Indice - C`era una volta l`«America

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Indice - C`era una volta l`«America
Newsletter del CISPEA Summer School Network
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Numero 5
Numero speciale dedicato alla storia atlantica e transatlantica
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Indice
Introduzione: La lunga storia atlantica (Cristina Bon) .......................................... p. 2
Storia atlantica e transatlantica fra età moderna e contemporanea: Una
riflessione storiografica (Maurizio Vaudagna) ................................................. p. 6
I limiti cronologici della storia atlantica: Il problema della cesura
rivoluzionaria (Federica Morelli) ......................................................................... p. 14
Il mondo atlantico, il lungo Ottocento e la storia contemporanea (Marco
Ma­riano) ...................................................................................................................... p. 25
L’America e la politica di modernizzazione in Europa nel lungo Novecento
(David Ellwood) ........................................................................................................ p. 37
Circolazioni transatlantiche in storia delle migrazioni: Portoricani e
italiani a New York (1920–1960) (Simone Cinotto) .................................... p. 41
“Fatti e idee”: Le trasformazioni del mondo atlantico e la “disputa del
Nuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX) (Maria Matilde Benzoni) ....................... p. 51
Introduzione:
La lunga storia atlantica
CRISTINA BON (Università Cattolica del Sacro Cuore)
C
os’è la “storia atlantica”? O meglio: fino a quali limiti, spaziali e cronologici
può spingersi? La prima giornata del ciclo seminariale di studi atlantici –
gli altri due appuntamenti si terranno in primavera presso l’Università di Bologna e in autunno a Roma Tre – è stata dedicata a discutere una questione
metodologica oggi assolutamente imprescindibile per chiunque intenda fare
del continente americano – settentrionale o meridionale – il proprio oggetto di
ricerca storica.
Una questione che nasce dall’esigenza di mettere ordine in almeno un secolo
di storiografia, fra studi di modernistica e contemporaneistica, che condividono spesso termini e categorie comuni, pur con differenti accezioni di significato. Come ha efficacemente ricordato Maurizio Vaudagna nel suo intervento
iniziale, sono infatti molti i concetti
che hanno avuto differenti utilizzazioni storiografiche, fra cui figurano
quelli di impero, colonialismo, nazione, razza, migrazione – ma l’elenco
potrebbe proseguire a lungo.
Il presupposto di base da cui ha preso
avvio il seminario di studi atlantici è
l’idea per cui esistono fenomeni che
trascendono le tradizionali barriere
periodizzanti della storia, e possono
essere compresi molto meglio se si
è disposti ad analizzarne continuità
e discontinuità storiche. In questo
senso, è dunque possibile constatare
che i fenomeni caratterizzanti la cosiddetta storia atlantica tradizionale,
quella che associamo generalmente
Illustrazione di Ambrosius Holbein per l’edizione
del 1518 dell’Utopia di Tommaso Moro.
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alla formazione dei grandi imperi coloniali atlantici dell’età moderna – Spagna, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Francia – hanno trasceso i confini dell’età
rivoluzionaria di fine Settecento per propagarsi nell’Ottocento, sopravvivendo
dunque allo sgretolarsi dei domini imperiali nelle Americhe.
Se è innegabilmente vero che esistono fenomeni meritevoli di essere analizzati
in senso diacronico, senza limiti cronologici dettati da miopi ripartizioni disciplinari, questa consapevolezza non risolve però il problema di fondo, quello
cioè di capire se abbia comunque senso definire i limiti geografici e cronologici
della cosiddetta “storia atlantica”. A questo quesito, i relatori della prima sessione dei lavori seminariali hanno risposto in modo pressoché unanime, sostenendo, sulla base di osservazioni puntuali, che la storia atlantica continua ben
oltre la rivoluzione americana, i movimenti di indipendenza nazionale del centro e sud America e l’abolizione della schiavitù, prolungando la propria ombra
fin oltre la metà del diciannovesimo secolo.
Così, ad esempio, Federica Morelli sostiene che l’era delle rivoluzioni non abbia
rappresentato una vera cesura per il mondo atlantico, e uno dei migliori esempi di questo fatto si troverebbe nella persistenza del sistema schiavistico ben
oltre l’abolizione ufficiale della tratta. Così anche l’idea di colonia e colonialismo atlantico supererebbe la fine degli imperi in quanto, nel caso dei sistemi
politico-sociali emersi dai movimenti di indipendenza “la storia nazionale non
rappresenta che un’estensione di quella coloniale”.
L’estensione cronologica del mondo atlantico alla seconda metà del diciannovesimo secolo si basa invece principalmente sull’osservazione della presenza
di problemi comuni ai sistemi politici atlantici ottocenteschi emersi dalle guerre
di indipendenza e dalla crisi degli imperi d’inizio Ottocento. Questioni come “la
difficoltà a creare stati nazionali in contesti multietnici, il costituzionalismo e
il repubblicanesimo, la delicata relazione fra federalismo e centralismo” sono
indiscutibilmente tratti comuni al contesto europeo e americano ottocenteschi;
e alcuni concetti, come quello di cittadinanza, mantengono nei sistemi politici
americani ottocenteschi dei caratteri molto simili a quelli conservati entro i
confini coloniali di età moderna.
Alla luce dell’esposizione di Morelli ci si potrebbe però chiedere se la presenza
di fenomeni condivisi e di una certa continuità diacronica fra categorie concettuali possa bastare per dichiarare di trovarci in presenza di un sistema atlantico
organico, qual è stato – secondo la storiografia – il sistema economico-sociale
dell’atlantico di età moderna (in particolare lo spazio atlantico dei secoli sedicesimo e diciassettesimo). La stessa Morelli sembra in effetti ammettere questo
problema quando ravvisa che, a fronte del consolidamento degli scambi commerciali atlantici e dell’arrivo di nuove ondate migratorie, nella seconda metà
del diciannovesimo secolo lo spazio atlantico viene privato dell’Africa che era
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stata al centro della tratta degli schiavi.
A questa legittima perplessità risponde Marco Mariano, secondo cui l’idea di
mondo/spazio atlantico può essere certamente utilizzata come unità e strumento finché “l’Atlantico rimane una vitale” e “privilegiata” arena di scambio fra
i continenti che la circondano. Quest’affermazione, sostenuta da studiosi come
Philip Morgan e Jack Greene, è del resto ormai largamente condivisa dalla comunità scientifica. Alcuni modernisti puri potrebbero ovviamente obiettare che
parlare di “atlantic history” di fronte a fenomeni che indicano una vitalità interna al mondo atlantico sia cosa diversa dall’attribuire la definizione di mondo
atlantico ad un sistema di relazioni politico-economiche-sociali infra-continentali. Il che significa che l’idea di storia atlantica dovrebbe sottendere l’esistenza
di un sistema organico quale comune oggetto di studio.
La risposta di Mariano a queste potenziali obiezioni consiste nel bypassare il
problema prettamente geografico, partendo dall’idea per cui gli studi atlantici
non debbano necessariamente presupporre uno spazio economicamente e socialmente integrato. Si potrebbe allora rivedere l’esigenza di associare la storia
atlantica a un univoco spazio atlantico, e parlare di storia atlantica laddove ci
si trovi in presenza di fenomeni di respiro atlantico, siano essi la “crescita di
reti diplomatiche e consolari” fra stati-nazione, o le influenze transnazionali fra
fenomeni di burocratizzazione, industrializzazione e democratizzazione. Seppure all’interno di un processo di globalizzazione otto-novecentesca, questi
fenomeni sembrano in effetti rendere lo spazio atlantico un’unità di analisi
storica coerente “in cui si intrecciano forze transnazionali e dinamiche internazionali”.
Lo studio di queste “forze e dinamiche” transnazionali e internazionali è peraltro al centro dell’ultima monografia di David Ellwood, che si interroga su tre
momenti storici del ventesimo secolo. Lo studio di Ellwood individua un intenso “incontro/confronto transatlantico” fra modelli di modernità; uno scontro
giocato, in particolare, sulle risposte europee alle costanti sfide provenienti dal
mondo americano, dal dopoguerra ad oggi, in molteplici campi: dal femminismo alla cultura giovanile, dalla produzione al consumo e alla comunicazione
di massa; dall’omosessualità alla religione. Il taglio di questa ricerca può essere
integrato e ulteriormente valorizzato dall’analisi di uno dei fenomeni che più
si presta a essere letto in chiave atlantica: quello delle migrazioni oceaniche.
Osservate da questo punto di vista le grandi metropoli costiere degli Stati Uniti
rappresentano un perfetto bacino di studi transatlantici, capaci di trascendere
i “confini e le storiografie nazionali ed imperiali per descrivere interi mercati
del lavoro, reti commerciali, pratiche culturali, nozioni di razza, formazioni di
classe e differenze di genere dislocate sull’ampia tela transoceanica”. Lo mostra
particolarmente bene lo studio di caso di Simone Cinotto che si sofferma sulle
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progressive ridefinizioni culturali affrontate da New York fra gli anni Venti e gli
anni Sessanta del Novecento, attraverso la relazione con la città di due particolari gruppi di migranti – portoricani e italiani – e le “molteplici connessioni
transnazionali attivate dalle rispettive migrazioni, che collegarono ancora più
capillarmente la metropoli con il mondo”.
È evidente che molte delle questioni metodologiche poste oggi allo storico contemporaneo di fronte al mondo o ai fenomeni atlantici derivano in parte dalle
concezioni dello spazio e delle esperienze coloniali nelle Americhe costruite
nel corso dei secoli dalla memorialistica e dalle vulgate storiografiche. A queste
rappresentazioni storiche, spesso in conflitto tra loro, è dedicato il contributo
di Matilde Benzoni, che chiude le relazioni della prima giornata di studio1 illustrando l’importante eredità lasciata dalle due maggiori cornici ideologiche
del mondo atlantico moderno, la leyenda rosa e leyenda negra, sulle rappresentazioni dello spazio atlantico contemporaneo.
NOTE:
1. Si informa che i testi pubblicati in questa sede, tratti dalle relazioni presentate nel corso della prima giornata di studio sul tema della storia atlantica
e storia transatlantica fra modernistica e contemporaneistica (Torino, 23
novembre 2012) sono work in progress e possono essere citati soltanto
previo consenso dell’autore.
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Storia atlantica e
transatlantica fra
età moderna e
contemporanea:
Una riflessione storiografica
MAURIZIO VAUDAGNA (Università del Piemonte Orientale)
L
a storia “atlantica” e la “storia transatlantica” hanno scritto in modi e momenti diversi molteplici pagine di storia della storiografia nel secondo dopo­
guerra, ma con importanti anticipazioni precedenti. Pare quasi che un segmento significativo della storiografia internazionale e degli intellettuali pubblici
internazionalisti si siano frequentemente cimentati a rifondare la “storia atlantica”, a passare da una storia atlantica “vecchia” a una “nuova” nel ricostruire il
rapporto tra il “Vecchio Mondo” (non solo l’Europa ma anche l’Asia e l’Africa) e
quello “Nuovo”. Ed è probabile che questa ispirazione storiografica “atlantica”,
come Maria Matilde Benzoni ci spiega nella sua relazione a proposito del libro
di Gerbi (1945) La disputa del Nuovo Mondo, risalga in varie formulazioni fino
quasi alle origini stesse del rapporto europeo col continente americano: un
approccio peraltro in eterno conflitto non solo con la storia nazionale, ma anche con altre storie sovranazionali, che, definite di volta in volta continentaliste
o emisferiche (sia nord che latino-Americane), o globali, tutte insieme hanno
sottolineato non solo il tentativo di comprendere “l’altro”, ma anche quello di
comprendere se stessi attraverso questo “altro”.
Dagli anni Ottanta-Novanta questa terminologia è stata rinnovata sia negli
studi di modernistica che di contemporaneistica: la prima ha riformulato il concetto di “Storia Atlantica”, costruendo tra 1492 e inizio Ottocento una unità
analitica centrata sullo spazio oceanico, e riferentesi alle circolazioni tra le
quattro sponde continentali che esso bagna. La seconda ha rinnovato la “storia
transatlantica” (questo è il termine più frequentemente usato dai novecentisti)
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in varie direzioni. Due esempi importanti: l’influente studio di Daniel Rodgers
(1998), Atlantic Crossings, ha mostrato l’importanza che la circolazione transatlantica di persone, di idee, e di politiche pubbliche di fronte alle sfide della
“Seconda rivoluzione industriale” ha svolto nel promuovere “modernizzazioni”
competitive o cooperative nel mondo atlantico: un tema quest’ultimo recentemente ripreso con vigore dal dibattito storiografico impegnato a inserire il rapporto transatlantico, come sottolineato dal premiato libro di Westad (2005),
The Global Cold War, nelle interazioni globali (e qui credo che l’apporto di colleghi latino-americanisti ed europeisti per arricchire questi accenni storiografici
sia particolarmente prezioso).
Sullo sfondo dei precedenti tentativi di “storia atlantica”, ma con una particolare attenzione ai nuovi approcci, questo seminario, che è il primo di tre
incontri concordati con Colleghe e Colleghi delle Università di Roma Tre e Bologna e sponsorizzati dalla SISSCO, vuole mettere in relazione problematiche,
concetti, approcci e risultati emersi in oltre un ventennio di nuove “storie atlantiche e transatlantiche” al di là delle distinzioni temporali e delle specializzazio­
ni individuali. La convinzione è che una serie di categorie che vengono utilizzate dalle diverse scuole storiche, quali impero, colonialismo, razza, commercio
internazionale, reti sovranazionali, nazione, statualità, modernità, globalità, e
certo non sono tutte, possono assumere significati più ricchi e innovativi, se le
loro molteplici utilizzazioni storiografiche sono sistematicamente confrontate,
insistendo magari sui terreni di frontiera fra modernistica e contemporaneistica
tra seconda metà del Settecento e fine Ottocento. La rottura delle barriere di
periodizzazione, per quanto santificate dalla pratica scientifica e istituzionale,
è un terreno complicato ma sicuramente fruttuoso. E mi viene in mente con
ammirazione il vecchio testo di Macry (1989), La società contemporanea, che,
organizzando l’indice per grandi tematiche socio-economiche e politiche (la
famiglia, lo stato, la popolazione, l’industrialismo), superava liberamente i confini canonizzati di modernistica e contemporaneistica, per trovare di ogni pro­
blematica una credibile origine dell’oggi.
La proposta nasce da un disagio e da un’opportunità, che accomuna (o
dovrebbe accomunare) tutti i contemporaneisti, ma in particolare i cultori di
cose americane. Il senso cioè che dagli anni Ottanta il grande fiorire di storie
{
Il seminario vuole collegare proble­
matiche, con­cetti, approcci e risulta­
ti emersi in oltre vent’anni di nuove
“storie atlantiche e transatlantiche”
7
}
transnazionali di ogni tipo abbia sì creato una grande confusione terminologica e concettuale, ma abbia anche modificato o almeno eroso il paradigma storiografico, fondato sullo spazio dello stato-nazione “uscendo”, come ha detto
Edoardo Tortarolo, “dalle secche della storia nazionale”. Questo può rendere
obsolete molte delle cose che abbiamo scritto in passato, una constatazione
certamente triste, ma anche una potenzialità stimolante. Se noi americanisti
europei siamo tutti in un certo modo “storici transatlantici” in quanto portiamo
con noi nell’affrontare quel processo temporale un patrimonio di valori, metodi,
punti di vista, preferenze tematiche derivanti dalla nostra localizzazione, come
va affermando un ampio gruppo americanista di ricerca con studiosi dell’ovest
e dell’est, modernisti e contemporaneisti, sulla scrittura di storia nordamericana in Europa, la nostra collocazione alla periferia del nostro oggetto di studio, che tanto ha nutrito la nostra “doppia marginalità” europea e americana,
che abbiamo così spesso lamentato, diventa una risorsa in quanto il punto di
vista “di fuori” dello spazio nazionale diviene una prospettiva preziosa per una
storia sovranazionale. Si pensi, per esempio, al ruolo dell’australiano Ian Tyrrell
nell’affiancarsi e quasi anticipare autori statunitensi nel definire criteri e concetti della storia transnazionale nordamericana (lo stesso discorso vale certamente anche per cultori di storie asiatiche, africane e sicuramente, anche per
studiosi europeisti di paesi europei diversi dal proprio).
Ci sono concetti che sono di ampio uso sia dei modernisti atlantisti sia
dei contemporaneisti, che sembrano avere una contiguità che manca talora
di comunicazione. Prendiamo la parola schiavitù, una categoria centrale nella
“storia atlantica” modernista. Tanto è vero che alcuni storici, come ad esempio
Joyce E. Chaplin, fanno finire l’Atlantic History nel 1808, momento di abolizione
della tratta, tassello centrale del mondo atlantico cinque-settecentesco. Eppure per il contemporaneista europeista e americanista l’interesse continua. Il
primo può constatare, come indicato dagli studi di Pap Ndiaye sulla condizione
nera in Francia, alla luce anche dell’esperienza nera nel continente americano,
quanto difficile, spesso impossibile, fosse realizzare l’abolizione della schiavitù
proclamata dalla rivoluzione francese nei territori coloniali appunto francesi
nel mondo centro americano e caraibico, in Africa, nei possedimenti francesi
dell’Oceano Indiano. D’altra parte l’esperienza della tratta o la sua memoria
identificante sono centrali nel determinare comportamenti e valori delle comunità schiavistiche nordamericane, ma certamente anche caraibiche, ed essa
ipotizza continuità culturali africane, loro presunte cancellazioni, loro ibridazioni tra memoria, trauma e attualità. È questa condizione schiavistica così legata
al trauma della tratta e ai processi di etnicizzazione e razzializzazione che si
affermano nelle società coloniali modernistiche, che a sua volta condiziona
comportamenti di massa dei neri nordamericani tradotti ad esempio nel di8
battito sul perché delle grandi migrazioni nere dal sud agrario verso il nord
urbano, che alcuni storici attribuiscono proprio all’eredità dello schiavismo. È
in questo intreccio di continuità e rotture che travolgono i limiti periodizzanti,
che è interessante confrontare come elaborano e usano il concetto di schiavitù
i modernisti, soprattutto atlantisti ma non solo, e i contemporaneisti di varia
specializzazione.
Ancora, il rapporto modernistica-contemporaneistica sul terreno atlantico
si può esplorare andando a esaminare le linee di confine tra le due specializzazioni, nella consapevolezza che i confini sono altrettanto linee di divisione
quanto di passaggio e di porosità, per cui il problema diventa quello di cosa si
perde e di cosa passa e con quali trasformazioni e modifiche. Federica Morelli
afferma che la storia atlantica
“termina quando nuove sfide politiche, economiche, tecnologiche e
morali incrinarono l’integrità che era emersa nel mondo atlantico tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. I limiti cronologici non coincidono
quindi con quelli delle tradizionali periodizzazioni della storia – medie­
vale, moderna e contemporanea … perché i tradizionali confini tra e­poca
moderna e contemporanea non hanno alcun significato per la storia
Benjamin West, “The Death of General Wolfe“ (1770). Il quadro rappresenta la morte del generale
britannico Wolfe durante la Battaglia del Québec (1759) della Guerra dei sette anni.
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atlantica, in quanto né la fine degli imperi, con la conseguente nascita
di nuove nazioni indipendenti, né la fine dell’epoca rivoluzionaria determinarono la scomparsa di alcuni elementi essenziali del mondo atlantico,
come la tratta, la schiavitù, le migrazioni” (Morelli 2013).
Proprio questa citazione che postula la fine della “storia atlantica”, dovuta
alla crisi degli imperi dopo la Guerra dei sette anni, al sorgere degli stati nazione e alla fine della tratta, tutti fattori che ad avviso dell’autrice interrompono quell’interazione tra europei, africani e amerindi che caratterizzava le società atlantiche, sottolinea tuttavia altrettanto le permanenze e le continuità.
È un’analisi che si può fare intrecciando considerazioni di periodizzazione con
considerazioni di processi tematici.
Sul terreno del concetto di impero, ad esempio, l’ampio lavoro fatto dai
modernisti sulla storia degli imperi e sulla storia atlantica ha già contribuito
ad aggiornare la cultura storica media dei contemporaneisti: questi tendevano
prevalentemente a derivare il proprio concetto di impero dall’età degli imperi
mondiali della seconda metà dell’Ottocento, con controllo dei territori e am­
pie amministrazioni coloniali, magari coltivando poi l’immagine che gli imperi
modernisti consistevano in controlli apicali, efficaci ma rarefatti, di popolazioni
fondamentalmente auto-amministrate e soggette a repressioni non solo europee ma provenienti da conflitti etnico/razziali e religiosi interni a quelle aree
e dalle gerarchie interne di quelle società. Il che denunciava non solo un accentuato eurocentrismo, ma anche una gerarchizzazione delle stesse metropoli
europee con una vocazione teleologica al Novecento, per cui c’erano imperi
coloniali “seri” e di cui il contemporaneista sapeva qualcosa (quello britannico
e francese), altri residuali e passeggeri (quello olandese e belga), e i “grandi
malati” della storia mondiale (quelli spagnolo, portoghese, turco, magari anche quello russo), di cui pochissimo si sapeva fuori degli specialisti e a cui
venivano normalmente applicati stereotipi negativi (passatisti, antimoderni).
Per il nordamericanista “medio” la presenza spagnola, francese, olandese, russa
nell’emisfero nord veniva trattata come entità passeggere in attesa teleologica
che il “manifest destiny” statunitense, un concetto molto vicino a motivazioni di
espansione imperiale, le cancellasse, nel progressivo costituirsi degli Stati Uniti
nella dimensione territoriale novecentesca.
Ora, non solo gli imperi iberici hanno fatto, grazie agli studi modernisti, un
loro giusto, importante ingresso nella cultura generale dello storico, uscendo
dalla sola consapevolezza dello specialista, ma alcune opinioni sostengono che,
ad esempio, con la perdita delle colonie americane, si inaugura un “secondo
impero inglese”, (e probabilmente un “secondo impero spagnolo”) oppure che,
alla luce degli imperi di età moderna, si deve distinguere una “seconda fase”
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dell’espansione coloniale imperiale, quella più nota al contemporaneista. Se
fino a vent’anni fa quest’ultimo fissava l’attenzione imperiale sull’Ottocento e
poi arretrava nel tempo per analogia, adesso il processo sembra essersi capovolto dal moderno al contemporaneo. Ma viene allora da chiedersi quali sono
le fertilizzazioni concettuali reciproche che possiamo scorgere nell’utilizzazione
del concetto di impero da parte di modernisti e contemporaneisti e i nessi di
differenza continuità che distinguono le varie fasi dell’imperialismo.
Prendiamo ad esempio l’idea della crisi degli imperi moderni e degli spazi
atlantici interdipendenti nell’“era delle rivoluzioni democratiche” del tardo
Settecento, per riprendere il titolo del famoso libro di Robert R. Palmer che
anch’egli negli anni Cinquanta aveva tentato di fondare una storia occidentali­
sta della “civiltà atlantica”. E, tuttavia, il costruirsi di un’identità nazionale norda­
mericana si accompagna a una riflessione emisferica e continentalista a forte
componente espansiva e missionaria, che sembra negare una concezione di
stato-nazione indirizzata a ritagliare identità più limitate e separate all’interno
delle grandi dimensioni intellettuali e territoriali ereditate dal mondo medie­
vale e moderno. E mi chiedo, e chiedo ai Colleghi, se per esempio le stesse ri­
flessioni non valgano anche per i piani bolivariani della Gran Colombia di primo
Ottocento. Il che pone anche il problema della natura dell’Ottocento che, visto
frequentemente come il secolo dell’affermazione dello stato-nazione, forse
porta anche con sé fermenti universalistici che possono collegare la caduta o
la crisi dei grandi imperi modernisti con l’affermazione dei “secondi imperi” di
metà-fine secolo.
Oppure dobbiamo vedere la svolta di inizio Ottocento con la fine
dell’Atlantico del sedicesimo-diciottesimo secolo, come un passaggio verso la
“modernità” o verso la “modernizzazione”, concetti molto cari ai contemporaneisti, ma di storia e uso molto problematico. Infatti essi scontano anzitutto la
contraddittorietà terminologica, e non solo tale, di identificare il loro progresso
con il lasciarsi alle spalle quella fase storica che viene comunemente chiamata “storia moderna” magari con l’ambigua distinzione anglosassone tra early
modern e modern history, il che naturalmente pone il problema di contiguità e
differenze di questa terminologia quando applicata a cinquecento anni di storia moderna e contemporanea.
Ancora, trovo che l’insistenza sulle interazioni multidirezionali e interdipendenti che caratterizza la storiografia atlantica e imperiale modernistica, sia
un’utile spunto di riflessione per chi tratta la relazione politica, economica e
culturale tra Stati Uniti ed Europa novecentesca (ma qui mi piacerebbe cono­
scere l’opinione dei colleghi latino-americanisti sull’interpretazione di Marcello Carmagnani dell’America Latina come “l’altro Occidente” linguisticamente,
antropologicamente e socialmente vicina all’asse Stati Uniti-Europa, in quanto,
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fin dall’epoca coloniale, parte della cosiddetta “diaspora europea” e quindi più
adatta ai processi di “modernizzazione” del mondo asiatico o africano così diversi). Che si usi o meno l’ormai apertamente criticato concetto di “americanizzazione”, chi parla invece, come Victoria De Grazia nel suo peraltro bellissimo
libro, di un “impero irresistibile” (De Grazia 2005), non solo della potenza politica ma soprattutto dei consumi e delle culture di massa, lascia agli Europei
uno spazio solo unidirezionale di ibridazione nell’accoglimento dell’influenza
statunitense. Mi pare invece molto interessante la recentissima tesi multidirezionale della studiosa americana Mary Nolan, storica della Germania, nel
suo recente, importante volume The Transatlantic Century (Nolan 2012) e
nell’importante convegno su “Il ruolo dell’Europa nella complessa storia del
mondo atlantico, 1950–1970” da lei organizzato nel giugno 2012 all’Istituto
Storico Tedesco di Washington, che sostiene che:
“l’interpretazione tradizionale di una coerente comunità atlantica coe­
rente del dopoguerra dominata dal potere hard e soft degli Stati Uniti, e
di un modello americano di modernità che ha pervaso i discorsi sociali
scientifici ed economici, necessita di una revisione. Malgrado lo spostarsi
delle relazioni transatlantiche di potere dopo la Seconda guerra mondiale a favore degli Stati Uniti, voci europee continuarono a svolgere un
ruolo vivace nel costruire il concetto dell’occidente transatlantico, e nei
networks sempre più mobili di esperti e professionisti che dominarono le
discussioni dell’era postbellica sulla modernizzazione sociale”.
Ma su questo la relazione di David Ellwood, che ha appena pubblicato in
italiano da Carocci il “concorrente” volume Una sfida per la modernità (Ellwood
2012), ha molte cose da dirci. Semmai questa storiografia contemporaneistica
dedica grande attenzione al tentativo di collocare la relazione transatlantica
nello spazio storico globale, un approccio a mio avviso assai utile alla riflessione degli atlantisti modernisti, spesso soggetti alla critica, ad esempio della
Gabaccia, di trattare lo spazio atlantico delle “quattro sponde” come area confinata che esclude apporti da altre grandi aree continentali, in un globalismo
che varrebbe invece già per la dimensione modernistica.
{
L’incontro avrà successo solo se si
focaliz­zerà su un terreno di confronto
tra gli strumenti metodolo­gici e con­
cettuali delle varie specia­lizzazioni
12
}
Considerazioni in certa misura simili si potrebbero fare per il confronto sul
terreno della storia delle migrazioni in epoca moderna e contemporanea – si
veda la relazione di Simone Cinotto –, del colonialismo, delle società multietniche, della storia del “concetto di nazione (più che su quello di stato)” – dice
la Morelli ispirandosi a J.-F. Schaub – “non nel senso politico moderno – la nazione come depositaria della sovranità –, ma come appartenenza a una comunità più ampia di quella della città o della provincia, senza tuttavia attribuirgli il
significato di nazione ‘etnica’” (Morelli 2010, 59).
Insieme a Marco Mariano, quali organizzatori di questo primo incontro
della serie, sappiamo che esso avrà successo solo se praticherà un ampio
spazio di dibattito che non si perda in un pur interessante confronto tra contemporaneisti o modernisti tra di loro (o tra europeisti o americanisti del sud o
del nord separatamente), ma che focalizzi l’attenzione proprio su quel terreno
dove gli strumenti metodologici e concettuali delle varie specializzazioni temporali geografiche e tematiche si possono confrontare.
BIBLIOGRAFIA:
De Grazia V., Irresistible Empire: America’s Advance through 20th-Century Eu­
rope, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2005.
Ellwood D., Una sfida per la modernità. Europa e America nel lungo Novecento,
Roma, Carocci, 2012.
Gerbi A., La disputa del Nuovo Mondo, Napoli, Ricciardi, 1945.
Macry P., La società contemporanea. Una introduzione storica, Bologna, il Mulino, 1989.
Morelli F., Il Mondo Atlantico. Una storia senza confini, XV–XIX secolo, Roma,
Carocci, 2013 (in pubblicazione).
Morelli F., “Le créolisme dans les espaces hispano-américains: de la controverse
coloniale aux mystifications de l’histoire”, in Storica, 48, 2010, pp. 57–82.
Nolan M., The Transatlantic Century. Europe and America, 1890–2010, Cambridge, Cambridge University Press, 2012.
Rodgers D., Atlantic Crossings. Social Politics in a Progressive Age, Cambridge,
The Belknap Press of Harvard University Press, 1998.
Westad O.A., The Global Cold War: Third World Interventions and the Making of
our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.
13
I limiti cronologici
della storia atlantica:
Il problema della cesura
rivoluzionaria
FEDERICA MORELLI (Università di Torino)
L
a Storia atlantica ha, tra i suoi molti pregi (oltre a quello di aver messo in
evidenza le connessioni tra africani, amerindiani ed europei al di là delle
frontiere nazionali e imperiali), quello di aver messo fortemente in questione i
limiti delle periodizzazioni tradizionali, ancora molto forti e caratterizzanti per i
nostri insegnamenti, tra storia medievale, moderna e contemporanea.
Da un lato la Storia atlantica ha messo in questione l’evento della scoperta,
il 1492, come uno degli elementi fondatori dell’epoca moderna. La formazione
di uno spazio atlantico comincia infatti ben prima del 1492, alla fine dell’epoca
medievale, grazie a un processo molto graduale, che implicò dinamiche di
e­splorazione, incontri e scambi, l’interazione tra percezioni geografiche e realtà.
In questa ottica, il viaggio di Colombo non rappresenta tanto l’inizio di un’era,
quanto piuttosto il culmine di un processo molto più ampio, che dalla costruzione commerciale di un Atlantico europeo – che legava il Baltico al Mediterraneo –, passando per gli sviluppi della cartografia e della navigazione, arriva
sino alla conquista e colonizzazione degli arcipelaghi dell’Atlantico orien­tale,
tappa imprescindibile per l’espansione europea in Africa occidentale e per la
conquista delle Americhe (Fernández-Armesto 1987).
Ancora più labile e incerto diventa il limite tra storia moderna e storia contemporanea. Mentre i primi studi di storia atlantica vedevano il limite nelle ultime indipendenze del Nuovo Mondo, ossia quelle iberoamericane degli anni
Venti, oggi la questione è oggetto di un profondo dibattito. In effetti, gli studi
sull’epoca rivoluzionaria hanno messo in evidenza che i movimenti di emancipazione, nonostante abbiano implicato l’introduzione di molti strumenti della
modernità politica (come il costituzionalismo, le dichiarazioni dei diritti, il repubblicanesimo), non sono più considerate oggi dalle rispettive storiografie
come eventi fondatori degli stati nazionali moderni.
14
Inoltre, nonostante i processi rivoluzionari, ci sono delle forti continuità tra
l’epoca pre- e post-indipendenza, come la continuazione della tratta (illegale),
il mantenimento della schiavitù o del tributo indigeno nell’America spagnola. Molti studiosi hanno quindi considerato che il limite della Storia atlantica
vada spostato più avanti, almeno alla fine del diciannovesimo secolo (Roth­
schild 2011). Personalmente, condivido questa impostazione con un distinguo:
ossia, vedrei nell’epoca rivoluzionaria un “terzo momento”, un periodo che si
distingue sia dall’epoca coloniale, che da quella post-coloniale mantenendo
delle caratteristiche ben precise. Ad esempio, per quanto riguarda la tratta e la
schiavitù, che rappresenta uno degli elementi fondamentali del mondo atlantico, l’era delle rivoluzioni sembra rappresentare un vero e proprio spartiacque
nella storia della schiavitù atlantica. Se negli anni Sessanta del Settecento la
proprietà degli schiavi era comune nelle Americhe, onnipresente in Africa e
ammessa in Europa e se la tratta degli schiavi, così come i beni prodotti dagli schiavi, guidavano l’economia atlantica, nel 1820 questo sistema era stato
fortemente attaccato in alcuni contesti e messo a dura prova in altri: nelle peri­
ferie del mondo schiavista, dove l’uso degli schiavi era utile ma non necessario
alla riproduzione del sistema economico, la schiavitù era stata proibita, mentre
quattro dei principali stati che praticavano la tratta – Gran Bretagna, Francia,
Olanda e Stati Uniti – avevano formalmente abolito il traffico degli schiavi.
Gli ex-schiavi di Saint Domingue, la colonia di piantagione più redditizia delle
Americhe alla fine del Settecento, non solo avevano abolito la schiavitù ma
avevano creato uno stato indipendente. Sembrava quindi che l’era rivoluzio­
naria avesse comportato l’inizio del processo dell’abolizione della tratta e della
schiavitù (Davis 2006; Brown 2006).
Eppure, allo stesso tempo, non c’erano mai stati così tanti schiavi nelle Ame­
riche come nel 1820. La frontiera schiavista si era espansa drammaticamente
nel corso di quegli anni, con centinaia di migliaia di acri messi a coltivazione
nei Caraibi e nel Nord America. La tratta inoltre raggiunse un nuovo picco: si
stima che 488 mila schiavi furono imbarcati per le Americhe tra il 1826 e il 1830.
Solo una volta, in tutta la storia della tratta Atlantica, un numero maggiore di
schiavi era stato imbarcato dall’Africa in cinque anni. Ciò significa che questo
periodo rappresenta un’epoca di crescita straordinaria per l’istituzione della
schiavitù, ma anche, dall’altro lato, dell’ethos dell’antischiavismo. L’era delle ri­
voluzioni non segna dunque il termine del sistema schiavistico atlantico, ma
{
Molti studiosi ritengono che il limite
della Storia atlantica vada sposta­
to almeno alla fine dell’Ottocento
15
}
un suo profondo riposizionamento. Da un lato, si assiste a una diversificazione
dell’economia schiavista, con Cuba e Brasile che ricevono la maggior parte degli schiavi importati dall’Africa (sviluppo delle piantagioni di zucchero e caffè a
Cuba e di caffè e cotone in Brasile). Dall’altro le rivoluzioni, con le loro guerre
interne e internazionali, avevano contribuito alla liberazione di numerosi schiavi e alla loro inserzione nell’arena politica (Brown e Morgan 2006).
Le autorità imperiali, spesso, rispondevano ai movimenti ribelli invitando
gli schiavi a difendere l’ordine coloniale in cambio della libertà. Gli ufficiali
britannici offrirono la libertà in modo sistematico agli schiavi, specialmente
durante la rivoluzione americana e la Guerra del 1812. I realisti spagnoli seguirono l’esempio britannico contro i movimenti patriottici in Nuova Granada e Venezuela, ottenendo l’appoggio di molti schiavi. La maggior parte dei
grandi proprietari terrieri del continente si rifiutarono di armare gli schiavi durante l’epoca delle rivoluzioni. Al di fuori delle economie di piantagione, invece, l’atteggiamento fu diverso. Nelle zone temperate del Nord America in­
glese e del Sud America spagnolo, dove il numero degli schiavi era significativo
ma non troppo grande, i leader coloniali spesso arruolavano gli schiavi negli
e­serciti ribelli. Lo stesso Bolívar, nonostante fosse un convinto sostenitore della
schiavitù come istituzione e temesse gli uomini di colore, capì, specialmente
dopo i tentativi falliti di istaurare delle repubbliche indipendenti tra il 1812 e
il 1814, che l’unico modo per vincere gli spagnoli era arruolare gli schiavi e gli
uomini di colore negli eserciti indipendentisti. Anche se spesso i suoi proclami
contro la schiavitù erano puramente strumentali, molti schiavi acquisirono la
libertà arruolandosi negli eserciti indipendentisti.
Le guerre, comunque, non offrirono agli schiavi solo la libertà. Molti exschiavi infatti non si limitarono a rivendicare la libertà ma pretesero gli stessi
diritti degli altri cittadini. Coloro che avevano combattuto nell’esercito continentale durante la rivoluzione nordamericana chiesero di essere riconosciuti
come “patrioti americani”, così come lo chiesero coloro che avevano partecipato alle guerre di indipendenza nell’America spagnola. La tendenza a esaltare l’abolizione pacifica della schiavitù ha oscurato, in effetti, per molto tempo
l’importanza della violenza e delle guerre per la liberazione degli schiavi. Anche
se l’era delle rivoluzioni non segna il termine del sistema schiavistico atlantico, i
movimenti rivoluzionari svelarono una nuova dimensione del possibile che, da
allora in poi, influenzò le aspirazioni degli schiavi e degli abolizionisti, culminando, tra gli anni Trenta e Novanta del diciannovesimo secolo, nell’abolizione
della schiavitù in tutto il mondo atlantico.
Alla luce delle forti continuità dell’epoca indipendente rispetto al periodo
precedente l’epoca rivoluzionaria, ci si è chiesto quale sia il significato del termine “coloniale”. In effetti se gli diamo come limite l’indipendenza dalle rispet16
tive madrepatrie, il termine non designa più dei rapporti socio-politici specifici,
ma indica piuttosto un semplice limite cronologico. Tuttavia, ci si può domandare se l’abolizione tardiva della schiavitù e il crescente razzismo delle società
bianche rispetto ai neri e agli indigeni, nel quadro degli stati-nazionali otto e
novecenteschi, appartenga o meno alla storia coloniale. Le società coloniali di
popolamento, come quelle americane dell’epoca moderna, si distinguono infatti dagli imperi coloniali dell’epoca contemporanea per un tratto essenziale:
qui i coloni (settlers) sono sia dei colonizzatori nei confronti delle popolazioni
indigene e africane che dei colonizzati in quanto dipendenti politicamente,
giuridicamente e commercialmente dalle metropoli europee. Se adottiamo
quindi il punto di vista delle teorie post-coloniali, la storia nazionale non rappresenta che un’estensione di quella coloniale (Schaub 2008; Chaplin 2003).
Questa prospettiva, discussa soprattutto in ambito nordamericano, critica
apertamente la subordinazione della storia coloniale americana a quella degli
Stati Uniti. Afferma Jack Greene a questo proposito: “non si può più pensare
al coloniale come a qualcosa di esclusivamente pre-nazionale” (Greene 2007).
Tale prospettiva vuole infatti porre l’esperienza coloniale americana in un contesto più ampio, che integri le altre esperienze coloniali inglesi nel Nuovo Mondo e le esperienze coloniali di altri imperi. Non solo, ma Greene ci dice anche
che gli Stati Uniti si sono formati all’interno di un mondo costituito da imperi.
Non c’è quindi da meravigliarsi se la corsa alla terra, l’espansione verso ovest,
John Trumbull, “The Declaration of Independence“ (1817).
17
la forma federale sono degli elementi che ritroviamo nello stato imperiale da
cui sono nati e negli altri imperi dell’epoca. In questo modo la storia americana
non è più quella dell’eccezionalismo, ma può essere comparata ad altre regioni.
Il problema dell’occupazione delle terre, dell’espansione verso zone di frontiera
o la forma da dare ai nuovi stati indipendenti (federalismo o centralismo) è una
caratteristica anche della maggior parte degli stati latinoamericani ottocenteschi.
Anche le interpretazioni storiografiche sulle rivoluzioni hanno contribuito
a mettere in dubbio la questione del limite cronologico dell’indipendenza. Se
guardiamo alla rivoluzione americana, ad esempio, fino a non molto tempo
fa, essa era considerata prevalentemente da un punto di vista “nazionale”,
come l’evento che aveva dato vita agli Stati Uniti d’America. Questa prospettiva trascurava tuttavia molte delle caratteristiche della rivoluzione americana.
In primo luogo, enfatizzando lo sviluppo di un’identità americana durante la
colonia, aveva ignorato le strette relazioni tra britannici e americani prima del
1776 e, soprattutto, il fatto che la maggioranza dei coloni si sentivano britannici a tutti gli effetti. In secondo luogo, concentrandosi esclusivamente sulle
Tredici colonie, aveva separato la storia di quest’ultime da quella delle altre
regioni del Nord America e dei Caraibi, che non si ribellarono ma che restarono
leali alla Gran Bretagna. Le stime indicano che circa un 20 per cento della popolazione delle Tredici colonie, ossia 500 mila persone circa, erano ancora fedeli alla Corona alla fine della guerra: come ha studiato Maya Iasanof 60 mila
di questi, a cui vanno aggiunti 15 mila schiavi, lasciarono gli Stati Uniti come
parte di una diaspora globale che raggiunse il Canada, la Florida, le Bahamas,
la Sierra Leone, l’India e l’Australia (Jasanof 2011; O’Shaughnessy 2000). Infine,
decantando l’eroismo e il sacrificio degli eroi dell’indipendenza, ha nascosto lo
spettro della violenza rivoluzionaria – si è parlato a questo proposito di “rivo­
luzione pacifica” – e le tendenze anti-libertarie della rivoluzione, soprattutto
per ciò che concerne gli schiavi.
La stessa cosa si può dire per gli stati ispano-americani. Il modello predomi­
nante è stato, fino a una ventina di anni fa, quello della historia patria, che
considerava l’indipendenza come un processo ineluttabile e necessario, creatore della nuova patria. L’indipendenza dalla Spagna era dunque considerata
un movimento di liberazione nazionale e la volontà di emanciparsi la causa
fondamentale della lotta. Quest’ultima era presentata come una guerra di decolonizzazione, un conflitto tra liberali (gli indipendentisti) contro gli assolutisti
(gli spa­gnoli). Un’interpretazione, questa, che insisteva molto sull’epopea e sui
grandi eroi (Bolívar, San Martín) e che, grazie anche al dibattito acceso dai processi di decolonizzazione del secondo dopoguerra, ha continuato a giocare, sul
piano storiografico e dell’opinione pubblica, una grande influenza. Tale visione
18
è stata ampiamente attaccata dalla nuova storia politica che, a partire dall’inizio
degli anni Novanta, ha definitivamente rifiutato la prospettiva nazionalista per
spiegare l’indipendenza ispano-americana (Guerra 1992; Rodríguez 1996). Gli
stati sorti dalle ceneri della monarchia spagnola non sono la causa della sua
dissoluzione, ma al contrario sono il risultato di un processo più ampio che
inizia nel 1808 con la crisi della monarchia. In altre parole, mentre per lungo
tempo si è pensato che furono le indipendenze a causare il crollo della monarchia e del suo impero, negli ultimi venti anni si è passati a una visione opposta:
fu la gravissima crisi innescata dalle abdicazioni dell’intera famiglia reale nelle
mani dei Borboni a far collassare l’impero e favorire le emancipazioni delle co­
lonie americane.
In questo caso, come lo era stato per i territori nordamericani, non era la
separazione dall’impero che era in gioco, ma come riformarlo e ricostituirlo
su nuove basi, anche attribuendogli un nuovo centro o più centri. In un’età di
rivoluzioni, come dimostra Jeremy Adelman, fu la sovranità a essere contesa
all’interno degli imperi atlantici (Adelman 2010). Jefferson e Wilson, ad esempio, avevano entrambi immaginato la ricostituzione dell’impero sulla base di
una completa autonomia legislativa delle colonie e della madrepatria, cui si
accompagnasse una funzione di raccordo e di garanzia dell’unità imperiale da
parte della corona, secondo un modello destinato a conoscere fortuna con il
Commonwealth. La stessa cosa fecero i protagonisti delle rivoluzioni ispanoamericane almeno sino all’inizio degli anni Venti dell’Ottocento.
Anche nel caso haitiano, come ha dimostrato Geggus, l’indipendenza non
Tito Salas, “Discurso en el Congreso de Angostura“ (1941).
19
fu l’obiettivo principale di nessuna delle parti in gioco. Né dei bianchi e dei
liberi di colore, che preferivano l’autogoverno piuttosto che l’indipendenza (il
motivo di questa scelta dipendeva ovviamente dal fatto che gli schiavi dell’isola
superavano di gran lunga i due gruppi), né degli schiavi ribelli, il cui obiettivo
principale era l’abolizione della schiavitù. Quando la repubblica francese abolì
la schiavitù, la maggior parte degli schiavi si allinearono con i francesi, poiché
si sentivano maggiormente tutelati nei loro interessi. Solo il tentativo di Napoleone di ristabilire la schiavitù sull’isola convinse gli ex-schiavi a schierarsi a
favore dell’indipendenza (Geggus 2001).
Come hanno dimostrato le rispettive storiografie, furono le rivoluzio­ni a produrre le nazioni, non il contrario. Anzi, come afferma Armitage, la vera conqui­
sta di questi movimenti fu la statualità e non la nazionalità, ossia l’affermazione
di stati indipendenti e concorrenti di quelli europei (Armitage 2007). Sia per gli
Stati Uniti che per la maggior parte dei paesi iberoamericani, occorrerà aspettare almeno la seconda metà dell’Ottocento per vedere finalmente la nascita di
nazioni: nel caso degli Usa, con la seconda guerra civile, la Guerra di secessione
(1861–1865) e nel caso dei paesi ispanoamericani con la fine dell’instabilità
politica provocata dalle numerose guerre dei caudillos, nel corso della seconda
metà dell’Ottocento.
La storia della trasformazione degli imperi inglese, francese, spagnolo e
portoghese in stati indipendenti condivide, quindi, molti più aspetti di quello
che la separazione geografica e storiografica ha sempre lasciato supporre. Se
allarghiamo l’arco cronologico dalla Guerra dei sette anni e se invece di termi­
nare negli anni Venti dell’Ottocento, con l’indipendenza della maggior parte
dei paesi americani dalle metropoli europee, includiamo anche tutta la prima
metà del diciannovesimo secolo, ci rendiamo conto che molte questioni si presentano in tutto il mondo atlantico: le guerre e la crisi degli imperi, il complicato rapporto tra autonomia e indipendenza, la dinamica tra guerre internazio­
nali e guerre civili, la difficoltà di creare stati nazionali in contesti multietnici,
il costituzionalismo e il repubblicanesimo, la delicata relazione tra federalismo
e centralismo. In tutti questi casi, il passaggio dagli imperi agli stati nazionali
non fu semplice e lineare, come a volte si è sostenuto. Anzi, fu molto complicato e niente affatto automatico, dato che alcuni elementi ereditati dall’epoca
coloniale si articolarono e intrecciarono con nuove forme e istituzioni politiche
(Morelli, Thibaud e Verdo 2009). Quindi, anche se analizziamo la questione dal
punto di vista della formazione di nuove entità statali e nazionali, ci sembra che
il limite cronologico più appropriato sia da spostarsi nella seconda metà del
diciannovesimo secolo.
Oltre alla continuità di alcune pratiche e istituzioni di origine coloniale,
occorre sottolineare che l’indipendenza degli Stati Uniti, di Haiti o dei paesi
20
iberoamericani non implica la fine degli imperi coloniali nel Nuovo Mondo, in
quanto numerose colonie inglesi, francesi, spagnole continuarono a sopravvivere nel continente per buona parte del diciannovesimo secolo. Gli imperi
quindi non scomparvero, ma sopravvissero accanto a nuove forme statuali.
Tuttavia, alcuni problemi che imperi e stati indipendenti dovettero affrontare
furono in realtà molto simili e legati al contesto imperiale da cui provenivano.
Due questioni in particolare, che gli stati indipendenti si ritrovarono ad affrontare, avevano la loro origine nella forma particolare degli imperi dell’epoca
moderna: la definizione del territorio e quella della cittadinanza. Per quanto
riguarda il primo punto, dobbiamo considerare che il controllo del territorio
non era mai stato un obiettivo fondamentale dell’espansione imperiale. Gli
imperi dell’epoca moderna erano spazi politicamente frammentati, giuridicamente differenziati e con frontiere indefinite, irregolari e porose. Nonostante
gli imperi rivendicassero il dominio su vasti territori, questa rivendicazione era
limitata dal controllo effettivo dello spazio, il quale si limitava generalmente a
frange, corridoi o enclave strategici (Benton 2010). Spesso le potenze europee
difendevano il dominio imperiale attraverso rivendicazioni limitate, strategiche
e simboliche. Gli stessi conflitti inter-imperiali spesso si concentravano su dimostrazioni simboliche di potere più che l’effettivo controllo di frontiere e la
costruzione di istituzioni distribuite sul tutto il territorio.
La transizione verso lo stato decimononico non eliminò improvvisamente
questa situazione. Molte delle nuove entità territoriali che sorsero dalle ceneri
degli imperi non avevano infatti dei confini ben definiti, né controllavano la
totalità del territorio su cui reclamavano la sovranità. Molte costituzioni americane della prima epoca repubblicana prevedevano infatti la possibilità di mutare il territorio nazionale federandosi, confederandosi con altre entità territoriali, come ad esempio la Gran Colombia tra il 1819 e il 1830.
L’altro problema fu quello della definizione della nazione in società multietniche: come integrare l’eterogeneità che caratterizzava queste società nel concetto livellatore della nazione? La storiografia ha insistito molto nel dimostrare
che il concetto di cittadinanza ottocentesco era estremamente escludente per
ciò che riguarda le persone di origine africana e gli indigeni. Tuttavia, la que­
stione non è così semplice e, come ha dimostrato la storiografia sull’America
iberica, per buona parte dell’Ottocento non ci fu un’esclusione così drastica
degli indigeni dalla cittadinanza (Annino 1995; Irurozqui 2005).
{
L’indipendenza degli USA, di Haiti o dei
paesi iberoamericani non implica la
fine degli imperi coloniali in America
21
}
Negli imperi dell’epoca moderna, infatti, la costruzione dello status giuridico dei sudditi fu multipla e flessibile: la possibilità di appartenere a più di una
corporazione o di un gruppo, di cambiare lo status giuridico, di utilizzare gli argomenti giuridici in modo elastico per ampliare o limitare determinate categorie furono elementi importanti delle politiche imperiali. Persino una categoria
apparentemente stabile, come quella di schiavo, era instabile e geograficamente variabile.
Anche se le ex-colonie inglesi furono sicuramente più escludenti rispetto
a quelle iberoamericane, i principi di allegiance e di vecindad, di origine coloniale, furono utilizzati per stabilire linee di esclusione o inclusione anche dopo
l’indipendenza. Il concetto di allegiance divideva le tribù che rientravano nella
giurisdizione coloniale da quelle che invece erano fuori dalla giurisdizione coloniale. Le prime godevano della protezione del monarca, le altre no. Ciò che
occorre sottolineare è che la condizione di appartenenza o estraneità, anche
nei primi decenni dell’epoca repubblicana, si decideva in modo giurisdizionale
man a mano che i casi arrivavano nei tribunali (Kettner 1978; Baylin e Morgan
1991).
Nel caso spagnolo, fin dal sedicesimo secolo gli indigeni, tranne quelli di
frontiera, gli indios bravos (la cui condizione fu simile a quella degli indigeni
del Nordamerica), furono riconosciuti come vassalli del re. Questa tradizione
includente si riflette nell’utilizzo del concetto di vecindad sia durante l’epoca
liberale spagnola che durante l’epoca indipendente, attraverso il quale molti
indigeni furono formalmente inclusi nella categoria di cittadino. Tuttavia, la
condizione di vecino non era stabilita dall’alto (in base a parametri precisi), ma
dal basso e rimandava al principio di notorietà e di appartenenza alla comunità. Per cui, alla fine era la comunità a decidere se una persona rientrasse o
meno nella condizione di vecino, utilizzando ovviamente un certo margine di
discrezionalità.
Anche se nel Nord America un’applicazione restrittiva del concetto di alle­
giance limitò notevolmente le possibilità di inclusione degli indigeni nel corpo
politico della nazione, quello che è importante sottolineare è la difficoltà per
gli stati nati dalle ceneri di imperi multietnici di imporre una linea chiara di inclusione o esclusione nella cittadinanza.
Le questioni della definizione del territorio e della cittadinanza possono essere dunque considerate il risultato della difficile e ambigua articolazione tra il
vecchio e il nuovo, tra le costituzioni moderne e le antiche leggi imperiali. No­
nostante tale ambiguità riguardi anche numerose istituzioni e pratiche politiche
degli stati europei ottocenteschi, ci sembra che le questioni del territorio e
della cittadinanza siano estremamente più complesse e difficilmente risolvibili
in quegli spazi che appartenevano a ampie entità territoriali composte, come
22
gli imperi dell’epoca moderna. Non solo perché si tratta di territori molto estesi
e frammentati, ma anche perché si tratta di società multirazziali e multietniche.
Per tutti questi motivi, riteniamo che i limiti della storia atlantica vadano
spostati molto più avanti rispetto alla cesura dell’indipendenza. Anche se il
consolidamento degli scambi commerciali e l’arrivo di nuove ondate migratorie nella seconda metà del diciannovesimo secolo confermano l’esistenza di
uno spazio atlantico, tuttavia da questo spazio inizia a eclissarsi, proprio in
questo periodo, uno dei protagonisti del mondo atlantico moderno: l’Africa e
gli africani.
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24
Il mondo atlantico,
il lungo Ottocento
e la storia
contemporanea
MARCO MARIANO (Università del Piemonte Orientale)
Le nostre relazioni con l’America settentrionale a prima vista sembrerebbero es­
sere di tipo puramente commerciale, vista la distanza che ci separa, ma oggi le
distanze si riducono a causa della moltiplicazione dei mezzi di comunicazione,
e gli innumerevoli rapporti che si sono stabiliti tra il vecchio mondo e il nuovo
hanno creato tra questi una tale complessità di interessi che tutti i mutamenti
politici che si annunziano o hanno inizio in uno dei due mondi devono avere
necessariamente grandi conseguenze nell’altro. I trattati di commercio nascon­
dono spesso mire politiche. (Solaro della Margarita 1838)
A change has now come over the affairs of mankind. Walled cities and empires
have become unfashionable. The arm of commerce has borne away the gates
of the strong city. Intelligence is penetrating the darkest corners of the globe.
It makes its pathway over and under the sea, as well as on the earth. Wind,
steam, and lightning are its chartered agents. Oceans no longer divide, but link
nations together. From Boston to London is now a holiday excursion. Space is
comparatively annihilated. Thoughts expressed on one side of the Atlantic are
distinctly heard on the other. (Douglass 1852)
It is manifest that in seeking to separate ourselves from the great wars of Eu­
rope, we cannot rely on the Atlantic ocean. It has never been a barrier to in­
volvement in wars. Our geography books are as misleading as our history
books … our people have been miseducated to think that oceans are an im­
pregnable barrier. Oceans are not a barrier. They are a highway. (Lippmann
1940)
25
H
o scelto di aprire il mio intervento offrendovi queste tre citazioni perché
credo siano indicative della complessità, densità e continuità dei legami
che tra Ottocento e Novecento legano l’Europa e le Americhe. In primo luogo
questi tre frammenti illustrano, seppure in modo impressionistico, sia la molteplicità delle connessioni transatlantiche, sia le interazioni tra queste connessioni: innovazioni tecnologiche, flussi commerciali, mobilità delle persone, e
circolazione delle idee disegnano uno scenario che mette in discussione le
cesure cronologiche tradizionali (tra moderno e contemporaneo, tra Ottocento
e Novecento). In secondo luogo emerge il carattere bidirezionale dello scambio transatlantico: non si tratta (solo) di espansione del modello europeo o di
americanizzazione dell’Europa, né di un rapporto unidirezionale in cui uno dei
due poli è la variabile indipendente e l’altro si trova costantemente “at the re­
ceiving end”. Infine, è evidente la consapevolezza da parte dei contemporanei
di essere parte di un mondo atlantico, o quantomeno di una rete di relazioni
economiche, politiche e culturali che univa le due sponde dell’Atlantico e aveva
effetti sia sulla loro quotidianità, sia sulla loro visione del mondo. Cosa che
in linea di massima non si dava per i protagonisti del periodo tra l’inizio del
Cinquecento e la fine del Settecento; come ricorda Allison Games, la atlantic
history come la conosciamo ora è un paradigma costruito ex post dagli storici
(Games 2006).
Queste considerazioni mi portano a (ri)formulare un’ipotesi sul rapporto
tra atlantic history e storia contemporanea articolata in tre parti. In primo luogo, non vi è una rottura, ma piuttosto una trasformazione dei legami atlantici
tra storia moderna e contemporanea; in secondo luogo questa trasformazio­ne
prende le mosse da processi che hanno inizio nei decenni immediatamente
successivi alla Restaurazione e dispiegano pienamente i loro effetti tra la se­
conda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento; infine, questo nuo­
vo mondo atlantico si distingue da quello dell’antico regime principalmente,
ma non solo, per il suo rapporto con il quadro più generale delle connessioni globali che caratterizzano la contemporaneità. È un’ipotesi non nuova,
già avanzata nelle sue linee principali da Donna Gabaccia in un saggio del
2004 che argomentava la possibilità e anzi la necessità di riconcettualizzare
un “Atlantico lungo” nel quadro globale (Gabaccia 2004); qui viene rivisitata e
in alcuni punti messa in discussione (ad esempio con riferimento al tema del
presentismo) nelle considerazioni che farò in conclusione.
{
Non vi è una rottura, ma piuttosto una
trasformazione dei legami atlantici
tra storia moderna e contemporanea
26
}
Interrogarsi sul rapporto tra atlantic history e storia contemporanea è rilevante alla luce di due elementi. Da un lato, gli studi sulle relazioni euroamericane tra Ottocento e Novecento anche recentemente hanno offerto contributi
importanti (Rogers 1998; De Grazia 2005; Ellwood 2012; Nolan 2012), ma sembrano stretti tra la pervasività di temi come l’americanizzazione e la globalizzazione e il timore che problematizzare le specificità di medio-lungo periodo
delle relazioni euro-americane contemporanee possa prestarsi a nostalgie del
“primato dell’Occidente” o dell’ideologia dell’atlantismo; e in ogni caso non
sono espressione di un paradigma scientificamente e istituzionalmente forte e
strutturato come quello della atlantic history.
Dall’altro, quest’ultimo ha continuato a strutturarsi, e a imporsi come tendenza dominante negli ultimi dieci anni soprattutto nel mondo anglosassone,
attorno a tre cardini. In primo luogo, il mondo atlantico come unità di analisi
storica verrebbe meno tra fine Settecento e inizio Ottocento in seguito alle
“rivoluzioni atlantiche”, al crollo degli imperi europei, alla conseguente ascesa
degli Stati nazionali nelle Americhe, e all’emarginazione dell’Africa legata al
declino della schiavitù e della tratta. Ad esempio l’International Center for the
History of the Atlantic World fondato da Bernard Bailyn all’Università di Harvard nel 1995 copre l’arco di tempo 1500–1825 e la lista di discussione online H-Atlantic fa riferimento a una periodizzazione analoga. In secondo luogo,
questo termine ad quem segnerebbe un mutamento del rapporto tra mondo
atlantico e dimensione globale: dopo la prima metà dell’Ottocento, le relazioni
tra Europa, Americhe e Africa perdono coerenza e specificità in quanto divengono parte di una rete globale di scambi e connessioni che è il vero tratto di­
stintivo della contemporaneità. Infine riaffiora anche qui una preoccupazione
legata al presentismo: parlare di un mondo atlantico contemporaneo implica
in qualche misura piegarsi a una pratica storiografica che sarebbe un contributo all’ideologia della guerra fredda più che allo studio scientifico del passato.
Nelle pagine seguenti vorrei mettere in discussione questi tre assunti, facendo
riferimento a un’ampia letteratura frammentata in vari sotto-settori che possono dialogare proficuamente tra loro.
1. PERIODIZZAZIONI ATLANTICHE
l primo di questi assunti è in realtà messo in discussione con frequenza cre­
scente anche all’interno di questo settore di studi. Tra gli altri, Rothschild
(2011) nel saggio Late Atlantic History ha rilevato che alcune delle strutture portanti del mondo atlantico non cessano improvvisamente di esistere con l’inizio
del’Ottocento. Come hanno affermato Morgan e Greene (2009, 22), “wherever
the Atlantic remains a vital, even privileged arena of exchange among the four
continents surrounding it, Atlantic history can still be a useful tool of analysis”.
I
27
L’esempio più significativo è la permanenza della schiavitù in aree importanti delle Americhe (Stati Uniti, Cuba, Brasile), con tutte le implicazioni del
caso in termini economici, culturali, demografici, ecc. Il cosiddetto “Atlantico
nero” sicuramente non segue la periodizzazione prevalente, anzi continua a
informare le relazioni transatlantiche contemporanee, come ci mostrano Fre­
derick J. Douglass a metà Ottocento oppure, un secolo più tardi, le relazioni e
conta­minazioni tra il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e la decolonizzazione africana. Un altro esempio importante di continuità è dato secondo
alcuni dai limiti e ritardi del processo di nation building in America Latina, che
per buona parte dell’Ottocento perpetuerebbe una condizione di dipendenza delle nuove repubbliche dalle vecchie capitali imperiali europee, come dimostrerebbe l’influenza commerciale e finanziaria britannica.
La prevalente periodizzazione del mondo atlantico, che di fatto ricalca la
partizione tra storia moderna e contemporanea più spesso di quanto si sia
disposti ad ammettere, è quindi minata da queste continuità. Ma soprattutto
va rivista alla luce di un nuovo sguardo su quel “lungo Ottocento” in cui nuove
connessioni economiche, politiche, culturali, demografiche, geopolitiche prendono forma, in parte come riconfigurazione delle precedenti, e danno vita a
un “nuovo Atlantico”, cioè a una rete di rapporti transatlantici che pur essendo
parte di uno scenario ormai globale si distingue e acquisisce una natura peculiare in quanto particolarmente densa, multidimensionale e multidirezionale.
2. IL “NUOVO ATLANTICO” NEL QUADRO GLOBALE
artiamo dagli anni Venti dell’Ottocento, che ritengo essere un decennio
cruciale, uno snodo tra vecchio e nuovo mondo atlantico. Gli studi sulla
storia della globalizzazione economica (O’Rourke e Williamson 2002) collocano le sue origini negli anni Venti e Trenta, quando la “rivoluzione dei trasporti”
(G.R. Taylor 1951) provocata soprattutto dalla creazione di linee transatlantiche
regolari tra i porti del Nord Est degli Stati Uniti (Boston, New York) e quelli britannici (Liverpool) abbatte i costi del trasporto di merci e persone, regolarizza e
abbrevia tempi di percorrenza, con conseguenze dirompenti per l’integrazione
di un nuovo mondo atlantico all’interno del quadro globale.
Già dalla fine del decennio precedente, in realtà, coesistevano fattori di integrazione e di disintegrazione del mondo atlantico; si intrecciavano da un lato
l’apogeo della Restaurazione e dall’altro i segnali del superamento della rigida
divisione tra l’Europa e il Nuovo Mondo che era implicita nell’ordine del 1815.
Ad esempio nel 1818 da un lato le potenze europee al Congresso di Aix-laChapelle rinnovavano la Quadruplice Alleanza e l’agenda legittimista del Congresso di Vienna – tra l’altro contribuendo a una reazione da parte americana
che porterà alcuni anni dopo alla Dottrina Monroe – dall’altro la prima nave
P
28
della Black Ball Lines partiva da New York per Liverpool, inaugurando l’era dei
liners nel Nord Atlantico.
Ma in che misura è possibile perimetrare un mondo atlantico a partire dalla
prima metà dell’Ottocento? L’obiezione proveniente dal campo della world his­
tory è duplice. In primo luogo, questa rivoluzione dei trasporti si globalizzerà
con la diffusione di reti navali e ferroviarie al di fuori del bacino atlantico nel
corso dell’Ottocento. In secondo luogo, è stato rilevato, i volumi di traffico
commerciale e dei flussi migratori in altre regioni del mondo (l’oceano Indiano
e Pacifico, l’Estremo Oriente) erano significativi già in età moderna, gli scambi
euro-asiatici erano importanti almeno quanto quelli euroamericani, e queste
tendenze non vengono meno a partire dall’Ottocento (Coclanis 2002; Frank
1998; Pomeranz 2000; Wong 1997).
Tuttavia, per buona parte dell’Ottocento le comunicazioni navali e telegrafiche, grazie all’introduzione della navigazione a vapore a partire dagli
anni Quaranta e alla posa del primo cavo telegrafico transatlantico nel 1867,
perimetrano uno spazio nordatlantico (con l’America latina e l’Europa mediterranea integrate in chiave spesso subordinata e l’Africa emarginata) che sarà a
lungo il nocciolo duro e il motore della futura globalizzazione. La navigazione
tra Europa e Americhe rimane più veloce ed economica che in altre aree del
mondo (anche dopo l’apertura del canale di Suez), e la rete telegrafica più fitta,
almeno fino alla fine del lungo Ottocento e alle soglie di quella che Hobsbawm
ha definito l’“età della catastrofe”. Ma soprattutto l’avvio di questa globalizzazione economica si sovrappone a, e alimenta, connessioni di altra natura
che denotano il campo delle relazioni tra Europa e Americhe come uno spazio
a­tlantico collegato al quadro globale, ma connotato da forti specificità non solo
La Britannia (1840), il primo transatlantico della Cunard Steamship Company.
29
economiche, ma anche sociali, culturali e politiche. Elementi qualitativi, più che
quantitativi, circoscrivono lo spazio atlantico all’interno della globalizzazione
otto-novecentesca e gli attribuiscono una coerenza che ne fa un’unità d’analisi
storica in cui si intrecciano forze transnazionali e dinamiche internazio­nali. Per
precisarne meglio contorni e contenuti separiamo schematicamente due livelli,
quello relazionale e quello comparativo.
2.1 La dimensione relazionale
er quanto riguarda le relazioni tra Europa e Americhe, la citata “rivoluzione
dei trasporti” e la conseguente espansione del commercio aprono la strada
a flussi tra loro interconnessi. Studi di storia economica e delle migrazioni hanno
mostrano da tempo le sovrapposizioni tra reti commerciali e rotte migratorie
a partire dall’Atlantico settentrionale a metà Ottocento e poi nel Mediterraneo
nella seconda metà del secolo. I “trattati di amicizia, commercio e navigazione”
che regolano la ripresa del commercio tra gli Stati Uniti, le nuove repubbliche
latinoamericane e gli Stati europei a partire dagli anni Venti sono anche i primi
tentativi di regolare la circolazione transatlantica delle persone (Ph. Taylor 1971;
Gabaccia 2012). Nel caso italiano si ha evidenza di questo nel trattato siglato
tra gli Stati Uniti e il Regno di Sardegna nel 1838. Questi trattati comportarono
la crescita di reti diplomatiche e soprattutto consolari, che fu esponenziale in
quei decenni, a partire dal caso britannico (Anderson 1993). Era questo il primo
passo, dopo la cesura delle rivoluzioni atlantiche e delle guerre napoleoniche,
verso un altro potente fattore di integrazione transatlantica: il riconoscimento
tra soggetti – tra monarchie europee, repubbliche americane e, in misura assai minore, soggetti statuali in altre aree del mondo – dotati di una nozione
P
Mappa del primo tentativo di cavo telegrafico transatlantico (1858).
30
diversa di sovranità, e verso la costruzione di una comunità internazionale che
non è più solo europea ma euroamericana (Benton 2010; Carmagnani 2003;
Scully 2001).
È importante tuttavia evitare forme di determinismo economico se si
vuole cogliere la complessità e specificità di questo nuovo spazio atlantico.
L’integrazione commerciale – poi rafforzata dalla circolazione di capitali, da
investimenti in infrastrutture (è il caso degli investimenti britannici nelle ferrovie in America Latina) e dalla diffusione di servizi finanziari – è parte di
un’accelerazione della circolazione di persone e di merci che ha conseguenze molteplici, ad esempio nella diffusione, e spesso nella ibridazione, di idee
economiche e politiche. Si pensi alla ripresa dell’influenza delle teorie libero­
scambiste. Il vangelo del “libero commercio”, che già era stato un tema delle
indipendenze americane, conosce una nuova spinta con gli anni Trenta, come
dimostra il successo della critica di Richard Cobden alle politiche mercantiliste
nell’Europa continentale, inclusi gli Stati italiani, e nelle Americhe. Le conse­
guenze politiche di questo dibattito sono rilevanti: l’enfasi sul commercio come
tessuto connettivo tra i popoli è una delle forze di una più ampia critica liberale
al “balance of power” scaturito dal Congresso di Vienna. Questa critica liberale
all’ordine delle autocrazie europee era a sua volta parte di un più ampio processo di nation building e di ricerca di autodeterminazione che è un altro tratto
del lungo Ottocento euro-americano, in cui l’opposizione al colonialismo europeo nelle Americhe si salda all’avvento, o alla riconfigurazione, di stati liberali
tra anni Cinquanta e Settanta in Canada, Argentina, Messico, Stati Uniti, Germania e Italia (Anderson 2003; Gabaccia 2004; Howe e Morgan 2006).
Infine, per chiudere questo quadro molto sintetico della dimensione relazionale come forza di integrazione tra Vecchio e Nuovo Mondo, l’approccio
transnazionale alla storia politica e delle idee ci sta mostrando che questi processi di costruzione dello Stato nazionale sono stati possibili anche grazie a reti
transnazionali animate da intellettuali, esuli, comunità di migranti che attraverso le loro associazioni e la carta stampata costituirono un’“internazionale”
repubblicana o liberale che è un’altra connessione caratteristica del rapporto
transatlantico. Anche questa non era connessione unidirezionale, non si trattava
di un ennesimo capitolo dell’europeizzazione del mondo. Ad esempio Maurizio
Isabella ha mostrato come l’esperienza delle indipendenze latino-americane sia
stata importante per la creazione di un’“internazionale liberale” di natura fortemente transnazionale che dà vita ai moti in Piemonte, Napoli e nella penisola
iberica nei primi anni Venti (Isabella 2009). Un decennio che, come si diceva in
apertura, è rilevante a molti livelli per la riconfigurazione economica, politica
e culturale dei legami tra le due sponde dell’Atlantico (Blaufarb 2007; Brown e
Paquette 2011) e si pone come snodo, termine a quo di un lungo Ottocento
31
che ridisegna lo spazio atlantico affondando le origini nelle rivoluzioni di fine
Settecento e dispiegando i suoi effetti almeno fino alla Prima guerra mondiale.
Naturalmente molte di queste connessioni, soprattutto di tipo transnazio­
nale, se considerate singolarmente non sono esclusivamente atlantiche. È
sufficiente pensare all’ovvia importanza dell’India nel quadro dell’economia
dell’Impero britannico, o dell’Africa e dell’Asia nel quadro di quello portoghese;
o all’afflusso di servi a contratto dalla Cina e dall’India ai Caraibi dopo lo Slav­
ery Abolition Act del 1833, che illustra con efficacia la portata globale delle
connessioni. O ancora si consideri la circolazione globale, e non solo atlantica,
del liberalismo ottocentesco messa in evidenza da studi recenti (Baily 2011). E
tuttavia pare difficile negare che solo nello spazio atlantico si ha in primo luogo
la compresenza di tutti queste connessioni, che si rafforzano reciprocamente
tanto da delimitare un perimetro variabile nel tempo, ma sufficientemente netto, al cui interno eventi e processi hanno spesso ripercussioni in altre parti del
sistema. E, in secondo luogo, si ha una spiccata bidirezionalità e reciprocità, che
quindi differenzia questa concettualizzazione da modelli basati sulla dicotomia
centro/periferia, o da determinismi economici o culturali funzionali a vecchi
disegni di europeizzazione/civilizzazione del mondo.
2.2 La dimensione comparativa
l mondo atlantico otto-novecentesco è anche caratterizzato da analogie si­
gnificative nei percorsi di modernizzazione socio-economica e politico-istituzionale; gli studi comparativi su questo tema aggiungono un’altra dimensione a quella relazionale, e arricchiscono quanto accennato precedentemente
circa le analogie nei processi di nation building in Europa e nelle Americhe.
Rifacendoci a un modello delineato da Hans-Jürgen Puhle, possiamo affermare
innanzitutto che lo spazio atlantico delineato da questi convergenti percorsi
di modernizzazione coincide con l’Europa e le Americhe, ha limiti non strettamente definiti ed è parte integrante del “sistema-mondo”, ma è caratterizzato
dal fatto che al suo interno si sono avviati, a partire dall’Europa, processi di
modernizzazione con specificità e differenze nazionali e regionali ma con forti
analogie (Puhle 2002).
In primo luogo esisterebbe un retroterra culturale comune: la società occidentale costruita sulla tradizione giudeo-cristiana, che si differenzia da altre società in quanto pluralista, pluricentrica, competitiva. È facile scorgere
in questa premessa una dimensione “orientalista” volta a costruire la propria
identità sulla base di una contrapposizione con l’Altro che è stata al centro di
un’intensa critica a partire dagli studi di Edward Said. In secondo luogo, questi
percorsi di modernizzazione avrebbero tre ingredienti comuni, sarebbero cioè
la combinazione, variabile a seconda dei casi, di burocratizzazione, industria­
I
32
lizzazione e democratizzazione. Le specificità nazionali o regionali sono date
dal diverso dosaggio di questi ingredienti; ad esempio negli Stati Uniti vi è
forte democratizzazione e bassa burocratizzazione, in America latina il contrario, mentre in Europa si danno varie combinazioni nei diversi casi nazionali.
In terzo luogo, le differenze sarebbero rilevanti soprattutto all’inizio del processo di modernizzazione, segnato dalla formazione di un’economia capitalistica
industriale e dello Stato-nazione, mentre nel lungo Ottocento e soprattutto nel
Novecento prevarrebbe la tendenza alla convergenza, dovuta anche al peso
dell’americanizzazione soprattutto nella sfera economica (il Nord America è il
primo caso in cui si avvia un percorso autonomo, che rompe con la dipendenza
dal modello europeo). Infine, se la modernizzazione così definita interesserà
anche aree extra-atlantiche, nel mondo atlantico questo processo è caratterizzato da un’interazione bidirezionale: le connessioni transatlantiche non sono a
senso unico, esiste un “transatlantic learning” per quanto non tra eguali; si può
parlare quindi di una molteplicità di modernizzazioni “atlantiche” o “occidentali”. E il mondo atlantico, in questo quadro, non è una singola entità storica ma,
nella definizione di Puhle, una “community of experience”, uno spazio segnato
da molteplici relazioni, interazioni, interdipendenze, e scambi.
Si tratta naturalmente di una razionalizzazione ex post ad opera dello storico. I contemporanei non avvertivano questa convergenza, ma, al contrario, coglievano spesso le diversità, se non addirittura l’alterità, tra Vecchio e Nuovo
Mondo anche in momenti in cui molte delle forze di integrazione transatlantica
citate in precedenza erano in azione. Ad esempio, il lavoro di Timothy Roberts
sull’impatto e le letture del Quarantotto europeo negli Stati Uniti mostra come
quell’ondata rivoluzionaria suscitò al di là dell’Atlantico una notevole attenzio­
ne, che rifletteva anche la speranza della diffusione delle istituzioni repubblicane e dei principi liberali in Europa continentale. Quando però fu chiaro che
gli esiti – reazione autocratica oppure “degenerazione” rivoluzionaria – furono
assai diversi da quelli auspicati, l’opinione pubblica e le classi dirigenti americane videro confermata la loro convinzione dell’eccezionalità degli Stati Uniti e
della profondità del solco che divideva l’Atlantico: in quel frangente America ed
Europa tornarono a definirsi in termini oppositivi. E tuttavia anche questo era
un legame forte, un fattore di disintegrazione che intrecciandosi ai molteplici
{
È lecito chiedersi se oggi sia possibile
problematizzare le relazioni transa­
tlantiche senza necessariamente fare
un’apologia della “civiltà occidentale”
33
}
fattori di integrazione visti finora contribuiva a caratterizzare il rapporto transatlantico, come mostrano gli studi sulle categorie di identità e alterità applicate
recentemente agli studi storici e alle relazioni internazionali e transnazionali
(Bonazzi 2004; Campbell 1992; Murphy 2005; Ryan 2000).
3. IL PRESENTISMO. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
nfine, nel delineare uno spazio atlantico otto-novecentesco come unità di
analisi storica dotata di senso, uno dei nodi da sciogliere è il tema del presentismo. È lecito domandarsi se sia possibile finalmente problematizzare le
relazioni transatlantiche nel mondo contemporaneo senza necessariamente
fare un’apologia della “civiltà occidentale” che, per dirla con David Armitage,
“owed more to NATO than it did to Plato”. Per vari studiosi infatti un’atlantic
history in chiave contemporanea rischia seriamente di essere in qualche modo
strumentale all’ideologia della Guerra fredda e dell’atlantismo che le è sopravvissuto, così come la storia atlantica degli anni Cinquanta era stata vista come
“a historically illuminated manifesto for the creation of a strong North Atlantic
treaty … and a continued American presence in Europe” (Allitt 1997, 266).
Questo timore è comprensibile e giustificato alla luce di una lunga traduzio­
ne novecentesca che – dalla comparsa dei corsi di “Western civilization” nelle
università americane degli anni Venti all’atlantismo storiografico degli anni
Cinquanta – ha in effetti costruito l’Atlantico bianco e cristiano, depurato di
e­lementi conflittuali e presenze altre al suo interno, come la culla della civiltà
tout court. Ad esempio, questo timore era all’origine della freddezza con cui
furono accolte le tesi di Robert Palmer e Jaques Godechot sulle “rivoluzioni
atlantiche” che a metà anni Cinquanta costruivano un paradigma storiografico
fortemente inserito nel solco della costruzione di una “civiltà”, e di un primato,
occidentale. (Armitage 2002; Bailyn 1996; O’Reilly 2004).
Tuttavia, e queste sono le mie conclusioni, ad alcuni decenni di distanza da
quella stagione, in un quadro storiografico e politico-culturale radicalmente
mutato, è possibile fare due considerazioni. In primo luogo, l’emergere di un
paradigma storiografico atlantico negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, che
era parte di un processo di ricollocazione del paese nel contesto internazionale
in chiave anti-isolazionista e di ridefinizione della stessa identità nazionale in
senso anti-eccezionalista precedente la Guerra fredda, ha logiche interne e in
ogni caso non è riducibile semplicemente agli imperativi dello scontro ideologico di quegli anni. In secondo luogo, ora che il clima della guerra fredda si
è dissolto e i richiami a “provincializzare l’Europa” stanno avendo da tempo i
loro salutari effetti negli studi storici, invero altrove più che in Italia, è lecito e
forse doveroso riconsiderare le connessioni atlantiche nel mondo contemporaneo come “a slice of world history” (Games 2006), o come una regione che,
I
34
come afferma Gabaccia, nell’era contemporanea si trasforma al suo interno, si
riposiziona all’interno delle relazioni globali, e quindi va situata in questa pro­
spettiva più ampia (Gabaccia 2004), ma non per questo perde la sua specificità
e coerenza.
Sappiamo che determinate unità di analisi storiche e geografiche acquistano significato non in astratto, ma in base alle domande che lo storico si pone,
e in base al suo punto di osservazione. Un “mondo atlantico” depurato dalle
incrostazioni ideologiche del passato può essere un’unità di analisi significativa
soprattutto se ci si libera definitivamente dei fantasmi della Guerra fredda e si
superano alcuni steccati (tra dimensione transnazionale e internazionale, tra
storia politica e sociale) e si assume uno sguardo sintetico sulle relazioni tra
Europa e Americhe nel lungo Ottocento e nel secolo scorso.
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36
L’America e la politica
di modernizzazione
in Europa nel lungo
Novecento
DAVID ELLWOOD (Università di Bologna)
S
eguendo le indicazioni degli organizzatori, in queste righe vorrei proporre
alcuni suggerimenti “teorici” venuti fuori dalla lunga esperienza di ricerca,
lettura e riflessione che ha prodotto il mio saggio La sfida della modernità (Ellwood 2012).1
Questo testo offre essenzialmente la storia politica di un confronto di mo­
delli ed esperienze di modernità. Una modernità di tipo occidentale, evidentemente: razionale, tecnologica, più o meno capitalista, più o meno democratica,
in continua ricerca di un equilibrio stabile tra crisi ed espansione, tra Stato e
mercato, tra individuo e collettività, tra conservazione e innovazione. Ma per la
maggior parte del tempo, suggerisce il libro, non è stato un confronto tra pari,
poiché gli Stati Uniti hanno dimostrato nel corso del Novecento una capacità
ineguagliabile di inventare istanze di modernità e allo stesso tempo la capacità
e la volontà di proiettarle nel mondo. Questa forma di “volontà di potenza”
l’ha conosciuta per prima l’Europa. Dall’epoca della globalizzazione in poi tutto
il mondo ha dovuto fare i conti con questa dinamica espansionista (evidentemente la stessa “globalizzazione” – come parola, mito e realtà – non è altro che
uno degli esempi più visibili di uno di questi modelli di modernità americana).
Da Buffalo Bill a Google, gli europei e gli altri hanno dovuto fare i conti con
questa forma di sfida americana: non una forma tradizionale di imperialismo, e
nemmeno di egemonia (punto discutibile), ma una convocazione o incitazione,
una provocazione che richiede una risposta, un invito a una competizione con
minaccia: se non accettate la sfida sarete travolti – basti vedere la storia di Hollywood in Europa o di Google.2
Fare i conti allora… ma quali conti? Definiti da chi? In quali contesti? Con
37
quali modelli alternativi da proporre? È semplicemente una questione di trovare quel “modo o formula di vita che sappia congiungere le vecchie tradizioni e
il nuovo mondo che ci assale da ogni parte”, come ha scritto il noto romanziere
e commentatore irlandese Sean O’Faolain nel lontano 1940?
Come ho scritto nel testo:
In realtà naturalmente il potere americano in tutte le sue manifestazioni
ha generalmente interagito con i processi di cambiamento in corso in
Europa (come in qualunque altro luogo) in un modo turbolento, generando spesso attriti e addirittura manifestazioni di “antiamericanismo”.
Ovunque, come ha sostenuto Federico Romero, i protagonisti locali in
questo processo d’adattamento si sono adeguati come meglio potevano
“alle opportunità e alle difficoltà derivanti da mutamenti tecnologici che
non erano solamente o unicamente americani, e si sarebbero probabilmente verificate – benché in tempi e in forme differenti – anche senza
l’influenza americana”. Al tempo stesso, ogni gruppo, generazione, comunità, settore produttivo e culturale si è adoperato per venire a patti
con ciò che l’America offriva, esattamente come era successo con tutte
le altre fonti d’innovazione in ogni tempo: gli sviluppi sociali come il
femminismo, l’economia, la scienza, la tecnologia, la comunicazione di
massa, l’integrazione europea e così via. Tuttavia, era necessario scegliere
con tutta la forza di volontà e le risorse culturali disponibili, se si voleva
rimanere nella corsa per la modernità così come ispirata dalla maggiore
potenza dell’epoca.
E in queste ultime righe il testo fa riferimento indiretto al lavoro di tutti
quei colleghi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, che hanno voluto indagare
l’impatto/ricezione in Europa della cultura di massa americana in tutte le sue
forme negli ultimi cento e più anni: Mary Nolan, Victoria de Grazia, Rob Kroes,
Reinhold Wagnleitner, Richard Kuisel, Richard Pells, Jessica Gienow-Hecht,
Volker Berghahn e altri ancora.
Il testo si sofferma sulle tre fasi storiche in cui, secondo me, l’incontro/
confronto transatlantico di esperienze e modelli di modernità è stato parti-
{
Gli USA nel Novecento hanno di­
mostrato una capa­cità unica di inven­
tare istanze di modernità e la capacità
e la volontà di proiettarle nel mondo
38
}
colarmente intenso, cioè nei tre dopoguerra del ventesimo secolo in Europa.
Ma nell’intervento al convegno CISPEA ho cercato di segnalare alcuni terreni
dove si poteva – e si può ancora in alcuni casi – vedere in azione la questione
americana nelle politics of modernization in Europa. Sono terreni dove sono
in gioco fattori quali la democrazia di massa, la produzione e il consumo di
massa e, inoltre, la comunicazione di massa: quell’“empire of fun”, identificato
da Wagnleitner. Vanno dagli scontri sulle grandi catene di retailing all’inizio
del Novecento fino a quelli attorno a McDonald’s e Starbucks oggi; dai confronti sul fordismo nel primo dopoguerra a quelli sulla produttività dell’epoca
del Piano Marshall; dalle diverse idee di cos’è un canale televisivo degli anni
Cinquanta al ruolo dello Stato nello sviluppo di internet oggi, dai vari concetti
di welfare state alla sfida ideologica del “Washington consensus” – deregula­
tion, privatisation, globalization – degli anni Novanta e Duemila. Va molto di
moda in certi settori storiografici oggi la questione dei consumi, e in effetti
il nuovo libro di Logeman (2012), Trams or Tailfins?, è un ottimo esempio di
come si può esplorare the politics of Americanization in un determinato settore
(concludendo ovviamente che i tedeschi occidentali si sono sforzati massicciamente per non emulare l’America).
A sinistra: Manifesto pro-americano (Italia, 1948). A destra: Manifesto anti-americano (Francia, ca. 1950).
39
Il rischio di un tale approccio è che si trascurino certe grosse questioni
presentate dalla sfida americana nel suo senso storico più ampio: l’ascesa e
il declino dell’idea di sviluppo o crescita venuto fuori così prepotentemente
dall’America della Seconda guerra mondiale; l’evoluzione comparativa delle
industrie creative, compresa, ultimamente, internet; il contrasto/combinazio­
ne su tante questioni di stili di vita: dal femminismo alla cultura giovanile,
dall’omosessualità alla religione. Di sicuro la necessità di rispondere alla sfida americana ha diviso gli europei molto più che riunirli: basti vedere il contrasto stridente tra i modi francesi e inglesi di considerare l’utilità dei riferimenti d’oltreatlantico. Ma nel suo insieme, è il carattere e il destino di tutta
l’Europa che è stato forgiato in una certa misura dalla necessità del confronto
con l’America, nella misura in cui gli europei, anche loro, volevano essere –
ciascuno a modo suo, naturalmente – moderni.
NOTE:
1. Si noti che la versione inglese del libro – The Shock of America. Europe and
the Challenge of the Century (Oxford, Oxford University Press, 2012) – contiene elementi non presenti nell’edizione italiana. Oltre a una maggiore
attenzione all’esperienza britannica, vi si trova in più soprattutto un’analisi
della dimensione cinematografica dei rapporti transatlantici.
2. Per i tentativi degli europei di sviluppare un’alternativa a Google, Andriolo
et al. 2012.
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goware-apps.com/index.php?option=com_content&view=article&id=143.
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Logeman J.L., Trams or Tailfins? Public and Private Prosperity in Postwar Wesdt
Germany and the United States, Chicago, The University of Chicago Press,
2012.
40
Circolazioni trans­
atlantiche in storia
delle migrazioni:
Portoricani e italiani a
New York (1920–1960)
SIMONE CINOTTO (Università di Scienze Gastronomiche)
I
l 4 novembre del 1946 la rivista Time scriveva: “Il cuore del diciottesimo di­
stretto elettorale di Manhattan è un ghetto infestato dal crimine e dai topi
chiamato East Harlem. Le orde di italiani, portoricani, ebrei e negri che ci abitano hanno sempre votato repubblicano. Ma nell’ultimo decennio ha preso il
potere una nuova forza: la variopinta macchina elettorale di Vito Marcantonio,
il deputato deforme, dagli occhi iniettati di sangue e dalla voce stridula amico
dei comunisti. I gangster, i magnaccia e gli spacciatori di droga che lo sostengono lo chiamano l’‘Onorevole Fritto Misto’” (National Affairs 1946).
Al di là del linguaggio violento, nel suo attacco contro il politico italoamericano che per primo mobilitò i portoricani di New York fino a diventare
un acceso sostenitore dell’indipendenza di Porto Rico nel Congresso degli Stati
Uniti, Time coglieva comunque un aspetto essenziale. Nell’immediato secondo
dopoguerra la parte nordorientale di Manhattan era un mosaico di comunità
immigrate con pochi equivalenti al mondo che prometteva (o minacciava) sviluppi politici inediti e incontrollabili (Meyer 1989). Particolarmente problema­
tica era la coesistenza dei due gruppi citati in cima alla lista di Time: gli italiani
e i portoricani. A quella data, East Harlem rappresentava allo stesso tempo la
più grande comunità portoricana fuori dall’isola (circa 50.000 persone) e la più
grande enclave italiana nell’emisfero occidentale (circa 70.000 tra immigrati di
prima e seconda generazione).
I motivi di scontro tra i due gruppi abbondavano. Le gang giovanili delle
due fazioni si davano battaglia per le strade del quartiere in difesa di quello che
ritenevano essere il loro territorio (Schneider 1999). Le operaie italiane erano
41
risentite per l’entrata in massa delle portoricane nel settore tessile, di cui detenevano l’egemonia. Le donne portoricane – impiegate come forza lavoro dequalificata – protestavano la loro esclusione dai sindacati dominati dagli italiani
(Ortiz 1996). Portoricani e italiani competevano poi per l’accesso alle risorse
messe a disposizione dalle politiche sociali del New Deal, e in particolare per
l’assegnazione delle case popolari, un tipo di edilizia per cui alla fine degli anni
Cinquanta East Harlem avrebbe avuto la più alta concentrazione di tutti gli Stati
Uniti (Zipp 2010).
In generale, come ultimi arrivati nel quartiere, i portoricani trovarono il
potere politico locale saldamente nelle mani degli italiani (Thomas 2010); gli
italiani lottavano per riaffermare la loro identità di americani bianchi, appena
conquistata ed ancora incerta, prendendo violentemente le distanze dai portoricani – dalla pelle più scura, più poveri e più incapaci di parlare inglese di
loro, ma con cui dovevano condividere sempre più spesso le strade, le case, le
scuole e le chiese di East Harlem. Come rivela chiaramente l’articolo di Time,
vista dall’esterno la vicinanza fisica tra portoricani ed italiani suggeriva inequi­
vocabilmente una loro vicinanza razziale (Guglielmo e Salerno 2003; Roediger
2002).
Tra il 1920 e il 1960, in sostanza, i portoricani e gli italiani di New York costruirono le loro identità razziali, di classe, di genere, politiche e culturali in gran
parte per attrito gli uni con gli altri. A uno snodo cruciale nella trasformazio­
ne della città, la stessa New York venne a ridefinirsi attraverso la relazione dei
due gruppi con la città e le molteplici connessioni transnazionali attivate dalle
migrazioni portoricane e italiane, che collegarono ancora più capillarmente la
metropoli con il mondo.
Su questa tematica ho appena cominciato un percorso di ricerca in coerenza con la mia specializzazione di storico delle migrazioni negli Stati Uniti
tra tardo Ottocento e Novecento. Le storie dell’immigrazione negli Stati Uniti
che prendono in esame più gruppi immigrati in maniera sia comparativa che
relazionale sono a tutt’oggi sorprendentemente poche. Per quanto riguarda la
città di New York si è fermi ad un vecchio classico di Bayor (1988), Neighbors
in Conflict, che ha raggiunto la seconda edizione nel 1988. L’unico libro che
prende in esame le relazioni tra immigrati italiani e latini è la storia sociale delle
{
La parte nord-est di Manhattan era
un mosaico di comunità immigrate
che prometteva (o minacciava) svi­
luppi politici inediti e incontrollabili
42
}
comunità di sigarai cubani e siciliani in Florida al torno del Novecento – The
Immigrant World of Ybor City (Mormino e Pozzetta 1987). Di converso, il poco
che è stato pubblicato di recente in termini di storia dell’immigrazione “multigruppo” ha dimostrato la grande fertilità di questo tipo di approccio nello
svelare panorami etnici e razziali della storia statunitense prima sconosciuti
(gli esempi comprendono The White Scourge [Foley 1997] sui lavoratori del cotone bianchi, neri e messicani in Texas; The Shifting Grounds of Race [Kurashige
2008] su giapponesi e neri a Los Angeles; e Coolies and Cane [Jung 2006] sui
lavoratori dello zucchero cinesi e afroamericani in Louisiana). La mia ricerca
promette quindi di per sé di costituire un contributo significativo a un filone
importante e ancora poco praticato nel mio specifico settore storiografico di
appartenenza.
Tuttavia il mio progetto vuole andare al di là di questo. La mia ipotesi di
ricerca è infatti che la storia della New York portoricana e italiana tra gli anni
Venti e gli anni Cinquanta del Novecento configuri in tutto e per tutto una
“storia atlantica,” che non si snoda soltanto lungo il triangolo New York-Porto
Rico-Italia, ma, più ampiamente, all’interno di un sistema di interconnessioni
economiche, politiche, sociali e culturali che è venuto a formarsi dal 1500 in poi
tra i diversi lati dell’oceano.
Da un punto di vista metodologico, credo pertanto che per studiare que­
sta “storia atlantica” (con la S minuscola) occorra utilizzare gli strumenti della
Storia Atlantica (con la S maiuscola): in particolare, come sottolineato nel più
volte richiamato articolo di Alison Games su American Historical Review, la capacità della Storia Atlantica di trascendere i confini e le storiografie nazionali
ed imperiali per descrivere interi mercati del lavoro, reti commerciali, pratiche
culturali, nozioni di razza, formazioni di classe e differenze di genere dislocate
sull’ampia tela transoceanica (Games 2006; v. anche Games 2004, 4). La history
without borders evocata da Alison Games è l’unico approccio che può dare fino
in fondo conto del perché, in un determinato momento storico, dei migranti
dalle aree rurali di un’isola caraibica si siano scontrati con i figli dei braccianti
del latifondo meridionale nelle strade della più grande e moderna città del
mondo; del dove originassero i concetti e i vissuti di razza attraverso i quali i
portoricani e gli italiani di New York guardavano l’altro da sé, costruendo così
la propria identità sociale e idea di cittadinanza; di quali fossero le nozioni e le
pratiche di genere che si scambiavano le donne portoricane e italoamericane
in fabbrica e nel quartiere; di quali fossero le fonti politiche e discorsive dei
rispettivi nazionalismi diasporici; eccetera.
La metodologia della Storia Atlantica si configura inoltre come un apporto
fondamentale per la mia ricerca (e per ricerche analoghe alla mia), per il suo
carattere sistemico, di analisi delle interdipendenze all’interno di un contesto
43
geografico e storico di ampia estensione ma relativamente integrato. Come ha
notato un’altra praticante della Storia Atlantica applicata alla storia locale, Lara
Putnam, “per comprendere le cause e valutare le conseguenze dei mutamenti
osservabili in una determinata località dobbiamo considerare eventi e fenomeni in luoghi a questa direttamente connessi, così come anche le tendenze
e i processi che influenzano il sistema nel suo complesso” (Putnam 2006, 615).
Dal punto di vista della periodizzazione, la mia ricerca sugli immigrati portoricani e italiani a New York (una storia locale e contemporanea) si rapporta
con la Storia Atlantica (cioè, nella sua accezione più cogente, la storia di un
oceano e tre continenti nella prima epoca moderna) in due modi. Innanzitutto,
riconoscendo alla circolazione di persone, capitali, cose e idee attraverso e
all’interno dell’Atlantico tra 1500 e 1800 un ruolo imprescindibile di sfondo e
precedente alle dinamiche tardo ottocentesche e novecentesche oggetto centrale della ricerca, che sono altrimenti impossibili da comprendere. In secondo
luogo, sottolineando – come hanno già fatto Donna Gabaccia e altri commentatori – che i processi storici e le interconnessioni che crearono un “mondo
a­tlantico” tra Cinquecento e Settecento non si sono bruscamente interrotti
dopo le rivoluzio­ni borghesi e la fine della tratta schiavista, ma sono evoluti in
una genealogia di eventi e dinamiche successive che è possibile e utile continuare a tracciare nello stesso contesto atlantico – sebbene si tratti di un Atlantico più “piccolo” e sempre più “globale” (Gabaccia 2004).
La mia ricerca intende svolgere questo lavoro di incorporazione metodolo­
gica e di periodizzazione estesa su tre piani in particolare: 1) quello della storia
delle migrazioni atlantiche; 2) quello dell’integrazione dei cosiddetti Atlantici
bianco, nero e rosso; e 3) quello della storia di genere e dell’intimità.1
STORIA DELLE MIGRAZIONI ATLANTICHE
a storia delle migrazioni atlantiche è stata tipicamente articolata in tre di­
stinti periodi. Il primo, che è anche l’unico di cui si occupa la Storia Atlantica
nella sua accezione più stretta, è quello della “migrazione organizzata” che
vide come principali protagonisti alcuni milioni di africani e alcune centinaia
di migliaia di servi a contratto, marinai e soldati europei tra il 1500 e il 1819. Il
secondo periodo è quello della “migrazione autonoma” che vide come principali protagonisti alcuni milioni di europei che rispondevano volontariamente
alle attrattive economiche transatlantiche tra il 1820 e il 1914. Il terzo periodo è
quello della “migrazione per quote”, tra il 1915 e il 1965, frutto della regolazio­
ne selettiva dei flussi da parte di diversi stati americani che, con il concorso di
due guerre mondiali e della Grande depressione, ridusse drasticamente i movimenti transatlantici favorendo quelli infracontinentali. Si è trattato complessivamente di un fenomeno altamente significativo e non solo dal punto di vista
L
44
quantitativo (più di tre quarti della popolazione dell’emisfero occidentale di­
scende da persone che vi arrivarono attraversando l’Atlantico). La solita Alison
Games ha sostenuto che le “migrazioni hanno plasmato il mondo atlantico più
di ogni altro tipo di connessione e interazione all’interno della regione” (Games
2004, 5). Il mio punto di vista è che questa osservazione rimanga valida per
tutti e tre i periodi e che questi siano legati da un rapporto di concatenazione
e causalità piuttosto che di alterità.
Per buona parte del periodo della “migrazione organizzata” (1500–1819)
Porto Rico e l’Italia meridionale fecero insieme parte dell’Impero spagnolo, al
cui interno andrebbero quindi compresi i flussi della mobilità umana che inte­
ressarono tanto africani in stato di schiavitù quanto soldati mercenari, missio­
nari, marinai, servi e forza lavoro in genere, nel grande quadro dello slittamento del fulcro dell’attività economica dell’impero dal Mediterraneo all’Atlantico.
Peraltro molti contributi di storia delle migrazioni (in particolare quelli di Jan e
Leo Lucassen) hanno confutato l’idea di un’Europa della prima modernità statica
e sedentaria che si mette in movimento solo nell’Ottocento con la rivoluzione
industriale. Europei e africani mostrano livelli di mobilità comparabili tra 1500 e
1800, anche se i flussi europei rimangono prevalentemente all’interno del continente e del Mediterraneo e si svolgono sull’asse campagne-città (Lucassen e
Lucassen 2009). Le migrazioni europee transatlantiche, in altre parole, decollano e conoscono un boom nell’Ottocento non perché avvenga un cambio di
Rappresentazione della nave negriera Brookes (1788), usata dagli abolizionisti della tratta degli
schiavi per sottolinearne la disumanità.
45
paradigma “europeo” rispetto alla mobilità, ma perché cresce rapidamente la
sicurezza e l’economicità dei trasporti attraverso l’Atlantico (Nugent 1992).
Le continuità tra la fase della migrazione organizzata e la fase della migrazione autonoma 1820–1914 non si esauriscono nel fatto che la tratta di
a­fricani proseguì oltre il 1800 e che l’abolizione della schiavitù avvenne ovunque
più tardi (a Porto Rico solo nel 1873). Esattamente a cavallo tra le due fasi (nel
1815) la Corona spagnola emise la Real Cedula de Gracias, concedendo terra
e incentivi ai coloni europei cattolici che avessero voluto immigrare a Cuba e
Porto Rico. La conseguenza fu l’ingente arrivo a Porto Rico di spagnoli, portoghesi, francesi e soprattutto corsi di etnia italiana che contribuirono, oltre
che a una riconfigurazione razziale della popolazione, allo sviluppo della produzione di caffè nell’isola.
Le migrazioni italiane costituirono naturalmente un elemento centrale della fase 1820–1914. I migranti della penisola si diressero attraverso l’Atlantico
seguendo certosinamente le fluttuazioni del mercato del lavoro; prima soprattutto verso l’America Latina e poi soprattutto verso gli Stati Uniti.
L’interdipendenza dei vari “pezzi” di mondo atlantico per quanto attiene
alla divisione internazionale del lavoro risulta di nuovo evidente nel trapasso
alla fase della “migrazione per quote”, 1915–1965. L’esclusione per legge degli
italiani e degli altri europei dal sud e dall’est del continente dall’immigrazione
negli Stati Uniti (1924) è coeva alla concessione della cittadinanza statunitense
Migranti lasciano Ellis Island (1900).
46
agli abitanti di Porto Rico (1917) che iniziarono a quel punto, insieme agli afro­
americani di diversi stati del sud degli USA, la migrazione intensiva verso le
occupazioni nei servizi e la manovalanza a New York.
Anche quella che negli anni Cinquanta gli italiani di Harlem percepirono
come l’“invasione finale” del loro quartiere da parte dei portoricani è legata a
dinamiche squisitamente atlantiche. La migrazione portoricana a New York assunse dimensioni di massa non solo per l’introduzione di voli di linea tra l’isola
e la metropoli, ma perché il governo degli Stati Uniti promosse l’accoglienza dei
portoricani espulsi dal mercato del lavoro nel corso dell’Operation Bootstrap (o
Operación Manos a la Obra), l’industrializzazione dell’economia portoricana il
cui successo rappresentava un fiore all’occhiello della strategia propagandistica
terzomondista americana nei primi anni della Guerra fredda.2
RICOMPOSIZIONE DELL’ATLANTICO BIANCO, NERO E ROSSO
na simile rete di genealogie e successioni è riscontrabile nelle suddivisioni
tematiche che ha assunto la storiografia della circolazione umana, culturale e ideologica nel teatro atlantico – l’Atlantico bianco, nero e rosso.
Per quanto riguarda la formazione transatlantica di modelli politicointellettuali di radice europea e angloamericana (che insieme con la storia
dell’imperialismo atlantico va sotto il nome di Atlantico bianco), bisogna notare come entrambi i nazionalismi, portoricano e italiano, si appropriarono si­
U
Vignetta “The High Tide of Immigration – A National Menace“, apparsa sulla rivista umoristica Judge
(1903). Essa rappresenta la paura di alcuni americani per il crescente numero di immigrati prove­
nienti dall’Europa meridionale e orientale.
47
gnificativamente del vocabolario e dell’immaginario nazionale e repubblicano
delle rivoluzioni francese e americana. Molti dei primi immigrati portoricani e
italiani a New York nella seconda metà dell’Ottocento erano rifugiati dei rispettivi movimenti per l’indipendenza nazionale.
Alla fine del secolo, la stampa italoamericana guardò alla guerra imperia­
lista del 1898 che portò all’invasione di Porto Rico da parte degli Stati Uniti
con un caratteristico mix di sostegno alla missione americana di civilizzazione
di popoli inferiori e di comprensione per la causa indipendentista portoricana,
basata sulla propria recente esperienza risorgimentale.
Altrettanto se non più significativa nello sviluppo delle due comunità a New
York fu la mobilità delle ideologie politiche di riforma sociale attraverso il Nord
Atlantico tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. Le applicazioni in termini di politiche sociali che ne derivarono plasmarono in profondità
l’esperienza portoricana e italiana a New York e i modi in cui le due comunità si
rapportarono reciprocamente. Un esempio specifico riguarda l’edilizia sociale,
nell’ambito della quale la visita di Le Corbusier a New York nel 1935 fu molto
influente nel seguente sviluppo architettonico dell’edilizia popolare, di cui East
Harlem rappresentò il più importante laboratorio del Nord America.
Nella discussione dell’Atlantico nero operato dalla mia ricerca devono
ovviamente trovare posto la peculiare storia dello schiavismo a Porto Rico,
l’alto grado di intermatrimonialità che favorì la costruzione ideologica di
un’immaginaria assenza del razzismo nell’isola, lo shock socio-culturale provocato dall’esperienza del razzismo a New York, in particolare nella relazione
triangolare con gli afro­
americani, e l’eccezionale valenza del retaggio culturale africano, soprattutto per quanto riguarda la musica e il ballo, nel pla­
smare l’esperienza diasporica portoricana. Ma un legame significativo connette
l’esperienza di razzializzazio­ne di portoricani e italiani anche prima del loro
incontro-scontro a New York e risiede nella formazione delle rispettive identità imperiali prima e post-imperiali poi. Come parte del processo di nation
building italiano, i meridionali vennero razzializzati, anche dall’antropologia
scientifica, come appartenenti a una razza degenerata dai significativi apporti
levantini e africani. Non solo questo retaggio di “comprovata” inferiorità dettò
i termini delle relazioni degli italiani con i gruppi di migranti di colore a New
York (con il terrore dell’identificazione), ma fu incorporato nel dibattito sulla
restrizione dell’immigrazione che portò all’introduzione della legge del 1924.
Infatti, come ha spiegato Jacobson (2000) nel suo libro Barbarian Virtues, il
problema dell’immigrazione interna e il pro­blema delle popolazioni colonizzate in Asia e Centro America (entrambe razzial­mente “inferiori”) costituivano
due temi inseparabili della tensione tra costruzione nazionale e imperialismo
che occupò gran parte del dibattito pubblico americano tra fine Ottocento e
48
inizio Novecento.
Posso solo accennare a come la costruzione relazionale dell’identità razziale
tra portoricani e italiani sia stata plasmata da dimensioni transatlantiche diverse
come l’incontro tra religiosità popolare cattolica e santeria e dall’influenza del
fascismo e del colonialismo italiano in Africa, in risposta ai quali a metà degli
anni Trenta si scatenarono violente rivolte nel cuore di Harlem.
Analoghi incroci e successioni si possono individuare per quanto riguarda l’Atlantico rosso – ribelle, egualitario e proletario. La comune esperienza
di dominazione imperiale crea un filo rosso tra le rivolte degli indiani Tainos
e degli schiavi africani a Puerto Rico e le rivolte per il pane nell’Italia meridio­
nale. Dalla fine dell’Ottocento, l’anarchismo, il marxismo e infine il leninismo si
sovrapposero coerentemente al ribellismo rurale e coloniale preindustriale in
entrambe le esperienze migratorie, talvolta combinandosi con il nazionalismo
diasporico. Il movimento indipendentista portoricano, in particolare, sposò
tipicamente visioni politiche socialiste. L’esperienza di coalizione interetnica e
interrazziale creata ad Harlem da Vito Marcantonio tra la metà degli anni Trenta
e il 1950 si può assumere a originale punto di confluenza di tradizioni di lunga
data e ampio respiro.
CONCLUSIONE
oncludendo, ritengo che l’incontro/scontro locale che vide protagonisti gli
italiani e i portoricani di New York attorno alla metà del Novecento sia
una “storia atlantica” tra le tante che potrebbero essere narrate e che vada
interpretata con gli strumenti della Storia Atlantica. Il mio obiettivo è di scri­
vere una storia dell’immigrazione negli Stati Uniti che incorpori esplicitamente
metodologie, teorie e risultati della Storia Atlantica, contribuendo così facendo
non solo alla revisione della storia nordamericana dell’immigrazione, ma anche
al proseguimento del recupero della storia ottocentesca e novecentesca negli
studi atlantici.
C
NOTE:
1. Questo terzo punto non può essere sviluppato in questa relazione, ma sarà
parte integrante della ricerca che qui viene esposta.
2. Il Partito Democratico Popolare di Luis Muñoz Marín, fondato nel 1938 su
una piattaforma di opposizione agli interessi dell’industria dello zucchero,
vinse le lezioni locali nel 1940, e con capitali e incentivi americani dopo
la guerra lanciò un programma di riconversione industriale incentrata sui
prodotti di consumo (vestiti, scarpe, elettrodomestici, ecc.) Il problema della
forza lavoro rurale e urbana eccedente fu gestito attraverso l’emigrazione.
49
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Zipp S., Manhattan Projects: The Rise and Fall of Urban Renewal in Cold War
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50
“Fatti e idee”:
Le trasformazioni del mondo
atlantico e la “disputa del
Nuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX)
MARIA MATILDE BENZONI (Università degli Studi di Milano)
I
l contributo riprende e sviluppa temi e motivi presentati a Torino il 23 novembre 2012 nell’ambito del seminario “Storia atlantica e storia transatlantica: periodizzazioni, confini e concettualizzazioni tra modernistica e contemporanei­
stica.” Ringrazio gli organizzatori per l’occasione, e i colleghi convenuti a Torino
per le osservazioni e le critiche, che hanno costituito uno stimolo prezioso nella
stesura di questo scritto.
I. IL MONDO ATLANTICO E IL DIBATTITO SUL NUOVO MONDO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA
a “disputa del Nuovo Mondo”, trasformata in anni ormai lontani da Antonello Gerbi in un oggetto storiografico a tutto tondo,1 non nasce affatto nel
Settecento. Sin dai primi viaggi colombiani, com’è ben noto, sullo sfondo della
graduale e frastagliata formazione di un mondo atlantico all’interno del quale
circolano intensamente, e nel segno di un’evidente asimmetria a favore degli
Europei, uomini, beni, idee, modi di sentire, il problema dello statuto, spaziale
e antropologico, delle Americhe e del destino dell’espansione verso Occidente
si impone agli uomini del tempo, alimentando la formazione di un ricco corpus
di immagini, giudizi e pregiudizi ora a favore ora contro il “nuovo continente”
e gli insediamenti coloniali in quelle regioni.2
La vocazione atlantica della nascente Europa moderna,3 segnata dalla frattura in seno al Cristianesimo latino, e da un antagonismo nei confronti delle
aspirazioni egemoniche degli Asburgo di Spagna destinato ad assumere una
proiezione virtualmente planetaria all’epoca dell’unione delle corone iberiche
(1580–1640), favorisce la formazione di due vere e proprie cornici ideologiche,
convenzionalmente denominate leyenda rosa e leyenda negra.4 Due “imma­
gini-guida”, le possiamo anche definire, che si strutturano a partire da una
L
51
lettura di segno opposto, e orientato sul piano confessionale, delle esperienze
e delle fonti a disposizione sul Nuovo Mondo. Così, la meraviglia e la ripulsa,
gli interessi concreti e le aspirazioni politico-economiche, l’imperialismo culturale e lo slancio religioso del mosaico di attori operante al di qua e al di là
dell’Atlantico che alimenta simile circolazione di notizie e saperi si sarebbero
tradotti ora nella tenace rivendicazione dei “giusti titoli” della conquista spa­
gnola e del carattere provvidenziale della scoperta del Nuovo Mondo, assurto,
grazie alla missione evangelizzatrice, a nuova frontiera di un cattolicesimo in
ripiegamento in Europa. Ora, invece, nel suo ancipite contrario.5
Attraverso la traduzione nei principali idiomi europei della Brevísima re­
lación de la destrucción de las Indias di Bartolomé de las Casas, e la campagna
iconografica che accompagna la versione in latino del testo indirizzato dal domenicano al re di Spagna perché ponga fine alle violenze dei suoi indegni
vassalli, apparsa a Francoforte nel 1598 (Casas 1598), la conquista castigliana
si staglia agli occhi degli ambienti espansionistici e dei lettori lato sensu prote­
stanti come la “guerra ingiusta” per antonomasia: impresa disordinata, arbitraria e predatoria, condotta da individui che Las Casas ha a suo tempo paragonato a tigri e leoni, rei dei peggiori atti di crudeltà nei confronti di un mondo
indigeno che, a causa della ricezione “letterale” della fonte lascasiana, e della
sua fortunatissima resa iconografica, viene cristallizzandosi nell’immaginario
dell’Europa ostile agli Asburgo di Spagna nel segno del tutto prevalente del
primitivismo.
Non sorprende così che nelle regioni europee gravitanti nell’orbita ispanocattolica la Brevísima relación di Las Casas, inopinatamente trasformatasi, grazie all’edizione a stampa sivigliana del 1552 (Casas 1552) e alle traduzioni, nella
fonte par excellence della leyenda negra, venga accolta con sospetto, e data alle
stampe solo in congiunture politico-internazionali del tutto eccezionali.6 Né
sorprende l’adesione alla leyenda rosa da parte delle società di antico regime
del mondo ispano-cattolico, in Europa e nel Nuovo Mondo. Un’adesione che
bisogna sempre decostruire, per coglierne la fisionomia specifica in relazione
ai contesti storici e socio-etnici, ma che comincia a essere messa in discussione
soltanto fra Sette e Ottocento, al momento della frattura, psicologica e politica, che attraversa il mondo atlantico all’epoca delle riforme, delle rivoluzioni
{
La vocazione atlantica della nascente
Europa moderna favorisce la forma­
zione di due vere cornici ideologiche,
la leyenda rosa e la leyenda negra
52
}
e delle indipendenze.7
Proprio in quel frangente di tumultuoso cambiamento, e di conseguente
spettacolare intensificazione della circolazione atlantica di notizie, idee, modelli
politico-economici e culturali alternativi, si registra a ben vedere la prima effettiva diffusione nel mondo ispano-cattolico, europeo e americano, della leyenda
negra. All’epoca delle Cortes di Cadice, e in prossimità della frantumazione
dell’America spagnola in un mosaico di nuovi soggetti politici, sarebbero stati
in particolare i più accesi fautori dell’Indipendenza a ricorrere, non diversamente dai “ribelli” delle Province unite e dagli antagonisti degli Asburgo di
Spagna nella prima età moderna, alla Brevísima relación di Las Casas.
Quanto agli ambienti espansionistici francesi, e soprattutto inglesi, nel
Cinque-Seicento la leyenda negra esercita una considerevole influenza nel le­
gittimare i processi di inserimento nel mondo atlantico e nelle terre americane di esploratori, mercanti e coloni. Una legittimazione che si fonda sulla
programmatica condanna dei “metodi” della conquista spagnola icasticamente
denunciati da Las Casas, e sulla rivendicazione, in alternativa, della centralità del
diritto di vera occupazione e di “messa a coltura” di terre considerate vergini
in quanto “deserte”,9 vale a dire non stabilmente abitate da popolazioni native
la cui immagine tende così a prendere forma nel segno prevalente, ancorché
ancipite, del “selvaggio”.10
Nonostante la vocazione missionaria degli ordini religiosi attivi nella Nuo­
va Francia, e l’interesse suscitato dalla loro letteratura etnografico-edificante
nelle culture europee coeve, né nell’America francese né, com’è più ovvio, nel
mondo angloamericano, vengono intraprese campagne di evangelizzazione e
di acculturazione paragonabili a quelle condotte sin dal primo Cinquecento dai
religiosi al servizio della Corona spagnola. Campagne che, certo anche per le
caratteristiche socio-culturali prevalenti nelle popolazioni native11 delle regioni
soggette al dominio spagnolo, promuovono il radicamento della leyenda rosa
nel mondo amerindiano coloniale.
Grazie alla cooptazione delle élites native, al disciplinamento, alla pedagogia per immagini , e al riconoscimento, almeno sulla carta,12 della costumbre
nel derecho indiano, l’adesione al cattolicesimo-romano e il lealismo verso il re
lontano del mondo indigeno avrebbero così retto alla prova dei secoli. E ciò a
dispetto di crisi spettacolari come la rivolta di Túpac Amaru II alla fine del diciottesimo secolo.
Nel corso della prima età moderna il carattere schiettamente multietnico e
multiculturale dei processi di formazione storica delle Americhe favorisce ovviamente l’allignare, certo con tempi e forme profondamente distinti a seconda
dei diversi contesti, di un sentimento di “americanità”13 in cui si esprime, nei
modi più cangianti, la valorizzazione della specificità del mosaico di esperienze
53
che stanno mettendo radici nel nuovo continente.
Pur nel quadro del crescente maturare di simili identità locali, che si riverberano in un ricco corpus di fonti ormai da tempo al centro dell’attenzione della
storiografia, dell’antropologia storica e della storia dell’arte,14 fino al Settecento il dibattito sul Nuovo Mondo sarebbe tuttavia rimasto prevalentemente
espressione, in Europa, dello sforzo di integrare la nuova realtà americana
all’interno delle proprie coordinate intellettuali, della propria imago mundi, dei
propri modelli politico-ideologici e religiosi. Al di là dell’Oceano, tale dibattito
avrebbe invece teso a dare voce alle peculiarità sempre distinte di ambienti
in cui la tensione verso l’occidentalizzazione del mondo amerindiano, e di un
multietnico contesto coloniale in cui coesistono Nativi, Europei e Africani, si
intreccia, certo, ancora una volta in forme e con intensità sempre diverse, con
l’americanizzazione dei saperi e delle pratiche europei: dalla condotta della
guerra alla diplomazia, dalla demografia al diritto, dalla politica all’economia,
Illustrazione della Brevísima relación di Las Casas realizzata da Theodor de Bry (XVI sec.) che mostra
la supposta brutalità degli spagnoli nei confronti dei nativi americani.
54
dalla religione alle lingue, dall’urbanistica alle arti.
II. IL RIORIENTAMENTO EUROCENTRICO DEL MONDO ATLANTICO
NEL XVIII SECOLO E LE ORIGINI DELLA “DISPUTA DEL NUOVO MONDO”
el corso del Settecento, sullo sfondo di una sostanziale intensificazione
dei legami atlantici, il dibattito sul Nuovo Mondo evocato nelle pagine
precedenti si trasforma gradualmente, ma non meno irreversibilmente, in un
serrato contraddittorio dal respiro intercontinentale. Un confronto che vede
schierati, “gli uni contro gli altri armati”, i detrattori e gli apologeti dell’America:
gli europeisti e gli americanisti, si potrebbe anche dire, con tutte le loro va­
rianti, legate ai diversi contesti politico-culturali e alle differenti congiunture
internazionali.
Depotenziato l’antagonismo più schiettamente confessionale tipico delle
cornici ideologiche della leyenda rosa e della leyenda negra, che durante la
prima età moderna hanno svolto efficacemente la loro funzione di “immagini-guida”, a farsi strada nel diciottesimo secolo è in effetti una nuova visione
dei rapporti che uniscono l’Europa al Nuovo Mondo e dell’America tout court.
Una visione che, pur affondando le sue radici nel dibattito delineatosi a partire
dall’epoca di Colombo, tende ad assumere un registro per molti versi inedito
rispetto al passato,15 ispirato, al di qua dell’Atlantico, dalla volontà di sistema­
tizzare secondo un principio di razionalità il patrimonio americanistico della
prima età moderna.
Simile mutamento culturale non avrebbe tardato a sollecitare le reazioni
degli americani. Al di là dell’Atlantico, a consolidarsi è così nel corso del secolo
un senso di appartenenza che potremmo definire a un tempo locale ed emi­
sferico (cfr. Bauer 2009), che matura grazie alla sempre più consapevole valorizzazione della specificità dell’esperienza americana in seno al mondo atlantico.
Nel suo costante intrecciarsi con le trasformazioni geopolitiche e politico-istituzionali che attraversano tale spazio intercontinentale nel diciottesimo
secolo, il confronto sul Nuovo Mondo contribuisce da un lato alla maturazione
del paradigma eurocentrico, con la sua visione geometrizzante e progressiva
della storia del genere umano, e dall’altro all’emergere di un americanismo
dai contenuti politici e “nazionali”. Un americanismo che attinge a piene mani
alle culture atlantiche, rivendicando tuttavia in chiave ormai apertamente antieurocentrica le potenzialità dell’emisfero americano, della sua natura, della sua
storia, del suo avvenire.16
L’inasprirsi dei toni del dibattito settecentesco sul Nuovo Mondo fino alla
sua trasformazione in una vera e propria disputa atlantica, pronta da allora a
riaccendersi ogniqualvolta le circostanze storiche sollecitino le sensibilità e le
N
55
culture politico-ideologiche dei diversi attori del mondo occidentale,17 non si
esaurisce insomma in un fenomeno erudito o in un capitolo di una storia delle
idee isolata dal contesto in cui simili rappresentazioni maturano e si trasformano.
Anche se è ovvio che le immagini tendono via via a cristallizzarsi, assumendo vita propria, e diventando per questa via importanti e autonome componenti dell’esperienza storica,18 è indubbio che le concezioni, le ossessioni, gli
stereotipi della “Disputa del Nuovo Mondo”, di cui Gerbi ci ha restituito un insuperato profilo e le molteplici genealogie atlantiche, emergano nel Settecento
nell’ambito di un sostanziale cambio di passo nei rapporti fra l’Europa e le
Americhe. Un mutamento di cui si avvertono le avvisaglie sin dalla Guerra di
successione spagnola (1701–1713/1714).
Virtualmente “mondiale”, per i teatri e gli interessi in gioco, questo lungo
conflitto non sancisce soltanto il tramonto della Spagna imperiale, e la conseguente trasformazione della leyenda negra dell’espansione castigliana nel
Nuovo Mondo da strumento propagandistico a patrimonio più schiettamente
storiografico, la cui influenza a livello europeo, americano e poi globale è avvertibile fino ai giorni nostri.19 Le clausole in materia economico-commerciale
contenute nella Pace di Utrecht portano in effetti anche a una prima apertura
“legale” dell’impero spagnolo, con l’effetto di intensificare nei decenni successivi la competizione atlantica del sistema degli Stati europei.
Che al centro dell’agenda delle metropoli del Vecchio Mondo sin dalla prima metà del Settecento cominci a stagliarsi il problema della sicurezza dei territori d’oltremare, dei monopoli commerciali e dei confini fra i rispettivi imperi
americani non è insomma sorprendente. Anche se va osservato che, fino alla
fine della Guerra dei sette anni, la volontà europea di affermare il principio
dell’autorità metropolitana non travalica di norma i limiti di tolleranza del tradizionale “ostruzionismo” coloniale, icasticamente riassunto, con riferimento al
caso ispanoamericano, nell’adagio “la ley se acata, pero no se cumple”.
Per quanto il dibattito sulla riforma dei patti coloniali si manifesti prima che
la Guerra dei sette anni sovverta la geopolitica del Nord America, proiettando al
tempo stesso la competizione interna al sistema degli Stati europei a livello globale, è tuttavia soltanto a partire dal 1763 che il tema tende a trasformarsi in un
assunto improrogabile per metropoli europee:20 in primis Londra e Madrid, che
vi si accingono sull’onda della necessità di tutelare i propri (antichi o giovanissimi) imperi, lungo i filoni, intrecciati, della difesa dei territori e dei mezzi finanziari per sostenerla,21 della riorganizzazione della geografia amministrativa22 e
della “modernizzazione” istituzionale ed economica delle sempre più variegate
società americane. Società che, da parte loro, cominciano a prendere posizione
nei confronti delle politiche poste in essere dopo il 1763, rivendicando il peso
56
dei propri interessi americani e accingendosi alla formulazione di strategie di
autolegittimazione in nome della rappresentanza, dell’autonomismo, del ribellismo, dell’indipendentismo, e naturalmente anche del lealismo delle Americhe
verso l’Europa. Si tratta di un processo che catalizza non solo la circolazione
delle idee su scala atlantica, ma anche la rielaborazione delle culture atlantiche
in chiave sempre più schiettamente americana.23
Nel quadro della riconfigurazione geopolitica indotta dalla Guerra dei sette
anni, e dell’urgenza di un nuovo stile nelle relazioni con i territori d’oltremare
che ne deriva, il plurisecolare confronto, ideologico e intellettuale, intorno
alle “Indie” tende così ad assumere il profilo di un’infuocata polemica ricca di
implicazioni lato sensu politiche. A confermarlo, è la stretta contiguità cronologica fra l’avvio dei progetti di riforma “post-1763” nell’America britannica e
nell’America spagnola e la fioritura di un’ampia produzione editoriale sul Nuovo
Mondo nella quale, fra eulogia e denigrazione, i registri della scienza, della storiografia, delle nascenti discipline socio-economiche si intrecciano con quelli
dell’ideologia, dell’utopia, dell’esotismo, della filantropia, dell’abolizionismo.
Si pensi in simile prospettiva al ruolo assunto in seno alla “Disputa del
Nuovo Mondo” dai Gesuiti espulsi nel 1767 dall’America spagnola. Il provvedi-
L’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767).
57
mento di Carlo III, una delle espressioni più compiute del regalismo borbonico,
non soltanto suscita reazioni, anche molto violente, nei territori ispanoamericani, ove i religiosi della Compagnia esercitano per tradizione un’influenza profonda, configurandosi da secoli come la punta di diamante degli ambienti intellettuali locali e come i promotori di una strategica attività missionaria lungo
le frontiere dell’impero spagnolo.
Com’è ben noto, dal loro esilio italiano, i membri delle province ispanoamericane dell’ordine non avrebbero tardato a costituire anche un pugnace
partito “americanista”, pronto a intervenire con autorevolezza, e sulla base della sicura conoscenza delle posizioni ideologiche e storiografiche dei propri avversari, nella “Disputa del Nuovo Mondo”,24 il cui casus belli è legato all’uscita
nel 1768, a ridosso dell’espulsione dei Gesuiti dall’America spagnola e mentre
il patto coloniale angloamericano versa ormai in crisi, delle Recherches sur les
Américains di Cornelius de Pauw (1768).25
Significativamente sottotitolate Mémoires intéressants pour servir à l’histoire
de l’espèce humaine, a conferma della tendenza da parte degli intellettuali europei del secondo Settecento ad accostare l’America attraverso il serrato confronto, ora erudito ora peregrino, con le altre parti del mondo,26 la corposa sintesi di de Pauw deve per molti versi la sua fortuna proprio a simile congiuntura
atlantica.
Pedante più che dotto, provocatorio più che penetrante, il testo si presenta con sicurezza al pubblico europeo come un trattato scientifico, costruito
a partire da una rilettura “raisonnable” delle fonti americanistiche sedimentate
nel corso della prima età moderna. Fonti di cui de Pauw denuncia con severità
la (presunta) inattendibilità.27 Guidato da un geometrizzante quanto libresco
eurocentrismo, il philosophe considera simili documenti partigiani, inaffidabili e prodotto di un “entusiasmo” di fronte alla “scoperta” delle Americhe che
avrebbe, a suo dire, ottenebrato per secoli la capacità di giudizio di viaggiatori,
esploratori, colonizzatori, missionari, scienziati e trattatisti.28
Sprezzante nei confronti della consistenza dei saperi americanistici, e indifferente di fronte all’esistenza al di là dell’Oceano di società coloniali forgiate da
una plurisecolare esperienza diretta del Nuovo Mondo, i cui componenti più
engagés non avrebbero infatti tardato a rispondergli “a tono”, de Pauw apre
il suo Discours préliminaire, presentando gli abitanti nativi del Nuovo Mondo
come i protagonisti del “chapitre le plus curieux, & moins connu de l’Histoire
de l’Homme” (de Pauw 1768, III). Un ritratto che accentua la distanza fra le due
sponde dell’Atlantico, proiettando su tutti gli americani (aborigeni e non) un
giudizio negativo, nel segno, inappellabile, dell’inferiorità, della degenerazione
e della subordinazione rispetto a quell’Europa che, all’alba della modernità, ha,
parole di de Pauw, che attinge ampiamente alla Brevísima relación di Las Casas,
58
vinto, soggiogato, e come inghiottito, il Nuovo Mondo.
Il philosophe difende lungo tutta la trattazione simile giudizio, ispirato alla
“superiorité de l’Europe” nei confronti dei popoli che europei non sono. Un giu­
dizio che sottende tuttavia anche una sorta di ostilità verso il coevo dilatarsi
su scala planetaria delle aspirazioni espansionistiche del Vecchio Mondo. “Si
la génie de la désolation & des torrents de sang, précèdent toujours nos con­
quérants, n’achetons pas l’éclaircissement des quelques point de géographie, par
la destruction d’une partie du globe, ne massacrons pas les Papous, pour con­
noître au Thermomètre de Réamur, le climat de la Nouvelle Guinée” (de Pauw
1768, VII), osserva infatti de Pauw. “Si ceux qui prêchent la vertu chez les nations
policées, sont trop vicieux eux-mêmes, pour instruire des sauvages sans les tyran­
niser, laissons végéter ces sauvages en paix, plaignons-les, si leurs maux surpas­
sent les nôtres, & si nous ne pouvons contribuer à leur bonheur, n’augmentons
pas leurs misères” (de Pauw 1768, VIII), aggiunge poco più avanti, dando voce
a una vena di anticolonialismo.
Nelle pagine conclusive dell’apologia, allegata alla nuova edizione berlinese del 1770, in risposta alle prime reazioni critiche nei confronti delle Recher­
ches emerse negli ambienti intellettuali europei,29 de Pauw avrebbe ribadito
proprio sulla base degli esiti della conquista e della colonizzazione del Nuovo
Mondo, e di un confronto fra i (presunti) livelli di civiltà raggiunti lungo le due
sponde dell’Atlantico, la superiorità a tutto tondo dell’Europa: “L’Europe a con­
quise l’Amérique, & elle la tient sous le joug avec autant de facilité que l’Empire
romain tenait la Corse ou la Sardigne”, afferma perentorio (de Pauw 1768, 227).
La sicurezza del dotto olandese colpisce lo studioso di oggi. Non solo de
Pauw sembra indifferente nei confronti della complessità geografica ed etnicoculturale del mosaico degli insediamenti americani, che annoverano al loro
interno gli immensi imperi iberici, i ricchi Caraibi francesi, le enclaves olandesi,
il “nuovo” impero britannico, le grandi frontiere indiane nel Nord e nel Sud del
continente. A ben vedere, egli pare altresì indifferente verso gli elementi di crisi
evidenti nel mondo atlantico coevo.
La miopia del philosophe è però sorprendente solo fino a un certo punto.
Per un intellettuale eurocentrico, nello sguardo e nei valori, come de Pauw,
l’America degli anni Sessanta del diciottesimo secolo si configura in effetti
soltanto come una delle parti del mondo verso il quale si indirizza lo slancio espansivo ormai virtualmente planetario dell’Europa-civilisation. “Si à tout-
{
La Guerra dei sette anni segna l’inizio
di un profondo riorientamento dei
rapporti tra l’Europa e il Mondo
59
}
cela”, osserva, con riferimento al dominio europeo nelle Americhe, “on ajoute
les conquêtes que les Européens ont faites en Afrique, en Asie, & au centre même
de ce formidable empire du Mogol, alors il faut bien supposer que ces Européens
surpassent autant les autres nations du Monde pour leur bravoure qu’ils les sur­
passent par leur connaissances dans les arts & dans les sciences. L’Europe est
le seul pays dans l’Univers où on trouve des Physiciens et des Astronomes” (de
Pauw 1768, 227).
Generatrice dell’avvio di una crisi che nell’arco di tredici anni avrebbe determinato lo spettacolare scioglimento dei legami politici fra le colonie britanniche del Nord America30 e l’Inghilterra, aprendo la strada a una stagione
rivoluzionaria per il mondo atlantico coronata dalla frantumazione delle “Indie”
spagnole nel primo Ottocento,31 la Guerra dei sette anni segna altresì l’inizio,
certo solo l’inizio, di un profondo riorientamento dei rapporti Europa-Mondo.
Un riorientamento eurocentrico, del tutto aurorale nel secondo Settecento, e
cionondimeno tangibile nel nuovo slancio delle spedizioni nel Pacifico e in
Oceania, e nelle prime avvisaglie del modificarsi dello stile di relazione degli
Europei con i grandi attori politici asiatici: dall’Impero Ottomano alla Cina sino
al Giappone dei Tokugawa,32 il cui regolato sistema di rapporti con l’esterno
comincia a incrinarsi di fronte all’intensificazione dell’attivismo nel Pacifico
orien­tale di nuovi attori “europei”: in primis la Russia.33
La dimensione ormai planetaria in cui si esplica la competizione fra le principali potenze europee, e l’incremento delle conoscenze geografiche ed etnografiche relative ai diversi continenti,34 contribuiscono al tempo stesso ad
accreditare, come conferma il registro adottato da de Pauw nelle sue Recher­
ches, nelle culture atlantiche del secondo Settecento un’immagine che abbiamo già definito emisferica dell’America, toponimo di origine umanistica che
entra nell’uso proprio in questo periodo.35 Un’immagine, nel caso di de Pauw
sostanzialmente negativa, al cui interno si fa strada una rappresentazione del
genere umano fondata sul criterio, così ricco di ambivalenze al di qua e al di là
dell’Atlantico, di “razza”.36
Dato un simile contesto internazionale, si può comprendere perché dopo
il 1763 il mondo atlantico cominci a configurarsi agli occhi degli europei
dell’epoca come uno dei molteplici teatri mondiali ove si registra l’espansione
del Vecchio continente. Il che non toglie che si tratti del più vicino e significativo, per il respiro storico, politico-economico, religioso e culturale assunto nel
corso di oltre due secoli dai rapporti Europa-Americhe.
60
III. DALLE RIFORME ALLE INDIPENDENZE: PROSPETTIVE LOCALI,
DIMENSIONI CONTINENTALI E ORIZZONTI GLOBALI NEL MONDO
A­T LANTICO.
immagine depauwiana dell’America non tarda a surriscaldare la “Disputa
del Nuovo Mondo”. Sullo sfondo vi è l’escalation che, dalla crisi del patto
coloniale angloamericano, attraverso la Dichiarazione di indipendenza, porta
da un lato alla vittoria delle Tredici colonie e alla formazione del primo attore
politico indipendente oltreoceano.37 E dall’altro, all’accelerazione delle riforme
in materia militare, amministrativa, commerciale ed economica nell’America
spagnola, che, di fronte alla crisi britannica, dilata le sue frontiere settentrionali
e meridionali.
De Pauw, lo abbiamo già sottolineato, ha costruito la sua rappresentazione
del Nuovo Mondo, una rappresentazione dal respiro (pseudo)scientifico e geometrizzante, passando al vaglio di un razionalismo deduttivo il ricco corpus
di informazioni confluito nei secoli precedenti entro le due cornici ideologiche
contrapposte della leyenda rosa e della leyenda negra, e le osservazioni raccolte nel corso del Settecento dagli esploratori e navigatori al servizio delle
grandi potenze europee.
La svalutazione da parte del philosophe dell’esperienza americana e delle
tradizioni americanistiche della prima
età moderna, e la tendenza a esami­
nare le forme di organizzazione sociopolitica e culturale del genere umano
a livello planetario, favoriscono, come
pure già si è osservato, una sempre
più netta distinzione fra i continenti e i loro abitanti nonché una loro
tendenziale gerarchizzazione sulla
base di un etnocentrico “standard
di civiltà” modellato sull’esperienza
dell’Europa del Settecento.38 Con il
risultato di trasformare le Americhe
in un emisfero di cui, ora nel solco di
de Pauw ora contro le posizioni del
philosophe, gli intellettuali, i polemisti
e i poligrafi europei dell’epoca, spettatori a distanza dei processi di rio­
rientamento eurocentrico in corso nel
mondo atlantico e sul piano globale,
tendono a sottolineare la primordia­
L’
61
lità della natura, l’“autoctonia” degli abitanti, nativi e creoli, le prospettive e i
limiti delle diverse esperienze coloniali.
De Pauw e i suoi epigoni europei avrebbero pagato a caro prezzo la propensione a estendere, in ragione di un apodittico determinismo climatico, anche ai
creoli americani l’accusa di degenerazione e incapacità affibbiata agli Amerindi
e alla storia “precolombiana”. Per il loro carattere tranchant, le Recherches non
tardano in effetti a diventare oggetto di confutazioni destinate a incidere sul
palinsesto della “Disputa del Nuovo Mondo” e a costituire l’humus di altrettanti
topoi della nascente retorica americanistica anti-eurocentrica.
In simile prospettiva, la History of America di Robertson (1777), la Storia
antica del Messico dell’ex-gesuita Clavijero (1780–1781) e le Notes on Virginia
di Thomas Jefferson (1781–1782) offrono un ampio ventaglio di temi e motivi,
destinati a orientare le mutue percezioni euro-americane e interamericane dei
decenni e del secolo a venire.
Guidato da un atteggiamento di viva prudenza nei confronti del dirompere
della Guerra d’indipendenza angloamericana, lo scozzese Robertson presenta
l’America come un continente, descrivendone il profilo naturale e storico-antropologico a partire da una nozione schiettamente eurocentrica di refinement in
cui si avverte l’eco dell’immagine depauwiana di un emisfero caratterizzato da
una natura troppo spesso inospite, appena scalfita dall’azione dell’uomo, e di
una visione, per quanto residuale, “alla las Casas” della conquista. Robertson
tende altresì, nel solco di de Pauw, a minimizzare il rilievo delle fonti native,
preispaniche e coloniali.40 Una valutazione che Clavijero non avrebbe mancato
di rimproveragli aspramente.
La History of America si fa così veicolo di un’idea di una modernità europea dal respiro intrinsecamente atlantico, conferendo all’espansione castigliana il carattere di primo, pionieristico ancorché “arcaico”, capitolo di una
storia a­tlantica che nasce e si struttura attraverso l’espansione europea verso il
Nuovo Mondo.
Pur essendo pronti a riconoscere il valore, di metodo e di contenuto,
dell’opera di Robertson, che ha significativamente riabilitato le fonti spagnole
della prima età moderna, sottraendole alla condanna della leyenda negra e
alla svalutazione di de Pauw, i “creoli”, tanto nel mondo ispanofono quanto in
quello angloamericano, non sono invece disposti a condividere le perplessità,
di matrice depauwiana, dell’autore verso la natura del continente americano
e le qualità antropologiche e culturali delle popolazioni, delle società e delle
civiltà che in esso, lungo la linea del tempo, hanno messo radici.41
Al di là del suo fine più schiettamente storiografico, l’opera di Clavijero va
considerata pertanto come una risposta dal forte portato “avvocatesco” alle accuse mosse da de Pauw al mondo “precolombiano” e accolte, sia pure in misura
62
assai minore, da Robertson. Diversamente da Thomas Jefferson, che trasforma
per molti versi la Virginia nel cuore di una concezione continentale dei nascenti Stati Uniti, Clavijero tende invece a isolare proprio una regione specifica,
per tradizione e caratteristiche naturali, all’interno di un’America “preispanica”
e coloniale, ch’egli pone cionondimeno sullo stesso piano storico-culturale
dell’Europa e di cui, da messicano, difende con vigore la provvidenziale conversione al cattolicesimo.
Lettore attento degli autori ispanofoni del dibattito primo-moderno sul
Nuovo Mondo e della “Disputa”, anche Jefferson coglie le potenzialità di una
valorizzazione in chiave anti-eurocentrica della storia “antica” del continente
americano (Bauer 2009, passim). A differenza di Clavijero, tuttavia, egli stabilisce contestualmente una netta distinzione fra gli americani nativi e gli americani di origine europea, che diventano i depositari dell’avvenire del nuovo continente.42 E ciò sulla base di una divisione razziale del genere umano che autori
europei come de Pauw tendono invece a collegare all’influenza, più che del
dato biologico, della natura dei diversi continenti sui rispettivi abitanti.
Tanto Clavijero quanto Jefferson hanno composto le loro opere per un
destinatario elettivo: l’Europa del tardo Settecento, sensibile, al di là delle diverse posizioni, all’influenza dell’immagine depauwiana. Un’Europa che assiste,
più o meno attonita, all’Indipendenza degli Stati Uniti, e poi all’irreversibile
trasformazione della Rivoluzione francese in un’imponente questione atlantica
(e invero anche globale, ovviamente dal punto di vista del sistema degli Stati
europei, se si tiene conto della proiezione planetaria assunta dell’antagonismo
anglofrancese).
L’apertura di questo amplissimo fronte di crisi avrebbe in un breve torno di
anni conferito a simili motivi anti-eurocentrici e americanistici una nuova centralità nella rimodulazione delle mutue percezioni tanto in seno ad un mondo
atlantico ove va delineandosi un’irreversibile frattura politica, quanto all’interno
delle stesse nascenti Americhe indipendenti.
Mentre gli Stati Uniti capitalizzano gli effetti della destrutturazione prodotta nel Nord America da tale epocale congiuntura, guadagnando per via diplomatica nel 179543 il diritto di accedere al Golfo del Messico, e acquistando poi,
fra il 1803 e il 1819, la Louisiana e la Florida, primi decisivi tasselli di una espansione continentale della quale avrebbe fatto le spese il Messico indipendente,44
la dimensione tellurica, l’esaltazione del passato indigeno e la (ancipite) tutela
del cattolicesimo si trasformano nei tratti fondatori del nascente americanismo
politico ispanoamericano. Un americanismo, com’è ovvio, ricco di linee di tensione se lo si studia in relazione ai diversi contesti e ai vari momenti, che, cio­
nondimeno, attinge piuttosto unanimemente al discorso della leyenda negra
antispagnola e, almeno sulla carta, ai modelli politici e costituzionali di matrice
63
liberale45 per suggellare la rescissione del legame con la metropoli.
La rottura dei patti coloniali che hanno unito sin dalla prima età mo­
derna i vari territori del continente americano alle rispettive madrepatrie, e la
formazio­ne oltreoceano di un mosaico di nuovi Stati, per lo più, lo si è appena
sottolineato, a regime repubblicano, costituiscono eventi davvero rivoluzionari
nell’ambito della storia del mondo atlantico. E ciò a dispetto della presenza di
evidenti importanti elementi di continuità con il passato: a partire dalla presenza della schiavitù (cfr. Benzoni 2012, 167–186, passim; cfr. anche Benzoni 2008).
Basti esaminare ancora una volta il registro schiettamente “emisferico”
adottato nel celebre discorso di James Monroe del 2 dicembre 1823 e, di lì
a poco, nella Convocatoria per il congresso di Panamá inviata da Bolivar dal
Perù alla fine del 1824. In quel biennio carico di incertezze in relazione alla
condotta delle potenze europee nei confronti delle Indipendenze ispanoamericane, tanto gli USA, memori della recente guerra con l’Inghilterra,46 quanto il
Libertador, attento di fronte al rischio di una possibile revanche di Ferdinando
VII,47 presentano l’America come uno spazio geopolitico autonomo, un continente “repubblicano”, posto a metà strada fra l’Asia e l’Europa, e separato
da quest’ultima da un oceano, l’Atlantico, che nel corso del diciannovesimo
secolo avrebbe tuttavia registrato, proprio in ragione dell’accelerazione dei
processi di americanizzazione delle ex-“colonie” europee,48 una spettacolare
intensificazione dei processi migratori e dei circuiti economici, commerciali e
culturali. E così, nonostante l’isolazionismo degli Stati Uniti, che si trasformano
gradualmente in una repubblica continentale, erede per molti versi dei progetti
di espansione occidentale verso l’Asia coltivati sin dalla prima età moderna
dagli imperi europei nelle Americhe, fino al (1898,49 191450) 1917,51 il mondo
a­tlantico avrebbe continuato a costituire un orizzonte del tutto privilegiato per
l’Europa ottocentesca, che, grazie al temporaneo monopolio della rivoluzione
industriale, comincia a sovvertire a proprio vantaggio gli equilibri mondiali, arrivando a occupare un’enorme porzione delle terre emerse.
La rescissione dei vincoli politici euroamericani, le cui più antiche radici
abbiamo rintracciato negli esiti della Guerra dei sette anni a metà del diciottesimo secolo, segna cionondimeno una frattura non ricomponibile all’interno
del mondo atlantico. Com’è ben noto, appena usciti da una spaventosa guerra
{
La rottura dei patti coloniali e la
formazione oltreoceano di nuovi
Stati sono eventi davvero rivoluzio­
nari nella storia del mondo atlantico
64
}
civile che prefigura i conflitti dell’età industriale, gli Stati Uniti appoggiano con
successo in nome della vocazione emisferica della Dottrina Monroe la resistenza dei repubblicani messicani di fronte al tentativo di rilancio di un progetto
imperiale europeo nel Nuovo Mondo.52 Il che non toglie che, proprio l’ascesa
degli Stati Uniti, favorisca la formazione di un’America “latina”, la quale, soprattutto a partire dal secondo Ottocento, si sarebbe accostata alla civilisation europea, e alla sua tradizione mediterraneo-continentale.
NOTE:
1. Sull’ethos di Gerbi americanista, la genesi e la vicenda editoriale de La di­
sputa del Nuovo Mondo, mi permetto di segnalare Benzoni 2012, 208–222.
Cfr. Perassi e Pino 2009.
2. La bibliografia in argomento è vastissima. Lo studio di J. Cañizares Esguerra
(2007) ricostruisce in modo persuasivo il rapporto fra questa imponente
tradizione americanistica e le nuove epistemologie e pratiche storiografiche del diciottesimo secolo atlantico.
3. I tanti “Atlantici”, avrebbe detto Chaunu, che vengono a comporre il mondo atlantico nel corso dell’età moderna: a partire dall’Atlantico iberico del
quindicesimo secolo, che fa centro negli arcipelaghi, e si articola lungo le
coste occidentali dell’Africa, per poi aprirsi inopinatamente verso Occidente
a partire dal 1492 nel rispetto dei términos del Trattato di Alcáçovas (1479).
4. In merito all’influenza di queste due cornici ideologiche sulle attitudini
americanistiche delle culture europee e atlantiche dell’età moderna, mi
permetto di rinviare ancora a Benzoni 2012, 41–64 e 187–207.
5. Si consideri il celebre incipit della Historia general de las Indias del cronista
spagnolo López de Gómara (1552): “La mayor cosa después de la creación
del mundo, sacando la encarnación y muerte del que lo crió, es el descu­
brimiento de las Indias; y así las llaman Mundo Nuevo”. E lo si confronti con
alcuni dei punti trattati nel non meno celebre Discourse on Western Planting di Hakluyt (1584): “1) That this westerne discoverie will be greately for the
inlargement of the gospell of Christe whereunto the Princes of the refourmed
relligion are chefely bounde amongest whome her Majestie is principall; 2)
That all other englishe Trades are growen beggerly or daungerous, especially
in all the kinge of Spaine his Domynions, where our men are dryven to flinge
their Bibles and prayer Bokes into the sea, and to forsweare and renownce
their relligion and conscience and consequently theyr obedience to her Maj­
estie … 11) That the Spaniardes have executed most outragious and more
then Turkishe cruelties in all the west Indies, whereby they are every where
there, become moste odious unto them, whoe woulde joyne with us or any
65
other moste willingly to shake of their moste intollerable yoke, and have be­
gonne to doo it already in dyvers places where they were Lordes heretofore.”
6. Ben noti i casi della traduzione apparsa a Venezia all’epoca della Guerra dei
trent’anni e dell’edizione catalana del 1646. Per le edizioni della Brevísima
relación nel contesto delle Indipendenze ispanoamericane, v. infra.
7. V. infra.
8. Il contributo dell’esule novoispano Fray Servando Teresa de Mier nella diffusione atlantica del testo lascasiano è ben noto. Cfr. le edizioni in spa­gnolo
di Londra (1812), Filadelfia (1821) e Città del Messico (1822).
9. La declinazione dell’argomento giuridico della “res nullius” da parte inglese
e francese è stato affrontato con finezza da Pagden 2005, 115–173, passim.
10. Fino allo storico tournant della Guerra dei sette anni, gli Amerindi nord­
americani si configurano da parte loro ora come attori subordinati ora
come partners ora come incerti alleati ora, infine, come esterni spettatori
a distanza nell’ambito della complessa trama di relazioni che intercorrono
fra le popolazioni native e i coloni francesi e inglesi. Per un’introduzione
in merito alla formazione storica di un immaginario del nativo nel mondo
coloniale angloamericano, e alle relative ambiguità, funzionali ai rapporti di
forza in essere, si può partire da Jennings 1991.
11. Sugli indios bravos e le relazioni fra gli Spagnoli e il mondo amerindiano
e­sterno al sistema delle “due repubbliche”, si vedano gli studi di David Weber.
12. Sui tempi e le forme dell’occidentalizzazione dell’immaginario nativo, con
riferimento al caso messicano, cfr. l’ormai classico studio Gruzinski 1988.
13. “La denominazione ‘Nuovo Mondo’ deve in fondo la sua più autentica natura proprio all’interazione, spesso catastrofica, di norma violenta e sempre
asimmetrica, fra gruppi umani costretti dalla forze delle cose a lasciarsi alle
spalle un ‘vecchio mondo’, e con esso una più antica visione del mondo,
e a ridefinire le proprie abitudini di vita e i propri valori in un quadro di
segno multiculturale. Le Americhe in età moderna nascono da simile epico
incontro” (Benzoni 2012, 8). Un incontro che coinvolge Amerindi, Europei,
Africani e finanche i primi Asiatici.
14. In simile prospettiva, il contributo di Gruzinski si distingue per lo studio
delle connessioni fra queste esperienze locali e gli orizzonti della mondializzazione e della prima globalizzazione. Per un’introduzione all’itinerario
di ricerca dell’americanista francese, si può vedere ancora Benzoni 2012,
79–94.
15. In merito a questo mutamento, di sensibilità, e di carattere epistemologico,
v. ancora Cañizares Esguerra 2007, passim.
16. Per un’introduzione a proposito di tali temi, si può vedere ancora Benzoni
66
2012, 167–186.
17. Pur nella consapevolezza di rischiare l’anacronismo, si pensi alla retori­
ca che accompagna le stagioni dell’isolazionismo, dell’americanismo,
dell’antiamericanismo nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo.
18. Sempre suggestivo, a questo proposito, il passo che segue, tratto da Canetti
1994: “Una via verso la realtà … passa attraverso le immagini. Non credo
che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta perennemente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane.
Qualcosa scivola via, e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portiamo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È importante però che queste immagini esistano anche al di fuori della persona,
in lui sono anch’esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove
uno possa ritrovarle intatte, e non solo uno di noi, ma chiunque si senta
nell’incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza,
ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma, e la guardiamo
in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra,
anche se qui era stata prefigurata per noi. Ma questa esperienza è ingannevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi. Così si
spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni: nessuno è
stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe dovuto ridestarle”.
19. Dalla manualistica scolastica al “pensare comune”, l’espansione castigliana,
e più in generale l’espansione europea nelle Americhe, tende a essere presentata in chiave “lascasiana”, con la conseguenza di “infantilizzare”, come
a suo tempo acutamente colto da Gerbi, il mondo nativo, che, da parte sua,
viene fatto per molti versi uscire dalla storia e confinato nella categoria di
“vinto”.
20. È quanto suggerisce anche J.M. Fradera, con riferimento al caso spagnolo,
allorquando osserva come “esta modificación de las relaciones de fuerza
entre los paises comprometidos ... que no ha sido nunca explicada como un
todo, así cómo en el interior de las proprias economias y sociedades concerni­
das, es el escenario donde deben emplazarse razonablemente los cambios
internos y externos en el espacio imperial español” (Fradera 2004, 162).
21. La radicale semplificazione del quadro geopolitico del Nord America pone
in effetti la Spagna, traumatizzata dall’occupazione di L’Avana e Manila,
di fronte al problema della tutela del proprio immenso impero americano, che, con l’attribuzione a Madrid della Louisiana occidentale, da un lato
dilata la sua proiezione in Nord America, misurandosi ormai dall’altro su
scala globale con l’Inghilterra, di cui si teme l’attivismo tanto nell’Atlantico
meridionale quanto nel Pacifico.
22. Si pensi a titolo esemplificativo alla Royal Proclamation (1763), e alla lunga
67
visita di José de Gálvez in Nuova Spagna, ove il giurista giunge nel 1765
al fine di elaborare, sulla base di una diretta esperienza americana, un pia­
no organico di riforme. Due decenni dopo, nel 1776 della Dichiarazione
d’Indipendenza americana, sarebbe stata disposta la creazione delle “Pro­
vincias Internas” del Nord America spagnolo e del Vicereame del Río de la
Plata.
23. Cfr. Morelli 2008b. Sulla natura atlantica dell’anti-eurocentrismo degli ambienti coloniali favorevoli all’indipendenza, si può vedere ancora Benzoni
2012, 167–186.
24. Cfr. infra. Interessante il caso del gesuita messicano Torres, e del suo lungo
legame con Monaldo Leopardi, di cui si sta occupando Stefania Triachini.
25. L’opera dell’olandese Cornelius de Pauw (1739–1799), com’è ben noto,
costituisce il fulcro della polifonica ricostruzione di Gerbi, passata a un
ampio vaglio critico nello studio di Cañizares Esguerra 2007.
26. De Pauw è anche autore di articoli per il Supplément dell’Encyclopédie e
delle Recherches sur les Égyptiens et les Chinois (1774), cui avrebbero fatto
seguito le Recherches sur les Grecs, pubblicate nel 1787.
27. “Nos systèmes les plus raisonnables ne peuvent jamais s’enchainer assez ex­
actement entre eux pour former un cercle parfait, qui embrasse l’immensité
des phénomènes: il reste toujours des vides par où les erreurs & les plus
grandes erreurs s’échappent, afin d’avertir sans cesse l’esprit humain de
son impuissance d’accoutumer le Philosophe à douter malgré lui, malgré le
péchant qui l’entraine à décider” (de Pauw 1768, XI–XII).
28. Considerazioni che ricordano, solo fino a un certo punto paradossalmente,
il Muratori de Il cristianesimo felice. Il philosophe denuncia in particolare
a più riprese l’influenza negativa “des contradictions et des observations
vicieuses des voyageurs” (de Pauw 1768, IX) ai fini della costruzione di una
visione autenticamente “scientifica” del Nuovo Mondo. Non meno marcata
risulta la diffidenza, venata di anticlericalismo, di de Pauw nei confronti
della letteratura missionaria. Sulla reazione dei gesuiti spagnoli e ispanoamericani espulsi da Carlo III, v. infra.
29. Il testo contiene anche la nota dissertazione sull’America e gli Americani di
D. Pernety. Sull’autore e il suo ruolo nel “decollo” europeo della “Disputa”,
cfr. Gerbi 2000, 117–147.
30. A eccezione del Canada.
31. Non vanno naturalmente dimenticate le indipendenze di Haiti e del Brasile.
32. Com’è ben noto, diverso è il quadro delle relazioni in seno al subcontinente
indiano.
33. Cfr. Mikhailova e Steele 2008, con particolare riferimento a M. Ikuta, Chang­
ing Japanese-Russian Images in the Edo Period, pp. 11–29.
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34. Con riferimento alla Spagna, cfr. De Vos 2007.
35. “Si ricorda che la denominazione ‘Indie’, forgiata in evidente dipendenza
dall’obiettivo di fondo del viaggio di Colombo – il raggiungimento cioè
dei ricchi mercati asiatici e l’apertura di relazioni politico-diplomatiche in
funzio­ne antimusulmana con le potenze orientali, in primis il vagheggiato Gran Khan di Marco Polo, s’impone nell’uso delle diverse lingue volgari sino al diciottesimo secolo. Nel Settecento, nel quadro delle profonde
trasformazioni che inve-stono il mondo atlantico, comincia a prevalere
l’adozione del toponimo umanistico America, a segnare, sul piano lessicale, l’acquisita autonomia di tale grande spazio. Lungo l’età moderna, si
è fatto ampio ricorso anche alla denominazione ‘Nuovo Mondo’, a sottoli­
neare la peculiare natura del territorio, sconosciuto agli Europei fino alla
fine del Quattrocento, ‘altro’ per civiltà e cultura rispetto al canone della
Christianitas latina eppure, al tempo stesso, orizzonte principe delle prime
esperienze di globalizzazione di quel medesimo canone proprio a partire
dal sedicesimo secolo” (Benzoni 2012, 44 [nota]).
36. Per una panoramica in merito alla circolazione atlantica di questi temi e alla
loro declinazione locale, cfr. Morelli 2008a. Per un confronto fra America
spagnola e mondo angloamericano in merito ai concetti di emisfero e di
razza, vedi anche Drake 2004.
37. Non dobbiamo dimenticare che indipendenti sono ancora anche ampi settori del mondo amerindiano, per i quali, con il “senno di poi”, le indipendenze americane si configurano, nel Nord e nel Sud America, come la svolta
che prelude al all’etnocidio, al genocidio, al dominio e all’alienazione.
38. Dell’Europa “atlantica”, si potrebbe aggiungere.
39. La vicenda editoriale delle Notes on Virginia, pubblicate per la prima volta a
Parigi nel 1785, è particolarmente complessa. Per un quadro della maturazione del testo, cfr. la nuova edizione postuma del 1853 le cui dimensioni
riflettono il maturare della vocazione “emisferica” di Jefferson. V. ancora
Bauer 2009.
40. Su questo punto, si può vedere Benzoni 2012, 187–207, passim.
41. Stimolante, per la prospettiva interamericana, il già citato contributo di
Bauer 2009.
42. Come è stato osservato, fra Sette e Ottocento, nel mondo angloamericano, il criterio razziale comincia a configurarsi come “a particularly colonial
(Creole) rather then imperial (European) razionalization of difference” (Bauer
2009, 75).
43. Con il Trattato di San Lorenzo, noto negli USA come Pinckney Treaty.
44. Coprotagonista suo malgrado, con i nativi americani, nell’ambito della
costruzione della retorica etnocentrica del “Destino manifesto”.
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45. In questo quadro, è fondamentale l’influenza della costituzione “confessionale” di Cadice del 1812.
46. Le profonde trasformazioni geopolitiche, e nelle relazioni fra “euroamericani” e “Indiani” che interessano il Nord America dopo il 1763, lo slancio
dell’espansionismo degli imperi europei e dei neonati Stati Uniti in Nord
America dopo il 1783 e il carattere globale, per i teatri intercontinentali
interessati, assunto dal conflitto fra Francia e Inghilterra nell’età rivoluzioni
atlantiche, costituiscono la cornice di riferimento, cronologico e spaziale,
della guerra angloamericana del 1812. Una guerra che ha diviso profondamente le élites politiche e le società dei nascenti Stati Uniti, mettendo da un
lato a dura prova la tenuta interna e internazionale della giovane repubblica, e trasformandosi dall’altro in un delicato fronte aperto per l’Inghilterra
impegnata nella fase finale dello scontro con Napoleone. Oggetto di
un’ancipite considerazione nell’immaginario collettivo, e di un approccio
storiografico volto ora a evidenziarne il carattere, per dir così, premonitore
in relazione ai futuri svolgimenti delle vicende nazionali statunitensi ora
invece il carattere circoscritto nell’ambito della storia patria, la guerra del
1812 racchiude in effetti in sé tutte le dimensioni di scala appena evocate.
Valga qui solo ricordare che la tenuta di fronte agli inglesi della giovane
repubblica, e la contestuale breccia aperta nella frontiera spagnola in Nord
America, avrebbero contribuito in modo significativo al successivo imponente processo di “americanizzazione” degli Stati Uniti. Un processo di cui
la dichiarazione Monroe costituisce per molti versi la formulazione a uso
internazionale, e l’etnocidio delle popolazioni native del Nord America il
brutale rovescio della medaglia.
47. Fra i punti all’ordine del giorno, la denuncia della condotta della Spagna nei
secoli della colonia (leyenda negra), la rivendicazione dell’indipendenza di
Cuba, di Portorico, delle Canarie e delle Filippine, l’abolizione della schiavitù, e il coinvolgimento degli USA per arrivare a conferire all’America indipendente una dimensione emisferica che scoraggi i tentativi di Restaurazione di Ferdinando VII. Per una prima introduzione, attenta alle nascenti
dinamiche interamericane, Reza 2004.
48. “Si pensi ad Alexis de Tocqueville, il quale non ha mancato di osservare
come, mentre l’Europeo ‘quitte sa chaumière pour aller habiter les rivages
transatlantiques, … l’Américain qui est né sur ces mêmes bordes s’enfonce à
son tour dans les solitudes de l’Amérique Centrale … Ce double mouvement
d’émigration ne s’arrête jamais: il commence au fond de l’Europe, il se con­
tinue sur le grand Océan, il se suit à travers les solitudes du nouveau monde.
Des millions des hommes marchent à la fois vers le même point de l’horizon:
leur langue, leur religion, leurs mœurs différent, leur but est commun. On
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leur a dit que la fortune se trouvait quelque part vers l’Ouest, et ils se rendent
en hâte au-devant elle’” (citato in Benzoni 2012, 179).
49. Guerra ispanoamericana, con l’acquisizione delle Filippine.
50. Apertura del canale di Panama.
51. Intervento nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa.
52. Di fronte alla crisi messicana, la diplomazia del neonato Regno d’Italia si allinea alla diffidenza europea nei confronti del repubblicanesimo prevalente
nel Nuovo Mondo. A simili orientamenti si oppone Giuseppe Garibaldi, la
cui esperienza atlantica è ben nota, al punto da valergli il titolo di “eroe dei
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