineato, attraverso l’analisi di casi concreti, come la gestione
collettiva delle risorse non solo consenta alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso
tempo, a mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali
104
Elisa Tomasella
e future, sia idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai
codici civili modellati sull’esempio del codice Napoleone del 1804. Esempio del lago pescoso.
L’importanza dell’interesse ambientale è stata sottolineata per la prima volta dal legislatura
nella cd. Legge Galasso, la quale eleva a beni ambientali gli usi civici e le università agraria. La
Corte Costituzionale nella sentenza del 1° aprile 1 993, n. 133, in «Diritto e giurisprudenza agraria e
dell’ambiente», 1993, pp. 279 e ss. ha dichiarato che nei beni civici «emerge l’interesse della
collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla
salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio». L’orientamento è stato confermato anche dalla
successiva sentenza 20 febbraio 1995, n. 46, in «Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente»,
1995, p. 145. Anche la legge 31 gennaio 1994, n. 97 sulla montagna ha riconosciuto l’interesse
ambientale sotteso ai beni regolieri. E così anche la leggere regionale 19 agosto 1996, n. 26
stabilisce che il regime e il vincolo alle attività agro-silvo-pastorali è di interesse generale.
6. L’interesse ambientale sotteso ai beni regoleri non viene conseguito grazie ad una
gestione completamente immobile. L’immobilismo, oltre a non essere conforme allo spirito e alle
consuetudini regoliere, depaupera il patrimonio della Regola.
7. Non c’è un unico modo di gestire i beni della Regola. Secondo il legislatore, dunque, la
destinazione agro-silvo-pastorale determina l’oggetto del diritto di proprietà collettiva. Le modalità
del godimento e le possibilità di sfruttamento dei beni collettivi sono legate all’agricoltura. I titolari
dei diritti di proprietà collettiva possono, infatti, trarre dai beni le utilitates connesse alla gestione
agro-silvo-pastorale dei patrimoni antichi. Il riconoscimento della personalità giuridica operato
dall’art. 3 della legge n. 97/1994 non ha comportato anche il trasferimento della proprietà dei
patrimoni antichi dalle collettività all’ente gestore, sicché le Regole si limitano solo ad amministrare
e a gestire i beni collettivi in nome e nell’interesse dei singoli compartecipanti secondo i consolidati
principi solidaristici. Ciò comporta che la gestione dei patrimoni collettivi da parte delle
organizzazioni montane non può comprimere, fino addirittura ad azzerare, i diritti di ciascun
proprietario.
Tuttavia, il fatto che gli enti gestori siano tenuti a soddisfare preliminarmente i diritti dei
singoli partecipanti, non ha per conseguenza il venir meno della natura imprenditoriale delle attività
esercitate sui patrimoni antichi. Si tratta di attività economiche organizzate professionalmente e
condotte dagli enti gestori montani al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi per il
mercato, così come prescritto dall’art. 2082 cod.civ. E poiché i patrimoni collettivi sono destinati in
perpetuo alle attività agro-silvo-pastorali e connesse, è scontato attendersi che siffatte attività
presentino caratteri dell’impresa agricola ex art. 2135 cod.civ.
Come si è detto, l’attività di impresa esercitata dagli enti gestori sui patrimoni collettivi
incontra quale limite invalicabile la tutela dei diritti riconosciuti ai singoli partecipanti. Gli statuti
definiscono i diritti di godimento dei singoli consorti che in tutti i casi si compongono del diritto di
legnatico, di rifabbrico, di pascolo e di erbatico (con le differenze che poi diremo). In alcuni casi
viene esplicitamente aggiunto il diritto di cavar sabbia e sassi, di caccia e pesca; in altri ancora
vengono menzionati anche il diritto di semina e di estrazione della torba.
Gli statuti individuano, inoltre, i limiti che i singoli diritti dei consorti incontrano. In questo
senso il laudo della Comunanza delle Regole d’Ampezzo riconosce ai regolieri il diritto all’erbatico,
al legnatico, al “fabbisogno”, in relazione alle esigenze familiari e non industriali, mentre lo Statuto
della Comunità delle Regole di Spinale e Manez, al pari dello Statuto dei vicini della Magnifica
Comunità di Fiemme prevede che i limiti dei diritti dei consorti siano individuati nell’art. 1021 del
cod.civ.
La limitazione del diritto di rifabbrico o di fabbisogno è di facile intuizione. Essi attribuiscono
ai consorti il diritto alla concessione del legname da opera e da lavoro per la manutenzione
ordinaria e straordinaria dei fabbricati civili e rurali dei consorti stessi. Considerando che il taglio
per il commercio del legname è stato in passato, e per certi versi anche attualmente, una delle
attività principali delle organizzazioni montane, è chiaro come per il singolo non sia possibile fare
commercio o industria del legname in proprietà collettiva perché in tal caso si approprierebbe
indebitamente di una risorsa destinata all’attività comune.
Il contenimento che gli enti gestori incontrano nell’esercizio delle loro iniziative economiche
fa sì, dunque, che siffatte attività vengano condotte in completa armonia tra interessi della
collettività generale, diritti dell’insieme di proprietari e diritti dei singoli.
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
105
8. Occorre ora considerare quali attività imprenditoriali possono essere esercitate sui
terreni in proprietà collettiva regoliera:
1) imprese zootecniche. Tradizionalmente l’attività zootecnica veniva esercitata in forma
individuale dai singoli consorti. In passato la titolarità del diritto di proprietà sul bestiame condotto a
pascolare sui patrimoni collettivi veniva conservata in capo ai singoli consorti, mentre l’assemblea
dei comproprietari stabiliva i limiti e i divieti che ciascun avente diritto era tenuto a rispettare
durante il periodo del pascolo sui beni collettivi. Pur essendo l’attività zootecnica fondata sulla
proprietà individuale dei capi di bestiame, ciò nondimeno l’attività era esercitata in comune, in
ragione dell’unica sorveglianza e cura istituita per tutto il bestiame, oltre che per la gestione
collettiva della malga. L’appartenenza individuale degli animali comportava che i prodotti caseari
venissero distribuiti, secondo complessi calcoli, ai singoli proprietari i quali potevano anche farne
commercio. Il numero dei consorti e la scarsità di risorse esigevano, peraltro, che l’uso dei beni
comuni fosse limitato, di modo che a ciascun consorte fosse garantita la sopravvivenza. Peraltro,
mentre in passato l’esigenza di contenere i diritti di ciascun consorte era imposta dalla necessità di
garantire la sopravvivenza dell’intera collettività, le mutate condizioni economiche delle vallate
montane italiane rendono ora la zootecnia una fonte secondaria di reddito.
Anche la richiesta di utilizzo dei pascoli comuni da parte dei singoli consorti è venuta
calando. Nulla osta al fatto che l’attività zootecnica venga esercitata anche solo da alcuni dei
consorti, a condizione che venga garantito il pari accesso alla risorsa a tutti gli aventi diritto.
Il contenuto del diritto di proprietà collettiva è, infatti, dotato di una certa elasticità di modo
che, soddisfatti i principi generali di equità e di solidarietà, le facoltà di godimento riconosciute a
ciascun consorte possono espandersi fino a comprendere l’intero bene. Ciò almeno
temporaneamente e fintantoché non vi sia l’ulteriore richiesta di altri consorti.
Anche in siffatta ipotesi, tuttavia, tra singolo consorte e la collettività non si instaurerebbe un
rapporto obbligatorio avente ad oggetto il godimento esclusivo del bene collettivo, riconducibile alla
fattispecie tipica del contratto di affitto di fondo rustico. Il godimento del bene rientrerebbe, invece,
tra le facoltà dominicali espressione del diritto di proprietà collettiva.
Pur essendo la proprietà del bestiame ancora oggi individuale, gli enti gestori mantengono la
loro antica funzione originaria relativa al coordinamento delle operazioni di pascolo ed alla nomina
del pastore conservando, quindi, un ruolo di gestione attiva. Gli enti, infatti, garantiscono la parità di
accesso alle risorse e il loro corretto sfruttamento, affinché i beni collettivi non vengano danneggiati
o depauperati.
Peraltro, oggi nulla impedirebbe agli enti gestori delle proprietà collettive di assumere
direttamente la gestione dei pascoli e delle malghe assumendo così essi stessi la veste di
imprenditori zootecnici.
Qualora i membri delle collettività proprietarie non richiedano in assegnazione i beni
pascolivi, è consentito all’organizzazione montana di trasferire i terreni in godimento a terzi
attraverso contratti di natura personale disciplinati dal diritto privato , tra i quali anche i contratti di
affitto di fondo rustico di cui alla legge n. 203/1982.
Sui beni collettivi potranno, allora, trovare spazio anche attività di impresa esercitate da non
proprietari.
2) imprese forestali. Le risorse collettive forestali si prestano a due diversi tipi di utilizzo: il
primo è prettamente individuale e nasce dal godimento diretto dei proprietari attraverso il prelievo
delle risorse naturali per usi propri.
In Ampezzo, ad esempio, il regoliere esercita ancora in natura i diritti tradizionali consistenti
nell’assegnazione del legname da opera e della legna da ardere.
Anche i Vicini della Magnifica Comunità di Fiemme sono titolari del diritto del legnatico ad
uso domestico e del legnatico utile. Tali diritti vengono esercitati dai singoli capi famiglia per conto
di tutti i componenti del nucleo familiare. La Comunità di Fiemme esercita il controllo sul prelievo,
determinando ogni anno i quantitativi massimi di legname da opera e di legna da ardere che
possono essere utilizzati nella rispettiva annata. Per quanto riguarda, invece il legname da opera le
utilizzazioni boschive spettano alla Comunità, essendo precluso il prelievo individuale.
Trova spazio, dunque, accanto al rapporto diretto tra regoliere o vicino e il patrimonio antico,
anche la gestione unitaria delle organizzazioni montane. L’attività produttrice delle organizzazioni
montane è diretta alla coltura del bosco e non solo al suo sfruttamento ed è costituita dall’insieme
ordinato di operazioni dirette a sottoporre il bosco a tagli periodici e alla sua rinnovazione. Siffatta
106
Elisa Tomasella
attività presenta i caratteri della coltivazione del bosco come prescritto dall’art. 2135 cod.civ., in
quanto non solo puramente estrattiva o di puro disboscamento
Accanto alle attività tradizionali possono oggi trovare spazio altre attività economiche. Si
pensi, ad esempio, alle attività agrituristiche o all’attività di produzione e vendita di energia.
La presenza contemporanea di varie fonti rinnovabili di energia sui patrimoni collettivi rende
particolarmente interessante la ricerca di un possibile collegamento tra le forme di godimento
collettivo delle terre montane e l’utilizzazione delle risorse rinnovabili a scopi energetici.
Quelle appena elencate sono alcuni esempi di gestione tradizionali dei beni collettivi. La
storia ci insegna che non vi è stata un’unica forma di gestione dei beni collettivi. Nei primi secoli di
vita delle Regole non si assisteva al commercio di legname, che si impose dopo il patto di
dedizione alla Serenissima Repubblica. Nel rispetto dei principi fondamentali dell’istituto,
garantendo i diritti dei singoli, si può pensare ad altre forme di gestione che consentano il mero
prelievo o che sfruttino con più incisione il patrimonio collettivo.
Vari esempi:
• Regola di Soverzene: attività tradizionali;
• Regole del Comelico: attività tradizionali;
• Regole d’Ampezzo: attività tradizionali;
• Magnifica Comunità di Fiemme: (attività forestale tradizionale – e attività legata alla
bioenergia) Impresa forestale per eccellenza. Gestione manageriale consentita dalla
gestione accentrata (la forma di amministrazione ha sicuramente avuto riflessi
anche sulla gestione del patrimonio);
5) Comunali parmensi e Fungo di borgotaro (attività nuova – creazione di un consorzio ex
novo).
Sull'Appennino emiliano crescono funghi d'oro: sono quelli delle comunalie parmensi, 32
realtà agricole e forestali riunitesi in consorzio nel 1957. Pascolo e legnatico hanno perso
d'importanza nel tempo (anche se è ancora attivo il commercio della legna da ardere) a favore
della raccolta dei funghi, organizzata in apposite riserve istituite nel 1963 e oggi principale fonte di
denari e lustro. Le comunalie più rinomate per questo aspetto sono quelle di Albareto e di Borgo
Val di Taro che hanno ottenuto -caso unico in Europa- l'Indicazione geografica protetta (Igp), con
relativo bollino, per il "Fungo di Borgotaro", che raggruppa diverse varietà, anche se il più ambito e
pregiato resta il porcino. Grazie ai permessi di raccolta, che chi è ghiotto di funghi è obbligato a
richiedere per poter accedere alle riserve, le sole comunalie di Borgo Val di Taro e Albareto
raccolgono oltre 200 mila euro l'anno.
Un'altra attività del Consorzio è la produzione di piante officinali: 13 specie diverse
dall'arnica alla camomilla, ma anche lavanda, menta, issopo, salvia e zafferano.
I proventi delle diverse attività, anche qui come in esperienze analoghe, vengono utilizzati
per la manutenzione del bosco e della viabilità forestale o degli acquedotti rurali, ma anche per
opere di "pubblica utilità", come la costruzione di edifici scolastici nelle varie frazioni del Consorzio.
Al momento l'organico tecnico del Consorzio Comunalie Parmensi è formato da due laureati
in scienze forestali, che si occupano della progettazione degli interventi di forestazione anche per
conto della Comunità Montana delle Valli del Taro e del Ceno, e di un diplomato geometra che si
occupa del settore della viabilità forestale; inoltre sono in servizio due ragionieri ed un applicato per
la tenuta della contabilità delle Comunalie che ne fanno richiesta, ed una squadra di operai forestali
per lavori di forestazione da eseguirsi nel comprensorio.
L’ASBUC di Zeri (attività tradizionale). In Lunigiana, nel territorio di Zeri, in provincia di
Massa-Carrara, esiste da tempi immemorabili una razza ovina autoctona, la Zerasca. Questa razza
è riuscita a mantenere intatte nel tempo le sue caratteristiche in virtù dell'isolamento di quest'area.
E' una pecora rustica, di taglia medio grande, con la testa proporzionata, ha manto bianco e di
solito corna ben sviluppate. Il bestiame viene condotto al pascolo sulle terre collettive, la cui
sopravvivenza ha consentito anche la sopravvivenza di questa antica razza. Senza le terre civiche
le aziende che praticano allevamento non avrebbero sufficiente terra per condurre le bestie al
pascolo.
Partecipanze agrarie e set-aside. Le Partecipanze hanno costituito nel passato una
importante presenza sul territorio, essendo dotate di una forte capacità di coesione e di sostegno
finanziario della popolazione, nonché di miglioramento del territorio e di spinta economica alla
coltivazione delle campagne. Una parte del territorio viene concessa direttamente agli utenti
affinché svolgano le proprie coltivazioni. Un’altra parte viene direttamente coltivata dall’Ente. Tali
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
107
enti però hanno visto perdere progressivamente i loro tratti caratteristici, al pari dell'intero settore
agricolo, anche con riferimento ad una continua diminuzione dei consociati che per quel che
riguarda Villa Fontana ha assunto dimensioni preoccupanti. Le amministrazioni però stanno
orientando il loro operato soprattutto verso il recupero delle radici storico-culturali delle
Partecipanze e verso una rinnovata attenzione al territorio, legata soprattutto al tema dell'ambiente,
con tentativi di ricostituire le aree boschive e paludose scomparse in seguito alle opere di bonifica
e alla conseguente coltivazione dei terreni.
A seguire, un testo generale sugli usi civici e le proprietà collettive che chiarisce la
definizione di proprietà collettive, usi civici, terre civiche.
108
Elisa Tomasella
LA PROPRIETÀ COLLETTIVA E LA TUTELA DELL’AMBIENTE
INTRODUZIONE
Il recente premio Nobel per l’economia, conferito alla studiosa nordamericana Elinor Ostrom
per i suoi studi sul governo dei beni comuni (“for her analysis of economic governance, especially
the commons”), conferma l’attualità della proprietà collettiva, ritenuta ancora a torto una reliquia del
passato da liquidare.
Eppure già nell’Ottocento Carlo Cattaneo, esponente dell’individualismo economico
all’epoca imperante, chiamato a rendere il proprio parere tecnico- economico su alcune proprietà
collettive della piana di Mogadino, nel Canton Ticino, non concluse, come ci si poteva attendere, le
proprie ricerche sostenendo l’opportunità della loro soppressione. Egli, invece, preferì affermare
che i diritti collettivi rappresentano “un altro modo di possedere”, un antichissimo “altro ordine
1
sociale” da conservare poiché parte della storia .
La voce del Cattaneo rimase pressoché isolata se si considera che nel corso di tutto
l’Ottocento la proprietà collettiva fu sopraffatta dal dominio individuale di stampo romanistico, che
con il Code civil del 1804 si è imposto quale unico modello di appropriazione efficiente, intorno al
quale la società borghese otto-novecentesca ha poi costruito un coerente modello di sviluppo
2
socio-economico, etichettato come moderno e progressivo . Risalgono, infatti, a questo periodo i
vari tentativi abolizionistici compiuti ai danni delle proprietà collettive in nome di un marcato
individualismo e delle nuove teorie economiche che consideravano la proprietà individuale, libera
3
da qualsiasi forma di vincolo, l’unica garanzia per raggiungere il pieno sviluppo in agricoltura .
4
Le ricerche condotte da Elinor Ostrom attestano, invece, come la gestione collettiva delle
risorse non solo consenta alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso tempo, a
mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali e future,
sia idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai codici civili
modellati sull’esempio del codice Napoleone del 1804.
La proprietà collettiva ha saputo garantire l’efficiente gestione dei pascoli e delle foreste
montane, preservando il territorio dall’abbandono e conservando l’integrità delle risorse anche in
favore delle generazioni future. Per questi motivi, negli ultimi decenni del Novecento, il
riconoscimento giuridico della proprietà collettiva ha trovato sostegno non tanto nel loro valore
storico, quanto nell’interesse di tutela ambientale che il modello proprietario in esame riesce con
più efficienza a conseguire rispetto a quello individuale.
TERRE COLLETTIVE, TERRE CIVICHE ED USI CIVICI
Gli usi civici e la proprietà collettiva, che a sua volta si articola nelle diverse forme delle terre
civiche e delle terre collettive, vengono spesso tra loro confusi, pur essendo istituti giuridici assai
differenti.
Con “uso civico” in senso stretto, si intende il diritto di godimento, riconosciuto dalla l.
16.06.1927, n. 1766 in capo ad una collettività avente ad oggetto il prelievo di determinate utilitates
5
(es. uso civico di legnatico, di macchiatico, di pesca, di caccia, di vagantivo ), provenienti da un
fondo che appartiene ad un altro titolare, il quale trae da esso le utilitates rimanenti.
1
GROSSI, Un altro modo di possedere, Milano, 1977, riporta in epigrafe alla propria opera le celebri parole del Cattaneo
secondo il quale, appunto, i diritti collettivi “non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di
possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale che, inosservato, discese da remotissimi secoli fino a noi”.
2
ROSSI G., Le radici storiche dei demani civici e le proprietà collettive, in Archivio Scialoja-Bolla, 2003, 84.
3
TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, 359.
4
OSTROM, Come alcune comunità hanno evitato la tragedia delle risorse comuni, in NERVI (a cura), Le terre civiche tra
l'istituzionalizzazione del territorio e il declino dell'autorità locale di sistema. Atti della IV Riunione Scientifica (Trento, 7-8
novembre 1998), Padova, 2000, 35; GAMBARO, Beni, proprietà, comunione, in ZATTI, IUDICA (Trattato di diritto privato),
Giuffré Milano, 1990, 136, riflette anch’egli sulla tragedy of commons, evidenziando come l’apprensione egoistica senza
controllo dei beni comuni porti ineluttabilmente alla loro tragedia.
5
L’uso civico di vagantivo è caratteristico della zona veneta e consiste nel diritto di vagare nelle valli paludose a scopo di
pesca, caccia, falciar canna e raccogliere altri prodotti naturali. CACCIAVILLANI, La proprietà collettiva nella montagna veneta
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
109
Nelle terre civiche, regolate anch’esse dalla l. 16.06.1927, n. 1766, la collettività non divide il
godimento della res con nessun altro proprietario. La dottrina dell'Italia del Mezzogiorno attribuiva a
6
questa forma di godimento collettivo il nome di demanio universale (o demanio comunale) . Si
riteneva, infatti, che il pieno dominio delle popolazioni sulle terre, da esse originariamente occupate
e lavorate prima dell’infeudazione, dovesse essere garantito anche dal regime feudale per il
soddisfacimento dei bisogni essenziali delle genti, in nome di un diritto alla sussistenza in capo agli
individui jure naturale sui terreni di loro originaria appartenenza.
Nelle terre civiche sono ammessi a ritrarre le risorse naturali provenienti dalla res tutti gli
abitanti residenti in una determinata zona legati da un vincolo di incolato, i quali ne godono uti
7
singuli e uti cives, ma non uti universi . Queste terre sono dette, per tale motivo, “aperte”, in quanto
sono ammessi nel gruppo di utenti tutti coloro che si siano insediati stabilmente sul territorio,
seppur non originari. Ne consegue, per converso, che coloro che si trasferiscono altrove perdono il
diritto di godimento sui beni in proprietà collettiva della comunità a cui erano appartenuti come
habitatores dal luogo.
Diverse sono invece le proprietà collettive cd. “chiuse”, disciplinate dall’art. 3 della l.
31.01.1994, n. 97, presenti soprattutto nell’Italia settentrionale, principalmente nelle zone montane,
che possiamo chiamare “terre collettive”. Nelle zone alpine l’albo “chiuso” costituisce
la naturale difesa, di chi ha redento e bonificato le terre comuni, e soprattutto ha avuto cura
dei boschi e dei pascoli impedendone la degradazione, contro i sopravvenuti che, per un malinteso
spirito di eguaglianza, vedono la limitazione alle famiglie originarie addirittura come lesiva di un loro
8
diritto .
Per essere ammessi al godimento delle terre comuni “chiuse”, dunque, non è sufficiente il
solo rapporto di incolato, essendo necessaria anche la presenza del vincolo agnatizio che si
sostanzia nella discendenza dagli antichi originari. Solo in limitati casi eccezionali sono ammessi a
9
partecipare nel gruppo chiuso anche i nuovi arrivati .
Pur essendo diversi nella loro natura, gli usi civici, le terre civiche e le terre collettive hanno
in comune il regime caratterizzato dalla inalienabilità, inusucapibilità, indivisibilità e perpetua
destinazione agro-silvo-pastorale. Tuttavia, a differenza degli usi civici in senso stretto, solo nelle
terre civiche e nelle terre collettive il diritto di godimento è attribuito ai componenti della collettività
jure dominii.
In proposito, va, tuttavia, precisato che la legge del 16.06.1927, n. 1766, sul riordinamento
degli usi civici, non è chiara nello stabilire a chi spetti la proprietà della terre civiche. L’art. 11 fa
riferimento ai terreni “posseduti” da Comuni, frazioni di comuni, università ed altre associazioni
agrarie, mentre l’art. 1, co. 2, stabilisce che “I diritti delle popolazioni su detti terreni”, ovvero sulle
terre civiche, “saranno conservati” e l’art. 58 del r.d. 26.02.1928, n. 332, recante il regolamento per
sotto la Serenissima, Padova, 1988, 54 riporta l’etimologia del termine proposta da Baldi, in base alla quale “vagantivo”
deriverebbe da vacuum (vuoto antico), cioè uno spazio che non apparteneva a nessuno in particolare, e che di
conseguenza poteva essere usato da tutti.
6
I feudisti meridionali ponevano, accanto al demanio universale, il demanio pubblico, goduto dai cives uti universi, e il
dominio privato o patrimoniale dell’ente Comune. Coll’andar del tempo, quando iniziò a perdersi la distinzione tra le famiglie
originarie e il complesso cittadino del Comune, le terre dei demani universali cominciarono a confluire nel patrimonio del
Comune. I demani universali furono poi oggetto, insieme agli usi civici in senso stretto, delle usurpazioni dei baroni e dei
privati più potenti, e successivamente della politica liquidatrice, ispirata alle idee economiche del XVIII sec. Le leggi
amministrative francesi assegnarono le terre in proprietà collettiva all’ente Comune, contribuendo così a render ancora più
confusa l’originaria distinzione tra demanio universale e patrimonio del Comune (con conseguente confusione anche di
regimi, in quanto in principio solo il demanio universale era considerato inalienabile e inusucapibile, mentre il patrimonio del
Comune seguiva il regime privatistico). Tutti questi elementi portarono alla progressiva riduzione delle terre civiche. Cfr.
GERMANÒ, Le comunioni familiari montane come formazioni sociali, in Riv. giur. sarda, 1992, 277.
7
GERMANÒ, Carneade, chi era costui? Ovvero degli usi civici, in Riv. dir. agr., 1994, II, 209.
8
ROMAGNOLI, Regole dell’arco alpino, in Noviss. Dig. it., Appendice, VI, Torino, 1986, 608. Quando nel XIX sec. a seguito
della dominazione francese si strutturò il Comune quale ente amministrativo, in alcuni casi l’antica comunità originaria si
fuse con questo, e il patrimonio passò al nuovo ente, in altri casi resistette, affermando la propria autonomia e
indipendenza.
9
Le condizioni per poter fare ingresso nel gruppo chiuso variano da zona a zona. Ad. es., in passato, nel Cadore il foresto
poteva essere ammesso a far parte della Regola, dopo aver acquistato la cittadinanza cadorina, solo se l’assemblea si
dichiarava favorevole, attraverso un giudizio discrezionale. Nel bresciano e nel veronese, invece, a seguito della legge
veneta del 1674, i foresti potevano accedere al godimento dei “beni comunali veneti”, automaticamente con la residenza
protratta per cinquant’anni, e con la contribuzione di tutte le “fazioni” reali e personali.
110
Elisa Tomasella
l’esecuzione della legge 16.06.1927 n. 1766, si riferisce ai beni delle associazioni agrarie come
beni “di originario godimento comune” .
In dottrina la maggioranza degli Autori ritiene, invece, che la titolarità delle terre civiche spetti
10
senz’altro alla collettività , anche se per alcuni le terre civiche dovrebbero ritenersi di proprietà
dell’ente Comune, aperte all’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti di un determinato
11
territorio .
12
13
La giurisprudenza di legittimità e di merito conferma l’indirizzo espresso dalla dottrina
14
maggioritaria. Anche la Corte Costituzionale nella sentenza del 30.10.1995, n. 46 fa riferimento
alle popolazioni titolari dei diritti di proprietà collettiva o di uso civico, considerando i Comuni solo
quali enti rappresentativi delle collettività proprietarie.
Per le terre collettive della montagna italiana, l’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97 conferma,
invece, senza alcuna ombra di dubbio che si tratta di «beni agro-silvo-pastorali in proprietà
collettiva», nei confronti dei quali l’organizzazione montana, a cui viene riconosciuta la personalità
giuridica di diritto privato, si configura come semplice amministratore piuttosto che effettivo titolare
15
dei beni .
TERRE CIVICHE, TERRE COLLETTIVE E COMUNIONE ROMANISTICA
Il codice civile e le leggi speciali non contengono una precisa definizione delle terre civiche,
delle terre collettive e degli usi civici. Questa indeterminatezza non aiuta il giurista che corre il
10
Cfr. GERMANÒ, Usi civici, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 535 ; TREBESCHI C., Favole, Gaggi, regole, vicinie. Alla ricerca
di un diritto sopravvissuto, anzi vivente. Un dato al plurale, in TREBESCHI C., TREBESCHI A., ROMAGNOLI, GERMANÒ,
Comunioni familiari montane, vol. II, Brescia, 1992, 163.; CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983,
60; FULCINITI, I beni di uso civico, Padova, 1990, 109; ROSSI G., I demani civici e le proprietà collettive tra passato e
presente, in Quaderni di ricerca del Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive di Trento, 2001,
n. 12; MARINELLI, Gli usi civici. Aspetti e problemi delle proprietà collettive, Napoli, 2000 .
11
É dell’avviso contrario, invece, PETRONIO, il quale ritiene che le terre civiche siano in proprietà dell’ente Comune, aperte
all’esercizio degli usi civici da parte degli abitanti di un determinato territorio. Rivisitando le fonti dei giuristi napoletani, l'A.
afferma che, ad avviso di quest’ultimi, i diritti di uso civico sul demanio comunale consistevano in «diritti con un contenuto
specifico e determinato, esercitati su beni che erano in proprietà di soggetti diversi da quelli che esercitavano gli usi:
proprietario dei beni era il Comune, utenti i cives che facevano proprie le singole utilitates del territorio» (intervento di
PETRONIO in CARLETTI (a cura di), Demani civici e risorse ambientali, Napoli, 1993, 277). Di conseguenza l’A. ritiene che non
sia possibile parlare, a proposito di terre civiche, di proprietà collettiva: la cui forma pura è riscontrabile invece nelle sole cd.
proprietà collettive chiuse. Cfr. anche PETRONIO, Rileggendo la legge sugli usi civici, in Riv. dir. civ, 2006.; Id., Usi civici fra
tradizione storica e dogmatica giuridica, in CORTESE E. (a cura di), La proprietà e le proprietà, Milano, 1988, 491; Id., Usi
civici, in Enc. Dir., XLV, Milano, 1992, 930; Id., L’attuale dibattito in materia di usi civici: problematiche nazionali e locali, in
Rivista amministrativa della Regione Veneto, 1995, 167 e ss.; Id., Alcune osservazioni sui rapporti tra Regole e Comuni
cadorini (in margine ad una controversia tra le Regole di Costalta, Presenaio, San Pietro e Valle e il Comune di San Pietro
di Cadore) in Agricoltura e diritto, Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Milano, 2000, 683. Ma sul tema cfr. anche
BARBACETTO, Servitù di pascolo, civicus usus e beni comuni nell’opera di Giovanni Battista De Luca (†1683), in NERVI, (a
cura), Cosa apprendere dalla proprietà collettiva: la consuetudine fra tradizione e modernità. Atti della VIII riunione
scientifica (Trento, 14-15 novembre 2002), Padova, 2003, 267.
12
Cass., 18 marzo 1949, n. 602; Cass. 18 dicembre 1952, n. 3233; Cass. 3 febbraio 1962, n. 210; Cass. 11 febbraio 1974,
n. 387, in FEDERICO, codice degli usi civici, sentenze nn 213, 248, 308. Più recentemente cfr. Cass., 16-03- 2007, n. 6165,
in Mass. Giur. It, 2007; Cass., 9.-2-2001, n. 1870, in Dir. giur. agr. amb., 2002, 113, con nota di DEL PAPA. L’indirizzo viene
confermato anche dal Consiglio di Stato: cfr. C. St., 6-03-2003, n. 1247, in Cons. Stato, 2003, I 1080. Cfr. anche Cons.
Giust. Amm. Sic., 22-12-1995, n. 379, in Cons. Stato, 1995, I, 1724.
13
Cfr. A. Roma, U.C, 14-02- 1990, in Giust. civ., 1990, I, 1105; T.R.G.A. Trentino – A. Adige Trento, 29-05-2006, n. 179, in
Massima redazionale.
14
In Dir. giur. agr.amb., 1995, 145, con nota di PETRONIO, Ad avere l’ultima parola...
15
La personalità giuridica doveva considerarsi concetto estraneo per le genti di montagna. Nelle Regole cadorine, ad
esempio, ciascun regoliere era considerato proprietario dei beni collettivi e l’assemblea li gestiva secondo le modalità
stabilite dal laudo, senza dover ricorrere alla costruzione artificiosa di un soggetto terzo inteso quale centro di imputazione
di tutte le situazioni giuridiche attive e passive. Ritiene che il riconoscimento della personalità giuridica non abbia
comportato il trasferimento dei diritti di proprietà dalla collettività all’ente SANTI ROMANO, Il Comune. Parte generale, in
ORLANDO V.E. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano, 1900, vol. 2, parte II, p. 1616;
GIANNINI., I beni pubblici, Roma, 1963, 44; DE MARTIN, Profili giuridici degli enti regolieri nel quadro del nuovo assetto degli
enti montani, Milano, 1973, 41.
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
111
rischio di confondere questi istituti giuridici con la comunione romanistica, certamente a lui più
familiare.
La proprietà collettiva non può, tuttavia, essere assimilata alla comunione, disciplinata dagli
artt. 1100 e s.s. del codice civile, che rispecchia il paradigma individualistico della proprietà, visto
che il singolo compartecipante risulta quale indiscusso dominus della propria quota, di cui può
disporre liberamente. Nelle terre civiche e nelle terre collettive, invece, i membri della collettività
non sono titolari di un diritto su una quota ideale del bene di cui possano liberamente disporre ma,
al contrario, ciascuno è titolare di un diritto soggettivo che comprende il bene nella sua totalità e
che non è localizzabile in una parte determinata del bene.
Inoltre, le collettività non possono liberamente disporre dei loro diritti, poiché diversamente
dalla comunione disciplinata dal codice civile, essi non sono trasferibili, e al contrario di quanto
previsto dall’art. 1111, co. 1, c.c., non sono nemmeno legittimati a chiedere la divisione del bene.
La proprietà collettiva è, infatti, una situazione giuridica perpetua, fondata su un regime
parademaniale vicino al regime che regge i beni pubblici, in base al quale non sono ammessi
l’usucapione, l’alienazione e la divisione. I principi posti a fondamento del regime pubblicistico della
proprietà collettiva costituiscono l’essenza dei diritti delle collettività e contribuiscono a conferire a
questo modello proprietario un volto assai differente rispetto alla proprietà individuale liberamente
disponibile.
IL RIORDINO DEGLI USI CIVICI E DELLE TERRE PROPRIETÀ COLLETTIVE
La disciplina fondamentale delle terre civiche e degli usi civici è contenuta nella l.
16.06.1927, n. 1766. Si tratta di una legge generale con la quale viene perseguito l’obiettivo di
addivenire alla sistemazione definitiva delle varie forme di proprietà collettiva e di uso civico diffusi
16
su tutta la penisola italiana .
Non essendo più tollerate situazioni di promiscuo godimento tra collettività e proprietario, in
presenza di usi civici in senso stretto il legislatore fascista prescriveva la liquidazione dei diritti
collettivi su terre altrui, di preferenza, attraverso l’attribuzione in piena proprietà al Comune di una
parte del bene gravato dai diritti (cfr. artt. 5 e seguenti della l. 16.06.1927, n. 1766). Nonostante la
legge favorisse lo scorporo in natura, nella prassi venne tuttavia privilegiata la liquidazione in
danaro. Secondo l’art. 7 del regolamento 26.02.1928, n. 332, infatti, non è consentito procedere
alla divisione nei casi, assai frequenti, in cui i terreni abbiano ricevuto dal proprietario sostanziali e
permanenti migliorie o in presenza di piccoli appezzamenti non raggruppabili in unità agrarie. In tali
ipotesi è riconosciuto al Comune solo il diritto di percepire il pagamento di un canone enfiteutico
annuo.
17
Per le terre civiche un delegato tecnico provvede, invece, alla redazione di un piano di
massima, sulla scorta del quale la Regione, a seconda della natura dei beni, assegna le terre alle
diverse categorie.
Nella categoria a) sono inclusi i terreni convenientemente utilizzabili come bosco o pascolo
permanente. Su tali terreni i diritti delle collettività debbono essere esercitati in conformità di un
piano economico. Il richiamo all’art. 1021 cod. civ., contenuto nell’art. 12, co. 3, della l. 16.06.1927,
n. 1766, limita, comunque, l’utilizzo e il prelievo delle risorse a quanto necessario per il bisogno
degli utenti e della loro famiglia.
Il regime giuridico dei terreni assegnate alla categoria a) è disciplinato dall’art. 12, co. 2,
della l. 16.06.1927, n. 1766, del 1927, il quale preclude l’alienazione o il mutamento di destinazione
18
delle terre civiche in assenza della prescritta autorizzazione regionale .
16
Sulle operazioni di sistemazione dei beni civici cfr. CERVATI, Aspetti della legislazione vigente circa usi civici e terre d’uso
civico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1967, 88 ; GERMANÒ, Usi civici, cit., 535; CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi,
cit., 343, PETRONIO, Usi civici, cit., 941; FULCINITI, I beni di uso civico, cit., 166.
17
L’art. 65, r.d. 26.02.1928, n. 332 prevede, tuttavia, che le disposizioni contenute nel capo II della legge sugli usi civici
relative alla sistemazione, ripartizione, e godimento dei beni dei Comuni e delle Associazioni agrarie, comprese quindi le
disposizioni in tema di quotizzazione delle terre coltivabili, non vengano applicate alle Associazioni agrarie, composte da
determinate famiglie, che, possedendo esclusivamente terre atte a coltura agraria, vi abbiano apportato sostanziali e
permanenti migliorie. L’applicazione della norma doveva avvenire con decreto del Ministro dell’economia nazionale, su
istanza da presentarsi entro 90 giorni dall’entrata in vigore del regolamento. Solo le Partecipanze agrarie emiliane hanno
potuto godere del regime differenziato della legge del 1927. Sulle Partecipanze cfr. GALGANO, Sulla natura giuridica delle
partecipanze agrarie emiliane, in Riv. dir. agr., 1993, I, 179.
112
Elisa Tomasella
Alla categoria b) vengono invece assegnati i terreni convenientemente utilizzabili per la
coltura agraria (art. 14). In seguito alla redazione di un piano tecnico di sistemazione fondiaria e di
avviamento colturale, i beni vengono ripartiti tra le famiglie dei coltivatori diretti del Comune e della
frazione, con preferenza di quelli meno abbienti, purché diano affidamento di trarne la maggiore
utilità (art. 13). Il demanio viene, quindi, trasformato in allodio, proprietà piena e libera, assegnato
ai privati sulla base della presunzione che solo la proprietà individuale sia in grado di incrementare
la produzione agricola.
LE TERRE COLLETTIVE
Anche le proprietà collettive dell’arco alpino furono assoggettate alla disciplina generale
della legge sul riordino.
Nell’immediato dopoguerra, la tenace battaglia condotta dalle Regole della montagna
19
bellunese , spinse il legislatore repubblicano a riconoscere la personalità giuridica di diritto
20
pubblico alle Regole Cadorine (decreto legislativo 3.05.1948, n. 1104) .
Successivamente, l’art. 34 della legge 25.07.1952, n. 991, meglio nota come la prima legge
21
sulla montagna, sancì il principio in base al quale tutte le comunioni familiari montane dovevano
continuare a godere e ad amministrare i loro beni in conformità dei rispettivi statuti e consuetudini
riconosciuti dal diritto anteriore. La giurisprudenza, tuttavia, non colse affatto la portata innovativa
del dettato legislativo, continuando ad applicare la legge sugli usi civici del 1927 anche alle terre
22
collettive chiuse .
Successivamente la l. 3.12.1971, n, 1102 stabilì a chiare lettere l’inapplicabilità della legge
sugli usi civici per le comunioni familiari montane, tra le quali vennero espressamente incluse le
Regole ampezzane, quelle del Comelico, le Servitù della Val Canale e le Società di antichi originari
della Lombardia.
L’ultimo provvedimento legislativo a favore dei territori montani ribadisce il riconoscimento
delle terre collettive, giustificando la loro sopravvivenza per la capacità intrinseca del loro
particolare regime di perseguire e di raggiungere obiettivi fondamentali quale, appunto, la
protezione dell’ambiente (art. 3, l. 31.01.1994, n. 97).
IL COLLEGAMENTO TRA IL REGIME GIURIDICO DELLE PROPRIETÀ COLLETTIVE E LA
TUTELA DELL’AMBIENTE
Il particolare regime della proprietà collettiva, retto dai principi dell’inalienabilità, indivisibilità,
inusucapibilità e vincolo di destinazione perpetua alle attività agro-silvo-pastorali, ha consentito la
23
conservazione del patrimonio attraverso l’avvicendarsi delle varie generazioni , nell’interesse dei
singoli e dell’intera collettività, con vantaggio (indiretto) dell'ambiente che dal sistema di proprietà
24
collettiva è stato ed è protetto .
18
Sulle sanatorie degli atti di alienazione e di mutamento di destinazione intervenuti prima dell’assegnazione a categoria v.
infra.
19
TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime dei beni regolieri, Belluno, 2000, 59.
20
In tema cfr. POTOTSCHNIG, Le Regole della Magnifica Comunità Cadorina, Milano, 1953.
21
BOLLA, Criteri di interpretazione e di applicazione dell’art. 34 della legge 25 luglio 1952, n. 991, in Riv. dir. agr., 1960, I, p.
591.
22
A. Roma, U.C., 18- 02-1956, in TREBESCHI C., ROMAGNOLI (a cura di), Comunioni familiari montane, Brescia, 1975, 246.
23
CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 341, definisce parademaniale il regime dei beni in proprietà
collettiva. Sulla differenza tra beni pubblici e beni in proprietà collettiva cfr. anche CERULLI IRELLI, Uso pubblico, in Enc. Dir.,
XLV, Milano, 1992, 969, e per ulteriori riferimenti bibliografici TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime dei beni regolieri,
cit., 81.
24
Cfr. ROMAGNOLI, Le comunioni familiari montane: natura privata e interesse pubblico, in DE MARTIN (a cura di), Comunità
di villaggio in Italia e in Europa, Cedam, 1990, 152. Sull’interesse ambientale protetto dal regime parademaniale dei beni in
proprietà collettiva cfr. GERMANÒ, Riordino e tutela delle Regole e delle organizzazioni montane per la gestione dei beni
agro-silvo-pastorali: il caso della regione Veneto, in Dir. agricoltura, 1995, I, 59 e ss.; CROSETTI, Il rapporto tra usi civici e il
paesaggio, in NERVI (a cura di), Il ruolo economico e sociale dei demani civici e delle proprietà collettive. Le terre civiche:
dove, per chi, per che cosa, Atti della III Riunione scientifica del Centro Studi e documentazione sui demani civici e le
proprietà collettive (Trento, 13-14 novembre 1997), Padova, 1999, 203. Anche la Corte Costituzionale con la sentenza del
20-02-1995, n. 46, ha ritenuto legittimi i poteri ufficiali del Commissario liquidatore degli usi civici in quanto necessari per
un’efficace tutela delle zone gravate da usi civici in quanto beni ambientali e paesaggistici. Sul tema GERMANÒ, Sul
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
113
L’interesse ambientale sotteso alle proprietà collettiva viene conseguito grazie al vincolo di
destinazione (perpetuo) dei patrimoni all’attività agricola. Le modalità del godimento e le possibilità
di sfruttamento dei beni collettivi sono, infatti, legate all’agricoltura, poiché i titolari dei diritti di
proprietà collettiva possono trarre dai beni solo le utilitates connesse alla gestione agro-silvopastorale dei patrimoni antichi.
Tra il regime di pubblicistico e il vincolo di destinazione alle attività agro-silvo-pastorale il
legislatore riconosce un legame profondo, a tal punto che una volta determinato il mutamento di
destinazione si verifica allo stesso tempo uno dei presupposti per l’estinzione del diritto.
L’inalienabilità, l’inusucapibilità e l’indivisibilità sono giustificate dalla persistenza del vincolo di
destinazione dei beni collettivi alle attività agro-silvo-pastorali, poiché nel tempo il regime di
appartenenza collettiva delle terre ha dimostrato di costituire un modello di gestione efficiente delle
risorse agricole che ha conservato e protetto l’ambiente in favore delle generazioni future.
Il collegamento tra la proprietà collettiva e la tutela dell’ambiente è stato colto anche dal
diritto.
Nel nostro ordinamento giuridico lo stretto legame tra la proprietà collettiva e la tutela
dell’ambiente venne riconosciuto per la prima volta nella legge Galasso, dell’8.8.1985, n. 431, la
quale ha elevato le “aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici” a beni
25
ambientali . Il legislatore ha così introdotto accanto al sistema di vincoli di cose e località di
particolare pregio estetico isolatamente considerate, una diversa ed immediata tutela delle bellezze
naturali, mediante l'indicazione legislativa di vaste porzioni del territorio.
Dottrina minoritaria ha tuttavia dubitato della legittimità dell’apposizione del vincolo ai beni
d’uso civico e alle aree assegnate alle Università agrarie, rilevando come l’interesse ambientale
sarebbe stato individuato senza alcun riferimento alla ubicazione o alla struttura fisico-morfologica
26
dei beni, in assenza dell’effettivo riconoscimento del loro valore estetico e culturale .
27
La Corte Costituzionale
ha, invece, ritenuto che tra le zone vincolate assumono
legittimamente “rilievo le aree di proprietà delle università agrarie ovvero quelle assoggettate ad usi
civici, che, proprio per l'esistenza di obblighi correlati al carattere di comunità con rilevanza anche
pubblicistica, sono rimaste destinate ad usi agricoli, agro-silvo-pastorali tradizionali o, per la
maggior parte, conservate nelle destinazioni che consentono usi collettivi (pascolo, legnatico
ecc.)”. L’assoggettamento a vincolo di tali aree risponde ad una scelta, tutt'altro che irrazionale,
diretta a salvaguardare vaste porzioni di territorio, non solo secondo profili tipicamente paesistici
ovvero secondo ubicazioni o aspetti morfologici, ma anche secondo lo speciale regime giuridico.
Secondo la Corte proprio il regime ha consentito di conservare “vaste aree con destinazione a
pascolo naturale o a bosco, o agricole tradizionali, e risalenti nel tempo nelle diverse Regioni in
relazione agli obblighi gravanti e alla particolare sensibilità alla conservazione da parte delle
collettività o comunità interessate, in modo da consentire il mantenimento di una serie di porzioni
omogenee del territorio, accomunate da speciale regime o partecipazione collettiva o comunitaria,
e caratterizzate da una tendenza alla conservazione dell'ambiente naturale o tradizionale, come
patrimonio dell'uomo e della società in cui vive”.
La relazione tra proprietà collettiva ed ambiente è stata valorizzata dalla giurisprudenza
anche per giustificare la permanenza nel nostro ordinamento dei poteri d’impulso processuale
attribuiti al Commissario liquidatore dall’art. 29 della l. 16.07.1927, n. 1766 nei giudizi di sua
competenza. La Corte Costituzionale nella sentenza del 1° aprile 1993, n. 133, ha collegato i poteri
officiosi del Commissario “all'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici
nella misura in cui ciò contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio (art. 1 della
legge n. 431 del 1985), la cui tutela non può essere rimessa esclusivamente a soggetti portatori di
interessi locali - quali le Regioni e le popolazioni titolari dei diritti civici - ma postula anche il potere
di azione giurisdizionale in capo ad un organo di giustizia, sia pur diverso dal commissario-giudice”.
L’orientamento è stato successivamente condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità .
procedimento commissariale agli usi civici, in Dir. giur. agr. amb., 1995, 494; PETRONIO, La Corte Costituzionale timida, cit.,
80; Id., Ad avere l’ultima parola..., cit., 145.
25
La tutela ambientale prevista per le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici è ora contenuta
nell'art. 142 del Codice dei Beni culturali e paesaggistici, approvato con d.lgs. 22.01. 2004, n. 42.
26
PETRONIO, L’attuale dibattito in materia di usi civici: problematiche nazionali e locali, cit.; ID., La Corte Costituzionale
timida, cit. 80.
27
C. Cost. (ord,), 22-07-1998, n. 316, in CED Cassazione, 1998, confermata da C. Cost. (ord.), 18-03- 1999, n. 71, in Foro
It., 1999, I, 3462.
114
Elisa Tomasella
L’OGGETTO DEL VINCOLO AMBIENTALE
Non è chiaro se l’art. 142 del Codice dei Beni culturali e paesaggistici, riferendosi
genericamente alle aree assegnate alle università agrarie e alle zone gravate da usi civici, debba
trovare applicazione anche nel caso delle terre collettive disciplinate dall’art. 3 della l. 31.01.1994,
n. 97.
28
Sul punto la Corte Costituzionale nell’ordinanza del 22 luglio 1998, n. 316 ,ha ritenuto che
le zone gravate da usi civici e le aree assegnate alle università agrarie soggette a vincolo vadano
individuate in quelle aree assoggettate allo speciale regime “di appartenenza a determinati soggetti
pubblici (università agrarie), caratterizzati da natura associativa e da gestione di domini collettivi e
dall'amministrazione di terre demaniali di uso civico e, nelle province dell'ex Stato pontificio, anche
dalla provenienza da affrancazione da servitù di uso civico (legge 4 agosto 1894, n. 397), con
attività rivolta alla cura di interessi generali senza connotati imprenditoriali ed in stretto
collegamento, nella maggior parte dei casi, con le strutture municipali, e con la frequente
coesistenza, quantomeno nell'origine in talune regioni, con vincoli di uso civico”; ovvero quei terreni
assoggettati al “regime della particolarità della disciplina pubblicistica (aree gravate da usi civici),
caratterizzata da appartenenza a comunità di utenti (demani collettivi, comunali o universali) o da
usi che si esercitano su terre aliene da parte di comunità di utenti”.
Sotto quest’ultimo profilo non vi sarebbe ragione per escludere dall’applicazione dell’art. 142
del Codice dei beni culturali e paesaggistici anche le terre collettive, assoggettate, come le terre
civiche, allo stesso regime di tipo parademaniale e con patrimoni che appartengono iure dominii
alle collettività.
Le implicazioni anche di tipo penale che discendono dalla violazione dei vincoli ambientali, ci
impongono tuttavia di considerare che nel nostro ordinamento vige il principio di stretta legalità, in
29
base al quale non è possibile ricavare norme incriminatici non chiare e sicure per via analogica .
Ebbene, la natura privatistica, la sostanziale differenza rispetto agli usi civici e alla terre civiche e il
fatto che non sono espressamente comprese nell’elenco dell’art. 142, dovrebbe essere di conforto
a chi sostiene invece l’esclusione delle terre collettivo dal vincolo ambientale.
Tale esclusione non annulla, tuttavia, l’importanza del collegamento tra le terre collettive e la
tutela dell’ambiente, riconosciuto invece dall’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97.
IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE SECONDO LA LEGGE SUGLI USI CIVICI
Se l’interesse ambientale sotteso alle proprietà collettive è conseguito attraverso il
mantenimento della loro consistenza funzionale, ne consegue che il mutamento di destinazione e
l’alienazione delle terre oggetto dei diritti collettivi incidono direttamente anche sull’interesse
ambientale protetto dal legislatore.
Nonostante la delicatezza dei problematiche connesse al mutamento di destinazione e
all’alienazione, che si sostanziano nella necessità di contemperare la protezione degli interessi
della collettività proprietaria e degli interessi prettamente ambientali della collettività generale con
esigenze di sviluppo urbanistico, l’art. 12 della legge n. 1766/1927 non indica i requisiti in presenza
dei quali l’autorità pubblica possa autorizzare la vendita o una destinazione diversa delle terre
civiche.
Autorevole dottrina ha ritenuto di colmare la lacuna ricavando dalla destinazione pubblica
forestale impressa ai beni civici dalla legge sul riordino un riferimento alle norme (oggi) stabilite in
30
tema di alienazione dei beni costituenti il patrimonio forestale delle Regioni . L’art. 119 della legge
28
C. Cost. (ord,), 22 -07-1998, n. 316, cit.
Cass. pen., 25-05-1993, in Cass. pen., 1995, 372, “In tema di tassatività della fattispecie penale, l'interprete non può
ricavare norme incriminatrici non chiare e sicure per via analogica, dovendosi attenere al principio di stretta legalità. Ne
deriva che, quando non risulti con precisione che un comportamento sia colpito da una determinata norma incriminatrice, va
esclusa l'incriminabilità della condotta. (Nella specie la Corte ha ritenuto non configurabile la violazione dell'art. 1-sexies l.
08.08.1985, n. 431 nell'ipotesi di ancoraggio e sosta con una imbarcazione da diporto a trenta metri dalla costa dell'isola di
Giannutri, dove è vietato il transito di barche a motore. La Corte ha osservato che la legge de qua protegge i parchi e le
riserve, ma non quelli marini).
30
CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 386 ritiene che «la normazione speciale relativa ai beni collettivi a
destinazione pubblica nulla dispone, perché rinvia alla disciplina generale dei beni a destinazione pubblica cui i primi sono
29
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
115
n. 30.12.1923, n. 3267 consente, infatti, l’alienazione solo per quelle terre che, per loro natura e
struttura, non rispondano più ai fini di tutela della stabilità dei suoli, oppure non siano destinati alla
produzione di legname o a scopi sperimentali e di guida per i produttori privati, sempre che le terre
non possano essere utilizzate per importanti trasformazioni agrarie e sempre che per la loro
esiguità materiale l’alienazione non sia pregiudizievole alle esigenze del patrimonio circostante e,
31
invece, sia necessaria a soddisfare esigenze locali di abitazione e di industria .
In questo modo la lesione all'integrità dei patrimoni collettivi che l'alienazione comporta
assume un’importanza di second’ordine, poiché nel giudizio della p.a. vengono valutate
32
principalmente le finalità pubbliche a cui il patrimonio forestale sottende .
Senza attingere alla legge forestale è, tuttavia, possibile ricavare dallo stesso sistema che
regola i beni collettivi importanti elementi che permettono di guidare l’interprete nella comprensione
dell’istituto. Infatti, considerando l’importanza che la proprietà collettiva ha assunto soprattutto ai
fini di tutela ambientale, riconosciuta dalla legge Galasso e ribadita dalla Corte Costituzionale, si
ricava che l’alienazione è possibile solo per limitate estensioni di terra, sempre che non venga
impedito il soddisfacimento dell’interesse ambientale da parte del restante patrimonio collettivo.
L’alienazione è sicuramente un momento forte di sottrazione del bene alla destinazione e
alla disponibilità della collettività. In cambio del sacrificio a cui è sottoposta la collettività degli
abitanti è previsto un compenso in danaro che ai sensi dell’art. 24, co. 2, della legge del 1927 deve
essere investito in buoni del tesoro. La legge del 1927, non prevedendo il meccanismo della
reintegrazione dei patrimoni delineato invece dalle successive leggi sulla montagna, disegna
l’alienazione come un punto irrimediabile di frattura nel patrimonio collettivo. Per questi motivi,
l’alienazione non può non rappresentare che un’ipotesi del tutto residuale, autorizzabile in concreto
solo quando l’interesse prevalente conseguibile attraverso l’istituto risulti superiore rispetto agli
interessi di tutela ambientale, e sempre che l’integrità della risorsa nel suo insieme non venga
menomata.
Nel bilanciare gli interessi che vengono conseguiti con l’alienazione, la p.a. dovrà, quindi,
tener conto non solo dell’interesse della collettività proprietaria alla conservazione dei propri diritti,
ma anche dell’interesse generale alla tutela ambientale che viene conseguita tramite la
33
conservazione dei beni in proprietà collettiva .
Il mutamento di destinazione pare non rappresentare, invece, un punto di rottura così netto
come l’alienazione. Dall’art. 41 del regolamento applicativo della legge del 1927 si ricava, infatti,
che il mutamento deve essere possibilmente temporaneo e reversibile, pur non essendo escluso a
34
priori anche un mutamento stabile . L’unico limite previsto ex lege riguarda la necessità che il
mutamento determini un generale beneficio per la collettività degli abitanti.
assimilati. E’ la normazione forestale, dunque, che va esaminata sul punto». Secondo l’Autore il regime di inalienabilità
proprio dei beni forestali dello Stato può essere derogato solo nei casi stabiliti dall’art. 119 della legge forestale.
31
Secondo CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 388 la vendita non deve nemmeno essere di nocumento
al godimento dell’uso civico, ove questo sia effettivamente esercitato ed occorre la presenza di un interesse pubblico
concreto che nella singola specie induca l’amministrazione ad autorizzare la vendita.
32
CARLETTI, Il demanio civico: interessi collettivi, interessi privati e generali, in Nuovo dir. agr., 1990, 331, non condivide
l’impostazione del problema delineata da Cerulli Irelli. Secondo il primo «...poiché il mutamento di destinazione e
l’alienazione comportano entrambi perdita della consistenza materiale del bene - destinata a concludersi, nel secondo caso,
con la sua irreversibile trasformazione dell’equivalente monetario - la regola espressamente prevista per il primo caso può
legittimamente estendersi anche al secondo». Ad avviso dello stesso A., Gli utilizzi d’uso civico come modello per la tutela
dell’ambiente, in Nuovo dir. agr, 1983, 441 inoltre «la previsione di una qualche possibilità di alienazione sembra destinata
a regolare i casi in cui - né tramite il mutamento di destinazione sulla richiesta degli originari, né, mancando un diretto
interesse di costoro alla gestione, tramite la concessione a terzi - sia possibile rispettare la consistenza irrinunciabile del
bene».
33
La Corte Costituzionale nella sentenza del 21-11-1997, n. 345, in Foro it ., 1999, I, p. 2171, sottolinea l'importanza
dell'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla
salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, superando, in un certo modo, la pronuncia della C. Cost. 30-12-1991, n. 511, in
Riv. dir. agr., 1992, II, p. 245, che nel ritenere costituzionalmente legittimo l'art. 10 della l. r. Abruzzo 1988, n. 25, nella parte
in cui consente la sclassificazione di terre civiche che da tempo abbiano perso la conformazione fisica e la destinazione
funzionale di terreni agrari, non tiene in alcun conto l'interesse ambientale sotteso ai beni collettivi.
34
Ai sensi dell’art. 41, co. 3, del r.d. 26.02.1928, n. 332 «Qualora non sia possibile ridare a queste terre l'antica
destinazione, il Ministro per l'agricoltura e le foreste potrà stabilire la nuova destinazione delle terre medesime».
116
Elisa Tomasella
Non sembra rientrare nell’ambito del mutamento di destinazione la semplice interruzione
35
dell’esercizio dei diritti dei proprietari nel rispetto della destinazione forestale . Più correttamente,
forse, si potrebbe ritenere che con il mutamento sia possibile imprimere alle terre collettive una
destinazione diversa da quella forestale, ma questa destinazione non necessariamente potrà
impedire l’utilizzo dei beni da parte della collettività proprietaria. Non sarebbe, invece, soggetta ad
autorizzazione l’ipotesi inversa, e cioè l’interruzione dei diritti dei proprietari non attuata attraverso
un mutamento di destinazione, perché ciò che interessa il controllo pubblico è solamente la
destinazione forestale.
Circa le alternative destinazioni autorizzabili ai sensi dell’art. 12 della l. 16.06.1927, n. 1766
la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato restrittivamente il dettato dell’art. 41 del
36
regolamento applicativo della legge del riordino, prevedendo solo l’esercizio di attività agricole .
37
La Corte di Cassazione, nella sentenza del 30 gennaio 2001, n. 1307 , ha invece rovesciato
l’impostazione, consentendo non solo utilizzazioni agricole, ma anche destinazione pubbliche
diverse, quali ad esempio strade od ospedali, ed anche la realizzazione di discariche, ritenendo
che anche in questo caso sussista il beneficio generale della collettività.
E’ difficile negare che i vantaggi derivanti dalla costruzione di importanti opere pubbliche,
come le prime qui sopra descritte, ricadano anche sulla collettività proprietaria. Ma appare nel
medesimo tempo difficile giustificare a priori la perdita della disponibilità del bene che la collettività
proprietaria subisce a seguito di una destinazione stabile e di difficile reversibilità impressa alle
proprie terre che impedisce di trarre dal patrimonio antico le utilitates cui ha diritto.
Il vantaggio della costruzione di un’opera pubblica cade di riflesso anche sulla collettività
proprietaria, ma il costo della privazione dei diritti collettivi non è in alcun modo compensato (a
differenza di quanto accade nel caso dell’alienazione, come si è sopra ricordato).
Sicché la pronuncia della Corte di Cassazione sembra trascurare la stessa generale
disposizione dell’art. 42 co. 3 della Costituzione, che prevede anche per le forme anomale di
espropriazione un equo indennizzo. Elemento questo che nel caso di specie la Suprema Corte non
ha tenuto in conto.
38
Nel rispetto del diritto di proprietà e senza privare i titolari del diritto di utilizzo diretto del
bene, si potrebbe, quindi, in prima battuta ritenere che attraverso il mutamento di destinazione si
possano imprimere anche destinazioni diverse da quelle agricole, qualora venga assicurato il
beneficio generale della collettività dei proprietari, inteso quale utile fruizione del bene, e
mantenendo il bene (mutato nella sua destinazione) ancora nella loro disponibilità.
Tuttavia, a nostro avviso, il limite del beneficio generale contenuto nell’art. 41 del
regolamento applicativo della legge 1927 deve avere come punto di riferimento non solo la cerchia
35
Secondo CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 392, è pacifico che la fattispecie del mutamento di
destinazione stabilita con provvedimento amministrativo attiene esclusivamente all’interruzione dell’esercizio degli usi civici.
La valutazione da compiersi da parte dell’autorità amministrativa è rivolta esclusivamente a ponderare il danno che tale
interruzione comporta nella vita e negli interessi economici della comunità d’abitanti a fronte dell’utilità che ad essa può
pervenire per effetto della nuova destinazione impressa al bene.
36
CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 393, ritiene che non sia ammesso nella disciplina generale dei
beni in proprietà collettiva a destinazione pubblica, che a tali beni o a singole loro porzioni siano attribuite destinazioni
diverse da quelle comunque compatibili con la fondamentale destinazione forestale produttiva o agraria stabilita dalla legge
per questa categoria di beni. In senso conforme cfr. l. Fulciniti, I beni di uso civico, cit., 240.
37
Cass., 30-01-2001, n. 1307, in Dir. giur. agr. amb., 2003, 237, con nota di TOMASELLA, I possibili mutamenti di
destinazione delle terre civiche: la Cassazione include le discariche.
38
E’ necessario precisare che la problematica del mutamento di destinazione qui affrontata riguarda solamente le terre
civiche, intese quali forme di proprietà collettive aperte al godimento degli abitanti di un Comune, di una Frazione, o degli
appartenenti ad una Associazione agraria, e non gli usi civici in senso stretto che consistono in diritti di godimento su terra
aliena per i quali la legge del 1927 prevede la liquidazione. Occorre inoltre precisare che la legge sul riordino degli usi civici
non indica con chiarezza il titolare delle terre civiche. L’art. 11 e l’art. 8 fanno, infatti, riferimento alle terre d’uso civico
possedute dai Comuni, Frazioni o Associazioni agrarie, ai terreni assegnati a Comuni, all’attribuzione dopo lo scorporo a
ciascun Comune o a ciascuna frazione di una parte di terreno in piena proprietà, mentre l’art. 12 e l’art. 7, co. 2, si
riferiscono ai diritti della popolazione. La dottrina è divisa tra chi sostiene che la collettività sia proprietaria delle terre civiche
(CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, cit., 263 e ss., A. GERMANÒ, Sul soggetto cui debba imputarsi il diritto,
cit., p. 163) e chi afferma, al contrario, facendo riferimento alla tradizione dei giuristi napoletani, che la titolarità delle terre
debba essere imputata al Comune (PETRONIO, Usi civici fra tradizione storica, cit., p. 491). L’orientamento giurisprudenziale
si è consolidato invece nel ritenere quali domini delle terre civiche gli abitanti di un Comune o di una frazione (Cass., 27-111954, n. 4329, in Giust. civ., 1954, I, p. 2835).
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
117
dei proprietari ma la collettività generale. Per tale motivo nella comparazione degli interessi pubblici
che emergono nell’ipotesi di mutamento di destinazione, la p.a. deve tenere in considerazione
39
anche l’interesse ambientale che può essere compromesso con la nuova destinazione .
A differenza dell’art. 3 della l. 31.01.1994, n. 97, la legge sul riordino degli usi civici non
prevede l’obbligo di garantire l’originaria consistenza dei patrimoni antichi. La conservazione
dell’interesse ambientale assicurata dalla legge sulla montagna attraverso la compensazione pare,
quindi, essere estranea al sistema delineato nella legge del 1927.
Occorre, tuttavia, fare attenzione all’importanza che l’obbligo di reintegra dei patrimoni silvopastorali sta acquisendo nell’ordinamento italiano. Anche nel decreto legislativo del 15.05.2001, n.
227, infatti, all'art. 4, co. 3, viene prevista la compensazione in caso di mutamento di destinazione
40
dei beni forestali privati .
Pare quindi che, quale principio generale, il nostro ordinamento consenta la trasformazione
del bene-bosco, ma solo previa reintegrazione delle risorse. D’altro canto, sotto questo punto di
vista, la differenza di trattamento prevista per i beni collettivi siti in zone montane (ex legge
31.01.1994, n. 97) rispetto ai beni collettivi siti in zone diverse (ex legge 16.06.1927, n. 1766), che
tuttavia hanno stessa natura e perseguono gli stessi interessi, sarebbe poco giustificabile.
Se è interesse generale la conservazione del bene bosco e dei patrimoni collettivi, il
beneficio generale a cui deve tendere il mutamento di destinazione, che deve riguardare non solo i
proprietari ma la collettività nazionale intera, potrebbe essere conseguito anche tramite il
meccanismo della compensazione attraverso la reintegrazione delle risorse, l’unico sistema che
41
sembra garantire il soddisfacimento dell’interesse ambientale .
39
Cfr. sentenze della C. Cost. 1-04-1993, n. 133; 20-02-1995, n. 46; 21-11-1997, n. 345 citt.; cfr. ancora T.A.R. Abruzzo,
22-07-1993, n. 369, con nota di POSTIGLIONE, La salvaguardia ambientale delle terre di uso civico, in Dir. giur. agr. amb.,
1993, 561, che evidenziano l'importanza dell'interesse ambientale sotteso ai beni civici. Occorre, peraltro, sottolineare come
la sentenza della Cass. 30-01-2001, n. 1307, cit., non consideri in alcun modo l'interesse agricolo-forestale del territorio in
proprietà collettiva che la destinazione a discarica ineluttabilmente pregiudica. In generale la giurisprudenza ha, infatti, fino
in questo momento negato rilievo giuridico ed azionabilità alla destinazione agricola. In proposito è sufficiente confrontare
l'orientamento dei giudici amministrativi, ed in particolare il C. Stato, 15-06-2001, n. 3178, in Riv. giur. ambiente, 2002, 58
che ha dichiarato legittima la localizzazione di una discarica in zona agricola senza che fosse preventivamente valutata
l'esistente utilizzazione agricola della zona. ALBISINNI, Territorio e impresa agricola di fase nella legislazione di
orientamento, in Dir. giur. agr. amb., 2001, I, 566, sottolinea come l'introduzione da parte della legge 5.03.2001, n. 57,
all'art. 7, co. 3, lett. a) del principio del rispetto delle “vocazioni produttive”, e all'art. 8, co. 1°, lett. e), del favore per «la
conservazione … della destinazione agricola dei terreni» capovolge «la logica residuale e di risulta, per la quale il territorio
agricolo era zona indistinta» e l'interesse agricolo (nei suoi aspetti insieme economici e sociali) diviene interesse
esplicitamente protetto, chiamato ad orientare le scelte». Alla luce di questi nuovi principi anche per il mutamento di
destinazione dei beni civici la pubblica amministrazione dovrebbe valutare non solo l'interesse ambientale ma anche quello
propriamente agricolo e forestale.
40
L'art. 4, co. 6 prevede altresì che in luogo del rimboschimento compensativo, le Regioni possano stabilire «il versamento
di una quota in numero corrispondente all'importo presunto dell'intervento compensativo» destinando tale somma alla
realizzazione di interventi di riequilibrio idrogeologico nelle aree geografiche più sensibili ricadenti anche in altri bacini
idrografici, oltre a poter stabilire la realizzazione di opere di miglioramento dei boschi esistenti. Sul d.lgs. 15.05.2001, n.
227/2001 cfr. GERMANÒ, Commento al decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227 in materia di orientamento e
modernizzazione del settore forestale, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 714 e ss., e ABRAMI A., Nuovi contenuti e
nuovi livelli di competenza fra Stato e Regioni in materia di foreste, in Dir. giur. agr. amb., 2001, I, 660.
41
E’ interessante constatare come la l.r. Veneto 23.04.2004, n. 11, recante «Norme per il governo del territorio», all’ art. 34,
co. 3 preveda che «Il comune può, anche su proposta dei proprietari interessati, definire forme alternative
all'espropriazione. Tali forme seguono i criteri della perequazione di cui all'articolo 35, ovvero possono consistere nella
permuta con altri immobili o con quote edificatorie all'interno dei piani urbanistici, oppure nella partecipazione dei proprietari
medesimi alla realizzazione delle attrezzature e dei servizi pubblici localizzati dal piano degli interventi su immobili dagli
stessi posseduti». Detta norma estende a tutti i casi di espropriazione, anche per i beni in proprietà individuale, il principio
della compensazione. Occorre, peraltro, evidenziare come in generale si sostenga l’inespropriabilità dei beni in proprietà
collettiva in ragione del loro regime di tipo pubblicistico. Infatti, il legislatore ha stabilito che la titolarità dei beni collettivi
debba permanere in capo alla collettività. Il trasferimento del diritto dominicale può, pertanto, avvenire solo attraverso la
legge oppure attraverso il mutamento di destinazione ad iniziativa di parte. Ne consegue che la sottrazione di beni al
patrimonio antico in favore di altre destinazione di pubblica utilità possa avvenire solo attraverso la reintegra in natura con
altri beni. In questo senso cfr. la pronuncia del Comm. Reg. liquidatore usi civici Veneto, 13.05.2005, n. 26, in Dir. giur. agr.
amb. alim., 2006, 404, il quale ha statuito che «sono assoggettabili ad espropriazione per pubblica utilità i beni di uso
civico, qualora sia già avvenuta l’assegnazione a categoria a), prevista all’art. 11 della legge 1766/1927, purché sia stata
ottenuta l’autorizzazione disposta dall’art. 12 della stessa legge. L’espropriazione di terreni per opere destinate alla difesa
militare senza gli indispensabili antecedenti giuridico-fattuali, contrasta, quindi, con i caratteri di indisponibilità,
118
Elisa Tomasella
In siffatta prospettiva, potrebbe trovare collocazione all’interno del complessivo sistema
delineato dalla legislazione sugli usi civici, l’interpretazione da ultimo adottata dalla Suprema Corte,
secondo la quale rientrano nel consentito mutamento di destinazione tutte le possibili utilizzazioni,
non soltanto quelle agricole ma anche quelle che comportano addirittura un mutamento
irreversibile e stabile (come nel caso di destinazioni edilizie o industriali). Per tale via, infatti,
verrebbero congiuntamente soddisfatti due presupposti, entrambi presenti nella disciplina sopra
richiamata: l’esistenza di un beneficio (anche di natura non agricola) per la collettività, e
contestualmente il mantenimento in capo ai proprietari della disponibilità sull’insieme delle risorse,
attraverso la compensazione con altre terre alle quali verrebbe impressa la destinazione sottratta
alle prime. Per tale via verrebbe superato il limite di legge richiamato, poiché le collettività locali
vedrebbero ristorata la parziale perdita del proprio patrimonio con un nuovo acquisto.
Così facendo, da un lato si avrebbe una maggiore flessibilità nei possibili utilizzi anche delle
terre civiche non montane, garantendo nello stesso tempo la loro originaria estensione e
consistenza; e dall’altro lato potrebbe non essere più utile distinguere tra alienazione e mutamento
42
irreversibile di destinazione, come nella legge sulla montagna , perché la perdita di disponibilità
delle risorse dovrebbe essere sempre compensata per rendere possibile la tutela dell’interesse
43
generale che è dato da un ambiente integro .
IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE DELLE TERRE COLLETTIVE
A differenza della l. 16.06.1927, n. 1766, l’art. 3 della legge statale (l. 31.01.1994, n. 97) sul
riordino delle organizzazioni montane non ha fissato una normativa di dettaglio valida per ogni
44
forma di proprietà collettiva, ma si è limitata ad indicare alle Regioni le linee guida da seguire nel
45
suddetto riordino , precisando altresì i principi generali da seguire per autorizzare i mutamenti di
destinazioni dei beni collettivi.
Anche successivamente alla riforma del Titolo V della Costituzione, la potestà legislativa
regionale incontra ancora il limite dei principi generali fissati dalla legge quadro statale, nel rispetto
dell'autonomia statutaria delle collettività proprietarie secondo quanto previsto dall’art. 2 della
Costituzione.
La disciplina delle proprietà collettive è volta, come si è detto, a tutelare l’interesse
ambientale sotteso a tali beni, in quanto la Repubblica vuole assicurare che i soggetti gestori
continuino a conservare e a valorizzare le terre collettive nell’interesse dell’intera collettività
46
nazionale . Si potrebbe, quindi, ritenere che la materia rientri ora tra quelle in potestà esclusiva
imprescrittibilità e inusucapibilità dei beni stessi, sacrificabili solo alle condizioni previste dalla legge». Cfr. sul tema CERULLI
IRELLI, Beni pubblici, in Digesto pubbl., XIX, Torino, 1987, 300; GERMANÒ, Le concessioni per il pascolo, in Riv. dir. agr.,
1995, II, 369; ci sia consentito rinviare inoltre a TOMASELLA, Aspetti pubblicistici del regime, cit., pp. 109 e ss., nonché a
TOMASELLA, Note sul regime «pubblicistico» dei beni regolieri, in Rivista amministrativa della Regione Veneto, 2000, pp. 310
e ss.
42
La stessa legge sugli usi civici non distingue con precisione i due istituti.
43
Resta da chiedersi se la collocazione di una discarica – che sottrae alla collettività proprietaria il
godimento agro-silvo-pastorale di un terreno – possa considerarsi corrispondente all’interesse
generale della collettività in ordine all’ambiente; e se sia sufficiente una traslazione del vincolo di
destinazione su altri terreni per rendere legittima la trasformazione di un fondo conservatosi per
secoli con l’originaria destinazione.
44
La legge prevede, in generale, che l’importante obiettivo di valorizzazione e salvaguardia delle zone montane venga
raggiunto attraverso l’azione coordinata di Stato, Regioni e enti locali. DE MARTIN, Commento all’art. 1 della legge 31
gennaio 1994, n. 97, in COSTATO (a cura di), La nuova legge per le zone montane (Legge 31 gennaio 1994, n. 97), Padova
1995, 3, ritiene infatti che vi sia « ... la consapevolezza che una azione effettivamente incisiva e in grado di perseguire la
gamma di obiettivi delineati dalla legge non può essere realizzata se non responsabilizzando ciascun soggetto del sistema
nel quadro di una prospettiva coordinata e collaborativa di interventi speciali». Per evitare un eccessivo “centralismo”, infatti,
molte competenze sono state demandate dalla legge 97/1994 alle Regioni, che ha assunto così il carattere di legge quadro.
45
A scanso di equivoci il legislatore, questa volta, indica tra le proprietà collettive oggetto del riordino, le Comunioni familiari
di cui alle leggi 1971 n. 1102, le Regole cadorine di cui al d.lgs. 1948 n. 1104. Vengono inoltre comprese nell’elencazione le
associazioni previste dalla l. n. 397/1894.
46
La tutela dell’ambiente nei beni collettivi si realizza proprio attraverso il regime pubblicistico parademaniale.
Le proprietà collettive dell'arco alpino: un esempio di gestione efficiente delle risorse naturali
119
47
statale ai sensi del co. 2, lett. s), dell’art. 117 della Cost. e forse nella materia dell'ordinamento
civile (lett. e, 2° comma) trattandosi dell'istitut o civilistico della proprietà.
L’attenzione dell’ordinamento statale è, infatti, rivolta direttamente ai beni in proprietà
collettiva, perché questi interessano per la loro funzione (anche) pubblica/ambientale, e non
48
all’organizzazione interna del soggetto gestore . Nel riordino delle organizzazioni montane le
Regioni devono, secondo quanto stabilito dall’art. 3 della l. 97/1994, garantire l’autonomia
statutaria (lett. b) dei soggetti titolari delle terre collettive e assicurare il riconoscimento della loro
personalità giuridica di diritto privato (lett. a), ad esse essendo state demandate le modalità
concrete del procedimento di riconoscimento là dove i detti soggetti non abbiano già riconosciuta
dalla legge la personalità giuridica come è il caso delle associazioni o università agrarie dell’ex
Stato pontificio ai sensi della legge del 1894 (e dalle regole cadorine ai sensi del d.l. 1948).
Fermi restando questi principi, e fermo restando il riconoscimento di tale forma di proprietà
accanto a quella privata individuale ed a quella pubblica, alla legge regionale è affidato il compito di
disciplinare alcuni aspetti delle proprietà collettive ed in particolare, per quel che riguarda
specificatamente il regime dei beni, i limiti da osservare nei procedimenti tesi ad autorizzare il
mutamento di destinazione d’uso (art. 3, co. 1, lett. b, n. 1).
Alle Regioni, infatti, è attribuito il potere di fissare le condizioni per poter autorizzare i
mutamenti di destinazione, di modo che l’interesse sotteso ai beni collettivi, che è anche
49
pubblico , e che ha spinto il legislatore al riconoscimento e alla tutela della proprietà collettiva, non
subisca alcun pregiudizio.
Nell’indicare i principi da seguire nel procedimento di cambio di destinazione l’art. 3, co. 1,
lett. b, n. 1, della l. 97/1994 stabilisce che le Regioni siano tenute comunque ad osservare il
rispetto della valorizzazione del profilo ambientale e produttivo dei beni collettivi e dell’autonomia
50
statutaria .
E così, ad esempio, le Regioni non possono prescrivere che, in presenza di
determinate condizioni, i proprietari debbano consentire il cambio di destinazione, in quanto il
cambio di destinazione rientra tra le facoltà esclusive dell’assemblea dei proprietari.
Per il cambio di destinazione le Regioni devono inoltre stabilire le condizioni che permettano
di valutare caso per caso (art. 3, co.1, lett. b, n. 1), concretamente, la possibilità del mutamento,
subordinato al rilascio di una autorizzazione. In questo senso, ad esempio, non potranno essere
47
Stabilire la linea di confine tra tutela dell’ambiente in potestà legislativa esclusiva e valorizzazione dei beni ambientali in
potestà legislativa concorrente non è questione di semplice soluzione. La Corte Costituzionale si è recentemente
pronunciata sulla distinguibilità tra tutela e valorizzazione in materia di beni culturali. Nella sentenza del 13-01-2004, n. 9, in
www.cortecostituzionale.it, la Corte ha stabilito che «La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori
all'entrata in vigore della legge costituzionale 18.10.2001, n. 3 sono state considerate attività strettamente connesse ed a
volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili. Così l'art. 148 del d. lgs. 31.03.1998, n. 112 annovera, come s'è visto,
tra le attività costituenti tutela quella diretta “a conservare i beni culturali e ambientali”, mentre include tra quelle in cui si
sostanzia la valorizzazione quella diretta a “migliorare le condizioni di conservazione dei beni culturali e ambientali”. Tuttavia
le espressioni che, isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro
contesti normativi dimostrano che la prima è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua
struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella
del riconoscere il bene culturale come tale. La valorizzazione è diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché
anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di
questa». Sotto questo profilo, i principi delineati dalle Corte Costituzionale riportati nell’ambito della tutela e valorizzazione
dell’ambiente, dovrebbero far ritenere che le norme dirette a impedire il depauperamento fisico dei beni collettivi debbano
essere comprese all’interno della potestà legislativa statale esclusiva.
48
Cfr. GERMANÒ, Le comunioni familiari montane come formazioni sociali, in Riv. giur. sarda, cit., 67, secondo il quale i
“paletti” dell’intervento regionale sono costituiti dalla gestione dei beni, senza che in esso possa essere coinvolto il modo di
essere dei soggetti.
49
Si ricordi che il regime dei beni collettivi consente un’efficiente gestione del patrimonio boschivo e pascolivo nell’interesse
dei regolieri, ma allo stesso tempo tutela anche l’interesse ambientale.
50
Tali principi informano ogni materia oggetto del riordino delle Comunioni familiari montane. L’art. 118 Cost.
costituzionalizzando il principio di sussidiarietà (anche) orizzontale, intende favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini (…)
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale», sicché vanno favorite le regole di di autonormazione e di
amministrazione che la società civile, nel perseguimento di interessi generali, è capace di esprimere, e va riconosciuta
l’esistenza di un diritto alternativo, sussidiario appunto, rispetto a quello statale e/o regionale per la capacità dei cittadini
associati di svolgere direttamente attività di interesse generale, tra le quali anche la tutela ambientale, secondo il principio di
sussidiarietà. Cfr. GERMANÒ, ROOK BASILE, Per una legge regionale su beni ed usi civici, tra competenza legislativa e
principio di sussidiarietà, in Riv. dir. agr., 2006, II, 37.
120
Elisa Tomasella
stabilite condizioni generali ed astratte in presenza delle quali il mutamento di destinazione si
configuri come automatico.
Dovrà, infine, essere assicurata «al patrimonio antico la primitiva consistenza agro-silvopastorale compreso l’eventuale maggior valore che ne derivasse dalla diversa destinazione dei
beni»(art. 3, co. 1, lett. b, n. 1). In questo senso, allora, qualora attraverso il mutamento venga
impresso al bene già collettivo una destinazione di maggior valore, che comporti ad esempio
l’edificabilità del suolo, il valore dei beni da vincolare alla destinazione agro-silvo-pastorale dovrà
corrispondere al valore dei terreni edificabili e non agricoli.
L’istituto della compensazione previsto dalla legge sulla montagna è fondamentale per
garantire flessibilità al regime parademaniale dei beni in proprietà collettiva, in modo sia possibile
sottrarre un ben determinato terreno a siffatto regime si da consentirvi usi diversi rispetto a quelli
tradizionali, e allo stesso tempo che sia tutelata l’integrità delle risorse.
Il legislatore statale mira, infatti, attraverso la compensazione ad assicurare principalmente
la consistenza funzionale del patrimonio, affinché questo continui a possedere la capacità di
soddisfare l’interesse ambientale e quello delle generazioni future dei proprietari. Attraverso il
procedimento di mutamento di destinazione la Regione, quindi, si limita a controllare che
l’interesse pubblico/ambientale non subisca alcun pregiudizio.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
IL TURISMO SOSTENIBILE NELLE ALPI E IL RUOLO DEI PARCHI
CLAUDIO FERRARI
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
124
Claudio Ferrari
LA CARTA EUROPEA DEL TURISMO SOSTENIBILE
La Carta Europea per il turismo sostenibile (Cets) rappresenta uno strumento volontario e
contrattuale tra l’Ente di gestione di un parco, le imprese turistiche, la popolazione locale, per lo
sviluppo di un turismo in armonia con la gestione sostenibile delle risorse naturali dell’area protetta.
Si tratta della combinazione tra un processo di cooperazione intensa e pianificazione partecipata e
di un sistema di gestione e controllo teso al miglioramento continuo.
La Cets tra le proprie origini
dalle priorità mondiali ed europee espresse dalle
raccomandazioni dell’Agenda 21, adottate durante il Summit della Terra a Rio nel 1992 e dal 6°
programma comunitario di azioni per lo sviluppo sostenibile.
Sviluppata da un gruppo di lavoro europeo con rappresentanti delle aree protette, del settore
turistico e dei loro partner, sotto l’egida della Federazione EUROPARC (organizzazione paneuropea che riunisce più di 400 aree protette) per la realizzazione di un programma di buone
pratiche di turismo sostenibile nelle aree protette, la Carta prende spunto dalle raccomandazioni
stilate nello studio di EUROPARC del 1993 dal titolo “Loving Them to Death? Sustainable Tourism
in Europe’s Nature and National Parks”.
La Cets, inoltre, è una delle priorità per i parchi europei definite nel programma d’azione
dell’UICN Parks for Life (1994).
L’importanza crescente di uno sviluppo turistico sostenibile, come tema d’interesse
internazionale, è stata sottolineata anche dalle “Linee guida per il Turismo Sostenibile
Internazionale” della Convenzione sulla Diversità Biologica.
Lo strumento con il quale si concretizza inizialmente la Carta (1° fase) è un Programma di
Azione quinquennale costruito dalla collaborazione e dal partenariato tra settore pubblico, settore
privato e popolazione che riflette la strategia dell’area protetta nel settore del turismo sostenibile.
Aderire alla Carta significa realizzare una diagnosi, consultare e coinvolgere i partner, stabilire gli
obiettivi strategici, assegnare i mezzi necessari e valutarne i risultati. La combinazione tra
Programma di Azione e una positiva verifica ispettiva e valutazione della commissione di esperti
individuata dalla Federazione EUROPARC permette all’area protetta di ottenere la Carta e di
distinguersi quale territorio che garantisce forme di turismo sostenibili.
Per la definizione della strategia, la metodologia della Carta prevede che il Parco avvii dei
forum territoriali ovvero un processo di consultazione e cooperazione sistematico, organizzato ed
allargato a tutte le componenti economiche, sociali, ambientali operanti sul proprio territorio. Il
Forum è concepito come luogo di pianificazione dal basso e momento di incontro volto a stimolare
il confronto, la discussione, l’apprendimento e il lavorare in comune, il cui obiettivo finale è quello di
individuare, insieme agli attori locali, quale strategia sviluppare nei 5 anni di implementazione della
Carta e attraverso quali azioni progettuali. Aderire alla Cets significa, quindi, adottare un metodo di
lavoro fondato sul principio dell’ascolto e del partenariato, che si esprime in tutte le fasi di
definizione e di attuazione del programma di sviluppo turistico sostenibile e che va coltivato e
mantenuto nel tempo, attraverso l’istituzione di un forum permanente quale luogo di continuo
confronto e dialogo.
La Cets ha rappresentato per i parchi la prima importante occasione di confronto (sia a
livello locale cha tra aree protette) su tematiche, come il turismo sostenibile, che vanno oltre la
conservazione e la tutela ambientale, passando da un concetto di tutela passiva del proprio
territorio ad un concetto più ampio ed esteso di “conservazione attiva”, che vede i parchi, insieme
agli altri attori del territorio, “motori” di sviluppo sostenibile. Attraverso la Cets le aree protette
diventano quindi “laboratori di buone pratiche” legate alla sostenibilità, diventando i luoghi ideali nei
quali sperimentare progetti innovativi.
Più in particolare, l’implementazione della Cets è stata progettata in tre fasi:
nella 1ª Fase, è l’area protetta che richiede e riceve il riconoscimento della Cets, con
l’accordo delle imprese turistiche e di altri attori locali (5 anni di validità);
nella 2ª Fase, sono le imprese turistiche delle aree protette accreditate che possono
aderire alla Cets (3 anni validità); la fase II della Carta prevede di andare al di là del semplice
coinvolgimento già avvenuto nella fase I, permettendo alle imprese collaboratrici di ricevere
dall’area protetta riconoscimenti individuali come firmatari della Carta;
nella 3ª Fase, possono aderire alla Cets le agenzie di viaggio e tour operator (1 anno di
validità).
Il turismo sostenibile nelle Alpi e il ruolo dei parchi
125
La fase I della Carta, avviata nel 2001, è in via di completa attuazione. Nel 2009 questo
importante riconoscimento risulta ottenuto da 75 Aree Protette di 8 Paesi europei, tra cui 7 aree
protette italiane: Parco naturale Alpi Marittime, Parco nazionale Monti Sibillini, Parco naturale
Adamello Brenta, Parco regionale Adamello Lombardo, Aree Protette delle Alpi Lepontine/ Riserva
Naturale Lago di Piano, Sistema di Aree Protette dell'Oltrepò Mantovano e Comunità Montana del
Parco Alto Garda Bresciano che ha ottenuto il riconoscimento lo scorso 12 settembre in Svezia, in
occasione dell’ultima conferenza di EUROPARC Federation.
Per quanto riguarda la fase II, il processo si trova ancora ad uno stadio embrionale. La prima
Nazione ad aver avviato la seconda fase è la Spagna che, nel 2006, ha creato un gruppo di lavoro
coordinato da EUROPARC-Spagna, con l’obiettivo di progettare il Sistema di Adesione volontario
degli imprenditori turistici alla Cets, in modo che potesse essere applicabile a tutte le aree protette
spagnole.
Questa fase si pone l’obiettivo strategico di estendere i valori, i doveri e i benefici della Cets
alle imprese che operano nel territorio di competenza del Parco, puntando a rafforzare le relazioni,
in parte già instaurate durante la fase I, e ampliare la conoscenza reciproca tra l’area protetta e le
imprese collegate al settore turistico. Tramite la collaborazione di tutte le parti coinvolte, il turismo
sostenibile soddisfa le esigenze dei visitatori, delle imprese e della popolazione locale, senza
nuocere all’ambiente nel presente o in futuro. Per l’area protetta, oltre ad essere evidentemente
un’operazione che favorisce il consenso sociale, potendo moltiplicare gli alleati nel proprio
territorio, rappresenta una straordinaria opportunità per amplificare i fondamenti della propria
cultura e concretizzare i principi della sostenibilità dello sviluppo.
Sulla base della positiva esperienza spagnola, anche l’Italia ha cominciato a lavorare sulla
fase II. A questo scopo è stato organizzato dal Parco Naturale Adamello Brenta in collaborazione
con Federparchi, nel maggio 2009 a Caderzone Terme, il 1° Workshop nazionale sulla Cets. Il
meeting si è proposto come primo momento di verifica sui percorsi di turismo sostenibile attuati dai
singoli parchi attraverso la Carta e importante occasione di confronto sulla fase II e sulle sue
modalità di implementazione in Italia. E’ stata creata una “cabina di regia” formata dai direttori dei
parchi italiani Cets e da Federparchi, con il compito di redigere il documento metodologico per la
fase 2 della Cets in Italia. Si sta lavorando alla redazione di una metodologia flessibile integrata,
ovvero un documento che da un lato ponga le linee guide generali, quindi una piattaforma di
requisiti comuni a tutti i parchi italiani basati necessariamente sui principi della Carta, e dall’altro
tenga conto delle specificità socio-economiche di ogni area protetta, generando tutta una serie di
requisiti di adesione diversi da parco a parco. In questo modo necessariamente verranno
individuati diversi standard di qualità richiesti alle imprese (e offerti di conseguenza al turista) a
seconda della realtà dell’area protetta con il rischio di disorientare il cliente, problema che trova
però spiegazione nel fatto la Cets non rappresenta una certificazione – per cui si dovrebbero
garantire i medesimi standard prestazionali – ma piuttosto un accordo volontario tra parco e
impresa, in base al quale l’impresa garantisce il proprio impegno a migliorare via via le proprie
prestazioni – non solo ambientali ma anche comunicative e di qualità del servizio – e il Parco, a
sua volta, si impegna a segnalare al mercato, attraverso il logo Cets questa alleanza come titolo
preferenziale.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
A SPATIAL AGENT-BASED MODEL TO EXPLORE
SCENARIOS OF ADAPTATION TO CLIMATE CHANGE
IN AN ALPINE TOURISM DESTINATION
1
2
1
STEFANO BALBI , PASCAL PEREZ , CARLO GIUPPONI
1
2
UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI, VENEZIA, AUSTRALIAN NATIONAL UNIVERSITY, CANBERRA
Working Papers
D e p a r t me nt o f Ec o n o mi c s C a ’
F o s c a r i U n i v e r s i t y o f V e n i c e N o. 0 5 / W P
/2010
ISSN 1827-3580
This Working Paper is published under the auspices of the Department of Economics of the Ca’ Foscari
University of Venice. Opinions expressed herein are those of the authors and not those of the Department. The
Working Paper series is designed to divulge preliminary or incomplete work, circulated to favour discussion and
comments. Citation of this paper should consider its provisional character.
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
ABSTRACT
A vast body of literature suggests that the European Alpine region may be one of the most
sensitive to climate change impacts. Adaptation to climate change of Alpine socio- ecosystems is
increasingly becoming an issue of interest for the scientific community while the people of the Alps are
often unaware of or simply ignore the problem. ClimAlpTour is a European research project of the
Alpine Space Programme, bringing together institutions and scholars from all countries of the Alpine
arch, in view of dealing with the expected decrease in snow and ice cover, which may lead to a
rethinking of tourism development beyond the traditional vision of winter sports. The research reported
herein analyses the municipality of Auronzo di Cadore (22,000 ha) in the Dolomites under the famous
peaks of the “Tre Cime di Lavaredo”. The local economy depends on tourism which is currently focused
on the summer season, while the winter season is weak. As a whole, the destination receives
approximately 65,000 guests per year with a resident population of 3,600 inhabitants. Since recently the
Community Council is considering options on how to stimulate a further development of the winter
tourism. This paper refers to a prototype agent-based model, called AuronzoWinSim, for the
assessment of alternative scenarios of future local development strategies, taking into account
complex spatial and social dynamics and interactions. Different typologies of winter tourists compose
the set of human agents. Climate change scenarios are used to produce temperature and snow cover
projections. The model is mainly informed by secondary sources, including demographic and economic
time series, and biophysical data which feed-in its spatial dimension. Primary data from field surveys are
used to calibrate the main parameters. AuronzoWinSim is planned for use in a participatory context with
groups of local stakeholders.
Keywords
Alpine Winter Tourism, Spatial Agent-Based Model, Climate Change Adaptation
JEL Codes
Q
A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 129
INTRODUCTION
The Alpine region in Europe is among the areas that are most rapidly affected by climate change.
In general, the mean temperature of this region has increased up to +2° C for some high altitude sites
over the 1900-1990 period against +0.78° C in the l ast 100 years at a global level (IPCC 2007, ESFR
ClimChAlp 2008). With a certain degree of local variability, glaciers have lost 50% of their volume since
1850 and snow cover is decreasing especially at the lowest altitudes and in fall and spring. A clear
signal of climate change about precipitations is not detectable yet, but increasing risks of extreme
events have been projected including floods, debris flows, avalanches, glacial hazards, and mountain
mass movements (Castellari 2008). The main expected impacts on the Alps concern the hydrological
conditions and water management, forests and biodiversity, agriculture, energy management, and
eventually tourism, which is the focus of this paper. While summer tourism is most probably going to be
favored by climate change (Bourdeau 2009), the World Tourism Organization started warning about the
possible negative implications for winter tourism and sports since 2003 (UNWTO 2003). Nowadays
1
already 57 of the main 666 ski resorts of the European Alps are considered to not be snow-reliable
(OECD 2007). However, climate change is also an opportunity for those resorts that are snow-reliable,
as they will face less competition in the future (Simpson et al. 2008, p. 62).
The Alpine people are often unaware of or simply ignore the problem, which is a common
problem of climate change 3 adaptation. Perhaps, at a very local level, climate patterns are not evident
enough to question the development model based on the “white dream” which has prevailed since the
seventies. Indeed, a model of development based on snow, no matter if natural or artificial, is still
somehow surviving notwithstanding the maturity of the traditional ski product and the stagnation of the
market demand (Macchiavelli 2009). At this point very careful assessments should be carried on before
any further snow-based development plan (WWF 2007).
ClimAlpTour is a European project of the Alpine Space Programme, bringing together institutions
and scholars from all countries of the Alpine arch, in view of dealing with the expected decrease in snow
and ice cover, which may lead to a rethinking of tourism development beyond the traditional vision of
2
winter sports . The project analyses 22 pilot areas with diverse environmental, social and economic
conditions in order to provide a global perspective on the Alpine tourism. Raising the awareness of the
stakeholders including tourists, population and businesses on the impact of climate change on tourist
economy of the Alps and on possible adaptation strategies is one of the goals of the whole project.
This paper explores the conceptualization phase of an agent-based model (ABM) capable of
gathering the available heterogeneous information and assess different scenarios of future local
development, and eventually tourist supply, taking into account complex spatial and social dynamics
and interactions. This methodology has already proven to be successful for other tourism related issues
(i.e. Perez et al. 2009). However, to our knowledge, this is one of the first attempts to explore the
interactions between climate change and winter mountain tourism by means of an agent-oriented
3
4
approach . Our work is still in progress and is meant to complement a decision support system (DSS) ,
which will be implemented during a series of participatory workshops.
CASE STUDY
The research reported herein analyses the municipality of Auronzo di Cadore located in the
province of Belluno, in the Veneto region, in the north-east of Italy. It covers a vast area (22.000 ha)
which includes Misurina with its lake and the most famous mountain of the Dolomites, namely the “Tre
Cime di Lavaredo”, part of the UNESCO world heritage since 2009.
The village of Auronzo (866m on the sea level) hosts almost the entire population of the
municipality of approximately 3,600 inhabitants. It is located in the middle of the valley of the Ansiei
river, which forms the artificial Santa Caterina Lake, due to the presence of an old dam. The lake basin
is 3 km long and is endowed with beach facilities that periodically host motor nautical and canoe
competitions. Misurina is a small settlement at 25 km from the main village, placed at an altitude of 1754
1
In general, a ski resort is considered to be snow-reliable if, in 7 out of 10 winters, a sufficient snow covering of at least 30 to 50
cm is available for ski sport on at least 100 days between December 1 and April 15 (Burki at al. 2007) .
2
The project website is www.climalptour.eu
3
See also Sax et al. 2007.
4
See Giupponi and Sgobbi 2008.
130
Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi
meters, just under the Tre Cime di Lavaredo peak, which is accessible both by means of several
mountain paths and by a toll regulated carriageway.
The local economy depends on tourism which is currently focused on the summer season, while
the winter season is weak, with only 25% of arrivals (Regione Veneto 2009). Indeed, hiking (200 km of
signed mountain paths and alpine refuges) and relax are the main elements of attraction. The total
hosting capacity is of approximately 7.300 beds of which around 1700 in the hotel sector and the
remainder in the extra-hotel sector (B&Bs, lodgings, etc.). The 75% of the hotels’ beds concern
structures with 1 or 2 stars. In 2008 63.700 arrivals and 305.400 tourist nights were registered, showing
a slight decrease from the previous year. The last 10 years have witnessed the increase of arrivals and
the contraction of average stay.
Notwithstanding the presence of two small downhill ski areas and two cross-country ski centers
some hotels don’t even open for the winter season. The four ski-lifts of Mount Agudo, which reach a
maximum elevation of 1600m, supply seven ski-trails covering 15 km. In the locality of Palus San
Marco, just at halfway between Auronzo and Misurina, there is the Somadida Forest, one of the largest
of the province, which becomes a cross-country ski centre (with nine loops of 52.5 km in total) during
the winter season.
The Marmarole sled-dog centre and an ice-kart circuit are also placed Palus. In addition,
Misurina, which has an hosting capacity of approximately 500 beds is endowed with the two ski-lifts of
Col de Varda (from 1756 m to 2220 m) that supply five ski-tracks, and 17 km of cross-country ski loops.
Since recently the Community Council is considering options on how to stimulate a further
development of the winter tourism.
There exist several projects of ski-areas development. The most ambitious is located in Marzon
valley, a few km from the main village, which would connect the valley to the ski-area of Misurina (with
an average altitude over 2000 m). The main problem at stake is how to develop winter tourism in the
next 40 years, in a context of climate change and market demand that is not favorable. In particular, the
spatial heterogeneity given by the bipolarity of the case study, suggested the elaboration of a spatially
explicit ABM.
Figure 1. Map of the Municipality of Auronzo di Cadore
MODEL DEVELOPMENT
The development of a conceptual model has been carried out to support the design of the ABM
by integrating three methods gravitating around different research groups of the heterogeneous ABM
scientific community. The ARDI (Actor, Resources, Dynamics, and Interactions) method belongs to the
A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 131
companion modeling tradition, mainly applied to natural research management. It can be extremely
efficient for jumpstarting the process of visual formalization of the domain model (Etienne 2006). The
ODD (Overview, Design concepts, Details) protocol belongs to the individual-based modeling branch of
ecology, but is gaining further diffusion in social science. Differently from the other methods, it consists
of a narrative description of the various elements of an ABM, contributing to a more rigorous formulation
phase (Grimm et al. 2006). Finally, the UML (Unified Modeling Language) belongs to the computer
science tradition and is probably the most effective methods, preceding the coding phase, which can
guarantee the full replicability of the model (Boch et al. 1999).
These methods have been firstly applied in the order in which are presented, subsequently
leading to a more iterative approach. By means of ARDI we identified the tourist facilities as the main
resources of the system, the winter tourists as the acting agents and the meta-economic agents as the
economic units in charge of accounting the economic flows for each tourism sub-sector. The application
of ODD led to the definition of the tourists’ heterogenic behavior and of the future scenarios. Finally,
through UML, we were able to formalize in diagrams all the details. The clear advantage is that the
modeler is endowed with a set of tools mutually checking the model internal consistency with regards to
both its static and the dynamic aspects.
Representing Heterogeneous Market Behavior
Even though winter sports, and especially downhill skiing, are still the essence of winter mountain
tourism the market has reached its maturity and is challenged by (a) loss of shares in the tourist market
in the Alpine countries throughout Europe, (b) competition from other tourist destinations, (c) the
growing economic and territorial divide between large and small resorts, (d) the need for huge new
investments against the background of a reduction of public funding, (e) new recreational practices
(freestyle and freeride), (f) the ageing of the tourist population, (g) demand for environmental quality, (h)
5
the changed notion of resort , (i) the inclination toward shortened and repeated holidays, (j) behavioral
unpredictability, due to wheatear forecasts, and finally (k) the search for new markets (Minghetti, 2002,
Daidola, 2006, Bourdeau 2009, Macchiavelli 2009). However, according to Camanni [2002] and
6
Daidola [2007], a new light ski industry, with less investments and more flexibility with regard to climate
conditions, is possible and the small resorts may thus be advantaged.
ABMs can be of great value in dealing with such dynamics because they are particularly well
suited to incorporate heterogeneity of behavior. Our approach focuses on the simulation of tourists’
response (demand-side) to alternative strategies of development of tourism facilities of the destination
(supply-side) in order to provide the local stakeholders (residents, entrepreneurs, local tourism
organizations, community council), with quantitative indicators of possible futures which depend on their
collective decisions.
Drawing on the above cited literature and especially on secondary data from marketing surveys of
7
the tourism statistical observatories of Trentino and Alto Adige (Provincia Autonoma di Trento 2007,
Provincia Autonoma di Bolzano 2009), we created a set of eight tourist profiles which is rich enough to
take into account (1) the actual winter tourists of Auronzo, (2) the actual winter tourist visiting Auronzo’s
main competitors, and (3) the potential winter tourist of tomorrow (table 1).
5
“The idea of the resort as a unity of place, time and action, can be circumvented or deviated by a new interpretation of the
mountain playground. One example is the striking contrast that can be observed by the expansion and interconnection of large ski
areas, and the micro-scale of space in which the new sports are practiced by young snow surfers such as the snowparks”
(Bourdeau 2009) .
6
Daidola’s hypothesis is that artificial snow is less satisfying and more dangerous than natural snow. Because of artificial snow,
the current ski style has become repetitive, expensive and boring, and at the same time too easy to learn and too fast. On the
contrary ski and snowboard magazines mainly propose powdery snow and exciting experiences. Moreover artificial snow is
responsible for the vicious circle of huge investments of the last years.
7
These are the two most important winter tourism regions of the Italian Alps.
132
Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi
Table 1. Narratives describing the tourist profiles
Representing Alternative Futures
Every simulation run requires the users to make three choices: (1) the development strategy to be
tested; (2) the societal scenario that sets the conditional context in terms of number of tourists that could
be available to choose the destination; and (3) the climate projection, in terms of snow cover and
temperature. The combination of these choices defines the future conditions, from 2011 to 2050, under
which the tourists’ response is simulated.
The underlying idea that has inspired the model is to identify the most robust development
strategy. In this regard, we have defined four spatially explicit alternative strategies which are able to
A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 133
take into account various orientation towards tourism and the perception of climate change from the
local stakeholders’ point of view.
The first strategy is the pursue of the traditional ski intensive paradigm. Indeed, one of the most
familiar measures in the struggle against snow-deficient winters is the construction of high cost artificial
snowmaking facilities (Burki et al. 2007). However, in this strategy Auronzo not only maintains the ski
areas of Mount Agudo and Misurina, but also develops two new ski areas with snowpark, on the basis
of two projects about Marzon and Da Rin valleys, which have different spatial conditions. The overall
hosting capacity remains untouched while a minor increase concerning restaurants and retailers supply
is included. The second strategy embraces the vision of Daidola [2006] and Burdeau [2009] of an
alternative light ski oriented and postmodern development. It integrates the wilderness and the
playground concepts increasing the supply of controlled off-piste tracks (Marzon and Da Rin valleys),
cross-country itineraries (Palus) and snow parks (Mount Agudo). These are assisted by a very limited
development of the existing ski lifts and a more sober artificial snowmaking behavior. The third is the
non-snow strategy that is the well established, but often not self-sustaining, process of diversification
and enlargement of tourist offer by means of higher quality hotels, shopping, gastronomy, pubs and
bars, and, most of all, wellness and spa centers. This is mainly implemented in Auronzo, Misurina and
Palus villages. The ski areas remain in function without the support of artificial snow.
Finally the fatalistic strategy consists of no changes in the supply behavior, which could also be
described as “business as usual”.
We are planning to consider 2 societal scenarios, one more conservative and one more
optimistic, which will be derived interpolating historic European population dynamics and the alpine
tourism fluxes. The climate projections will be developed in order to represent 3 IPCC scenarios of
8
aerosol and GHG forcings (A2, A1B and B1), drawing on the Ensembles European project .
MODEL DESCRIPTION
This concise model description loosely follows the ODD protocol (Grimm et al. 2006). We also
provide the UML class, sequence and activities diagrams (the first two as appendices and the rest in the
project website: http://www.dse.unive.it/clim/ climalptour.htm).
Model Overview
The model purpose is to analyze alternative winter development strategies for the case study
simulating the tourists’ response under different climate scenarios.
Entities and state variables are visually presented in the UML class diagram (Appendix A). The
main entities are the tourists, the tourism facilities and the meta-economic agents. The tourists are
divided in eight profiles: traditional ski-intensive (TSI), ski part-time (SPT), sporty alternative crosscountry (SAX), sporty alternative wilderness (SAW), idle (ID), eclectic (EC), counterculture wilderness
(CCW) and counter-culture playground (CCP).
According to the profile they belong to (variable “type”), agents have different preferences and
behavior with regards to the tourism facilities. The tourism facilities, which in turn compose the
destination supply structure, are divided in eight types: four are snow related (facilities dedicated to
downhill skiing, snowparks, cross-country skiing and off-piste skiing) and four are non-snow related
(accommodations, restaurants, retailers, and other facilities including those for kids, wellness and spa,
and other sports). The meta-economic agents are the accountants of the tourism facilities. One metaeconomic agent is in charge of managing one type of tourism facility. They keep track of the investment
required to put in place their facilities, defined by the development strategy to be analyzed, and of their
money flow.
The development strategies, which represent possible orientations of the local stakeholders, are
set exogenously by the model.
Concerning the scales, both the snow and the non-snow related facilities are located in a spatial
grid of approximately 10.000 cells which represent the destination. Each cell represents a 150 x 150
meters square and contains the actual geographical information of the area. Nine spatially distributed
reference points have been identified in order to represent the different snow conditions under
alternative climate scenarios. A simulation is composed of 40 cycles, which are the winter seasons from
8
8 See http://ensembles-eu.metoffice.com/
134
Stefani Balbi, Pascal Perez, Carlo Giupponi
st
2011 to 2050. Each cycle consists of 126 days (time steps) that represent the 18 weeks from the 1 of
th
December to the 6 of April. Summing up, every simulation takes into account 720 weeks and 5040
time steps.
Process overview and scheduling are captured in the UML sequence diagram (Appendix B),
which shows the sequence of operations performed by each class. Every operation is then further
described as activity diagram. Initially, the spatial units (patches) update their attributes and configure
the tourism facilities presence as per selected development strategy. Each of the meta-economic agent
is assigned with the investment needed to meet that configuration. The reference points read snow
cover and temperature from the climate data which describe the selected climate projection. They also
perform three kinds of forecasts concerning snow cover, at short and medium term, and snow security,
at short term. Then, the snow facilities check those forecasts and store the information that they will
subsequently pass to the tourists. Downhill and snowparks can decide to produce artificial snow. After
that, the tourists, whose total amount is taken by the societal scenario, can check the destination in
order to become visitors, if their requirements are met. According to their behavior, they can check the
forecasts and go to the planning phase, in which they decide their day of arrival. If they are in the
destination they enter into a loop of operations which describe the use of the tourism facilities. Then,
every facility can check its own users and pass the information to the patches that can visually describe
the tourists density on the grid. The meta-economic agent calculates the return associated to the
facilities use and update their balance sheet. Finally, the tourists in their last day of vacation calculate
their overall satisfaction. If this is negative they exit from the simulation, if it is positive they remain
among the potential visitors and can plan a further vacation. Those that eliminated are substituted by
other tourist agents, but they are also accounted for in the statistics about dissatisfaction.
Input data is provided in various forms. The spatial units are georeferentiated, based on GIS
(geographical information system) layers concerning elevation, slope and radiation. The reference
points are provided with climate data in form of time series of snow cover and temperature, according to
the selected climate projection. Finally, the societal data provides the total number of tourist agents
available for each of the 40 cycles during every simulation.
Most of the operations make use of submodels in form of simple algorithms and logical tests
which are presented in detail in the activity diagrams. Most of the parameters used in the activity
diagrams are calibrated on the case study, by means of field surveys. The rest are retrieved from the
literature.
The model initialization represents the destination winter tourism conditions in 2011 concerning
the actual amount, type and spatial configuration of the tourism facilities.
ABM Design Concepts
Emergence. Once the boundary conditions of possible futures are set by the 3 choices on the
scenarios for any model run, then the performance of the destination is a phenomenon that emerges
from the tourists’ behavior. This is numerically expressed in terms of tourist attracted and money flow
produced by each facility type (see updateUsers and updateBalance activity diagrams) and visualized
on the spatial grid at each time step in terms of tourists’ density (see checkOccupation activity diagram).
Objectives. The tourists can choose whether to go or not to the destination, according to their
preferences about the destination supply and to the weather forecasts (see checkDestination and
doForecast activity diagrams).
Prediction. Tourists’ expectations are based on the facilities available and their spatial
configuration in the destination and on the snow cover and security forecasts.
Sensing. The tourists are fully aware of the destination’s facilities and spatial attributes before
the vacation, but they perceive the environmental conditions of the facilities they use only in loco.
Learning. Each day of their vacation the tourists calculate their satisfaction which depends on
the effective environmental conditions encountered in terms of snow cover and tourists’ density, so that
their availability to a subsequent vacation depends on the memories of the previous one (see
calcSatisfaction activity diagram).
Adaptation. The tourists adapt by not visiting Auronzo again once their satisfaction goes
negative, in favor of other competing destinations (see updateSatisfaction activity diagram).
Interaction. The tourists directly receive stimuli, through sensing, from the destination’s facilities
and spatial attributes, which affect their eligibility to book their vacation. They also indirectly interact
among each other with negative effects on their respective satisfaction, over certain density thresholds.
A Spatial Agent-Based Model to Explore Scenarios of Adaptation to Climate Change in an Alpine Tourism Destination 135
Stocasticity is used to reproduce variability in the various agents’ decision processes, primarily
by means of normal distributions (see the activity diagrams).
Observation. The model collects data on the economic performance of the eight types of
facilities and on the spatially distributed tourist fruition of the destination.
DISCUSSION AND CONCLUSION
Our work is still in progress but it can already provide some interesting insights on the modeling
of climate change and tourism.
First of all, the scale of analysis and the level of detail represent a significant improvement in the
climate change research, which is normally performed at a much higher level of spatial and temporal
aggregation. This scale perfectly fits the crucial socioeconomic dynamics of local adaptation that have
to be investigated.
Second, to our knowledge this is one of the first attempts to formalize the supply structure of a
winter tourism destination in classes by means of UML. The result is simple and clear but is able to
represent complex interactions, for alternative development strategies, in a spatially explicit way. This is
extremely valuable giving our objective of assessing robustness and flexibility rather than finding optimal
solutions. This conceptualization can eventually become a generic ontology, if it will be proved to fit the
application to other case studies.
Third, the simulation focuses on the feed-backs of the demand side of tourism, which is often
missing in the existing tourism models. However, the tourists are the ultimate judges of a destination
adaptation strategy, because they will decide the winners and losers of the future. This is why we
regarded as fundamental to focus on their agency in an heterogeneous way, drawing from disciplines
such as customer behavior, which could only be done by means of an the agent-based approach.
Fourth, the model development itself is a novelty because we integrated some of the main
practices of the ABM community which are never found together but can mutually benefit each other.
The next steps of our work include the implementation of the UML model into a software for
computer simulation.
AuronzoWinSim will then be tested and refined, before being used in a participatory context with
groups of local stakeholders, in two ways. Initially, it will support the collective discussion on possible
adaptation and development strategies, and the criteria to assess their robustness. Secondly, it will
incorporate the strategic adjustments proposed by the stakeholders.
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APPENDIX A. AURONZOWINSIM CLASS DIAGRAM
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APPENDIX B. AURONZOWINSIM SEQUENCE DIAGRAM
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
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Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
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ELENCO DEGLI ATTI DEI CORSI DI CULTURA IN ECOLOGIA
ATTI DEL 21° CORSO - 1984
Marchesini L. Valutazione del grado di inquinamento da piombo tetraetile in un'area industriale: proposta di bonifica in funzione della
destinazione.
Brechtel L. Relazioni tra precipitazioni e foresta con riferimento alla qualità delle acque.
Bagnaresi U. Problemi di forestazione nelle aree argillose dell'Appennino.
Baggio P. Telerilevamento: metodo moderno d'analisi territoriale.
Del Favero R. Popolamenti d'alta quota.
ATTI DEL 22° CORSO - 1985
Papanek F. Teoria della gestione polifunzionale della foresta con riferimento specifico all'economia forestale - Theory of polyfunctional forest
management.
Paiero P. Criteri di tutela dell'ambiente montano: aspetti botanici.
Del Favero R. Problemi di assestamento forestale in parchi naturali: un'esperienza nel Monte Baldo.
Bagnaresi U., Rosini R. Esperienze di pianificazione dei parchi regionali e delle riserve naturali in Emilia Romagna.
ATTI DEL 23° CORSO - 1986
Shugart H.H. Le dinamiche degli ecosistemi: illustrazione della teoria delle dinamiche forestali tramite l'uso di modelli di simulazione.
Rapp M. Ciclo della sostanza organica, dell'acqua e delle sostanze nutritive.
Dell'Agnola G. Evoluzione della sostanza organica al suolo con particolare riferimento al processo di umificazione.
ATTI DEL 26° CORSO - 1989
Piussi P. La rinnovazione della pecceta subalpina.
Paci M. La rinnovazione naturale dell'abete bianco nella foresta di Vallombrosa.
Valentini R. Foreste ed atmosfera.
Scarascia Mugnozza G. Alberi forestali per un ambiente sottoposto a rapidi cambiamenti su scala globale: applicazioni della fisiologia
ambientale per la selezione di cloni di Populus spp.
Giordano E. Aspetti ecofisiologici della rinnovazione naturale.
ATTI DEL 27° CORSO - 1990
Barbieri F. Primi dati sulla presenza del lupo (Canis lupus) nell'Appennino settentrionale.
Viola F., Cattaneo D. Un modello operativo per la pianificazione ecologica di particolari biotopi.
Chemini C. Lo studio delle taxocenosi di artropodi nella valutazione naturalistica del territorio.
Nicolini G., Avancini G.P., Zambelli F. Sistema automatico per lo studio bioetologico dell'orso bruno (Ursus arcots L.) del Trentino.
Stergulc F. Anfibi e rettili di ecosistemi forestali e montani delle zone temperate.
Masutti L. Zoocenosi ed ecosistemi montani.
Andrighetto I. Il sistema foraggero-zootecnico a tutela dell'ambiente montano: alcune considerazioni sugli attuali orientamenti e sulle
prospettive future.
Ramanzin M. Considerazioni sull'allevamento di cervidi nelle zone montane.
ATTI DEL 28° CORSO - 1991
Pasqualin M. Valutazione di Impatto Ambientale: aspetti normativi ed operativi nella pianificazione territoriale del Veneto.
Sardone A. La V.I.A. in USA, in Europa ed in Italia. Lineamenti generali.
Laniado E. Dalla pianificazione territoriale alla prassi di valutazione di impatto.
Colorni A., Laniado E. Silvia: un sistema di supporto alle decisioni per la Valutazione di Impatto Ambientale.
Saturnino A. La valutazione degli investimenti inerenti progetti pubblici di intervento nel campo ambientale.
ATTI DEL 29° CORSO - 1992
Pubblicati in "Il bacino attrezzato del Rio Cordon" Quaderni di Ricerca n. 13 Segreteria del Settore Primario, Dip.to Foreste Regione Veneto
ATTI DEL 30° CORSO - 1993 - Ecologia delle foreste d'alta quota
Holtmeier F.K. The upper timberline: ecological and geographical aspects.
Turner H. Alpine microclimates: typology and examples.
Wolf U. Suoli e processi pedogenetici negli ambienti forestali d'altitudine sulle Alpi.
Masutti L. Faune di quote elevate e foreste altomontane.
Roques A. Impacts of insects on natural regeneration of high altitude alpine forests.
Motta R. Ungulati selvatici e foreste di montagna in Alta Valle di Susa.
Havranek H. The significance of frost and frost-drought for the alpine timberline.
Havranek H., Wieser G. Effects of long-term ozone fumigation on trees of Picea abies and Larix decidua in the filed.
Anfodillo T., Casarin A. Variazioni stagionali nelle relazioni idriche di rametti di abete rosso lungo un gradiente altitudinale.
Piussi P. Mixed Pinus cembra stands on the southern slope of the Eastern Alps.
Dotta A., Motta R. Definizone del piano subalpino e dei limiti superiori del bosco e degli alberi in Alta Valle di Susa.
Tessier L., Bellingard C. Dendrochronology at the upper forest limit.
NolaP., Pastorelli C., Pirola A. Uno studio dendrocronologico del larice al limite superiore della vegetazione arborea in Valmalenco (Sondrio).
ATTI DEL 31° CORSO - 1994 - Landscape Ecology - Eco logia del paesaggio
Naveh Z. Introduction to landscape ecology as a practical transdisciplinary science of landscape study, planning and management.
Schaller J. Landscape ecology research and environmental management. Environment and GIS management of a National Park MAB-Project
6 Ecosystem Research Berchtesgaden.
Schaller J. Landscape ecology research and environmental management. GIS for Shang Bai Shan Biosphere Reserve - Ne China - Cerp, cooperative ecological research program.
Schaller J. Landscape ecology research and environmental management. Environmental impact assessment study for the planned RhineMain-Danube River Channel (Federal Republic of Germany).
Gourov A.V. Territorial mosaic and the problem of boundaries (in case of secondary succession).
Lucas O.W.R. Visual assessment of the landscape and its application of forest design.
Anko B. Application of landscape ecology in forestry.
Baggio P. Interazioni sistemiche territoriali: metodologie e approccio dell'analisi, interazione di modelli interattivi per una pianificazione
territoriale.
Farina A. L'abbandono rurale e suoi effetti sul paesaggio.
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
ATTI DEL 32° CORSO - 1995 - Interazioni albero-ambi ente: metodi e strumenti di misura
Martinkova M.. General aspects of water relations
Zipoli G. Strumenti e sensori per misure micrometereologiche
Brugnoli E., Scartazza A., Lauteri M. Effetto degli stress abiotici sulla fotosintesi
Jones H.G., Atkinson C.J. Possible effects of climate change on trees
Cermak J. Methods for studies of water transport in trees, especially the stem heat alance and scaling.
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Huttunen S. Effects of air pollutants on conifer needles.
Valentini R. Dall'albero alla comunità: tecniche per la quantificazione delle risposte degli ecosistemi.
Granier A. Measurement of tree and stand sapflow: temporal anda spatial variations.
ATTI DEL 33° CORSO - 1996 - Tutela e controllo dei sistemi fluviali
Viola F., Zanella A. Vulnerabilità e presidio dei sistemi intorno all'acqua.
Fattorelli S., Dalla Fontana G., Da Ros D. Valutazione e riduzione dei rischi da piena.
Dalla Fontana G., Borga M. Lo studio probabilistico delle piogge intense per la previsione statistica del rischio idraulico.
Lenzi M. A. Criteri di classificazione dei sistemi fluviali.
Lasen C. Ecologia dei popolamenti vegetali ripari in area montana e subalpina.
Paiero P. Il recupero naturalistico della vegetazione ripariale con particolare riguardo all'area planiziale padana.
Boso R. I piani di bacino attraverso il contributo della cultura ingegneristica e naturalistica.
Saccardo I. La dimensione del minimo vitale. Criteri di stima idrologici ed idraulici.
D'Agostino V. Analisi quantitativa e qualitativa del trasporto solido torrentizio nei bacini montani del Trentino orientale.
Anselmo V. La manutenzione degli alvei.
ATTI DEL 34° CORSO - 1997 - Dendroecologia: una sci enza per l'ambiente fra passato e futuro
Tessier L., Edouard J.L., Guibal F. Tree rings and climate (Dendroclimatology, Dendroecology) - The climatic signal in tree rings.
Nola P. L'analisi dendroecologica in formazioni forestali mesofile: il caso dei quesrceti planiziali.
Keller T., Guiot J., Tessier L. The artificial neural network: a new advance in responce function calculation.
Nicault A., Tessier L. Intra-annual variations of cambial activity and ring structure.
Stockli V. Physical interctions between snow and trees: dendroecology as a valuable tool for their interpretation
Motta R. La dendroecologia come strumento per l'analisi dei danni provocati dagli ungulati selavtici alle foreste. Metodi di studio ed esempi di
applicazione in ambiente alpino.
Morin H. Using dendroecology to investigate black spruce and balsam fir population dynamics in boreal zone of Quebec.
Pividori M. Tecniche dendroecologiche nell'analisi di boschi cedui e di nuova formazione.
Cherubini P. La dendroecologia nella ricostruzione della storia di due popolamenti subalpini di abete rosso nella Foresta di Paneveggio
(Trentino).
Hugle C.E. Ricostruzione della storia recente di tre popolamenti di abete rosso (Picea abies Karst.) nella Foresta di Paneveggio.
Urbinati C., Carrer M. Ricerche dendroecologiche sui dinamismi spazio-temporali in larici-cembreti di "timberline" nelle Dolomiti orientali.
Urbinati C., Carrer M. Dendroecologia e analisi della struttura spaziale in una cenosi di "timberline" delle Dolomiti orientali.
Eckstein D. The city trees in Hamburg: study object for dendroecology over the twenty years.
ATTI DEL 35° CORSO - 1998 - La tipologia delle staz ioni forestali - Esempio di ecologia applicata
A. Mancabelli, G. Sartori. Roccia madre e suoli del Trentino. Metodologia di rilievo e di studio integrato dell'ambiente e risvolti tassonomici.
M. S. Calabrese, S. Nardi, Sartori G., D. Pizzeghello, A. Zanella, G. Nicolini. Importanza dell'attività ormono-simile della sostanza umica per
una classificazione funzionale degli humus forestali. Applicazione alle faggete ed abieteti trentini.
F. Festi, M. Odasso, G. Pignatti, F. Prosser, L. Sottovia. Suddivisione ecologica del territorio sulla base della distribuzione delle specie
forestali. Applicazioni relative alle indagini delle tipologie forestali.
C. Lasen. Esempi di fitosociologia applicata alla tipologia delle stazioni forestali.
U. Bagnaresi, G. Fratello. Dinamica dei popolamenti forestali in strutture irregolari e disetanee.
R. Del Favero. Tipologie forestali: concetti, metodologia e applicazioni. Le esperienze nelle regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
G. P. Mondino. Presentazione dei tipi forestali del Piemonte.
A. Antonietti. Il metodo fitosociologico applicato alla tipologia delle stazioni forestali in Svizzera.
R.E. Rosselló. Tipi di stazioni forestali in Spagna. Stato dell'arte e prospettive.
M. Bartoli.Confronto tra le tipologie e gli habitat forestali. L'esempio dei Pirenei centrali.
G. Dumè. Il Gruppo di Lavoro sulla tipologia forestale in Francia: risultati e prospettive.
G. Bernetti. Presentazione della nuova tipologia forestale della Toscana.
A. Zanella. Intorno al concetto di "tipologia forestale". Aspettative e realtà.
C. De Siena, M. Tomasi, G. Nicolini. Gli humus forestali del Trentino.
R. Zampedri. Metodologie di interpolazione statistica per una rappresentazione del clima a livello regionale.
ATTI DEL 36° CORSO - 1999 - La pianificazione e la gestione del verde urbano
T. Barefoed Randrup. Urban forestry research in Europe.
Z. Borzan, V. Kusan, R. Pernar. Scientific approach to understanding and treatment of amenity trees in urban forestry.
P. Semenzato, T. Urso. Il rilievo della vegetazione nei giardini storici.
E. Piutti, C. Pollini, R. Leonardelli, L. Pedrotti. La gestione delle alberature urbane: il caso di Trento.
P. Raimbault. Assessing and managing urban trees: from scientific concepts to field tecniques.
G. Morelli, G. Poletti. Cenni teorici sulla valutazione della stabilità degli alberi.
L. Benvenuti. Modalità d'intervento e scelta delle tecnologie nella realizzazione delle opere a verde.
ATTI DEL 38° CORSO - 2001 - Monitoraggio ambientale : metodologie ed applicazioni
M. Ferretti. Ecosystem monitoring. From the integration between measurements to the integration between networks.
A. Benassi, G. Marson, F. Liguori, K. Lorenzet, P. Tieppo. Progetto di riqualificazione e ottimizzazione delle reti di monitoraggio della qualità
dell'aria del Veneto.
S. Fonda-Umani. I sistemi di monitoraggio in aree marine costiere e relative problematiche.
P. Nimis. Il biomonitoraggio della qualità dell'aria tramite licheni.
G. Gerosa, A. Ballarin-Denti. Techniques of ozone monitoring in a mountai forest region: passive and continuous sampling, vertical and
canopy profiles..
A. Thimonier, M. Schimitt, P. Cherubini, N. Kräuchi. Monitoring the Swiss forest: building a research platform.
R. Valentini. Metodologie di studio della produttività primaria di ecosistemi forestali.
C. Urbinati, M. Carrer. L'analisi degli anelli legnosi come strumento per il monitoraggio climatico.
W. Haeberli. Glacier and permafrost monitoring in cold mountain areas as part of global climate related observation.
R. Caracciolo. Sistema nazionale di monitoraggio e controllo in campo ambientale.
V. Carraro, T. Anfodillo, S. Rossi. I siti sperimentali di "Col de La Roa" e di "Cinque Torri".
Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
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ATTI DEL 39° CORSO - 2002 - Il fuoco in foresta: ec ologia e applicazioni
Giovanni Bovio. La pianificazione antincendi boschivi
Marco Conedera, Marco Moretti, Willy Tinner. Storia ed ecologia degli incendi boschivi al sud delle Alpi della Svizzera
Thomas W. Swetnam. Fire and climate history in the Western Americas from tree rings
Domingos Xavier Viegas. Fire behaviour models: an overview
Louis Trabaud. Effects of fire on mediterranean plants and ecosystems
Pasi Puttonen. Use of prescribed fire in diversity oriented silviculture
Domingo Molina. Prescribed burning to allow for forest sustainability
Giancarlo Cesti. Tipologie e comportamenti particolari del fuoco: risvolti nelle operazioni di estinzione
Jesús San-Miguel-Ayanz. Methodologies for the evaluation of forest fire risk: from long-term (static) to dynamic indices
ATTI DEL 40° CORSO - 2004 Reti ecologiche: una chia ve per la conservazione e la gestione dei paesaggi frammentati - Ecological
networks: a key to the conservation and management of fragmented landscapes
Rob Jongman, The concept of ecological networks: European approaches
Roberto Gambino, Reti ecologiche e territorio
Daniel Franco, Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
Ilse Storch, Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks" in fragmented landscapes?
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi, Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
Duncan McCollin & Janet Jackson, Hedgerows as habitat corridors for forest herbs
Margherita Lucchin, Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la stima della funzionalità
Tommaso Sitzia, La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari: indici sintetici di valutazione delle siepi arboree nel paesaggio agrario
Giuseppe De Togni, Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: problemi tecnici e amministrativi
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Remiero, Strutture di informazione geospaziale e
processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica potenziale
Giustino Mezzalira, Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
Federico Correale Santacroce, Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la progettazione dei boschi di
pianura
ATTI DEL 41° CORSO - 2005 Conoscere il sistema fium e in ambiente alpino
Gianfranco Zolin, Corsi d’acqua alpini: ecologia e paesaggio
Giancarlo Dalla Fontana, I processi di formazione del reticolo idrografico
Diego Sonda, Utilizzo di gis per l'analisi del bacino idrografico
Paolo Paiero e Giovanni Paiero, La vegetazione rivierasca alpina
Antonio Andrich, Conoscere la vegetazione riparia: l’influenza del regime idrologico e della manutenzione
Silvia Degli Esposti, Daniele Norbiato, Roberto Dinale,, Marco Borga, Valutazione di alcune componenti del bilancio idrologico in bacini di tipo
alpino
Gian Battista Bischetti, Interazione tra vegetazione e deflusso e stabilità delle sponde
Paolo Billi, I torrenti come condizione di equilibrio morfodinamico e la portata formativa
Vincenzo D'agostino, Morfologia e dinamica dei corsi d’acqua di montagna
Alessandro Vianello, L’analisi granulometrica dei sedimenti nei corsi d’acqua montani
Lorenzo Marchi, Il trasporto solido di fondo e le colate detritiche: fenomenologia ed effetti sull’assetto dei corsi d’acqua a forte pendenza
Mario Cerato, Il controllo dei torrenti per mezzo delle opere di sistemazione montana: la ricerca di un compromesso fra la tutela della
naturalità e gli obiettivi di protezione
ATTI DEL 42° CORSO - 2006 Stima del carbonio in for esta: metodologie e aspetti normativi
Pettenella D. Inquadramento generale del PK, opportunità e limiti per il settore forestale.
Anfodillo T. Stima del C stock: metodi inventariali, con applicazione di equazioni allometriche.
Valentini R. Eddy covariance: potenzialità e limiti applicativi.
Tabacchi G. L’Inventario Nazionale delle Foreste e dei serbatoi di carbonio: aspetti metodologici.
Mäkipää R. Integrated method to estimate the carbon budget of forests - nation-wide estimates obtained by combining forest inventory data
with biomass expansion factors, biomass turnover rates and a dynamic soil C model.
Badeck P. Forest disturbance factors.
Zanchi G. - Art 3.3 and 3.4 of Kyoto Protocol: Afforestation, reforestation, deforestation, revegetation and forest management activities:
requirements and choices.
Pompei E. L'espansione delle foreste italiane negli ultimi 50 anni: il caso della Regione Abruzzo
Kloehn S. The role of forest products in the carbon cycle.
Rodeghiero M. Stima del carbonio nel suolo.
Pilli R. Indagine preliminare sullo stock e sulla fissazione del Carbonio nelle foreste del Veneto.
ATTI DEL 43° CORSO - 2007 Biomasse forestali ad uso energetico in ambiente alpino: potenzialità e limiti
Mario Lividori, Biomassa legnose- La gestione e gli aspetti selvicolturali.
Eliseo Antonini, Le valutazioni economiche nel settore legno-energia.
Stefano Berti, Le biomassa legnose: il legno.
Lucia Recchia, LCA per filiere legno-energia.
Bernardo Hellrigl, Dendroenergia.
Stefano Grigolato, Pianificazione degli approvvigionamenti in ambiente alpino.
Alexander Eberhardinger, Performance of alternative harvesting methods using feller-buncher system in early thinnings of Norway Spruce.
Karl Stampfer, Christian Kanzian, Current state and development possibilities of wood chip supply chains in Ausria.
Walter Haslinger, Combustion technologies and emissions. State-of-the-art small-scale pellets combustion technologies.
ATTI DEL 44° CORSO - 2008 Disturbi in foresta ed ef fetti sullo stock di carbonio: il problema della non permanenza - Forest
disturbances and effects on carbon stock:the non-permanence issue
Elena Dalla Valle, Forest disturbances and effects on carbon stock: general overview.
Ana Isabel Miranda, Forest fires and air pollution.
Domingo Molina, Mediterranean fire regimes and impacts on forest permanence cases from northern
California, ne spain and Canary islands.
Jean- Francois Boucher Simon Gaboury, Réjean Gagnon, Daniel Lord, Claude Villeneuve, Permanence of the carbon stocks in the north
american boreal forest under natural and anthropogenic disturbance regimes.
Ionel Popa, Windthrow risk management. results from romanian forests.
Giacomom Grassi, Reducing emissions from deforestation in developing countries: the new challenge for climate mitigation.
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Sviluppo socio-economico delle Alpi nel terzo millennio: una minaccia per le risorse naturali?
Atti del 47° Corso di Cultura in Ecologia, 6-8 giug no 2011
ATTI DEL 45° CORSO – 2009 Selvicoltura naturalistic a: basi ecologiche, applicazioni e contesto normativo
Pietro Piussi, Selvicoltura naturalistica: le vicende delle origini.
Luca Soraruf, Marco Carrer, Aree permanenti e monitoraggio di lungo periodo: potenzialità, limiti e approcci metodologici.
Tommaso Anfodillo, Marco Carrer, Filippo Simini, Vinicio Carraro, Giai Petit, Amos Maritan, Nuove prospettive per la definizione funzionale
della struttura delle foreste.
Massimo Stroppa, Pianificazione forestale e selvicoltura neturalistica: applicazioni in regione Friuli Venezia Giulia.
Tommaso Sitzia, Michele Cassol, Selvicoltura naturalistica e conservazione degli habitat forestali a scala di popolamento.
Pierantonio Zanchetta, Intervento alla tavola rotonda.
ATTI DEL 46° CORSO – 2010 Gestione multifunzionale e sostenibile dei boschi cedui: criticità e prospettive
Robero Mercurio, Principi e metodi per il restauro forestale (con particolare riferimento ai boschi cedui).
Gianfranco Fabbio, Il ceduo tra passato e attualità: opzioni colturali e dinamica dendro-auxonomica e strutturale nei boschi di origine cedua.
Francesco Grohmann, Mauro Frattegiani, Giorgio Iorio, Paola Savini, La selvicoltura nel piano forestale regionale dell’umbria.
Adriano Giusti, Francesco Grohmann, La nuova normativa forestale dell’umbria.
Paola Savini, Nuove tecniche d’intervento nei boschi cedui: l’esperienza del progetto SUMMACOP.
Marco Conedera, Mario Pividori, Gianni Boris Pezzatti, Eric Gehring, Il ceduo come opera di sistemazione idraulica, La stabilità dei cedui
invecchiati.
Paolo Cantiani, Selvicoltura delle cerrete (prove di matricinatura e conversione).
Maria Chiara Manetti, Selvicoltura dei cedui di castagno.
Giorgio Iorio, Mauro Frattegiani, Boschi cedui e rete natura 2000.
Francesco Renzaglia, Emidia Santini, Matteo Giove, Carlo Urbinati, Dinamismi strutturali e di accrescimento in boschi cedui abbandonati ed
in conversione dell‘appennino centrale.
Gianluca Giovannini, Ungulati e bosco ceduo.
Francesco Pelleri, La selvicoltura d’albero e le specie sporadiche nei cedui.