Numero 3 - Silmarillon

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Numero 3 - Silmarillon
Numero
3
Dicembre 2006 Gennaio 2007
Dossier di questo numero:
Malinconia e creatività
Editoriale
di Francesca Pacini
La melanconia di Dürer
Il simbolismo alchemico e i richiami a Saturno
di Claudio Lanzi
Sotto il segno della malinconia
Incursione nelle inquietudini creative dell'arte
di Daniela D'Angelo
Come nuvola sulle onde
I "momenti di essere" di Virginia Woolf
di Francesca Pacini
Il crepuscolo dei freak
le suggestioni di Tim Burton
di Kusanagi
Autunnale cielo del Nord
I paesaggi solitari di Nick Drake
di Fabio Zaccaria
Malinconia e scrittura
Conversazione con Simone Barillari
di Francesca Pacini
L'esilio e il Vulcano
Caduta e riscatto nel mito di Efesto
di Alina Padawan
Rivista n° 3/2006-2007
Dossier: Malinconia e creatività
Editoriale
di Francesca Pacini
Cos’è la malinconia (o melanconia, come veniva chiamata un tempo)?
È uno stato dell’essere, uno smottamento interiore che produce un bilico, una sospensione.
Il malinconico cammina su una zona fragilissima, senza contorni, lontana dai perimetri definiti delle cose.
Lì gli eventi, i colori, i rumori e i suoni del mondo appaiono scarnificati in un processo di sottrazione perenne.
Ed è da quella sottrazione che nasce la profondità.
Non a caso nel mondo greco-romano al dio Saturno l’astrologia sacra affidava il simbolismo più duro, difficile.
Era lui a incarnare la malinconia (che sarà poi ripresa da Dürer nella sua famosissima incisione).
Da sovrano dell’Età dell’Oro, lo splendido tempo del mito in cui l’uomo non conosceva ancora le ansie del
divenire, Saturno detronizzato, “esiliato sotto la terra e sotto al distesa dei mari”, diventa il dolente abitante
del Tartaro, il testimone di un’ascesa e una caduta voluta dal fato.
Il Tartaro è un posto duro, infero, pieno di ombre. Forse Saturno è ancora lì che attende, malinconico, la
possibilità di un ritorno.
A Saturno corrisponde il piombo, il più pesante dei metalli. Eppure è dal piombo che gli alchimisti ricavavano
l’oro. È nelle “interiora terrae”, quelle di Saturno, che suggerivano di cercare la visione spirituale.
La leggenda di Saturno e le sue valenze simboliche rimandano quindi a una fatica, una discesa, un tormento. Ma
nello stesso tempo è da quel tormento che si apre il varco per “la contemplazione delle cose nascoste”, come
scrive Marsilio Ficino.
Sono passati molti secoli da quel tempo lontano, gli dèi sono tramontati in favore dell’alba di un solo Dio, e poi
ancora, da quel Dio, sono nati altri profeti, altre scuole. Che sono morte e risorte, in continuazione. Sono
arrivati gli illuminismi, i romanticismi, le ere del progresso scientifico…
Ma dalle profondità del Tartaro Saturno, con la sua malinconia, ha sempre abitato ogni uomo che ha sfiorato il
suo abisso interiore.
La malinconia è propria dell’artista che nel processo creativo cerca una via di espressione.
La storia della musica, dell’arte, della letteratura sono attraversate dalle inquietudini malinconiche.
Ne è intrisa la storia, sempre, malgrado gli apici conclamati di alcune epoche, come quella romantica.
Per la maggior parte degli scrittori la malinconia è stata l’unica, vera compagna.
Come per Proust, che nel suo Tempo perduto fa dell’analogia e della memoria un grimaldello per uscire fuori
dalla dimensione spazio-temporale, tormento e peso. O come per Cioran, che nella sua “tentazione di esistere”
vive il conflitto di un mondo lacerante che però non riesce a evadere approdando alle altezze siderali a cui
anela tanto.
Sono molti gli scrittori, poeti e pittori che hanno raggiunto il Tartaro e conosciuto Saturno.
Per Virginia Woolf il Tartaro fu un’assidua frequentazione. Forse la sua vita fu davvero un esilio perenne in
quelle profondità. Fatto sta che laggiù, visitando le sue terre interiori, incrociò l’orrore ma anche la sostanza
più lieve di cui è tessuta la vita, da lei stessa descritta come “un alone luminoso”.
I suoi “momenti di essere” sono profondi. La malinconia diventa depressione, scorticamento dell’anima, ma in
quella devastazione la Woolf raggiunge anche una comprensione profonda dell’esistenza. La paga. Come si paga
ogni comprensione.
A lei costa la vita stessa.
Altre malinconie, più sommesse, meno invasive, hanno comunque prodotto suggestioni notevoli.
Come quelle dei film di Tim Burton, ad esempio.
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Rivista n° 3/2006-2007
Edward mani di forbice è un personaggio intenso, struggente. Vive su questo mondo ma a questo mondo non
appartiene. Anche lui, in fondo, tornerà nel suo Tartaro dopo aver conosciuto l’amore ma allo stesso tempo
anche l’alienazione e l’odio umano per “i diversi”.
Ed è proprio l’esilio la sensazione costante della malinconia.
Che a volte fa scrivere canzoni bellissime, indimenticabili, come quelle di Nick Drake. Musicista notturno,
invernale, silente, Drake cammina nei paesaggi umbratili e malinconici facendo delle sue tensioni una musica
che incide lo spazio, lo scava.
Se il cinema di Tim Burton attraverso le sfumature grottesche, irreali, suggerisce anche le deformità del mondo
in cui viviamo (di cui le fiabe sono solo un’estensione estrema, paradossale), la musica di Nick Drake si ripiega
su sé stessa invocando un ascolto intimo, solitario.
Saturno è il nume della malinconia, abbiamo detto.
C’è un altro dio pagano, però, che visse l’esilio facendone un mezzo di riscatto e una sfida. Si tratta di Efesto
(Vulcano per i Romani), il figlio di Era e Zeus che utilizzò la sua menomazione - era zoppo - e l’abbandono
forzato dell’olimpica dimora per compiere un salto creativo. Divenne infatti il fabbro imbattibile che lavorava i
metalli e costruiva le armi per dèi ed eroi. È simbolo dell’ingegno ma anche dell’alchimia che nelle profondità
della terra (la stessa di Saturno) lavora i metalli interiori e fabbrica un Uomo Nuovo.
Efesto non si abbandona al rimpianto ma costruisce, si eleva proprio attraverso la conoscenza profonda della
Terra e della materia.
A quanto pare la malinconia non è solo il tremore, l’assillo. È anche la profondità della creazione, la ricerca di
un’origine, la tensione esasperante che precede la scintilla del genio.
Nell’immobilità esteriore (pensiamo anche all’incisione del Dürer) il terreno interiore diviene fertile in un
doloroso ma necessario processo di esplorazione.
Il prezzo è alto, abbiamo detto. Ma ne vale sempre la pena.
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La Melanconia di Dürer
La famosa incisione nasconde un percorso ermetico-alchemico sul quale hanno
dibattuto numerosi studiosi.
E tuttavia si rimane affascinanti anche guardandola con occhio "profano" perché
quell'immagine ci racconta i sentieri dell'uomo che, impegnato nella ricerca di sé,
non può sottrarsi allo scavo interiore...
di Claudio Lanzi
Albrecht Dürer era un genio, talmente apprezzato durante la sua vita e dopo la sua morte che Erasmo da
Rotterdam arrivò a dire che era superiore al mitico Apelle greco, in quanto, con l’uso della penna e
dell’incisione evocava il colore più di quanto non lo avesse mai fatto alcun altro artista. Forse Erasmo era un po’
di parte anche perché compromesso con la riforma Luterana, ma è indubbio che Dürer sia stato un vero genio
dell’incisione e anche un grande pittore sia nella tecnica ad olio che ad acquarello, un vero anticipatore.
Fu forse uno dei primi a comporre paesaggi privi di personaggi che sembrano usciti dalle tavole degli
impressionisti, che vedremo quattro secoli dopo. Abbiamo moltissimi autoritratti da cui appare evidente che
fosse un uomo decisamente affascinante e forse anche… un tantino narcisista. Dürer, oltre che con Erasmo,
venne a contatto con tutto quel mondo rinascimentale, soprattutto italiano, dedito alla ricerca delle allegorie,
del simbolismo e delle chiavi di lettura dell’alchimia. Sicuramente conobbe l’accademia Ficiniana e la teoria
delle “complexioni” e conobbe anche i testi dell’ineffabile Agrippa, il filosofo-ermetista-cabalista che
influenzerà il pensiero “esoterico” di tutti i secoli successivi.
Ma la Melanconia di Dürer è un opera che ha avuto una lunga gestazione, con tanti studi preliminari dedicati alle
complessioni, appunto, ai caratteri, secondo le indicazioni della medicina d’ascendenza paracelsiana. Quella
che compare nell’immagine più famosa ha fatto discutere schiere di simbolisti (a partire da quelli del Warburg
Institute) ma qui ci soffermeremo solo su alcuni particolari.
Il primo è quello meno studiato. Stiamo parlando dell’enigmatico poliedro che compare a lato della figura
centrale. Quel furbacchione di Dürer ha nascosto dietro un lavoro prospettico geniale, in cui ha impegnato tutta
la sua abilità, un oggetto simbolicamente strategico. La soluzione completa dell’enigma (che non è solo
geometrica), per chi fosse interessato all’argomento, può trovarsi nel testo citato a fine articolo. Si tratta di un
esaedro (una pietra cubica, per intenderci), simbolo alchimico della terra, anzi della prima materia secondo la
consuetudine alchimica ordinaria (anche se molti studiosi hanno valutato trattarsi di un romboide). Comunque
sia, il Dürer allude alla materia prima (perfetta o imperfetta che sia) su cui è indispensabile lavorare
ulteriormente e alcuni ritengono che aver rappresentato un romboide anziché un cubo possa essere una
ulteriore sfida per l’essere malinconico che dovrebbe lavorarla. La terra appunto, chiamata a volte il sale dei
filosofi. Però, attraverso dei sapienti, anzi oseremmo dire filosofici, tagli su due degli spigoli del solido, Dürer
ha reso tale poliedro volutamente irriconoscibile. Ed ha fatto sì che, da una posizione di equilibrio stabile, come
sarebbe stata quella della pietra cubica, si passi ad una posizione abbastanza instabile, dove una base
d’appoggio triangolare offre assai minori garanzie d’equilibrio. Tutto, nella incisione di Dürer, è sospeso nello
spazio e nel tempo, è in posizione di equilibrio instabile, è contrapposto fra due stati dell’essere, fra due
possibilità.
Il personaggio malinconico in primo piano, probabilmente non sa come fare per dare un senso alla sua esistenza
e lavorare su quell’oggetto così strampalato che rappresenta la sua stessa natura. In terra ci sono tutti gli
strumenti necessari ma, a quanto pare, con lo sguardo perso nel vuoto, non riesce a trovare l’energia e la giusta
intuizione per usarli. In tutto il medioevo, e in buona parte del rinascimento, quella delle complessioni, delle
loro corrispondenze planetarie e delle terapie adatte a correggere gli eccessi di una complessione o di un’altra,
era stata una teoria oggetto di numerosissimi trattati che avevano stimolato le migliori menti di quei tempi.
Teniamo presente che buona parte delle caratteristiche psicosomatiche, definite dagli antichi medici-alchimisti
rinascimentali, è rimasta pressoché immutata anche nella nostra moderna psicologia.
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Agrippa ed altri ermetisti, ispirati dal neoplatonismo della scuola ficiniana, prevedevano vari stati melanconici,
anche se non tutti si trovavano d’accordo su quale tipo di melanconia fosse in grado di essere foriera
d’intuizione folgorante, di superamento della fase di stallo, abulica e a volte disperata, che contraddistingue lo
stato d’animo di colui che cerca sé stesso. Molti, fra i critici che hanno studiato questa celebre incisione, hanno
perciò pensato che il termine “Melanconia I” indicasse solo un primo stato malinconico, al quale dovessero
seguire necessariamente una “melanconia II”, operativa e piena di speranza e una “melanconia III”,
realizzativa, illuminativa. Ma molti altri autori (tra i quali Saxl e Panofsky) celebri studiosi del simbolismo
rinascimentale, propendono per l’ipotesi che nell’opera sia celato l’intero percorso ermetico.
Infatti fu proprio Ficino, grande traduttore e conoscitore di Platone e di Plotino, il principale propugnatore dello
stato saturnio come foriero di grandi imprese. Dice infatti: Raramente Saturno significa caratteri e destini
comuni degli uomini; più spesso indica uomini assai diversi dagli altri, divini o brutali, felici oppure affetti da
estrema infelicità. Tale dicotomia la ritroviamo efficacemente espressa in quel pugno chiuso, sul quale poggia la
guancia della Melanconia che non indica certamente abbandono dell’impresa ma impegno e ostinazione, al di là
dell’apparente spossatezza. È sempre Ficino a dirci che: La bile nera (cioè la complessione malinconica) obbliga
il pensiero a penetrare e ad esplorare il centro dei suoi oggetti, poiché la bile nera è essa stessa simile al
centro della Terra. Parimenti essa solleva il pensiero alla comprensione delle cose più elevate poiché
corrisponde al più alto dei pianeti.
Molti degli oggetti presenti nell’opera hanno fatto raffrontare la Melanconia a varie raffigurazioni della
Geometria. La Geometria è, secondo Platone, l’arte per eccellenza, l’unica che consentiva l’ammissione alla sua
accademia. Coordinatrice occulta delle Muse e delle Grazie, essa è l’Arte del Demiurgo, creatore e misuratore
dell’universo, ma anche del filosofo, che, per omologia, si industria a trovare la misura e il raffronto tra le
manifestazioni della natura. Una delle raffigurazioni più note, al tempo di Dürer, era la Margarita filosofica di
Gregor Reisch. Ma in tale opera, in cui ritroviamo buona parte degli attrezzi presenti nell’incisione di Dürer,
esiste una attività fervida. Tutto viene utilizzato alacremente e non abbandonato a sé stesso. Per questo la
Melanconia I sembra invece essere piombata nello stadio dell’akedia che prelude l’insuccesso, la disfatta e non
la gloria. La stessa cometa che si tuffa nel mare, il cane affamato e malinconico, lo stato d’usura della mola su
cui è seduto il puttino alato, la consumazione del compasso, e tanti altri particolari, ci fanno intuire una pesante
fase di stallo, foriera di tragedia.
Ma alcuni elementi contraddicono tutto ciò. Ad esempio il puttino alato (alato e quindi dotato della capacità di
volare come il personaggio principale), che scribacchia attivamente con uno stilo (lo stesso dell’incisore), quasi
svincolato dalla mente melanconica che si è arenata su sé stessa. La clessidra, emblema del Saturno-Crono, che
annuncia come sia trascorsa solo una metà del tempo, vicina al quadrato di Giove, benaugurale, foriero di
successo. Un ulteriore piccolo suggerimento ci può venire dallo stesso Dürer che, in uno dei suoi tanti scritti,
suggerisce come solo la potenza dell’arte poteva liberare gli uomini dall’abulia e dalla falsità (e in questo ci
ricorda il Giordano Bruno degli Eroici Furori). La Melanconia di Dürer è perciò una melanconia geometrica
(Klibansky), una Melanconia artificiale, operativa, un vero e proprio colpo di genio colto nella sua drammaticità,
nella terribile vacatio animae, quando arte e potenza rischiano di separarsi e l’oscuro destino del genio creativo
oscilla fra salute e malattia. Quando, secondo Agrippa, tale processo può preludere o al sogno veritiero
(somnia), o alla elevazione della contemplazione (raptus) o addirittura alla illuminazione dell’anima (furor). E
concludiamo questo breve excursus con una frase di Agrippa Spesso vediamo melanconici incolti, sciocchi,
irresponsabili (come leggiamo essere stati Esiodo, Ione, Timnico Calcidiense, Omero e Lucrezio), presi
improvvisamente da questo furore, e divenire grandi poeti e trovare meravigliosi e divini carmi, che essi
stessi, a stento comprendono…
Per approfondimenti, cfr.:
Agrippa: Occulta Filosofia
Saxl, Panofsky, Klibansky: Saturno e la melanconia
Lanzi: Ritmi e Riti
Gombrich: Le immagini simboliche
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Sotto il segno della malinconia
Qual è quella particolare sensibilità che è ovunque, nelle
cose, dentro di noi? Una disposizione d'animo che è "vaga
tristezza da cui non si guarisce", in tutta la sua potenza
generatrice, come accade nelle poesie di Alejandra
Pizarnik. Incursione nelle inquietudini creative dell'arte...
di Daniela D'Angelo
Tra le disposizioni dell’animo, la malinconia è la più ambigua e affascinante. Misteriosamente penetra dentro di
noi e dondola piano al nostro interno, senza riuscire a consolare, sta al di là della felicità e al di là del dolore,
ma allo stesso tempo li contiene entrambi. Precipitare in uno stato malinconico significa perdersi senza però
affondare veramente nella disperazione. È il lutto senza la morte. È grazia. Ma una grazia insolita e nera, una
vaga tristezza da cui non si guarisce, da cui a volte nemmeno si tenta di guarire per via di un dolce
compiacimento che spesso l’accompagna. Senza che tu l’abbia deciso, ti “accade” dentro un ascolto più
sofisticato del solito, e quell’ascolto speciale del mondo fuori di te e del mondo dentro di te, getta un riverbero
sulle cose della vita (oggetti, sentimenti, pensieri), e quel riverbero si allarga, come fanno i cerchi nell’acqua, e
si affina. Con questo sentimento, la creatività – la poesia, la musica, l’arte – quindi è in stretta confidenza. Lo
racconta nelle opere realizzate: molte opere d’arte infatti si generano proprio sotto il segno propulsore e
ispiratore della malinconia. Inquietudine profonda e intensa, la malinconia nell’arte, però, si risolve sempre in
un accenno, in un accordo discreto. È una particolare sensibilità che, se da un lato stempera la sofferenza,
dall’altro la rende più appuntita. Per questo motivo, se penso ancora a un modo per definirla, mi viene in mente
il movimento delle onde, l’andare e il venire del mare, questa culla del dolore. Andare e venire. Il movimento
che non consola, il dondolamento funebre. Che ti prende e ti lascia, ti dà e ti toglie. Procrastinazione,
inappagamento, assenze, vuoti… se la dobbiamo pensare contraddistinta da un solo segno, allora quello è il
segno meno, che per giunta non si dà una volta per tutte ma attende rinnovate conferme. Con la malinconia
abbiamo tutti parecchio a che fare, chi non ricorda certe domeniche vuote della propria infanzia, le finestre
chiuse della casa silenziosa al ritorno dalle vacanze, le prime piogge settembrine? La malinconia è nelle cose. O
meglio, è nello sguardo che stendiamo su quelle cose. Lo dico pensando ad una poetessa argentina
malinconicissima e meravigliosa: Alejandra Pizarnik, nata a Buenos Aires, il 29 aprile 1936, da una famiglia di
immigranti ebrei dell'Europa Orientale, vissuta a Parigi per poi tornare a Buenos Aires, e morta suicida nel 1972,
durante un fine settimana che stava trascorrendo fuori dalla clinica psichiatrica in cui era stata internata.
Questi, alcuni suoi versi, che ricordo a memoria:
Questo lillà perde i fiori.
Da se medesimo cade
e cela la sua antica ombra.
Morirò di cose come questa.
Scopro in queste poche parole in che cosa consista esattamente l'anima malinconica. Del sentimento della
rovina. Si nutre di questo, esiste per questo, insiste in questo: il senso della finitezza. Ogni cosa si espone a
questo destino, ogni cosa ne è investita, senza opporvi nessuna resistenza, senza salvezza, senza riparo,
nemmeno nella fuga – verso dove? Semmai sarà nell'attesa che si compierà la sorte; e così, nel tempo, anche noi
perderemo i nostri fiori, da noi stessi perderemo il frutto, la vita, coltivando da dentro la fine. Questo lillà
perde i fiori. Come una donna perde gli anni, la propria giovinezza; il tempo si ècompiuto. Da se medesimo
cade. Una pianta che muore da dentro. Un fiore che perde i propri petali, e insieme con loro la bellezza; è
l’ultimo passo, il pellegrinaggio verso l’addio al mondo. e cela la sua antica ombra. Tace le sue tenebre,
l’oscurità antica e eterna che cresce accanto, riposta nella luminosità dei giorni. Non è dopotutto la malinconia,
secondo l’etimologia, l’umore nero, quell’ombra che si distende velata, la foschia che si allunga sulla fatica di
vivere? Si può morire di cose come queste? Sì, possiamo morirne. L’identificazione con gli oggetti – il lillà – e
l’identificazione del loro destino con il proprio – Da se medesimo cade (…) Morirò di cose come questa – è la
conclusione, l’unica a cui si possa giungere, sull’effimero e fuggevole passaggio terrestre che ci tocca tutti,
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indistintamente. Tra un verso e l’altro di questa poesia contemplativa e altamente visionaria si deposita il
silenzio, interludio tra la parola detta e la parola ancora da dire, tra l’immagine rivelatrice di morte e la morte,
si deposita, ovvero, la solitudine.
Cogliere la caducità dell’esistenza, la transitorietà e la problematicità delle cose mondane e interiorizzare
questi sentimenti facendoli propri fin nelle fibre più intime della mente e dell’anima, conduce la persona
malinconica, il Poeta, a riflettere a fondo sulla vita, sul significato e sullo scopo della propria presenza nel
mondo.
Quell’assenza, dolorosa, luttuosa di cui, come si è detto, si veste il cuore malinconico del Poeta, è un abito
leggero e contemporaneamente impossibile da far scivolare via, o da togliersi bruscamente di dosso. Perché
quelle mani che potrebbero farlo sono fatalmente mani innamorate della nebbia.
Qui viviamo con una mano alla gola. Che nulla è possibile già lo sapevano
gli inventori di piogge e i tessitori di parole tormentati dall'assenza.
Perciò nelle loro orazioni c'era un suono di mani innamorate della nebbia.
(Alejandra Pizarnik, da La figlia dell'insonnia, Crocetti 2004)
La spietata e indolente lentezza con cui il lillà inesorabile scandisce il suo tempo, il tempo della sua fine,
esiliato persino da se stesso, sembra essere l’unica realtà a cui l’anima partecipa condividendone il pathos, ma
queste corde che vibrano solipsistiche male duettano con il resto.
È un fatto di discordanze, di accordi che non si intonano col mondo. Quindi, è un fatto di solitudine. È quanto
ritroviamo, ancora nelle parole della Pizarnik, in una pagina del libro La contessa sanguinaria (Playground,
2005): Credo che la malinconia sia un problema musicale, una dissonanza, un ritmo alterato. Mentre fuori
tutto accade con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro c’è una lentezza esausta da goccia d’acqua che cade
di tanto in tanto. Ecco perché quel fuori contemplato dal dentro melanconico risulta assurdo e irreale e
costituisce “la farsa che tutti dobbiamo rappresentare”.
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Come nuvola sulle onde
La vita della scrittrice inglese che segnò la letteratura del Novecento fu
scandita dalle crisi depressive dalle quali, però, attingeva anche nuova linfa
per la sua scrittura. Nel fiume in cui si annegò cercò la leggerezza, il
sollievo finale da un dolore diventato troppo invasivo…
di Francesca Pacini
Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei
terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la
cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che
un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so...
Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe... Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della
mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne
la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero
potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi
(28 marzo 1941)
Chissà se quel giorno di marzo, quando si riempì le tasche di pietre e si annegò nel fiume Ouse, non lontano
dalla sua abitazione, Virginia Woolf pensò a quando suo padre l’aveva salvata.
Un episodio accaduto tanti anni prima. Lei era una bambina gracile, una piccola “capra” (così la chiamava la
madre) che saltellava in cerca d’affetto, lui l’aveva buttata in acqua per insegnarle a nuotare.
Virgina ebbe paura, stava per affogare.
Fu Vanessa, una volta adulte, a ricordarle quell’episodio che lei aveva evidentemente rimosso.
Aveva troppa paura dell’abbandono.
Ma stavolta non c’era nessuna mano ad afferrarla mentre scivolava nel fondo del fiume.
E lei non era più una bambina. Era una donna che aveva deciso di interrompere la sua esistenza perché
non riusciva più a sopportare la tensione intima che la accompagnava da sempre.
La ferita di Virginia, quella che sfociò nel suicidio, aveva radici antiche. Nasceva in un contesto familiare sereno
e tuttavia segnato, per Virginia, dalle gare con i fratelli e le sorelle per accaparrarsi l’amore dei genitori.
Come tutte le bambine del mondo, amò suo padre di un amore viscerale, prepotente.
Fu lui a trasmetterle la passione per la lettura, a educarla al gusto per quelle parole che sarebbero diventate
suo rifugio e tormento.
Un’anima sensibile è sovraesposta alle tempeste della vita. E quella di Virginia lo era.
Riservata, delicata, era cresciuta nell’adorazione del padre la cui serenità però tramontò per sempre quando
Julia, sua moglie, morì.
Fu l’inizio del terrore dell’abbandono, per lei.
Perderà anche suo padre, più avanti. Ma già da allora, probabilmente, il senso di un vuoto che sua madre, per
quanto affettuosa, non era riuscita a colmare con quel senso di sicurezza che diventa lanterna per i bambini,
diventò una voragine.
Non importava chi le fosse accanto, se fosse amata o meno.
Virginia Woolf si è sempre sentita una outsider. C’era lei, da una parte, e poi il resto del mondo.
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Gli esseri umani non si tengono per mano per tutto il cammino della vita.
Per ognuno di noi esiste una foresta vergine; un campo di neve dove non c’è neanche l’orma di una zampa di
uccello. Su questa terra viaggiamo da soli, e non vogliamo compagnia. Sarebbe intollerabile essere sempre
compatiti, sempre accompagnati, sempre capiti.
Eppure non fu una vita solitaria, la sua. In molti provarono a capirla sempre, in ogni bizzarria, ogni moto
irrequieto dell’anima.
Una volta rimaste sole, il legame con la sorella Vanessa si cementò, divenne in seguito un vero sodalizio dove il
sangue si mescolava all’arte: Virginia scriveva, Vanessa dipingeva.
Quando si trasferirono a Bloomsbury era impossibile non notare quelle due ragazze che si rifiutavano di vivere la
condizione femminile imposta dai retaggi del vittorianesimo.
Volevano essere ebbre di vita, loro.
E fu così che man mano la loro casa divenne un luogo di incontro per intellettuali, artisti, gay. Per chiunque
avesse voglia di discutere, sperimentare, osare lo spostamento di un limite convenuto. Anni gai, ricchi di
fermenti culturali, sociali. Una condizione dello spirito, di apertura della mente, come scrive Nadia Fusini.
Ma le inquietudini di Virginia cominciavano già ad avanzare.
E lei non si tirò indietro. Mai.
Se Vanessa era solare, Virginia era invece lunare, umbratile, notturna.
Vanessa si sposò ed ebbe tre figli, Virginia, malgrado il matrimonio con Leonard, nessuno. Solo attraverso i libri,
i suoi “bambini”, come li chiamava, attenuava il senso di sterilità che ogni volta provava davanti ai prodigi del
ventre fecondo di sua sorella.
L’incontro con Leonard Woolf, uomo severo, maturo, discreto, politicamente impegnato, fu certamente esaltato
dalle qualità paterne che Virginia proiettò sulla sua figura. Ma a modo suo lo amò.
A modo suo, perché non sapeva accettare l’amore di un uomo. Forse a causa delle molestie sessuali subite
durante l’infanzia da parte dei fratellastri, i figli del matrimonio precedente di Leslie Stephen, che la toccavano
dove non avrebbero dovuto. Forse. O forse perché semplicemente non riusciva ad aggrapparsi al fuoco che
incendia la carne. Ma lei rimaneva distante, frigida capretta incapace di godere insieme al marito.
Leonard lo accettò.
Continuò ad amare quella donna tremendamente intelligente e allo stesso tempo difficile, alle prese con
un’esistenza dolorosa che schierava in campo un solo nemico: lei stessa.
Le ombre di Virginia sono state chiamate con vari nomi: nevrosi, sindrome maniaco-depressiva, disturbo
bipolare…
Lei si dichiarava semplicemente “pazza”. I matti mi hanno eletta Re, scrisse al marito durante un ricovero in
clinica in seguito a un crollo.
Le crisi arrivavano, sostavano, se ne andavano. Ma ogni volta era una morte e resurrezione. L’appetito svaniva,
precipitava nell’insonnia, passava ore a fissare il vuoto, agitata da voci interiori che le bisbigliavano chissà quali
angosce.
Tutta l’opera letteraria fu segnata da questi passaggi che divennero rituali: alla fine di ogni libro Virginia si
ammalava. Forse il distacco dalla sua creatura le costava troppo.
Eppure fu da quel tormento che uscirono fuori alcune delle pagine più belle della letteratura del novecento. Fu
in quelle viscere di sé stessa che trovò i suoi “momenti di essere”, come recita il titolo di una delle sue opere.
Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro
significato di superficie, cogliamo istintivamente questo, quello e quest’altro (…).
Si pagano cari, i “momenti di essere”. Nella creazione letteraria Virginia trovò però l’antidoto al suo male,
malgrado fosse lo stesso strumento che allo stesso tempo sembrava invece scatenarne l’avvento.
Se non avesse scritto, Virginia Woolf non avrebbe trovato il modo di dare una forma alla sua malinconia
esistenziale. Sì, perché se nei momenti più critici arrivava “la pazza”, quando era lucida rimaneva comunque
nuda, fragile, come d’autunno su un albero una foglia.
Lo scavo nei suoi tormenti le fece toccare profondità insospettate. Se riuscì a percepire che la vita è un alone
luminoso fu perché sapeva che poteva dissolversi, ne conosceva le prospettive precarie, i tenui punti di fuga.
Non aveva la stessa carnalità, la stessa consistenza che aveva per gli altri. Lieve, fugace, sottile, l’esistenza era
per lei un nastro rosa lanciato su un abisso, come scrisse nel suo diario.
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Ne raccontò, nei suoi libri, le suggestioni. Gita al faro, La signora Dalloway… tutta la sua produzione letteraria
risente delle atmosfere interiori di un’anima troppo gracile per tollerare il peso della materia.
Se nei suoi libri mette in scena sé stessa (c’è un po’ di Virginia ovunque), in Orlando celebra l’amore per Vita
Sacksville West, la sua amante.
L’ambivalenza nei confronti della vita, e l’impossibilità di accettare questa ambivalenza nei suoi sentimenti (non
riusciva infatti a tenere il bene e il male e per questo doveva distribuirli, scegliendo per sé l’assunzione del
male), fa sì, probabilmente, che Virginia sfiori – sfiori, perché non la troverà mai davvero – la completezza nel
rapporto sentimentale con un’altra donna.
Eppure Leonard è sempre presente. È insieme a lui che ha fondato una casa editrice, è con lui che stampano
libri, loro e non, è con lui che divide i momenti fondamentali per lei, quelli legati alla scrittura.
Vita è invece tremore, passione.
Certamente la aiuta nella scoperta delle gelosie, del pensiero ripetuto verso l’essere amato, del desiderio.
Lesbica? Virginia fu bisessuale. Cercò l’androginia.
Anche se è ispirata a Vita, la vera figura di Orlando è la stessa Virginia.
Questo personaggio romanzesco che migra nei secoli, che attraversa i sessi cambiandoli come costumi di scena,
non rappresenta forse la libertà auspicata in uno dei suoi saggi, forse uno dei più belli, Una stanza tutta per sé?
Non è forse una delle varianti di quell’androgine di cui racconta?
Quello necessario alla scrittura per essere piena, completa: Una grande mente è androgina. Ed è proprio
quando ha luogo questa fusione che la mente diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà.
Così la vera scrittura ha una doppia natura, e Virginia prima di tutto è una scrittrice, così anche l’amore segue
vie differenti che si sviluppano nelle due direzioni.
Certo, molti psicologi troveranno una serie di motivi a schiera, distribuiti come i villini, uno di fianco all’altro,
per giustificare questa sua scelta. Il mai trasceso amore edipico per il padre, l’ammirazione per una madre
bella, perfetta nei cui confronti lei è un brutto anatroccolo, anzi “la capra”, le molestie durante l’infanzia, la
frigidità nel rapporto sessuale con il maschio, forse troppo violento, troppo “fallico” per una donna che, per
voler emulare il padre, solitamente detiene un fallo fantasma che la avvicina a quello paterno con il quale
compete.
Ma a noi non interessa.
Ci piace pensare che Virginia abbia voluto vivere Orlando in prima persona. Ci piace pensare che la figura di Vita
come musa del libro sia una scusa. La vera musa è lei. È Virginia.
E ci piace pensare che la ricerca di quell’androgine abbia rappresentato la tensione verso la completezza
proprio perché Virginia, condannata a restare sempre a margine della vita nella solitudine interiore che la
accompagnava, si abbeverava disperatamente a ogni fonte d’amore cercando di comprendere la natura
dell’uomo nelle sue sfaccettate varianti.
Nello smarrimento esistenziale di chi vive con consapevolezza la sua solitudine c’è anche la risorsa per
un’esplorazione più agguerrita. La scrittura non fu mai rifugio. Semmai fu assillo. Fu navigazione, faro e cielo
stellato. In mezzo, come una lama, il dolore di esistere.
Lo scrittore – e questa è la sua diversità e il suo continuo rischio – è tremendamente esposto alla vita, scrisse in
un saggio, non smette mai di ricevere impressioni più di quanto un pesce in mezzo all’oceano possa evitare che
l’acqua gli entri nelle branchie. Il mestiere delle parole fa sì che ogni suono, ogni oggetto, ogni dettaglio
vengano vissuti con intensità.
La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?
Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre, durerà sempre, affonda giù fino alle radici del
mondo, quest'attimo in cui vivo. Ed è anche transitorio, fuggevole, diafano.
Passerò come una nuvola sulle onde, scrisse una volta.
Se l'esistenza di Virginia è passata come una nuvola sulle onde, le sue parole si sono invece fissate sulla carta
per sempre.
Sono lì, a nostra disposizione. Meravigliose parole che raccontano storie (nelle quali lei rifletteva parti di sé, che
avevano il suo nome, le sue paure, i suoi desideri), si fanno inchiostro per dare corpo a riflessioni mai stupide,
mai banali.
Donna intelligente, Virginia. Troppo. E fragile, fragilissima. Quando la depressione la aggrediva sbatteva le sue
ali di dolore tutto intorno, come una farfalla davanti alla luce della lampada.
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Ma è proprio dalla consapevolezza di questa meravigliosa, terrifica precarietà che spuntò il faro (già, il
faro) luminoso che guidava la sua scrittura nei sentieri tortuosi dell'anima.
Un'anima complessa, la sua, appoggiata su una fragilità estrema in cui però lei osava guardare l'abisso profondo
di sé.
Ci entrava dentro fino a soffocare, talvolta. La sensibilità si tendeva fino agli estremi dell'universo mentre la
pelle respirava dolore.
Ma non fuggiva.
Si attardava in quell'abisso in cui incontrava i mostri ma attingeva anche ai tesori.
Laggiù, dentro di sé, la vita perdeva consistenza e diventava quell'alone luminoso di cui più volte parlò.
E tuttavia senza consistenza non c'è più Terra, solidità.
Volare o precipitare dipendono solo dalla forza di sopportare la visione di sé.
Virginia volò. E poi precipitò. Affogò. Scelse di affogare. E magari passò sulle teste degli uomini che invano la
cercavano, quel giorno, nel fiume. Invisibile, finalmente libera, passò come una nuvola sulle onde.
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Il crepuscolo dei freak
La condizione dell’artista nel mondo attraverso l’analisi dell’opera
di Tim Burton, autore di pellicole popolate da personaggi sempre
in bilico tra creatività e malinconia. Da Edward Mani di Forbice a
Jack Skeleton, gettando uno sguardo sulla produzione letteraria
del regista americano. Il mito del “diverso” e il conflitto con un
mondo che emargina il non conforme.
di Kusanagi
Ho dentro me
che cosa non so,
un vuoto che
non capirò,
Lontano da
quel mondo che ho,
c'è un sogno che
spiegarmi non so,…
Quel che da sempre affascina lo spettatore, nelle creazioni di Tim Burton, che siano fumetti oppure film, sia
d'animazione sia con attori veri e propri, è quella sua peculiare capacità di mescolare dolcezza e tristezza, di
avvolgere in una luce oscura e crepuscolare le situazioni più romantiche, sottolineando così il legame intrinseco
tra la felicità e quel senso di malinconia che di quando in quando attraversa le anime più sensibili, quelle in
grado di percepire, anche di fronte alla gioia e alla felicità, la fugacità del momento e la transitorietà
dell'esistenza stessa.Tanto più quando il proprio talento è fonte sia di creazione che di distruzione, come nel
caso di Edward mani di forbice, oppure è fonte di paura ed orrore, come nel caso di Jack Skeleton, re delle
zucche di Nightmare Before Christmas, racconti in cui l'inevitabile sorte dell'artista è quella di sentirsi
inadeguato al mondo e isolato dal resto degli uomini.
Il mondo visto attraverso gli occhi di questi personaggi, e quindi attraverso quelli di Burton, loro creatore, è un
paese dei balocchi strano e deforme, allegro e triste insieme, perché alla gioia di vivere e al desiderio di esser
amati e accettati dagli altri si accompagna costantemente un profondo senso di disagio, una sottile sensazione di
straniamento, di non appartenenza a un mondo che viene visto come distante e persino ostile, estraneo alla
dimensione di sogno e di illusione in cui alberga il loro cuore.Persi in un vortice e trascinati nel mondo reale, o
meglio in quel mondo che per altri è realtà ma per loro è fatto di superfici e colori estranei alla loro dimensione
creativa ed esistenziale, non possono che ritrovarsi inadatti, inappropriati ed esclusi.
Questo li spinge, più delle persone che hanno intorno, a cercare la ragione del vuoto insinuante, e a volte
opprimente, che trova spazio nelle pieghe del vivere quotidiano, quella indefinibile sensazione di malessere che
ci coglie quando ripiegati su noi stessi, volgiamo lo sguardo nell'abisso dei pensieri perduti e delle domande
irrisolte.
Edward Mani di Forbice (Edward Scissorhands, 1989) è stato realizzato da Burton dopo il successo planetario di
Batman dell'anno precedente, in cui il regista ha reinventato il mito del cavaliere nero, incorporando in una
pellicola mainstream la sua personalissima poetica dei freak, personaggi mostruosi ma con un'anima, destinati a
vivere al margine della società per la loro diversità, indipendentemente dal fatto che si tratti di eroi o assassini,
pazzi o artisti.Nella pellicola si narrano le vicende di una bizzarra creatura, forgiata da una strana e dolce
versione di “mad doctor”, interpretato da Vincent Price, (attore feticcio e fonte d'ispirazione per Burton, che
non a caso lo volle come voce narrante anche nel suo primo cortometraggio d'animazione intitolato, appunto,
Vincent) che muore prematuramente, prima di poter portare a termine il suo capolavoro, lasciando così il
povero Edward con delle lunghe e affilate cesoie al posto delle mani.
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Vissuto a lungo in completa solitudine in un castello cupo e desolato, muto custode nonché eccezionale
giardiniere, capace di trasformare in sculture viventi siepi ed alberi, viene scoperto quasi per caso e portato suo
malgrado in un piccolo e tipico sobborgo della periferia americana di apparente perfezione, tutto casette
colorate e giardini rasati.
Qui entra per la prima volta in contatto con persone reali, e proprio la sua “stranezza” esteriore e la sua
peculiarità viene accolto dalla comunità come una ventata di novità, come un diversivo alla noiosa routine
quotidiana. E ben presto Edward si rivela una sorta di beniamino per le persone del luogo anche grazie alle sue
notevoli abilità di acconciatore per signora, che il suo estro personale unito alle sue singolari appendici gli
permettono.
Ma come spesso succede, le persone si stancano presto delle novità, e finiscono per mostrare a loro volta il loro
lato più “mostruoso”, ben nascosto però da una rassicurante superficie di apparente normalità. A farne le spese
è proprio il povero Edward, con la sua esteriore diversità, che nel momento in cui comincia a manifestare una
propria vita interiore, e dei sentimenti d'amore, viene condannato senza appello al ruolo che la sua
“mostruosità” comporta, ovvero a quello di minaccia per la società, e per questo decide di rifugiarsi in un'esilio
volontario, lontano dagli occhi di chi non ha saputo guardare oltre la mera apparenza.
C'è quindi, nella triste parabola di Edward e nel suo vano tentativo di trovare un posto nel mondo, tutto il
conflitto dell'artista, intrappolato tra il desiderio di far conoscere la propria anima attraverso le proprie opere e
l'inutile sforzo di nascondere dagli occhi del mondo la propria “mostruosità”, quella creatività che lo rende al
contempo speciale e diverso dagli altri, che insieme attrae e spaventa coloro che gli stanno intorno, incapaci di
andare oltre la superficialità dello sguardo e di giungere all'anima dell'artista. Infatti ciò che più distingue la
personalità creativa è proprio quella sua capacità di vedere oltre l'apparenza delle cose, fino a plasmare la
realtà, al punto da riuscire a trasformare un blocco di marmo in un delicato intreccio di corpi, un'insieme di
segni su uno spartito in un'armoniosa melodia, una tela imbrattata di colori in una poesia d'immagini, o delle
semplici parole in versi ispirati.
Ma proprio la consapevolezza della diversità rende naturalmente schivo e introverso l'artista che, come
l'Albatross di Baudelaire si sente limitato nei movimenti, e goffo tra gli altri esseri umani, in un luogo che non gli
appartiene come la realtà, abituato ad una dimensione personale in cui sentirsi a proprio agio, lontano dagli
sguardi del mondo, spesso troppo crudeli, e avidi nel loro desiderio di comprendere e spiegare ciò che spesso
spiegazione non ha, perché moto dell'anima, gesto spontaneo senza finalità alcuna se non semplicemente
esistere.
In Nightmare Before Christmas (idem, 1995) diretto da Henry Selick, ma basato su personaggi nati dalla fertile
fantasia di Burton, e considerato da molti uno dei suoi capolavori, si narra invece la singolare storia di Jack
Skeleton, Re del Paese di Halloween che, dopo aver organizzato l'ennesima e riuscita festa della notte di
Ognissanti, si ritrova insoddisfatto e svuotato, malgrado il plauso generale a lui tributato dagli abitanti del suo
bizzarro mondo a rovescio, popolato da mostri di ogni genere. E così che Jack, stanco della propria routine,
decide quindi di esplorare il mondo al di là dei confini da lui conosciuti, e per caso finisce per ritrovarsi nel
Paese del Natale.
Nessuno è solo, e poi
non c'è mai tristezza qui,
e brilla ogni finestra
Oh non so che cosa sia
quel piccolo calore
mai provato in vita mia,…
Affascinato dalle nuove sensazioni di quel un mondo gioioso, fatto di neve, giocattoli, dolciumi, e di sorrisi di
bambini, decide perciò di rapire Babbo Natale per sostituirsi a lui nei festeggiamenti del 25 Dicembre,
desideroso di provare almeno per una volta la sensazione per lui nuova di portare gioia nel cuore del prossimo,
invece delle solite urla e dei soliti spaventi.
Decide così di provare a cambiare se stesso, e insieme tutto il mondo in cui è destinato a vivere, ignaro delle
nefaste conseguenze a cui sta andando incontro, e della propria incapacità di creare qualcosa di diverso da
quello per cui è nato.
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Cosa ho fatto,
cosa ho fatto
mi sbagliai…
cieco fui.
Tutto va, fugge via,
e il perché, non lo so…
Ma come in tutte le favole che si rispettino, anche quelle bizzarre di Burton, ogni cosa nel finale si ricompone, e
il nostro improbabile e tenero eroe, appresa a sue spese la lezione morale della propria disavventura, finisce
per riconoscere il proprio ruolo nel mondo e, riscoperto a pieno il valore delle proprie capacità, troverà infine
anche la comprensione e l'amore di un'anima gemella, con cui condividere quelle che sono le passeggere
inquietudini dell'esistenza.
Il viaggio intrapreso dal protagonista di Nightmare Before Christmas nasce proprio da quel senso
d'incompiutezza che ci coglie nei momenti della vita in cui, malgrado il nostro ruolo sia chiaro e ben definito, e
malgrado la nostra apparente felicità, ci sentiamo comunque in qualche modo incompleti e inadatti.
Tale sensazione di vuoto può esser colmata solo esplorando i confini del nostro mondo, quello interiore come
quello esteriore, e in questo senso la fuga metaforica e insieme reale di Jack Skeleton finisce per rappresentare
al contempo una fuga da se stessi e una ridefinizione dei propri confini, delle proprie capacità e conoscenze.
Perchè è proprio tracciando nuove rotte sulla spinta di un'intima insoddisfazione, spirituale piuttosto che
materiale, e percorrendo sentieri nuovi, a volte anche fuorvianti, che possiamo giungere a conoscerci fino in
fondo, a comprendere quel che siamo veramente.
Solo così saremo in grado di esprimere a pieno noi stessi attraverso l'opera d'arte, e dare libero sfogo alle
sensazioni che sentiamo così intimamente nostre, che definiscono ciò che siamo, senza se e senza ma, al di là
della percezione che il mondo ha di noi.
Esiste poi una categoria più inquietante di personaggi, usciti dalla penna di Burton, meno conciliati con il
mondo, e destinati perciò a una fine tragica, seppure in qualche modo sempre un po' grottesca, che ci spingono
a riflettere sul lato più amaro della malinconia dell'artista, inerme di fronte all'impossibilità per certe creature
di esistere in un mondo non in grado di comprenderle. Questi ultimi, oltre che da personaggi cinematografici,
come ad esempio il Pinguino, magistralmente interpretato da Danny de Vito in Batman - il RitornoBatman
Returns, 1992), sono ben rappresentati a nostro avviso dalla galleria di tragicomici freak che popolano le pagine
di The Melancholy Death of Oyster Boy, raccolta di filastrocche pubblicata da Burton nel 1997, i cui protagonisti
sono segnati dal destino per la loro stessa natura deforme e bizzarra.
But she knows she has a curse on her
A curse she cannot win,
For if someone gets
Too close to her
The pins stick farther in
Personaggi come la Voodoo Girl (la ragazza Voodoo) pupazzo di pezza dal cuore come un punta-spilli, destinata a
soffrire ogni volta che qualcuno le si avvicina troppo; o come Stick Boy, il ragazzo stecchino, che muore bruciato
per la sventura di essersi innamorato di una ragazza fiammifero.
O come Stain Boy, il ragazzo macchia, improbabile supereroe, protagonista anche di una serie di cartoni animati
pubblicata da Burton su internet, che non può fare a meno di macchiare tutto quello che incontra.
Anch'essi, seppur nella loro parziale compiutezza, contribuiscono a nostro avviso a comporre quell'eccentrico
collage che è l'opera di Burton, uno degli artisti più bizzarri e singolari del panorama cinematografico attuale,
ma anche poetici e ispirati, capace di utilizzare diversi linguaggi pur di riuscire a render reali i propri sogni e i
propri incubi, e condividerli con il mondo intero, o per lo meno con le persone capaci di ascoltarlo.
Filmografia essenziale:
Batman (1989), Edward Mani di Forbice (1990), Batman Il Ritorno, (1992), Ed Wood (1995), Il Mistero di Sleepy
Hollow (1999) Big Fish (2003), La Sposa Cadavere (2005).
Bibliografia: The Melancholy Death of Oyster Boy and other stories (1997), Burton on Burton (2006).
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Autunnale cielo del Nord
L’opera di Nick Drake è una storia breve e folgorante,
permeata costantemente da un velo malinconico che fu
sempre elemento imprescindibile della sua poetica,
tanto nella scrittura dei testi delle sue canzoni quanto
nella realizzazione delle musiche e degli arrangiamenti.
di Fabio Zaccaria
Tutta la sua produzione discografica è costituita da soli tre album, usciti fra il 1970 e il 1972, più due uscite
postume in cui l’artista ha lasciato testimonianza delle ultime evoluzioni musicali, incise su nastri rimasti
nell’oblio per decenni. Una generazione di nuovi musicisti ha cominciato ad accorgersi della grandezza ed
espressività dei brani di questo artista, dopo che per anni la sue canzoni avevano riposato nell’indifferenza più
totale.
È la triste storia di una mancata affermazione, affogata nell’indifferenza di un mercato musicale in pieno
fermento, quello della fine degli anni Sessanta in Inghilterra, che volgeva lo sguardo verso la riscoperta delle
radici folk, con l’affermazione di grandi band e solisti quali Fairport Convention, Donovan, e l’astro di Bob Dylan
oltreoceano.
L’infanzia dell’artista trascorre spensierata e senza traumi, nulla in cui cercare le ragioni di futuri turbamenti.
Amato dai genitori e dai compagni, mite e socievole nonché eccellente atleta, Nicholas Rodney Drake, nato a
Rangoon (Birmania) nel 1948, si distingue ben presto, dopo una breve fase di apprendistato in cui si era
cimentato con altri strumenti, come abilissimo chitarrista acustico. Le composizioni dei genitori, entrambi
musicisti anche se non di professione, influenzarono probabilmente il suo modo di scrivere musica, in particolar
modo quelle della madre Molly Drake.
La sua storia inizia con la necessità e la consapevolezza di dover esprimere i suoi moti interiori attraverso testi,
accordi, arrangiamenti. Sente il bisogno di mettere a nudo le zone d’ombra che agitano il suo essere, che pure
dietro la mitezza e l’apparente benessere si muovono costanti e opprimenti.
Tutto questo non darà vita a un’arte sofferta, lacerante, urlata, ma anzi la particolare cifra stilistica di Drake
sarà costituita sempre dall’eleganza, dalla raffinatezza, unite a una malinconica delicatezza dei suoi testi che
sempre tra le righe celano inquietudini, rimpianti, desideri.
Fin dal primo Five leaves left del 1969, frutto già maturo della sua precoce creatività, le immagini dipinte
sembrano, anche quando puntellate da arrangiamenti briosi e leggiadri, minacciate da un sottile e costante
grigiore: Quando l'uccello è volato via / Quando il gioco è stato giocato / Hai calciato la palla attraverso il
cortile / Hai perso molto più in fretta di quanto avresti pensato (When the day is done). Così come troviamo
parole che sembrano prevedere il futuro tragico destino: La fama non è che un albero da frutto / Così malsano /
Non può mai fiorire / Finché il tronco resta nella terra / Così gli uomini di fama / Non possono mai trovare una
strada / Fino a quando tanto tempo non è trascorso / Dal giorno della loro morte (Fruit tree). È il canto
dell’“uomo nella baracca” (Man in a shed), chiuso nella sua creatività dalla quale getta uno sguardo prensile su
ciò che lo circonda.
Un marchio essenziale della sua produzione musicale risiede nell’approccio allo strumento, in quell’arpeggio
cristallino su accenti spostati, dove ogni nota ha il giusto peso, che rende magiche anche le sole sessioni
voce/chitarra, senza dimenticare il costante uso di accordature aperte, quasi sempre differenti per ogni brano.
Nonostante la perizia tecnica e la bellezza assoluta dei brani, il primo lavoro fu un palese insuccesso
commerciale, ignorato dal pubblico e apprezzato esclusivamente dalla critica più lungimirante e da una stretta
cerchia di fan che videro in Drake un personaggio di culto. Il carattere introverso, la timidezza e la riservatezza
proprie della sua personalità di certo contribuirono a limitare la sua affermazione, rendendolo inadatto a quella
macchina commerciale che prevedeva quali tappe obbligate interviste, tour promozionali, esibizioni dal vivo.
Esibizioni che spesso si consumavano nell’indifferenza più generale, all’interno di locali in cui il vociare
sovrastava la sua voce sommessa e ritmata in sillabe lunghissime, con interminabili pause tra un brano e l’altro
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per cambiare l’accordatura della sua chitarra che andava adattata ai vari pezzi da eseguire. Curioso notare,
tuttavia, che in quegli anni il genere folk (se è lecito limitare l’opera di Drake a questo campo musicale) godeva
di un’attenzione non certo minima, soprattutto da parte del pubblico.
Con l’album Bryter Lyter, del 1970, l’evoluzione si compie definitivamente, tanta è la bellezza e la perfezione
delle composizioni e degli arrangiamenti, arricchiti da una maggiore varietà stilistica che si apre ad influenze
jazz e, a tratti, gospel (Poor boy). Anche nelle composizioni più ariose (Northern Sky), la malinconia è un
sottofondo permanente, sorta di “nota pedale” dell’animo dell’artista. La natura in cui viveva immerso, nella
casa dei parenti a sud di Birmingham, sembra traspirare dai brani del disco, reinterpretata dal filtro della
personalità di Drake che riesce ad infonderle una dimensione intima, ma sempre “autunnale” nei colori e nelle
atmosfere.
La malinconia che pervade i suoi testi e le sue musiche spesso si tramuta in un librarsi al di sopra, in un
emozionante innalzamento profondamente evocativo che riesce a raggiungere vette poetiche altissime, senza
mai sconfinare nel patetico, caratteristica esclusiva dei grandi temperamenti artistici. Non ho mai provato / una
magia folle come questa / Non ho mai visto lune che conoscessero / il significato del mare / Né trattenuto
un'emozione / nel palmo della mia mano / O provato dolci brezze sulla cima di un albero / Ma ora che sei qui /
Ravviva ogni cosa mio cielo del nord!, ascoltiamo in Northern sky, uno dei brani che meglio sintetizzano la
bellezza dell’album.
Ogni sua canzone sembra pervasa da una potente fragilità, un castello di carte leggero nella sua struttura ma
sorretto da una fede incrollabile nell’espressione di sentimenti ed emozioni con cui raggiungere il cuore delle
persone.
I segni della battaglia interiore combattuta dall’artista cominciano a farsi sempre più profondi, il secondo
clamoroso insuccesso discografico lo fa sprofondare in una depressione il cui unico palliativo sarà costituito dal
Triptizol, un potente antidepressivo del quale presto inizierà ad abusare.
L’ultimo capitolo della sua discografia vede la luce nel 1972, dopo due sole notti di lavoro. Pink moon segna il
totale abbattimento di ogni diaframma fra sé e l’ascoltatore, ha il sapore di un’intima confessione quasi
esclusivamente per voce e chitarra, in cui vive il riflesso delle delusioni, di aspirazioni frustrate e di
incomprensioni mai sopite. Emblematica in tal senso sembra essere la brevissima Know: Sappiate che vi amo /
Sappiate che non mi importa / Sappiate che vi vedo / Sappiate che non sono lì, accompagnata da un ipnotico e
monotono riff di chitarra colorato di blues. Una fase in cui la delicatezza e la dolcezza sono spesso sovrastati
dall’amarezza, con lo spettro del fallimento in costante e opprimente attesa. In Pink Moon ogni nota e ogni
parola assume un peso determinante, è un’opera scarna, sintetica ed enigmatica, in cui si avverte una
geometrica razionalità unita alla lucida consapevolezza di una condizione immutabile.
Ancora ascoltiamo parole di sconforto, emblematiche di uno stato interiore privo di punti di riferimento: Ed ero
verde, più verde della collina / Dove crescevano i fiori / e il sole brillava ancora / Adesso sono più scuro del
mare più profondo / Fatemi passare, datemi un posto in cui stare (Place to be). Una ricerca il cui obiettivo è
sempre meno definito, sempre più sfocato e lontano, annebbiato dagli insuccessi che accumulati negli anni
rappresenteranno per l’animo dell’artista qualcosa di insormontabile, che finirà per sopraffarlo. Sono parole che
lasciano intravedere la fine di un viaggio, la consapevolezza di un esaurimento di energie, di possibilità, di
volontà. La speranza di una prossima serenità non sembra più avere spazio. Troppo forte il contrasto tra la
considerazione di sé e delle proprie capacità espressive e il muro di non comunicazione che si ergeva di fronte
all’artista, probabilmente colpevole solo di aver dato vita a un’arte senza tempo, classica nell’accezione più
ampia del termine.
Sarà l’ultimo episodio di una lotta interiore, non per questo meno epica di tante altre più famose e urlate, che
lo porterà all’abbandono totale della scena musicale, in una sorta di auto-esilio intervallato da crisi nervose e da
sporadiche incisioni casalinghe, ultime perle di un astro destinato a spegnersi definitivamente il 26 novembre
1974, stroncato da una dose eccessiva di antidepressivi.
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Malinconia e scrittura
Marcel Proust
Simone Barillari, ex direttore editoriale di Alet, critico letterario, dirige ora la collana Indipulitzer per minimum
fax. I libri sono la sua passione. Li ama al punto che ha deciso di farne un mestiere. Lo incontro in un
pomeriggio attraversato dalle acrobazie termiche di questo inverno impazzito.
Rimango incagliata nella metropolitana, tre quarti d’ora o forse più, per una ragione che rimarrà un mistero,
entrata di diritto nelle piccole cronache irrisolte a cui è abituato chi vive le grandi città.
A Piazza Vittorio, per fortuna, Simone mi ha aspettato.
Abbiamo deciso di fare un’intervista letteraria sul tema della malinconia.
Seduti su una panchina, vicino a un barbone che insegue i suoi pensieri etilici, iniziamo a chiacchierare mentre
un vento freddo pizzica la pelle. Meglio così. L’atmosfera è più adatta al tema della nostra conversazione.
Simone, la malinconia è molto legata alla produzione letteraria. Parliamo un po’ dell’influenza che ha avuto?
Io partirei da un libro particolare che si chiama Anatomia della malinconia, di Robert Burton. È un libro
particolare, poco conosciuto in Italia. Burton identificò nella malinconia il sostentamento della creatività.
La malinconia viene dal greco e significa “umore nero”, considerato uno dei quattro umori fondamentali. La bile
nera potrebbe in qualche modo essere paragonabile all’inchiostro, sembra essere secreto da chi è chino sulle
carte in una penombra, chi non respira la luce del sole. In qualche modo questa persona è un recluso, è
distaccata dal mondo, sia fisicamente che mentalmente. In questo senso la malinconia è stata sempre un
contrassegno dell’arte, dell’essere artisti.
Questa condizione nasce dal fatto di essere soli, di non poter rivolgere all’esterno il proprio umore. C’è come
una continua privazione degli elementi della vita. Soprattutto di quelli che riguardano il contatto con gli altri
uomini. Ci sono quelli che hanno invece l’umore opposto, la bile gialla, cioè l’iracondia.
La malinconia è sempre stata un contrassegno dell’arte. L’artista è identificato con il malinconico.
Sto pensando alla figura di Saturno, che rappresenta tra l’altro il piombo, il più pesante dei metalli.
Saturno è sofferenza, privazione. Ma nello stesso tempo produce anche il filosofo, il pensatore.
Che personaggi ti vengono in mente pensando al filosofo malinconico, al pensatore chiuso in una stanza
all’ombra?
A un certo punto la malinconia diventa qualcosa di più di una malattia. Diventa una moda, un abito
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dell’esistenza. In Europa essere malinconici è il distintivo di coloro che vogliono fare arte. Si può pensare
innanzitutto al bohémien e a uno spirito tardo-romantico.
Ma si può anche distinguere la malinconia secondo la geografia.
Ci sono due ceppi di malinconia in Europa. Quello anglosassone e quello francese. Il ceppo anglosassone ha il suo
emblema in figure come quella di Thomas De Quincey, per esempio. È uno dei più interessanti del suo tempo
perché è un malinconico dedito a un piacere estremamente raffinato e corrosivo come l’oppio. De Quincey è
uno scrittore che ininterrottamente nella sua vita, da quando ha circa sedici-diciassette anni, scrive i suoi
pensieri e i suoi ragionamenti. In questo senso la malinconia di De Quincey è emblematica, perché è una
malinconia che innanzitutto attanaglia l’intelletto. È una malinconia filosofica, una malinconia del ragionare e
non una malinconia del cuore, come è quella francese. De Quincey cerca di alleviare questa malinconia con
l’oppio. Il suo libro più famoso è, appunto, Le confessioni di un mangiatore inglese di oppio, in cui questo
sentimento di distacco dal mondo, di abbandono, di ripiegamento, è stranissima lucidità e allo stesso tempo
torpore, di un pensiero che sembra disegnare delle spirali, delle viti che si avvolgono su sé stesse. Il periodare di
De Quincey è un periodare estremamente articolato, raffinato, ma è un ragionare letterario che sembra essere il
contraltare, il prodotto di una mente invasa dalla bile nera e dall’oppio. Nel suo caso si mescola a una vera e
propria incapacità di vivere, come accade alla maggior parte dei malinconici. Una sorta di mal de vivre che è
anche una sorta di inattitudine al mondo. De Quincey vive da giovane nelle case più disparate, fa amicizia con
una giovane prostituta che lo salva quando lui sta morendo di inedia e di fame. Tutta la sua vita ruota intorno a
queste drammatiche condizioni di esistenza e al tentativo do scacciarle con l’oppio, così come alcuni suoi
interessanti contemporanei come Coleridge e Wordsworth, due figure che lui ammira e conosce quando è ancora
giovane.
La malinconia di vivere che invece si declina in Francia è una malinconia estetizzante. È una malinconia della
sensibilità e non più del pensiero. È un morbo nel cuore. Tocca le vene più che il
cervello. Se ne possono trovare molti esempi, Da Baudelaire a Huysmans, che è così
profondamente parigino. Entrambi, come l’albatros della poesia, dimostrano appunto la
loro inattitudine a vivere, a procacciarsi la necessità dell’esistenza. Questa linea si
salda quasi senza soluzione di continuità con Marcel Proust, agli inizi del Novecento,
nella Recherche.
Proust è l’ultimo di una serie di estetizzanti e allo stesso tempo è il più grande di loro,
quello che dà compimento alla loro ricerca, alla loro esasperazione della sensibilità.
La Recherche è uno straordinario monumento ai sensi estremamente malati, eccitati,
alla letteratura scritta dai nervi, innanzitutto, e da una sensibilità acuita fino al
parossismo. La sue stessa abitudine di scrivere segregato dal mondo, in una stanza
interamente foderata di sughero, chino durante la notte, a letto, in una posizione
dolorosa, chino sui fogli, sono l’emblema di una pena che si agita nella sua mente, di
una sensibilità cinestesica, che riesce ad agire contemporaneamente con i cinque sensi
e a espanderli tutti, pur senza fare, nel suo caso, abuso di sostanze stupefacenti.
E. Degas, L'assenzio, 1876
Ma credi che la vertigine malinconica di Proust si sia in qualche modo stemperata in questo uscire fuori dal
tempo attraverso la memoria? Scagliandosi in una dimensione extratemporale sembra trovare riparo e sollievo…
La bellezza è sempre un sollievo per chi la crea. Proust era molto consapevole di creare una bellezza che
avrebbe ampiamente varcato i secoli. La letteratura però non deve essere terapeutica, non deve curare un
determinato malessere. Una persona che non sta male forse non scriverebbe. C’è una frase inglese, piuttosto
famosa, che dice: “happiness writes white”, la felicità scrive in bianco. Chi è felice non ha bisogno di scrivere
proprio perché la scrittura è sempre un tentativo di restaurazione di un ordine, di riscatto di una pena nel
tentativo di dare un senso a un dolore che non ne ha avuto e di riparare con l’ordine una frattura caotica.
Proust era una persona estremamente tormentata, gelosissimo di sua madre. Aveva anche delle enormi difficoltà
a inserirsi in società, a vivere la sua identità ebraica. Non è una personalità risolta ma è indiscutibile che ciò che
cresce nella sua stanza, e alla quale attende tutta la vita (non ci sono altri libri, ad eccezione di un saggio),
suggerisce la sua capacità di far convergere tutti i suoi sensi su quell’opera.
Il tentativo di voler risolvere le persone a tutti i costi è molto moderno. Penso alle psicologie varie. Però
sicuramente questi personaggi hanno trovato il modo di “fissare” la loro tensione interiore nelle parole.
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Pensando a questo concetto, ti viene in mente qualche figura contemporanea in grado di avvicinare le tematiche
che abbiamo discusso finora?
Forse il più grande malinconico di un’epoca ostinatamente razionalista è stato il rappresentante di un terzo tipo
di malinconia, dopo quella francese e anglosassone. Mi riferisco a quella tedesca.
Sto pensando a W.G.Sebald Sebald, il più grande scrittore in lingua tedesca dai tempi di Bernhard, morto in un
incidente quando era proprio all’apice della sua parabola creativa.
Una parabola iniziata pochi anni prima perché approda tardi alla scrittura.
Sebald sembra raccogliere l’eredità dell’erudizione del viaggio che ha caratterizzato una certa Europa tra il
Settecento e l’Ottocento, e la fa propria con una cifra malinconica estremamente particolare.
È un’erudizione lenta, molto malinconica. Vive in Sebald quella che Flaubert una volta ha definito “la
malinconia della materia”. Ha la sensazione che le cose intorno a lui franino continuamente, stiano lentamente
cedendo. Ma è una sensazione a metà strada fra una percezione e una constatazione. Le sue narrazioni, che
sono sempre in prima persona, si confondono con l’autore stesso, cercano di bloccare lo sgretolamento della
realtà, descrivendolo con una cura, una dolcezza
commovente. Tenta di descrivere la realtà, quello che
accade, dando nitore alle percezioni. Ci sono continui
smottamenti nella coscienza dei narratori di Sebald: sono
uomini che si intersecano ai luoghi descritti. Un libro come
Gli emigranti è attraversato dalla figura di Nabokov che
torna costantemente. Nei suoi libri c’è uno scivolare
inarrestabile. Si ha a sensazione che una massa tumultuosa
stia avanzando nello spazio degli uomini, lo stia
masticando. Si ha una sensazione di inevitabilità.
Questo tipo di malinconia è saldata con un tentativo
pragmatico di approccio alla realtà, apparentemente
inconciliabile con il sentimento viscerale, intimo, tipico
della malinconia.
E.M. Cioran
Penso a due titoli di Cioran, un filosofo che apprezzo molto: La caduta nel tempo e La tentazione di esistere.
Fanno venire in mente la malinconia della discesa sulla terra, con la sua struggente voglia di vivere. È come se il
malinconico in realtà bruciasse di vita più di chiunque altro, dietro un atteggiamento apparentemente passivo,
alienato. Che ne pensi?
La malinconia di Cioran è di una natura diversa, in qualche modo estranea a quelle che abbiamo descritto. È in
qualche modo una malinconia metafisica.
Infatti la malinconia di Cioran deriva proprio da questo...
Cioran vive una strana forma di fanatismo metafisico, che continuamente riflette sul progressivo degradarsi
dell’uomo e sulla sua tentazione di esistere, sul suo tentativo che dà origine a errori. Ogni atto è errore, ogni
immobilità è invece un ritorno alla quiete dell’unità, all’impossibilità di infrangere l’ordine cosmico, metafisico
che era all’inizio.
C’è una tentazione di esistere verso la quale non vorrebbe indulgere, ma invano. Il profondissimo conflitto di
Cioran è appunto quello di varcare il divieto. La malinconia metafisica deriva da riflessioni che guardano l’uomo
senza riuscire a non disprezzarlo, a non compatirlo. E a non amarlo profondamente. Disprezza gli uomini e sé
stesso, nella misura in cui è un uomo. Disprezza l’elemento antropologico nel cosmo.
Le lacrime dei santi, uno dei suoi libri, parla della caduta, della purificazione del mondo che ogni lacrima di
santo porta con sé. Cioran non riesce a impedirsi di esistere, e non riesce a trovare negli uomini dei motivi per
odiarli singolarmente, seppure li disprezzi nel loro insieme.
Il tempo della conversazione è finito. Le foglie secche che scivolano giù dagli alberi ci scortano mentre lasciamo
piazza Vittorio, destinati a luoghi diversi. Nel frattempo l’abbraccio notturno della sera che avanza sembra
disegnare il finale giusto per questo incontro.
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L'esilio e il Vulcano
Il mito di Efesto è denso di simboli e di suggestioni che raccontano la
storia di una menomazione e di un riscatto. Il dio claudicante,
scagliato dall'Olimpo sulla terra, divenne il fabbro in grado di
costruire armi e gioielli usando il fuoco per plasmare i metalli...
di Alina Padawan
C’era un tempo lontano, in cui gli dèi ancora popolavano le storie degli uomini. Era un tempo fatto di silenzi
notturni e di stupori davanti a quell’immensa volta disegnata da puntini luminosi in cui ogni stella era un dio. Un
dio che si accendeva e tracciava la strada verso la sommità senza fine.
La schiera degli dèi abitava l’Olimpo, e da lì governava le gesta degli uomini. Amandoli, proteggendoli, a volte
combattendoli.
Bellissimi, volubili, amabili e allo stesso minacciosi (perché ognuno dotato di una doppia valenza, costruttrice e
distruttrice, infera e celeste), gli dèi incarnavano con i loro volti e le loro vicende quelle “maschere di Dio”, per
dirla con Campbell, che accompagnavano il susseguirsi dell’alba sulla Terra.
C’erano dèi meno accoglienti, meno simpatici, come il bellicoso Ares-Marte oppure Chronos-Saturno. E c’erano
dèi più amabili, come Afrodite-Venere oppure Apollo.
Su tutti regnava Zeus (il Giove romano). Se sorvegliare il destino di uomini e dèi era il suo compito, Zeus non si
sottraeva certo all’amore: le leggende narrano delle sue metamorfosi durante le quali, assumendo sembianze
animali, fecondava giovani donne dando vita a una stirpe semi-divina.
Sua moglie, Era, assisteva – gelosa – alle gesta del coniuge scuotendo l’Olimpo con le sue ire.
Fra i loro numerosi figli ce n’era uno che possedeva una connotazione particolare. Era zoppo.
Un dio zoppo può sembrare un’anomalia nella perfezione divina.
Sulle origini di questa menomazione i mitografi hanno disegnato più di un’ipotesi.
I versi dell’Iliade raccontano di un litigio fra Era e Zeus riguardo a Eracle. Efesto interviene in difesa di sua
madre provocando l’ira di Zeus, che afferra il figlio per un piede e lo scaglia giù dall’Olimpo.
Efesto rotola giù, sulla terra. Finisce nell’isola di Lemno.
È stanco, esausto, provato. Gli abitanti del luogo lo soccorrono, si prendono cura di lui, lo rianimano.
Ma resta zoppo per sempre.
In un’altra versione Efesto è invece zoppo fin dalla nascita. Era, che si vergogna della condizione del figlio,
decide di nasconderlo agli altri dèi. Così lo lancia giù dall’Olimpo.
Caddi scagliato da mia madre, faccia di cagna, che voleva nascondermi perché ero zoppo; avrei molto sofferto
se non mi avessero accolto nel seno del mare Teti ed Eurimone (Iliade)
Dunque Efesto in qualche modo è obbligato a vivere sulla terra, all’ombra dell’Olimpo nel quale il padre e la
madre continuano a presiedere i consessi degli dèi.
E tuttavia da questo esilio, da questa ferita del “disamore” trae la sua forza.
Efesto diventa infatti impara a lavorare i metalli (c’è anche un chiaro riferimento alchemico). È il signore del
vulcano, l’archetipo che darà vita alla figura dei nani che, guarda caso, sono anch’essi deformi, grotteschi, ma
che allo stesso tempo custodiscono i segreti delle pietre preziose celate nelle profondità della Terra che sanno
lavorare con agio.
È lì, all’interno di un vulcano, lontano dal sole e dall’azzurro del cielo (eppure vicinissimo al Sole interiore,
occulto, nascosto all’interno della “pietra grezza”, della “terra da lavorare”), che Efesto fabbrica le armi per gli
uomini e gli dèi.
Costruisce lo scettro di Agamennone, la corazza di Eracle, il famoso scudo di Achille, che con i suoi cinque strati
ferma l’asta di Enea.
Padrone dell’elemento igneo, Efesto è il simbolo dell’alchimista che batte i metalli per trasformarli.
O Hefesto, dal cuore possente, dall’animo forte / infaticabile fuoco / dai raggi lampeggianti, o demone
splendente / lucifero dalle mani robuste, immortale artigiano, / lavoratore, parte del mondo, integerrimo
elemento / il più alto di tutti, che ogni cosa divori e domi e ogni cosa consumi (Inni Orfici)
Da una menomazione, da un malinconico esilio, nasce il contatto con il fervore creativo.
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Eccolo, affaticato, curvo sulle fiamme, intento a fabbricare gioielli, spille dorate, serrature, armi…
Da lì, dalla terra sulla quale è stato scagliato, sfida gli dèi.
A lui loro si devono rivolgere se vogliono armi vincenti per i loro protetti.
L’andatura sbilenca e le fattezze disarmoniche (mostro ansimante e zoppicante le cui gracili gambe si agitano
sotto di lui, così lo descrive Omero) sono il prezzo con cui ha pagato il sapere.
Perché la conoscenza ha sempre un prezzo da pagare. Ce lo raccontano, da sempre, i miti, le fiabe e leggende
di tutti i popoli.
Non è sempre “gentile”, Efesto.
Anche lui, come gli altri dèi, ha una doppia natura. Per di più unisce la sapienza celeste alla conoscenza della
materia e dei suoi enigmi nascosti.
A volte si diverte, si vendica. Come quando per vendicarsi di lei intrappola Era, sua madre, in un trono d’oro che
ha costruito.
O come quando lega insieme Afrodite, sua moglie, colta in flagrante nel letto domestico insieme al suo amante
Ares (grazie a una “soffiata” del Sole che tutto vede). Efesto chiama a raccolta tutti gli dèi che, alla vista degli
amanti immobilizzati, scoppiano a ridere. Sulla valenza simbolica di questo passaggio dibattono alcuni studiosi
che vedono, in questo gesto, un’allusione simbolica all’unione di Afrodite e Marte
che, imprigionata nell'abbraccio d'amore, richiede la partecipazione e il plauso di tutte le divinità.
Comunque sia, Efesto rimane un personaggio affascinante.
La sua caduta stimola la sfida, il riscatto, la partecipazione creativa alla vita. Efesto lavora da solo, sulla terra,
mentre gli altri dèi continuano ad abitare le altezze dell’Olimpo. Ma ha vinto. Ha compiuto il suo destino.
Se il corpo è deforme, la sua mente si è invece raffinata, è diventata sapiente. Non è solo un fabbro, Efesto.
È anche capace di concepire nuove forme, di dare vita all’invenzione. Non solo esecutore, ma creatore.
È così, forse, che ancora oggi il suo mito continua ad affascinare chi ci si imbatte.
Perché la sua mutilazione assomiglia tanto alle nostre.
Nel suo desiderio di casa, nella sua nostalgia per le altitudini smarrite per sempre leggiamo forse un po’ di noi
stessi.
Efesto reagisce al dolore, all’abbandono. E trova il modo, il suo modo, per tornare a casa.
Ognuno di noi, dalla sua personalissima malinconia, può ricavare la scintilla della creazione.
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Se sono esistite davvero (come crede qualcuno) dove sono finite oggi le pietre preziose che contengono i
doni celesti? Sono forse nascoste da qualche parte, fatte a pezzi? Mantengono ancora la memoria di ponti
arcani ormai spezzati, fermi sulle soglia del Tempo? Sono solo sogni?E se per caso non lo fossero,
racconterebbero comunque di mutamenti e altri fatti. Siamo nel Tempo degli Uomini, non c’è più una
Terra di Mezzo se non quella che esiste nei nostri spazi interiori.
Però, forse, i Silmaril possiamo cercarli lo stesso. Trovarne qualche frammento lucente per tentare di
comporre il mosaico che collega i mondi antichi a quelli moderni. Cercando di capire dove risieda oggi la
qualità dell’essere, o la sua assenza. E cercare di annusare il profumo sottile delle cose che ci
circondano. Ma è importante anche scovare i brogli e contraddizioni, provando a non farsi travolgere da
quegli anelli di potere (tanti, troppi) spesso camuffati, nascosti, che si giocano oggi i destini individuali
e quelli collettivi.
Navigare con ironia in mezzo alle tecnologie, alle informazioni; danzare la danza rapida dei consumi e
dei fatti. Certo, sarà difficile inciampare – oggi - in uno smeraldo nascosto. Ma si scava, si scava. In fondo
per cercare le pietre bisogna andare sottoterra. E sporcarsi le mani, frugare in mezzo a varie mondezze.
Ma se si trovasse anche solo un frammento minuscolo che conserva l’antica sapienza, ne sarebbe valsa la
pena. E se non dovessimo trovarlo va bene lo stesso. L’importante è cercare.
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Il Pollo alla diavola
Sono note le diatribe confessionali e laiche sulla esistenza o non esistenza del diavolo. Costui, a seconda della
connotazione cattolica o paganeggiante o magico-esoterica attribuitagli, viene ribattezzato Maligno, Demonio,
Satana, Lucifero. Belzebù ed in altri mille modi più o meno coerenti.
Per coloro che credono al diavolo. come ad un essere reale, individuato o impersonale che sia, come per coloro
che non ci credono affatto, ritengo di poter affermare, con cognizione di causa che: il diavolo è simpatico e
affascinante.
I dubbiosi sono invitati a leggersi quel capolavoro d'umorismo metafisico costituito dalle "Lettere di Berlicche".
Del resto, se non fosse simpatico, nessuno gli darebbe retta. Invece, le sue proposte sono sempre
diabolicamente affascinanti, diabolicamente furbe. Ma non solo furbe, come credono gli sprovveduti e i
bacchettoni ma realmente e demonicamente intelligenti.
Da bambino immaginavo il diavolo come un furbastro tentatore, dall'aspetto rossiccio e sgradevole, cornuto e
puteolente, impegnatissimo a suggerirmi birbonate e cattiverie d'ogni genere che potevano estendersi dal non
lavarsi le orecchie fino allo sbirciare sotto le gonne delle bambine.
Da "adulto" grazie alla educazione, alla scuola e a tutti gli altri terribili sistemi di tortura caratteristici dell'era
dell'homo sapiens, riuscii a soffocare abbastanza bene il bambino ingenuo ma intelligente che era in me. Decisi
però che se il demonio si fosse limitato a organizzare piccole strategie trasgressive sarebbe stato un
fessacchiotto e l'inferno sarebbe stato terribilmente spopolato. Gira voce che si tratti invece di un luogo
affollatissimo. Ciò è dovuto a lui, stratega di napoleonica grandezza, che segue, passo passo, l'evoluzione
psicologica di noi tapini. (O almeno io son certo che abbia seguito attentamente la mia).
E quando si dice che una idea è diabolica bisogna, a mio avviso, averne il dovuto rispetto. Non vuol dire infatti
che la stessa sia semplicemente malvagia ma che si tratta di un impulso sottilmente, intelligentemente e a volte
genialmente egoico, prevaricante e fonte comunque di separazione; ma mai stupida.
Proprio per la sua sottigliezza è a volte difficilmente individuabile in quanto può perfino mascherarsi da idea
coraggiosa, buona, altruistica.
Ci fu un periodo, nella mia esistenza, in cui ero talmente imbestialito per il fatto che la mia natura, orgogliosa,
egoista e falsa, riuscisse costantemente a ingannarmi che, un bel giorno decisi di invitare l'inventore dell'ego
(che non è Freud come qualcuno si diverte a pensare) a cena a casa mia.
Dopo essermi ben concentrato misi insieme le opportune invocazioni che si conclusero con un esplicito invito:
"Discutiamo da uomo a diavolo. O troviamo un punto d'incontro, o uno dei due soccombe. Così non ce la faccio
più. Tu mi fai le tue diaboliche proposte proprio quando io mi sento più sicuro. Mi prendi sempre alla sprovvista
e poiché sei un simulatore, ti nascondi e mi freghi sempre; non è giusto! Son sicuro che non ti può dispiacere l'idea d'accettare una sfida alla pari. Incontriamoci".
Effettivamente io avevo formulato tale discorsetto così, senza molta convinzione ma, improvvisamente, da un
angolo buio della mia testa una voce mi rispose bisbigliando (il diavolo è noto per la sua attitudine a bisbigliare
e, più è cattivo, più bisbiglia piano):
"Ma non hai l'Angelo Custode, grullo? Hai scritto perfino un racconto che aveva come protagonista quel
secchione saccente e presuntuoso del tuo Angioletto! Perché non ti organizzi con lui invece di rompere le palle
a me?".
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lo, dopo un attimo di spavento, risposi estremamente risentito:
"Come al solito rispondi malignamente e sei anche un po' volgare. Del resto è nella tua natura. Certo che ho
l'Angelo Custode ma, se tu avessi letto un buon Catechismo sapresti che quando tu parli ed io scioccamente ti
presto ascolto, Lui. invece di darti un sacco di schiaffoni, non può fare a meno di ritirarsi e lasciarmi solo con
te".
Seguirono una serie di bisbigli poco edificanti sulla spocchia e sulla inettitudine degli Angeli. Io, che non volevo
prestarmi al suo gioco, evitai di dargli corda e di dimostrargli d'essere enormemente più spaventato di quanto
non volessi far credere. Replicai seccamente e precipitosamente, senza rendermi ben conto di cosa andavo
dicendo:
"Voglio incontrarti, faccia a faccia, questa sera, alle otto a casa mia".
E lui purtroppo rispose:
"Ci sarò".
Poi si sentì un rumore simile a quello di un secchio portone che si chiude (anche se non c'era alcun portone nei
dintorni) e poi una specie di gorgoglio sinistro. Poi un silenzio di tomba.
Mi sentii gelare, lo sono un po' sbruffone ma alla resa dei conti sono timido, pauroso e nevrastenico. Sapere che
"lui" aveva accettato sul serio di venirmi a trovare mi mise in uno stato un po' "dongiovannesco". Pensavo:
"Chissà quant'è brutto. Ma guarda in che situazione mi sono cacciato. E adesso, se viene, che gli racconto?".
Cominciai a ripassarmi i vari esorcismi che conoscevo ma, dopo un po', lasciai perdere. L'idea d'affrontare la
"parte oscura" mi metteva in uno stato di grande ansia; ma ero troppo affascinato dall'idea della sfida per poter
rinunciare. Pensavo a San Giorgio e il Drago, a San Michele, alle tentazioni di Sant'Agostino e questa serie di
immagini, più o meno eroicamente ascetiche mi tiravano un po' su. Improvvisamente mi dissi:
"Ecco, mi ha imbrogliato di nuovo. Lui sapeva benissimo che mi sarei gongolato nella presunzione di sentirmi
santo ed è riuscito, non solo a farsi invitare a cena a casa mia. ma a farmi credere che fossi io a volerlo! Non
imparerò mai, mai!".
Arrivò la sera.
Alle sette mi sentivo un tantino nervoso.
Alle sette e mezzo avevo una forte tachicardia.
Alle otto e un minuto bussarono alla porta.
(Oz-Nahàli, Storia di un filosofo molto stanco, Simmetria edizioni)
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Intelligenza
Dal latino intelligere (inter-legere); equivale quindi a saper “scegliere fra”. La radice indoeuropea “leg” ha il
valore generico di raccogliere (come per il greco “lego”) e deriva (ad esempio, per gli antichi germani)
dall’abitudine di raccogliere (legen) i bastoncini su cui venivano incise le profezie tramite le Rune. Come si vede
l’intelligenza è una facoltà perché connessa alla sacralità divinatoria.
Quasi una virtù straordinaria, iniziatica, perché, per… intelligere, bisogna aver chiaro il significato originario e
segreto delle cose. Ora si da il caso che, in genere, si sia portati a scegliere pur senza aver chiaro assolutamente
nulla. Voglio dire che il mondo è pieno di uomini totalmente privi d’intelletto e nonostante ciò definiti
intellettuali semplicemente perché aggregati intorno ad idee approssimative.
Una acculturazione moderna ci fa confondere l’intelligenza… con l’accumulo di notizie o con le informazioni su
un determinato argomento (vedi precedenti interventi semiologici su questa stessa rivista). Ancor peggio si
confonde l’intellettuale con colui che manifesta un impegno “politico” o sociale, o, ancor peggio… quando canta
Siamo abituati a pensare che il contrario di intelligenza sia stupidità. Ma in realtà la stupidità non c’entra nulla.
Il vero opposto di intelligenza è “negligenza”. Oggi negligenza viene assimilato a mancanza di applicazione, a
svogliatezza. In realtà il negletto è colui che non ha la facoltà di “legere”, cioè d’interpretare i segni nel loro
valore archetipale, nella loro potenza e bellezza primordiali.
Ingegno
Qui le cose si fanno ancora più complesse e dobbiamo esaminare una radice latina importantissima e articolata:
genius. Il genius è un angelo, guardiano degli uomini, antesignano dell’angelo custode, importato a Roma dallo
juno etrusco, raffigurato come una fanciulla con le ali di falena o, altre volte, di pipistrello, che ha il compito di
dirigere le azioni degli uomini. Diverso dal daimon socratico che è una vera e propria manifestazione del Dio. Ma
il genius latino è anche connesso alla gens, alla stirpe. Esiste cioè un Genio di famiglia, progenitore della gens e
della generazione, da cui, in fondo, deriva lo stesso concetto di codice genetico che, guarda caso, rappresenta
proprio la nostra inclinazione psicosomatica, caratteriale, fisica, la nostra “genia”. L’animismo caratteristico
delle religioni primigenie italiche, attribuiva un genio protettore sia ai luoghi selvaggi che a quelli abitati dagli
uomini e si preoccupava di renderlo favorevole ed ospitale. Cioè ammetteva una coabitazione fra trascendente
ed immanente, ugualmente percepibili e presenti in ogni angolo del cosmo.
L’ingegno è perciò una facoltà particolare che consente di “generare”, di creare qualcosa, appunto di geniale,
conformemente ad una speciale inclinazione e capacità innata. L’ingegno preesiste e non è creabile, non è
plasmabile. Ed è strano che nel mondo odierno esistano addirittura delle scuole per formare ingegneri, cioè per
inculcare anche in menti che spesso non sono assolutamente in grado di accoglierla, la facoltà geniale. Siamo di
nuovo nella confusione fra genialità e accumulo d’ informazioni. E non se ne abbiano a male gli ingegneri.
Anch’io lo sono.
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La studiosa di umorismo ebraico di lingua tedesca Salda Landman afferma, in
un suo studio sull'umorismo della storiella ebraica, che Israele è un paese
witz-los, privo di umorismo. Questa tesi a mio parere è priva di fondamento.
Israele è un paese popolato da ebrei molti dei quali provengono dalla
diaspora che ha prodotto quel leggendario humour.
A dispetto delle condizioni particolari in cui quello Stato è cresciuto e si è
sviluppato, quella diaspora ha riversato le sue esperienze culturali in un
nuovo humus e ha fertilizzato il nuovo paese.
Lo Stato d'Israele ha vissuto nei primi venticinque anni della propria
esistenza una condizione di permanente belligeranza, circondato da un
contesto irriducibilmente ostile. La classe dirigente dei Padri fondatori
dell'entità statale ebraica era composta di transfughi della diaspora est e
centro-europea: ebrei coscienti e militanti, il cui scopo era unicamente
l'edificazione di una patria ebraica dove fare germinare un nuovo tipo di
ebreo. Un ebreo antitetico rispetto a quelli della diaspora, inquieti,
perseguitati, calunniati, esposti a costante ludibrio, occupati in un ristretto
numero di professioni legate soprattutto al commercio, al danaro o alla pura
intellettualità, ovvero persi dietro ad un utopico ideale egalitario astratto.
Moni Ovadia, L'ebreo che ride, Einaudi 1998
Dopo quarant'anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e
compiuto esperimenti diversi, è venuta l'ora che io cerchi una definizione
complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il
più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso peso ora
alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato
di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. [...] presto mi
sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia
materia prima e l'agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia
scrittura c'era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse
stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l'inerzia, l'opacità del mondo:
qualità che s'attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di
sfuggirle.
Italo Calvino, Lezioni Americane - Leggerezza, Mondadori 2002
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L'evoluzionismo è morto, ma i fatti che hanno dato origine al suo mito
attendono ancora una spiegazione. Uno di questi è una certa affinità tra
l'arte infantile e quella primitiva, affinità che ha suggerito agli incauti la
falsa alternativa che questi primitivi non sapessero far di meglio perché
erano maldestri come fanciulli, oppure che essi non volessero fare altro
perché avevano ancora la mentalità dei fanciulli. Entrambe queste
conclusioni sono ovviamente false. Esse si fondano sul tacito assunto che ciò
che è facile per noi debba essere stato sempre facile, e mi sembra una
acquisizione definitiva dei primi contatti tra la storia dell'arte e la psicologia
della percezione il fatto che noi non si abbia più bisogno di crederlo. In
realtà, per quanto mi dispiaccia il cattivo uso che a volte si fa di questa
psicologia nella sua forma storicistica, confesso di provare una certa
nostalgia per l'audacia speculativa di quegli ottimisti dell'Ottocento. Forse lo
devo al fatto che ho avuto la fortuna di poter ancora seguire l'insegnamento di quegli spiriti coraggiosi che, tra
la fine del secolo scorso e gli inizi di questo, cercarono di risolvere il problema del perché l'arte abbia una
storia.
Ernst H. Gombrich, Arte e Illusione, Leonardo Arte 1998
(a cura di F.zac)
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S'è fatta ora
Antonio Pascale, Minimum Fax, collana Nichel, 126 pp., euro 9,50
Torna Vincenzo Postiglione, già alter ego di Pascale in altri suoi libri, e torna il suo sguardo obliquo in perenne
tensione tra istinto e razionalità, attraverso il filtro di un’ironia delicata ed efficacissima.
Cinque momenti chiave della vita del protagonista, in un romanzo di formazione tra i più azzeccati degli ultimi
tempi.
La giovinezza, gli anni della contestazione, il sesso e le donne, il lavoro, la politica, i figli e i genitori, tutto
scorre di fronte agli occhi dell’Io narrante Vincenzo, che ci trascina nelle sue elucubrazioni apparentemente
ingenue ma tanto umane e profonde, strappando la risata in più di un’occasione.
I piani temporali dei cinque capitoli si intrecciano in continuazione senza affaticare la lettura, consentendo al
lettore di seguire Vincenzo nella sua progressiva acquisizione di consapevolezza circa il mondo che lo circonda,
pagina dopo pagina.
Un libro che sembra dotato di quella “leggerezza” che Calvino elogiava nelle sue Lezioni Americane, ed è ovvio
che il talento narrativo di Pascale non aspettava certo noi per essere scoperto, essendo già noto ai più.
Consigliato a chi fa delle proprie idee politiche e ideologiche dei dogmi incrollabili, senza mai farsi catturare dal
demone del dubbio, auguriamo a questi signori divertenti sorprese dalla lettura del libro.
(F.zac)
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Rivista n° 3/2006-2007
Le guerre dell'acqua
Vandana Shiva, Feltrinelli, collana Universale Economica. Saggi, 158 pp., euro 6,50
“Il mio passaggio dalla fisica all’ecologia è in parte dovuto alla scomparsa dei torrenti himalayani in cui
giocavo da bambina”.
È la dolorosa testimonianza di Vandana Shiva, fisica ed economista indiana, tra i massimi esperti internazionali
di economia sociale.
Ma commetterebbe un errore chi intendesse circoscrivere l’impatto degli interventi della Shiva entro i limiti
angusti e un po’ naif della logica puramente ambientalista.
Le guerre dell’acqua, infatti, è un saggio ampiamente e scientificamente documentato che traccia un percorso
storico, geografico, economico, antropologico e culturale delle politiche connesse all’uso dell’acqua nel mondo.
“Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo avranno
come oggetto del contendere l’acqua”. Così ammoniva nel 1995 Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca
mondiale.
La crisi idrica compromette gravemente la sopravvivenza delle popolazioni in numerose regioni del pianeta dal
Medio Oriente all’India, dagli Stati Uniti alla Cina, dal Canada alla Bolivia e la situazione è destinata a
peggiorare, perché i ritmi di produzione imposti dall’economia del mercato globale stanno succhiando le risorse
naturali del pianeta molto più in fretta di quanto il ciclo dell’acqua sia in grado di ripristinare.
Ghandi disse che “La terra ha abbastanza per le necessità di tutti, ma non per l’avidità di pochi”.
In realtà molti conflitti già in atto sono guerre per l’acqua, solo che non sono immediatamente riconoscibili
come tali, perché mascherate da una connotazione religiosa o etnica.
La Shiva invita a riflettere sul carattere globale delle guerre per l’acqua, in cui si fronteggiano da una parte
milioni di specie e miliardi di persone che richiedono il minimo per la sopravvivenza, dall’altra un pugno di
imprese globali, sostenute da istituzioni globali.
L'autrice indica nella democrazia dell’acqua la strada per la costruzione di una pace giusta e duratura. Occorre
riscoprire il carattere “sacro” dell’acqua come bene comune, come tale non riducibile esclusivamente al suo
valore commerciale.
Una via percorribile? L’autrice è convinta di sì.
(Bianca Casadei)
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Rivista n° 3/2006-2007
Japan Underground
Gabriele Rossetti, Castelvecchi, collana Quadra, 164 pp., euro 18,00
La cultura erotica giapponese si è sviluppata in modo radicalmente diverso rispetto all'Occidente: senza quei
condizionamenti di matrice cattolica che tanto influenzano il nostro modo di percepire la sessualità.
Sarà per questo che tanto fascino e curiosità esercita su di noi una visione della sessualità dove sesso e amore
non devono necessariamente andare di pari passo.
Lo studioso di cultura giapponese Gabriele Rossetti ci accompagna in un viaggio attraverso uno dei paesi più
sessualmente liberi del mondo, senza disdegnare approfondimenti di matrice antropologica e filosofica.
Linguaggi, immagini, stereotipi, religioni e cultura contemporanea giapponesi attraverso i filtri dell'eros e del
corpo umano, analizzando la profonda influenza esercitata sull'arte figurativa e sui mass media, con un occhio
sempre attento alle tendenze in atto e ai fenomeni culturali più stravaganti del paese del Sol Levante, dove le
cose non sono mai come appaiono.
Un saggio completo ed esauriente, che riesce a focalizzare l'attenzione sulla diversità e particolarità
dell'immaginario erotico giapponese rispetto all'Occidente nostrano.
“Nel paese che ha fatto della disciplina la sua virtù, trasgredire significa essere estremi...”
(Fabio Zaccaria)
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Rivista n° 3/2006-2007
L'ABC dei videogiochi
Roberto Genovesi, Dino Audino Editore, euro 10,00
Che tipo di lavoro si cela dietro la realizzazione di un videogioco? La domanda che molti di noi si sono
probabilmente posti più di una volta trova oggi una risposta adeguata nel testo in questione. Roberto Genovesi ci
guida in un percorso attraverso gli aspetti più interessanti della creazione dei videogames, focalizzando
l’attenzione attorno alla figura del game designer, un professionista che progetta e crea mondi fantastici, in
possesso di specifiche competenze tecniche supportate da una fervida immaginazione.
Si avanza attraverso le tappe che portano alla creazione di un videogioco con decine di esempi e immagini, per
approfondire la conoscenza di quella che oggi può senza alcun dubbio essere considerata la frontiera più giovane
e interattiva dell’intrattenimento moderno.
Dalle prime fasi di scrittura del book, passando alla grafica e all’interfaccia utente, proseguendo con la
costruzione dei personaggi e delle storie; lo stile speed & surround della narrazione e il giocatore con le sue
emozioni e la sua fantasia sono i due elementi essenziali che l’autore tiene al centro del processo creativo, a
prescindere dal “genere” di videogioco che si sta realizzando. Da segnalare la presenza di interessanti sezioni
dedicate all’analisi dell’industria di settore, mercato e delle professioni. Potremo finalmente conoscere tutti i
segreti di quegli "universi paralleli" che divengono oggi prodotti sempre più raffinati e complessi da scoprire
giocando.
(Huey Freeman)
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Rivista n° 3/2006-2007
Da rileggere:
Günter Grass, Il tamburo di latta
Romanzo d’esordio del premio Nobel 1999 per la letteratura, Il tamburo di latta è un’opera monumentale, di
una potenza narrativa fuori dal comune e ancora oggi attualissima. Il mondo visto dagli occhi di Oskar Matzerath,
originario di Danzica come Grass. Un mondo visto dagli occhi di un nano, perché resosi conto della ferocia e
dell’ipocrisia regnanti, il protagonista all’età di tre anni interrompe la sua crescita causandosi un incidente. Il
tamburo che porta appeso al collo è il suo strumento di interpretazione della realtà, con cui segnare lo scorrere
del tempo e degli eventi storici che fanno da sfondo alla sua vita. Una storia che si dipana negli anni cruciali del
Novecento europeo: la depressione, l’avvento del nazismo e il secondo dopoguerra. Ciò che ancora oggi colpisce
in questo libro è la capacità di fornire un resoconto lucidissimo dei momenti storici cruciali, in cui si incastra
una storia fantasiosa e grottesca, ma allo stesso tempo drammatica e dolce. Pur trattandosi dell’esordio di uno
dei maestri assoluti della narrativa del secolo, il romanzo possiede già il marchio dell’inconfondibile cifra
stilistica dell’autore, della sua attenzione al mondo dei disagiati che lo porterà a un impegno politico attivo tra
le fila del Partito Socialdemocratico Tedesco negli anni successivi al 1959. Il grande regista tedesco Volker
Schlöndroff nel 1978 ha tratto un film dal romanzo Il tamburo di latta, vincendo la Palma d’Oro a Cannes l’anno
successivo.
(Fabio Zaccaria)
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Rivista n° 3/2006-2007
Sulla folla
Sulla creazione artistica
Creare è [...] dare una forma al proprio destino.
(Camus, L'uomo in rivolta)
Ogni creazione è, all'origine, la lotta di una forma in potenza contro una forma imitata.
(André Malraux, Psicologia dell'arte)
Sulla malinconia
Non pretendo che la gioia non possa accompagnarsi alla bellezza; ma dico che la gioia è uno degli ornamenti più
volgari
(Baudelaire, Opere postume)
La malinconia è la felicità d'esser triste.
(Hugo, I lavoratori del mare)
Nel tempio stesso della gioia / la Malinconia velata ha il suo altare sovrano.
(Keats, Ode sulla malinconia)
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Rivista n° 3/2006-2007
La famiglia allagata
di Alina Padawan
La famiglia allagata. Non è un refuso. È la condizione attuale della
modernissima famiglia allargata. Siamo arrivati a toccare i minimi
storici della decenza. Ci siamo arrivati davvero. Ci siamo arrivati dopo
le rivendicazioni delle coppie gay (liberissime di amarsi, per carità, è
un diritto che spetta loro; ma un figlio è un altro paio di maniche…il
mammo o la babba in tandem possono causare smottamenti in un
bambino - e non c’è bisogno di scomodare Lapalisse Crepet per
capirlo - dopo le nonne ultrasessantenni che partoriscono il figlio
degli antenati, dopo i figli surgelati in cubetti, dopo le banche del
seme autenticato, dopo le famiglie degli ex che più ex non si può
(affittiamo un caravan?), il peggio era ancora in agguato. Ma ci siamo
impegnati e ce l’abbiamo fatta, a superare quella linea, già
fragilissima. Ce l'abbiamo fatta.
Lo scopri sfogliando un giornale in cui ti imbatti nell’articolo che parla di Jennie Withers, splendida
quarantunenne inglese che decide pubblicamente di cercare un socio in affari. Fin qui, nulla di strano. Ma
indovina, indovina qual è l’affare in questione? Un prodotto all’ultima moda, un bene di consumo di prima
necessità. Un bambino. Contentissima della sua geniale trovata, sull’Observer Magazine lei cerca il socio-papà
per fare l’affare del secolo. Lancia l’offerta. Prego, avanti il migliore.
In fondo Jennie sa cucinare, ha finito l’analisi senza strozzare sua madre, ha chiuso con le storielle veloci veloci
e con quelle, lunghe lunghe, agonizzanti. Insomma, ora si vuole bene, si è “ricostruita”, ha un lavoro, le stanno
simpatici i bambini e ha deciso che deve essere mamma. Perché no?
Mi piacerebbe essere incinta di qui a un anno. Amo tenere i bambini fra le braccia, annusarli (auguriamoci che
non sia una feticista alla Süskind). Domenica mattina ero al bar con un’amica e ci siamo dette: “Non può
essere così difficile, no?.
No che non è difficile, cara la mia Jennie. Ma non ti accontenti, vuoi addirittura il socio: “Credo che un figlio
debba essere una joint venture, quindi non voglio ricorrere a un donatore”. Parole tue.
Beh, il marketing aziendale in famiglia finora si era fermato ai conti della spesa, non avevamo mai pensato…alla
fornitura, alla produzione “in casa”, con il controllo della materia prima affidato a una società, non a una ditta
individuale (come quella delle single si stanno battendo per le adozioni).
Non interessa, a Jenny, che sia gay oppure etero, libero o in coppia (della serie ndo cojo cojo…). L’importante è
che dia un supporto finanziario “e abiti nei paraggi”.
Possiamo anche stare tranquilli perché si farà supportare dallo psicoterapeuta in questa avventura da Telefono
Azzurro. Ma siamo matti?? Piantiamola con la certificazione sociale dell’egoismo. I bambini sono doveri, non
sono diritti. La famiglia nucleare – oggi praticamente smantellata – non era una bomba a orologeria ma un luogo,
pieno di difetti e contraddizioni, che cementava i legami, dava valori, forniva una bussola.
E va bene, va bene modificare i costumi (o meglio, i consumi) ma c’è un limite. C’è un limite a tutto.
Spero che la tua società non finisca quotata in borsa, cara Jennie. Anzi, spero che il notaio il giorno della
stipulazione scappi sul Kilimangiaro con la sua amante. Che il tuo socio trovi una società più salutare. Che il tuo
psicologo vada in terapia. Spero, cara Jennie, che tu ti renda conto di aver ricostruito te stessa senza aver
prima smantellato bene le vecchie fondamenta. Quelle su cui poggia il tuo robusto egoismo.
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Rivista n° 3/2006-2007
Le cronache di Jessica Rabbit
di Lady Oscar
Poco tempo fa sulle prime pagine della Repubblica continuava a campeggiare la
pubblicità del nuovo libro di Lilli Gruber..
Difficile non domandarsi quanto sia cambiato il giornalismo negli ultimi
vent’anni, con la televisione e le nuove tecnologie.
Se la Fallaci indossava un elmetto nelle leggendarie fotografie del Vietnam, la
Gruber che ci ha sorriso con le sue labbrone dal Medio Oriente portava il chador
come si fosse trattato di un foulard di Hermès.
Invece di bucare la mente trafiggendola con la punta affilata della scrittura, oggi
bisogna bucare il video.
Lilli Gruber lo sa benissimo.
Lei, la Jessica Rabbit del giornalismo nostrano, è forse la summa più eloquente
degli ingredienti del giornalismo televisivo contemporaneo: presenzialismo (è
ovunque, approdata perfino nella Commissione Affari esteri di Bruxelles),
fotogenia e cura del look (guardate le foto sfavillanti nel suo sito
www.lilligruber.net), atteggiamento politically corret (in un politically
ovviamente schierato), composto, retorico, scontato.
Come Jessica Rabbit, anche la nostra Lilli è assai seducente, con quel capello rosso fuoco (tinto) che si accende
in televisione contrastato dal nero che perimetra, e tenta di contenere, le sue scollature abissali.
Vogliamo fare i moralisti? Certo che no!
Però ci domandiamo, sconfortati, quanto l’apparenza, di nuovo, conti sull’essenza. Quanto le labbra a deretano
di gallina contino più di quello che dicono. Quanto il viaggiare di molti moderni reporter, intruppati in alberghi
a infinite stelle, sia diverso dalle perlustrazioni di quegli avventurieri del giornalismo che giravano in Vietnam,
ad esempio, rovistando fra le storie in cerca della Storia.
Ma le epoche cambiano, e i giornalisti si adeguano. Finite le ere dei Terzani, delle Fallaci, dei Montanelli? Temo
di sì.
Oggi ci toccano le Jessiche Gruber impomatate, con quel successo mediatico che è un mix di immagine e parola
“giusta”, critica ma non scomoda, severa ma non fustigatrice, commovente al punto giusto, regolata dalle
frequenze della televisione che preme sulla parola, la costringe a piegarsi all’immagine mentre la faccia con le
labbra arricciate schiocca baci verso la telecamera.
Ai mezzobusti francamente io preferisco i busti interi. Quelli che con le loro gambe camminano e raccontano e
poi scrivono. E che se ne fregano del loro look. E che non hanno un sito personale con una galleria fotografica
degna di un servizio di Vanity Fair.
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Rivista n° 3/2006-2007
Anche la Gruber ha fatto l’inviata, vero. Ma le sue sembrano gite. Come quando la Guzzanti faceva la parodia di
Letizia Moratti in visita nella scuola pubblica, vestita da safari, a caccia di strani esemplari chiamati “studenti”.
Pure la nostra Lilli fa i suoi safari nelle zone di guerra.
E oggi, non contenta di essersi seduta sulle poltrone di Bruxelles, sforna libri da salotto sulle questioni
internazionali. Corretti, tremendamente corretti. Politicamente corretti.
E finisce tra i più venduti, insieme ai soliti Vespa e affini.
Eh già, ci fa rimpiangere la Fallaci. Quella delle foto storiche, al fronte, con l’elmetto addosso. Unica civetteria,
una striscia di eye-liner. Unica avversione: il giornalismo cotonato, alla Jessica Gruber.
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Rivista n° 3/2006-2007
Amanti della politica
Fonti accreditate (e istituzionali) mi confessano che quasi tutti i politici hanno un'amante. Quello dell'amante è
forse il...secondo mestiere più antico del mondo. Benissimo.
Il moralismo d'accatto non serve: in fondo il cuore non segue il moto rettilineo della ragione. A ciascuno il suo,
diceva Sciascia. Vale anche per l'amante.
Ma quando l'amante diventa l'accompagnatrice perenne delle trasferte, italiche e non, dei nostri politici mi
viene un dubbio: non potrebbero per caso viaggiare da soli?
Perché con loro prendi uno paghi due?
In fondo, stanno lavorando. Mica vanno in vacanza.
E, di fatto, anche noi stiamo lavorando. Da soli. Perché paghiamo, noi, anche il vitto, l'alloggio, i massaggi nel
centro benessere della loro Madame Bovary? Se dobbiamo tagliare le spese, e recuperare i soldi in ogni dove
per cucirci le pezze nel deretano, prima eliminiamo il superfluo. Come con i peli.
(Lady Oscar)
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Rivista n° 3/2006-2007
www.imieilbiri.it
“Quante volte hai scoperto un bel libro grazie al consiglio di qualche amico?”
L’idea alla base della creazione del sito è tanto semplice quanto efficace: creare una comunità di scambio delle
riflessioni e interpretazioni nate dalla lettura dei libri, facendo leva sulla volontà di condividere con gli altri le
stesse emozioni e sensazioni provate.
Imieilibri.it consente ai singoli utenti di pubblicare un proprio commento (limitato nella lunghezza e senza
“diritto di replica” sugli alti interventi che via via si aggiungeranno) in cui si riporta il proprio giudizio estetico
rispetto a qualunque libro letto.
Si pone l’accento sull’importanza che il commento di un lettore “amico”, proveniente dunque da una fonte
magari meno autorevole ma non meno attendibile, può avere nello spronarci o meno alla lettura di un
determinato testo.
Il sito si propone quale “complemento” alla libreria, un luogo d’incontro on-line dove è possibile rinnovare o
riscoprire il piacere della lettura. Vale la pena fare un giro tra le varie sezioni, caratterizzate da una grafica
semplice ed essenziale, ben strutturata a livello visivo.
(Fabio Zaccaria)
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Rivista n° 3/2006-2007
La realtà dei blog non è solo quella dei narcisi che si rimirano come pavoni. O che si inabissano nelle loro
riflessioni di interesse condominiale.
Del tipo:
"2 ottobre:
oggi mi ho spremuto un punto nero. Fuori, le nuvole".
E una ridda di commenti entusiasti sfornati dalla corte di amici e parenti del tizio: "Ma dai! C'era il pus??
C'era? C'era?" "Che forma aveva la nuvola?" (seguono discettazioni filosofiche sulla forma dei brufoli e delle
nuvole)...
No, c'è anche il blog interessante, fatto bene.
Politica, scrittura e lettura, giornalismo on line, spunti socio-culturali...
La finestra di Silmarillon da questo numero si apre sulla blogosfera cercando di captare - e segnalare - le voci
più interessanti.
Come alcuni di voi sanno, Silmarillon è un esperimento particolare che collega il passato al futuro cercando
però, nel presente, di non farsi imbrigliare nelle categorie. Nemmeno in quelle politiche.
Silmarillon sta dalla parte dell'intelligenza, e della qualità. Ovunque essa sia.
Ecco le nostre segnalazioni per questo numero:
www.nazioneindiana.com
Blog collettivo che nasce con lo scopo di dare vita a “...una nazione composta da molti popoli diversi,
orgogliosamente diversi e orgogliosamente liberi di migrare attraverso le loro praterie intrecciando scambi e
confronti, e a volte anche scontri”.
Nazione Indiana è un progetto culturale avviato nel marzo 2003 da un gruppo di intellettuali, scrittori e artisti
italiani, in cui le pubblicazioni spaziano dai testi letterari e critici, alle iniziative politiche e culturali.
L’intenzione è quella di instaurare un rapporto diretto con chi legge, mantenendo un atteggiamento di
indipendenza rispetto al mercato e all'industria culturale. Ciascun collaboratore ha la possibilità di pubblicare
autonomamente ciò che vuole, senza passare attraverso alcun filtro redazionale e alcun tipo di mediazione.
Un blog non solo letterario, caratterizzato da uno sguardo attento verso i fatti di cronaca contemporanei,
commentati con interventi di alto livello: dalla vicenda di Roberto Saviano all'omicidio di Anna Politkovskaja.
themusicalblog.blog.aruba.it
The Musical Blog (probabile l'ispirazione dalla celebre The Musical Box dei Genesis) è un blog da ascoltare.
Un'iniziativa originale realizzata da Fabio Ranghiero, musicista che di volta in volta posta i suoi brani, scaricabili
gratuitamente sotto licenza Creative Commons, accompagnandoli con dei commenti scritti in cui registra
impressioni, problemi, ispirazioni riguardo le sue composizioni.
Tutte le parti testuali sono redatte in due lingue, italiano e inglese, il che conferisce al blog in questione una
dimensione sicuramente meno “provinciale”.
Si tratta senza dubbio di un blog nato da poco (il primo post è del 13 Ottobre 2006) ma, data la bontà dell'idea,
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Rivista n° 3/2006-2007
vi invitiamo a curiosare e partecipare attivamente. Un interessante esperimento di integrazione tra suoni,
parole ed emozioni.
http://www.akatalepsia.blogspot.com/
È un diario di quotidiani percorsi attraverso la letteratura, viatico per delle profonde e interessanti riflessioni
che l’autrice posta di giorno in giorno, sempre con toni appassionati e mai banali.
Gli articoli sono spesso corredati da link al libro o all’autore trattati, e spesso lo spunto iniziale è rappresentato
da una citazione o da un piccolo estratto del testo.
L’autrice del blog, Clelia Mazzini, racconta di non essere una gran frequentatrice delle parole "dette"
(prediligendo quelle "scritte"), e ci confessa di avere un debole per la magia della parola che fa nascere e
trasforma le cose. Una magia che indaga costantemente tra le righe di uno dei diari letterari meglio realizzati
tra quelli in cui è possibile imbattersi oggi navigando nel Web.
(a cura di Huey Freeman)
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