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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
DIPARTIMENTO TERRITORIO E SISTEMI AGRO-FORESTALI
Pubblicazioni del Corso di Cultura in Ecologia
Corso di Cultura in Ecologia
ATTI DEL XL CORSO
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione
e la gestione dei paesaggi frammentati
Ecological networks: a key to the conservation and
management of fragmented landscapes
A cura di Edited by
Tommaso Sitzia & Stefano Reniero
ii
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004
ESEMPIO DI CITAZIONE DEL SINGOLO CONTRIBUTO:
De Togni G., 2004. Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi.
L’esperienza della Provincia di Bologna pp. 119-132. In: Sitzia T. & S. Reniero (eds.). Reti
ecologiche: una chiave per la conservazione e la gestione dei paesaggi frammentati. Pubblicazioni
del Corso di Cultura in Ecologia, Atti del XL Corso, Università degli Studi, Padova, pp. VII + 165.
CITAZIONE DEL VOLUME:
Sitzia T. & S. Reniero (eds.), 2004. Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gestione
dei paesaggi frammentati. Pubblicazioni del Corso di Cultura in Ecologia, Atti del XL Corso,
Università degli Studi, Padova, pp. VII + 165.
Il volume può essere richiesto alla segreteria del Dipartimento Territorio e Sistemi
Agro-Forestali dell’Università degli Studi di Padova o acquisito all’URL:
http://www.tesaf.unipd.it/sanvito/atti.htm
Comitato scientifico
Tommaso Anfodillo
Dina Cattaneo
Paolo Semenzato
Franco Viola
Comitato organizzatore
Tommaso Sitzia
Filippo Carrara
Stefano Reniero
Con il patrocinio di:
Comune di San Vito di Cadore
Comunità Montana Val Boite
Provincia di Belluno
Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale
Veneto Agricoltura
LA RIPRODUZIONE È CONSENTITA, PURCHÉ SIA CITATA LA FONTE
In copertina
I corridoi arborei lineari, i corridoi antropici, la matrice e le fonti di impatto: l’interpretazione delle
reti ecologiche secondo diversi livelli di percezione (foto Carrara & Sitzia).
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004
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INDICE
Premessa____________________________________________________________ v
Rob Jongman
The concept of ecological networks: European approaches__________________ 1
Roberto Gambino
Reti ecologiche e territorio_____________________________________________ 23
Daniel Franco
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in
the national framework _______________________________________________ 35
Ilse Storch
Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks"
in fragmented landscapes?_____________________________________________ 53
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
Reti
ecologiche
e
fauna
selvatica:
limiti
alla
dispersione
e
loro
mitigazione__________________________________________________________ 63
Duncan McCollin & Janet Jackson
Hedgerows as habitat corridors for forest herbs___________________________ 75
Margherita Lucchin
Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la stima della
funzionalità__________________________________________________________ 87
iv
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004
Tommaso Sitzia
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari: indici sintetici di valutazione
delle siepi arboree nel paesaggio agrario__________________________________ 97
Giuseppe De Togni
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: problemi tecnici e amministrativi__ 119
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta,
Stefano Reniero
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per
l’identificazione della connettività ecosistemica potenziale __________________
133
Giustino Mezzalira
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei ________
149
Federico Correale Santacroce
Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la
progettazione dei boschi di pianura______________________________________ 159
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004
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PREMESSA
Amavo salire in cima al paese, alla chiesa battuta
dal vento, donde l’occhio spazia in ogni direzione
su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo
cerchio.
Si è come in mezzo a un mare di terra biancastra,
monotona e senz’alberi: bianchi e lontani i paesi
ciascuno in vetta al suo colle...
CARLO LEVI, “Cristo si è fermato a Eboli”, 1945
P
er interpretare un paesaggio bisognerebbe vederlo dall’alto. Solo così si può intuire il tessuto
che lo compone. Solo così si può osservare la manifestazione visibile e fisica delle reti ecologiche:
gli alberi e i corridoi arborei immersi nel deserto della matrice. Ma la rete funzionale non è
costituita di unità discrete, o almeno non solo di esse. I corridoi possono essere “diffusi” e difficili
da identificare. Il paesaggio identico in tutto il suo cerchio, monotono e senz’alberi, potrebbe così
non essere del tutto privo di reti ecologiche.
Il concetto di rete ecologica è stato applicato recentemente. A scala planetaria, solo nel 1974,
l’UNESCO ha riconosciuto, nel Programma per l’Uomo e la Biosfera, la necessità di conciliare la
conservazione delle aree di valore con gli usi del paesaggio locali attraverso l’individuazione nelle
Riserve della Biosfera (attualmente oltre 350) di core areas, buffer areas e zone di transizione. Per
questo motivo, forse, esistono ancora molti dubbi sulla loro efficacia. Non si può tuttavia trascurare
l’importante ruolo che rivestono nella pianificazione. La comprensione e la valutazione di come gli
organismi si muovono attraverso i paesaggi eterogenei, ovvero frammentati, sia attraverso i
corridoi, che attraverso la matrice, è una componente chiave del processo che conduce alla
comprensione delle risposte degli organismi ai mosaici spaziali, cioé dell’argomento centrale
dell’ecologia del paesaggio.
Perché esistono? Cosa aggiungono al processo di protezione delle risorse naturali? Che specie le
sfruttano? Come si può stimare il loro valore? Cos’è stato fatto sinora? A queste domande il 40°
Corso di Cultura in Ecologia tenta di dare una risposta.
L’esistenza delle reti ha radici genetiche: il trasferimento di informazioni genetiche rappresenta
il tessuto invisibile della rete, quello più ostico da studiare, perché meno percepibile. Degli aspetti
genetici, tutti gli altri sono dei surrogati. Il contributo di M. Lucchin è rivolto, in questo senso, a
chiarire le basi conoscitive: la materia prima di cui sono costruite le reti ecologiche.
Gli organismi che sfruttano le reti possono essere animali o vegetali. Gli animali e i vegetali
occupano habitat: per questo la rete può, prima di proteggere le specie, proteggere gli habitat o gli
ecosistemi, cui le specie, e quindi gli ecoidi, sono legati.
D. Zorzi e S. Mattedi presentano gli strumenti per ridurre, a scala locale, gli impatti del traffico
stradale sulla dispersione delle specie della fauna selvatica, mentre D. McCollin e J. Jackson
presentano l’uso che dei corridoi fanno le specie vegetali nemorali, patrimonio disperso nella
matrice priva di copertura naturale, tipica dell’agricoltura intensiva e delle aree urbanizzate.
Una presentazione del concetto di rete ecologica, a scala di paesaggio, e delle sue applicazioni
in ambito europeo e nazionale, sono svolti, rispettivamente, da R. Jongman e D. Franco. R.
Gambino presenta invece gli sviluppi più recenti in tema di cultura e tutela ambientale del territorio
e le richieste della società cui le reti ecologiche possono dare risposta.
vi
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004
La valutazione della qualità dei corridoi ecologici che si manifestano a più grande scala, cioé le
siepi del paesaggio agrario e una serie di indici sintetici è proposta da T. Sitzia.
Pochi sono gli esempi di normative nazionali o regionali tese a tradurre i concetti e le evidenze
sperimentali in realtà: uno di questi è la Legge Regionale 13/2003 del Veneto che costruisce le
graduatorie dei beneficiari di incentivi pubblici all’impianto di boschi di pianura, non solo in base
al loro status giuridico o alla presenza di aree protette nelle vicinanze, ma anche, come raramente
viene fatto, sulla base della vicinanza a boschi relitti, ragionando in termini di rete ecologica. F.
Correale ne dà una presentazione.
I Sistemi Geografici Informativi, ormai irrinunciabili nello studio del paesaggio, trovano nelle
reti ecologiche un campo di applicazione importante, che A. Fiduccia, L. Fonti, M. Funaro, L.
Gregari, S. Rapicetta e S. Reniero presentano nel loro contributo.
Infine non basta ragionare di fauna e flora, occorre individuare idonei strumenti di progettazione
e pianificazione; G. De Togni affronta quelli a piccola scala, ovvero quelli urbanistici, G. Mezzalira
affronta quelli a grande scala, ovvero la progettazione.
L'organizzazione del Corso ha impegnato, oltre ai componenti del Comitato Organizzativo e a
quelli del Comitato Scientifico anche I. Dainese e A. Tosatto, che hanno svolto il fondamentale
supporto di segreteria presso il Dipartimento, e il personale del Centro Studi per l'Ambiente Alpino
di S. Vito di Cadore: F. Fontanella, R. Menardi e C. Filoso, ai quali tutti va un caloroso
ringraziamento.
Bologna, 30 maggio 2004
Tommaso Sitzia & Stefano Reniero
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 1-22
THE CONCEPT OF ECOLOGICAL NETWORKS: EUROPEAN
APPROACHES
Rob H.G. JONGMAN
Agricultural University, Wageningen, Netherlands
[email protected]
2
The concept of ecological networks: european approaches
INTRODUCTION
Niels Holgerson travelled on the back of his goose with the wild geese to the north to the
breeding areas and he saw the land beneath him. Geese fly north and south for breeding and
wintering. When walking in a forest or through an agricultural land you suddenly can meet a deer,
a badger, a hare or a rabbit. Looking carefully in the grasslands in the wintertime you can detect
mouse tracts. Salmons migrate the ocean up the rivers for spawning. Humans used to walk or drive
horses to travel for business and religious purposes. In the western world now walking is mainly to
enjoy a tour on a grand randonnee or a old pilgrims’ path. However, in general connection and
exchange is important for all species to survive, to forage, to reproduce or establish new
communities. On all scales and for most species pathways do exist to link individuals and
populations.
Land use and nature changed in the last century dramatically. The land has been developed,
parcels enlarged and land use intensified. From the end of the nineteenth century nature
conservation through national parks and nature reserves has been the prime tool to counteract
decline of species and natural ecosystems. This was very important to preserve the species ad
natural ecosystems. In that period the linkage between protected sites did not seem to be crucial.
The increasing pressure of land use in combination with the insights from landscape ecology on the
role of landscape flows and the functioning of metapopulations of species has changed that idea.
Nowadays the idea gets accepted that reserves alone cannot maintain biological diversity on the
long run (Beier and Noss 1999, Bennet 1999). Networks and landscape linkages are needed for
survival on the long run.
This chapter introduces the reader into the development of concepts of ecological networks in
general and in the European approach especially. In the last decades of the twentieth century
ecological networks have been developed by authorities and scientific institutions in Europe,
America and Australia (Bennet and Wit 2001). In Europe this has been partly a European wide
approach as a reaction on the Convention of Biological Diversity or as the newly developed
European policy, such as NATURA 2000 (Habitat and Species Directive, EC 92/34), the Emerald
Network and the Pan-European Biodiversity and Landscape Diversity Strategy (Council of Europe
et al, 1995). Partly these have been scientific approaches and national initiatives varying from
strategies for adaptation of conservation policies to development of ecological networks as a
scientifically based approach. Nowadays most of the ecological networks in Europe are part of
national and regional nature conservation policies.
This chapter does not intend to present a complete picture of these developments, but to present
common denominators, concepts to highlight common developments between countries and
regions and indicate where and when differences between countries and regions have to be taken
into account when developing ecological networks. This chapter emphasises the development in
Europe and it shows trends in decline of landscapes and the diversity in approaches for biodiversity
conservation and nature conservation planning. Understanding these differences and common
issues are of utmost importance to find common principles and approaches and to know when
differences are important to be maintained or to be abolished.
A SHORT NATURE CONSERVATION HISTORY
Through centuries land use was adapted to the restricted technical possibilities of man to change
the land. In Europe this has led to a rather stable pattern of landscapes until the second half of the
nineteenth century. Then around 1850 century the industrial evolution started. It meant not only a
revolution in the urban environment, but also in the rural environment. Machines were introduced
as well as fertiliser and wire fencing. Semi-natural areas have been converted into agricultural land
and the scale of agricultural holdings increased. In the same period a beginning has been made to
Rob H.G. Jongman
3
regulate the main European rivers, such as the Rhine, the Danube, the Elbe, the Meuse, the Po, the
Rhone and the Tisza. That meant better transport facilities and a saver and better-drained land. This
process started on a small scale, but continued until now.
The history of nature conservation and of urban ecological networks started as a reaction on the
industrial revolution. Already in the last half of the nineteenth century and the first period of the
twentieth century nature was integrated in urban planning, for instance when the main axes of
towns were developed into green boulevards, such as the Champs Elysée and the footpaths along
the Seine in Paris (Searns, 1995). In the USA Frederik Law Olmsted proposed in 1860 a plan for
Brooklyn and later for Boston to link the urban parks and quarters by green corridors, the
“parkways”. These are routes to and from the urban parks surrounded by trees and with an aesthetic
and recreational function. These parkways were between 65 and 150 metres wide. The Boston plan
is the still partly existing and known as the “Emerald Necklace” with also a drainage function for
the town. This drainage function remained an important function of plans for green corridors
through the whole century. In chapter 3 the historic developments in the USA are described in
detail.
Ebenezer Howard developed in England in the same period the greenbelt concept, meant to
regulate the urban sprawl of London and other urbanising areas in England by surrounding the
inner city by parks of about 8 km wide. Behind this belt commercial and industrial areas should
develop. London is the clearest example of this approach. The difference between the two
approaches is the linking function of the parkways and the dividing function of the green belts.
Also in other countries like the Netherlands comparable developments took place as in the USA
and England. The industrial revolution had a heavy impact on the cities and a need for urban green
developed: the Amsterdam Vondelpark was one of first urban parks, established in 1870. The
Dutch Housing law of 1901 allowed town authorities to designate areas as open space for public
use. The city of Arnhem is around that period the first town that officially designates a park as
“public green space” and there the park system is still now reaching from outside town into its city
centre.
Nature conservation and urban development joined forces in the 1920s. At the international
congress on housing and urban development in Amsterdam 1924 the statement has been given, that
nature is important for outdoor recreation, for its scenic beauty and its intrinsic value. Urban
planners and architects plead for the development of parkways and in this period several have been
constructed such as in Rotterdam and Utrecht (Van Langevelde, 1994).
After the Second World War nature conservation focused more on the preservation of values
within semi-natural landscapes. This was especially important in the northern states of Europe,
where the decline of nature was alarming. After the first nature conservation year 1970 changes
took place in nature conservation in western Europe; nature conservation acts were revisited in
many western European states, in some cases by amending existing legislation in other cases by
formulating a new and more integrating nature conservation policy relating issues such as
recreation, urbanisation, regional planning and agriculture. In this period nature conservation got a
more or less accepted position in policy. The same process took place in central and eastern Europe
after 1989; since then some central and eastern European countries have the most forward
legislation based on the latest scientific knowledge.
THE DRIVING FORCE: LAND USE CHANGE
Under the influence of changes in food demand, caused by demographic trends, the cultivated
area of Northern America and Europe has shown considerable fluctuations. Agricultural areas are
moving from one region to another, forests are removed in one part of the world and forests of
exotic species are planted elsewhere. Agricultural productivity in Canada, USA and the European
Union (EU) measured in kg dry matter per unit of acreage continues to rise thanks to ongoing
advancements in agronomic knowledge. Through the consequent changes in agriculture and
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The concept of ecological networks: european approaches
forestry practices, landscapes have suffered rapid and often irreversible changes. These changes
consist of two groups (Fry and Gustavsson, 1996):
- Changes resulting from the marginalisation of farmland and forests and consequent
abandonment of earlier practices;
- Changes arising from the more intensive use of highly productive land, resulting in less land
being farmed, but farming and forestry is done more intensively, more specialised, and at
larger scales.
The result of these two opposite trends is a polarisation between intensively used land and
natural or abandoned land. Intensifying agriculture makes land monofunctional and takes away
both cultural and natural diversity. Intensification by one farmer - reducing production costs - will
improve his position on the market. We also have to realise that the farming market is an
international market. The farmers in the Paramó of the Andes have to compete with the large-scale
potato farmers in Canada and the Greek farmers have to compete with the Dutch and the Danish
farmers on the cheese market. Also the trade in animal stock is international or continent-wide. If
the market is not regulated the farmers in the less favoured regions will marginalise and eventually
abandon their land. Both intensive and extensive land use are expressed in the landscape: the
structure of the land, the size of the parcels and the area of natural and semi-natural vegetation that
is still present.
The pressure of economic competition in farming, forestry and urbanisation makes the land
partly homogenising by disappearance of regional differences in (semi-) natural features. This is
not a new process but its features become more and more recognisable. We develop towards a
homogenised world. That has as consequences that multifunctionality of the landscape is
disappearing and outdoor recreation and nature conservation do get less opportunities in the wider
countryside. According to research of Van Rabenswaaij et al (1991) the optimum for the presence
of critical meadow birds turned out to be the range between 50 - 150 kg N/ha. If this is applied on
the practice of present day farming it appears that this regime only can lead to marginalisation (De
Wit, 1992). Economically sustainable agriculture is either being driven towards an environmental
optimum (lowest inputs and optimum output) or towards an economic optimum (high inputs and
high outputs). Such land use can only be of significance the lower valued vegetation types and noncritical meadow birds.
Rob H.G. Jongman
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Figure 1. Structural changes in the Czech rural landscape between 1842 and 1990 in two sample kmsquares (Lipsky, 1992). The collectivisation process took place in the early between 1954 and 1970 and
reduced the structural diversity of the landscape dramatically.
The results can already be seen for decades in the European landscapes. We see the decline in
historical structural diversity of the landscape and that makes landscape coherency disappearing. In
the Netherlands the floodplain forests decreased in the period 1900-1980 by 90% and hedgerows
by 80% (Jongman and Leemans, 1982). In the period 1950-1990 all open side channels along the
major branch of the Rhine have disappeared (Jongman, 1992). In the period 1976-1986 the treelines in the agricultural landscape of St Oedenrode, The Netherlands decreased with 35% and if
taken without the roadside plantings it was even 45%. In the Provence the disappearance of the
silvo-pastoral system led to a simplification of the landscape structure (Hubert, 1991). In Great
Britain the plant species number in infertile grasslands declined with 13% between 1978 and 1990,
and in upland forests even with 20% (Bunce et al, 1999). In the Czech Republic the semi-natural
elements disappeared nearly completely from the cultural landscapes during the collectivisation
process (Figure 1).
NEW FUNCTIONS IN THE LANDSCAPE: FRAGMENTATION
Polarisation, homogenisation and marginalisation are not the only processes ongoing in the
European landscape. In Western Europe intensive agriculture used to be an important land use in
the urban fringe. Now its role is strongly diminishing, other urban-based functions take over, such
as horse-keeping, garden centres and recreation facilities (Lucas & Van Oort, 1993). This trend is
comparable elsewhere in Europe, from Lisbon to Moscow. In the competition with urban functions
rural function mostly cannot survive. The capital available in the cities will buy new functions in
the rural landscape around. This leads to more intensive use, more fragmentation of the landscape
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The concept of ecological networks: european approaches
due to building, fencing and roads and less space for natural elements. Also outside the urban
fringe the increasing road density, the building of new railroads and the intensity of its use lead to
an increase of barriers in the landscape. The landscape develops into a new diversity of artificial
elements causing fragmentation natural features that can be considered as negative landscape
diversity. Many animal species are sensitive for this kind of fragmentation. The area that they need
for living is depending on their home range and the maximum dispersal area. For small species
roads are often inaccessible barriers. Some animals like amphibians in spring take the risk of
crossing roads towards breeding ponds. They are only successful in areas with low-density traffic.
Larger animals will be hampered in their movements by urban areas, roads and unattractive land.
Urbanisation, agriculture and industry have put increasing pressure on the total area of
landscape and nature. It is not only the claim for space that is important, but also the fragmentation
of the landscape and the natural areas, especially in northwest Europe. This process of
fragmentation has resulted in loss of habitats, fauna casualties, barrier effect, disturbance (noise and
light) and local pollution (IENE, 1997). Transport infrastructure in Europe (roads, waterways and
railways) intersects living areas of populations of different species and in this way decreases the
possibilities of the populations involved to disperse between different parts of their habitat or move
to potential new habitats.
Fragmentation is not only caused by barriers, but also by a decrease of landscape elements
(small forests, hedgerows riparian zones). Fragmentation of natural areas is a spatial problem that
can be defined as the dissection of the habitat of a species in a series of spatially separated
fragments (Figure 2). It leads to a diminishing habitat area and spatial discontinuity.
Figure 2, Fragmentation of the landscape seen by an imaginary species (Opdam, 1991)
Ecological effects are species-specific and depend on the size of the functional area, the
mobility of the species and isolating effects of artefacts in the landscape (roads, urban areas,
canals). Both decrease of functional area of a habitat site and isolation increases the chance of local
extinction of populations and diminishes the chance of spontaneous return of species. The spatial
effects are (Mabelis, 1990):
- Decrease in suitable area of the original ecotope;
- Increase in landscape heterogeneity and land use;
- Landscape fragments with subpopulations;
- Source-sink-relationships in natural populations (larger natural areas become increasingly
important for the survival of populations).
Rob H.G. Jongman
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LANDSCAPE ECOLOGY CONCEPTS IN LANDSCAPE PLANNING
Environmental conservation
Environmental conservation for safeguarding and sustainable development of natural resources
should be priority issues for national and regional authorities. The notion of “Environment”
comprises in its broadest sense all factors that are of importance for living species and living
communities. Environmental conservation and management reach far beyond technical
environmental protection such as air and water purification. It also includes maintaining the
functioning of ecological systems in all their variety in spatial forms. Protective measures for
separate environmental factors, such as emission reduction and noise protection are not sufficient to
maintain a sustainable environment. An integrated approach based on landscape ecological
principles is becoming ever more important.
The land cover pattern of Europe consists of large areas of cultural landscapes, made by man
and expressing the diversity of the regional climate and soils and relatively small natural areas.
Because of its interwoven position the structure change of the European landscapes has been one of
the major factors for the deterioration of nature. Protection by law or by ownership cannot prevent
that species decline. There are to many relationships through water, air or species movements. This
means that spatial relations have to be included in nature conservation in the same way as it has to
be done for other human activities. Spatial planning is therefore indispensable.
The objective of spatial planning is to organise functions and space in such a way that it shows
the best mutual relationship or, to develop human and natural potentials in a spatial framework in
such a way, that all and everything can develop as well as possible (Buchwald and Engelhardt,
1980). What has characterised the concept of spatial planning in Europe, at least since the 1920s has
been the institutionalisation of planning concepts like segregation of functions and functionalism.
Planning is rooted in changes in social life: growing urbanisation and territorial demands for an
increasing population lead to separation of living and working space. Man’s ability to change the
forms and functions of the land and its impact on the environment and nature has urged the need
for new look on planning and to include landscape ecological concepts as basic concepts. In the last
decades integration of functions has been restored into favour in planning and an increasing interest
in multidisciplinary approaches can be observed.
Landscape ecological principles have become part of nature conservation and landscape
planning. Site based nature conservation can only be successful if the conservation sites are huge as
it is in Russia. But even there larger carnivores are threatened. Species have difficulties to survive
in fragmented landscapes and the conflicts between nature and society hampers nature
conservation. The new way forward is now that nature conservation in Europe is changing from
site protection into conservation of ecological networks including the wider landscape (Jongman,
1995). That means that nature conservation principles have to be included in spatial planning as is
already the case in several countries like Denmark (Jongman and Kristiansen 2001) and the
European Spatial Development Strategy.
The landscape ecological concepts of ecostabilisation, connectivity-connectedness and the
spiralling concept all three help to understand separately aspects of landscape functioning that
should be integrated in landscape planning. Together they will form a strong landscape ecological
basis for landscape planning.
Ecostabilisation
The German and Eastern European tradition in applied geography has concentrated on regional
relationships and has found applications in physical planning. Spatial planning in the Soviet era
was subordinate to the rules of the planned economy. This kind of planning initiated large-scale
technocratic projects and a monofunctional simplification of the collectivised agricultural
landscape. Until the end of the 1980s nature did not make part of the spatial planning maps of
countries such as Eastern Germany (GDR) and zoning was directed by economic principles.
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The concept of ecological networks: european approaches
Destruction of traditional landscape systems and ecological destabilisation of landscapes with
enormous erosion, salinisation of soils, forest die-back and water and soil pollution were visible
results of this process.
For mitigation of the impacts of the economic planning in central and eastern Europe, the
ecostabilisation principle has been developed, in the early 1980s resulting in planning concepts
such as 'territorial systems supporting landscape ecological stability'. Theoretically the approach
was based on the idea of a polarised landscape that was worked out in 1974 by the Russian
geographer Rodoman (Mander et al, 1995).
This concept accepts intensive land use, but proposes a functional zoning of the landscape,
including areas and elements for natural zones as and antagonism for the centres of intensive land
use. These natural zones and the zones selected for agriculture, industry and urban development
were the poles of this planning concept. Until the end of the 1980s nature did not make part of the
spatial planning maps of countries such as the GDR and zoning was directed by economic
principles. Rodomans concept was dialectic and holistic, developed within a deductive scientific
tradition. His formal and geometrical principles were developed into principles for practical
ecological planning in the Eastern and Central European states in the late 1970s and the beginning
of the 1980s and it was based on co-operation between geographers, ecologists and territorial
planners (Kavaliauskas, 1995, Bucek et al, 1996, Miklós 1996). It resulted in concepts such as
'nature frame’, ‘natural backbone’, ‘ecological compensative areas' and ‘ecostabilising functions’.
Essential in these concepts is:
1. the designation of territories to function as an ecological compensation to the territories that
are heavily exploited;
2. the linkage of these compensative territories by zones with coherent land management;
3. there is sufficient space to create compensation and linkages.
Since Rodomans approach only has been published in Russian language the theory of a
polarised landscape is only known in the West through its applications in other countries. In the
west European countries a polarisation of the landscape and land use has become reality as well
and comparable planning concepts such as the framework concept in the Netherlands have been
developed (Vrijlandt and Kerkstra, 1994). This was done to optimise the consequences of the
ongoing segregation of land uses. The competition for land, not least between agriculture and
nature conservation, in the more densely populated areas in Western Europe has had a decisive
influence on this development and has caused the debate about whether long-term ecological goals
could be achieved with separation of land uses or that a multi-purpose development should be the
ideal of landscape planning in Europe.
The important principle behind the ecostabilisation concept for spatial planning is the
acknowledgement of the importance of processes on the landscape scale, the presence of flows, the
role of ecotones and the use of the ability of nature to purify and restore.
Rob H.G. Jongman
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Figure 3. The ideal structure of the landscape according to the principle of the polarised landscape
consisting of ecotones and a network of compensative areas. 1: urban areas, 2: fields, 3: compensative
areas, 4 main roads (Mander et al 1988).
Connectivity and connectedness
Migrating species are vulnerable in their lifecycle. They are not all year available to signal the
importance of a site as a temporary habitat. European storks (Ciconia ciconia) for instance breed in
central Europe and they winter in Africa, migrating 10,000 km each season. The breeding
population is mainly concentrated in Germany, Poland Czech republic, Slovakia, Hungary and the
Baltic States in the east and Spain and Portugal in the west. They used to cover a larger area, but
their breeding success was severely hampered by land use changes in the last decades.
Species have adapted to the cultural landscapes of Europe, because they were accessible and not
hostile. Large areas with good living conditions that are always inhabited are defined as core areas
for populations. In good reproductive years species will move from these areas into other – even
marginal - sites (Verboom et al, 1991). Area reduction will cause a reduction of the populations
that can survive and in this way an increased risk of extinction, because dispersal between habitats
decreases, causing less exchange of genetic information and less colonisation of empty habitats.
Plants and animals both disperse by wind, water, with help of other species or by own
movements. Migration is a specification of dispersal, while it is directed to a certain site. Dispersal
is essential in population survival and the functioning of biotopes. However, dispersal can only
function if there are sites to disperse from and to and means for dispersal. Dispersal is important for
survival of populations. On the one hand animal species will leave a population if living conditions
cannot support all individuals, on the other hand species will fill in gaps in populations or sites that
became empty. Fluctuations in populations can cause changes in species abundance and species
composition of a site. Birth, death, immigration and emigration are the main processes to regulate
10
The concept of ecological networks: european approaches
fluctuations at the population level. Plants, but also several other groups of species depend on other
species for their dispersal. However, plant strategies for dispersal are the least known and difficult
to detect in practice. Restriction of species dispersal increases the chance of species extinction.
The main functional aspect of in the landscape of importance for dispersal and persistence of
populations is connectivity and connectedness. According to Baudry and Merriam (1988)
connectivity is a parameter of landscape function, which measures the processes by which subpopulations of organisms are interconnected into a functional demographic unit. Connectedness
refers to the structural links between elements of the spatial structure of a landscape and can be
described from mappable elements.
Structural elements are different from functional parameters. For some species connectivity is
measured in the distance between sites, for other species the structure of the landscape, the
connectedness through hedgerows represents the presence of corridors and barriers. Area reduction
will cause a reduction of the populations that can survive and in this way an increased risk of
extinction. It also will increase the need for species to disperse between sites through a more or less
hostile landscape.
Routes for species migration consist of zones that are accessible for the species to move from
one site to another and back. Due to differences in needs migration and dispersal routes can be
manifold, from single wooded banks to small-scale landscapes and from river shores to whole
rivers and coastlines. Migration is a prerequisite for many species from northern Europe to survive
the winter period. Migration is risky and for flying animals migration routes should have as little
barriers as possible and steppingstones should be available for feeding, rest and shelter. For fish it
means that rivers are not blocked by dams and of good water quality. For mammals and
amphibians it means that routes are available and that man-made barriers can be crossed.
Amphibians and mammals are able to disperse over distances from several metres to hundreds
of kilometres. For small mammals ecological corridors can be hedgerows, brooks and all kind of
other natural features that offer shelter. Migration is important for grazing animals like deer
(Cervus elapus) and roe deer (Capreolus capreolus), for predators like the golden eagle (Aquila
chrysaetos), the lynx (Lynx lynx and L. pardina) and the wolf (Canis lupus) but also for most birds
from northern and eastern Europe.
The importance of metapopulation principles in planning is the acknowledgement that survival
of species is more than solely maintaining nature reserves; ecological linkages are needed and must
to be included in spatial plans.
Rob H.G. Jongman
11
Figure 4. Factors influencing metapopulation dynamics according to Opdam (1991). Dispersal is a
functional aspect of the different metapopulations. How dispersal is realised depends on the
requirements of the species and the landscape structure present.
Rivers: the continuum, flood pulse and spiralling concept
A river is more than the sum of its parts and it is not a static body of water, but rather a
continuum with a changing ecological structure and function. The concept dominating the river
studies for the last decades was the River Continuum Concept, which was the first unified
hypothesis about how streams and their watersheds work. The River Continuum Concept (Vannote
et al 1980) is based on macro-invertebrates and it states that from the headwaters to the river mouth
a continuous change in macro-invertebrate community take place. The headwaters are likely to be
narrow, fast flowing, and shaded by trees and other vegetation, therefore all the energy that
virtually enters is in the form of leaves, twigs and other debris from the surroundings. Detrivores
and filter feeders dominate the fauna. The shading from surrounding vegetation results in the
heterotrophic processes often dominating the upper reaches. Whereas primary production becomes
more important in the middle reaches as the river broadens, becomes less shaded and is colonized
by algae and plants, which contribute significant energy to the community and are exploited by
grazers. The increased sediment loading towards the mouth reduces light penetration and
photosynthesis may decline. Energy in the form of biomass and detritus is constantly flowing
downstream, hence the energetics of any particular section of the river are influenced by events
upstream. The result is a longitudinal continuum of ecosystem structure with a number of
predictable properties. Vannote et al, (1980) argue that the river’s biological and chemical
processes correspond to its physical attributes and that the nature of biological communities
changes in a downstream direction just as the river itself does.
Running waters are however far more than mere longitudinal river corridors and according to
Jungwirth (1998), the modern ecology recognises them as complex systems. According to
Townsend and Riley (1999) the science of river ecology has reached a stage where explanations for
patterns rely on links at a variety of spatial and temporal scales, both within the river and between
the river and its landscape. The links according to Townsend and Riley (1999) operate in three
spatial dimensions:
1. Longitudinal links along the length of the river system, such as the river continuum
(Vannote et al 1980), downstream barriers to migration
12
The concept of ecological networks: european approaches
2. Lateral links with the adjacent terrestrial system, such as the flood pulse concept (Junk et al
1989).
3. Vertical links with and through the riverbed.
A river consists of more than just a main stream and many linkages occur between the river and
its environment, therefore it is suggested to consider the river continuum to be considered within
broad spatial and temporal scale (Roux et al 1989). The lateral and vertical dimensions of the
ecosystems need to be associated with running water. The Flood Pulse Concept (Junk et al 1989)
proposes that the pulsing of the river discharge, the flood pulse that extends the river onto the
floodplain is the major force controlling biota in rivers with floodplains. The flood pulses control
biota in three ways: directly by facilitating migration of animals, indirectly by enhancing primary
production and by habitats structuring. During floods biota migrate both actively and passively
between different habitats in the river floodplain system. The lateral exchanges between main
channel and floodplain, and nutrient recycling within the floodplain has according to Grift (2001)
more direct impact on biota that the nutrient spiralling discussed in the River Continuum Concept.
The floodplains provide besides important factors for driving ecological processes in the riverine
ecosystem mainly the habitat complexity and habitat quality in the river ecosystem.
The distinction between dispersal from the breeding quarters over a wide stretch of territory,
and the more clearly defined migration may be useful when applied to bird migration (Jones
(1968). This is mainly due to the fact that fish may be carried passively hundreds of kilometres by
currents and what may be no more than dispersal could then have all the appearance of a true
migration. However, Northcote (1978) suggests that fish migration has evolved (1) to optimise
feeding, (2) to avoid unfavourable conditions, (3) enhance reproductive success and (4) possibly to
promote colonisation. Depending on the environmental situation and the species characteristics
they can be considered dispersing or migrating. In rivers fish migrations are associated with
currents, although during the life cycle, the direction of fish movement with respect to the current
often changes. Active migrations against the current (spawning migrations) generally occur
together with passive or active-passive, downstream migrations of juveniles and recently spawned
brood stock (Pavlov, 1989). Some authors such as Harden-Jones (1968) have emphasized the
occurrence of a combination of both active-contranatant and passive-denatant migrations in fish.
Migrating fish orientate their movements by using a variety of mechanisms. In some species
individuals are capable of migrating long distances and returning to their starting points accurately.
The accuracy of return migration is widely variable involving a possible return to the actual place
of birth known in ichthyology as homing. Homing was defined by as the return to a place formerly
occupied instead of going to other, equally probable places suitable for reproduction, at the time
when other sexually mature fish are also present (McDowall 1988).
There are more types of fish migration. Bemis & Kynard (1997) distinguish between one step
and two step migrations. Defining the one step spawning migrations as those in which fish move
directly upstream with the dependence on the bio-energetic reserves of the fish, the migration may
be short or long and occur in winter or spring. Two step spawning migrations involve upstream
migration, usually in the fall, followed by overwintering near the spawning site, followed by a short
or long migration to spawn the following spring. Pavlov (1994) suggests that each fish species has
developed a unique migratory behavior corresponding to the existing environmental conditions and
to the species particular relationship with that environment. The home range and the types of
habitat required during the life cycle vary strongly among species (Grift, 2001). Some species such
as for example salmon utilize a river over almost the entire basin when the adults migrate from sea
upstream the river, through several branches after which they lay their eggs on gravel banks in
small tributaries. Besides the longitudinal migration the fish migrate between the main channel and
the floodplains, therefore utilize the floodplains either temporarily or permanently during their life
cycle. The backwaters and inundation areas are important spawning, foraging and nurseries places,
or places used to avoid harsh conditions (Jurajda 1995).
In general running waters constitute a vector for the transfer of material from elevated reaches
to the bottom of a drainage basin. Fish, mammals and plants move along their corridor in different
speed and with different steps. The strong interaction between the stream and its riparian
Rob H.G. Jongman
13
ecosystems in its ecotone provide a huge exchange of energy, matter and nutrients that attracts all
kind of natural species. The transport of matter and nutrients is restrained by all kind of natural and
man-made retention devices and in this way the river is an important mechanism for reconstruction
of landscapes and for species, linking reproduction sites and populations. The way matter, energy
and species move through a river system can be well described with the spiralling concept, based
on the recurrent use of matter in ecosystems along the river (Figure 5). Although this concept has
been developed for nutrients, it can also be a valuable concept for considering the behaviour of
species and matter.
Rivers are in principle dynamic systems and in relation to other parts of the landscape important
pathways. Downstream they have higher diversity and are less dynamic than upstream. This also
means that interactions with other ecosystems are more complex in the downstream stretch than
upstream. Human use of rivers as a transport route or recreation pathway will also be different,
because of differences in accessibility, the diversity of the landscape and the potential use of the
system. It varies from water provider to the most intensively inhabited areas in the world, where
conflicts for space are common.
Rivers are mostly not considered as one system. Mostly several authorities and users decide on
maintenance and use, because of the many borders that are crossed and the many interests that are
involved. Ecology of rivers is a difficult and little known aspect. Transport of waste and fish
migration are only known if large accidents occur such as the Sandoz accident in the 1980s, the
Guadiamar and Tisza accidents in the 1990’s. These emphasize the role of rivers as ecological
corridors.
Due to their role as transport mechanisms for nutrients, matter and species, rivers should be key
systems in spatial planning and at least they are in the development of ecological networks. The
spiralling concept gives a good understanding of the lateral and longitudinal processes in rivers and
the way they can be anticipated in planning.
Figure 5. The spiralling concept for river system (Pinay et al 1990). Strong interaction between the
stream and the riparian systems in the ecotone represent important exchange of nutrients, matter and
species.
14
The concept of ecological networks: european approaches
ECOLOGICAL NETWORKS
Structure
Landscape ecology provides the insight that at the landscape level nature is a relatively dynamic
system reacting on a complex of environmental and land use conditions. Land use is considered to
influence the functioning of ecosystems as a whole, its self-purification capacity and the carrying
capacity of the landscape (Mander et al 1988, Kavaliauskas 1995). It also affects habitat quality for
wild species and the potential for dispersal and migration that are vital for survival of populations
especially in fragmented landscapes.
In ecological sense isolation is an important feature in agricultural landscapes of northwest
Europe. Even in production forests, management can cause isolation of the remnants of natural old
growth forests within it (Harris 1984). Most natural and semi-natural habitat sites are remnants of a
former natural area and the species in it are part of a metapopulation that has survived. Present
landscapes are dominated by man-made dynamic habitats and the less dynamic habitats are small
and isolated, as are the populations in it. Habitat isolation and habitat loss prevent natural species to
develop viable populations or let populations survive on different equilibrium levels (Hanski et al
1985). Natural relations have declined by the disappearance of forested corridors and natural river
corridors and the development of human infrastructure. The strategy to overcome this is the
redevelopment of ecological coherence through networks.
Ecological networks can be defined as systems of nature reserves and their interconnections that
make a fragmented natural system coherent to support more biological diversity than in nonconnected form. An ecological network is composed of core areas, (usually protected by) buffer
zones and (connected through) ecological corridors (Bischoff and Jongman 1993). Core areas have
mostly been identified by traditional nature conservation policies. The insight gained from recent
geographical and ecological concepts link this traditional conservation strategy with other land use
and integrate nature conservation in general land use policy and spatial planning. In this way
ecological corridors and buffer zones are becoming key elements in nature conservation strategy.
Reviewing recent developments in ecological networks, Arts et al (1995) concluded that "during
the last decade, the nature conservation policies in many European countries have been based on
landscape-ecological research, especially concerning the role of land use and landscape structure in
the survival of species and in the protection of nature reserves. Plan proposals were made to
establish ecological networks on local, regional and national scales."
However, the existing protection system and the development of ecological networks as a new
concept in a region or country are not just an extension of each other. New concepts have to be
applied and the history of nature conservation should be evaluated to detect gaps in the protection
system that have to be solved and improve connectivity.
Rob H.G. Jongman
15
Box 1: Definition of National Parks in Europe
IUCN:
A relatively large area, where
- one or more ecosystems have not been changed fundamentally by human exploitation and habitation,
where plant and animal species, geomorphologic objects and biotopes of special value occur or that contains
a natural landscape of great beauty;
- The highest authority in charge of the country took steps to avoid potential exploitation as soon as
possible, reduce settlement in the whole area and stimulate effectively the conservation of ecological
geomorphologic and aesthetic characteristics, that led to the initiative of its foundation and
- it is allowed to visit the area under special conditions for the inspiring educational, cultural and natural
values.
The area must be managed as a whole.
Germany:
A national Park is an area of a larger size, nearly influenced by man and that deserves special protection
because of its natural beauty and special ecosystems and where the core area is managed as a nature reserve.
The Netherlands:
A National Park is a single area of at least 1000 ha consisting of natural systems such as waters and forests
with a special condition and plant and animal live. Good possibilities exist for zoning and recreational use as
well. In a national Park nearly no agricultural land is found.
Great Britain:
A National Park is a large area mainly founded because of its great landscape and scenery values. Human
settlement and human activities are usually present. The importance of the natural environment varies per
park and, if present natural values are situated in nature reserves in the park.
Greece:
A National Park is an area, that is mainly forested and needs a special protection because of
- flora, fauna, geomorphology, soil, air, waters and natural environment in general,
- the necessity to keep the natural condition undisturbed or to improve it because of aesthetic values,
psychical welfare of man and scientific research.
Italy:
A National Park is a large area, that
- is protected because of the presence of valuable flora and fauna, important geological formations and
landscape beauty,
- aims at the enhancement of recreation and tourism,
- gives space to human exploitation to provide an income for local people,
- where it is forbidden to hunt.
Portugal:
A National Park is a large area that can be found in remote parts of the country where man manages the
environment in the same traditional way for centuries. A National Park contains special landscapes and an
important flora and fauna.
France:
A National Park is an area that is nearly uninhabited, with strict rules for conservation of flora and fauna,
biotopes and special landscapes for visitors of the Park and that is surrounded by a buffer zone in which
tourist activities and rural economy will be stimulated.
16
The concept of ecological networks: european approaches
Core areas
In Europe many, but not all, important natural areas are protected. The definition of protected
areas differs much between countries and the legal and property rights are regulated differently. In
Various attempts have been made to inventory protected areas by using a classification systems.
Generally accepted is the IUCN-classification (IUCN, CNPPA 1982) of protected areas. To
understand the protection status the national legal definitions should be taken into account. In box 1
some of the definitions for national parks are presented. Some countries such as Denmark do not
have national parks. However, they have a long established legal protection of small biotopes
(Brandt 1995).
Differences in definitions used by countries in Europe can be big. Agriculture, forestry and
recreation are in some cases allowed, in other cases integral part and in another group not part of
the protected area. Traditional land use, especially extensive exploitation of grassland, can be a
method of management of semi-natural areas. Other protected areas are areas for landscape
conservation, nature parks, areas of outstanding natural beauty, etc. These areas can include
protected areas for nature conservation. Agriculture, forestry and recreation are more or less limited
by rules concerning land use, buildings and environmental protection. Public access is regulated
differently.
The national strategies for nature conservation in Europe have entirely been determined by
national policies. Now through the EU-Species and Habitats Directive (92/43/EEC) coherency will
be brought into the developments in Europe. However, national differences will maintain to exist
and be taken into account when designing and implementing ecological networks.
Buffer zones
The concept of buffer zones is rather old (Wright and Thompson 1935). Literature offers a
number of definitions, related to the approach used for their design within the framework of spatial
planning and management. IUCN defines a buffer zone: a zone peripheral to a national
park/reserve where restrictions are placed upon resource use or special development measures are
undertaken to enhance the conservation value of the area (Oldfield 1988). The more socioeconomic approach is expressed by the World Bank definition: a social agreement or contract
between the protected area and the surrounding community, where size, position and type of buffer
zone is defined by the conditions of this agreement. Within the framework of an ecological network
strategy the definition of a buffer zone should integrate both landscape and functional attributes. A
definition based on the ecological function(s) of the buffer zone should focus on its main
management objective (Miklós et al. 1995):
- Protection, to protect from harmful human activities,
- Interaction, to sustain positive landscape interactions,
- Diffusion, to sustain natural and man-made flows in the landscape.
Buffer zones aim at controlling human activities within the adjacent lands to a core protected
area by promoting their sound management, thus decreasing the potential impacts and the
probability of isolation. The presence of a local population is implicitly permitted within the buffer
zones (otherwise the buffer zones would be a totally protected area). The current approach in buffer
zone design tends to accept them as areas where a plan of land-use regulations is applied rather
than as clearly defined areas that could have legal protection. Thus, the buffer zone is (or should
be) designed (Jongman and Troumbis, 1995) to:
- protect local traditional land use,
- accomplish area requirements or shape irregularities of the core area,
- set aside an area for manipulative research,
- segregate core areas for nature conservation from other land use like agriculture, recreation
or tourism activities,
- manage adverse effects by putting up a barrier for immediate protection and
- locate developments that would have a negative effect on the core area.
Rob H.G. Jongman
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Landscape change outside the boundaries of a core area generally causes important biotic
changes within it. By creating environmental gradients, buffer zones maintain landscape processes
and elements around the natural remnant to avoid abrupt changes. Common sense and practical
experience make us realise that the fundamental role of protected areas would not be achieved if the
controlling of adjacent human activities is not accomplished. Buffer zones may be viewed as a
shield around the core area against the direct impact of human activities. Human activities should
be viewed both macroscopically as changing land use and landscape patterns, and at their physical
dimension as disturbances generating a long series of abiotic and biotic fluctuations influencing
species and communities under protection (Jongman and Troumbis 1995).
Ecological Corridors
Connectivity and connectedness come together in the concept of ecological corridors.
Ecological corridors can be defined functionally to indicate connectivity and as physical structures
to indicate connectedness. They can be defined as functional connections enabling dispersal and
migration of species that could be subject to local extinction (Bouwma et al 2002). As physical
structures they also can be defined as various landscape structures, other than core areas, in size
and shape varying from wide to narrow and from meandering to straight structures, which represent
links that permeate the landscape, maintaining or re-establishing natural connectivity (Jongman &
Troumbis 1995).
As physical structures they can be identified within an ecological network they are mostly
multifunctional landscape structures. In Europe ecological corridors are often the result of human
intervention in nature: hedgerows, stonewalls, landscapes with small forests, canals and rivers.
Others such as coastlines and watercourses are predominantly natural. The nature of ecological
corridors and their efficiency in interconnecting remnants and in permeating the landscape depend
on the habitat site they originate from and the land use mosaic within which they are embedded in
and of which they consist. Their density and spatial arrangement change according to the type of
land use. Their connectivity function varies from high to low depending on their spatial
arrangement, internal structure and management.
Ecological corridors are multifunctional by definition; they have functions for:
- Aesthetics: it makes an area characteristic
- Social-psychological well being: they make an attractive living environment
- Education: they help to understand and experience nature
- Recreation: nature close to housing
- Ecology: temporal and permanent habitat and pathways for species.
Ecological corridors are multifunctional in both ecological and societal sense, because they are
not the core areas of a nature conservation system but function in the wider landscape. They are
also part of ‘greenways’. They can be as wide as a watershed or as narrow as a trail. They can
encompass natural landscape features as well as a variety of human landscape features and are from
more natural to more cultural classified as (Florida Greenways Commission, 1994).:
- landscape linkages, large linear protected areas between large ecosystems including
undisturbed rivers;
- conservation corridors, less protected and in many cases with recreational functions, often
along rivers;
- greenbelts, protected natural lands surrounding cities to balance urban and suburban growth;
- recreational corridors, linear open spaces with intensive recreational use;
- scenic corridors, primarily protected for its scenic quality;
- utilitarian corridors, canals, powerlines that have an utilitarian function but serve natural
and recreational functions as well;
- trails, designated routes for hikers and outdoor recreation having a function as natural
corridor as well.
18
The concept of ecological networks: european approaches
This classification shows clearly the potential multifunctionality and morphological diversity of
greenways and ecological corridors. The more complex a corridor is, the better it can function for
different species groups and the more it is multifunctional in an ecological sense. A high
immigration rate can help to maintain species number, increase metapopulation size, prevent
inbreeding, and encourage the retention of genetic variation which can be judged as the main
advantage of corridors (Simberloff and Cox 1987). They increase the foraging area for wideranging species and provide possibilities to escape predators and disturbances.
Box.2 Definitions of ecological corridors in European countries
Belgium, Flanders: nature corridor zones are zones that, without regard to their areas, are of importance
for the migration of plants and animals between areas of the Flamish Ecological Network and/or nature
reserves and which are strips or linear shaped with a series of small landscape elements (De Blust,
pers.comm.,1999).
Czech Republic: biocorridors are ecologically significant landscape segments that connect biocentres
and support the migration, spreading out of and contact between organisms. Biocorridors can be
separated into several groups according to state, function and degree of biodiversity. A continuous
corridor contains communities with a high degree of biodiversity throughout its length. An interrupted
corridor is broken by one or more barriers of human origin such as a road, a field or a built up area. A
modal corridor connects biocentres containing the same or similar communities. Contrasts biocorridors
connect biocentres containing distinctly different communities (Veronica, 1996).
Estonia: an "official definition" (in the legal acts) on "ecological corridor" is missing. Three main
aspects of ecological corridors are usually underlined: (1) an arrangement of habitats that enhances the
movement of animals or the continuity of ecological processes through the landscape, (2) a general term
for a linkage that increases connectivity at a landscape or regional scale, (3) a linear strip of vegetation
that provides a continuos pathway between habitats.
Hungary : ecological corridor means any ecological passage made up natural and semi-natural areas and
strips, which ensure or support the ecological connection between distant territories.
Netherlands: ecological corridors are areas or structures that enable spreading, migration and exchange
of species between core areas and nature development areas of the National Ecological Network.
Slovakia: a biocorridor is an adjacent set of ecosystems which connects biocentres and allows the
migration and exchange of genetic information between wildlife and its communities connected to
interactive elements.
Lithuania: migration corridors are the main directions for intensive geodynamic and bio-informational
exchange, based on flow- and migration channels (Kavaliauskas, 1995).
The ecological function of corridors can be several:
- Dispersal, range extension or redistribution of a population
- Migration, escape adverse environmental conditions
- Foraging, movements between nest and feeding grounds
- Reproduction, movement between winter sites and reproduction sites
A typology of ecological corridors can also based on their structure, shape and position in the
landscape. As an example, in Slovakia the following types have been defined (Miklós 1996):
1. According to their relative spatial position to core areas (biocentres):
- conjunctive corridor, connecting two core areas,
- "blind" corridor, no core area in one end (peninsular wedging),
2. According to their structure:
- continuous corridors, without gaps,
Rob H.G. Jongman
19
- interrupted corridors, "stepping stones", "diffusion by jumps",
3. According to their topographic position:
- on ridge positions, divides of watersheds,
- in valleys,
- on slopes (transversal),
4. According to their shapes:
- line-like (typical example: ecotones),
- belt-like,
- belt-like for water flows (as specific type of belt corridors),
- diffuse (created by a mosaic of different landscape elements without marked direction).
It must be stated, that corridors also can have negative influence such as the breaking of
isolation that is needed for some species, exposing populations to more competitive species, the
possibility of spreading of diseases, exotic species, and weeds, disrupting local adaptations,
facilitating spread of fire and abiotic disturbances and disruption of local adaptations (Noss, 1987).
Beier and Noss (1998) stipulate that based on empirical research, that the value of ecological
corridors for connectivity to maintain biodiversity are valuable conservation tools. Not maintaining
or re-establishing ecological corridors would mean that mankind neglects the last remnants of
natural connectivity and in this way could harm its own nature conservation objectives (Beier and
Noss, 1998). Moreover, nowadays practice shows that transport by man are much more important
for spreading species and diseases.
Barriers
Planning of ecological corridors is a method for compensation of a long-term fragmentation
process in agricultural landscapes. A network can meet all kind of barriers. Natural barriers d exist
at all levels. The Atlantic ocean is a barrier between America and Europe for most plant and animal
species. Mountains and rivers can be barriers for mammals and agricultural roads can already be
barriers for insects and spiders (Mader 1988).
Increasing traffic and intensifying agriculture made the European cultural landscape more open
on the one hand and more difficult access on the other. Hedgerows disappeared in intensively used
agricultural land, forests became uniform production forests, streams have been straightened and
the road-network became asphalted, denser and more intensively used. Last but not least many
large and important wetlands have been drained. Canalisation of waterways and the building of
motorways however did disturb both the habitat of species as well as their possibility to disperse.
Fish ladders have to be built to make it possible for fish to cross weirs and locks. Road crossings
can be made as tunnels or pass-overs. Tunnels are used by small species. Habitat elements must be
replaced at the right side of the road and they have to be constructed in such a way that wild species
are guided towards the tunnel. Passovers or ecoducts are meant for larger species. Further
explanation on he barrier role of infrastructure is given in chapter 5. A concept to reduce traffic
impact by traffic claming concepts is worked out in chapter 10.
CONCLUSIONS
The development of ecological networks in Europe is a logical development in the history of
nature conservation. The increased understanding of the functioning of ecosystems and populations
on the one hand and the strong changes in the structure of the European landscape made scientists,
policy makers and planners aware that the traditional nature conservation through site protection
would not hold on the long run. Coherence between nature conservation sites is needed to let
populations of several species survive. Ecological networks and greenways are an answer on that.
The concepts and practical solutions under development are showing increasing coherency.
20
The concept of ecological networks: european approaches
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Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 23-34
RETI ECOLOGICHE E TERRITORIO
Roberto GAMBINO
Politecnico di Torino, Dipartimento Interateneo Territorio
[email protected]
24
Reti ecologiche e territorio
ORIENTAMENTI INTERNAZIONALI PER LA TUTELA AMBIENTALE
Rilevanza del quadro internazionale
Uno dei paradossi della questione ambientale, come oggi si presenta, sta nel fatto che quanto più
le politiche ambientali sono costrette a “territorializzarsi”, vale a dire a confrontarsi con le realtà
locali (i loro problemi, le loro sofferenze, le loro specificità), tanto più si avverte la necessità di
allargare lo sguardo e le prospettive d’azione a scala internazionale. Ovviamente, questo è solo uno
dei modi per ricordare che stanno mutando, nel segno di una crescente interdipendenza, i rapporti
tra locale e globale, tra i problemi e le dinamiche che si osservano a scala locale e quelli che si
manifestano a scala più ampia: sempre più spesso, a scala globale. Da un lato il global change e le
violente turbolenze politiche ed economiche internazionali determinano cambiamenti inaspettati e
spesso drammatici nei contesti locali, dall’altro è proprio in questi contesti che si profilano le sfide
cruciali dell’innovazione e dello sviluppo sostenibile. In generale, la complessificazione di molti
problemi ambientali, il moltiplicarsi di effetti-rete, il cambiamento di scala dei rischi e delle
minacce che incombono sui sistemi ambientali (lo scaling up: basti pensare all’inquinamento o alle
risorse idriche) impediscono ormai ad ogni autorità di controllo di agire in solitudine (nobody
stands alone, si disse già a Rio, nel ’92) e sollecitano forme di regolazione sempre più complesse;
ma è comunque nelle concrete realtà territoriali che le politiche ambientali provano la loro
efficacia, intercettando i rapporti tra uomini e risorse, tra ambiente e società. Questa crescente
interdipendenza – che a livello scientifico non ha bisogno di ulteriori prove - sembra peraltro
ancora inadeguatamente percepita dalla società civile, dalle istituzioni e dal sistema politico.
Nel nostro paese l’esigenza di allargare lo sguardo è accresciuta dai vincoli sempre più stretti
che ci stanno saldando con il contesto europeo. Le sorti dei nostri paesaggi e dei nostri quadri
ambientali dipendono sempre più da driving force e da scelte d’indirizzo che si affermano a scala
europea: basti pensare all'influenza devastante che le politiche agricole comunitarie hanno
esercitato sui nostri agro-ecosistemi (in termini di ipersemplificazione e industrializzazione dei
paesaggi agrari, di perdita dei “paesaggi di piccola scala”, di accelerazione dei processi
d’abbandono, di perdita di biodiversità, ecc.) o alle lacerazioni ambientali prodotte dallo sviluppo
dei grands réseaux infrastrutturali. Non va d’altronde dimenticato che l’Unione europea ha
competenza esclusiva in materia ambientale e che il nostro paese è crescentemente impegnato da
accordi, intese, trattati di varia natura, cui la recente riscrittura del Tit.V della Costituzione ha
conferito rilevanza costituzionale.
L’urgenza di una visione non solo europea ma anzi più precisamente euro-mediterranea, per
affrontare adeguatamente i problemi ambientali del nostro paese, sembra incontrovertibile. Le
strette connessioni che si vanno definendo tra i problemi di sviluppo dei paesi mediterranei e i
problemi ambientali europei, già al centro dell’attenzione del Mediterranean Action Plan dal 1975,
sono quotidianamente consegnate all’attualità politica. La revisione del MAP nel 1995 ha
evidenziato le responsabilità dei paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo in ordine al
riequilibrio ecologico dell’intero bacino. Responsabilità che riguardano non solo le pressioni
ambientali da essi generate, ma anche le “risposte” che essi sono in grado di fornire, per es. in
termini di aree protette (circa il 90% di quelle localizzate nei paesi rivieraschi sono ospitate in
quelli europei, soprattutto Spagna, Italia e Francia). Di particolare rilievo il ruolo dell’Italia che,
mentre occupa una posizione periferica nel contesto europeo, ha invece una posizione centrale
rispetto al bacino mediterraneo. Posizione che richiama d’altronde uno straordinario complesso di
relazioni storiche, economiche e culturali e che appare tanto più strategica in quanto si consideri il
ruolo dei grandi sistemi montuosi ai fini del riequilibrio ecologico (Alpi ed Appennini come
struttura di connessione tra l’Europa centrale e l’arco mediterraneo, nella Rete Ecologica Europea).
Roberto Gambino
25
Orientamenti emergenti nell’Unione Mondiale delle Natura
Nel quadro internazionale, hanno da tempo assunto particolare importanza gli orientamenti e le
linee d’indirizzo dell’IUCN (Unione Mondiale della Natura). A questo riguardo, non si può evitare
di porre in evidenza la duplice “svolta” manifestatasi nella Conferenza di Durban, nel settembre
2003, che ha riguardato congiuntamente:
la relazione stringente tra conservazione e sviluppo sostenibile, tra problemi ambientali e
problemi economici e sociali, tra degrado ambientale e povertà, tra distruzione delle risorse vitali e
soppraffazione economica, tra le strategie per la conservazione del pianeta e la lotta alla miseria e
all’ingiustizia;
la relazione stringente tra la protezione di singole risorse e le condizioni ambientali del
contesto territoriale, a scala globale e a scala locale, tra le misure di salvaguardia di singole specie,
habitat o paesaggi e le misure necessarie per contrastare la perdita complessiva della biodiversità e
per assicurare livelli accettabili di qualità al quadro di vita delle popolazioni.
Entrambe le relazioni sottolineano il messaggio implicito nel titolo stesso della Conferenza
(Benefits beyond boundaries) che poneva il problema di come le politiche di conservazione
possano irradiare benefici (ambientali, economici, sociali, culturali) al di là di ogni frontiera,
spaziale, istituzionale, sociale, etnica e culturale, generazionale e di genere. E per entrambe le
relazioni si afferma con grande enfasi a Durban il ruolo decisivo della cooperazione, nel significato
più ampio del termine: la collaborazione inter-istituzionale, il partenariato pubblico-privato, la
partecipazione attiva e prioritaria delle comunità e degli attori locali. Trova così piena
consacrazione una linea di riflessione che aveva già trovato esplicita affermazione nel Congresso
IUCN di Montreal, 1996 e su cui ha lavorato e lavora combattivamente il gruppo di lavoro sul comanagement (CMWG) guidato da Grazia Borrini Feyerabend. Linea destinata a svilupparsi
ulteriormente, stando a quanto promette il programma di lavoro per il prossimo Congresso di
Bangkok, 2004, significativamente intitolato “People and Nature: only one world”.
Nuovi paradigmi per le “aree protette” (IUCN, 2001-2003)
Alla luce dei suddetti orientamenti, si precisano importanti cambiamenti nei paradigmi che
hanno finora guidato le politiche delle aree protette. I nuovi paradigmi, lanciati da A.Phillips, quale
presidente della Commissione mondiale per le aree protette dell’IUCN, nel 2001, e riproposti a
Durban nel 2003, prevedono in sintesi:
obiettivi più diversificati (anche socioeconomici),
governance: forme meno centralizzate e più pluraliste di controllo e regolazione,
rapporti cooperativi con le comunità locali (gestire non “contro” ma “con”, “per” e, ove
possibile, anche “tramite” loro,
rapporti di integrazione col contesto (dalle filosofie “insulari” a quelle di sistema e di rete),
percezione sociale: le aree protette viste come risorsa collettiva,
gestione: spostamento dalle forme tecnocratiche a quelle adattative e politicamente
sensibili,
competenze: spostamento da quelle specialistiche a quelle interdisciplinari ed ai saperi
locali,
finanziamenti: verso forme più diversificate e pluralistiche di finanziamento degli
interventi.
E’ interessante notare che, sebbene i nuovi paradigmi siano stati proposti in una prospettiva
internazionale fortemente influenzata dalle rivendicazioni e dai problemi dei paesi sottosviluppati,
essi appaiono particolarmente pertinenti per la situazione italiana ed europea. Basti pensare
all’enfasi posta sulle finalità socioeconomiche da perseguire, con le politiche delle aree protette,
nell’esperienza dei parchi regionali italiani o francesi o dei parchi nazionali in Olanda, alla
graduale maturazione del dialogo concertativo con le comunità locali (anche in contrasto con il
“sovraordinamento” attribuito dalla nostra L.394/1991 alla pianificazione dei parchi nei confronti
26
Reti ecologiche e territorio
di ogni altro tipo di pianificazione del contesto territoriale), all’importanza accordata in molte
esperienze recenti ai tentativi di integrazione tra parchi e contesto per contrastare i rischi
dell’”insularizzazione”, all’aspro dibattito recentemente sviluppatosi nel nostro paese sul
finanziamento delle aree protette (di fronte alle pretese di chi vorrebbe ridurre il bilancio complesso
dei costi e dei benefici da esse generati ad un problema di cassa).
La spinta della Convenzione Europea del Paesaggio
Gli orientamenti espressi dall’Unione Mondiale della Natura hanno trovato un importante
riscontro nella Convenzione che il Consiglio d’Europa (Congresso dei poteri locali e regionali) ha
aperto alla firma dei 45 paesi europei nel 2000 a Firenze. La Convenzione infatti, consacrando
politicamente concezioni già maturate a livello scientifico e culturale, ha impresso una spinta
rilevante alle politiche di tutela paesistica, al cui centro si situa l’allargamento delle istanze di
tutela all’intero territorio. Oggetto d’attenzione non sono più solo i “bei paesaggi”, i paesaggi
eccezionali o d’indiscutibile valore, ma anche quelli dell’ordinarietà, della quotidianità o persino
dell’atopia o del degrado. E’ uno spostamento decisivo – evidentemente corrispondente a quel
superamento della concezione “insulare” sopra ricordato – che implica un cambiamento importante
nel modo di guardare al paesaggio e di concepirne il ruolo per la società contemporanea. La
Convenzione mette l’accento sul significato complesso del paesaggio: non solo ecologico, come
nell’interpretazione fondamentale dell’Ecologia del paesaggio di scuola anglosassone; non solo
estetico, come nella tradizione italiana, ma anche antropologico-culturale, storico e semiologico… :
non solo esito dinamico dell’interazione di fattori naturali ed umani, ma anche “componente
essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione del loro comune patrimonio culturale
e naturale e fondamento della loro identità”. Il riferimento alle identità locali e al modo con cui esse
sono percepite e fatte proprie dalle popolazioni conferisce un significato profondamente innovativo
all’azione di tutela. Il riconoscimento del ruolo che il paesaggio è chiamato a svolgere in ogni
angolo del territorio pone infatti problemi non solo di preservazione in senso stretto (difesa passiva
dai fattori di alterazione e di degrado, conservazione di uno stato di integrità raggiunto e non più
perfettibile), ma anche di gestione dei processi di trasformazione che incessantemente si
producono sul territorio, di progetto e pianificazione delle trasformazioni attese o comunque
necessarie per salvaguardare i valori percepiti, fino alla creazione di nuove configurazioni e alla
produzione di nuovi valori laddove i processi pregressi hanno cancellato i preesistenti valori
identitari, eroso la qualità paesistica e determinato forme più o meno profonde di degrado. In
questo senso l’azione di tutela è intrinsecamente e inevitabilmente azione di progetto.
Questo nuovo modo di guardare il paesaggio ha implicazioni importanti per le politiche delle
aree protette e più in generale per la conservazione del patrimonio naturale. Dal punto di vista
pratico, non va dimenticato che i “paesaggi protetti” costituiscono, secondo le classificazioni
dell’IUCN, una larga quota delle aree protette europee; e che anzi non pochi parchi italiani hanno
negli ultimi anni conseguito il riconoscimento, da parte dell’Unesco, di paesaggi facenti parte del
patrimonio mondiale dell’umanità. A questa constatazione si accompagna quella del crescente
interesse per i “paesaggi culturali” (living o working landscapes, paesaggi variamente e
pervasivamente modellati dall’azione antropica nel corso di processi più o meno complessi di
civilizzazione) che si è registrato nell’ultimo decennio nelle politiche delle aree protette non solo
della “vecchia Europa” ma anche a livello internazionale (vedi ad es. l’interesse tributato ai
paesaggi culturali dal National Park Service americano). Ma anche dal punto di vista teorico,
l’attenzione scientifica per le dinamiche naturali che sottostanno all’evoluzione dei quadri
paesistici – in particolare nelle interpretazioni proposte dall’Ecologia del paesaggio - incrocia
l’attenzione per il paesaggio nelle politiche di conservazione della natura: il paesaggio si colloca al
centro delle preoccupazioni per la difesa della biodiversità.
Roberto Gambino
27
DIVERSITÀ E CONNETTIVITÀ
Diversità e identità al tempo della globalizzazione.
E’ appunto il tema della diversità a collegare analisi, interpretazioni e linee d’azione che si
muovono in ambiti disciplinari e in settori di competenza distinti o del tutto separati. Stimolati dalle
preoccupazioni relative agli effetti negativi della globalizzazione, gli studi e gli approfondimenti
scientifici, i dibattiti e gli accordi internazionali per la conservazione della biodiversità – nel cuore
delle politiche ambientali contemporanee – hanno sempre più spesso evidenziato i suoi rapporti con
la diversità paesistica, culturale, economica e sociale… La diversità paesistica sembra offrire un
indispensabile quadro interpretativo – non solo in prospettiva storica, ma anche per l’azione
politica - per la considerazione dei processi che incidono sulla biodiversità, in tutte le sue diverse
accezioni. La difesa della diversità paesistica appare come uno dei terreni cruciali su cui dispiegare
le strategie di difesa della biodiversità. A sua volta, la diversità paesistica, in quanto derivante
dall’azione congiunta di processi naturali ed antropici che agiscono su diverse scale spaziotemporali, si collega alla diversificazione delle culture, delle strutture economiche e sociali e delle
organizzazioni territoriali che plasmano i paesaggi, modificandone il senso e il ruolo per le società
contemporanee. Tra la diversificazione del patrimonio biologico e quella paesistica, economica,
sociale e culturale si registrano affinità e interconnessioni, nel passato e nel presente, che
condizionano profondamente l’azione progettuale e le prospettive di pianificazione.
Queste interconnessioni conferiscono un significato complesso al tema dell’identità, un tema
che per molte ragioni ha conquistato una posizione centrale nel dibattito politico e culturale
contemporaneo, nei più diversi orizzonti. Il forte accento posto dalla Convenzione Europea sul
ruolo del paesaggio nella costruzione e nella conservazione dei valori identitari, trova infatti
riscontro in una pluralità di azioni rivendicative, di tensioni e movimenti, che hanno fatto
dell’identità la propria bandiera. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato come la difesa delle
identità si muova tra contraddizioni e sinergie. Da un lato si constata come il senso dell’identità
nasca dalla coscienza della diversità, e la sua difesa implichi il riconoscimento e il rispetto della
diversità, in tutte le sue forme ed attraverso tutte le frontiere, in un’“apertura al mondo” che
comporta disponibilità al dialogo e al confronto. Ma dall’altro gli arroccamenti localistici e le
chiusure nazionalistiche ed etno-linguistiche (fino alle “identità armate” che alimentano le tragedie
quotidiane nelle più diverse parti del mondo) sembrano mostrare come ben spesso la difesa
dell’identità possa tradursi nell’esclusione e nell’isolamento, nella chiusura autistica e regressiva,
più o meno gravida di nostalgia. Ed è solo nel primo caso che la diversificazione può tradursi in
ricchezza.
Crescita e diversificazione delle aree protette, tra remotizzazione e insularizzazione.
Questa considerazione, apparentemente lontana dai temi che qui interessano, investe invece
direttamente le politiche delle aree protette e delle reti ecologiche, e più precisamente il passaggio
da una concezione “insulare” ad una concezione “reticolare”: in altri termini, la possibilità di
valorizzare quella diversificazione del patrimonio naturale e paesistico che costituisce una
fondamentale ricchezza del paese.
Per comprendere la rilevanza delle poste in gioco, è necessario partire da alcune constatazioni:
a) la crescita spettacolare del numero e della superficie complessiva delle aree protette, sia in
Europa che in Italia (decuplicati in poco più di un ventennio), crescita che evidenzia due fenomeni
apparentemente contrapposti, da una parte la “remotizzazione” (la localizzazione delle aree protette
nei territori più remoti dagli epicentri dello sviluppo economico, meno appetiti per usi urbani e
produttivi), dall’altra l’”insularizzazione” (la localizzazione di aree protette in territori sempre più
densamente industrializzati e urbanizzati, carichi di pressioni antropiche);
28
Reti ecologiche e territorio
b) il crescente impatto territoriale (Ced-Ppn, 2001: 14,3% in Europa, 11,6% in Italia – 19%
coi siti d’interesse comunitario) e sociale (27% dei comuni italiani interessati almeno parzialmente,
con un terzo della popolazione nazionale);
c) la diversificazione dei connotati ambientali dei parchi: dalle “nature remote” (3%) alle
“nature umanizzate” (44%) ai “paesaggi rurali” (29%) alle “isole assediate” (21%) ai “parchi
urbani” (3%) (Ced-Ppn, 1996): un insieme ancora molto disgregato.
Frammentazione e connettività.
I processi recenti di frammentazione e lacerazione del territorio costituiscono un tema attuale e
pluridimensionale. L’aspetto forse più appariscente e comunque preoccupante è rappresentato dalla
diffusione insediativa e infrastrutturale, che nell’arco degli ultimi decenni ha sostanzialmente
sostituito alla vecchia immagine della città “compatta”, rielaborata ma non smentita nell’età
moderna, l’immagine multiforme, post-moderna o tardo-moderna, della città diffusa o dispersa o
diramata. Decentramento produttivo e abitativo e forme nuove di urbanizzazione sparsa o di vera e
propria “contro-urbanizzazione” hanno alimentato lo sprawl urbano e la dissoluzione della città
nelle reti territoriali, erodendo rapidamente gli spazi agricoli e gli spazi naturali soppravvissuti alle
grandi “alluvioni urbane” del secolo ventesimo ed allargando su quasi tutto il territorio l’”impronta
ecologica” della città, con conseguenze plurime, dalla scomparsa dei paesaggi rurali alla
modificazione profonda dei cicli idrologici indotta dall’impermeabilizzazione dei suoli, allo spreco
energetico stimolato dalle nuove forme di habitat, alla progressiva “ingegnerizzazione” del
territorio, alla disgregazione del tessuto sociale, ecc. Nel contempo l’industrializzazione e
“modernizzazione” dell’agricoltura hanno contribuito alla crescente “semplificazione” dello spazio
agricolo (con la scomparsa dei “paesaggi di piccola scala”) e all’abbandono di vaste aree montane e
collinari di bassa produttività. Nell’insieme, si tratta di processi (tutt’altro che conclusi, secondo le
statistiche più recenti) profondamente differenti da quelli del passato, che implicano sindromi
complesse e diversificate di “rottura”, spesso evocate con termini come appunto la
frammentazione, la lacerazione, la perdita delle continuità, l’indebolimento o la scomparsa delle
preesistenti trame di connessione.
A livello ecologico, tutto ciò profila rischi crescenti di demolizione o di “insularizzazione”
degli habitat, di riduzione della funzionalità ecosistemica e, in definitiva, di perdita di
biodiversità. Ma è importante notare che rischi non minori si avvertono sotto il profilo paesistico, o
urbanistico, o socio-territoriale o culturale. Apparati organizzativi complessi, lentamente costruiti
nel corso di secoli o millenni, sono intaccati nelle loro componenti più delicate e vulnerabili: le
trame di connessione. Non è quindi un caso che le esigenze di riconnessione o di difesa della
connettività si avvertano nei campi più diversi, da quello ecologico a quello culturale e sociale,
urbanistico e paesistico, economico e produttivo, informativo e conoscitivo… Ed è lecito chiedersi
se si tratti di semplici analogie o di aspetti diversi di una stessa trasformazione strutturale, che
investe alla radice i rapporti tra ambiente e società nell’età contemporanea, quale quella evocata dal
Commoner con la celebre immagine della “rottura del cerchio”.
RETI E SISTEMI
Le reti ecologiche.
La risposta più diretta alle esigenze di connettività e di ricucitura ecosistemica è quella
aggregatasi, fin dall’inizio degli anni ’90, attorno al concetto delle reti ecologiche. E’ del 1991 la
prima proposta, teoricamente argomentata e organicamente pensata a scala continentale, di una
Rete ecologica europea (Eeconet). Ad esse hanno fatto seguito proposte a livello nazionale (prima
fra tutte quella dell’Olanda, pochi anni fa anche per l’Italia) o regionale o per aree vaste
subregionali (ad es. quelle contenute nei Piani di alcuni parchi naturali, nazionali e regionali). Le
Roberto Gambino
29
proposte, come i ragionamenti teorici sottesi, si sono mosse sostanzialmente da due opposti punti
di vista:
a) come reazione all’insularizzazione delle aree protette e alla conseguente difficoltà di
assicurarne un’adeguata protezione sia con le misure di tutela interne ai loro perimetri, sia col
tradizionale ricorso alle fasce di protezione esterne (buffer zone), sia, ancora, con significativi
allargamenti dell’area protetta. Sebbene molti ritengano che tale difficoltà si ponga
indipendentemente dalla vastità dell’area protetta (a Durban, 2003, si è ripetutamente affermato che
non esiste un’area protetta abbastanza vasta da poter essere efficacemente tutelata all’interno del
perimetro), non c’è dubbio che i rischi dell’insularizzazione, in primo luogo per la biodiversità,
sono notevolmente accentuati in Europa dalla esigua dimensione delle aree protette (mediamente
meno di 40.000 ha) e dalla intensità delle pressioni antropiche su di esse esercitate, data la densità
abitativa e infrastrutturale dei contesti;
b) come tentativo di contrastare la frammentazione e di assicurare in tutto il territorio le
condizioni della sostenibilità, ripristinando e tutelando la trame vitali delle connessioni
ecosistemiche. E’ interessante notare che questa seconda motivazione implica uno spostamento
qualitativo dell’azione di tutela, dagli habitat alle loro relazioni: il problema non è soltanto quello
dell’insufficiente “copertura” della superficie territoriale (che si assume comunque non
significativamente incrementabile oltre quel 10-15% ormai mediamente raggiunto in Europa), ma
quello della carenza di canali di connessione adeguati alla funzionalità ecosistemica.
Critica e dilatazione del concetto di rete ecologica.
Negli ultimi 10-15 anni, in parallelo al moltiplicarsi delle sperimentazioni, il concetto di rete
ecologica è stato sottoposto a molte critiche. Ai fini di queste note, un primo punto da ricordare
concerne l’esigenza e, insieme, la difficoltà di approcci specie-specifici, scientificamente fondati e
sperimentalmente verificabili, atti quindi a garantire con ragionevole sicurezza che i “canali”
tutelati dalle rete siano effettivamente usati e che si attivino o riattivino i “flussi” auspicati.
Approcci che non soltanto richiedono la previa individuazione delle specie cui la rete dovrebbe
servire (in quanto minacciate d’estinzione, e/o di particolare interesse ecc.) ma che dovrebbero nel
contempo assicurare un complessivo incremento della connettività e della permeabilità
ecosistemica.
Un secondo punto cruciale concerne l’impossibilità o l’inopportunità di pensare le reti al
servizio esclusivo delle aree protette, vale dire mirate esclusivamente ad assicurare quelle
connessioni fra le aree protette la cui carenza pregiudica la possibilità di un’efficace tutela della
loro integrità. Qui le critiche hanno variamente colto l’inadeguatezza delle aree protette rispetto
alle esigenze di rappresentare e proteggere la diversità biologica e paesistica: per es. in Italia la
radicale sotto-rappresentazione delle fasce pedemontane (sia lungo l’Appennino che lungo le Alpi),
o delle fasce fluviali (persino il Po gode di una protezione molto parziale) o delle fasce costiere, o
l’assenza di importanti presidi di innegabile rilevanza ecologica, paesistica e culturale (perché ad
es. nelle Alpi occidentali solo il Gran Paradiso e non anche il M.Bianco o il M.Rosa?). Tenuti
presenti i tassi di copertura territoriale già raggiunti con le politiche delle aree protette, sembra
ragionevole pensare che i gap segnalati non possano essere adeguatamente colmati con un’ulteriore
massiccia espansione delle aree stesse e che di conseguenza le reti ecologiche debbano considerare
un sistema di nodi (in particolare di “core areas”) assai più articolato delle sole aree protette.
Un terzo nodo critico concerne la difficoltà di distinguere (soprattutto in Europa, in presenza di
trame di relazioni complesse e stratificate, frutto di processi secolari di rielaborazione ambientale)
il ruolo biologico da quello paesistico, fruitivo, storico e culturale. E quindi la necessità di
considerare, accanto alle rotte dei lupi o alle vie degli orsi, anche le vie della transumanza o i
percorsi devozionali e culturali, fino addirittura a quelle relazioni scarsamente leggibili nella
realtà materiale dei luoghi che possono ricordare le “vie dei canti” degli aborigeni australiani.
Di qui un’ampia gamma di dilatazioni del ruolo e delle funzioni delle reti proposte: dalle
connessioni strettamente ecologiche ai canali bio-culturali, dalle reti “verdi” alle reti “blu”
(Olanda), alle E-ways (le environmental ways già proposte da Ph.Lewis negli anni ’60), alle
30
Reti ecologiche e territorio
“infrastrutture ambientali” latamente intese, fasci compatti e plurifunzionali diramati su tutto il
territorio, come tipicamente proposto nel Progetto APE per l’Appennino. Idea complessa circa la
quale va subito avvertito che accanto alle collimazioni e convergenze (come nel caso dei tratturi),
possono insorgere interferenze e conflitti che vanno adeguatamente risolti (come nel caso dei
percorsi per i turisti, che possono ospitare flussi tali da pregiudicare del tutto le connessioni
ecologiche).
Il territorio come rete di reti.
Le reti ecologiche sono soltanto una delle interpretazioni reticolari delle realtà territoriali che
hanno richiamato l’attenzione degli studiosi negli ultimi decenni. Accanto alle interpretazioni
reticolari dei sistemi ecologici, variamente teorizzate dalle scienze naturali, si sono sviluppate fin
dai primi anni ’80 nell’ambito delle scienze regionali quelle concernenti i sistemi urbani e
territoriali, mentre già da tempo geografi ed ingegneri dedicavano attenzione alle reti della
mobilità e dei trasporti, gli economisti alle reti d’impresa, i sociologi alle trame organizzative delle
formazioni sociali ecc.; senza contare le reti informative e i network delle comunicazioni, destinati
ovviamente ad acquistare un peso crescente nella società contemporanea. Queste diverse
interpretazioni presentano indubbie analogie: per es. l’indebolimento o la scomparsa dei vincoli di
prossimità in una logica dicotomica in cui ciò che conta è “stare o non stare in rete”; o l’importanza
decisiva delle differenze nell’attivare i flussi di relazione tra i nodi. In una società che “funziona
sempre più per reti”, le diverse reti interagiscono necessariamente tra di loro e il territorio può
essere pensato come una “rete di reti”. Ma sotto il profilo teorico ci si può chiedere (riecheggiando
anche l’interrogativo di cui al punto 2.3) se le analogie che si osservano tra le diverse
interpretazioni reticolari non possano o debbano suggerire un’interpretazione “trasversale”,
necessariamente olistica e trans-disciplinare. Le riflessioni di studiosi come DeLanda sulle “trame
auto-organizzate” che attraversano i tre mondi (fisico-geologico, biologico e culturale o
“linguistico”) sembrano andare in questa direzione e postulare quindi una visione più ampia nella
quale inquadrare le interpretazioni parziali, come quella delle reti ecologiche. E in questa direzione
si incontra subito un altro interrogativo, che riguarda il senso delle reti nei sistemi socio-territoriali
della contemporaneità. Si tratta di capire se e a quali condizioni le reti si configurano come trame
auto-organizzate che si contrappongono, nascendo dalle realtà locali,
al principio di
organizzazione gerarchica, invece che come proiezione di un ordine superiore che lega le realtà
locali in un sistema di relazioni esogene ed etero-dirette. L’esempio delle reti ecomuseali
recentemente sviluppatesi anche in Italia sembra attestare la prima possibilità, mentre quello dei
“grand réseaux” europei dei trasporti sembra piuttosto attestare la seconda.
L’idea di sistema.
Il concetto di rete ecologica è strettamente legato a quello di sistema, che ha meritato grande
attenzione nell’ambito delle scienze naturali, sia sotto il profilo teorico che sul piano operativo.
L’ecologia del paesaggio ha fin dagli anni ’30 messo in chiaro il concetto di ecosistema e
assicurato poi il passaggio dagli ecosistemi ai paesaggi, intesi appunto come sistemi di ecosistemi.
Nel corso degli ultimi 10-15 anni, la consapevolezza dell’inadeguatezza delle misure di protezione
della natura, soprattutto in rapporto alle esigenze di difesa della biodiversità, ha indotto a
enfatizzare gli approcci sistemici e a invocare politiche di sistema. Nel 1998 l’Unione Mondiale
della Natura ha prodotto un apposito documento dedicato alla costruzione dei sistemi nazionali di
aree protette. Più recentemente ha acquistato importanza a livello internazionale il concetto delle
eco-regioni, con l’individuazione sull’intero pianeta di più di 200 eco-regioni variamente
caratterizzate, tali da rappresentare la maggior parte delle risorse naturali vitali, su cui concentrare
l’azione di tutela.
Ma anche nell’ambito delle scienze sociali, geografiche e territoriali il concetto di sistema è
stato ed è ampiamente frequentato. Il tema della “regionalizzazione”, lungamente esplorato in
geografia, ha molto a che vedere col concetto di sistema, così come la tradizionale ricerca dei
Roberto Gambino
31
pianificatori “regionali” o “d’area vasta”. Recentemente geografi ed economisti hanno proposto
nuove e più precise definizioni dei “sistemi locali territoriali” (SLoT), su cui tentare di articolare lo
sviluppo sostenibile, a partire da aggregazioni progettuali che riflettano le capacità autoorganizzative ed auto-poietiche delle formazioni territoriali.
Ciò che si vuol qui rilevare è che si tratta in tutti i casi di partizioni che “attraversano”, di
regola, le partizioni istituzionali-amministrative (quelle storicamente consolidate, come i Comuni,
le Province, o le Regioni, ma anche quelle “sulla carta” come le “città metropolitane”), e che anzi
presentano spesso “geometrie variabili”, ossia diversamente configurabili al variare degli aspetti
presi in considerazione. Inoltre, si tratta di sistemi che richiedono reti di connessione ma che non si
riducono alla dimensione “reticolare”, presentando una dimensione anche “areale”.
Le politiche di sistema.
Nel documento citato dell’IUCN, 1998, erano definiti i criteri per la formazione di sistemi di
aree protette a livello nazionale. In qualche misura tali criteri valgono anche a livelli diversi
(sovranazionale, regionale, d’area vasta). Essi concernono, in sintesi: la rappresentatività,
l’adeguatezza, la coerenza e complementarietà, la congruenza tra obiettivi ed azioni praticabili,
l’equilibrio tra costi e benefici. Le motivazioni espresse in quel documento sono state ripetutamente
ribadite nella Conferenza di Durban, 2003. Le Raccomandazioni finali della Conferenza per
l’allargamento delle politiche di protezione esplicitamente menzionano la necessità di andare oltre
la semplice istituzione di ulteriori aree protette (comunque necessaria o auspicabile in presenza di
risorse ed habitat sotto-rappresentati) considerando e sviluppando anche altre forme di protezione,
come la pianificazione paesistica, per fronteggiare i processi che si manifestano fuori delle aree
protette e ne minacciano la diversità.
Le politiche di sistema hanno riscosso crescente attenzione, almeno in linea di principio, anche
nel quadro italiano La cosiddetta “nuova programmazione” alla fine degli anni ’90 ne aveva
sottolineato l’indispensabilità e la L.426/98, integrando la L.394/1991, aveva esplicitamente
indicato alcuni “grandi sistemi” sub-nazionali (come l’Appennino, le Alpi, le coste e le isole) come
oggetti prioritari di politiche di sistema. Nel 2001 due ricerche promosse dal Ministero
dell’ambiente (Ced-Ppn, 2001) precisavano tali indicazioni, la prima sviluppando il Programma
d’azione per il Progetto APE (Appennino Parco d’Europa), la seconda articolando un quadro
strategico nazionale per la costruzione del sistema complessivo delle aree protette. In sintonia con
le considerazioni di cui sopra, entrambe le ricerche pongono in evidenza la necessità di approcci
sistemici che vadano “oltre i parchi”, non solo per conferire maggior efficacia alle azioni di tutela
ma anche per far sì che la valorizzazione dei parchi e delle aree protette possa concorrere
significativamente allo sviluppo locale (“Benefits beyond Boundaries”).
CONSERVAZIONE E PIANIFICAZIONE
Partire dal territorio, anziché dalle aree protette o dai paesaggi di valore.
Il tentativo delineato nelle ricerche sopra citate, ed attualmente al centro dei dibattiti sulle
politiche di conservazione, è appunto quello di “andare oltre i parchi”, passando dagli attuali
“sistemi di aree protette” (costituiti in realtà da insiemi debolmente o per nulla connessi di “isole”
staccate, che quindi non “fanno sistema”), a sistemi integrati di conservazione ambientale. Questo
passaggio implica un ribaltamento della prospettiva tradizionale. Si tratta, in sintesi, di partire non
già dalle aree protette (e dalle loro carenze), ma dal territorio, dai suoi problemi, dalle sue criticità,
dalle sue potenzialità e dalle sue esigenze di riequilibrio e riconnessione. Ciò non significa affatto
devalorizzare il ruolo delle aree protette o trascurarne i problemi: ma significa piuttosto pensare e
progettare sistemi in grado di potenziare i benefici associabili alle aree protette, integrandole con
altre componenti diramate su tutto il territorio.
32
Reti ecologiche e territorio
Nelle proposte emerse, i sistemi verso cui puntare dovrebbero includere e collegare componenti
diverse con ruoli diversi: oltre alle “aree protette” strettamente intese (il cui riferimento nazionale è
costituito dalla L.394/1991, ma non va sottaciuta la necessità di integrazioni e ripensamenti
coerenti con gli orientamenti emergenti a livello internazionale: IUCN 2003), aree e siti d’interesse
comunitario, reti di connessioni bio-culturali (come le fasce fluviali), spazi naturali e seminaturali
non necessitanti di protezione speciale (come le grandi aree forestali), parchi e aree verdi urbane,
altri paesaggi tutelabili coi piani paesistici… .Un aspetto particolarmente interessante di tali sistemi
dovrebbe essere costituito dal fatto che essi “entrino in città”, legandola in forme ecologicamente
sostenibili con la campagna e la montagna: utilizzando i varchi ancora liberi, come le fasce fluviali
e le vie d’acqua che attraversano la città e lo stesso “verde urbano” dei viali, dei parchi urbani e dei
giardini pubblici, per ripristinare connessioni perdute. La separazione tra reti ecologiche
extraurbane, attestate nel migliore dei casi sulle “cinture verdi” che circondano le città, e i sistemi
interni del verde urbano, è infatti ormai impraticabile nei nuovi scenari della diffusione urbana,
come dimostrano le esperienze più avanzate di varie città europee. In questa direzione, l’alleanza
tra politiche di conservazione della natura e politiche di tutela e riqualificazione paesistica può
rivelarsi decisiva.
Riarticolare il rapporto tra conservazione e sviluppo.
Le considerazioni fin qui sviluppate mostrano fin troppo chiaramente la portata delle sfide
ambientali che si profilano a livello internazionale. Dietro ai “nuovi paradigmi” proposti dalla
Conferenza di Durban per le politiche delle aree protette, si stagliano interrogativi di ben maggior
rilevanza, che mettono in discussione il concetto stesso di sviluppo e la credibilità del binomio
“sviluppo sostenibile”. Si fanno strada, pur tra molti equivoci e contraddizioni, nuove idee di
sviluppo, basate, piuttosto che sulla crescita del prodotto interno lordo, sulla “produzione di
benessere e qualità della vita”, misurabile in termini materiali e immateriali, tangibili ed intangibili,
non necessariamente monetizzabili e quantificabili.
In queste nuove prospettive, lo sviluppo implica la produzione innovativa di valori destinati ad
accrescere la dotazione di risorse ed opportunità di cui la collettività, in tutte le sue articolazioni
sociali e territoriali, può concretamente disporre, ed a mitigare i rischi e le insicurezze che ne
insidiano o pregiudicano la qualità della vita. Ma negli attuali contesti storici, la produzione di
nuovi valori non è mai disgiungibile dalla rielaborazione del patrimonio di valori naturali e
culturali esistenti, da trasmettere alle future generazioni. Ogni innovazione implica una presa di
posizione (non certo esente da possibili fratture) nei confronti del patrimonio di valori identitari, di
memorie e tradizioni in cui il contesto sociale si rispecchia. In questo senso non sembra possibile
un’autentica innovazione che non si misuri coi problemi di conservazione e trasmissione del
patrimonio di valori in atto.
Simmetricamente, la conservazione non sembra in alcun modo appiattibile sulle misure di
semplice limitazione o negazione di qualsiasi processo trasformativo, sulla difesa passiva dai fattori
di pressione, sul tentativo sterile di “separare le cose dal loro divenire” (Tiezzi). Al contrario, la
necessità di coniugare tutela e valorizzazione, di differenziare le azioni di tutela in funzione delle
specificità e dei problemi delle singole realtà territoriali, di gestire e riqualificare il patrimonio
paesistico (come indica la Convenzione Europea) con misure ed interventi articolati sull’intero
territorio, conferisce alla conservazione il senso e il ruolo di una rielaborazione continua del
patrimonio di valori naturali, paesistici e culturali, carica di consapevolezza ambientale e di
coscienza storica. In questo senso ben preciso non sembra possibile un’autentica conservazione che
non implichi contestualmente la produzione di nuovi valori.
Ridefinire le missioni della pianificazione.
Alla luce delle considerazioni precedenti, sembra difficile negare o sottovalutare il ruolo della
pianificazione. Se lo sviluppo deve essere inteso come produzione di qualità e di benessere,
l’azione pubblica di regolazione dei processi di trasformazione è più necessaria che mai; e, data la
Roberto Gambino
33
complessificazione dei problemi da fronteggiare, la pianificazione costituisce uno strumento
insostituibile di regolazione integrata e preventiva, atta ad anticipare gli eventi e ad assicurare
livelli accettabili di coerenza tra le diverse azioni proponibili. Ma le stesse ragioni che motivano il
ricorso alla pianificazione, ne mettono anche radicalmente in discussione la filosofia, i metodi e gli
strumenti. Questa discussione, lungi dal potersi tradurre in operazioni di semplice razionalizzazione
delle logiche “interne” al governo del territorio, non può che partire da un ripensamento del ruolo
che la pianificazione è chiamata a svolgere per assicurare la sostenibilità dello sviluppo, nell’ampio
significato che si è tentato di evocare. La definizione delle nuove “missioni ambientali” della
pianificazione trova un importante punto di riferimento nelle proposta maturate dall’IUCN nel
1996, in vista del Congresso di Montreal. Esse possono essere così schematizzate:
a) la missione conoscitiva, valutativa, argomentativa, volta a motivare e giustificare le scelte
di tutela e di intervento, a chiarire le poste in gioco e i valori intoccabili, a individuare gli interessi
colpiti e i campi di negoziabilità,
b) la missione strategica, volta a proporre obiettivi, visioni e linee d’azione condivise,
stimolando il confronto e l’apprendimento collettivo, con processi di governance aperti a tutti i
portatori d’interessi e agli attori locali,
c) la missione regolativa, volta ad indirizzare o definire le misure di tutela e le regole delle
trasformazioni sostenibili, presidiando – al livello appropriato di controllo – i valori intoccabili ed
assicurando forme adeguate di valorizzazione del patrimonio ambientale.
E’ con queste nuove missioni che hanno cercato di confrontarsi alcune recenti esperienze di
pianificazione paesistico-ambientale. Ma le loro implicazioni in termini giuridici e istituzionali,
tecnici, politici ed amministrativi sembrano ancora inadeguatamente percepite, anche all’interno
della “cultura della pianificazione”.
RIFERIMENTI ESSENZIALI
-Ced-Ppn (Centro Europeo di Documentazione sulla Pianificazione dei Parchi Naturali), 1998:
Coordinamento transfrontaliero degli strumenti di pianificazione ambientale e territoriale riferiti
alle aree protette e alle zone sensibili, Progetto Interreg Italia-Francia, (Université J.Fourier,
Grenoble, e Politecnico di Torino, Dipartimento interateneo Territorio, Torino), Grenoble.
-Ced-Ppn, 2001: AP, il sistema delle aree protette nel quadro europeo: classificazione,
pianificazione e gestione. Convenzione tra Ministero dell’ambiente, Servizio Conservazione Natura
e Ced-Ppn (pubbl. Ministero dell’ambiente, Alinea , Roma 2003).
-Ced-Ppn, 2001: APE, ricerca interuniversitaria sull’infrastrutturazione ambientale e le
prospettive di valorizzazione della fascia appenninica nel quadro europeo. Convenzione tra
Ministero dell’ambiente, Servizio Conservazione Natura, e Ced-Ppn (pubbl. Ministero
dell’ambiente, Alinea, Roma 2003).
-CE (Consiglio d’Europa, Congresso dei poteri locali e regionali), 2000: Convenzione Europea
del Paesaggio, Firenze.
-IUCN (Unione Mondiale della Natura), 1996: World Conservation Congress. Resolutions and
Recommendations, Montreal.
-IUCN, 1998: National System Planning for Protected Areas, Gland.
-IUCN, 2003: World Parks Congress: Benefits beyond Boundaries, Durban.
-UN (United Nations), 1992: Conference on Environment and Development, Rio de Janeiro.
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Reti ecologiche e territorio
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 35-51
ECOLOGICAL NETWORKS: THE STATE OF THE ART FROM A
LANDSCAPE ECOLOGY PERSPECTIVE IN THE NATIONAL
FRAMEWORK
Daniel FRANCO
Department of Environmental Science, Ca' Foscari University of Venice
Dorsoduro 21307, 30123 Venice, Italy
Correspondence Address: Castello 4008, 30122 Venezia (VE) ITALIA Tel. +39 041 2770570
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Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
INTRODUCTION
The good governance principle, that in the Italian culture of.XIII Century is well represented in
the Ambrogio Lorenzetti masteripiece, is based on the human induced transformation of some
landscape "quality" (Arler, 2000). To reach a better citizens' quality of life is the main aim of this
transformation. The necessity to mantain this quality in space and time, strongly affected by
universe laws and forces, push today towards new natural resources utilization criteria.
In this paper the reasons and the limits of the managements of landscapes qualities are
discussed, also by means of the ecological networks.
WHAT WE KNOW OR WHAT WE WOULD LIKE TO KNOW
The basic hypothesis: the landscape structures and functions relationships
The ecological network idea is based on one of the fondant landscape ecology hypothesis that
the landscape pattern (structure) influences and is influenced by landscape fluxes and processes
(functions). In particular the landscape pattern influences the biotic processes (e.g. biodiversity).
The metapopulation theory (Levins, 1969) is probably more adapt than other ecological theories
to analyze the population dynamics in real landscapes, and it is based on the existence of connected
sub populations linked to favorable habitats. Metapopulation dynamics depends on the single sub
population dynamics and on the fluxes among sub populations (Hanski & Simberloff, 1997), and
then among habitats.
Even if partially, a favorable habitat pattern influences the metapopulations dynamics and the
biodiversity.
The estimation of the pattern/process relation this by means of proper parameters
(heterogeneity, connectivity, fragmentation), and its management by means of ecological networks
would allow us to manage the landscape functions (Forman, 1995; Pino et al., 2000; Val
Langevelde et al. 2002, Baudry & Burel, 1998, 1999; Opdam et a l., 2002; Söndergrath &
Schröder B., 2002; Vulleumier & Prélaz-Droux, 2002).
As we know these relationships are far to be generalizeable, even all our efforts are in this
direction.
Heterogeneity
Heterogeneity is an estimate of the evenness and richness of the landscape pattern. Its variation
can affect organism’s interactions, adaptations and distribution (Dramstad et al., 2001; Manson et.
al., 1999). It can modify the biodiversity of the most vagile taxa (Atauri & de Lucio, 2001; Farina,
1997; Preiss, 1997; Jonsen & Fahring, 1997; Naugle et al., 1999; Pino et al., 2000) as a function of
the dispersal/perceptive level of the considered populations. There is not a single method to
estimate this parameter.
Connectivity
Connectivity tries to estimate the functional-specific relationship between ecotopes not
necessarily physically connected. Some landscape patterns influence some landscape fluxes
(functions, processes: e.g. fires propagation, biotic fluxes, ill dispersal). Connectivity is considered
both structurally (assuming that ecotopes contiguity influence landscape function) and functionally.
In a recent review Goodwin (2003) has shown that connectivity is mostly treated as independent
variable (e.g. estimating the effect of a structural metric on a landscape process) and rarely as
dependent variable.
Daniel Franco
37
Besides the intrinsic limits of spatial metrics (scale dependence, collinearity and correlation,
lack of robustness, excess of non confrontable metrics), the problem is that even when some
empirical relationships between the metrics and the studied process are selected, they could be
ecologically inconsistent, ignoring critical aspects of the considered function.
For example we can empirically assess that the connectivity of seminatural and agroforestry
systems in rural landscape can have a positive impact on biotic fluxes of several small mammals,
arthropods and plant (Franco 2000, Barr & Petit, 2001), and on other landscape fluxes
(hydrological or sociocultural ones, Franco, 2002a, Franco et al., 2003a).
But the in he case of biotic fluxes the estimated impacts can be irrelevant (Jeanneret et al., 2003)
or negative for other populations. Considering organisms with similar vagility, we can for example
utilize other ecotopes than the connected ones (e.g. Tattersall et al., 2002; Mabry & Barrett, 2002).
For these reasons it is necessary to reorientate the studies on spatial metrics related to processes
toward the effects of the landscape pattern and the behavior of the studied functions on the spatial
metrics (treated as dependent variables).
The modeling approach is normally used to study the connectivity as dependent variable. It
remains fundamental for verifying and formulating new hypothesis, but is rarely tested on the field
(e.g. D'Eon et al., 2002).
Considering how difficult is to define in a common way the connectivity (Tishendorf &
Fahring, 2000; Nikora, 1999; Saura & Martinez-Millàn, 2000), recently it has been used for
application purpose the cost distance metric (Villalba et al., 1998; Chardon et al., 2003). These
metric accounts for the parametric estimate of the ecological quality of ecotopes. The comparison
of this metric with other metrics (all treated as dependent variables) has demonstrated its higher
efficiency and ecological plausibility.
Fragmentation
A landscape fragmentation process (Forman, 1995) influences its biodiversity causing a
reduction of some species favorable habitats and, consequently, an increase of their energy demand
for survival (Hinsly, 2000).
This correlation is scale dependent and at the intermediate level (Olff & Ritchie, 2002) it is
linked (a) to favorable habitats size and mutual distance (e.g. Jansson & Angelstam, 1999; Whithed
et al., 2000) (b) to species dispersal capacity (Naugle et al., 1999; Howel et al., 2000; Delin &
Andrèn, 1999); (c) to the differences within and among species (Bowers & Dooley, 1999;
Kozakiewicz et al., 1999).
Several works have focused their efforts to analyze the effect of this process on the biodiversity
(Battisti, 2004) but the use of fragmentation as a control variable or as a comparison parameter is
complicated by the non-existence of a specific accepted measure to estimate it (Tishendorf, 2001;
Bogaert, 2003), plus the overlap between indicators used to evaluate it and the ones used to
estimate heterogeneity.
Furthermore, it is not as reliable as a predictive tool (conservation management) due to
secondary effects such as inter-specific relations, habitat alteration deriving from fragmentation
itself and the great variability of the single species reactions (Bowers & Dooley, 1999; Mac Nally
et al., 2000; Fauth et al., 2000).
Bissonette and Storch (2002) have written
… “the effects of fragmentation can be understood as multicausal, exhibiting thresholds where they
are unexpected; are characterized by time lags that may be unpredictable; are heavily influenced by the
structural differences between the matrix and the patches ... are heavily dependent on the temporal and
spatial scales of observation ... their dynamics are contingent on system history and therefore subject to
unpredictable stochastic events. … Perhaps the message is that, at some general level of explanation,
ecologists may have predictive power regarding the effects of fragmentation, but complexity is likely to
make prediction of specifics difficult or impossible”...
38
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
Scale problems
A common result of the landscape ecology studies on the structures and functions relationship is
the scale dependence of the results. In the last decades is actually increased the awareness that the
response of the researches heavily depend on the spatial and temporal scale at which the study is or
has been done (e.g. Carlie; 1989; Fuhlendorf et. al, 2002; Turner et al., 2001; Brotons et al., 2003).
This led the researchers to riconsider the methods used in the landscape analyses, which tend
nowadays to be multiscalar, or to reconsider consolidated results (see, about biodiversity richness
and diversity indices, He et al., 2002).
The influence of the scale dependence relations on biodiversity can be summarized in this way
(e.g., Baudry J. & Burel F., 1999; Keitt et al., 1997, D'Eon et al., 2002; Söndergrath & Schröder,
2002; Tishendorf et al., 2003; Turner et al. 2001; van Langevelde et al., 2002; Westphal et al.,
2003).
?
For the organisms that perceive the landscape at small or great resolution with regard to
the structures we plan to use to influence their dispersal, the spatial pattern has a
limited impact of the landscape biotic connectivity.
?
For the organisms that have an intermediate dispersal/perception of the landscape
structures we plan to use to influence their dispersal, the spatial pattern has an impact
on the landscape biotic connectivity.
?
The landscape pattern influence the landscape connectivity on biotic fluxes when
favorable habitats extension is limited, and/or the considered metapopultation has low
dispersal and reproductive rate.
More over the perception scale can vary with the organisms’ life history, that can differ
regionally (Farina A., 1997; Green R.E. et al., 1994; Kozakiewicz M. et al., 1993; La Polla V.N. et
al., 1993; St. Clair et al., 1998; Yahnner R.H., 1983).
Summarizing Landscape biotic fluxes connectivity is metapopulation specific (Opdam, 2002)
and sometimes variable during time and among survival strategies (e.g. Jonsen & Fahring, 1997;
Tishendorf et al., 2003).
Scale dependence problems are lot limited to biotic fluxes, but has to be considered for the
management of other landscape processes like the hydrological (Wayland et al., 2003; Wickham et
al., 2003; Daly et al., 2002; Jones et al., 2001; Sliva & Williams, 2001; Basnyat et al., 2000;
Fölster J. 2000; Norton & Fisher, 2000; Spruill, 2000; Trepel & Palmeri, 2002; Tufford et al.,
1998; Jordan et al., 1997; Comeleo et al., 1996; Osborne, 1988; Cronan et al., 1999; Pettersen et
al., 1992) and cultural ones (e.g. Franco et al., 2003a).
So what network has to be considered?
How many networks!
If we use biodiversity conservation as the main goal, it's difficult to decide which is the target
organism of the network, and to estimate the network effects on other organisms and on other
landscape processes (hydrology, economy, etc.).
The concepts like keyston species and umbrella species, difficult to be operatively defined and
with ambiguous empirical results (Simberloff, 1998, Hess et al., 2002; Davic, 2003) are going to be
substitute by concepts like focal groups (Hess & King, 2002; Rubino & Hess, 2002), ecological
groups (Dramstad, 2001) or landscape species (Sanderson, 2002).
These new approaches account for the behavioral amplitude of the organism in heterogeneous
systems and for the implication of the ecology and planning relationship.
These methods are anyhow based on scientific knowledge of the considered landscapes and
species. The simple use of red lists is not a substitute of these approaches, but it can be helpful in
data lacking situation.
Daniel Franco
39
In every case the organism’s selection have to be coupled with the spatial population dynamics
of these organisms in the considered landscape.
HOW TO LINK ECOLOGY TO THE NETWORKS REALIZATION: THE
SPATIAL PLANNING
Several models and empirical results suggest an impact of the ecological network configuration
on population dynamics and biodiversity (Fahring & Merriam, 1985; Heinen & Merriam, 1990;
Merriam et al., 1991; Burel & Baudry, 1999; Forman, 1995, Franco, 2000; Barr & Petit, 2001;
Söndergrath D., Schröder B., 2002; Vulleumier & Prélaz-Droux, 2002; Anderson & Danielson,
1997; Opdam et al., 2002).
But to use this relation we need to estimate the impact of the spatial structural pattern on the
landscape process and functions that we would like to optimize.
Actually the estimate should be necessarily space explicit, and the pursued optimization has to
be defined by means of the spatial planning of the landscape transformations (land use management
and modifications) that we estimate could reach the defined goals.
Policy actions programs decoupled with landscape spatial planning are not necessarily
correspondent to the pursued effects (Forman, 1995; Franco, 2002; Jongman, 2002; Madsen, 2002).
It seems that the conceptual model proposed by the Wagenigen University researchers (Opdam
et al., 2002) could be useful to describe a good planning process based on ecological sound basis.
The model is built by several steps
1. problem definition by means of evaluations tools based on
? empirical relation models of spatial structural metrics and landscape functions and
processes
? multi species (meta)population models
2. Definition of alternative scenarios considering other impacts (socio economics, hydrology,
etc.)
3. Decision Support Systems
4. Production of guidelines and technical rules, monitoring the process results to implement it.
To obtain such a process is necessary to reduce the lack of basic and applicative scientific
knowledge, necessarily starting from empirical data. Without this basic elements the risk is to limit
the biodiversity management to a bureaucratic obligation (Franco, 2004).
The scientific framework to be deepened regards the definition of operative methodologies for
the ecological group’s identification, the development of comparable multiscale empirical studies
on structures and function relationships, the definition of shared decision support systems.
In Italy some example of WHR (Wildlife Habitat Relationships) to support the ecological
networks planning processes do exist at the national level (Boitani et al., 2002) and at the region
and sub region scale (AAVV, 2001, 2003). These models are based on the relations between some
favorable habitat characteristics and the presence of target species, defined by expert’s opinions.
They should be empirically and locally validated .
Other developing tools try to estimate relations between spatial metrics and biodiversity by
means of qualitative approaches (Biondi et al., 2003). In other cases it’s reported the use of DSS at
the local scale to estimate the impacts of the ecological network on other kind of landscape
functions (Franco, 2000).
The cited examples contribute to create a common reference framework to estimate multiscale
effect of planned structures (ecological networks) on landscape functions, inside the conceptual
model in Figure 1.
40
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
Figure 1 A conceptual model used to link the scientific knowledge and the landscape management by
means of spatial planning (Opdam et al., 2002, modified).
Our contribute
A group of the Venice Ca’Foscari University is working on a project research on the
ecological network (Franco et al., 2003). Up today the studies undergone (Figure 2) permitted to
define some multiscale empirical models of some landscape variable impacts on landscape
functions. These kinds of models, even with their limitation, are comparable with other empirical
modes built elsewhere and are well suited for planning purpose. The most significant results are
reported below (Franco et al., 1996, 1996a, 1999, 2003a, 2003c, 2004; Franco 1997, 1997a, 1998,
2000, 2002; Mannino et al., 2001).
Develop and implementation of a GIS based Decision Support System
The procedure is made up of a sequence of analyses and evaluations that are driven by a GISsupported assessment of several indices/models. These are calculated from geo-coded measures of
structural and functional landscape characteristics and each index/model gives information about
some aspect of the landscape. Thus the comparison of several models outputs allows for a global
evaluation of the spatial planning goals. The mapped landscape structures (the landscape ecology
"patches" and "corridors") are mapped with their dimensional, ecological and economic
characteristics in the reference PATCH or CORRIDOR layers. Other landscape characteristics
(soil types, hydrology) are inserted in other GIS layers. Variation of the land use in patches or
corridors, or insertion or deletion of ecotopes in the GIS, results in some structural and functional
landscape modifications, which are evaluated by means of the models output. Optimization of the
outputs leads to the spatial planning amelioration goals; the landscape analyses and design
specifications are evaluated from several points of view and the results of the choices are clearly
shown. The system supports a decision system for the optimum selection of hundreds of
afforestation plan designs given spatial planning goals, the economic actor expectation and the
environmental constrains. The GIS DSS is continuously implemented and updated with the
research results.
Daniel Franco
Figure 2 The project research undergoing at the Venice University on ecological networks.
41
42
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
Multiscale analysis and verify of the information consistency of several widespread spatial metrics.
The studies led to the selection of stable metrics at several scale (resolution and extension) and
their effectiveness to detect potential biotic fluxes behaviors.
Multiscale estimation of the landscape structures (up to the network) and biodiversity (floristic)
relationships at different anthropic disturb level.
Several studies (part of them unpublished) led to the definition of empirical models of local and
landscape predictors (local margins structure and management, hedgerow network structure,
landscape management and structure metrics) and biodiversity measures (herbs, shrubs, trees).
Multiscale analyses of structural predictors and landscape functions (expressed by dependent
variable as water quality and esthetic quality)
The studies permitted to implement empirical models linking local and landscape predictor and
i) landscape scenic beauty estimation, ii) water quality. In this case the empirical results are being
used (not published) to test the affordability of the management model (NUT) used in the GIS DSS
at the landscape scale.
Analysis of the relationship of green urban management an ecological network planning.
The GIS DSS has been implemented for the urban landscape and used to verify the potential
effect of a planning and management of the green urban area in an ecological framework
management.
THE OTHER SIDE: POLICIES, RULES AND PROGRAMS
Between rules and real landscape: biodiversity and protected areas
To introduce the current conceptual models referred to the ecological network concepts, it
seems useful to underline that biodiversity management in our landscapes is necessarily based on
an all in approach (Steiner et al., 2000) to be biologically and socially sustainable. A conservation
strategy should plan a management integration of different landscape uses, from the agricultural to
the urban, or from the forested to the integral reserve (Forman, 1995; Hoestetler, 1999; Pino et al.,
2000).
Landscape is a heterogeneous system and organisms (protected and not) use resources in a
heterogeneous space and time way. This awareness has led to new and different approaches for the
biodiversity conservation (Simberloff, 1998; Sanderson, 2002), that are not limited to the
management of protected areas, but mostly to the management of rural and suburban areas
(Ricketts & Imohff, 2003). Protected areas are fundamental in the conservation efforts but are not
the only and sufficient answer to the worldwide biodiversity conservation problem.
This tendency is not only based on scientific evidences but is socially considered too, being a
programmatic element of the nowdays agri environmental policies. The fact that biodiversity
conservation is based on the management of rural landscape resources is commonly accepted at the
EU level (AAVV, 2002; AAVV, 2002a; Baldock et al., 2002; Ten Brink et al., 2002) and integral
part of the new CAP.
Ecological networks: what do we mean
In a landscape ecology perspective the realization of an ecological network should correspond
to something able to estimate, forecast and manage landscape functions.
Daniel Franco
43
Considering the networking “objects” we can detect at least four concepts (AAVV, 2003)
currently proposed to realize an n ecological network.
NATURA 2000
This model comes from the EU Habitat Directive (92/43/CEE) that aims to conserve
endangered species and habitats at the European level.
The ex ante definition of the elements of the network (core areas, buffer zones, corridors, etc.)
is poorly scientifically based, but this classification has sound management implications.
This model start from a ecologically based analyses to define the protected areas network, but it
can’t be considered sufficient alone to define the ecological network.
Biodiversity conservation is based on the whole landscape context management and not simply
on distinct "isles". Yet it is a very useful framework for the subsequent design of the multiscale
ecological networks.
Protected areas
Another way to interpreter this concept is to consider the existing protected area as a "system".
In this case the driving forces of the model are the logistic and visitors utilization dimensions, at
least in the results if not in the intentions. The evaluation scale is based on administrative (state to
communes) factors. This approach has a noble and ancient origin but it is far from the landscape
diffuse approach remembered before.
System of places
From this side the idea ecological network is mainly projected to ameliorate the landscape socio
cultural perception. It’s an approach with an important history during the last century, and is linked
to the idea of the amelioration of suburban areas by means of connections between urban and rural
landscapes. This approach lacks of the ecosystem and dynamic landscape analyses (Bell, 1999),
and have been already criticized for the biodiversity effect side (Hess & Fisher, 2001). The scale
of analyses and evaluation is decoupled from the complex of landscape fluxes and the ecological
term assume an evocative means.
System of ecosystems
In this approach the ecological network can be described as a system of landscape structures
(Burel & Baudry, 1999; Forman, 1995; Farina, 1995; Franco 2000), assuming that this macrostructure influences the landscape functions (fluxes and processes) and that we can recognize,
describe and then manage its behaviors.
The aims of planning an ecological network is to positively influence the landscape process and
functions (mostly the biotic ones) in order to manage biodiversity conservation, ecological
hydrogeochemicals cycles, cultural and social processes.
In this approach (i) the concepts of fragmentation and/or connectivity have to have an
measurable and repeatable meaning, (ii) the idea that biodiversity conservation is assured by the
protection and by the maintenance of the physical closeness of some places is overcome (Franco et
al., 2004; Steiner et al., 2000, Anderson, 2002)..
The classical landscape ecology definition of ecological network has the merit to be of
functional and not of structural kind, underlying that a system of connected ecotopes of the same
type constitute a network (e.g. Forman, 1995).
Using this definition the variation of the scale or of ecosystems considered implicitly does
single out the various descriptive categories (components) that characterize the other cited
44
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
intepretative models. Moreover it makes superfluous the need to state the network ecosystems'
multi functionality which is an intrinsic ecosystem property.
This model should become a paradigm for the different descriptive conceptual models in use
(APAT, 2003 ) for its clearness, elasticity and adaptability to the different conditions and situation.
Mostly it overcome the need of complex, articulated, elegant or marketable nomenclature.
Even if all of the conceptual way to intend the "ecological network" remembered are currently
used in landscape planning, the empirical results of their usefulness in the biodiversity conservation
task are far to be clear. Generally they consist in esthetically agreeable working hypothesis that
tend to be preferred to the complex reality: the subtle risk exists that we consider "functioning"
what is better adapted to our wishes.
The realization: the expression of a social need
Biodiversity is a landscape quality to be protected because it is valued as a shared social value.
The ecological networks have been developed to be sustainable transformation tools to protect this
and other landscape qualities.
The social welfare it's linked to several factors and to the preservation of several landscape
qualities that on the whole define a "social" need satisfaction. Policy tools represent the answer
that the society tries to give to reach the best trade off among the different needs as Programs ad
Regulations that are concretely realized by Plans - Designs.
The National Ecological Network
The reference programmatic documents to realize the National Ecological Network are a
national one (Rapporto Interinale del Tavolo Settoriale Rete Ecologica Nazionale
Programmazione dei Fondi Strutturali 2000-2006; Deliberazione C.I.P.E. 22 dicembre 1998) and a
negotiated document with the UE about the 2000 - 2006 structural funds for the Regions Objective
1 (Quadro Comunitario di Sostegno).
In these documents the goals and the criteria that the society undertake to protect biodiversity
by means of ecological network are reported, in a sustainable development perspective.
Each document describes the "preferential territorial ambits" (areas), the actions (realization,
management and amelioration of ecosystems) and the objectives (sustainable management of
landscapes' resources/qualities) for the network realization. The documents are coherent and pursue
the same main goal: to protect the biodiversity by means of the amelioration and develop of
landscape with cultural and natural values, obtaining in this way a series of socio-economic
positive effects (local quality markets, better social welfare in disadvantaged areas).
The difference between the documents attains to the higher importance given to the integration
of socio economic dimension in the environmental one, being the negotiated UE document
strongly oriented by the sustainability EU policies.
An important element for the documents evaluation is the absence of a bounding relationship
between protected area and "preferential territorial ambits". This is a correct approach from the
landscape ecology point of view, deeply connected with the necessity of spatial planning and
therefore with the estimation capacity of the pursued positive impacts at the landscape scale.
The relation scheme between the "preferential territorial ambits" and the correspondent actions
to be developed is synthesized in Table 1.
The sub national ecological networks
The local situation is fragmented and not completely coherent if referred to the national
programmatic framework, which exist.
At the regional level exist laws that more or less explicitly recall the ecological networks
develop, or that do not refer explicitly to the ecological networks but can contribute to their
practical achieving (e.g. regional Veneto Law, 13/2003).
Daniel Franco
45
Yet it is at the administrative province and commune interaction level that are reported the most
interesting examples. In this case the more and more spread legislative innovation that focuses at
the provinces level the strategic and at the commune level the operative planning process, should
address to an efficient ecological networks planning process.
Table 1 Actions to be undertaken in the "preferential territorial ambits" to build the ecological
network. This scheme comes from the integrated lecture of the two national reference documents.
preferential territorial ambits
actions
NATURA 2000 site
Ecosystems
amelioration
and
conservation
phytocoenosys amelioration and conservation
Suburban and coasts landscapes, with highly Ecosystems
amelioration
and
conservation
conflict natural resources use;
phytocoenosys amelioration and conservation
Reduction of negative impacts on historical and cultural
resources
Mountain and rural landscapes
Connection
among
more
natural
areas
Ecosystems
amelioration
and
conservation
phytocoenosys
amelioration
and
conservation
Landscapes
hydro
geologic
amelioration
local
and
quality
production
enforcement
economic
diversity
implementation
Historical and cultural resource implementation
Generation
turnover
Residents welfare
Islands
Habitats conservation
Safeguard of primary resources (air, water, soils)
Among the most known and appreciable examples it's possible to cite the province of Milano,
Reggio Emilia, Bologna, Cremona, the Region of Abruzzo, Umbria, and others.
Yet up today the local physical realizations and/or the impacts of the single plans-designs
achieved it are difficult to be evaluated, because of the passage from strategy to operative actions
that is not synchronous and homogeneous, and because of the analyses and design tools that are
heterogeneous.
In particular the use of DSS with the characteristics remembered in Figure 1 is not widespread,
and this makes difficult to compare at least the planning purpose.
CONCLUSIONS: WHERE WE ARE
The local regulative and programmatic framework is at the moment complex and spatially
heterogeneous, and tend to obscure the contacts with the national framework.
The virtuous relation between scientific knowledge and agrienvironmental policies at the EU
level is pushing toward the right directions, that is of a diffuse landscape management process by
means not only of incentives of the community to pay the maintenance of the landscape qualities,
but of their necessary spatial planning.
To go on with the process described (see page 39) it is necessary (i) to fill in a coordinate and
applicative way the existing lack of knowledge, (ii) to provide shared and robust DSS, (iii) to
define clearly the aims, the structure and the functions of the ecological networks (iii) to maintain a
multi scale ecological and programmatic coherence.
What ever are the elements to be deepened in order to reach such process (Franco 200b; Franco
et al., 2004) it should be in any case considered that are the ecological characteristics to constrain
the planning choices, and not the contrary. This means that are the scale at which the network
pattern influence certain landscape functions to define the planning scale relatively to the
46
Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
ecological problem we want to manage (Bombonato et al., 2001; Franco et al., 2004; Madsen,
2002).
Actually it does not exist one ecological network, but a complex of ecological networks at
different resolutions correlated each other. From the programmatic point of view it is necessary to
state
1. which kind of realization is concerned;
2. what are the actions, the goals and the priority areas to be processed.
The first national guidelines for ecological networks (APAT, 2003) answers partly to the first
question. They represent a very good starting point because suggest sound strategies, but should be
implemented in the next version avoiding some weakness, and in particular:
- the lack of operative methods for the definition of the ecological groups;
- an excess of design "planning elements" classification; giving actually emphasis to terms
semantically linked to environmental conditions is (i) ecologically inconsistent for the fuzzy
task (see page 36) to link structural categories (but expressed in a functional way) to general
effects on landscape function/processes; (ii) ambiguous from the communication point of
view because it induces to esthetically associate some comfortable words (which correspond
to maps colors and patterns) to environmental properties, leading to omit the ncessary
estimations; (iii) subtly risky from the administrative point of view, because it could led to
satisfy a social demand of sustainable landscape management with an offer given by a new
fascinating overapped to a list of unmodified condition sites.
The solutions for these weakness points could be the future stronger importance given to the
use of DSS with expected and tested performance.
Regarding the second point, the National Ecological Networks' programmatic documents
remain the framework to connect the planning-design of lower scale ecological networks, more
adapted to the local needs and of variable resolution.
For this reason it should be urgent to map the national "preferential territorial ambits" using the
landscape ecology methods and tools. At the same time it should be strongly pursued the operative
integration among environmental, rural and urban developing interaction for the biodiversity
conservation.
Some lesson to be learnt about the risks of this sustainable landscape management planning
tool are reported below.
- The perception of this concept can be affected by than amplitude of the advantages obtained
pursuing the primary goal (biodiversity conservation): mostly of the current Italian
Objective one structural funds for the ecological network measures are addressed to the
local markets development, to the tourist tracks or to the agri tourist offer development,
without an explicit estimate of the impact of these investment on the biodiversity and on the
other landscape quality objectives pursued.
- The ecological network tend to be considered only as a list of protected areas.
- The plans at the local scale tend to use approaches where the biodiversity conservation is
based on statements about designed actions and obtained results that are not estimated or
verified.
- The planning process at the provinces scale is not always clearly distinct from the operative
lower scale.
But from all that has been done up today and for what is going on from the scientific and social
sides, we ca be optimistic about the future role of the ecological network in the sustainable
development of our landscape.
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Ecological networks: the state of the art from a landscape ecology perspective in the national framework
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 53-61
WILDLIFE SPECIES AS INDICATORS
A SOLUTION FOR MAINTAINING "ECOLOGICAL NETWORKS"
IN FRAGMENTED LANDSCAPES?
Ilse STORCH
Wildlife Research and Management Unit, Munich University of Technical Sciences
Am Hochanger 13, D-85354 Freising, Germany
[email protected]
54
Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks" in fragmented landscapes?
INTRODUCTION
Habitat loss, largely due to human land use, is the major cause for the current decline and
extinction of populations and species (Hilton-Taylor 2000). In many parts of the world, formerly
contiguous habitats are increasingly fragmented into ever smaller and isolated patches. In central
Europe, habitats have been fragmented for many centuries, but remaining patches and surrounding
matrix keep changing in quality. For conservation the challenge is to maintain enough habitat of
sufficient quality to secure long-term survival.
Fragmentation has effects on population size that go beyond those of habitat loss. Fragments
may be influenced by the surrounding matrix, and movements between fragments may be costly.
Therefore, species tend to disappear from fragmented habitats long before the last remaining patch
is gone. Typically, populations start to decline rapidly once a landscape contains <50% of habitat.
Thus, the proportion of habitat within the landscape, the size of habitat patches, and the distances
between them are key features for persistence. In general, there are 2 options for population
survival: in patches that are large enough for a viable population, or in sets of smaller patches that
are connected by dispersing individuals (metapopulations). For species in a given landscape, the
key questions are thus: 1) are habitat fragments large enough for viable populations, and 2) are
fragments close enough for dispersal, and thus, to maintain viable metapopulation networks? With
the answers to these questions, effective species-specific habitat networks can be maintained.
Unfortunately, it is not realistic to assume that detailed and scientifically sound conservation
plans could be specifically designed for each single threatened species. Particularly with regard to
financial and logistic constraints, the indicator species concepts appears to offer a practical solution
to the dilemma of meeting the requirements of all species in a community without studying each
individually (Caro and O´Doherty 1999). Abundance and population trends of indicator species are
believed to reflect the dynamics of other species that use the same habitats, and thus, management
measures designed for an indicator supposedly favour larger segments of the associated wildlife
community. If certain species can be used as surrogates for other species, can they also indicate
landscape connectivity for associated species? If so, indicator species may provide a useful tool for
maintaining ecological networks across fragmented landscapes. I explore this idea by reviewing the
indicator species concept in relation to the problem of scale-dependency of species-habitat
relationships (Storch and Bissonette 2002). I illustrate difficulties in the application of the concept
using the capercaillie Tetrao urogallus, an old forest specialist susceptible to habitat fragmentation,
as an example (Storch 2002, Storch and Bissonette 2002).
THE INDICATOR SPECIES CONCEPT
Despite major criticism of the concept from ecologists, the use of mammal and bird indicator
species as a tool to biodiversity conservation is likely to grow. However, it is important to
understand the limitations of the concept in order to assess its usefulness. The idea behind the use
of indicator species is a simple one; their well-being may reflect the well-being of other species that
putatively have the same habitat requirements. Accordingly, measures designed to maintain or
enhance the population viability of indicator species may favor larger segments of the wildlife
community. The idea of using indicator species to monitor the condition of entire communities or
ecosystems is based on the observation that some species are more susceptible to ecological
changes than others (Landres et al. 1988). This concept has been used successfully with
invertebrates and plants (bio-indicators) to monitor water quality, agricultural and range conditions,
and environmental stress (Landres et al. 1988, Brown 1991, Pearson and Cassola 1992, Kremen et
al. 1993, Oliver and Beattie 1993, Weaver 1995, Favila and Halffter 1997). In this context, the idea
of bio-indicators has been reasonably successful.
Ilse Storch
55
However, when the response variable is changed from some measure of environmental quality
to a species-based response, e.g., the way wildlife indicator species are used, difficulties arise, as
the context of evaluation changes. When using bio-indicators, a decline in the well being of the
indicator demonstrates a decline in habitat quality. With indicator species, as they are most
generally used in conservation, we take a decline in the well- being of the indicator to infer that
other species are in trouble, via a decline in habitat quality. In effect, we are one hierarchical level
removed from causality, and seldom do we have the opportunity to demonstrate declining habitat
quality for those associated species, in the same way we can measure, e.g., declining water quality.
Testing the indicator function
Despite its pervasiveness, only few studies have rigorously tested the assumed indicator
function of vertebrate species, and have assessed the concept´s suitability for conservation (e.g.
Murphy and Wilcox 1986, Lawton et al. 1998, Fleishman et al. 2000, Rubinoff 2000). Their results
are ambiguous. Under certain conditions, some habitat specialists may indeed function as indicators
of associate species. However, assumed associations between “indicators” and other species or
species richness cannot be generalized. Studies that contrasted the presence or abundance of an
indicator with that of other species found that the indicator function of single species was limited
(Block et al. 1987, Plentovich et al. 1998, Fleishman et al. 2000). In one context, the idea is
persuasive; when a species declines because of habitat-related changes, it makes sense to infer that
habitat quality has declined. But ‘quality’ is largely species specific, and this is the key to
understanding why the idea does not work as well as conservationists might like.
Many mammals and birds used as indicators of wildlife communities or species diversity are
comparatively large and mobile species with large spatial requirements. Because of this, they may
respond to a certain landscape mosaic in a different way than their smaller or less mobile
associates. Therefore, it is unlikely that the abundance of an indicator and associated species are
equally correlated across all scales of observation. A habitat network that ensures functional
landscape connectivity and an effective metapoulation system for the one species, may not be
sufficient to prevent isolation for the other. Species-specific dispersal abilities need to be
considered in the application of the indicator species concept in fragmented landscapes.
Indicators and the problem of scale
The habitats of wildlife species are typically heterogeneous. In a patchy landscape, a species
may be limited by a shortage of critical resources, by its ability to move between suitable habitat
patches, and by its area requirements. Increasing extent from tree to landscape, and level from
individual to metapopulation, adds further sources of variation. Not only will species-habitat
relationships change with changing landscape patterns, but interactions among species may also
change as a result of different species responding in different ways to altered landscape
configurations (e.g., Lambeck 1997, Hager 1998). Difficulties in assessing the indicator function
arise, because the nature of species interactions with the environment and with each other are based
on competition, niche separation, predation, parasitism, and other mechanisms as well as the
constraints imposed by landscape pattern. Given the complexity of influences, species habitat
preferences may be generally similar at one hierarchical level, e.g., the forest, as in the case of old
forest obligates, but very different from one another at the level of smaller scale extents, e.g.,
preference for coarse woody debris on the forest floor vs. standing dead wood. This suggests that
species responses to landscape pattern are likely to be different. In the following, I summarize
spatial and structural habitat requirements of the capercaillie to illustrate scale-dependency of their
often-assumed indicator function.
56
Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks" in fragmented landscapes?
EXAMPLE CAPERCAILLIE
In central Europe, the capercaillie is restricted to a few mountain ranges and is closely
associated with older coniferous forest (Klaus et al. 1989, Storch 2001). It is red-listed in most
central European countries (Storch 2000) and is included in Annex I (“species that shall be subject
to special habitat conservation measures in order to ensure their survival”) of the EU Birds
Directive (79/409/EEC). Integrating forestry practices and capercaillie habitat needs is a major
conservation challenge (Klaus and Bergmann 1994, Storch 2001). Capercaillie habitat management
measures are routinely justified by its function as an indicator of intact montane forest ecosystems,
and consequently, its importance as an umbrella species for montane forest biodiversity
conservation, including other threatened and rare bird species (see Storch 2002).
As forest obligates with home ranges of several hundred hectares in size, capercaillie are
susceptible to habitat disturbances at various spatial extents: vegetation structure at the forest stand
scale, amount and size of old forest stands at the forest mosaic scale, and contiguous forest patch
size at the landscape scale (Wegge et al. 1992, Storch 1997). Locally, capercaillie depend on
conifer needles for winter food, and a well-developed ground vegetation for food and cover in the
snow-free seasons. They prefer habitats rich in ericaceous shrubs, particularly bilberry Vaccinium
myrtillis. These features are best represented in late successional stages and hence, capercaillie
strongly prefer old forest (see Storch 2001 for a summary of habitat needs). The proportion, size,
and distribution of old forest stands influences the size of home ranges (Wegge and Rolstad 1986,
Gjerde and Wegge 1989, Storch 1995), the spacing and size of leks (Rolstad and Wegge 1987), and
predation risk (Gjerde and Wegge 1989, Wegge et al. 1990). Old forest stands smaller than 50 ha
rarely contain leks (Rolstad and Wegge 1987), and in a fine-grained forest, the birds prefer the
largest stands (Storch 1997). Populations are likely to decline rapidly when the landscape changes
from an old forest matrix to remnant forest patches (Rolstad and Wegge 1987). The minimal area
of contiguous montane forest required for a viable population has been estimated at >>10 km²
(Storch 1995). Variation in capercaillie breeding success is best explained by landscape
characteristics within areas of 100 km², much larger than individual home ranges (Kurki et al.
2000). Apparently, capercaillie populations are influenced by factors that range across spatial
scales from forest stands to landscapes of 10-100 km² and beyond (see also Storch 2002b).
Spatial scale in capercaillie habitat
Species-habitat relationships often exist at several hierarchically structured spatial scales,
ranging from a species’ geographic range, to the spatial structure of populations, to the home
ranges of individuals and the distribution of specific resources therein (e.g., Johnson 1980, Hamel
et al. 1986, Morrison et al.1992, Hall et al. 1997). At each scale, different sets of habitatrelationships are likely to exist. The components of these relationships must often be described
with both different extents and resolutions. Larger scales (contrary to the cartographic usage)
implies larger extents and coarser resolutions. Furthermore, spatial scale is correlated with temporal
scale in the sense that at larger scales, ecological processes are slower than at smaller scales
(Holling 1992): globally, the distribution of forest changes at a speed of tens of thousands of years
(unless humans get involved), regionally, forest disturbances such as fire occur at intervals of tens
to a few hundreds of years, and locally, vegetation changes within annual cycles. This may explain
why humans are intuitively less aware of the role played by large spatial scales in species-habitat
relationships; because processes at these scales are slow we tend to perceive patterns as being
constant.
Capercaille habitat can be described at three scales of resolution: vegetation in forest stands,
stands in the forest, and forests within the landscape (Fig. 1, Storch 1997, 2002). At the level of
forest stands, small-scale features of the vegetation influence daily habitat use of individuals
(Storch 1993a, b, 1994). Capercaillie prefer conifer-dominated forest with a well-developed ground
vegetation that offers food and cover. Cover and height of the ground vegetation are limited by the
Ilse Storch
57
closure of the canopy; therefore, dense stands are rarely used by capercaillie. Forest stands are the
scale of the classical descriptions of capercaillie habitat.
Fig.1. A multi-scale view of capercaillie habitat. Vegetation in forest stands (fine resolution; extent 1100 ha) influences individual habitat use. Stands within the forest mosaic (intermediate resolution;
extent 100-1,000 ha) affect the size and spacing of home ranges. And, the distribution of forest within
the landscape (coarse resolution; extent 1,000->10,000 ha) plays an important role in the dynamics and
persistence of populations. While the habitat fragments at the medium and larger scales may be
functionally connected for the capercaillie, they may be isolated for less mobile species that cannot
disperse between patches. (Bavarian Alps, photos Ilse Storch).
At the next larger scale, the mosaic of stands within the forest affects the size of capercaillie
home ranges. In the course of a year, each capercaillie uses an area several hundred hectares in size
(Storch 1995), and thus, a home range is composed of stands of different successional stages or
cutting classes. The birds select ranges with a great amount of older forest that offers the preferred
vegetation structures (Wegge and Rolstad 1986, Storch 1995). The more area is covered by old
stands, the smaller the home range, and, most importantly, the lower the predation risk (Gjerde and
Wegge 1989, Wegge et al. 1990).
Finally, at the landscape scale, the interspersion of forests and open land determines the size,
spatial structure, and dynamics of populations. In the boreal forest, variation in local capercaillie
breeding success is best explained by the proportion of farmland within areas of 100 km² (Kurki
and Lindén 1995, Kurki et al. 2000), and capercaillie populations are assumed to disappear as
forest fragmentation exceeds a critical threshold (Rolstad and Wegge 1987). In central Europe, the
mosaic of capercaillie forests distributed as islands within a matrix of farmland and settlements
results in a metapopulation pattern with spatially distinct subpopulations (Storch and Segelbacher
2000). In summary, there is good evidence that capercaillie populations may be influenced by
habitat factors at spatial scales that range from forest stands to landscapes of 100 km² and beyond.
For a capercaillie population to persist, its habitat requirements must be met at all scales. The
extent of a forest is equally relevant as its stand mosaic and vegetation structure.
58
Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks" in fragmented landscapes?
Capercaillie as indicator and umbrella
The use of the capercaillie as an indicator of intact montane forest and an umbrella species for
wildlife conservation seems to be based more on intuition than on sound data. Only recently, the
long-assumed indicator and umbrella functions of the capercaillie have been tested. In Switzerland,
species richness and abundance of red-listed subalpine forest birds was considerably higher in plots
with Capercaillie than in those without, and both Capercaillie and mountain birds responded
positively to near-natural forest structure (Suter et al. 2002). Carabid beetle diversity was similar in
Swiss forests with and without Capercaillie, but beetles were favoured by near-natural forest
structure (Debrunner 2004). Similarly, forest stands good for capercaillie in the German Alps
correlated with high woodpecker densities and bird species richness (Fischer & Storch 2001). Also
in the forests of Finland, capercaillie display grounds had greater bird species richness and old
forest specialists were more common than elsewhere (Pakkala et al. 2003).
All these studies suggest that capercaillie may indeed be a suitable umbrella species for
mountain forest communities. Other species typical of old montane forest were abundant where
capercaillie occurred, and consequently, one may infer that species diversity would profit from
conservation of capercaillie habitat. However, there are limitations to use capercaillie as indicators
of species richness and diversity. Even though other montane forest species tend to fare well where
capercaillie occur, absence or low numbers of capercaillie is not necessarily correlated with
absence or low numbers of other species that share the same habitat. Thus, capercaillie abundance
and population trends may tell much about biodiversity trends.
A major problem is that associations between species, and thus, the indicator function may
change with scale of observation. If its presumed indicator function was independent of scale, the
presence and abundance of capercaillie should be related to e.g., forest bird species composition,
across all scales of observation. In a study in the Bavarian Alps, a total of 36 bird species were
recorded (Fischer and Storch 2001). At the scale of forest stands, more bird species and also more
woodpecker signs were found in excellent capercaillie habitat than in poor habitat. This supported
the role of the capercaillie as an indicator of good montane forest bird habitat, and thus, the idea to
use the capercaillie as an umbrella species for conservation.
At the scale of entire mountains (20 km²), however, both bird species richness and diversity
were independent of capercaillie abundance. High capercaillie abundance in one study area and low
density in the other study area did not coincide with differences in biodiversity as measured by bird
species richness and diversity. At this scale, when entire landscapes were compared, capercaillie
abundance obviously did not indicate differences in bird communities.
INDICATOR SPECIES AT THE LANDSCAPE SCALE
Landscapes are heterogeneous. When extent is increased, pattern changes, influencing species
interactions that themselves change as a result of the responses of different species complexes to
altered landscape configurations (Lambeck 1997). An ideal indicator should be independent of the
scale of observation, however, this is unlikely. Scale-dependency of the indicator function has been
shown for arthropods: in some taxa, species composition changed with scale of observation
because species were distributed differently across the landscape (Weaver 1995).
Indicator species may not sufficiently represent habitat suitability, richness, or diversity of other
species at small scales, much less at larger scales. Larger extents involve additional sources of
species-specific variation that make close associations between species unlikely. As in the example
of the capercaillie, wildlife species are affected by small-scale habitat structure, as well as
landscape pattern, suggesting that their effectiveness as indicator species is related to how closely
their scale-related responses are approximated by associated species.
Landscape connectivity is considered a vital element of landscape structure because of its
importance to population survival. The difficulty is that landscape connectivity must be assessed at
the scale of the interaction between populations and the landscape (D'Eon et al. 2002). Landscape.
Ilse Storch
59
A given landscape may be functionally connected for a relatively mobile species, but not for its
more sedentary associates. In the same landscape, the mobile species persists in a dynamic
metapopulation system, while the other species becomes fragmented into isolated populations with
a high risk of extinction. Because species-specific dispersal abilities cannot always be reliably
predicted, and dispersal rates between populations are difficult to assess in the field, it appears
risky to assume an effective multi-species ecological network simply because of the presence of
one or a few assumed indicator species.
The use of vertebrate indicator species in wildlife conservation has become a fact both in
Europe, North America, and elsewhere. Birds in particular are considered effective indicators of
biodiversity trends, simply because abundant data are available from all parts of the world (Furness
and Greenwood 1993). National and international biodiversity policy and conservation plans are
being developed at a rapid rate. In the context of the global Convention on Biological Diversity,
countries have made commitments to the development of biodiversity indicators (Bibby 1999).
Despite major and significant criticism from ecologists, the indicator species concept will continue
to be used: its application is policy-driven and not necessarily science-driven. In these kinds of
situations, the challenge for conservationists is to make the concept work despite its many
shortcomings. Understanding its limitations may contribute to refining and improving its efficacy
in conservation management. We suggest that if the concept is to be used, multi-species indicators
(Landres et al. 1988, Noss 1990, Lambeck 1997, Angelstam 2002) that range across multiple
spatial scales from microhabitat to landscapes may be a more fruitful approach.
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Wildlife species as indicators: a solution for maintaining "ecological networks" in fragmented landscapes?
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 63-73
RETI ECOLOGICHE E FAUNA SELVATICA: LIMITI ALLA
DISPERSIONE E LORO MITIGAZIONE
Stefania ZORZI & Silvano MATTEDI
Studio Ambiente
Via Marconi, 10 – Trento
[email protected]
64
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
INTRODUZIONE
Secondo l’IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) tra le funzioni che una
rete ecologica deve assolvere vi sono la conservazione degli ambienti naturali e la protezione delle
specie, anche attraverso il mantenimento dei processi di dispersione e lo scambio genetico fra le
popolazioni.
La dispersione e la possibilità di colonizzare nuovi territori sono fondamentali per l'equilibrio
delle popolazioni animali e vegetali, e, oltre a essere caratteristiche intrinseche delle specie, sono
influenzati da fattori strutturali di origine antropica come insediamenti abitativi, infrastrutture
lineari, monocolture agrarie intensive. Tali elementi, interrompendo la naturale continuità del
paesaggio, interferiscono con i meccanismi di dispersione di molte specie, e portano all'isolamento
di popolazioni. Le popolazioni isolate, con basso numero di individui, con certe strategie di
riproduzione (strat. k), o dipendenti da flussi provenienti da altre popolazioni, risultano più
vulnerabili e passibili di estinzione.
In particolare, le infrastrutture di comunicazione come strade, autostrade e ferrovie
costituiscono barriere a volte insormontabili per specie come anfibi, rettili e piccoli mammiferi.
Comprendere quanto le infrastrutture di comunicazione, nell’insieme delle barriere fisiche di
origine antropica, influenzano la struttura e la dinamica delle comunità biologiche, mette in grado
gli strumenti di pianificazione territoriale di prevenire o almeno di mitigare i fenomeni di
frammentazione e isolamento.
INFRASTRUTTURE LINEARI E FAUNA SELVATICA
Le vie di comunicazione s’intrecciano frequentemente con la rete di corridoi lungo i quali gli
animali selvatici si disperdono nel territorio; l'incontro tra queste due linee di movimento ha
importanti conseguenze sulla fauna, e a volte anche sull'uomo.
La collisione con autoveicoli rappresenta infatti un'importante fattore di mortalità per
popolazioni locali di anfibi (es. Bufo bufo), uccelli (es. Tyto alba) e mammiferi. Alcuni tratti di
strade sono poi utilizzate dalla grande fauna (Ungulati, Canidi, Mustelidi ecc.) come percorsi di
spostamento da e per zone strategiche alla fenologia della specie (zone di riposo, abbeveramento,
ecc.), rappresentando un elevato rischio per gli automobilisti, soprattutto nel caso di collisioni con
Ungulati. Oltre agli incidenti, la rete viaria provoca altri effetti diretti sul territorio circostante, i
quali determinano una generale diminuzione della fruibilità degli ecosistemi, esaltando la
frammentazione degli habitat indotti dalla presenza stessa delle infrastrutture (Tab. 1).
IMPATTI NEGATIVI DI UNA STRADA :
- divisione delle associazioni vegetali attraversate
- “effetto barriera”
- disturbi sulle popolazioni animali presenti
- riduzione delle dimensioni delle aree naturali
- inquinamento atmosferico, idrico, acustico
- .introduzione specie alloctone
- morte diretta per investimenti da traffico
-----> premesse per estinzioni locali di specie
Tabella 1 Sintesi degli impatti negativi di una infrastruttura stradale sulle comunità biologiche
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
65
L'entità degli impatti sopra descritti e le distanze dalla piattaforma stradale alle quali sono
rilevabili, dipendono da un elevato numero di parametri, quali le caratteristiche fisiche e costruttive
della rete viaria, le caratteristiche del traffico (frequenza e tipologia veicolare e velocità media), le
caratteristiche del territorio e delle specie presenti (consistenza, dinamica della popolazioni, areale,
distribuzione, movimenti periodici, ecc.). Ad esempio, un autostrada o una strada ad intensa
circolazione avrà un impatto maggiore e quindi un grado di permeabilità inferiore per le varie
specie rispetto ad una strada comunale, caratterizzata da una larghezza limitata, da un modesto
livello di traffico e disturbo indotto, e dalla frequente presenza di strutture vegetali di
accompagnamento (filari, siepi, fossi e canali, ecc.).
Tabella 2. Misure di mitigazione (daATEC, 2001, modif.)
66
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
INTERVENTI
SPECIFICI
FRAMMENTAZIONE
PER
RIDURRE
GLI
IMPATTI
DA
Vi sono diverse soluzioni per mitigare gli impatti negativi provocati dall'interazione tra fauna e
infrastrutture lineari, classificabili come misure di minimizzazione e misure di compensazione
(Tab. 2). Queste misure si prefiggono i seguenti obiettivi:
1.diminuire le collisioni tra fauna e veicoli, aumentando la sicurezza per l'uomo;
2.proteggere le specie animali a rischio, tramite una riduzione della mortalità diretta e il
ripristino degli scambi interrotti con la costruzione dell’infrastruttura (misure di minimizzazione);
3.mitigare le alterazioni del paesaggio provocate dall'infrastruttura (misure di compensazione).
Misure di minimizzazione
Le misure di minimizzazione si propongono di ridurre l’incidenza diretta della via di transito,
attraverso soluzioni tecniche mirate a prevenire le collisioni tra veicoli e fauna selvatica. Con
questo approccio si cerca di impedire l'accesso diretto alla via di transito e favorire invece il
superamento della barriera in punti ben determinati, attraverso elementi strutturali che invitino e
facilitino il passaggio in quei punti.
L’efficacia dei vari metodi è molto diversificata, e i risultati pubblicati sono spesso discordanti.
Alcuni interventi, inoltre, possono avere un effetto negativo sulla funzionalità della rete ecologica
(si vedano le recinzioni, le sostanze repellenti, ecc.), e quindi vanno attuati solo in concomitanza di
altri. Per quanto riguarda l'applicazione pratica, le misure di minimizzazione (in particolare la
costruzione di passaggi per la fauna selvatica) sono quelle che comportano i costi maggiori di
costruzione e di manutenzione.
Di seguito viene fatta una panoramica dei metodi di contenimento maggiormente impiegati in
Italia e all'estero.
Segnaletica stradale
La segnaletica stradale mira ad agire sul comportamento dei conducenti dei veicoli, poiché la
maggior parte delle persone non è cosciente e/o sufficientemente informata sui rischi di collisione
con la fauna. I classici cartelli triangolari di “PERICOLO SELVAGGINA” che riproducono un capriolo
“rampante” rappresentano a tutt’oggi il sistema informativo e preventivo più diffuso; purtroppo
questo metodo si è rivelato quasi ovunque poco efficace. In Provincia di Modena, ad esempio, la
rete stradale a rischio presenta un elevato indice di segnalazione (un segnale di pericolo selvaggina
vagante ogni 1.6 km), ma gli incidenti provocati da animali selvatici sono in costante aumento
(Manni, 2000).
Una diminuzione nel numero di collisioni tra automobilisti e fauna si registra quando i pannelli
di segnalazione vengono associati ad un cartello di limitazione della velocità. Infatti l’alta velocità
è considerata una delle principali cause di incidenti tra animali e veicoli. Nel corso di un
esperimento effettuato negli USA, lungo un tratto stradale particolarmente frequentato da animali
selvatici, la velocità è stata portata gradualmente da 110 km/h a 85 km/h e si è registrato un
dimezzamento nel numero d’incidenti (SSBF Société Suisse de Biologie de la Faune, 1995).
In alcuni Paesi come la Svizzera, la Finlandia (per le renne) e gli Stati Uniti, sono stati
posizionati, in prossimità dei passaggi utilizzati tradizionalmente dalla fauna, dei pannelli che si
illuminano quando un animale di una certa taglia si trova sul ciglio stradale. Tali impianti sono
costituiti da una rete di rilevatori a raggi infrarossi che sorveglia una striscia di circa 30 m su ogni
lato della strada. Se un animale raggiunge questa zona, i rilevatori mandano degli impulsi ad un
pannello di “pericolo selvaggina” (associato di solito ad un segnale di limitazione di velocità) che
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
67
s’illumina e allarma gli automobilisti. Il bilancio di queste esperienze sembra al momento positivo:
in Svizzera, ad esempio, i segnalatori ad infrarossi sono stati installati in 7 zone, delle quali 3 non
hanno registrato più incidenti, in 2 zone c’è stata una diminuzione significativa, e nelle altre 2 un
miglioramento (SSBF, cit.).
I metodi illustrati di seguito mirano invece ad agire sul comportamento degli animali.
Catarifrangenti antiselvaggina
Si tratta di catadiottri a rifrazione deviata, e rappresentano una sorta di barriera ottica che agisce
durante le ore crepuscolari e notturne, allorquando si verificano la maggior parte degli incidenti
stradali. I catarifrangenti, posti su entrambi i lati della strada, riflettono la luce incidente dei fari dei
veicoli, producendo un fascio di luce rossa direzionata verso l’esterno. Il fascio non è percepibile
dal conducente ma solo dall’animale in procinto di attraversare, che viene indotto ad arrestarsi
temporaneamente o a fuggire in direzione opposta.
Questo sistema è stato adottato ad esempio in Alto Adige, dove l’Associazione Cacciatori dal
1998 ha iniziato ad installare catarifrangenti denominati Swareflex1 lungo i tratti stradali più a
rischio (Giornale del Cacciatore, 1998).
Al momento non sono ancora disponibili dati sulla reale efficacia dei catarifrangenti
antiselvaggina, ma alcuni studi effettuati negli Stati Uniti e altrove dimostrerebbero
un’assuefazione da parte degli ungulati nel giro di breve tempo. Anche in Danimarca è stata
dimostrato un analogo comportamento da parte di ungulati, e solo dopo due settimane, verso
catarifrangenti simili agli Swareflex (Danielson & Hubbard, 1998).
Barriere olfattive
Si tratta di miscele odorose utilizzate soprattutto in Germania e in Austria per dissuadere gli
ungulati (in particolare caprioli) ad attraversare la strada. Tali miscele vengono microincapsulate in
sostanze schiumogene che, applicate ai margini della strada lungo guard-rail, su pali, cortecce
d’albero e arbusti, rilasciano lentamente i principi attivi. Questi prodotti sono innocui per
l’ambiente ma hanno una durata limitata nel tempo (dai 2 ai 4 anni, secondo le caratteristiche), e
quindi le iniezioni di schiuma devono essere ripetute con regolarità.
Alcuni studi effettuati nel Nord Europa hanno riportato un 70 % circa di diminuzione
d’incidenti provocati dalla fauna in prossimità delle aree trattate con repellenti, ma allo stesso
tempo hanno registrato un aumento degli stessi in zone limitrofe non trattate. Quindi questo sistema
sembra spostare il problema più che risolverlo, e probabilmente risulterebbe più efficacie se
associato a stimoli audio-visivi (Danielson & Hubbard, cit.).
Ultrasuoni
Negli USA sono stati sperimentati degli apparecchi da applicare ai veicoli che emettono
ultrasuoni alla frequenza di 16-20 KHz, e che dovrebbero rappresentare un segnale d’avvertimento
per gli animali in procinto di attraversare la strada. Nessun test ha però ancora dimostrato che gli
ultrasuoni rappresentino un segnale d’allarme per gli ungulati (Danielson & Hubbard, cit.).
Recinzioni
Le recinzioni collocate ai margini delle strade sono il metodo più efficace per evitare collisioni
tra i veicoli e la fauna. Le caratteristiche tecniche dell'impianto devono tener conto delle specie
animali più significative presenti negli habitat laterali, mentre il suo ruolo ecologico potrà poi
essere migliorato affiancando linee di arbusti opportunamente scelti e collocati. Dati gli elevati
costi di manutenzione e l'impatto visivo delle reti, questo sistema andrebbe realizzato solo su tratti
stradali a percorrenza veloce e/o molto trafficate.
Anche le barriere anti-attraversamento per anfibi rientrano in questa categoria d'interventi:
possono essere fisse o temporanee, e risultano particolarmente importanti per alcune specie di
rospo, le quali, in determinati momenti dell'anno, sono soggette a perdite numericamente
68
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
importanti per schiacciamento, fino alla scomparsa di popolazioni locali (APAT Agenzia per la
Protezione dell'Ambiente e per i Servizi Tecnici, 2003).
I sistemi di contenimento descritti fin qui potenziano in un certo modo l'effetto barriera delle
strade e vanno quindi affiancati da opere in grado di garantire una certa permeabilità ecologica
trasversale, come i passaggi faunistici.
Passaggi faunistici
I passaggi per la fauna selvatica hanno un duplice obiettivo:
? la diminuzione della frammentazione e dell’isolamento delle popolazioni di animali,
attraverso il ripristino degli scambi interrotti con la costruzione dell’infrastruttura;
? la diminuzione delle collisioni con gli autoveicoli, riducendo il rischio di
attraversamento della fauna sul resto della via di comunicazione.
Per garantire una funzionalità ottimale dei passaggi faunistici è molto importante prestare
particolare attenzione ai dettagli in ogni fase progettuale e alla manutenzione futura. Le dimensioni
e la struttura dei passaggi devono essere pianificate in relazione alle specie a cui sono
prioritariamente destinate, e la loro posizione deve coincidere con le rotte migratorie o i transiti
tradizionali della fauna. Gli animali dovrebbero essere orientati verso i passaggi in base alle
condizioni naturali del territorio circostante e da una serie di elementi tecnici con funzioni
complementari (recinzioni, vegetazione di mascheramento, inviti ecc.). Tali passaggi dovrebbero
essere ad uso esclusivo della fauna e nelle zone limitrofe la caccia dovrebbe essere limitata o
vietata, per evitare che l’animale associ il passaggio ad un’esperienza negativa (SSBF, cit.).
La multifunzionalità (ovvero l’estensione del ventaglio di specie animali che potrebbero fruire
dell’opera) può essere generalmente garantita attraverso l’attuazione di alcuni accorgimenti o
tecniche costruttive complementari poco costosi.
Passaggi superiori: definiti anche “ecodotti, sono sempre più diffusi a livello internazionale,
mentre in Italia il tema è ancora affrontato soprattutto a livello progettuale. Consistono in
sovrappassi o gallerie artificiali ricoperte da suolo e vegetazione naturale, e sono utilizzati da
ungulati e altri mammiferi. Devono avere una larghezza di 45 m ± 5m.
Passaggi inferiori: a seconda delle dimensioni, possono essere utilizzati da una fauna
diversificata. Per anfibi, rettili e mammiferi di mole medio-piccola si prestano tunnel sotterranei in
cemento, polietilene o metallo, con diametro da 50 a 200 cm e lunghezza di circa 40 m s.
Dovrebbero essere costruiti a distanze di 400-500 m lungo le vie di comunicazione occluse di una
certa importanza. Per il passaggio di ungulati (soprattutto caprioli e cinghiali) e altri mammiferi, le
dimensioni raccomandate sono 4 m di altezza e 25-50 m di larghezza (per evitare l’effetto tunnel si
dovrebbe avere un rapporto “altezza x larghezza / lunghezza” uguale o superiore a 1,5). Tuttavia,
queste specie utilizzano di preferenza i sovrappassi e si servono dei sottopassaggi solo per
spostamenti occasionali. I tunnel sono poco indicati anche per numerosi invertebrati, a causa delle
condizioni di siccità e di oscurità che creano un microclima sfavorevole (ATEC Dipartimento
federale dell’Ambiente, dei Trasporti, dell’Energia e delle Comunicazioni, 2001).
Ponti ecologici: sono costituiti da tunnel ferroviari o stradali che conservano la vegetazione
naturale e la struttura paesaggistica. Hanno una larghezza di qualche centinaio di metri.
Costituiscono la misura più efficace per tutta la fauna, ma la loro utilità è limitata in presenza di
forte urbanizzazione o attività umane.
Passaggi lungo i corsi d’acqua: molti animali si orientano seguendo i corsi d’acqua. Il passaggio
di un fiume sotto una strada o una ferrovia può esser utilizzato dalla fauna se bordato da una fascia
di suolo naturale di almeno 1 m di larghezza o da una cintura di vegetazione naturale (SSBF, cit.).
Misure di compensazione
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
69
Le misure di compensazione sono interventi in grado di compensare, almeno parzialmente, la
sottrazione di habitat funzionale da parte delle infrastrutture lineari, e contribuiscono al loro
inserimento nel contesto paesaggistico ed ecosistemico (Tab. 2).
Fasce arboreo-arbustive ai lati delle strade
Le fasce di vegetazione ai lati delle strade possono adempiere a diverse funzioni. Innanzi tutto
contribuiscono a ridurre gli impatti di autoveicoli con l'avifauna, in quanto alzano la linea di volo
degli uccelli.
Possono servire a collegare tra loro unità naturali intersecate dalla strada, formando corridoi
utilizzabili da piccoli animali (es. Coleotteri Carabidi, alcuni rettili, ecc.) per lo scambio di
individui tra le popolazioni dei frammenti rimasti. Inoltre, macchie arboree proteggono l'ambiente
circostante dal rumore e dagli scarichi prodotti dal traffico, e contribuiscono a limitare i processi
erosivi (ad esempio quelli causati dall'azione del vento) in punti particolarmente vulnerabili
(APAT, cit.).
Creazione di ambienti sostitutivi
Si possono creare, ad esempio, nuovi luoghi di alimentazione per i caprioli o di riproduzione per
gli anfibi, onde evitare che gli animali, durante i loro spostamenti giornalieri o stagionali siano
costretti ad attraversare zone a rischio.
Creazione di nuovi ambienti naturali di pregio
Si prestano a questo tipo d'interventi le aree intercluse tra da barriere artificiali (per es.
autostrade, ferrovie ecc.) o naturali (per es. corsi d'acqua), che sono zone quasi sempre abbandonate
a se stesse.
In ambito urbano e periurbano gli ambienti riqualificabili e sfruttabili come corridoi di
connessione, sono ad esempio ripe di corsi d’acqua, fontanili, stagni, cave dismesse, infrastrutture
viabilistiche da dismettere o riarredare a verde, pertinenze delle linee elettriche da riorganizzare
con finalità naturalistiche, ecc. (APAT, cit.).
Misure di gestione della fauna
Sono misure atte a ridurre la mobilità delle specie sensibili, come una riduzione della caccia, un
miglioramento delle condizioni di riproduzione, ecc.
CASO DI STUDIO
Sulla base dell’incarico della Provincia di Pordenone - Servizio Tutela Ambientale, Caccia e
Pesca, vengono riassunti i risultati dell’indagine riguardante la stesura di un progetto preliminare
per un piano di interventi volti a ridurre il fenomeno dei sinistri stradali provocati da
attraversamenti di animali selvatici, articolatosi nelle seguenti fasi.
a) Identificazione dei quattro casi (tratti stradali) più significativi in termini di massimo
numero e massima frequenza (densità) di incidenti rilevati, così come accertato dalle schede
di rilievo che sono state rese disponibili dalla Provincia di Pordenone.
b) Sopralluoghi conoscitivi dei tratti interessati da tali eventi, anche in relazione alle
necessità di interventi sulla vegetazione circostante; analisi ed elaborazione statistica dei dati
rilevati.
c) Proposta delle metodologie più idonee per dissuadere o segnalare gli attraversamenti
stradali da parte degli animali selvatici.
d) Analisi dei costi relativi agli interventi proposti.
70
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
Il progetto ha inizialmente considerato le attuali esperienze di settore, nonché la bibliografia di
riferimento esistente, verificando quanto finora emerso in ambito nazionale e in altre realtà esterne
(Francia, Svizzera, Austria, Spagna, U.S.A., Canada, ecc.) e coinvolgendo la dott. Stefania Zorzi, il
dott. Antonio Borgo, dott. Davide Pasut, dott. Tommaso Sitzia.
L’analisi delle relazioni causali esistenti tra il verificarsi e la frequenza degli investimenti
stradali di fauna e le caratteristiche ambientali delle fasce limitrofe ai tratti stradali è molto utile per
poter prevedere il livello di pericolosità dei diversi tratti e le modifiche eventualmente attuabili per
ridurla, ma risulta estremamente delicata. È infatti necessario disporre di dati numerosi e precisi e
di un adeguato campione di eventi.
Nel presente lavoro è stato affrontato l’argomento delle relazioni ambiente-investimenti a titolo
del tutto preliminare e finalizzato, oltre che a fornire indicazioni per la predisposizione di una
scheda di rilevamento degli eventi, che permetta di raccogliere i dati in modo che essi risultino poi
effettivamente analizzabili e utili per lo studio del fenomeno, anche ad elaborare uno specifico e
più approfondito programma di analisi del problema.
Il protocollo di analisi dei dati messo a punto per questa fase preliminare mirava ad individuare
innanzitutto le caratteristiche ambientali dei tratti stradali interessati da incidenti, per capire quali
fattori ambientali possano influenzare il fattore di rischio di un tratto stradale. L’analisi è stata
condotta confrontando le caratteristiche medie dei 9 tratti stradali a maggior incidenza di
investimenti, con le caratteristiche di altrettanti tratti stradali nei quali non siano stati segnalati
incidenti. Nel progettare il protocollo di analisi sono emersi alcuni problemi pratici che complicano
l’utilizzo dei dati forniti dall’Amministrazione provinciale. In primo luogo, il singolo investimento
non era di solito localizzato con precisione (dato puntiforme) ma faceva riferimento alla località più
vicina, da cui l’esigenza di individuare dei tratti stradali (dato lineare). Di conseguenza, la
lunghezza che ne risultava non era uniforme, variando da meno di 1 Km a più di 5, e rendendo i
dati tra loro non confrontabili. Tale circostanza ha pertanto costretto a considerare solo il campione
di tratti stradali di lunghezza contenuta e confrontabile. Dal momento che il numero di incidenti
non è di per sé indicativo se questi non sono georeferenziati e se sono riportati su tratti stradali di
diversa lunghezza, per avere una più veritiera valutazione del tasso di investimenti nei diversi tratti,
è stata calcolata la frequenza (densità) di incidenti per chilometro di strada (investimenti/km).
Dovendo, per ragioni di fattibilità, limitare il campione di tratti da analizzare, sono stati selezionati
solo quelli con più di un incidente (n = 13) e, all’interno di questo campione, sono stati scartati i
tratti (n = 4) con due incidenti, aventi una lunghezza eccessiva rispetto al resto del campione.
Questi tratti risultavano infatti troppo poco affidabili in quanto in essi erano evidentemente
inclusi anche settori senza incidenti che, in quelli più corti, erano invece stati scorporati. Nel
complesso sono quindi stati analizzate le caratteristiche ambientali di nove tratti a maggior
frequenza di investimenti. La lunghezza dei nove tratti stradali senza incidenti componenti il
campione di confronto è stata presa pari alla lunghezza media dei tratti con incidenti analizzati.
Per individuare le caratteristiche ambientali che influenzano la frequenza degli incidenti, il
campione complessivo di 18 tratti stradali utilizzati nell’analisi precedente è stato diviso in tre
classi di frequenza di incidenti: classe 2: tratti con più di 2 incidenti/Km; classe 1: tratti con meno
di 2 incidenti/Km; classe 0: tratti senza incidenti. Sono quindi state confrontate le caratteristiche
ambientali dei tratti delle diverse classi. In alternativa, i dati sono stati analizzati senza accorparli in
classi, facendo un’analisi delle correlazioni esistenti tra la frequenza degli investimenti e le
caratteristiche ambientali dei singoli tratti stradali. Dal momento che l’83% degli investimenti
segnalati è stato a carico del Capriolo, le analisi sono state fatte sia sul totale degli incidenti che sui
soli incidenti provocati dal Capriolo.
Sul campo è stato pertanto rilevato l’uso del suolo all’interno di una fascia di 100 m lungo
l’intero percorso del singolo tratto stradale esaminato, su entrambi i lati della carreggiata. Le
variabili individuate erano: aree edificate (incluse parchi e giardini annessi ed altre aree recintate),
seminativi, prati e medicai, colture arboree (vigneti e frutteti), arboreti (pioppeti inclusi), aree
boscate e incolti (cespugliati), espressi come superficie percentuale (%), e la densità di siepi riferita
all’ettaro (m/ha).
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
71
Metodologie più idonee per dissuadere o segnalare gli attraversamenti (esempio per il tratto
di strada T4)
Comune di Aviano, località Giais.
Lunghezza: 1,2 km; da incrocio per Cortina di Giais a incrocio per Marsure.
N° investimenti: 3 caprioli (1 maschio e 2 femmine).
Descrizione: tratto abbastanza boscato, in alcuni punti già recintato. Attraversa 4 rii.
Indicazioni generali: due dei sottopassi dei rii risultano avere dimensioni idonee al passaggio
degli ungulati, mentre gli altri due sono bassi (circa 1,50 m) e stretti. Se non è possibile modificare
gli ultimi due sottopassi, si dovrebbe intervenire sulla vegetazione, regolandola nei tratti in cui non
vi sono attraversamenti idonei e nei pressi dei due sottopassi maggiori in modo da convogliare la
fauna verso di essi.
Interventi puntiformi
Sezione 1) Tratto da incrocio per Cortina di Giais al sottopasso del rio che s’immette nel Roia
Riduàn: ai due lati della strada vi sono case e terreni recintati fino al sottopasso del rio, il quale ha
misure adeguate per il passaggio di ungulati (6 m di altezza).
Nessun intervento previsto.
Sezione 2) Dopo la curva, dal cartello di Giais segue un tratto rettilineo delimitato da abitazioni
sul lato destro (a monte), e da prato (circa 100 m) e bosco sul lato sinistro.
Interventi previsti:
? Taglio e ripulitura del sottobosco per 10 m di larghezza e 200 m di lunghezza sul lato
sinistro della strada (a valle).
? Posizionare catarifrangenti nei 100 m di prato alberato sul lato destro o barriere
olfattive.
Sezione 3) All’inizio della curva, prima del cartello del Royal Hotel, c’è un sottopasso basso in
cemento (1, 50 m), non adatto agli ungulati.
Interventi previsti:
? Posizionare due reti di 50 m ai lati del sottopasso sul lato destro della strada.
? Collocare pannelli di “Pericolo attraversamento fauna selvatica”.
Sezione 4) Dal Royal Hotel alla curva successiva.
Interventi previsti:
? Ripuliture sottobosco sul lato sinistro della strada (circa 100 m) prima della curva; in
corrispondenza della curva esiste un sottopasso in lamiera idoneo al passaggio degli
ungulati (altezza circa 3 m).
? Sistemare e rinverdire il fondo del sottopasso, prevedendo un sistema di drenaggio.
? Posizionare 100 m di rete a lato del sottopasso e in entrambi i lati della strada (dal
Velvet club a sottopasso).
Sezione 5) Tratto rettilineo compreso tra due curve successive. In corrispondenza della curva vi
è un sottopasso piuttosto basso, circa 1,40 m.
Interventi previsti:
? Si dovrebbe abbassare il fondo e rendere l’accesso più agevole demolendo il muretto
(soglia) presente prima dell’ingresso.
? Taglio sottobosco.
Sezione 6) Tratto compreso tra due curve successive.
Interventi previsti:
72
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
?
?
Lato destro: taglio vegetazione (robinia) per circa 50 m fino alla casa recintata o
installare rete.
Lato sinistro: taglio cespugli per una fascia di 10 m in larghezza e 50 m in lunghezza.
Sezione 7) Tratto compreso tra l’ultima curva e l’incrocio per Marsure. C’è un sottopasso alto
circa 4 m e largo 5 m, è in cemento e si presenta idoneo per l’attraversamento di ungulati.
Interventi previsti:
? Sul lato destro posizionare circa 50 m di rete lungo la strada e circa 100 m lungo la
stradina sterrata che corre al margine del rio.
Computo metrico estimativo
Descrizione lavori
Sistemazione del piano di posizionamento
reti
Fornitura e posa in opera di rete metallica
filo 3.8 mm a maglia regolare
Fornitura e posa in opera di rete metallica
a maglia variabile tipo autostrada
Diradamento e decespugliamento
Intervento di valorizzazione, recupero e
riqualificazione compensativa
Acquisto di piante di specie autoctone
Intervento di riqualificazione dell’area del
torrente Artugna
Trasporto del materiale di risulta
Fornitura e posa di tabelle segnaletiche
luminose
Fornitura e posa in opera di repellenti
odorosi
Fornitura e posa di catadiottri
Unità di
misura
mc
Q.tà
parziale
250
Prezzo
unitario
5,00
Importo
(euro)
1.250,00
ml
1250
15,00
18.750,00
ml
120
10,00
12.500,00
ha
n.
1,6
1,0
3.500,00
18.000,00
5.600,00
18.000,00
n.
ha
50
0,6
5,00
3.500,00
250,00
2.100,00
ore
n.
20,00
3
30,00
sperim.
600,00
sperim.
litri
5
20,00
100,00
n.
14
20,00
280,00
OSSERVAZIONI E CONCLUSIONI
Sulla base degli obiettivi indicati nell’incarico e delle analisi dei dati relativi agli incidenti
stradali provocati dalla fauna selvatica in provincia di Pordenone, il progetto preliminare ha
evidenziato che:
1. I dati esistenti sono stati raccolti e documentati in maniera non puntiforme. Un buon
sistema di conoscenza è invece alla base dei successi riportati in altri Paesi in materia di
incidenti causati da animali selvatici. Si ritiene quindi necessario attivare modalità
standardizzate che garantiscano la costanza e la qualità dei dati, sensibilizzando anche la
popolazione verso forme semplici di segnalazioni di incidenti e avvistamenti sulle strade
(schede in cui riportare data, ora, luogo, località, georeferenziazione e dinamica
dell’incidente, animale coinvolto, tipo di danni; cfr. scheda Provincia Autonoma Trento). Si
propone inoltre un sistema di schedatura essenziale ed immediato per la parte affidata
direttamente ai conducenti dei veicoli coinvolti (veicolabile tramite cartoline con tassa
prepagata, numero verde telefonico, sito internet), demandando a successivi sopralluoghi
Stefania Zorzi & Silvano Mattedi
73
da parte del personale di vigilanza l’approfondimento dei dati tecnici necessari ad un
corretto inquadramento dell’evento.
2. Rispetto ai dati forniti, l’identificazione dei casi a maggiore frequenza (densità) di incidenti
è stata rilevata su quattro tratti stradali della Strada Pedemontana orientale compresi tra
Giais e Budoia. In base ai sopralluoghi effettuati ed all’analisi dei dati dell’uso del suolo
sono stati individuati alcuni sistemi (reti, catarifrangenti, barriere olfattive e segnalatori)
per contenere e evidenziare il fenomeno, cercando di favorire gli spostamenti della fauna e
il tessuto ecologico locale, suggerendo una riqualificazione compensativa del territorio
circostante rispetto agli interventi sulla vegetazione interessata.
3. Decisioni di ordine urbanistico e, in particolare, la realizzazione di nuove opere stradali
dovranno tener conto delle esigenze della fauna e della conservazione e miglioramento dei
corridoi e delle reti ecologiche. A tale scopo si ritiene fondamentale la predisposizione di
un Piano provinciale (regionale) reti ecologiche e considerare nel dettaglio gli impatti a
carico della componente faunistica, nell’ambito della “Strategia paneuropea per la
promozione della diversità biologica e paesaggistica” approvata dai ministri dell’ambiente
nel 1995.
4. Su scala provinciale (meglio regionale), si suggerisce infine di analizzare le relazioni
ambiente-investimenti (presenza specie-specifica, frequenza per specie e totale) con
l’obiettivo di formulare e validare un modello statistico multivariato atto a prevedere il
rischio di incidenti e programmare idonei interventi di contenimento.
La forte trasformazione del territorio e lo scardinamento degli equilibri ecologici avvenuti negli
ultimi decenni hanno condotto ad una perdita di funzionalità dell'ecosistema. Questo è avvenuto
anche per una mancata conoscenza delle reali possibilità di assorbimento degli impatti da parte
degli ecosistemi e da una pianificazione territoriale che non ha preso in considerazione le
implicazioni ecosistemiche delle sue scelte.
Una rete ecologica si rivela uno strumento valido a tale proposito, potendo essere intesa, a
supporto di uno sviluppo sostenibile del territorio, come un insieme interconnesso di componenti
ambientali e risorse naturali in grado di svolgere una funzione di mitigazione degli impatti negativi
sull'ambiente.
BIBLIOGRAFIA CITATA E CONSULTATA
APAT, 2003. Gestione delle aree di collegamento ecologico funzionale. Indirizzi e modalità
operative per l’adeguamento degli strumenti di pianificazione del territorio in funzione della
costruzione di reti ecologiche a scala locale. Manuali e linee guida, n. 26/2003.
ARPA, 2001. Stato dell'ambiente 2001. A cura di L. Graziano.
ATEC, 2001. Basi per una Direttiva sui passaggi per la fauna selvatica, novembre 2001. Rapporto
stilato da G. Dändliker e P. Durand (Studio ECOTEC Environnement SA di Ginevra), su
mandato dell’UFAFP, nell’ambito del programma WILDMAN, e successivamente elaborato
nel corso delle riunioni del gruppo di esperti del 5 e 22 giugno 2000 e durante una seduta
congiunta tra l’USTRA e l’UFAFP del 6 settembre 2000.
Danielson B. J. & H. W. Hubbard, 1998. A literature review for assessing the status of current
methods of reducing deer-vehicle collisions. Report prepared for the Task Force on Animal
Vehicle Collisions, The Iowa Departement of Transportation and The Iowa Departement of
Natural Resources.
Giornale del Cacciatore, 1998. Tremila catarifrangenti antiselvaggina installati sulle strade
altoatesine. n° 5.
Manni A., 2000. L’incidentalità da fauna in Provincia di Modena: aspetti amministrativi, di
pianificazione e tecnici. Convegno Fauna e Viabilità, 5 maggio 2000, Modena.
SSBF, 1995 (Ed). Faune, construction de routes et trafic, Coire.
74
Reti ecologiche e fauna selvatica: limiti alla dispersione e loro mitigazione
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004 : 75-85
HEDGEROWS AS HABITAT CORRIDORS FOR FOREST HERBS
Duncan McCOLLIN and Janet I. JACKSON
University College Northampton, Park Campus, Northampton, UK. NN2 7EL
[email protected]
76
Hedgerows as habitat corridors for forest herbs
INTRODUCTION
Nowadays, it is popular idea that linear features increase connectivity and help ameliorate
the deleterious effects of habitat fragmentation. Hedgerows are found in many landscapes of
the world (Baudry et al., 2000) and concern over their loss has led many ecologists to
promote them for their potential corridor function. The intellectual appeal of this idea is such
that networks have been planned on the basis that such connections will increase the
ecological infrastructure of fragmented landscapes (e.g., LifeECONet, no date; James, 1999;
Lynx, 2001; EcoNet Ireland, 2002; Jongman & Pungetti, 2004), perhaps prematurely
according to some (e.g., Hobbs, 1992). Whilst their primary function is almost always as a
stock-proof barrier, hedgerows have been shown to have a wide range of potentially
beneficial effects including preventing soil erosion, microclimate modification, harbouring
beneficial arthropods and as a habitat in their own right (Pollard et al., 1974; McCollin,
2000). The idea that hedgerows act as corridors has wide appeal and there is some evidence to
support this idea for taxa such as small mammals (Wegner & Merriam, 1979; Merriam, 1990;
Bennett et al., 1994; Andreasson et al., 1996; Bright, 1998), birds (Wegner & Merriam, 1979)
and bats (Verboom & Huitema, 1997). Here I examine some of the evidence for plants,
focussing particularly on forest plants in hedgerows, and outline some possible future
approaches.
WHAT IS A CORRIDOR?
The term ‘corridor’ is often ascribed erroneously to any linear habitat. The term corridor
implies a specific function which may or may not be possessed by a linear habitat. For
mobile taxa such as small mammals (e.g., Apodemus sylvaticus) the linear feature may not be
habitable. A hedgerow may simply provide cover to facilitate the movement between
habitable areas: the animal uses the hedgerow to move from one place to another since it
helps it avoid predation. Similarly, corridors have a number of potential benefits. Corridors
may:
- allow species to escape an extinction event (e.g., due to disturbance), or to re -colonise
a vacant patch after extinction
- allow movements between patches so that all habitat requirements are met (e.g.,
where a species has a large minimal viable area, or different areas provide different
resources)
- facilitate seasonal migrations
- promote gene flow between populations/sub-populations, or reinforce flagging (sub-)
populations.
(Dawson 1994, Dover, 2000)
However, plants are fundamentally different from animals; they are sessile. Thus, any
place where they are found is, by definition, a habitat. Hence, for plants, the corridor function
differs fundamentally from more mobile taxa such as mammals, birds, bats or insects: the
corridor must be habitable. A number of plant species have successfully colonised linear
habitat networks from their original habitats.
A well known British example of a plant colonising linear features is that of the Oxford
Ragwort Senecio squalidus. Introduced to the Oxford Botanic Garden (OBG) by Linnaeus, it
was first recorded as an escape in 1794AD. Thereafter, it was recorded at scattered localities
until the Great Western Railway reached Oxford in c. 1880. George Claridge Druce, curator
of the OBG, described its plumed seeds hitching a ride in his railway carriage for 20 miles
between Oxford and Ticehurst en route to London not long afterwards (Mabey, 1999).
Railway ballast, comprising cinders, provided a close analogue to its native habitat on the
slopes of Mount Etna (Kent 1958, 1960).
Duncan McCollin & Janet Jackson
77
Early Scurvy Grass Cochlearia danica, is one of a number of saltmarsh plants which are
now a common sight along roadsides in Britain. There are a number of factors that may have
contributed to their success: they appear to set seed readily and their se eds have high
germination success (Table 1). Their seed have undoubtedly been spread readily in the air
currents created by the passage of vehicles and/or on the wheels and in the wheel arches
(Hodkinson & Thompson, 1997). In addition they are colonising an available niche - (saltscorched) bare soil at the edge of roads - often devoid of vegetation.
An alien species, Indian Balsam Impatiens glandulifera, is a very successful invader of
river and canal banks. However, native species have also benefited from canals. In East
Yorkshire, the Leven Canal provides a refuge for 83 aquatic, riparian and wetland species,
including 44 species of aquatic plant, many of which would otherwise have been lost due to
the drainage and loss of surrounding wetlands. Species such as Arrowhead Sagittaria
sagittifolia, Flowering Rush Butomus umbellatus, Yellow Water-lily Nuphar lutea, and White
Water-lily Nymphaea alba, Shining Pondweed Potamogeton lucens and Broad-leaved
Pondweed P. natans are now only found in the Leven Canal and would have been lost in this
area were it not for this sanctuary (Crackles, 1990). In future, if conditions improve, the
Leven Canal could provide a focal point for these plants to extend their range into newly
recreated wetlands.
Along with rivers, perhaps the largest continuous linear habitat (or, more precisely,
habitats) in Britain is its coastline. Coastal habitats include sand dunes, saltmarsh, cliffs,
maritime grassland as well as man-made habitats such as sea defences such as harbour walls
and nearby uncultivated habitats. There are a number of plant species confined to habitats
along the coast and inspection of their distribution shows some obvious linear patterns
(Preston et al., 2002). Where it not for the fact that we have a priori knowledge of coastlines
we might be tempted to think this is a corridor. This leads us to the question: what are the
pre-requisites for us to consider whether habitats are linked by corridors?
One major pre-requisite for us to consider whether a linear feature i s a corridor is directed
movement of propagules towards or along the linear habitat.
The role of directionality in the dispersal of coastal plant species is unknown. It is
conceivable, however, that dispersal of plant propagules along coastlines could be directed
under the influence of longshore drift. What happens when we apply this concept of directed
movement to hedgerows?
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004 : 75-85
Table 1. Biological characteristics of some plants extending their range into linear habitats in Britain
(Mathews & Davison, 1976; Scott & Davison, 1982; Rose, 1981; Scott, 1985; Stace, 1997).
Species
Cochlearia
officinalis
C. danica
Impatiens
glandulifer
a
Lactuca
serriola
Puccinella
distans
P. maritima
Senecio
squalidus
Serratula
tinctoria
Spergularia
marina
References
Primary habitat
Linear habitat
Life form
Chalk,
mesotrophic, and
maritime grassland,
mire, swamp,
saltmarsh
Maritime
grassland,
saltmarsh
Himalayas
Salt-treated
roads inland
Biennial to
perennial
Salt-treated
roads inland,
railway ballast
Banks of rivers
and canals
Annual to
biennial
Waysides, waste
and rough ground
Swamp, saltmarsh
Swamp, saltmarsh
Volcanic ash (S
Europe)
Calcareous
grassland, hay and
fen-meadows, wet
heaths, open scrub,
cliff tops
Swamp
Peat et al. (nd),
Stace (1997)
Roads, railway
ballast
Salt-treated
roads inland
Salt-treated
roads inland
Railway ballast
Roadside verges
and railway
banks
Salt-treated
roads inland
Stace (1997) +
others
Seed
weight
(g)
0.32
Germination (%)
Diaspore
type
100
100
7.32
2 (88)
0.46
85-100
Peat et al.
(nd)
Peat et al.
(nd)
Seed with
a pappus
Perennial
Perennial
Usually
annual
Perennial
Annual
Rose (1981)
Stace (1997)
Although unknown, it is unlikely that many plant species in forest would have directed
movement (except perhaps in favour of lighter areas?). The commonest forms of dispersal in
ancient forest plants are anemochory (25% of 132 species), zoochory (27% and myrmecechory
(24%) (Hermy et al., 1999). Dispersal is often of a very low order in forest plants: rates of
movement in the temperate zone range from 0.0 - 5.5m year-1 (Matlack, 1994; Cain et al., 1998;
Honnay et al., 1998; Bossuyt et al., 1999; Hermy et al., 1999) with rates for many species often <<
1.0m year-1. Wind flow in the canopy trunk space may be so low that dispersal by wind is
inhibited. Dispersal by ants is likely to be highly limited. One way in which dispersal may be
directed is by movement of seeds by animals. If animals are using hedgerows as corridors then any
seeds that have either been ingested by, or carried on, the animal may then be directed down the
linear feature. However, it must be recognised that dispersal is a three -stage process: even if
movement of propagules is directional, there would still have to be successful germination and
establishment. McCarthy (1994) showed that for hickories (Carya spp., Juglandaceae) hedgerows
can provide better environments for seedling establishment compared to forest due particularly to
differences in browsing by deer and drought stress.
One definition of a corridor is that it is a linear feature of vegetation that differs from
surrounding vegetation and connects at least two patches that were connected in historical time
(Saunders & Hobbs, 1991). I would modify this definition, first to insert the term ‘functionall y’
before ‘connects’. Unlike forests and hedgerows, sand dunes systems along coasts, for example,
may never have been physically connected in historical times yet there may exist ‘corridors’
Duncan McCollin & Janet Jackson
79
between them. The corridor could be the wind or longshore drift. Hence, I define a corridor as
follows:
A corridor is a linear feature, natural phenomenon or process that facilitates connectivity
between similar but isolated habitats.
When considering hedgerows the question becomes, are hedgerows sufficiently similar to forest
habitats to provide such connectivity? Previous studies suggest that hedgerows are more like forest
edges than forest interiors (Fritz & Merriam, 1993; McCollin et al., 2000). McCollin et al. (2000)
analysed hedgerows for their potential to act as corridors for forest plants. If the argument for the
conservation of hedgerows is for biodiversity, then it follows that hedgerows must be able to
support forest populations. However, McCollin et al. (2000) found that differences between the
floras of forest and hedgerows were consistent with significant qualitative differences for soil pH,
nutrient status and temperature.
Table 2 presents a new analysis of the differences in Ellenberg Indicator Values for light (L),
soil moisture (F), soil pH (R) and nutrient status (N) of plant species found exclusively in either
forest or adjoining hedgerow for ten transects in Geddington Chase and Fineshade,
Northamptonshire (data collected by Dr Janet Jackson in 1998). The significant differences
between Ellenberg’s-L (U=97.5, p<0.001) and Ellenberg’s-F (U=149.5, p=0.022) are consistent
with differences in light levels and soil moisture between the two habitats: hedgerows are
characterised by higher light levels and drier conditions than forest.
Table 2. Tests of differences of Ellenberg Indicator Values for light (L), moisture (F), soil pH (R) and
nutrient status (N) between plant species found exclusively in ten transects in forest compared to those
found exclusively in adjoining hedgerows: Geddington Chase and Fineshade, Northamptonshire, 1998.
(Data from Jackson (2001)(see Appendix I).
Ellenberg-L
Ellenberg-F
Ellenberg-R
Ellenberg-N
Mann-Whitney U
97.5
149.5
181.0
195.5
p-value
<0.001
0.022
Not significant
Not significant
These results affirm previous analyses and add to the argument that hedgerows are
unlikely to be able to support forest plant populations.
PLANT DISPERSAL: A LANDSCAPE PERSPECTIVE
Plant dispersal is often described as a two-dimensional function in terms of the distance
travelled by propagules. Irrespective of the means of dispersal, typically most propagules will be
deposited close to the parent plant and there is a decreasing function with distance.(Fig. 1).
Hedgerows as habitat corridors for forest herbs
Percentage seed fall
80
Distance from parent
Fig. 1. The distance dispersed by seeds from the parent plant is often described as a
reverse exponential function.
Percentage seed fall
In reality, this function is three dimensional (Fig 2.).
Frequency distribution
Fig. 2. A three-dimensional representation of the percentage seed fall from the parent
plant. The circular arrow is to represent the three-dimensional aspect of the
probability function.
Duncan McCollin & Janet Jackson
81
Percentage seed fall
The implication of this three-dimensional function is that there will be a dispersal radius
incorporating a probability function around a parent plant in which seeds are more l ikely to be
deposited. Whilst the ultimate dispersal distance could potentially be very large it is more realistic
to assume a 95% probability function (represented by a circle in Fig. 3). However, seed dispersal
will also be modified by landscape structure. If we superimpose this probability function onto a
hypothetical landscape, the distance dispersed by the propagule will therefore depend not only on
the potential for dispersal (as represented by the probability function; Fig 2) but also by the
connectivity of the landscape in which it is embedded (Fig. 3). Given a knowledge of the seed
dispersal function, a landscape connectivity map could be constructed to show the seed dispersal
function for any particular species. This may be a useful step to help ev aluate corridor function.
Frequency distribution
Figure 3. The landscape within the 95% dispersal range will contain habitats that
differ in connectivity. The shaded central element represents a forest whilst adjoining
lines represent hedgerows.
RESEARCH NEEDS
In an examination of recruitment success (seedling survival) in natural and experimental
populations it was shown that habitat quality had a large impact on recruitment success for
Primrose Primula vulgaris (Jacquemyn et al., 2003). Decreased recruitment rates were found for
populations along arable fields compared to populations located in forests or along grasslands.
82
Hedgerows as habitat corridors for forest herbs
Further, the research showed that this species may be particularly sensitive to the quality of the
surrounding landscape matrix rather than within-habitat characteristics, or indeed demographic or
genetic traits in determining population viability.
These ideas are consistent with the model described above. Dispersal is increasingly being
recognised as an important population process and it is logical for ecologists to look to hedgerows
to provide that function for forest plant populations. Thus far, the evidence has been equivocal.
There are those who, on the basis of similarity between forest and hedgerow plant assemblages,
suggest that linear features do act as corridors for plants (e.g., Corbit et al., 1999; Tikka et al.,
1999) and there are those who (more realistically in my opinion) are more cautious and recognise
that whilst hedgerows may act corridors for some species they are likely to act as a selective filter
(McCollin et al., 2000; de Blois et al., 2002a).
However, the papers mentioned in the above paragraph are all concerned precisely with the
ecological question of whether hedgerows act as corridors. One factor mitigating against this, not
considered in those papers, is landscape context (see also de Blois et al., 2002b; Murphy & LovettDoust, 2004)). Land use adjacent to hedgerows is likely to have a major influence on the
sustainability of plant populations in hedge bottoms. Hedge bottoms adjacent to arable land are
subject to spray drift from herbicides and nutrient inputs and damage due to ploughing. Wild plants
in hedge bottoms will thus suffer from these inputs, notwithstanding any resulting competition
resulting from growth of species greedy for nutrients (e.g., Urtica dioica, Galium aparine).
ACKNOWLEDGEMENTS
Thanks are extended to Dr Jeff Ollerton for useful discussions.
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APPENDIX I. SPECIES CONFINED EITHER TO FOREST (HABITAT CODE 1)
AND HEDGEROW (2) IN A SURVEY CARRIED OUT BY DR JANET JACKSON
IN GEDDINGTON CHASE AND FINESHADE IN 1998, AND TEN ADJOINING
HEDGEROWS. ELLENBERG-L, F, R AND N VALUES ARE SHOWN (AFTER
HILL ET AL., 1999)
Species
Aegopodium podagaria
Ajuga reptans
Allium ursinum
Cardamine flexuosa
Cerastium holosteoides
Dactylorhiza fuchsii
Filipendula ulmaria
Hyacinthoides non-scripta
Hypericum hirsutum
H. perforatum
Lonicera peryclymenum
Moehringia trinervia
Myosotis sylvatica
Potentilla sterilis
Primula vulgaris
Scrophularia nodosa
Solanum dulcamara
Stellaria nemorum
Tussilago farfara
Vicia sepium
Viola reichenbachiana
Achillea millefolium
Alliaria petiolata
Angelica sylvestris
Bryonica dioica
Calystegia sepium
Capsella bursa-pastoris
Centaurea nigra
Cirsium arvense
Conopodium majus
Convolvulus arvensis
Galium mollugo
Geranium dissectum
G. molle
Lapsana communis
Myosotis arvensis
Plantago lanceolata
Rumex sanguineus
Sisymbrium officinale
Taraxacum officinale agg.
Veronica chamaedrys
V. hederifolia
V. persica
Vicia tetrasperma
Viola arvensis
V. hirta
Habitat
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1
1
1
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1
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1
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Hedgerows as habitat corridors for forest herbs
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 87-96
GENETICA NELLE RETI ECOLOGICHE: INDICI E INDICATORI
PER LA STIMA DELLA FUNZIONALITÀ
Margherita LUCCHIN
Dipartimento Agronomia Ambientale e Produzioni Vegetali – Università di Padova
Campus Agripolis - Viale dell’Università, 16, 35020 Legnaro (Padova)
[email protected]
88
Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la st ima di funzionalità
PREMESSA
Le reti ecologiche rappresentano una nuova strategia di tutela del paesaggio e, nel contempo di
salvaguardia della diversità biologica, che si basa sul collegamento di aree di rilevante interesse
ambientale-naturalistico in una rete continua, capace di ripristinare la connessione funzionale tra
ecosistemi e, quindi, tra popolazioni di organismi viventi, in ambienti frammentati. Le reti
ecologiche rappresentano pertanto un nuovo approccio alla conservazione biologica, non più
confinata in singoli ambiti territoriali da tutelare, contrapponendosi al modello di salvaguardia
dell’ambiente basato sulle aree protette (Battisti, 2 004). In un’ottica di sviluppo sostenibile nella
pianificazione del territorio, le reti ecologiche rappresentano quindi un’opportunità per
riguadagnare, anche in territori fortemente antropizzati, il rapporto con l’ambiente naturale o
seminaturale.
La capacità di un ambiente ad ospitare una determinata specie, animale o vegetale,
consentendone la sopravvivenza e il mantenimento della variabilità genetica e, quindi, della
capacità adattativa, può essere valutata attraverso lo studio quantitativo del paesagg io, proprio della
moderna ecologia, in diretta relazione con la pratica della conservazione biologica.
Dal punto di vista genetico, l’approccio paesaggistico all’ecologia è legato al concetto di
metapopolazione, una popolazione di una specie animale o vegetale, spazialmente suddivisa, ma
connessa dal punto di vista riproduttivo (Hanski e Simberloff, 1997). Molte specie risultano, infatti,
localmente suddivise in popolazioni riproduttive che mostrano una dinamica di metapopolazione.
Questa è pertanto costituita da più sub-popolazioni che occupano spazi frammentati dell’habitat,
sono connesse da fenomeni di migrazione, possono andare incontro a processi di estinzione e
ricolonizzazione, a variazioni delle loro dimensioni e sulle quali la selezione naturale può
determinare modificazioni quali-quantitative della variabilità genetica. La connessione tra le sub popolazioni è resa possibile dall’esistenza di corridoi ecologici che, pur circondati da habitat di tipo
diverso, più o meno antropizzati, consentono la diffusione/dispersione delle specie animali e
vegetali. È ovvio che questo è un concetto di carattere generale che deve essere opportunamente
corretto in funzione delle caratteristiche biologiche della specie -target. Nelle specie animali, dotate
di motilità, un ruolo fondamentale è svolto dalla loro fertilità, dalla capacità di spostamento, dalle
esigenze nutritive e dall’eterogeneità ambientale. Nel caso delle piante, i fattori determinanti sono
rappresentati dal sistema riproduttivo, dalla capacità di moltip licazione vegetativa, dai meccanismi
di dispersione via polline o seme. Anche se la teoria delle metapopolazioni è stata sviluppata sulla
base della dinamica delle popolazioni animali e non sempre è risultata adeguata per le specie
vegetali (Husband e Barrett, 1996), la distribuzione frammentata di un habitat può giustificare tale
approccio anche per le piante, purchè un certo flusso genico tra le sub -popolazioni sia presente
(Freckleton e Watkinson, 2002).
Gli effetti della frammentazione sulla diversità biologica dipendono da molteplici fattori, quali i
tipi di ecosistemi interessati, il tempo trascorso, l’estensione dei frammenti, la loro distanza e
connettività. Nei frammenti, infatti, le popolazioni residue, isolate e talora di dimensioni ridotte,
sono esposte a eventi stocastici, non prevedibili quali, ad esempio, improvvisi “colli di bottiglia”
conseguenti a eventi catastrofici.
L’ecologia del paesaggio è un settore dell’ecologia fortemente interdisciplinare, è il livello di
analisi ecologica che più degli altri richiede l’integrazione tra discipline diverse in modo da
raggiungere un approccio olistico nel quale i diversi livelli del sistema, e le loro interazioni, siano
affrontati in modo proprio. Le piante sono certamente l’elemento più evidente del paesaggio, quello
più immediatamente percepito, in quanto risentono fortemente dell’azione antropica, sia di quella
diretta riconducibile alle coltivazioni agrarie, che di quella indiretta prodotta dalle alterazioni e dai
disturbi dell’habitat. La diversità specifica del mondo vegetale, ma spesso anche quella
intraspecifica, è più immediatamente conosciuta rispetto a quella di altri sistemi viventi e viene
spesso assunta come un affidabile indicatore ambientale.
Margherita Lucchin
89
Tra gli indicatori di sostenibilità a diversi livelli di scala della biodiversità, diversità del
paesaggio (sistemi ambientali e loro estensione, aree protette, ecc.), diversità a livello di comunità
di organismi viventi (ricchezza specifica, specie rare o minacciate, ecc.), diversità intraspecifica o
tra popolazioni, è quest’ultima quella che maggiormente ci interessa dal punto di vista genetico: la
diversità intraspecifica, infatti, altro non è che diversità genetica ed è dalla diversità genetica che si
origina tutta la diversità biologica. Conservare la diversità genetica significa quindi conservare
quella che deve essere considerata la biodiversità fondamentale. Questo contributo cercherà,
facendo riferimento al mondo vegetale, di individuare alcuni parametri genetici che possano essere
utilizzati, singolarmente o integrati tra loro, quali indicatori di sostenibilità ecologica nella gestione
e conservazione della biodiversità a livello specifico nell’ambito delle reti ecologiche. Questi
indicatori riguardano la composizione (diversità allelica e grado di eterozigosi) e la struttura
(numerosità effettiva, sistemi di dispersione, dinamica delle popolazioni localmente rare) delle
popolazioni, nonché i processi che si verificano al loro interno, condizionandone la capacità di
sopravvivenza e di adattamento (flusso genico, perdita di variabilità genetica, differenziazione tra
sub-popolazioni).
Lo sviluppo, nelle ultime due decadi, di efficienti tecniche di indagine molecolare ha
profondamente modificato le ricerche in campo biologico e, in particolare, ne i settori della genetica
delle popolazioni e dell’ecologia molecolare che cercano di interpretare la situazione attuale della
biodiversità con l’obiettivo di formulare previsioni sulle modificazioni della variabilità genetica
nell’ottica della sua conservazione. Tra i sistemi molecolari attualmente disponibili per l’analisi del
genoma, i marcatori molecolari rappresentano uno strumento efficace ed affidabile che trova larga
applicazione sia nella ricerca genetica di base che in quella applicata. Senza entra re nel dettaglio
delle diverse classi di marcatori molecolari oggi disponibili, che si differenziano per il tipo di
sequenze nucleotidiche analizzate e/o per il tipo di tecnica impiegata, possiamo descrivere un
marcatore molecolare come un frammento di DNA cromosomico, di dimensioni generalmente
variabili tra 50 e 3000 pb, compreso tra due regioni oligonucleotidiche note. I marcatori molecolari
consentono di rilevare la diversità (mutazioni) di regioni di DNA omologhe in individui diversi
della stessa specie. In particolare, i marcatori di tipo dominante come, ad esempio, i marcatori
RAPD (Random Amplified Polymorphic DNA) e AFLP (Amplified Fragment Length
Polymorphism) implicano l’amplificazione simultanea di tratti cromosomici casuali, sono rilevabili
come presenza o assenza ad ogni locus di una banda sul gel elettroforetico e consentono di
analizzare contemporaneamente molti loci genomici. Merita ricordare che l’entità del polimorfismo
rilevabile tra gli individui di una popolazione o di una specie e utili zzabile a fini sperimentali, è in
stretta relazione con il loro sistema riproduttivo. Nelle piante, in particolare, i sistema riproduttivi
variano dalla panmissia alla completa autogamia, all’apomissia, alla capacità di moltiplicazione
vegetativa e, anche all’interno di una singola specie, è possibile una grande flessibilità di
comportamento riproduttivo in funzione delle condizioni ambientali e della numerosità e densità
degli individui.
Il sistema riproduttivo della specie svolge quindi un ruolo fondamentale nel determinare l’entità
e l’organizzazione della variabilità genetica tra ed entro popolazioni, regolando l’accumulo e il
mantenimento del potenziale di ricombinazione e il suo rilascio in risposta alle sollecitazioni
dell’ambiente. L’impiego dei marcatori molecolari consente di ottenere una identificazione
univoca, attraverso la definizione di un fingerprinting genetico, di un particolare genotipo, di una
popolazione, razza o specie, oppure di condurre una valutazione relativa di un individuo o una
popolazione rispetto ad altri individui o popolazioni, sulla base delle loro diversità genetica. Questi
due tipi di analisi, combinati insieme, consentono molteplici applicazioni tra le quali, in questa
sede, ci interessano in modo particolare a) l’analisi d elle relazioni genetiche tra popolazioni o subpopolazioni e b) il monitoraggio nel tempo delle modificazioni genetiche che avvengono al loro
interno nell’ottica della conservazione di tali popolazioni. Tutti gli individui di una popolazione
condividono un certo numero di caratteri e probabilmente un qualche ancestrale comune, a meno
che ciò non sia precluso da una virtualmente completa riproduzione uniparentale (autogamia o
apomissia). Tali individui sostengono inoltre le stesse popolazioni locali di simb ionti, erbivori,
parassiti e, attraverso l’incrocio, condividono un futuro evolutivo comune. La popolazione, o la
90
Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la st ima di funzionalità
metapopolazione qualora le popolazioni siano connesse dal punto di vista riproduttivo, rappresenta
pertanto l’unità di base della conservazione a livello di singola specie.
INDICATORI GENETICI DI FUNZIONALITÀ A LIVELLO POPOLAZIONE.
I residui di ambienti naturali frammentati rappresentano delle isole ecologiche cui
corrispondono una sorta di “isole genetiche” per le popolazioni di specie vegetal i che insistono su
tali ambiti frammentati. In quest’ottica, tra i parametri genetici che possono essere utilizzati come
indicatori di funzionalità di una rete ecologica, in quanto determinanti nel condizionare la dinamica
di una popolazione, e che rappresentano la base per la conservazione a livello di singola specie,
fondamentale è quello relativo al concetto di popolazione minima vitale (MVP, Minimum Viable
Population). La MVP rappresenta una stima del numero minimo di individui di una specie
necessari per formare una popolazione vitale. Si riportano alcune tra le più recenti definizioni di
MVP:
- “… rappresenta le condizioni minime per la persistenza nel lungo periodo e per
l’adattamento di una popolazione in un determinato ambiente … in assenza di
manipolazioni genetiche o demografiche significative” (Soulè, 1987);
- “ dal punto di vista demografico è la dimensione della popolazione che garantisce una
probabilità di sopravvivenza del 95% per n anni. Dal punto di vista genetico è la
dimensione per la quale la perdita di variabilità avviene ad un livello accettato” (Ewens et
al., 1987);
- “… è la dimensione che assicura, a livello statistico, la persistenza per un determinato
periodo di tempo. È la dimensione attesa della popolazione in assenza di eventi stocas tici”
(Nunney e Campbell, 1993).
Il fatto che siano state date molte e diverse definizioni di MVP significa che una stima di MVP
per una determinata specie, non è un valore unico, ma presenta diverse limitazioni. Innanzi tutto la
stima di MVP ha un contesto ecologico e si applica a un determinato habitat, si riferisce ad uno
specifico intervallo di tempo e alla massima probabilità di estinzione tollerabile. Il futuro di una
popolazione, infatti, è soggetto ad incertezze e la probabilità di sopravvivenza diminuisce con il
tempo; ad esempio la MVP richiesta per assicurare, con una probabilità del 90%, la persistenza
della popolazione per un periodo di 100 anni potrebbe essere uguale a quella necessaria per una
persistenza di 500 anni ad un livello probabilistico inferiore (es. 50%). La stima di MVP ha inoltre
un contesto genetico, in quanto l’ambiente nel quale vive la popolazione andrà inevitabilmente
soggetto a modificazioni e ciò richiederà un corrispondente adattamento della popolazione: la
variazione genetica presente nella popolazione deve poter soddisfare le nuove necessità adattative.
La definizione di MVP si pone infine in un contesto di metapopolazione in quanto è necessario
chiarire se fa riferimento a popolazioni di una determinata specie connesse, a nche solo
parzialmente, attraverso corridoi ecologici.
La valutazione di MVP dovrebbe comunque essere affiancata da un’analisi della vitalità (o della
vulnerabilità) della popolazione basata sulla valutazione dei dati demografici che permettono di
stimare la probabilità che una popolazione persista, in uno specifico habitat, per un determinato
periodo di tempo. L’analisi dovrebbe cioè stimare la probabilità di estinzione, per una data
numerosità della popolazione, in quel periodo di tempo.
La dimensione della popolazione-target rappresenta pertanto un fattore determinante ai fini della
conservazione: dimensioni ridotte delle unità riproduttive determinano infatti le condizioni per
l’innesco di processi genetici di tipo dispersivo che possono portare a fen omeni di deriva genetica e
di differenziazione in sub-popolazioni, con conseguente uniformità entro popolazioni e aumento
del livello di omozigosi. Piccole dimensioni delle unità riproduttive ed erosione genetica sono,
quindi, sostanzialmente la stessa cosa.
Queste considerazioni inducono alla valutazione di un indice chiamato “numerosità effettiva
della popolazione” (Ne) che è quasi sempre minore del numero reale degli individui e che permette
di tener conto delle fluttuazioni nelle dimensioni della popol azione, della sovrapposizione delle
Margherita Lucchin
91
generazioni, del diverso numero di maschi e di femmine nel caso di specie dioiche, della struttura
per età, delle variazioni di fertilità tra le piante, dell’inbreeding (Kimura e Crow, 1963). Questi
fattori violano l’assunto che tutti gli N individui partecipino con lo stesso contributo gametico alla
formazione della generazione successiva. La dimensione effettiva di una popolazione reale può
essere definita come il numero degli individui di una popolazione teorica che ha la stessa entità di
deriva genetica casuale della popolazione reale. In altre parole, è la dimensione di una popolazione
ideale nella quale tutti gli individui contribuiscono in ugual misura alla produzione dei gameti, ha
la stessa variazione di frequenze alleliche e lo stesso livello di inbreeding della popolazione reale.
Un basso valore di Ne può determinare effetti diversi che includono la perdita di variabilità
genetica, conseguente a cambiamenti stocastici delle frequenze geniche, la depressione da
inbreeding e l’accumulo di mutazioni deleterie. Questi fattori si manifestano in una scala temporale
differente, più immediata per la depressione da inbreeding, più dilazionata per la perdita di
variabilità genetica, e possono determinare il rischio di estin zione per la popolazione. Tale rischio è
correlato inversamente alle dimensioni delle popolazioni e direttamente al loro grado di isolamento
(Hanski et al., 1996).
Per la stima di Ne sono state sviluppate modalità di calcolo differenti in funzione del tipo di
fattore che viola le condizioni riproduttive di una popolazione ideale (tipo di riproduzione, incrocio
tra individui imparentati, variazioni individuali di fertilità, diverso rapporto tra i sessi). È pertanto
possibile calcolare una dimensione effettiva della popolazione basata sulla variazione del
coefficiente di inbreeding, oppure sul cambiamento della varianza delle frequenze alleliche o sul
tasso di perdita degli eterozigoti (Whitlock, 2004).
La caratterizzazione della variabilità genetica mediante marcatori molecolari prevede la stima di
coefficienti di similarità genetica (SG): i dati relativi all’insieme di marcatori molecolari ottenuti
nel campione di individui analizzati, sono utilizzati per costruire le matrici di similarità genetica,
calcolando i coefficienti in tutte le possibili combinazioni a coppia tra gli individui. Il coefficiente
di similarità maggiormente utilizzato a tale scopo, ma ne esistono diversi altri, è il coefficiente di
Dice (1945): SGij = 2a/(2a+b+c), dove a è il numero di marcatori comuni ai due individui i e j
considerati, b è il numero di marcatori presenti in j e assenti in i e c, viceversa, quello dei marcatori
presenti in i e assenti in j. Un valore di SG uguale a 1 indica completa identità tra la coppia di
individui, mentre un valore uguale a 0 indica completa diversità. Sulla base delle matrici triangolari
di similarità genetica è quindi possibile condurre delle analisi di raggruppamento attraverso la
costruzione di dendrogrammi di similarità genetica o la definizione dei centroidi secondo le
coordinate principali. Questo tipo di analisi permette d’interpretare la variazione genetica attuale
attraverso una rappresentazione visiva della somiglianza tra gruppi di individui e tra popolazioni,
consentendo di trarre indicazioni sul pattern evolutivo del materiale in esame.
La quantità di variazione genetica all’interno di una popolazione è generalmente determinata
dalla misura dell’eterozigosità, data la sua importanza biologica e le relazioni con i fattori evolutivi.
In questo contesto siamo interessati a due diversi aspetti dell’eterozigosi: 1) il livello medio di
eterozigosi in una sub-popolazione e nella popolazione complessiva; 2) la distribuzione spaziale
dell’eterozigosi dovuta alla struttura genetica della popolazione. In linea generale, valori costanti di
eterozigosi sono interessanti dal punto di vista evolutivo, mentre i cambiamenti di eterozigosi,
soprattutto le perdite, sono di particolare significato per la biologia della conservazione. Sia la
situazione di valori stabili che quella in cui si verificano variazioni dell’eterozigosi, sono regolate
dalle dimensioni effettive delle popolazioni.
Wright (1965) ha per primo elaborato un approccio appropriato per descrivere la struttura della
variazione genetica nelle popolazioni e la sua ripartizione tra le sottopopolazioni, sviluppando
statistiche valide per loci con due alleli. Successivamente Nei (1973, 1977) ha elaborato la
formulazione di una serie di indici validi per loci multiallelici.
Dal momento che la suddivisione in sub-popolazioni provoca inbreeding, cioè crea un eccesso
di omozigosità, è possibile misurare questo effetto in termini di diminuzione della frequenza di
genotipi eterozigoti. L’indice di eterozigosità (H), detto anche indice di eterozigosi attesa, pu ò
essere calcolato per ciascun locus come (1-? pi2), dove pi rappresenta la frequenza dell’allele iesimo nella popolazione. I valori ottenuti possono essere utilizzati per determinare l’indice di
92
Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la st ima di funzionalità
diversità media per gruppi di individui o per la popolazione. Estendendo l’analisi a tutti i loci è
infatti possibile determinare la diversità genetica totale (H T), che rappresenta l’eterozigosità attesa
della popolazione complessiva nel caso in cui gli incroci siano casuali tra tutti gli individui, e la
diversità genetica all’interno delle sottopopolazioni (H S), che rappresenta l’eterozigosità attesa
della sottopopolazione. Se gli incroci sono casuali, questo indice equivale a 2p sqs, dove ps e qs sono
le frequenze alleliche della sottopopolazione in esame e corrisp onde quindi alla frequenza dei
genotipi eterozigoti.
In accordo con Nei (1977), il grado di diversità genetica di singole popolazioni e di
differenziazione tra popolazioni, può essere valutato, a partire dagli indici H T e HS, mediante i
parametri DST e GST. Il primo, DST=HT-HS, esprime la diversità genetica media tra le popolazioni o
differenziazione genetica, il secondo misura la quota di diversità genetica attribuibile alle
differenze tra le popolazioni e può essere calcolato come rapporto tra la differen ziazione e la
diversità genetica totale (G ST= DST/HT). Tale parametro, detto anche indice di fissazione, assume
valore nullo quando le sottopopolazioni considerate sono in equilibrio e hanno le stesse frequenze
geniche. Merita sottolineare che l’indice di fissazione di Nei, coincide con quello di Wright (1965),
indicato con il termine F ST, e rappresenta la quantità di inbreeding, e quindi di riduzione
dell’eterozigosi, dovuta esclusivamente alla suddivisione delle popolazioni.
Il processo di differenziazione genetica tra sottopopolazioni ad opera della deriva genetica
casuale può essere attenuato, o addirittura annullato, in presenza di migrazione tra le popolazioni in
esame. L’entità del flusso genico, indicato con il termine Nm, può essere determinata a pa rtire
dall’indice di fissazione: Nm = c(1- GST)/GST, dove c=0.5 quando l’indice è stimato a partire da
marcatori molecolari di tipo dominante (McDermott e McDonald, 1993). Questo parametro assume
valori inferiori a 1 in assenza di flusso genico, suggerendo quindi una differenziazione delle
popolazioni su base spaziale, mentre valori maggiori di 1 indicano presenza di flusso genico legato
allo scambio di alleli marcatori tra le popolazioni considerate.
Un altro parametro che può fornire utili indicazioni nella valutazione dei processi genetici che
modulano la dinamica delle popolazioni, riguarda la misura dell’entità della divergenza genetica tra
le popolazioni, chiamata distanza genetica (DG). La misura più comunemente utilizzata è quella
proposta da Nei (1978) che esprime la probabilità che un allele preso a caso in una popolazione sia
uguale ad un altro allele preso a caso nella seconda popolazione, rispetto alla probabilità che siano
uguali due alleli scelti a caso nella stessa popolazione: DG ij=-ln? pipj/(? pi2pj2)1/2, dove pi e pj sono le
frequenze di un dato allele nella coppia di popolazioni i e j considerate. Quando tale indice assume
valore 0 significa che le due popolazioni presentano le medesime frequenze alleliche per cui non
c’è divergenza genetica tra di esse; il valore 1 indica che le due popolazioni sono nettamente
differenziate non avendo alleli in comune.
Tutte le statistiche indicate possono essere calcolate con l’ausilio di appropriati programmi,
quali PopGene (Yeh et al., 1997), GDA (Lewis e Zaykin, 1999) e NTSYS-pc (Rohlf, 2000).
CASO DI STUDIO: ANALISI DELLA VARIABILITÀ
POPOLAMENTI NATURALI DI SALIX ALBA.
GENETICA
IN
Nell’ambito del progetto di ricerca “Caratterizzazione e valorizzazione di germoplasma
autoctono di specie forestali per il ri pristino naturalistico e multifunzionale di aree marginali” è
stata condotta un’indagine volta alla valutazione spaziale e genetica di popolamenti naturali di
salice bianco lungo il medio corso del fiume Brenta, nell’ottica della loro conservazione. Tale
indagine ha coinvolto, per gli aspetti ecologici e botanici, il Dipartimento TeSAF e, per gli aspetti
genetici, il Dipartimento di Agronomia Ambientale e Produzioni Vegetali dell’Università di
Padova.
L’area di studio rappresenta gli ecosistemi forestali di pianura, un tempo diffusi lungo l’asta
fluviale, ma che attualmente, pur mostrando una marcata differenziazione ambientale e
paesaggistica, presentano un’estensione ridotta e sono inseriti in una matrice fortemente
antropizzata sia dal punto di vista agrario che urbano. Il fiume e le aree perifluviali potrebbero
Margherita Lucchin
93
rappresentare quindi una sorta di corridoio ecologico capace di fornire un habitat sostitutivo a
molte specie animali e vegetali, riducendone l’isolamento spaziale e riproduttivo e i conseguenti
processi di deriva genetica e di inbreeding.
Le formazioni arboree presenti nell’area fluviale del Brenta sono costituite da un mosaico
complesso e da macchie più o meno contigue di boschi riparali, caratterizzati da un sottobosco
rigoglioso, nei quali la specie arborea prevalente è il salice bianco ( S. alba L.), talvolta
accompagnata dall’ontano nero (Alnus glutinosa Vill.) e, nelle stazioni raramente sommerse
dall’acqua, da pioppo bianco (Populus alba L.). Le macchie di salice bianco si concentrano
soprattutto nella zona compresa tra Fontaniva e Carturo, mentre in altre aree i disturbi antropici e
l’intensa canalizzazione hanno ridotto notevolmente gli ambiti stazionali adatti a questa specie.
La nostra indagine si è focalizzata su tre popolamenti naturali di salice bianco localizzati in aree
rappresentative dal punto di vista vegetazionale, di estensione sufficientemente ampia e a diversa
intensità di disturbo: Fontaniva (Vicenza) in sinistra Brenta, Carturo (Padova) e Piazzola sul Brenta
(Padova) in destra Brenta.
L’indagine si proponeva l’analisi della variabilità genetica attualmente presente tra ed entro i
popolamenti di salice mediante marcatori molecolari AFLP, con l’obiettivo di valutare quanto la
frammentazione dei nuclei di vegetazione forestale, con il conseguente isolamento spaziale, potesse
riflettersi in assetti genetici differenti in ragione delle diverse condizioni ecologiche presenti nei tre
siti e di verificare la possibilità di flusso genico fra i tre popolamenti.
Il materiale analizzato comprende 20, 21 e 19 piante campionate, nella primavera 2002,
rispettivamente a Piazzola sul Brenta (PB), Carturo (CA) e Fontaniva (FN). Successivamente, nel
sito risultato ecologicamente più articolato, Carturo, sono state campionate ulteriori 23 piante. Da
ciascuna pianta è stato estratto il DNA genomico per le analisi molecolari e sulle medesime piante
sono state compiute, a cura del Dipartimento TeSAF, le osservazioni morfologiche e i rilievi
spaziali.
L’analisi AFLP, eseguita in accordo con Barcaccia et al. (2003), ha permesso di rilevare 276
marcatori, 178 dei quali (64.5%) è risultato polimorfico. In particolare sono stati rilevati 251, 252 e
261 marcatori rispettivamente nei popolamenti di Piazzola, Carturo e Fontaniva, di cui 127
(50.6%), 135 (53.6%) e 149 (57.1%) sono risultati polimorfici.
Il calcolo delle statistiche di Nei relative agli indici di diversità genetica ha fornito valori medi
di diversità genetica totale (H T) pari a 0.159 e di diversità genetica entro popolamento (H S) pari a
0.151 con un valore minimo per PB di 0.146 ed uno massimo di 0.155 per CA che risulta pertanto
il popolamento geneticamente più differenziato. La diversità genetica media tra i popolamenti (D ST)
è risultata molto contenuta e pari a 0.0079, mentre la quota di variabilità genetica imputabile alle
differenze fra i tre gruppi (G ST) è stata di 0.050. Ciò equivale a dire che il 95% della variabilità
genetica osservata è attribuibile a differenze entro popolamento, mentre solamente il 5% è dovuta a
differenze tra i gruppi. La bassa differenziazione tra i popolamenti trova conferma negli elevati
valori di flusso genico (Nm), sempre largamente superiori all’unità e oscillanti tra il 5.61 di
Piazzola e il 20.41 di Carturo, con un valore complessivo di 9.50, indicando quindi un intenso
scambio di materiale ereditario tra i popolamenti. Le informazioni genetico molecolari riportate in
letteratura sul genere Salix sono piuttosto limitate, tuttavia i valori di diversità genetica qui
osservati sono analoghi a quelli rilevati da Barcaccia et al. (2000) su provenienze di diversa origine
sia di S. alba che di S. fragilis, con valori medi di HT e HS rispettivamente pari a 0.214 e 0.141, e a
quello calcolato nel genere Populus, sulla base di polimorfismi isoenzimatici, ed espresso in
termini di eterozigosi attesa pari a 0.192 (Legionnet, 1997).
Parallelamente sono stati eseguiti i confronti tra coppie di piante in tutte le possibili
combinazioni e, sulla base di tutti i marcatori disponibili (mono- e polimorfici), sono stati calcolati
i coefficienti di similarità genetica (SG) di Dice. Tale indice è risultato complessivamente pari a
0.887, con valori relativi ai singoli popolamenti compresi tra 0.887 di Carturo e 0.894 di Piazzola.
Tutti i popolamenti analizzati hanno pertanto mostrato un’elevata uniformità genetica, anche se fra
i tre siti considerati quello di Carturo appare il meno omogeneo, come già evidenziato dall’indice di
diversità genetica. Merita sottolineare che nell’ambito del genere Salix sono stati osservati valori
94
Genetica nelle reti ecologiche: indici e indicatori per la st ima di funzionalità
di similarità genetica entro provenienze ancora più elevati e pari a 0.976 e 0.965, rispettivamente in
S. pentandra e S. fragilis (Meneghetti, 1999).
Aggregando i valori di similarità genetica per popolamento è stato possibile confrontarne
l’uniformità genetica, mettendo in evidenza valori del tutto analoghi a quelli stimati entro ciascuno
di essi e nel complesso di tutte le piante analizzate (SG = 0.887, 0.883 e 0.884 rispettivamente per i
confronti PB-CA, PB-FN e CA-FN. Contemporaneamente sono state stimate le distanze genetiche
(DG) fra i tre popolamenti che sono risultate del tutto simili tra loro (valori compresi tra 0.120 per
PB-CA e 0.124 per PB-FN) e con valori apparentemente complementari alla SG, anche se calcolati
con approcci differenti. I risultati relativi all’elevato grado di similarità genetica, così come la
ridotta distanza genetica tra i popolamenti, indicano che essi condividono uno stesso pool genico e
che potrebbero quindi derivare da un insieme di genotipi di base comuni.
Queste osservazioni, unitamente a quelle relative all’intenso flusso genico sia entro che tra i
popolamenti, suggeriscono che essi possono essere considerati appartenenti ad un’unica
popolazione. I tre popolamenti di salice bianco, infatti, pur provenienti da stazioni ecologica mente
differenziate, possono essere visti come sub-popolazioni connesse tra di loro grazie al corridoio
ecologico rappresentato dal Brenta. È infatti verosimile che il fiume favorisca lo scambio di
materiale genetico tra i popolamenti, sia grazie alle macchie più o meno contigue di formazioni
arboree riparali ad elevata presenza di salice bianco che consentirebbero il flusso genico via polline
e/o semi, sia in modo più diretto facilitando la dispersione del seme attraverso il corso d’acqua o
trascinando a valle, soprattutto a seguito di fenomeni di piena, intere piante o branche di piante che,
data la facilità di moltiplicazione vegetativa della specie, potrebbero rappresentare un veicolo di
connessione delle sub-popolazioni insediate in aree adiacenti al corso del fiume.
L’analisi di raggruppamento condotta utilizzando la matrice dei coefficienti di SG ha portato
alla definizione di un dendrogramma dal quale risulta evidente l’impossibilità di discriminare gli
individui appartenenti ai tre diversi popolamenti, mentre risulta chiaramente l’assenza di piante
geneticamente identiche, derivanti cioè da moltiplicazione vegetativa. Questa osservazione è stata
confermata anche a seguito dell’ampliamento della numerosità del campione di Carturo,
ampliamento che ha permesso l’analisi di un numero consistente di piante (44) campionate in
un’area piuttosto ristretta. L’elevata capacità di moltiplicazione vegetativa del salice bianco
sembrerebbe svolgere un ruolo a
livello di rigenerazione della
Piazzola
Carturo Fontaniva
ceppaia, piuttosto che di diffusione e
conquista del territorio, almeno in
0.140.14
presenza
di
popolamenti
sufficientemente numerosi, con
elevata variabilità genetica e con una
0.060.06
produzione di seme e di semenzali
non limitante. Questa osservazione
trova peraltro conferma con quanto
-0.01
-0.01
osservato per il pioppo nero da altri
ricercatori su formazioni forestali
lungo il corso del Ticino (Bisoffi,
-0.09
c.p.).
0.09
L’analisi
delle
coordinate
principali, condotta sulla base della
stessa matrice di SG, ha portato alla
-0.17
0.03
0.14
-0.08
0.25 definizione dei centroidi delle 60
-0.19
-0.19
piante analizzate. La distribuzione
dei centroidi (Fig. 1), pur
Fig. 1. Centroidi delle 60 piante appartenenti ai tre
confermando l’aggregazione di
popolamenti di salice bianco definiti mediante l’analisi
individui
appartenenti
a
delle coordinate principali basate sui coefficienti di
popolamenti diversi, evidenzia
similarità genetica di Dice stimati mediante marcatori
tuttavia una disposizione, rispetto
molecolari AFLP.
Margherita Lucchin
95
alla seconda coordinata, che rispecchia la posizione geografica dei tre siti d i campionamento lungo
il fiume, con direzione nord-sud. Dei 178 marcatori polimorfici rilevati, 51 (28.7%) hanno infatti
evidenziato un gradiente di frequenza fra le tre località, di cui 29 con gradiente di frequenza
crescente passando da Fontaniva a Piazzola sul Brenta e 22 con gradiente decrescente. Queste
osservazioni suggeriscono quindi che le differenti condizioni ecologiche dei siti esercitino una certa
pressione selettiva potenzialmente capace di determinare la differenziazione dei tre popolamenti,
differenziazione che è però limitata da un significativo livello del flusso genico e da una possibile
origine comune dei popolamenti stessi. Le analisi ecologiche condotte nelle tre aree di studio hanno
evidenziato differenze strutturali apprezzabili fra i popolamenti. Tali differenze strutturali
inducevano a ritenere che, vivendo in condizioni ecologiche diverse con processi selettivi
localizzati ed essendo ben separati l’uno rispetto all’altro, i tre popolamenti potessero presentare
una differenziazione piuttosto netta anche dal punto di vista genetico. In realtà, essi possono essere
considerati delle sub-popolazioni, appartenenti ad un’unica popolazione, in quanto
riproduttivamente connesse attraverso il corridoio ecologico rappresentato dal fiume Brenta.
Dal punto di vista della loro conservazione, l’entità della variabilità genetica attualmente
presente entro ciascun popolamento, unitamente alla loro elevata capacità riproduttiva e all’entità
del flusso genico, fanno ritenere tali popolazioni vitali e ca paci di risposte adattative ad eventuali
modificazioni ambientali, almeno nel breve termine.
Le tecniche di indagine molecolare qui utilizzate potranno inoltre consentire di monitorare nel
tempo, e in modo efficace, le modificazioni della variabilità genetica che, ad esempio a seguito di
brusche riduzioni della numerosità delle popolazioni, potrebbero comprometterne la capacità
evolutiva. In questo senso, esse rappresentano un valido strumento, capace di integrare
efficacemente l’analisi spaziale delle popolazioni e la valutazione classica della loro
differenziazione, basate sull’osservazione delle caratteristiche morfologiche.
Il caso di studio presentato avvalora il significato delle reti ecologiche in termini di
conservazione della variabilità genetica intraspecifica: il corridoio ecologico rappresentato dal
fiume Brenta, unitamente alle aree perifluviali, svolge un ruolo importante nel superamento dei
limiti posti dalla frammentazione degli habitat, consentendo alle popolazioni di salice che insistono
in questi ambiti di superare l’isolamento genetico e la conseguente perdita di alleli.
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Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 97-118
LA QUALITÀ DEI CORRIDOI ECOLOGICI ARBOREI LINEARI
INDICI SINTETICI DI VALUTAZIONE DELLE SIEPI ARBOREE
NEL PAESAGGIO AGRARIO
Tommaso SITZIA
Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali – Università degli Studi di Padova
Campus Agripolis – Viale dell’Università 16 35020 Legnaro (PD)
[email protected], [email protected]
98
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
INTRODUZIONE E SCOPO
La conservazione dei corridoi ecologici è in linea con il disposto dell’art. 10 della Dir.
92/43/CEE “Habitat”:
Laddove lo ritengano necessario, nell’ambito delle politiche nazionali di riassetto del territo rio e di
sviluppo, e segnatamente per rendere ecologicamente più coerente la rete natura 2000, gli Stati membri
si impegnano a promuovere la gestione di elementi del paesaggio che rivestono primaria importanza per
la fauna e la flora selvatiche.
Si tratta di quegli elementi che, per la loro struttura lineare e continua (come i corsi d’acqua con le
relative sponde, o i sistemi tradizionali di delimitazione dei campi) o il loro ruolo di collegamento (come
gli stagni e i boschetti) sono essenziali per la migrazione, la distribuzione geografica e lo scambio
genetico di specie selvatiche.
Il DPR 97/357, decreto italiano attuativo della Direttiva Habitat recita, al capo 3, art. 2:
Al fine di assicurare la coerenza ecologica della rete Natura 2000, il Ministero dell’ambiente e della
tutela del territorio, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e Bolzano, definisce (omissis), le direttive per la gestione delle aree di
collegamento ecologico funzionale, che rivestono primaria importanza per la fauna e la flora selvatic he.
Negli ultimi anni, a seguito dell’applicazione del Reg. 90/2080/CEE prima e dei Piani di
Sviluppo Rurale di cui al Reg. 99/1257/CE poi, sono stati concessi incentivi per l’impianto e il
mantenimento di elementi lineari arborei del paesaggio rurale, estendendo a tutti i proprietari , o a
tutti i potenziali beneficiari, la possibilità di accesso ai finanziamenti. In Veneto solo gli
imprenditori agricoli ai sensi dell’art. 2135 del C.C., gli Enti pubblici o gli Enti di diritto pubblico
potevano accedere ai benefici (Regione Veneto, 2000, p. 243) e sono state delimitate alcune aree
preferenziali, coincidenti con i parchi, il bacino scolante della Laguna, i pSIC, le ZPS, le zone
vulnerabili e le aree sensibili o di valenza ai sensi di specifiche norme regionali o statali. È
auspicabile che, dopo il primo decennio di applicazione delle misure, sia possibile indirizzare
meglio gli interventi ed, eventualmente, le misure di conservazione e/o i vincoli, agli elementi del
paesaggio rurale, nella fattispecie le siepi, che già manifestano un valore superiore rispetto al loro
contorno. Anche la valutazione degli effetti delle misure dovrebbe essere praticata confrontando gli
interventi realizzati con la rete di sistemi preesistente ( Veneto Agricoltura, 2003a).
Come ben sottilineato da D. McCollin in un altro contributo a questo volume (pp. 75-85), il
termine corridoio e, con esso, lo stesso concetto di rete ecologica, è spesso riferito agli elementi
lineari del paesaggio, sia che svolgano effettivamente la funzione di corridoi, peraltro difficilmente
dimostrabile, sia che facciano parte di una rete individuata con un criterio esclusivamente
geometrico, valido per i principi dell’architettura del paesaggio, ma non per quelli dell’ecologia in
generale, e dell’ecologia del paesaggio in particolare.
Alcuni indici per la valutazione della funzionalità delle reti ecologiche sono basati
esclusivamente sulla numerosità di vertici (o nodi) e di segmenti (o legami) della rete, come
l’indice di connessione e di circuitazione o il rapporto tra numero di nodi e numero di legami
(Forman, 1995, pp. 261-262). I tre indici descrivono la complessità della rete ecologica da un punto
di vista esclusivamente geometrico, rappresentandola come un insieme di singoli segmenti tra loro
collegati da vertici o tra loro separati dalla matrice. Ogni elemento lineare può cost ituire quindi un
segmento della rete. Gli indici di connettività e di circuitazione sono utilizzati per stimare
quantitativamente l’entità di processi complessi, ad esempio l’utilizzo delle siepi come corridoi da
parte degli organismi, e dovrebbero essere utilizzati nella progettazione e nella pianificazione solo
qualora si disponga di conferme statistiche delle relazioni con i processi che si intende valutare
(Franco, 1999, pp. 39-40).
La precisione e l’affidabilità di questi indici può essere migliorata a ssegnando un valore
differente ad ogni sistema lineare o ad ogni legame e cercando quindi di considerarne anche aspetti
microecologici ad esempio assegnando ad ogni legame un peso diverso a seconda delle sue
Tommaso Sitzia
99
caratteristiche (ad es. Gallo, 2000, pp. 160 ss.). Inoltre, manifestando tali elementi lineari, oltre che
funzioni di corridoio, anche altre e molteplici funzioni: paesaggistiche, turistico -ricreative, sociali,
economiche, culturali ecc, può essere utile disporre di indicatori (e indici) multidisciplinari per la
stima dell’“importanza”di questi importanti relitti di paranaturalità nel paesaggio fortemente
antropizzato della pianura padana.
È quindi utile disporre di indicatori di qualità che facilitino l’individuazione dei corridoi
ecologici di maggiore importanza, senza rendere necessaria la dimostrazione della loro utilità come
corridoi, cioè come elementi che gli organismi sfruttano come mezzi per la dispersione e la
diffusione. Ciò diventa utile allorché chi valuta l’importanza non è un esperto di set tore, ovvero
non è un botanico, un faunista oppure un paesaggista, ma, magari, un operatore, con una base di
conoscenze naturalistiche generale, opportunatamente addestrato sulle caratteristiche dei parametri
e degli indicatori di valutazione e sulle loro modalità di rilevamento.
Il contributo che di seguito viene presentato espone le caratteristiche che un indicatore dovrebbe
possedere e quindi ne propone alcuni validi per la stima della qualità o dell’importanza o ancora del
valore, inteso in senso multifunzionale, dei sistemi arborei lineari della pianura padana, infine
presenta una loro applicazione al paesaggio planiziale del Veneto. Il lavoro si riferisce soprattutto
alle siepi del paesaggio agricolo, mentre per i corridoi ripariali sarebbero necessari altri
approfondimenti, che non vengono qui trattati per limiti di spazio. Inoltre, i corridoi ripariali sono
sistemi ecologici integrati e dotati di un equilibrio fortemente dinamico e non semplici corridoi
paranaturali tra habitat relitti (Ward et al., 2002) e per questo motivo necessitano di indici diversi.
Si ritiene che un approccio alla valutazione, basato sull’applicazione di indici sintetici, già da
anni adottato, anche in Italia, per i corridoi ripariali, si pensi al B.S.I. e al W.S.I. (Braioni & P enna,
1998), possa essere esteso, come da qualche anno è stato fatto, specialmente in Gran Bretagna
(Anon., 1997; Rich et al., 2000), anche alle siepi e tradotto in strumenti normativi, come, ad
esempio ha compiuto la Regione Toscana con la L.R. 56/2000 (Cavallini et al., 2000).
L’approccio suggerito può essere applicato a scala comunale, mentre a scala sovracomunale
sono da preferire quelli fondati su valutazioni di minore dettaglio, basate cioè sul riconoscimento e
la cartografia degli elementi funzionali della rete, compresi le siepi e i filari arborati , ma senza
specificazione dei loro attributi, come descritto da G. De Togni in questo volume (pp. 119-132) e
come correntemente si procede nei lavori a scala provinciale, cui si rimanda per approfondimenti
(ad es.: Malcevschi, 1999; Bisogni & Santolini, 2001; Rossi et al., 2003).
Si sente il dovere di sottolineare che il metodo qui proposto, pur basato su dati originali e inediti
raccolti nel corso del 2002-2003 presso il Dipartimento TeSAF dell’Università di Padova su 401
siepi distribuite tra le province di Venezia, Treviso e Rovigo (di seguito denominato anche
“Studio”), rappresenta un primo suggerimento che dovrà essere ulteriormente affinato sulla base (si
spera) delle applicazioni future.
COS’È UNA SIEPE, CIOÈ UN CORRIDOIO
LINEARE?
ECOLOGICO ARBOREO
Sembra importante, onde evitare confusioni con altri sistemi che pure costituiscono l’ossatura
delle reti ecologiche e che sono con queste collegate, sia in senso spaziale, che in senso funzionale,
chiarire cosa s’intende per siepe, come individuarne praticamente i limiti e l’area di insidenza, e
esporre gli esempi di classificazione attualmente disponibili.
In primo luogo la siepe è un elemento della rete ecologica di forma lineare, e come tale, salvo
alcuni approfondimenti che sanno esposti nel seguito del contributo, deve essere trattato e
rappresentato cartograficamente. Sfortunatamente, in letteratura non esiste ad oggi una definizione
univoca dell’unità del paesaggio “siepe”, se non che, come detto, si tratti di un elemento lineare
costituito di arbusti e/o alberi, e, anche nel corso di studi, monitoraggi e censimenti ci si riferisce ad
esse genericamente (ad es.: Corbit et al. 1999; Boutin et al. 2002; Le Cœ ur et al. 2002). In Italia
Bidese & Peruffo (1993) chiariscono meglio i limiti, escludendo i boschi come definiti dal primo
Inventario Forestale Nazionale (MAF/ISAFA, 1985), i filari di lunghezza e copertura inferiori,
100
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
rispettivamente, a 30 m e a 10%, le colture estese specializzate da frutto e da legno , gli alberi
isolati, le siepi e i parchi urbani; includono invece i boschetti e le bande boscate che non rispettano
i limiti imposti dall’Inventario Forestale Nazionale, i filari di gelsi e di piante selvatiche da legno o
da frutto, le piantate di viti maritate a tutori vivi.
Baudry et al. (2000) propongono di considerare come siepe solo gli elementi effettivamente
gestiti dall’uomo. In questo modo, però, ne verrebbero escluse alcune che possono rappresentare
importanti corridoi o determinanti barriere ai processi ecologici, compresi quelli che maggiormente
ci interessano, ovvero la diffusione degli organismi.
Hermy & Cornelis (2000) distinguono i seguenti tipi di unità di habitat, presumibilmente
facendo riferimento alla larghezza delle chiome:
- Elementi lineari: lunghezza/ larghezza > 10
- Elementi areali: lunghezza/ larghezza < 10
- Elementi puntuali: superficie < 100 m 2
Facendo riferimento alle reti ecologiche e, in particolare, al modello patch-corridor-matrix
(Forman 1995, pp. 3-7), nel primo gruppo rientrano i corridoi, comprese le siepi, nel secondo le
macchie e nel terzo gli stepping stones, cioé gli habitat idonei alla temporanea permanenza di
organismi nel corso di uno spostamento lungo un percorso eterogeneo (Forman cit., p. 40).
La larghezza, uno dei più importanti parametri per valutare il valore e le funzioni che una siepe
esprime, è riferita allo strato erbaceo (Boutin et al., cit.; Anon. cit.), all’estensione laterale della
vegetazione legnosa (Hinsley & Bellamy, 2000); all’ampiezza delle chiome in generale (Le Cœ ur
et al., cit.) o infine all’ampiezza delle chiome arboree e arbustive (Corbit et al., cit.).
Anche la definizione data dallo Steering Group per il UK Biodiversity Action Plan (Bickmore,
2002, p. 1), conferma che la siepe è:
(...) any boundary line of trees or shrubs over 20 m long and less than 5 m wide, provided that at one
time the trees or shrubs were more or less continuous. It includes an earth bank or wall only where such
a feature occurs in association with a line of trees or shrubs (...)
ma aggiunge ulteriori elementi distintivi: devono possedere una lunghezza di almeno 20 m ed
essere larghe meno di 5 m, la fine di una siepe coincide con il punto di intersezione o di giunzione
con un’altra, oppure con uno spazio privo di arbusti e alberi (di seguito denominato anche gap) di
lunghezza maggiore a 20 m. Una siepe con molti gap può essere riferita piuttosto a un filare di
alberi. Congreve (s.d.) suggerisce una percentuale limite del 35% sulla lunghezza totale, sotto la
quale una siepe deve essere considerata un filare.
Occorre poi ribadire che i corridoi arborei ripariali, pur condiv idendo con le siepi la
conformazione lineare, non sono tali, né dal punto di vista funzionale, né da quello geometrico,
essendo caratterizzati da un rapporto larghezza/lunghezza inferiore rispetto alle siepi. Devono
quindi essere considerati ripariali i corridoi boschivi che si sviluppano lungo i corsi d’acqua
principali (ad es.: Fiume Adige, Fiume Brenta, Fiume Piave) e, talora, anche quelli che si
sviluppano lungo i corsi d’acqua secondari e i grandi canali (ad es.: Canal Bianco).
Per quanto riguarda la larghezza può essere utile fissare un limite massimo oltre il quale la siepe
assume la fisionomia di boschetto, o di macchia boscata. In merito a ciò, sembra importante
ricordare che la definizione di bosco varia a seconda della zona geografica e dell’organismo che
l’ha formulata. Attenendosi a quella del nuovo Inventario Forestale Nazionale (ISAFA, s.d.), un
bosco, per definirsi tale, deve possedere una superficie minima di 5000 m2, una larghezza minima
di 20 m, una copertura minima delle chiome del 10% ed un’altezza minima a maturità di 5 m. La
L.R. del Veneto 13/2003 fissa in 30 m la larghezza massima di una siepe, perché non ricada nella
categoria “bosco” (Veneto Agricoltura, 2003b).
Per quanto interessa noi, si ritiene che la combinazione di una superficie di 5000 m 2 con una
larghezza di 30 m possa essere fissata come limite massimo per considerare un elemento del
paesaggio una siepe e non una macchia boscata.
Dallo Studio, svolto su 401 siepi selezionate includendo tutte quelle presenti in quattro aree di
studio, a parte quelle ornamentali e i filari stradali, è emerso che 30 siepi avevano oltre il 35% della
loro lunghezza costituita da gap, circa il 7.5% del totale. Si ritiene dunque applicabile la soglia
Tommaso Sitzia
101
suggerita da Congreve (cit.) solo per eventuali fini di protezione e conservazione. Va infatti
sottolineato che si perdono importanti informazioni riguardo alle capitozze di salice e alla viti
maritate, che costituiscono elementi ormai rari del paesaggio culturale della pianura. Nello stesso
studio sopracitato, delle 401 siepi rilevate, 35 avevano un rapporto lunghezza/larghezza inferiore o
uguale a 10, cioé circa il 9% del totale. Era stata inoltre rilevata sia l’ampiezza delle chiome, sia la
larghezza dello strato erbaceo al suolo; la seconda sembra però fornire maggiori informazioni sullo
spazio effettivamente paranaturale, infatti, per assurdo, una siepe costituita da Platano (Platanus
acerifolia) adulto, priva di strati arbustivi e con gli spazi liberi diserbati, potrebbe avere, adottando
l’ampiezza delle chiome come parametro di valutazione, un valore più alto di una siepe di soli
arbusti come Biancospino (Craetegus sp.), ma a copertura continua. Non a caso, le Hedgerows
Regulation optano per la stessa soluzione, essendo destinate all’imposizione di vincoli sulle siepi
maggiormente “importanti”.
INDICI E INDICATORI
Secondo Vismara (1996):
Si definisce indicatore un parametro o una specie (chimica, fisica, biologica) avente una relazione
razionale, o empirica, stretta con un fenomeno o una caratteristica ambientale per cui esso è in grado di
riassumere le caratteristiche generali del fenomeno o del comparto ambientale anche se ne descrive
fisicamente solo una parte.
Si definisce indice una aggregazione razionale o empirica di uno o più parametri o indicatori aventi
una relazione razionale, o empirica, stretta con un fenomeno o una caratteristica ambientale,
analogamente a quanto detto per gli indicatori.
Da un punto di vista matematico, però, è opportuno chiarire se l’indicatore è una variabile o un
parametro, una misura o una stima o infine una soglia. Una variabile è una caratteristica misurata
su un soggetto o su una unità, un parametro è il valore della popolazione che si desidera stimare, le
variabili sono stimatori dei parametri, una stima è una funzione di variabili che fornisce una stima
del valore della popolazione. Un indicatore è una funzione di variabili: fornisce un’indicazione che
può essere usata come argomento di una funzione destinata ad assistere nel processo decisionale. È
possibile, ad esempio, impostare delle soglie, sulla base dei valori reali che l’indicatore può
assumere, e adottarle per individuare stati critici o ottimali , oppure il grado di raggiungimento di un
obiettivo. Così possono essere individuati dei limiti superiore e inferiore tali da chiarire il range di
possibili (o probabili) valori e può essere individuato un limite inferiore o superiore, oltre il quale
l’indice suggerisce una condizione fortemente negativa. Queste soglie possono essere legate alla
variabilità dello stimatore originale, ad esempio la media, o un intervallo di confidenza o un range
di tolleranza.
Perchè sia efficace, un indicatore dovrebbe possedere le seguenti qualità:
1. Relazione esplicita con un problema o con una questione di interesse per organismi sia
esterni al sistema, sia interni al sistema cui l’indicatore si applica.
2. Legame semplice e chiaro con il portatore del problema, cioé fornire alle parti inter essate
una conoscenza soddisfacente della performance del sistema rispetto alla questione
d’interesse.
3. Applicabilità a sistemi diversi e possibilità di cambiare nel tempo, possibilità di segnalare
la presenza di trend.
4. Facilità di rilevamento o di calcolo a costi moderati, in modo da permettere di ripetere le
misure in sistemi diversi, di monitorare lo stato dell’ambiente; il confronto tra differenti
sottosistemi e il mantenimento del valore dell’indicatore ad un livello accettabile.
Ogni indicatore si applica ad una o più scale, purché sia chiaro il range di scale in cui dà risposte
significative al quesito posto o in cui è valida la relazione con il valore della popolazione che si
intende stimare (Brooks et al., 1998). È chiaro, ad esempio, che non ha senso misurare la larghezza
102
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
della siepe come indicatore della sua idoneità ad ospitare la volpe, mentre può averne per gli
uccelli.
Come detto nel secondo capitolo, gli indicatori proposti si applicano alle unità “siepi” e a quella
scala vanno considerati: servono cioé a indentificare il valore, o la qualità delle siepi. Ciò non
toglie che una loro applicazione a scala comunale, possa permettere di ponderare, con i rispettivi
valori degli indici, le variabili (ad esempio lunghezze, numero di nodi, numero di segmenti, numero
di legami ecc.) che altri indici a scala di paesaggio, come quelli di connessione e di circuitazione,
richiedono per il loro calcolo, o di valutare il valore medio della rete di siepi di un comune.
L’EEA (European Environment Agency), riprendendo un modello proposto dall’OECD
(Organisation for Economic Co-operation and Development) (1993) ha definito il modello DPSIR
che mette in relazione tra loro diverse classi di indicatori (Gentile, 1998): Cause generatrici
primarie (Driving forces) quali le attività antropiche primarie, come l’agricoltura, l’industria, la
pesca ecc.; queste producono Pressioni (Pressures), come ad esempio gli scarichi nei corpi idrici, la
produzione di rifiuti, ecc. che determinano cambiamenti nello Stato (State) dell’ambiente ed in
particolare nella sua qualità, basti pensare ai mutamenti della qualità delle acque o della
biodiversità di certi ecosistemi, come i laghi o come le siepi. Da tali modificazioni dell’ambiente è
possibile risalire agli Impatti (Impacts) sugli ecosistemi stessi ma anche sulla salute. La risposta
della società a tali modificazioni è rappresentata con gli indicatori di Risposta ( Responses) che
consistono in normative e piani d’intervento atti a ripristinare le condizioni di sostenibilità delle
pressioni sull’ambiente, ovvero misure prese al fine di salvaguardare le risorse dell’ambiente senza
danneggiarle in modo irreversibile.
Nello stesso tempo, l’EEA (Gentile, cit.) ha individuato tre tipologie di indicatori. Gli Indicatori
Descrittivi forniscono informazioni su cosa sta avvenendo nell’ambiente in un dato momento. Per
esempio, emissioni nel suolo o erosione. Questi indicatori inducono la domanda: “Ha rilevanza?” e
permettono di individuate gli Indicatori di Performance. Ha rilevanza se i valori sono vicino o sotto
una qualche soglia di riferimento, come un carico critico, uno standard per la salute umana o un
obiettivo politico.
Se gli indicatori di performance mostrano l’esistenza di un problema, la domanda che sorge
spontanea è “Stiamo migliorando la situazione?”, la risposta a questo quesito è un Indicatore di
Efficienza, che può essere compilato mediante una combinazione degli indicatori descrittivi, come
l’uso di fertilizzanti in rapporto alla produzione agricola che è una misura dell’ecocompatib ilità
dell’agricoltura riguardo alla contaminazione del suolo da fertilizzanti.
L’EEA ha inoltre sviluppato un database, chiamato STAR, che contiene Valori Standard di
Riferimento (SRVs) o Valori Obiettivo Politici (PTVs) , che però, in genere, si riferiscono a scale
inferiori rispetto a quella che qui interessa trattare.
Quanto detto permette di classificare gli indicatori che di seguito saranno proposti come
indicatori di stato, descrittivi e di performance.
In definitiva, giova sottolineare che un indicatore senza i suoi range di variabilità nel mondo
reale è poco utile. Per questo motivo la validazione di un indicatore richiederebbe sempre che vi sia
alla base un indagine, dotata di un numero sufficiente di campioni e adeguatamente distribuiti,
indirizzata alla misura degli indicatori proposti, al chiarimento della forma della loro distribuzione
e all’individuazione di valori eccezionali.
L’ESEMPIO INGLESE DELLE HEDGEROWS REGULATION
Il Parlamento inglese ha recentemente emanato un regolamento che contiene un set di indicatori
per la valutazione delle siepi, con il preciso intento di individuare delle misure di conservazione e
di protezione dei sistemi arborei lineari con il valore maggiore concretizzatisi nelle Hedgerows
Regulations del 1997 (Anon., cit.). Il regolamento e le sue successive revisioni (Anon., 1998)
includono dei criteri cui le autorità di pianificazione locale possono attenersi per dichiarare se una
siepe è importante quindi per emanare le relative notifiche di conservazione. Successivamente alla
prima emanazione del regolamento, gli organi governativi hanno promosso una campagna di
Tommaso Sitzia
103
rilevamenti tesa a quantificare le proporzioni delle diverse tipologie di siepi e quelle di maggiore
qualità in base ai diversi criteri adottati (Schedule 1, Part II):
Età
1. esistono da almeno 30 anni;
Archeologia e storia
2. la siepe marca il confine o parte del confine di almeno una unità amministrativa storica cioé
antedente al 1850;
3. la siepe incorpora o è associata ad un manufatto o un sito archeologico incluso nel registro
nazionale dei monumenti antichi e delle zone archeologiche o comunque segnalato in
documenti ufficiali;
4. la siepe marca il confine di una tenuta o di una grande proprietà terriera antecedente al 1600
d.C. o è visibilmente ad esse associata;
5. la siepe è parte integrante di un sistema di appezzamenti databile a prima delle Inclosure
Acts o è associata a edifici o altri elementi connessi con detto sistema;
Fauna e flora selvatiche e paesaggio
6. nella siepe risiedono o si riproducono, o hanno risieduto negli ultimi cinque (animali) o
dieci (piante) anni, specie comprese nelle liste rosse nazionali oppure specie protette da
normative nazionali, regionale o provinciale
7. nelle siepe sono presenti specie nemorali, legate all’ambiente boschivo, e per questo
motivo, caratterizzate, nel paesaggio agricolo, da popolazioni isolate; ne sono
espressamente indicate 57;
8. la siepe include almeno x specie legnose in un transect lineare di 30 m (ad es. 5, secondo il
UK Biodiversity Action Plan) o almeno y specie legnose nella sua intera lunghezza (ad es.
superiore a 8). Il numero può variare a seconda dell’area geografica. Sono espressamente
indicate 56 specie legnose, che non comprendono specie esotiche;
9. la presenza di alberi di dimensioni standard (almeno 15-20 cm di diametro), di una scolina,
di una siepe parallela a meno di 15 m, di almeno 3 specie nemorali entro 1 m dalla siepe, di
un muro o di un arginello, di connessioni che abbiano un valore di almeno 41, può
contribuire a far ricadere la siepe nel gruppo delle “importan ti” se, contemporanemanete, si
verifica la presenza di un numero superiore a 4 di specie legnose;
10. adiacente a un percorso di equitazione o a un sentiero, o a una strada utilizzata come
sentiero pubblico.
Perché la siepe sia considerata importante dev’essere soddisfatta la condizione 1 e almeno una
delle altre. Inoltre è sufficiente che le condizioni si verifichino in un tratto della siepe stessa.
È interessante notare che i criteri comprendono sia aspetti di biodiversità, sia aspetti storici e
antropici. Inoltre, la biodiversità è intesa sia in termini di ricchezza di specie, sia in termini di rarità
delle specie presenti o del loro regime di protezione. Il rilevamento dei parametri, se
opportunamente supportato da protocolli di campo, non pone, inoltre, particolari difficoltà.
Ovviamente la normativa inglese fa riferimento a una serie di documenti normativi, storici e
scientifici, validi per l’ambito amministrativo e naturale cui si riferiscono.
Nelle lista di elementi può essere considerata carente la consi derazione della diversità strutturale
delle siepi, anche perché questa è una delle principali coinvolte nell’apprezzamento da parte degli
uccelli. La larghezza potrebbe non essere sufficiente come descrittore della struttura, inoltre, la
stessa larghezza non è considerata nelle Hedgerows Regulation un indicatore di “importanza”.
Altro aspetto che forse non è adeguatamente trattato è il rapporto con le pratiche agricole.
Anche se l’obiettivo primario è la conservazione di ciò che nella siepe vive, e favorire i suoi
spostamenti, la sua riproduzione e la sua nutrizione, non possiamo, anche in un ottica di rete
ecologica, esimerci dal tenere presente che le pratiche agricole attuate nei campi adiacenti hanno un
1
Le connessioni ecologiche ad altri elementi sono così distinte, con punteggi variabili e cumulabili, e con la
possibilità che la siepe sia distante da questi fin o a 10 m:
- altra siepe
1
- stagno o bosco a latifoglie
2
104
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
effetto sulla biodiversità nelle siepi: non basta q uindi censire cosa vive nella siepe, occorre anche,
specialmente se l’obiettivo primario non è lo studio, ma la valutazione della qualità, anche mettere
in relazione punti di vista ecologici e agronomici (Le Cœ ur et al. 2002). Lo stesso discorso è valido
per le pratiche di selvicoltura che incidono sulle siepi e che possono, se necessario, essere
regolamentate secondo principi di maggiore cautela, ma che devono essere conosciute.
LA VALUTAZIONE SINTETICA DELLE SIEPI IN ITALIA: UN ESEMPIO PER
LA PIANURA VENETA
Le funzioni che, tradizionalmente, sono attribuite alle siepi sono essenzialmente raggruppabili
come segue (Baudry et al., cit.):
- funzioni primarie: marcatura di confini, trasmissione di effetto di familiarità, di “casa”;
- funzioni produttive: legno (da ardere, legname da lavoro, fascine, vimini), frutti, foraggio,
piante medicinali, verdura (si pensi ai cosiddetti “bruscandoli”);
- funzioni nel paesaggio: controllo sui flussi fisici, chimici e biologici. Il terzo tipo di flussi è
quello che ci interessa maggiormente in questa sede e comprende il controllo sulla
biodiversità esercitato attraverso la creazione di habitat, rifugio, corridoi o barriere.
Nell’ambito delle reti ecologiche, le siepi possono essere degli elementi di estrema importanza
per molte specie vegetali e animali che altrimenti non potrebbero sopravvivere nei paesaggi
agricoli. È importante però sottolineare che la siepe, come tutti i corridoi, rappresenta, almeno per
certi gruppi animali legati ad ambienti boschivi, un mezzo per spostarsi tra habitat idonei (macchie
boschive) o, al limite, un surrogato di questi e non servire per la riproduzione, in quanto l’habitat
d’interno, a causa degli effetti di margine, può essere molto ridotto (Rosenberg et al. in Turner et
al., 2001, p. 236): è il caso della Rana di Lataste (Rana latastei), anfibio endemico della pianura
padana, o dello stesso Moscardino (Muscardinus avellarianus) (Paolucci, in verbis).
Dalle righe precedenti emerge il carattere fortemente multifunzionale delle siepi, l’integrazione
di valori culturali ed ecologici grazie alla convivenza di specie legnose, di norme locali, di tecniche
e storia colturale di una data regione. La diversità delle siepi è generata quindi dalla diversità o
dall’uniformità delle funzioni ad esse assegnate dal singolo proprietario o dalla comunità locale.
In questo senso sarebbe opportuno fare riferimento al tipo di paesaggio agricolo in cui si
inserisce la siepe che può essere caratterizzato in prima approssimazione e per in nostri scopi, in
base alla densità media della rete di siepi e alla dimensione media degli appezzamenti. Possono
essere individuati almeno due tipi di paesaggi agricoli: uno basato sul sistema a “campi chiusi” e
quindi caratterizzato da aziende di dimensioni medio-piccole, l’altro a “campi aperti” caratterizzato
da ampie superfici sistemate alle larghe, di proprietà di grosse aziende che attuano un’agricoltura
altamente meccanizzata. Nel caso delle quattro aree di studio indagate, due delle qu ali localizzate
nel centro della provincia di Venezia, una nella porzione sud orientale della provincia di Treviso e
la quarta nel Polesine, la tabella 1 fornisce importanti informazioni sulla densità del sistema di
siepi.
area
venezia I
venezia II
treviso
rovigo
densità
(km/ 100 ha)
lunghezza
media (m)
8.14
8.67
3.79
0.57
149.3 ± 39.8
123.8 ± 15.5
209.0 ± 27.1
312.9 ± 77.8
sup. media
campi chiusi
(ha)
12.3
11.5
26.4
175.8
Tabella 2. Densità e lunghezze medie dei corridoi ecologici lineari in quattro aree della pianura. La
superficie dei campi chiusi è un valore indicativo ottenuto mediante il semplice rapporto tra 100
ha/densità
Tommaso Sitzia
105
Ci sono tre gradi di densità crescente, dal Polesine, a Treviso e alla porzione centrale della
provincia di Venezia, l’ultimo coincidente con i paesaggi di bonifica antica, i prime due con quelli
di bonifica più o meno recente. Contemporaneamente alla riduzione della densità delle siepi si
assiste ad un incremento della lunghezza media e delle lunghezze massime (a Rovigo 3 km).
Paradossalmente le aree della provincia di Venezia sono anche quelle a tessuto urbano più diffuso
anche se in forma discontinua, mentre quelle del Polesine sono quelle ove domina il seminativo. A
titolo di confronto, Reif & Schmutz (2001, p. 54) indicano come fortemente diradato il sistema di
siepi delle Suffolk lowlands (East Anglia) che presenta una densità di 4 km/ 100 ha.
Queste considerazioni sono utili in sede di confronto delle medie degli indici ottenuti in diversi
paesaggi agricoli, in quanto non sempre è corretto in presenza di densità così diverse. Ma, al di là
della densità, occorerebbe interrogarsi sul ruolo che siepi di lunghezza inferiore, benché più dense,
hanno, rispetto a siepi più lunghe benché più rade. Anche se ciò esula dallo scopo del presente
lavoro, si ricorda che un corridoio più lungo non è necessariamente più funzionale.
Figura 2. Rappresentazione schematica della siepe e degli indicatori di qualità. Lu: lunghezza; La:
larghezza dello strato erbaceo non gestito; h: altezza dello strato arboreo (vd. testo).
Uno degli indicatori più semplici da rilevare è la tipologia struttural e delle siepi. Ne esistono
molti e con finalità diverse. Tra le più importanti si possono ricordare quella dell’IDF (Institut pour
le Développement Forestier) (1981), quelle basate sull’origine (naturale o artificiale) o l’età di
permanenza (relitte o recenti). Sfortunatamente le seconde due richiedono la disponibilità di
informazioni sull’origine o di fonti storiche (foto aeree) che richiedono già uno sfo rzo maggiore.
Nel corso dello studio più volte segnalato è stata testata la seguente classificazione adottata
dall’ARF (Azienda Regionale delle Foreste) del Veneto nel corso di una serie di indagini promosse
dai Consorzi di Bonifica del Veneto nei primi anni 90 (Bidese & Peruffo cit.).
1. piantata (con o senza viti): composta da alberi con funzione di sostegno per le viti;
2. monoplana bassa: composta da arbusti e ceduo, solo arbusti o solo ceduo; rispetto
all’orizzonte priva del piano ad altofusto;
3. monoplana alta: composta da capitozze ed altofusto, solo capitozze o solo altofusto;
rispetto all’orizzonte priva del piano arbustivo;
106
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
4. biplana: composta da capitozze ed arbusti, capitozze e ceduo, altofusto ed arbusti,
altofusto e ceduo: rispetto all’orizzonte ben distinta in due piani di vegetazione;
5. multiplana: composta da arbusti, ceduo, capitozze, altofusto, rispetto all’orizzonte
apparente come una barriera compatta con i piani di vegetazione ben compenetrati tra loro.
Lungo tutta la siepe sono state registrati i parametri di seguito elencati.
1. lunghezza (m) della siepe, misurata con la cordella metrica in campo e poi confrontata con
quella ottenuta dalla fotointerpretazione dell’ortofotocarta in scala nominale 1:10000 delle
aree di studio;
2. larghezza media (m) della copertura arborea ed arbustiva ;
3. organizzazione planimetrica: distinto in siepi monofilari, plurifilari, e in bande boscate,
considerando plurifilari le siepi con file distanti meno di 4 metri;
4. matrice: ovvero la tipologia prevalente di gestione agricola circostante la siepe (seminativo,
prato stabile, vigneto, frutteto, ortofloricoltura, arboreto, allevamento);
5. trattamento: gestione della matrice a destra e a sinistra della siepe (taglio, sfalcio, rasatura,
erbicidi, fuoco, pascolamento, taglio degli arbusti, aratura o altro). Il rilevamento di questo
indicatore qualitativo necessita di intervistare gli agricoltori o i proprietari del fondo, o, una
sufficiente esperienza per distinguere, per confronto, i diversi casi prospettati;
6. frequenza di cura: il grado di manutenzione della siepe (ripuliture, sfolli… ). Per quanto
riguarda lo strato arbustivo, elemento di arricchimento biologico e funzionale della siepe, è
stata presa in considerazione soprattutto l’eliminazione e il controllo del Rovo Rubus
ulmifolius e della Clematide Clematis vitalba e C. viticella. La cura è stata definita regolare,
nel caso in cui annualmente le specie infestanti venivano eliminate e i soggetti morti o
gravemente compromessi ripristinati; saltuaria, quando le ripuliture avvenivano solo in
corrispondenza delle utilizzazioni; abbandono nel caso in cui le infestanti si erano insediate
stabilmente;
7. frequenza di utilizzazione: intesa come frequenza di taglio cui è sottoposta la siepe e
definita regolare, quando i soggetti erano regolarmente tagliati allo scadere del turno di
utilizzazione consuetudinario che in pianura, per il ceduo, è generalmente di 3 -6 anni;
saltuaria, quando il turno non veniva rispettato e il prelievo di legname interessava solo
parte dei soggetti della siepe; abbandono, quando il taglio era sospeso o interessava soltanto
individui isolati;
8. localizzazione e connessioni: si è specificato l’elemento topografico più rilevante presso il
quale si localizzava o era connessa la siepe (canale, scolo, strada, confine, macchia boschiva
o altro);
9. elementi interni alla siepe: presenza di elementi integrati alla siepe o ad essi legati come
sentieri, muretti, recinzioni che senza di essa verrebbero a perdere la loro valenza, non è
stata segnalata la scolina perché già registrata al punto 8;
10. copertura (%): ovvero il valore medio di copertura delle chiome di ogni elemento
tipologico (arbusti, ceppaie, capitozze, altofusto), rispetto all a lunghezza totale della siepe;
11. aspetto: inteso come presumibile età della componente vegetazionale ed espresso, con gli
stessi indici utilizzati per definire la tipologia, tramite l’uso di tre aggettivi: giovane, quando
l’altofusto presentava un’età inferiore ai dieci anni, e il ceduo o le capitozze erano state
sottoposte a non più di due tagli al momento del rilievo; maturo, quando l’aspetto della
vegetazione era decrepito con evidente riduzione delle chiome, presenza di branche morte,
carie profonde e altre manifestazioni di senescenza; adulto, in tutti i casi con caratteristiche
della vegetazione diverse da quelle descritte per le due categorie precedenti;
12. densità: valutata separatamente per lo strato basso (ceppaie ed arbusti) e lo strato alto
(capitozze ed altofusto) della siepe, ed espressa tramite l’uso dei seguenti aggettivi: fitta,
quando tra due individui arborei vi era uno spazio libero pari, al più, alle dimensioni della
loro chioma; rada, quando tale spazio poteva contenere fino a due volte la chioma di un
albero; aperta, quando lo spazio tra chioma e chioma era ancora maggiore;
13. composizione (%):specie presenti con l’indicazione per ciascuna di esse del grado di
copertura riscontrata entro gli elementi tipologici di appartenenza (arbusti, ceppaie,
Tommaso Sitzia
107
capitozze, altofusto). La valutazione di questo parametro è stata fatta tramite stima visuale
utilizzando la scala da + a 5 di Pignatti (1953);
14. numero e lunghezza (m) dei gap: ovvero delle porzioni di siepe prive di vegetazione
arborea o arbustiva eccedenti i 2 metri;
15. numero di soggetti di Farnia Quercus robur: una delle più importanti specie per
disponibilità di habitat idonei alla fauna selvatica (Mason, 2001);
16. numero di piante morte in piedi e a terra: aventi diametro a 1.30 m superiore a 10 cm;
17. numero di piante dotate di cavità.
Al punto 16, alla valutazione del numero possono essere aggiunti la posizione e il grado di
decadimento, secondo i codici di Koop (in Mason, 2002, p. 165):
Posizione del legno morto
? Dead branches (grossi rami)
? Snag, volis, chandelles: monconi di tronco spezzati in piedi
? Saw logs: tronchi e pezzi di tronco segati dall’uomo
? Volis: tronchi e grosse branche spezzate a terra originati dagli snags
? Bending trees: alberi pendenti morti (spezzati o sradicati ma non ancora caduti al suolo)
? Standing trees: alberi morti o ceppi diritti in piedi
? Fallen trees: alberi morti caduti al suolo
? Ceppaie di alberi tagliati dall’uomo
Tasso di decadimento del legno morto (da 1 a 5)
? ceppaie tagliate di fresco, tronchi o rami con legno duro, corteccia intatta, tronco con
sezione trasversale ancora rotonda e integra (1);
? legno che può essere schiacciato superficialmente (fino a 1 cm), corteccia staccata ed in
parte caduta, fusto rotondo in sezione trasversale (2);
? legno morbido, la maggior parte del fusto può essere schiacciata per più centimetri,
corteccia caduta, fusto rotondo in sezione trasversale (3);
? legno soffice completamente decomposto, fusto ovalizzato in sezione trasversale con
grandi aperture, legno con poca consistenza che si disintegra quando viene toccato (4);
? i residui della pianta possono essere riconosciuti solo dalla lettier a o dalla diversa
vegetazione (5);
Oltre ai rilevamenti eseguiti lungo tutta la siepe, altri sono stati effettuati in una o più sezioni
trasversali. Se la siepe era meno di 100 m in lunghezza, la sezione è stata collocata nel centro; se la
lunghezza era compresa tra 101 e 300 metri si divideva la siepe in due sezioni; se era compresa tra
301 e 600 metri in tre sezioni; in quattro se eccedeva i 600 metri e si studiavano i 10 m centrali di
ciascuna sezione.
Tale modalità di rilevamento corrisponde a quella adottata dalle indagini condotte dall’ITE
(Institute of Terrestrial Ecology) in Gran Bretagna (Barr et al., 1991). In quel caso, però, come
nelle sezioni di 30 m adottate dalle Hedgerows Regulations, la finalità è solo quella di contare il
numero di specie legnose, mentre le altre indagini vengono effettuate sull’intera siepe.
Entro ciascuna sezione sono stati rilevati:
- la larghezza media (m) dello strato erbaceo non gestito, cioé dello proiezione al suolo
dell’effettiva larghezza al suolo di pertinenza della siepe, come in Boutin et al. (cit.) e in
Anon. (1997);
- l’ampiezza delle chiome dominanti (m), intesa come il diametro medio della loro area di
insidenza;
- la profondità (cm) e la larghezza (m) delle scoline;
- il diametro (cm) e l’altezza (m) di tutte le specie arboree con diametro superiore ai 5
centimetri.
Gli strumenti necessari per effettuare i rilievi sono un cavalletto dendrometrico per la misura dei
diametri, un ipsometro per le altezze, una cordella metrica e un’asta graduata per le lunghezze,
profondità ed altre misure lineari.
108
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
La farnia è una delle specie più significative della foresta planiziale e dei suoi lembi superstiti,
tra i quali, potenzialmente, possono essere ascritte anche alcune siepi residue. Molte specie di
insetti sono legate esclusivamente o quasi alla farnia: Cerambix cerdo, C. miles Rhagium
sycophanta, Grammoptera variegata, , Purpuricenus kaehleri, Rhopalopus femoratus, Phytomades
lividum, P. pusillum, Xylotrechus antilope, Plagionatus detrius, P. arcuatus, Anaesthetis testacea,
Coroebus sp. pl.
La quota di necromassa rappresenta uno dei più comprensivi indicatori di biodiversità. Circa
258 specie, di cui 53 in liste rosse, sono tipiche di questi habitat, rappresentate specialmente da
coleotteri e ditteri (Rotheray, 2001). Specificatamente, gli alberi morti in piedi (snags o
chandelles), sono necessari a molte specie di uccelli che nidificano o si riparano nelle cavità (es.
cincia, picchio, allocco).
Tutta la fauna di tipo saproxilico, dotata di poca mobilità e legata al legno morto o morente, ai
funghi del legno o alla presenza di altri saproxilici, costituisce un contingente di specie che
verrebbe a perdersi completamente con l’assenza di necromassa (Mason, 2001).
La conservazione del legno morto potrebbe essere ritenuta importante anche nelle siepi, anche
se, il microclima tipico del bosco permette cicli di decomposizione più lunghi e regimi di umidità
tali da garantire una maggiore diversità delle faune saproxiliche (Mason, in verbis).
Gli indicatori biometrici arborei sono dati dalle medie aritmetiche delle altezze, dal diametro
medio dendrometrico, dal numero di soggetti per ettaro e dalle aree basimetriche per ettaro delle
singole siepi. In questo caso sono stati considerati solo gli alberi delle aree di saggio aventi
diametro superiore alla soglia di cavallettamento (5 cm).
Gli indicatori di connettività rilevati sul campo sono stati:
numero di gap, dato dal numero di interruzioni della copertura arborea o arbustiva, di
lunghezza superiore ai 2 metri;
lunghezza percentuale dei gap, dato dal rapporto tra lunghezza dei gap e lunghezza totale
della siepe.
È importante sottolineare come, su un campione di 401, si distribuissero i tipi strutturali
sopraindicati. Come emerge dalla Figura 3, la proporzione dei siepi multiplane è circa il 34% del
totale. Ciò significa che circa 1/3 delle siepi meriterebbero di essere in qualche modo tutelate
perché caratterizzate da una maggiore eterogeneità degli strati di vegetazione e da una maggiore
diversità strutturale.
vite
biplana
multiplana
mon bassa
mon alta
Figura 3. Proporzione dei diversi tipi strutturali rilevati su 401 siepi arboree della pianura veneta.
Anche se molte ricerche confermano lo stretto legame tra diversità della struttura della
vegetazione e complessità della zoocenosi delle siepi, specialmente delle comunità ornitiche, in
genere la struttura è indicata con l’altezza o la larghezza, il numero di piante morte, il volume o
l’area, la diversità di specie legnose ecc. (si veda la sintesi in Hinsley & Bellamy, cit.). Forman
(cit., p. 195) così la descrive:
Vertical structure, which includes complexity, specie composition, and trunks for nest holes (...)
Nello Studio, la complessità strutturale della vegetazione è stata quantificata, all’intern o di ogni
sezione (complessivamente 720), con l’indice di Shannon:
Tommaso Sitzia
H' ? ?
n
?
i? 1
ni
n
ln i ? ?
N
N
109
n
?
i? 1
Pi * ln Pi
(1)
in cui n è il numero delle classi di diametro o di altezza, ni il numero di individui di ciascuna
classe di diametro o di altezza, N il numero complessivo di soggetti dell’area di saggio e Pi è
definita come l’importanza relativa di ciascuna classe, di diametro o di altezza, ed è quantificata
attraverso il rapporto ni/N. I valori che l’indice di Shannon può assumere variano da 0, nel caso di
una sola classe di diametro o di altezza, a ln (n), quando tutte le classi di diametro o altezza si
presentano con la stessa frequenza.
Per valutare il ruolo di una siepe nella diversità delle specie dell’area di studio, è stato calcolato
il seguente indice di rarità della composizione:
IRi ?
n
?
s? 1
1
ps
(2)
dove ps è il numero di presenze nell’intero insieme dei rilievi per una particolare specie indigena
e n è il numero totale di specie indigene nell’unità di rilevamento i -esima considerata.
In questo modo è stato possibile verificare la significatività statistica delle differenze fra i vari
tipi strutturali proposti e quindi confermare la loro idoneità come indicatori sintetici di qualità.
Tabella 3. Medie (e limiti di confidenza al 95%) delle variabili fisiche, biometriche e degli indicatori di
biodiversità nei quattro tipi strutturali proposti (differenze significative: *** p < 0.001; ** p < 0.01; * p
< 0.05; ove non sono presenti asterischi le differenze non sono significative). La vite non è stata inserita
per la bassa numerosità dei campioni (9).
Variabili fisiche
Lunghezza (m)***
Ampiezza chiome (m)***
Larghezza strato erbaceo (m)***
Superficie erbacea (m²)***
Larghezza scolina (cm)***
Profondità scolina (cm)***
N° gap
Lunghezza dei gap (%)*
Indicatori biometrici arborei
Area basim. per ettaro (m²/ ha)***
Diametro medio (cm)***
Altezza media aritmetica (m)***
N° di soggetti per ettaro
Indicatori e indici di diversità
N° Quercus robur***
No. piante morte a terra***
No. piante morte in piedi***
Indice di Shannon (altezze)***
Indice di Shannon (diametri)***
N° di specie legnose***
N° di specie legnose indigene***
IRi***
Monoplana
bassa
(n =78)
Monoplana
alta
(n = 90)
167 ± 78
4.89 ± 0.37
2.12 ± 0.40
409 ± 242
135 ± 24
65 ± 14
1.33 ± 0.70
14.3 ± 0.06
Biplana
Multiplana
(n = 88)
(n = 136)
154 ± 27
3.61 ± 0.42
2.13 ± 0.56
253 ± 75
82 ± 19
40 ± 7
1.61 ± 0.59
7.8 ± 0.03
185 ± 44
5.20 ± 0.45
2.63 ± 0.47
642 ± 483
128 ± 20
65 ± 13
1.61 ± 0.56
9.1 ± 0.04
247 ± 29
6.30 ± 0.24
3.24 ± 0.32
718 ± 128
139 ± 15
74 ± 9
2.07 ± 1.53
6.5 ± 0.02
23.5 ± 9.8
13.3 ± 3.4
6.95 ± 0.6
1991 ± 499
38.9 ± 9.5
19.5 ± 2.7
8.69 ± 0.5
1292 ± 173
32.4 ± 7.7
18.0 ± 2.6
9.00 ± 0.5
1352 ± 237
31.9 ± 4.0
17.0 ± 1.3
8.73 ± 0.3
1418 ± 120
0.08 ± 0.09
0.13 ± 0.06
0.22 ± 0.38
0.833 ± 0.100
1.350 ± 0.181
5.3 ± 0.8
3.9 ± 0.7
0.21 ± 0.05
0.39 ± 0.26
0.18 ± 0.05
0.29 ± 0.13
0.925 ± 0.113
1.645 ± 0.142
5.3 ± 0.8
3.6 ± 0.6
0.19 ± 0.05
0.54 ± 0.30
0.25 ± 0.08
0.51 ± 0.25
1.112 ± 0.123
1.584 ± 0.155
8.2 ± 0.9
6.0 ± 0.8
0.35 ± 0.08
1.36 ± 0.33
0.63 ± 0.06
0.91 ± 0.22
1.463 ± 0.079
2.070 ± 0.095
11.9 ± 0.7
9.0 ± 0.6
0.48 ± 0.06
Come si evince dall’osservazione della tabella, le siepi multiplane presentano valori più alti
degli indici di diversità e di alcune variabili fisiche, in particolare la larghezza degli strati erbacei,
cioé della fascia di pertinenza e la lunghezza. Anche la percentuale di gap è generalmente inferiore
110
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
rispetto alle altre tipologie e permette di concludere che nelle siepi mu ltiplane si verifica una
maggiore continuità longitudinale della vegetazione e quindi una connessione maggiore della rete
ecologica.
Solo nelle siepi multiplane, inoltre, il numero di specie, supera la soglia di 8 indicata da Anon.
(1998, p. 33) come il minimo perché una siepe possa essere considerata “importante”.
Evidentemente la sola classificazione della tipologia strutturale è un primo passo per chiarire
l’importanza di una siepe, ma, in presenza di tempo e risorse maggiori è utile approfondire le
ricerche specialmente sulle specie presenti e rilevare personalmente alcuni dei parametri riportati
nella Tabella 2. Sarebbe in questo modo possibile inserire in una classe di valore basandosi anche
su altri caratteri.
Gli indicatori che qui si propongono necessitano di diverso tempo e diversi mezzi, si suggerisce
quindi di selezionare gli indicatori in base alle proprie priorità e via via aumentarne il numero.
Per quanto riguarda l’età, si ricorda che, secondo le Hedgerows Regulations, le siepi antiche
sono quelle che esistevano prima degli Enclosure Acts (applicati tra il 1720 e il 1840) e sono
considerate quelle di maggior valore perché molte di essere rappresentano residui di antichi boschi,
mantenute per delimitare confini.
Successivamente molte siepi sono state piantate e manifestano una minore biodiversità rispetto
alle prime. Secondo Corbit et al. (cit.) in uno studio condotto nella parte centrale dello stato di New
York (USA):
‘Remnant attached’hedgerows were connected to forest and were apparently left behind when forest
on either side was cleared for farming in the 1800s. Thus these hedgerows today could contain relict
populations of forest herbs as well as more recent colonists. (omissis)
‘Remnant’ hedgerows contained trees with well-developed crowns in the 1938 and 1980 aerial
photographs and when sampled in 1991-93. Remnant attached hedgerows were connected directly to old
forests (stands that were never cleared for farming) both in the photographs and when sampled.
In questo caso la definizione di siepi relitte è legata alla loro presenza ininterrotta
dall’Ottocento, ma praticamente il sistema per identificarle consiste nel confronto di foto aeree e
nella verifica della continuità della copertura.
Quindi, nonostante le siepi più antiche siano quelle che risalgono, indicativamente, all’inizio
dell’Ottocento, praticamente si considerano “relitte” o “importanti” (secondo le Hedgerows
Regulations) quelle che hanno un età compresa tra un centinaio (tenendo conto del tempo
necessario per ottenere well-developed crowns nel 1938) e trenta anni (secondo le Hedgerows
Regulations).
In Veneto (e in Italia) sono disponibili le foto aeree storiche risalenti agli anni 50 e 60 effettuate
dall’IGM (Istituto Geografico Militare), al 1943-45 dalla Royal Air Force (volo RAF), ma con
copertura non sempre totale del territorio e talora difficilmente reperibili. Presso il Servizio
Cartografico della Regione Veneto è disponibile, a copertura totale del territorio regionale, la foto
aerea IGM (volo GAI) del 1954-55 che si ritiene idonea al confronto con la situazione attuale.
Tra le specie legnose arboree di cui vale la pena segnalare la presenza si ricordano Farnia
Quercus robur, Carpino bianco Carpinus betulus, Tiglio Tilia platyphyllos, Frassino maggiore
Fraxinus excelsior e Ciliegio selvatico Prunus avium che sono risultate rare nelle siepi studiate.
Le specie la cui residenza o la cui riproduzione all’interno della siepe dovrebbe essere verificata
sono:
- specie vegetali (Tracheophyta) degli allegati della Direttiva 92/43/CEE;
o Piante Superiori dell’Allegato II b) della Direttiva 92/43/CEE “Specie animali e
vegetali d’interesse comunitario la cui conservazione richiede la designazione di
zone speciali di conservazione”;
o Piante Superiori dell’Allegato IV b) della direttiva 92/43/CEE: “Specie animali e
vegetali d’interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa”
o Piante Superiori dell’Allegato V b) della direttiva 92/43/CEE: “Specie animali e
vegetali d’interesse comunitario il cui prelievo nella natura e il cui sfruttam ento
potrebbero formare oggetto di misure di gestione”;
Tommaso Sitzia
111
o specie segnalate nella Lista Rossa Nazionale (Conti et al., 1992);
o specie segnalate nella Red List IUCN;
o specie nemorali;
o specie legate a zone umide.
- specie animali
o specie endemiche;
o specie di anfibi e rettili presenti nella Lista Rossa nazionale e nella Dir. 92/43/CEE;
o specie di uccelli presenti nell’all. I della Direttiva Uccelli 79/409/CEE, nella Lista
Rossa nazionale (Bulgarini et al., 1998) e nella Convenzione di Berna
(19/XI/1979).
Purtoppo è difficile suggerire una fonte valida su scala nazionale per conoscere la presenza di
specie indicate nelle direttive e nella lista rossa nazionale, in quella regionale e nella lista rossa
IUCN (International Union for Conservation of Nature and Natural Resources). Di norma, infatti, i
cataloghi floristici e gli atlanti non permettono una localizzazione alla scala della singola siepe.
Nella Tabella 3 sono riportate alcune specie legate a siepi nel comune di Legnago, la cui presenza
era stata verificata da F. Prosser (inf. priv.), nel corso dell’indagine per la cartografia floristica della
provincia di Verona. Spesso, però, occorre rilevare le specie direttamente o effettuare ricerche
bibliografiche mirate.
Tabella 4. Specie notevoli che sono risultate legate a siepi nel comune di Legnago (VR) (da Sitzia &
Carrara, 2004).
Specie
Gruppo
Ajuga reptans L.
Brachypodium sylvaticum (Huds.) P. Beauv.
Deschampsia caespitosa (L.) P. Beauv.
Frangula alnus Mill.
Hottonia palustris L.
Hydrocharis morsus-ranae L.
Nuphar lutea (L.) Sibth. & Sm.
Oenanthe aquatica (L.) Poir.
Ranunculus repens L.
Salvinia natans (L.) All.
Scrophularia nodosa L.
Vallisneria spiralis L.
Veronica anagallis-aquatica L.
Wolffia arrhiza (L.) Horkel ex Wimm.
nemorale
nemorale
nemorale
nemorale
ambiente umido
ambiente umido
ambiente umido
ambiente umido
nemorale
ambiente umido
nemorale
ambiente umido
ambiente umido
ambiente umido
Norme di protezione
Lista Rossa Nazionale
IUCN Red List 1997
Per quanto riguarda le specie nemorali si riporta una lista provvisoria di quelle che sono risultate
presenti in una ventina di siepi rilevate nelle province di Venezia, Padova e Treviso (dati non
pubblicati).
Allium ursinum
Anemone nemorosa
Carex silvatica
Geum urbanum
Mercurialis perennis
Poa nemoralis
Polygonatum multiflorum
Vinca minor
Viola reichenbachiana
112
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
Alcune di queste, in particolare Polygonatum multiflorum, sono frequentemente presenti anche
in ambienti a copertura arborea rada, come in corrispondenza delle sorgenti del Fiume Sile (Zinato,
in verbis).
Per quanto riguarda specie della fauna indicatrici della funzionalità dei corridoi si riporta una
sintesi nella Tabella 4 (si ringrazia P. Paolucci per gli utili suggerimenti) con tre specie che si
ritengono sufficientemente rappresentative.
Tabella 5. Alcune specie animali indicatrici di corridoio ecologico.
Specie indicatrici Habitat e status
Metodo di rilevamento
Rana di lataste
(Rana latastei)
Legata ai boschi igrofili, sia collinari che Transetti lineari. Possibile effettuare il
planiziali: la siepe è un surrogato. L'areale censimento assieme al moscardino.
è probabilmente più vasto di quello noto. Si
trova anche ai margini della maggiori siepi
interpoderali o di lembi di paludi. Limitata
tolleranza alle variazioni di umidità.
Specie endemica, specie dell’All. B Dir.
92/43/CEE
Moscardino
(Muscardinus
avellarianus)
La siepe è un’ambiente secondario, legata a
boschi
planiziali.
Importante
la
conservazione della specie.
Specie LR secondo Lista Rossa dei
Vertebrati Italiani
VU Red List IUCN
Transetti
lineari
nella
stagione
invernale e autunnale, quando le siepi
hanno perso le foglie perché è più
facile riconoscere i caratteristici nidi.
Difficile da censire, schiva, popolazioni
disperse, a densità elevate localmente.
Possibile effettuare il censimento
contemporaneamente alla Rana di
Lataste.
Averla piccola
(Lanius collurio)
Estivante nidificante. Legata alle siepi, ad
ambienti di margine. Indicatore di corridoio
ecologico.
La sua presenza è indice di presenza delle
sue prede, essenzialmente insetti. Diffusa
anche nei vigneti. Legata alla presenza di
fossi d'acqua non inquinata.
Le popolazioni sono ben distinte e legate a
territori definiti, alla struttura delle siepi,
alla presenza di posatoi.
La presenza di una coppia denota la
presenza di altri soggetti nelle vicinanze.
Legata alla siepe come corridoio fisico.
Specie dell’All. I Dir. 79/409/CEE
Censimento per avvistamento con
binocolo. I maschi adulti sono
facilmente riconoscibili, i giovani sono
più rumorosi.
Differenziare il periodo di censimento
rispetto a Moscardino e a Rana di
Lataste.
E' più diffusa di Moscardino e Rana di
Lataste, perchè legata anche ad
ambienti a naturalità bassa, come i
vigneti.
Esempi specifici per il
Veneto
La popolazione della palude
di Onara è sicuramente
separata dalle popolazioni
del Brenta. Forte rischio di
ulteriore dispersione delle
popolazioni.
Sono sufficienti poche
decine di metri privi di
copertura per rendere due
habitat idonei separati.
600
500
N/ ha
400
300
200
100
0
10
15
20
25
30
35
40
45
50
55
60
65
70
75
80
> 80
D (cm)
Figura 4. Curva delle frequenze dei diametri in una delle aree di studio della provincia di Venezia.
Tommaso Sitzia
113
Per alcune specie arboree non rare può essere interessante cercare soggetti con caratteristiche
dimensionali notevoli che rappresentano, fra l’altro, alberi habitat. Nella Figura 3 è riportata la
curva di distribuzione delle classi di diametro all’interno di una delle aree di studio rilevate nel
corso dello Studio. Si noti come la curva abbia un andamento esponenziale e come i soggetti di
diametro superiore a 55-60 cm rappresentino una netta minoranza, principalmente a causa delle
pratiche di ceduazione. Nella Tabella 5 si riportano i dati orientativi per assegnare un valore di
pregio ai soggetti presenti nelle siepi per le quattro specie più frequenti. L’inserimento di una
specie esotica (Robinia pseudoacacia) è finalizzata a far notare i bassi diametri rilevati dovuti alla
frequente ceduazione della specie.
Tabella 6. Medie e massimi dei diametri a 1.30 m (d) e delle altezze (h) di specie arboree comuni nelle
siepi rilevate (tra parentesi il numero di soggetti campionati).
Ulmus minor (334)
Media
Massimo
d (cm)
h (m)
13.9 ± 0.7 9.7 ± 0.2
45
20
Robinia pseudoacacia
Salix alba (443)
(322)
d (cm)
h (m)
d (cm)
h (m)
d (cm)
h (m)
11.2 ± 0.7 8.5 ± 0.3 10.6 ± 0.4 9.4 ± 0.2 15.2 ± 1.3 9.5 ± 0.2
45
18
22
18
87
22
Acer campestre (285)
Anche nel caso delle specie arboree rare segnalate in precedenza si può assegnare un valore
crescente al crescere della dimensione dei soggetti rilevati, tenendo presente le indicazioni della
Tabella 6.
Tabella 7. Medie e massimi dei diametri a 1.30 m (d) e delle altezze (h) di specie arboree rare nelle siepi
rilevate (tra parentesi il numero di soggetti campionati). Il Frassino maggiore non è riportato per
l’esigua numerosità dei soggetti individuati.
Quercus robur (66)
d (cm)
h (m)
Media
23.9 ± 3.4 10.6 ± 0.5
Massimo
74
19
Alnus glutinosa (58)
d (cm)
h (m)
8.5 ± 0.9 8.1 ± 0.6
18
13
Prunus avium (28)
d (cm)
h (m)
12.9 ± 2.0 7.6 ± 0.5
25
11
Solo in un caso su 401 la siepe era associata ad un sentiero, la percentuale di siepi associate a
prati stabili era pari invece a circa il 9% del totale, come si osserva dalla Figura 4 e dalla relativa
tabella.
L’adiacenza della siepe a un prato stabile, da almeno uno dei due lati, rappresenta un indicatore
di qualità ambientale, in quanto incoraggia gli uccelli che nidificano al suolo a costruire nidi a
inizio estate e la fauna e flora selvatiche, in particolare insetti utili come i coleotteri carabidi
predatori di afidi. Inoltre, il prato, dotato di un numero di insetti maggiore, è anche una fonte di
nutrimento per i nidiacei che frequentano la siepe. In alternativa al prato stabile sarebbe opportuno
garantire almeno la presenza di una fascia erbosa ai lati della siepe.
114
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
mais
vite
prato stabile
strada
soia
orto
urbano
frumento
incolto
giardino
leguminose
bietola
frutteto
altro
%
44.6
7.2
9.2
5.7
5.2
4.5
4.5
3.2
2.7
2.0
2.0
1.7
1.2
6.0
Figura 5. Proporzione tra i diversi usi del suolo adiacenti alle siepi rilevate e relativa tabella.
a
b
Figura 6. Prunus avium (a) specie arborea non comune nelle siepi della pianura veneta e Mercurialis
perennis (b) specie nemorale indicatrice di qualità dei corridoi ecologici arborei (foto Sitzia).
Il fatto che nessuna siepe, tra le 401 rilevate, sia adiacente a boschi relitti, è sintomatica della
situazione di estrema carenza di tali tessere de l paesaggio nella pianura veneta (Figura 6).
Evidentemente in paesaggi diversi la situazione può presentarsi profondamente diversa e anche la
qualità delle siepi può essere maggiore, specialmente in un ottica di rete ecologica, ove cioé le
connessioni esistenti siano considerate uno degli indici più importanti. Per questo motivo, a
seconda della zona geografica di interesse, le soglie di criticità o di qualità andrebbero calibrate in
modo diverso.
Tommaso Sitzia
115
Non è stata riscontrata, nelle 401 siepi rilevate, presenza di elementi interni, se non, molto
frequentemente, di scoline. Per questo motivo l’eventuale rinvenimento di altri elementi, in
particolare muri in pietra, è da considerare eccezionale.
CONCLUSIONI
In base alle considerazioni svolte nella pagine precedenti e ai risultati delle indagini eseguite su
un campione di 401 siepi della Pianura Veneta si suggeriscono i seguenti criteri e il seguente
procedimento per stabilire l’importanza di una siepe, valido per la pianura padana.
1. Individuare la siepe d’interesse sulla base delle indicazioni riportate nel capitolo “Cos’è una
siepe, cioè un corridoio ecologico arboreo lineare?” (pag. 99).
2. Indentificare la tipologia strutturale.
3. Seguire i capitoli precedenti decidendo quali indicatori rilevare basandosi sulla priorità di
rilevamento e sulle fonti richieste.
4. Valutare la qualità della siepe sulla base delle indica zioni riportate nelle tabelle 2, 3, 4 e 5 e
nelle figure 3 e 6 cercando di assegnare un maggiore valore alle siepi che presentano
caratteri notevoli.
Si è preferito non suggerire delle scale di valori per evitare di influenzare il rilevatore, dato che,
la ponderazione di essi dipende molto dalla funzione che si intende privilegiare.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia il Prof. F. Viola per la rilettura critica del testo.
b
Figura 7. A Siepe monoplana bassa immersa in una matrice a prato stabile: la sua qualità sarebbe inferiore se fosse immersa in una matrice di seminativo
(Castiglione de Pepoli, Bologna, foto Sitzia); B Siepe monoplana bassa (so lo componente a ceduo) immersa in una matrice urbana e di seminativo, si noti la
sottile fascia erbosa ai lati della siepe, che costituisce un detrattore di valore (Legnaro, Padova, foto Sitzia).
a
Figura 8. Ragionare in termini di rete ecologica nella valutazione sintetica del valore delle siepi. La siepe nella parte destra della foto possiede una
connessione con una macchia boscata relitta. Avendo più di 30 anni può essere considerata “importante” (Forte Tron, Venezia Mestre, foto Sitzia).
116
La qualità dei corridoi ecologici arborei lineari
Tommaso Sitzia
117
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RETI ECOLOGICHE E PIANIFICAZIONE URBANISTICA:
ASPETTI TECNICI E AMMINISTRATIVI
L'ESPERIENZA DELLA PROVINCIA DI BOLOGNA
Giuseppe DE TOGNI
Responsabile dell'Ufficio Paesaggio - Servizio Pianificazione Paesistica
Assessorato Ambiente - Provincia di Bologna
[email protected]
120
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
PREMESSA
Innanzitutto una breve premessa: la necessità di un sottotitolo alla presente comunicazione si
rende necessario perché l'argomento in oggetto è del tutto originale rispetto alle esperi enze che la
pubblica amministrazione italiana ha sinora maturato. Conseguentemente, le varie azioni ed
interventi che hanno visto la luce e sono in corso di attuazione sul territorio nazionale risultano per
forza ancora poco strutturate e piuttosto disomogenee nelle specifiche risposte tecnicoamministrative sperimentate.
Questa disomogeneità e specificità, se sta favorendo la messa a punto di risposte puntuali a
differenti problemi, impone ancora di guardare alle singole realtà in maniera piuttosto dettagl iata,
appunto per comprendere meglio temi e questioni affrontati, rimandando ad un prossimo futuro
un'analisi comparata e più generale sul tema.
La prima questione da sottolineare è appunto questa: tutto quanto viene fatto rispetto al tema
delle RE dalle pubbliche amministrazioni è ancora una specifica e originale sperimentazione.
Come tale, pertanto, ogni azione dovrà essere considerata, cercando di mettere in evidenza tanto i
fattori di originalità quanto le discrepanze e i problemi ancora presenti e più o meno affrontati.
Sulla base di tale assunto illustrerò quanto in corso di sperimentazione da parte della Provincia di
Bologna.
Partiamo dalle parole (richiamando a grandi linee i temi del dibattito).
Reti ecologiche
Il concetto di RE è emerso negli ultimi decenni all'interno del dibattito scientifico di differenti
discipline come risposta specifica al problema della conservazione della biodiversità in realtà
territoriali complesse e sempre più frammentate da un punto di vista naturalistico e paesistico. S i è
quindi passati dal concetto di conservazione di singole aree protette a quello di conservazione
dell'intera struttura degli ecosistemi presenti sul territorio attraverso il perseguimento della
continuità ambientale.
Con il termine “rete ecologica” indichiamo una struttura costituita da spazi naturali e semi naturali più o meno estesi (i “nodi”) collegati tra loro attraverso connessioni lineari (i “corridoi”) in
modo da formare, appunto, una struttura reticolare.
Riprendendo alcuni spunti di sistematizzazione proposti dalla ricerca APAT-INU "Gestione
delle aree di collegamento ecologico funzionale" – Manuali e linee guida 26/2003 (alla quale, come
Provincia di Bologna, abbiamo a più riprese contribuito direttamente) considerando la natura
effettiva degli "oggetti" messi in rete, è oggi possibile riconoscere almeno 4 modi di intendere le
RE:
3. RE come sistema interconnesso di habitat, di cui salvaguardare la biodiversità;
4. RE come sistema di parchi e riserve, inseriti in un sistema coordinato di infrastrutture e
servizi;
5. RE come sistema paesistico, a supporto prioritario di fruizioni percettive e ricreative;
6. RE come scenario ecosistemico polivalente, a supporto di uno sviluppo sostenibile.
Tali modelli non sono tra loro alternativi, in quanto rispondono ad obiettivi differenti ma
complementari di governo del territorio. Soprattutto, qualunque scelta di RE si faccia, essa avrà
inevitabilmente implicazioni polivalenti, suscettibili di coinvolgere politiche differenti
(salvaguardia della biodiversità, ovviamente, ma anche salvaguardia idraulica, nuovi ruoli per
l'agricoltura, recupero paesaggistico, fruizione sostenibile del territorio… ).
Una delle principali sfide che abbiamo di fronte, ancora irrisolta (anche se credo ci troviamo
sulla buona strada per trovare un "accordo"… ), è quella di integrare linguaggi e saperi differenti.
A partire dal riconoscimento delle specifiche conoscenze e competenze dei differenti attori e
discipline coinvolti nel dibattito sulle RE, non ci si può esimere dall'imparare i vocabolari di
Giuseppe De Togni
121
ciascuno, in quanto primo passo per arrivare a mettere a punto un sapere realmente condiviso e
quindi una strategia di azioni tra loro integrate.
Pianificazione urbanistica
La pianificazione urbanistica è una disciplina che ha come specifico compito quell o di
regolamentare e gestire gli usi del suolo. Tale compito si esplica con piani e scelte specifiche a
differenti livelli, sostanzialmente corrispondenti all'articolazione degli Enti a ciò preposti: Stato
italiano, regioni, province, comuni; ma anche autorità di bacino, servizi tecnici regionali, consorzi
di bonifica, "partecipanze"… tutti sono più o meno implicati nella gestione del territorio (alcuni per
questioni specifiche, altri per temi e questioni più trasversali e generali).
La pianificazione urbanistica costituisce quindi l'ambito di supporto tecnico alle specifiche e
strutturali scelte politiche di uso e trasformazione del territorio. Si tratta quindi di un ambito
fondamentale per promuovere le reti ecologiche, inglobandole all'interno di strumenti destinati al
controllo delle trasformazioni territoriali, urbane ed extraurbane.
E' questo il campo in cui si cerca di tradurre in pratica, attraverso strumenti di
pianificazione e progetti, l'insieme di concetti, nozioni e approfondimenti specifici, elaborati
da altri saperi e discipline, relativi alle RE. Ovvero, in altri termini, è il momento in cui si
trasferiscono le acquisizioni scientifiche sul tema della conservazione della biodiversità tramite le
RE nella pianificazione territoriale, cercando di dare organicità e struttura ad una serie di scelte che
fanno i conti con l'estrema complessità delle specie del mondo animale e vegetale (che si traducono
in un numero elevatissimo di scale spaziali, temporali ed ecologiche). Senza ovviamente
dimenticare che, dall'altra parte, ci si sta confrontando con realtà caratterizzate da una fortissima
pressione antropica verso tutto il territorio, urbanizzato, di margine e rurale (quest'ultimo
interessato da espansioni insediative, produttive, infrastrutture per la mobilità e infrastrutture
tecnologiche – cioè reti per trasporto dell'energia, opere di regimazione idraulica dei corsi d'acqua,
opere di difesa idrogeologica ecc. -)
Gli aspetti tecnici ed amministrativi da considerare sono numerosi e tutti implicano la necessità
di una forte sperimentazione non solo per la novità del tema ma anche per la mancanza di una
legislazione nazionale, e parzialmente anche regionale, in materia. Conseguentemente, qualsiasi
esempio oggi si consideri, come già precedentemente accennato, dovrà sempre essere considerato
un contributo parziale e una riflessione specifica, da contestualizzare almeno nella realtà regionale
di riferimento.
Già da queste prime considerazioni emerge con forza un altro dei nodi principali della
questione: la necessità di far convivere conoscenze di dettaglio con l'esigenza di governare
fenomeni di trasformazione territoriale complessi e variegati attraverso una "norma". Questo è
possibile farlo solo attraverso un processo di forte semplificazione. Si tratta di una scelta
obbligata, dal momento che le "norme" sono uno strumento che si deve confrontare, nel tempo, con
realtà sempre differenti, solo in parte prevedibili. Personalmente credo che la forte criticità con cui
viene talvolta guardata tale scelta da alcuni esperti di altre discipline sia piuttosto sterile. Più
interessante mi sembra invece considerare il processo cui tutti stiamo partecipando, ognuno con i
propri mezzi, per salvaguardare, tutelare e valorizzare la biodiversità; processo che solo il tempo ci
dirà se e come ha funzionato, gli obiettivi che avremo raggiunto e i punti che dovranno essere
rivisti e corretti per meglio rispondere alle esigenze suddette.
122
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
ASPETTI TECNICI E AMMINISTRATIVI: IL CASO DELLA PROVINCIA DI
BOLOGNA
La Provincia di Bologna si è dotata di un piano di RE attraverso la predisposizione del Piano
Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP), strumento approvato e quindi pienamente
vigente dallo scorso marzo 2004.
La nuova legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna (LR 20/2000) è una delle poche
leggi che in Italia nominano in maniera chiara le RE. Nello specifico, i PTCP devono prevedere
"indirizzi e direttive per la realizzazione di dotazioni eciologiche ed ambientali negli ambiti urbani
e periurbani, di reti ecologiche e di spazi di rigenerazione e compensazione ambientale" (art. A1 –
Sistema ambientale) e la pianificazione provinciale e locale devono definire "la ricostituzione
nell'ambito urbano e periurbano di un miglior habitat naturale e la costituzione di reti eco logiche di
connessione" (art. A-25 – Dotazioni ecologiche ed ambientali). Il concetto di RE viene inteso,
secondo un approccio ecosistemico, a supporto di uno sviluppo sostenibile del territorio. Le RE
sono infatti definite quali sistemi interconnessi di c omponenti ambientali e risorse naturali con il
fine di svolgere anche una funzione di mitigazione degli impatti negativi sull'ambiente.
Il PTCP, strumento di pianificazione territoriale (il termine di pianificazione "urbanistica" si
applica specificatamente al livello proprio del PRG/PSC), rappresenta un momento fondamentale
per prevedere e poi realizzare le RE dal momento che consente di mettere coerentemente a sistema
una serie di scelte generali per tutto il territorio e che poi, al livello locale, diven teranno scelte più
specifiche, di dettaglio. Questo strumento si caratterizza quindi come un momento per effettuare
specifiche scelte di indirizzo e coordinamento in campo naturalistico ed ambientale relativamente
ad una superficie territoriale significati va per le esigenze della maggior parte della biodiversità
presente o potenziale, altrimenti impossibili da assicurare a livello locale (comunale o sub comunale).
Il PTCP prevede le RE come scelta strategica forte, per migliorare la qualità complessiva del
territorio: si tratta di una strategia che persegue contemporaneamente più obiettivi, tra loro
integrati:
- il miglioramento della biodiversità presente;
- l’arricchimento e la riqualificazione del paesaggio;
- la promozione dell’offerta di servizi di tipo ricreativo, sportivo e didattico-culturale;
- il rafforzamento delle aziende agricole ed in particolare di quelle multifunzionali che sono
in grado di supportare tale offerta.
In questa strategia un ruolo determinante viene assegnato al comune che deve dotarsi, nel
proprio PSC, di un progetto di RE di scala locale, che attui la previsione fatta a livello provinciale
specificandola alla propria scala.
La questione delle RE è stata affrontata nel PTCP attraverso 4 articoli (Art. 3.3. - Tutela della
biodiversità e valorizzazione degli ecosistemi: obiettivi e strumenti; Art. 3.4 – Le reti ecologiche;
Art. 3.5 – La rete ecologica di livello provinciale; Art. 3.6 La rete ecologica di livello locale) cui se
ne possono in realtà associare altri 2 (Art. 3.7 – La rete dei siti Natura 2000 e Art. 3.8 – Il sistema
provinciale delle aree protette), strettamente connessi agli altri 4, dal momento che pSIC e ZPS,
così come parchi, riserve e aree di riequilibrio ecologico (ai sensi della LR 11/88 e s.m.), sono
elementi riconosciuti a tutti gli effetti come parti strutturanti la RE di livello provinciale. È stato
inoltre predisposto un documento dal titolo: "Linee guida per la progettazione e la realizzazione
delle reti ecologiche", con lo specifico obiettivo di fornire:
- una metodologia sia per la fase di analisi sia per quella di progettazione delle RE di livello
locale anche attraverso l'individuazione delle principali voci di legenda che devono essere
contemplate nei singoli approfondimenti;
- indicazioni pratico-descrittive sia sulla natura dei principali nodi complessi, nodi semplici e
corridoi ecologici che è possibile ritrovare nei territori di competenza sia sui metodi di
progettazione esecutiva e gestionale degli stessi.
Giuseppe De Togni
123
Di seguito si riportano i contenuti dei primi 4 articoli suddetti, insieme alle definizioni che
specificatamente descrivono gli elementi della RE.
Definizioni
Rete ecologica: sistema polivalente di nodi - rappresentati da elementi ecosistemici
tendenzialmente areali dotati di dimensioni e struttura ecologica tal i da svolgere il ruolo di
“serbatoi di biodiversità” e, possibilmente, di produzione di risorse eco -compatibili in genere – e
corridoi – rappresentati da elementi ecosistemici sostanzialmente lineari di collegamento tra i nodi,
che svolgono funzioni di rifugio, sostentamento, via di transito ed elemento captatore di nuove
specie – che, innervando il territorio, favorisce la tutela, la conservazione e possibilmente
l’incremento della biodiversità floro-faunistica legata alla presenza-sopravvivenza di ecosistemi
naturali e semi-naturali. Gli elementi funzionali che compongono la rete ecologica sono definiti
come segue:
- Nodi ecologici semplici: sono costituiti da unità areali naturali e semi -naturali che, seppur di
valenza ecologica riconosciuta, si caratterizzano per minor complessità, ridotte dimensioni e
maggiore isolamento rispetto ai nodi ecologici complessi. I nodi semplici sono costituiti
esclusivamente dal biotopo, non comprendendo aree a diversa destinazione;
- Nodi ecologici complessi: sono costituiti da unità areali naturali e semi-naturali di specifica
valenza ecologica o che offrono prospettive di evoluzione in tal senso; hanno la funzione di
capisaldi della rete. Il nodo complesso può ricomprendere più nodi semplici e anche
corridoi o tratti di questi. Nel territorio di pianura i nodi ecologici complessi, oltre che dai
pSIC, sono costituiti da biotopi, habitat naturali e seminaturali, ecosistemi di terra e
acquatici. Nel territorio collinare e montano i nodi ecologici complessi sono costituiti dalle
aree protette di cui all’art. 3.8 ovvero dai pSIC e ZPS di cui all’art. 3.7; 2
- Zone di rispetto dei nodi ecologici: sono costituite dalle zone, di solito agricole, circostanti
o inframmezzate i nodi ecologici; svolgono una funzione di protezione degli spazi naturali o
semi-naturali in esse contenuti e individuano ambiti sui quali concentrare eventuali ulteriori
interventi di rinaturazione 3;
- Corridoi ecologici: sono costituiti da elementi ecologici lineari, terrestri e/o acquatici,
naturali e semi-naturali, con andamento ed ampiezza variabili, in grado di svolgere,
eventualmente con idonee azioni di riqualificazione, la funzione di collegamento tra i nodi,
garantendo la continuità della rete ecologica. I corridoi esistenti coincidono prevalentemente
con i principali corsi d’acqua superficiali e le relative fasce di tutela e pertinenza e con il
reticolo idrografico principale di bonifica. 4 Tali unità assumono le funzioni delle aree di cui
alla lettera p, art. 2 del DPR 8/9/1997, n. 357 e s.m.;
- Direzioni di collegamento ecologico: rappresentano una indicazione prestazionale, cioè la
necessità di individuare fasce di territorio da ricostituire con funzione di corridoio
ecologico;
- Connettivo ecologico di particolare interesse naturalistico e paesaggistico : è costituito da
porzioni del territorio collinare-montano che presentano caratteristiche sia naturalistiche che
paesaggistiche di maggior valore rispetto al resto del territorio;
- Connettivo ecologico diffuso: è costituito dall’insieme delle aree boscate, cespugliat e, a
prato-pascolo e rocciose del territorio collinare -montano;
- Connettivo ecologico diffuso periurbano: coincide con l’Unità di paesaggio della Pianura
della conurbazione bolognese (n. 5) che, compatibilmente con le funzioni di mantenimento
2
Secondo la terminologia convenzionalmente definita dal Servizio Conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio, i nodi ecologici complessi coincidono con le cosiddette “aree centrali”( core areas).
3
Secondo la terminologia convenzionale sopraccitata, le zone di rispetto dei nodi ecologici coincidono con le cosiddette
“zone cuscinetto” (buffer zones). Rispetto alla medesima terminologia, l’insieme cost ituito dai nodi ecologici complessi e
dalle zone di rispetto dei nodi ecologici coincide con i cosiddetti “nodi”( key-areas).
4
Secondo la terminologia convenzionale sopraccitata, i corridoi ecologici coincidono con i cosiddetti “corridoi di
connessione”(green ways/blue ways).
124
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
-
della conduzione agricola dei fondi e di promozione di attività integrative del reddito
agrario, ai sensi della LR 20/2000, svolge anche funzione di connessione ecologica;
Area di potenziamento della rete ecologica di area vasta : si tratta di un’area carente di
elementi funzionali areali della rete ecologica;
“Varchi ecologici”: nelle zone in cui l’edificazione corre il rischio di assumere il carattere
di continuità, i “varchi ecologici” segnalano i lembi residuali di territorio non edificato da
preservare perché interessati dalla presenza di Corridoi ecologici o di Direzioni di
collegamento ecologico.
NORME
Art. 3.3 - Tutela della biodiversità e valorizzazione degli ecosistemi: obiettivi e
strumenti
1.(I)
Il PTCP assume l’obiettivo prioritario della tutela, conservazione,
miglioramento e valorizzazione degli ecosistemi e della biodiversità
presente nel territorio provinciale.
2.(I)
Il PTCP persegue lo sviluppo di reti ecologiche nel territorio provinciale,
in coerenza con la Direttiva 92/43/CEE “Conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche” e s. m. e con
il relativo Regolamento attuativo di cui al DPR n. 357/1997 come
modificato dal DPR n. 120/2003, che prevedono la realizzazione della
rete ecologica europea denominata “Rete Natura 2000” quale strumento
per conseguire gli obiettivi di conservazione degli habitat naturali, della
flora e della fauna rari e minacciati a livello comunitario nel territorio
degli Stati membri, ed altresì in coerenza con gli obiettivi del Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio, relativi alla costruzione di una
rete ecologica nazionale - REN - quale articolazione della rete europea.
3.(I)
Il PTCP si pone come strumento di pianificazione di riferimento per il
recepimento delle disposizioni di cui all’art. 6 della Direttiva 92/43/CEE,
assunti dal D.M. 3 settembre 2002 “Linee guida per la gestione dei siti
Natura 2000”, riguardanti la necessità di integrare l'insieme delle misure
di conservazione con la pianificazione ai diversi livelli di governo del
territorio (internazionale, nazionale, locale). Il PTCP si pone inoltre, in
termini generali, come strumento di riferimento per il recepimento delle
disposizioni di cui alla Direttiva “Uccelli” 79/409/CEE, alla Convenzione
di Berna 82/72/CEE sulla “protezione della Natura e della Biodiversità”,
alla Direttiva “Habitat” 92/43/CEE.
4.(D)
Sono strumenti per il perseguimento dell’obiettivo di cui al primo punto:
il “Piano programmatico per la conservazione e il miglioramento
degli spazi naturali nella provincia di Bologna”, approvato dal
Consiglio Provinciale con deliberazione n. 103 del 31/10/2000.
Il “Piano di Azione – Linee per la gestione dei pSIC del territorio
provinciale” approvato dal Consiglio Provinciale con deliberazione
n. 109 del 1/10/2002 e dei successivi aggiornamenti;
I Piani Territoriali dei Parchi di cui all’art. 2.1 delle presenti norme;
i Progetti di Tutela Recupero e Valorizzazione di cui all’art. 3.1
delle presenti norme.
disposizioni generali
di inquadramento e
specificazione del
rapporto con altre
norme o strumenti
Giuseppe De Togni
125
Art. 3.4 Le reti ecologiche
1.(I)
Finalità e obiettivi. Il PTCP nel promuovere lo sviluppo delle reti ecologiche
(v.) persegue i seguenti obiettivi specifici:
Favorire i processi di miglioramento e connessione degli ecosistemi
naturali e semi-naturali che interessano il territorio delle Unità di
paesaggio di pianura, salvaguardando e valorizzando i residui spazi
naturali o semi-naturali, favorendo il raggiungimento di una qualità
ecologica diffusa del territorio di pianura e la sua connessione ecologica
con il territorio delle Unità di paesaggio della colina e della montagna,
nonché con gli elementi di particolare significato ecosistemico delle
province circostanti;
Promuovere nel territorio rurale la presenza di spazi naturali o seminaturali, esistenti o di nuova creazione, caratterizzati da specie
autoctone e dotati di una sufficiente funzionalità ecologica;
Promuovere nel territorio collinare e montano un sistema a rete che
interconnetta l’insieme dei principali spazi naturali o semi-naturali
esistenti, rafforzandone la valenza non solo in termini ecologici, ma
anche in termini fruitivi, accrescendo le potenzialità in termini di
occasioni per uno sviluppo sostenibile di quei territori;
Rafforzare l’attuale funzione svolta dallo spazio agricolo anche come
connettivo ecologico diffuso;
Rafforzare la funzione di corridoio ecologico svolta dai corsi d’acqua e
dai canali, riconoscendo anche alle fasce di pertinenza e tutela fluviale
il ruolo di ambiti vitali propri del corso d'acqua, all'interno del quale
deve essere garantito in modo unitario un triplice obiettivo: qualità
idraulica, qualità naturalistica e qualità paesaggistica, in equilibrio tra
loro;
Promuovere la funzione potenziale di corridoio ecologico e di
riqualificazione paesistico-ambientale che possono rivestire le
infrastrutture per la viabilità dotandole di fasce di ambientazione ai
sensi del seguente art. 12.11;
Promuovere la riqualificazione sia ecologica che paesaggistica del
territorio, attraverso la previsione di idonei accorgimenti mitigativi da
associare alle nuove strutture insediative a carattere economico produttivo, tecnologico o di servizio, orientandole ad apportare benefici
compensativi degli impatti prodotti, anche in termini di realizzazione di
parti della rete ecologica;
Promuovere il controllo della forma urbana e dell’infrastrutturazione
territoriale, la distribuzione spaziale e la qualità tipo -morfologica degli
insediamenti e delle opere in modo che possano costituire occasione per
realizzare elementi funzionali della rete ecologica;
Promuovere la creazione delle reti ecologiche anche attraverso la
sperimentazione di misure di intervento normativo e di incentivi, il
coordinamento della pianificazione ai diversi livelli istituzionali, il
coordinamento tra politiche di settore degli Enti competenti;
Promuovere il coordinamento e l’ottimizzazione delle risorse
economiche e finanziarie, individuate ed individuabili, gestite dai vari
Settori della Provincia o legate ad azioni specifiche di altri E nti
competenti, per la realizzazione integrata di obiettivi condivisi;
Associare alla funzione strettamente ambientale della rete ecologica
quella di strumento per la diffusione della conoscenza, della corretta
fruizione del territorio e della percezione del paesaggio;
Promuovere la biodiversità anche attraverso la creazione di nuovi spazi
naturali finalizzati ad arricchire le risorse naturali ed economiche del
PTCP e sviluppo
delle RE: finalità
126
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
territorio.
2.(D)
I Piani generali, comunali e intercomunali, e i piani di settore, provinciali,
intercomunali e comunali, nonché gli altri atti di programmazione e di
governo della Provincia, nella misura in cui possano contribuire alla
realizzazione delle reti ecologiche o influire sul loro funzionamento, devono
tener conto degli obiettivi specifici sopra definiti e contribuire, per quanto di
loro competenza, a perseguirli.
ruolo dei differenti
livelli di
pianificazione
rispetto alle RE
Il perseguimento degli obiettivi specifici di cui ai punti precedenti costituisce
elemento di valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e territoriale
dell’attuazione dei piani ai sensi dell’art. 5 della LR 20/2000.
Art. 3.5 - La rete ecologica di livello provinciale
1.(D)
Il PTCP identifica nella tav. 5 la struttura della rete ecologica di livello
provinciale sulla base delle conoscenze della situazione ecosistemica del
territorio alla data di adozione delle presenti norme. La Provincia potrà
aggiornare e integrare tale individuazione con successivi atti, in relazione
a quanto previsto al successivo punto 20.
individuazione degli
elementi che
costituiscono le RE
2.(D)
La rete ecologica di livello provinciale è strutturata nei seguenti elementi
funzionali esistenti o di nuova previsione, come definiti all’art. 1.5 alla
voce “rete ecologica” (v): nodi ecologici semplici, nodi ecologici
complessi, zone di rispetto dei nodi ecologici, corridoi ecologici,
direzioni di collegamento ecologico, connettivo ecologico di particolare
interesse naturalistico e paesaggistico, connettivo ecologico diffuso,
connettivo ecologico diffuso periurbano, area di potenziamento della rete
ecologica di area vasta, varchi ecologici.
3.(D)
La rete ecologica di livello provinciale individuata nella tav. 5 costituisce
il riferimento per la definizione e lo sviluppo di reti ecologiche di livello
locale. La pianificazione di settore della Provincia e i piani generali e
settoriali di livello comunale devono risultare coerenti con le medesime
sulla base delle disposizioni seguenti.
4.(D)
Il PTCP contiene nell’Allegato 1 della Relazione, le Linee guida per la
progettazione e realizzazione delle reti ecologiche. La Provincia si
riserva di emanare successive direttive relative a tale argomento, quali
integrazioni e aggiornamenti in merito, senza che ciò comporti procedura
di variante al PTCP stesso.
5.(D)
Fra gli elementi funzionali che compongono la rete ecologica di livello
provinciale si assumono come elementi caratterizzati da specifica
rilevanza normativa i siti della Rete Natura 2000 di cui al successivo art.
3.7, nonché le aree protette di cui al successivo art. 3.8.
rapporto tra RE,
Rete Natura 2000 e
aree protette
6.(I)
La Provincia assume gli elementi della rete ecologica come aree
preferenziali ai sensi del Piano Regionale di Sviluppo Rurale per
orientare contributi e finanziamenti derivanti dalla normativa europea,
nazionale e regionale di settore, in riferimento alle funzioni
amministrative trasferite e delegate di competenza.
rapporto tra RE e
PRSP
rapporto tra RE di
livello provinciale e
RE di livello locale
Giuseppe De Togni
127
7.(I)
La Provincia promuove programmi e progetti specifici per la
realizzazione e valorizzazione degli elementi della rete ecologica da
attuarsi in collaborazione con le amministrazioni comunali e/o gli altri
soggetti interessati.
la realizzazione delle
RE: ruolo della
Provincia
8.(D)
I Nodi ecologici complessi, con le eventuali Zone di rispetto, individuano
porzioni di territorio caratterizzate da habitat e/o specie animali e
vegetali rari o minacciati e contribuiscono all’articolaz ione del
paesaggio; la finalità di tali zone è la conservazione e valorizzazione
della biodiversità presente e potenziale, nel rispetto delle disposizioni
contenute agli artt. 3.7, 3.8, 7.3, 7.4, 7.5 del presente piano.
gli elementi che
compongono la RE:
obiettivi specifici
9.(D)
Nelle Zone di rispetto dei nodi ecologici le attività agricole devono essere
compatibili con la salvaguardia degli ecosistemi e qualsiasi altra attività
e/o uso del suolo non deve risultare impattante nei confronti degli stessi
ecosistemi naturali o semi-naturali presenti nei nodi. Per tali zone gli
strumenti di programmazione agricola dovranno altresì incentivare gli
interventi e le forme di conduzione agricola che possono contribuire a
salvaguardare e a valorizzare gli elementi di importanza naturalistica
presenti. L’individuazione delle Zone di rispetto dei nodi semplici è
demandata al PSC nell’ambito della definizione della rete ecologica di
livello locale di cui al successivo art. 3.6.
10.(D) Quando i Corridoi ecologici corrispondono ai corsi d’acqua (intesi come
alveo, fascia di tutela e/o fascia di pertinenza), nel rispetto delle
disposizioni di cui al successivo Titolo 4, tutti gli interventi di gestione e
di manutenzione ordinari e straordinari che riguarderanno tali ambiti
dovranno essere svolti prestando attenzione al loro ruolo ecologico, in
sinergia con i progetti d’attuazione delle reti ecologiche.
11.(D)
Quando le Direzioni di collegamento ecologico si affiancano a tratti di
viabilità di progetto o esistente, questi tratti devono essere realizzati con
le caratteristiche di corridoi infrastrutturali verdi, realizzando cioè fasce
laterali di vegetazione di ampiezza adeguata caratterizzate da continuità e
ricchezza biologica. In linea generale la fascia di ambientazione prevista
per le infrastrutture del sistema di mobilità, di cui all’art. 12.11, dovrà
essere realizzata in modo da contribuire, ovunque possibile, al
rafforzamento e all’incremento della rete ecologica.
12.(D) Le aree individuate come Connettivo ecologico di particolare interesse
naturalistico e paesaggistico, insieme ai principali corsi d’acqua,
dovranno garantire in maniera preminente la funzione di connessione tra i
nodi ecologici complessi propri del territorio collinare e montano.
13.(D) Nelle aree individuate come Connettivo ecologico diffuso dovrà essere
favorita, soprattutto attraverso interventi gestionali, la creazione di
corridoi ecologici a completamento delle connessioni individuate nelle
aree di Connettivo ecologico di particolare interesse naturalistico e
paesaggistico.
14.(D) Nelle aree individuate come Connettivo ecologico diffuso periurbano, per
garantire la funzione di connessione ecologica, si dovranno realizzare
nodi e corridoi di estensione limitata, ma maggiormente diffusi,
perseguendo contemporaneamente l’obiettivo di qualificare il territorio
agricolo e di costituire un filtro fra i limiti della città e la campagna.
15.(D) Nell’Area di potenziamento della rete ecologica di area vasta, l’obiettivo
di lungo periodo è quello di promuovere la realizzazione di nuovi nodi.
Nel breve periodo l’obiettivo è quello di sviluppare azioni di
128
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
riqualificazione e potenziamento della funzione di corridoio ecologico
svolta dai corsi d’acqua esistenti e di ricreare comunque una maggiore
connessione tra gli elementi del reticolo, utilizzando in particolare gli
elementi residui della centuriazione.
16.(D)
Gli accordi territoriali per l’attuazione degli ambiti produttivi di rilievo
sovra-comunale e dei poli funzionali, di cui al Titolo 9, devono
considerare le interazioni effettive o potenziali con la struttura della rete
ecologica di livello provinciale, ovvero di livello locale se già
individuata, e le sinergie realizzabili con la sua implementazione. A tale
fine, nell’elaborazione di tali accordi, relativament e alla zona interessata
dall’intervento e ad un adeguato intorno, dovrà essere predisposta
un’analisi ecologica secondo quanto contenuto nelle Linee guida di cui
all’Allegato 1 della Relazione. In tali casi la realizzazione della rete
ecologica dovrà considerarsi come prestazione richiesta al programma
degli interventi e gli elementi funzionali realizzati saranno considerati
dotazioni ecologiche dell’insediamento ai sensi dell’art. A -25 LR
20/2000.
rapporto tra RE e
ambiti produttivi
17.(D)
Nei centri abitati ricadenti nelle Unità di paesaggio della pianura, le
eventuali previsioni di ambiti di nuovo insediamento vanno correlate con
la realizzazione o il potenziamento degli elementi funzionali della rete
ecologica di livello locale, quali forme di compensazione ambientale.
Tali elementi funzionali, se interessanti direttamente l’ambito di nuovo
insediamento, dovranno considerarsi come prestazioni richieste al
progetto e gli elementi funzionali realizzati saranno considerati come
dotazioni ecologiche dell’insediamento ai sensi dell’art. A-25 LR
20/2000.
rapporto tra RE e
centri abitati (UdP
di pianura)
18.(D)
Nelle zone umide di cui alla tav. 1 è vietato di norma qualsiasi intervento
che ne depauperi il grado di naturalità e biodiversità. Gli interventi di
valorizzazione saranno volti a consolidarne e migliorarne la biodiversità
e a favorirne la fruizione a scopo didattico-ricreativo, secondo modalità
non impattanti rispetto agli equilibri ecologici e in coerenza a quanto
previsto nelle Linee guida di cui all’Allegato 1 della Relazione. Eventuali
interventi di parziale modificazione di tali zone sono consentiti per opere
connesse allo svolgimento delle attività produttive a cui le zone umide
sono funzionalmente correlate, ovvero per opere connesse alla loro
conversione e riuso per fini naturalistici, nonché per l’attuazione di
progetti di rilevante interesse pubblico non diversamente localizzabili,
purché si proceda ad adeguati interventi compensativi.
zone umide:
disposizioni
specifiche
19.(D)
La tav. 5 del PTCP contiene l’individuazione preliminare dei punti di
criticità fra sistema insediativo, infrastrutture per la mobilità e rete
ecologica di livello provinciale; queste situazioni devono essere
affrontate in sede di PSC o di elaborazione di specifici pr ogetti di cui al
precedente punto 7 anche attraverso l’applicazione dei contenuti delle
Linee guida di cui all’Allegato 1 della Relazione.
RE e punti di
criticità
20.(D)
Costituiscono verifica, sviluppo e integrazione della rete ecologica di
livello provinciale, di cui alla tav. 5, gli elementi funzionali della rete
ecologica di livello locale individuati conseguentemente agli
approfondimenti conoscitivi operati in attuazione del presente piano ed in
particolare nell’ambito di:
rapporto tra RE di
livello provinciale e
RE di livello locale:
aggiornamenti e
integrazioni
Giuseppe De Togni
-
129
elaborazioni del PSC di cui al successivo art. 3.6,
elaborazioni relative a specifiche parti del territorio comunale di cui
al precedente punto 16,
elaborazioni legate alla realizzazione dei progetti di cui al precedente
punto 7,
specifici studi provinciali redatti nell’ambito de lle funzioni
istituzionali di raccolta, elaborazione ed aggiornamento di dati
conoscitivi ed informazioni relativi al territorio e all’ambiente.
Conseguentemente la Provincia provvederà periodicamente ad aggiornare
le cartografie del PTCP senza che ciò comporti procedura di variante.
Art. 3.6 - La rete ecologica di livello locale
1.(D)
I Comuni, anche in forma associata, in sede di elaborazione del PSC,
individuano la rete ecologica locale sulla base delle Linee guida di cui
all’Allegato 1 della Relazione.
RE locali: ruolo dei
Comuni
2.(D)
Nell’elaborare il progetto della rete ecologica di livello locale i Comuni si
attengono alle seguenti direttive:
gli elementi che
compongono la RE:
disposizioni
specifiche
a)
i Nodi ecologici complessi, identificati nella cartografia di PTCP,
qualora non siano tra quelli indicati ai successivi artt. 3.7 e 3.8,
possono eventualmente essere modificati al fine di escluderne le
aree aventi destinazioni d’uso non compatibili e di specificarne
l’articolazione morfologica, funzionale ed ambientale; le aree
escluse saranno comunque da individuare come Zone di rispetto dei
nodi ecologici. Ulteriori e limitate modifiche possono essere
consentite solo per l’attuazione di progetti di rilevante interes se
pubblico, non diversamente localizzabili e purché si proceda ad
adeguati interventi compensativi.
b)
I Nodi ecologici semplici, identificati nella cartografia di PTCP,
qualora non siano tra quelli indicati ai successivi artt. 3.7 e 3.8,
possono essere modificati a condizione che tali modifiche vengano
compensate con la creazione di altri elementi areali di valore
naturale o semi-naturale, e che venga garantita la funzionalità della
rete.
c)
I Comuni provvedono all’individuazione delle Zone di rispetto dei
nodi ecologici semplici; relativamente alle Zone di rispetto dei nodi
complessi gli stessi faranno riferimento alle perimetrazioni
individuate nella tav. 5 del PTCP, che potranno essere
motivatamente precisate al fine di escludere eventuali usi esistenti
non compatibili con le finalità della zona ed eventualmente per la
previsione di opere non diversamente localizzabili, o opere
finalizzate al rilevante interesse pubblico per il miglioramento della
fruibilità e alla valorizzazione ambientale, da individuare in
sostanziale contiguità con il territorio urbanizzato e purché si
proceda ad adeguati interventi compensativi.
d)
I Corridoi ecologici, identificati nella cartografia di PTCP, possono
essere oggetto di specificazioni al fine di ripristinare e potenziare le
loro caratteristiche e funzioni di corridoio, approfondendone
l’articolazione morfologica, funzionale ed ambientale. Ulteriori e
limitate modifiche possono essere consentite solo per l’attuazione di
progetti di rilevante interesse pubblico, non diversamente
130
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
localizzabili e
compensativi.
3.(D)
purché
si
proceda
ad
adeguati
interventi
e)
Le Direzioni di collegamento ecologico, identificate nella
cartografia di PTCP, hanno valore di indicazione prestazionale e
devono trovare una precisa individuazione fisica nella definizione
delle reti ecologiche di livello locale. In tale sede i Comuni
sostituiscono alle direzioni di collegamento specifici elementi della
rete ecologica (esistenti e/o di progetto) anche con diversa
dislocazione, purché sia garantita la necessaria conness ione tra gli
elementi funzionali interessati dalla direzione di collegamento.
f)
Una particolare attenzione dovrà essere rivolta all’individuazione, al
mantenimento e al miglioramento di elementi naturali e seminaturali in grado di garantire continuità ecologica tra il tessuto
insediativo e il territorio rurale, in conformità con quanto disposto in
tema di dotazioni ecologiche dal punto 4 dell’art. 13.1 ed in
coerenza con le finalità dell’ambito agricolo periurbano,
eventualmente individuato, di cui all’art. 11.10 delle presenti norme.
RE e rapporto tra
urbano e territorio
rurale
g)
Il PSC verifica, specifica e integra l’individuazione e la
perimetrazione delle zone umide, cartografate nella tav. 1 del PTCP,
ai fini della predisposizione della rete ecologica di livello locale,
senza che ciò comporti procedura di variante al PTCP, e individua
le forme di tutela e valorizzazione più idonee in relazione alle
diverse tipologie riconosciute in coerenza con quanto indicato al
punto 18 dell’art. 3.5.
zone umide:
disposizioni
specifiche
h)
Nel progetto della rete ecologica di livello locale il Comune
recepisce inoltre, quali elementi funzionali, le eventuali ulteriori
aree interessate da disposizioni di cui all’art. 3.7, che non risultino
comprese nel progetto di rete ecologica di livello provinciale di cui
alla tav. 5;
RE, pSIc e ZPS:
aggiornamenti
i)
Il PSC può modificare l’assetto della rete ecologica di livello
provinciale, anche individuando nuovi nodi e corridoi, in base a
quanto stabilito dai punti precedenti e sulla base delle Linee guida di
cui all’Allegato 1 alla Relazione.
j)
Gli elementi della rete che interessano più comuni possono essere
modificati solo attraverso accordi che coinvolgano tutti i comuni
interessati.
rapporto tra RE di
livello provinciale e
RE di livello locale
modifiche e
integrazioni
Gli strumenti di pianificazione urbanistica comunale definiscono gli usi e
le trasformazioni consentite nelle aree identificate come elementi
funzionali della rete ecologica, in coerenza con:
- le finalità e le disposizioni di cui agli artt. 3.3, 3.4 e 3.5;
- le caratteristiche, esistenti o potenziali, di ciascuna tipologia di
elemento funzionale ai fini della realizzazione e mantenimento della
rete ecologica;
- le Linee guida di cui all’Allegato 1 alla Relazione;
nonché nel rispetto delle altre disposizioni del presente piano per le
medesime parti di territorio.
RE: usi e
trasformazioni
consentiti
Giuseppe De Togni
4.(I)
In generale negli elementi funzionali della rete ecologica sono ammesse
tutte le funzioni e le azioni che concorrono al miglioramento della
funzionalità ecologica degli habitat, alla promozione della fruizione per
attività ricreative e sportive all’aria aperta compatibili con gli obiettivi di
tutela e potenziamento della biodiversità, allo sviluppo di attività
economiche ecocompatibili. Di norma non è consentita la nuova
edificazione, né l’impermeabilizzazione dei suoli se non in quanto
funzionali a progetti di valorizzazione ambientale ed alla sicurezza. Il
PSC, per determinate zone, può demandare al POC o ai PUA i necessari
approfondimenti progettuali e la definizione di dettaglio delle aree
interessate dagli elementi funzionali della rete ecologica.
5.(I)
Il RUE, ovvero un eventuale specifico Regolamento comunale del verde,
disciplina le modalità di realizzazione e gestione degli elementi della rete
ecologica in modo da favorire il miglioramento della qualità ecologica
complessiva, la costruzione di ambienti in grado di assolvere anche la
funzione di nodo o di connessione ecologica e da garantire la
conservazione e l’impiego di specie vegetali autoctone come specificato
nelle Linee guida di cui all’Allegato 1 della Relazione.
131
RE e RUE:
indicazioni
realizzative e
gestionali
Queste norme rappresentano un momento di sintesi del lavoro e delle specifiche esperienze
maturate nel corso di alcuni anni da parte del Servizio Pianificazione Paesistica.
L'attività è infatti iniziata con la predisposizione del "Piano programmatico per la conservazione
e il miglioramento degli spazi naturali della Provincia di Bologna", approvato all'unanimità dal
Consiglio Provinciale nel 2000, che si sostanziava in un piano di RE da attuarsi a due livelli, tra
loro complementari: il livello provinciale e quello locale (sostanzialment e comunale).
La necessità di sviluppare una progettualità articolata sui due livelli provinciale e locale è
maturata a seguito di due esperienze "pilota" nel frattempo portate a termine con alcuni Comuni
particolarmente sensibili a queste tematiche. La prima è un piano di RE di livello comunale,
predisposto con e per il Comune di Bentivoglio, che lo ha poi inserito nel PRG allora in corso di
revisione e che sta oggi procedendo alla sua realizzazione; la seconda è un piano di RE di livello
sovracomunale, predisposto per i 5 Comuni del Persicetano (Crevalcore, San Giovanni in Persiceto,
Sant'Agata Bolognese, Sala Bolognese e Calderara di Reno) con la partecipazione anche della
Regione Emilia-Romagna, concluso dopo 3 anni di monitoraggi naturalistici sui principali elementi
di importanza naturalistica individuati sui territori in oggetto. Quest'ultima costituisce per noi
un'esperienza in qualche modo unica, di particolare eccellenza per i notevoli approfondimenti
scientifici effettuati e rappresenta un'occasione di verifica di una metodologia, poi in parte
semplificata, con cui si è proceduto nei casi successivi.
E' importante sottolineare come questi studi per il Persicetano sono poi scaturiti in un Accordo
di Programma tra i Comuni stessi e la Provincia, a seguito del quale, con la messa a disposizione di
una cifra superiore a 300.000 Euro, si sta oggi procedendo alla realizzazione di alcuni tratti della
RE individuata.
Nel frattempo, grazie alle esperienze maturate, la Provincia di Bologna ha partecipato al
progetto LIFE ECOnet, di 4 anni, conclusosi lo scorso agosto 2003, che ha avuto il preciso
obiettivo di sperimentare la sostenibilità dello sviluppo attraverso la realizzazione delle RE. In
questo progetto, che ha coinvolto partner inglesi, olandesi ed italiani, in differenti contesti
territoriali si sono perseguiti 5 obiettivi operativi tra loro integrati:
1. gestire i dati ambientali attraverso un sistema informatico geografico (GIS);
2. inserire le RE negli strumenti di pianificazione;
132
Reti ecologiche e pianificazione urbanistica: aspetti tecnici e amministrativi
3. gestire il territorio in modo integrato con la conservazione della biodiversità;
4. coinvolgere tutti i soggetti interessati;
5. sensibilizzare ed informare la collettività.
Tra le varie attività seguite dal Servizio Pianificazione Paesistica nel corso di questo progetto
LIFE, si mettono in evidenza:
- la predisposizione di una banca dati floro-faunistica;
- la verifica della biodiversità presente in tre differenti realtà territoriali, con articolazione
paesaggistica crescente;
- l'individuazione di una rete ecologica per il territorio del Pers icetano in maniera da
assicurare la presenza di popolazioni stabili di specie target nei tre principali habitat
individuati (praterie, zone umide e boschi);
- la verifica della precedente rete ecologica già predisposta per il Persicetano con la rete di cui
al punto precedente e l'individuazione di 3 scenari di riferimento (per implementare una
strategia soprattutto di tipo comunicativo per la diffusione delle conclusioni raggiunte in
particolare ad uso di un pubblico di amministratori oltre che di normali cit tadini).
Oggi il Servizio Pianificazione Paesistica si trova quotidianamente impegnato nell'attività di
gestione del PTCP per quanto attiene alle questioni di tutela della biodiversità. Si tratta di
un'attività particolarmente complessa e coinvolgente, dal momento che siamo chiamati ad
esprimerci e a intervenire su numerosi fronti, che qui, a puro titolo di esempio, mi limito ad
enumerare, senza uno specifico ordine d'importanza:
- definizione di piani di RE di livello locale con i comuni che ne sono sprovvisti (sia nei
territori di pianura, sui quali si è concentrata, per ovvi motivi, finora, la nostra attenzione,
sia in quelli collinari e montani);
- implementazione dei piani suddetti attraverso l'individuazione e la realizzazione concreta di
pezzi della RE (attività estremamente complessa che solleva questioni di metodo, passando
dal livello pianificatorio a quello progettuale-esecutivo; ma anche questioni legate ai
rapporti con gli amministratori locali, col mondo agricolo – associazioni di categoria e
singoli proprietari -, coi consorzi di bonifica, coi servizi tecnici regionali, con altri servizi
provinciali, con la Regione… ma anche con l'opinione pubblica comune dei cittadini; e
quindi il tema della divulgazione delle ragioni che stanno dietro alla realiz zazione delle RE
e alla conservazione della biodiversità; alla presentazione e implementazione della Rete
Natura 2000, della gestione di pSIC e ZPS, con relative valutazioni di incidenza e coerenza;
ma anche il problema del reperimento dei finanziamenti per la realizzazione e la successiva
gestione nel tempo delle realizzazioni);
- collaborazione con l'attività di altri servizi e settori della provincia chiamati ad intervenire
sul territorio (in particolare la Pianificazione Territoriale che promuove anche ac cordi di
programma e attività di specifica pianificazione a livello comunale) o deputati all'attività di
VIA di progetti di vario genere e natura;
- collaborazione con l'Autorità di Bacino del Reno e il Servizio Tecnico Bacino Reno per la
progettazione di casse d'espansione con specifiche finalità naturalistiche.
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 133-148
STRUTTURE DI INFORMAZIONE GEOSPAZIALE E PROCESSI DI
CONOSCENZA PER L’IDENTIFICAZIONE DELLA CONNETTIVITÀ
ECOSISTEMICA POTENZIALE
Andrea FIDUCCIA (*), Luciano FONTI (*), Marina FUNARO (*), Lucilia GREGORI (**), Silvia
RAPICETTA (**), Stefano RENIERO (***)
(*) Master in Sistemi Informativi Geografici applicati alla Pianificazione del Territorio Urbano e
Rurale – GIS SCHOOL Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, C/O INTERGRAPH Italia
LLC, via V. G. Galati, 91 - 00156 Roma,
[email protected]; [email protected]; [email protected] ;
(**) Dipartimento di Scienze della Terra - Università degli Studi di Perugia, Via Z.Faina 4 – 06100
Perugia
[email protected]; [email protected]
(***) Dipartimento territorio e Sistemi Agro-Forestali - Università degli Studi di Padova, Agripolis
Viale dell’Università, 16 – 35020 Legnaro (PD)
[email protected]
134
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
PREMESSA
Il paesaggio della pianura padana è caratterizzato da vaste zone agricole, coltivate in modo
intensivo e soggette ad un disturbo ciclico più o meno intenso, e da centri abitati, che negli ultimi
decenni si sono espansi secondo un modello di diffusione policentrico. Ne è un esempio il modello
policentrico veneto che è caratterizzato dalla distribuzione sull’area regionale di molti centri
funzionalmente importanti e di pari livello al posto di uno o pochi siti accentratori dei principali
servizi.
Le conseguenze principali di questa tipologia di crescita urbanistica sono state la progressiva
anastomosi tra i centri urbani e lo sviluppo delle città lungo gli assi viari principali con l’effetto di
inglobare la campagna e gli ecosistemi naturali. L’attività antropica legata allo sviluppo urbano,
allo sfruttamento delle campagne e all’espansione delle reti infrastrutturali di trasporto, ha portato
ad una riduzione degli habitat naturali ed al loro progressivo isolamento con negative influenze
sulla biodiversità e sui processi di successione ecologica.
In particolare il consumo di spazi naturali, per far luogo a colture o a nuovi sistemi urbani o a
infrastrutture, e i cambiamenti ambientali, che vengono dallo sviluppo industriale e dalla diffusione
di tecnologie ad elevato impatto, rappresentano i fattori principali del progressivo depauperamento
della biodiversità.
La biodiversità presente sul territorio può essere colta, o definita, almeno a tre diverse scale o
livelli: a livello di individui o popolazioni, a livello di specie ed infine a livello di ecosi stema che è
espressione del fatto che ogni sito del pianeta, rappresenta un ambiente del tutto peculiare, a causa
della pressoché infinita varietà delle possibili interazioni tra i fattori ecologici della lito - idro- e
atmosfera, e ospita una sua propria comunità di organismi, che è probabilmente unica in quanto a
composizione, a numero di specie e a tipi di interazione tra di esse.
La diversità biologica a livello ecosistemico pone in evidenza il fatto che la tutela della
biodiversità genetica e specifica si può perseguire con la massima efficacia attraverso la
conservazione della variabilità di ambienti, pianificata, organizzata e gestita alle scale più
opportune.
La tutela più efficace della biodiversità si attua, probabilmente, a scala d’ecosistema
preservando la diversità degli ambienti sul territorio. Le misure di protezione degli ambienti
naturali, concretizzate attraverso l’istituzione di aree protette, sono sembrate in un primo tempo la
migliore strategia per la conservazione della biodiversità.
Tuttavia le riserve biogenetiche, non possono rappresentare delle aree isolate in un contesto
fortemente antropizzato e degradato ma devono, per contro, essere collegate da un sistema
reticolare in grado di consentire gli scambi genetici tra una riserva e l’al tra.
L’acquisizione di questa consapevolezza ha portato ad un “approccio globale alla conservazione
che ha prodotto programmi ed iniziative, a livello internazionale ed europeo, che hanno sempre più
utilizzato prospettive di integrazione tra le singole azioni di conservazione all’interno di un quadro
di sinergie e coerenze riassumibile nel concetto di rete ecologica” (APAT, 2003).
Le reti ecologiche hanno come "cardine" l’idea di costituire una rete continua di unità
ecosistemiche naturali o para-naturali in grado di svolgere i ruoli funzionali necessari ad un sistema
complesso quale passo indispensabile per creare quella continuità degli habitat, che è la condizione
fondamentale per garantire la permanenza delle specie sul territorio.
In tale prospettiva si collocano, tra l’altro, diverse iniziative che hanno portato
all’individuazione della rete ecologica pan-europea “Natura 2000” quale strumento per la
conservazione della varietà di paesaggi, habitat, ecosistemi e specie di rielvanza europea.
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
135
SCALA ED AREA DI INDAGINE DEI FENOMENI ECOLOGICI
La scelta della scala di indagine, cioè il livello risolutivo con il quale il fenomeno viene
indagato (Delcourt et. al, 1983 in Farina, 2001), è uno dei problemi centrali in ecologia in quanto
gli obiettivi di conservazione della rete ecologica si sviluppano su differenti scale la cui scelta
rappresenta uno dei passaggi fondamentali per la comprensione dei fenomeni condizionando i
risultati dello studio (Turner, 1998).
Due aspetti importanti legati al concetto di scala sono la grana (grain) e l’estensione. La grana
rappresenta la risoluzione spaziale di uno studio, che si riferisce all’abilità di distinguere e
differenziare i vari elementi spaziali. Questo concetto è in relazione con il “contrasto”, che, per
esempio, in una fotografia dipende dall’ammontare delle differenze esistenti tra elementi adiacenti
e dalla rugosità dei loro margini (Forman, 1995).
La minore dimensione della grana (fine grain) consente una maggiore risoluzione degli elementi
del paesaggio, al contrario, con l’aumento della dimensione della grana (coarse grain) la
risoluzione risulta più grossolana e i componenti di dimensioni inferiori possono sfuggire
all’indagine oppure essere sottovalutati (Turner, 1998). Questo concetto è descritto in Figura 1.
Figura 1 – L’aumento della dimensione della grana ha come conseguenza una risoluzione più
grossolana (da Turner 1998, modif.).
L’estensione identifica invece le dimensioni dell’area analizzata per studiare il proce sso di
interesse (Figura 2).
Figura 2 – Valori crescenti di estensione dell’area di indagine (da Turner 1998, modif.).
136
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
La scelta della grana e dell’estensione risulta chiaramente condizionata dal livello a cui l’analisi
deve essere svolta. Quindi i concetti di estensione e grana (risoluzione) sono collegati tra loro, in
quanto ampliando il contesto geografico ci si sposta verso un livello gerarchico superiore, inteso
come sistema caratterizzato da un funzionamento proprio (Farina, 2001).
Lo studio dei processi ecologici necessita pertanto di essere orientato a differenti scale spazio temporali, nel tentativo di valutarne pienamente l’evoluzione ai diversi livelli di organizzazione
gerarchica.
Nel definire l’area di indagine alcuni Autori (Ingegnoli, 1993; Gibelli, 1997), rilevano
l’esigenza di fare riferimento a tre livelli gerarchici, che rappresentano altrettanti livelli di
interazione tra gli elementi del paesaggio. L’articolazione dell’analisi paesaggistica su t re livelli
rispecchia l’organizzazione gerarchica dei sistemi ambientali secondo il modello proposto da Allen
& Star (1982) per i quali ogni sistema è composto da un insieme di sotto-sistemi ed è esso stesso
componente di un sistema superiore.
LA STRUTTURA DELLA RETE
Secondo le recenti schematizzazioni operate dal Servizio Conservazione della Natura del
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (APAT , 2003) e sulla base dei criteri adottati
convenzionalmente dalla Pan European Strategy for Conservation of Landscape and Biodiversity e
dalla Pan-European Ecological Network, una rete ecologica viene individuata tramite i suoi
elementi costitutivi: le aree centrali, le zone cuscinetto, i corridoi ecologici, i nodi, le pietre da
guado e le aree di restauro ambientale.
Di seguito si riporta in modo sintetico la definizione degli elementi della rete ecologica proposta
recentemente dall’APAT (2003):
- Aree centrali (Core Areas): coincidono con aree già sottoposte o da sottoporre a tutela, ove
sono presenti biotopi, habitat naturali e seminaturali, ecosistemi di terra e di mare che si
caratterizzano per l’alto contenuto in naturalità. Tali aree possiedono un valore ecologico
elevato e sono importanti dal punto di vista storico, scenico, artistico;
- Zone cuscinetto (Buffer zones) rappresentano le zone contigue e le fasce di rispetto adiacenti
alle aree centrali. L’estensione di queste fasce di transizione, tra l’area nucleo e il territorio
circostante, varia da zona a zona secondo la delicatezza dell’area nucleo e le caratteristiche
della matrice territoriale che la circonda. Dal punto di vista funzionale il loro ruolo è quello
di preservare l’integrità ambientale dell’area nucleo o del corridoio ecologico;
- Corridoi ecologici (Wildlife ecological corridors): sono strutture del paesaggio preposte al
mantenimento ed al recupero delle connessioni tra ecosistemi e biotopi. I corridoi sono
finalizzati a supportare lo stato ottimale della conservazione delle specie e degli habitat
presenti nelle aree ad alto valore naturalistico, favorendone la dispersione e garantendo lo
svolgersi delle relazioni dinamiche. La loro presenza consente di superare le discontinuità o
quanto meno di mitigare “l’effetto barriera” tra le diverse zone in cui risiedono le sub popolazioni di una specie. I corridoi ecologici possono anche essere concepiti come aree di
riposo (stepping stones) le quali mantengono una continuità funzionale fra le aree nucleo
senza la necessità di una continuità strutturale. I corridoi rappresentano l’elemento chiave
delle reti ecologiche, poiché consentono la migrazione delle specie, all’interno e tra le aree
nucleo presenti in un territorio o, più in generale, tra aree di origine (source) e di
assorbimento (sink). Inoltre, i corridoi rendono possibile la colonizzazione di aree relitte
marginali, altrimenti isolate. Il ruolo che i corridoi ecologici esplicano all’interno di un
paesaggio, è rappresentato da una serie di funzioni che sono state inquadrate da Forman
(1995) in cinque principali categorie: habitat, origine (source), assorbimento (sink),
trasporto (conduit), barriera/filtro (bareer/filter).
- Pietre da guado (Stepping stones): rappresentano delle aree naturali minori dove gli
organismi sostano e si rifugiano in modo temporaneo durante i loro spostamenti lungo delle
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
-
-
137
ideali linee di passaggio. Tali elementi, nonostante le ridotte dimensioni, possono dare un
contributo significativo alla dispersione degli organismi, tuttavia è indispensabile che la
matrice coircostante non abbia caratteristiche di barriera invalica bile. Per specie poco
sensibili alla frammentazione, all’isolamento, alla qualità dell’habitat le pietre di guado
possono essere rappresentate anche da habitat di origine antropica (rimboschimenti, zone
umide artificiali, ecc.);
Aree di restauro ambientale (Restoration areas): rappresentano delle unità para-naturali,
non esistenti nel momento della realizzazione del piano o del progetto, ricavate da interventi
di rinaturalizzazione con lo scopo di completare le lacune strutturali della rete ecologica e
garantirne la funzionalità;
Nodi (Key areas): si caratterizzano come luoghi complessi di interrelazione, al cui interno si
confrontano le zone, centrali e di filtro, con i corridoi e i sistemi di servizi territoriali con
essi connessi. I Parchi per le loro caratteristiche territoriali e funzionali si pongono come
nodi potenziali del sistema. In proposito è interessante la distinzione fatta dagli estensori del
P.T.C.P. della Provincia di Bologna che distinguono i nodi in nodi ecologici complessi, nodi
ecologici semplici e zone di rispetto dei nodi ecologici: i nodi complessi coincidono con le
key areas secondo la terminologia convenzionalmente definita dal Servizio Conservazione
della Natura.
CRITERI PER
ECOLOGICA
LA
DEFINIZIONE
DEGLI
ELEMENTI
DELLA
RETE
L’individuazione degli elementi della rete sul territorio è possibile attraverso l’applicazione di
criteri di ordine paesaggistico/strutturale e di ordine biologico (specie-popolazione)/funzionale.
L’approccio paesaggistico/strutturale prevede l’individuazione sul territorio delle realtà
ambientali che, per la loro conformazione strutturale e spaziale, possono assumere il ruolo di
elementi della rete ecologica potenziale. Questo approccio riveste un particolare valore in quanto è
indubbia l’influenza delle relazioni spaziali tra gli elementi del paesaggio sui flussi di materia ed
energia. Tuttavia la connettività di un sistema risulta determinata, oltre che da parametri strutturali,
anche da una funzionalità eto-ecologica e specie-specifica.
Le differenze comportamentali delle diverse specie rendono quindi necessario un approccio
biologico/funzionale allo sviluppo della rete ecologica potenziale. Ciò nonostante non è possibile
ipotizzare la modulazione della tutela e degli usi del territorio sulle dinamiche proprie d i ogni
specie. Emerge perciò la necessità di identificare alcune specie prioritarie (specie target) per potere
indirizzare gli interventi sugli elementi di maggiore rischio ed ottimizzare l’impiego delle risorse
disponibili (Boitani, 2000).
In altre parole, la rete ecologica potenziale, al fine di garantire la conservazione della
biodiversità sul lungo periodo, deve risultare dall’inviluppo delle numerose reti specie -specifiche
plasmate sulle particolari necessità delle diverse specie individuate come targe t di riferimento.
Criteri per la selezione delle specie focali
La scelta delle specie focali (specie target) innanzitutto dovrebbe essere fatta in relazione alle
diverse categorie ambientali presenti nell’area di indagine. Inoltre le specie dovrebbero interessare
scale diverse, così da essere rappresentative di un gruppo di specie in grado di assolvere funzioni
ecologiche differenti.
La scelta può essere fatta secondo diversi criteri, tra cui i principali sono quelli
conservazionistico, biogeografico, ecologico e gestionale.
Reggiani et al. (2000) propongono di individuare le specie target facendo riferimento alle
caratteristiche delle singole specie e distinguendo, così, specie chiave, indicatrici, ombrello e
bandiera. Gli Autori definiscono:
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
138
-
-
-
Specie chiave (keistone species) le specie che sono particolarmente adatte a rientrare nelle
strategie di conservazione in quanto svolgono una funzione determinante all’interno
dell’ecosistema, influenzano profondamente le relazioni trofiche, la struttura delle
comunità, la successione ecologica, i fattori ciclici di disturbo, la presenza e l’abbondanza
di altre specie ecc.;
Specie indicatrici (indicator species) quelle che indicano determinate condizioni essendo
legate a particolari stadi serali, a specifici substrati o comunità biotiche o, al contrario
diffuse in situazioni disturbate;
Specie ombrello (umbrella species) quelle che richiedono ampi spazi inalterati e la loro
salvaguardia implica la tutela di molte altre specie;
Specie bandiera (flagship species) le specie che suscitano nell’uomo forti risposte emotive e
possono essere impiegate per sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica.
INDIVIDUAZIONE DELLA RETE ECOLOGICA
Il metodo qui proposto è un metodo razionale ed esplicito nel pieno rispetto delle caratter istiche
di una procedura scientifica. Tale metodo, nei suoi aspetti scientifici ed operativi, risponde ad
un’esigenza di oggettività e tracciabilità dei risultati che è decisamente auspicabile nei processi di
pianificazione ambientale vista la necessità di trasformare elaborazioni tecnico-scientifiche in
strumenti di supporto alle scelte programmatiche comprensibili sia a livello politico che della
collettività.
Va segnalato che il metodo è finalizzato ad un individuazione approssimata del reticolo
ecologico. Tale reticolo “potenziale” sarà poi approfondito a livello progettuale (scala 1: 5.000 o 1:
2.000) con le tecniche più tradizionali dopo l’opportuna fase di concertazione in sede politica.
La sperimentazione presentata in questo paper è stata mirata all ’individuazione della struttura
preliminare del reticolo ecologico di livello regionale (RER Rete Ecologica Regionale) per il
territorio dell’Umbria e si è articolata nell’implementazione, all’interno di un sistema informativo
geografico5, delle seguenti fasi operative:
1. Messa a punto di una cartografia di uso del suolo quanto più dettagliata possibile alla scala
di riferimento (che dovrebbe essere almeno 1: 25.000);
2. Individuazione a priori dei “nodi” o Aree Nucleo del reticolo ecologico e di un insieme di
“vincoli” che sono imposti dalla pianificazione territoriale (ad es. vincolo idrogeologico,
Aree Naturali Protette, vincolo paesaggistico, ecc.);
3. Scelta di un sottoinsieme di specie rappresentative dell’ecosistema studiato (specie focali);
4. Messa a punto di un modello comportamentale del moto degli esemplari delle specie focali
attraverso i vari usi del suolo (modello di impedenza).
5. Realizzazione Modello Digitale del Terreno ottenuto dall’elaborazione delle curve di livello
e del reticolo idrografico.
6. Individuazione dei reticoli potenziali per le specie focali e composizione degli stessi in un
unico reticolo potenziale “pesato”.
5
La piattaforma GIS adottata nella sperimentazione è il software GeoMedia Professional con il modulo
GeoMedia Grid della Intergraph Corp. operativo presso il Laboratorio del Master in Sistemi Informativi
Geografici applicati alla Pianificazione e alla Progettazione del Territorio Urbano e Rurale della Facoltà di
Architettura “Valle Giulia” dell'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" (GIS School - DPTU) diretto
dal Prof. Calogero Muscarà. La sperimentazione della procedura di individuazione della RER Umbria è stata
realizzata nella Tesi di Master della dott.ssa Marina Funaro, mentre il modello del rischio incendi è stato
messo a punto nella Tesi di Master della dott.ssa Libera Caldiraro. Ambedue le tesi, discusse nell’a.a. 2002 2003, sono state coordinate da un team interdisciplinare di docenti (Relatore: Prof. L. Fonti, Correlatore
interno: Prof. A. Fiduccia, Correlatori esterni: Prof.ssa L. Gregori e Prof.ssa S. Rapicetta).
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
139
Dal punto di vista operativo la tecnica di individuazione delle reti ecologiche trova nei Sistemi
GIS (Geographical Information Systems) lo strumento più idoneo di implementazione in quanto il
calcolo e la quali-quantificazione della frammentazione e l'individuazione delle connettività
degli ecosistemi implicano la gestione di una grossa mole dati territoriali precisi quanto a
localizzazione (georeferenziati) ed aggiornati.
Il problema della individuazione della direttrice di un canale naturale o seminaturale tra
due aree nucleo è stato affrontato con la tecnica di analisi spaziale GIS nota in letteratura come
path analysis. In questa metodologia il territorio viene schematizzato come una matrice di celle
ognuna delle quali ha un'impedenza (o costo): il cammino minimo ottimo tra la posizione "A" e la
posizione "B" è il percorso sul quale la somma dei valori delle impedenze delle celle ch e lo
costituiscono è minima. Nel caso della connessione tra macchie di habitat il costo è rappresentato
dall'impermeabilità allo spostamento degli animali connessa all'uso del suolo della porzione di
territorio che la cella rappresenta.
L'approccio proposto è quello di combinare per overlay mapping i tematismi - derivati anche da
dati telerilevati - caratterizzanti l'uso del suolo del territorio in esame ottenendo così la matrice di
costo (layer della permeabilità) per la determinazione dei “canali naturali e semi naturali”.
Figura 3 – Algoritmo di Cost Path
La determinazione della matrice di costo è funzione, ovviamente, anche di fattori relazionati alla
tipologia di specie usata come "marcatore" della rete e ciò in almeno due aspetti:
- la risoluzione spaziale delle celle della matrice che deve essere significativa relativamente
alle caratteristiche fisiche della specie focale;
- l’algoritmo specifico di overlay che implementa il modello comportamentale simulato
relativamente al quale viene computata l’impedenza.
Strati informativi utilizzati
Il punto di partenza dell’approccio presentato è, dunque, la predisposizione di una cartografia di
uso del suolo il cui dettaglio deve essere il maggiore possibile in relazione alle dimensioni dell’area
studiata e alle caratteristiche della specie focale. Il requisito ottimale sarebbe quello di poter
disporre di una cartografia vettoriale GIS con un’annessa base dati di esaustiva ricchezza. Ciò, in
generale, è difficile da ottenere. Nella migliore delle ipotesi ci si t rova davanti ad insiemi di strati
informativi eterogenei per qualità dell’informazione e risoluzione spaziale della stessa. Molte
regioni italiane dispongono di Cartografia Tecnica di ottimo livello ma concepita per i sistemi CAD
che implica una complicata fase di importazione all’interno dei sistemi GIS con perdite di
contenuto informativo. Analogo discorso vale per gli Strumenti Urbanistici e Pianificatori alle varie
scale.
La non disponibilità in Italia – salvo rare eccezioni – di una cartografia di uso del suolo
sufficientemente dettagliata rende necessaria una complessa fase di integrazione delle cartografie
140
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
disponibili, a scale eterogenee, presso le Pubbliche Amministrazioni Centrali e Locali con i
conseguenti problemi di generalizzazione del dato geospaziale e delle banche dati, ma con il
vantaggio di esaltare la sussidiarietà tra le PPAA.
Gli strati informativi utilizzati per la realizzazione della RER Umbria sono elencati in tabella 1.
La procedura di realizzazione di uno strato informativo dell’uso del suolo ambientale ha
implicato:
- la riproiezione dei datasets nel sistema di coordinate spaziali adottato dalla Regione Umbria
(Sistema Nazionale Italiano Gauss-Boaga Fuso Est);
- la trasformazione dei datasets con features lineari in datasets con features poligonali
mediante operazioni di bufferizzazione finalizzate ad ottenere una approssimata dimensione
trasversale delle entità rappresentate (larghezza delle strade e dei fiumi) 6;
- procedure di overlay topologico dei datasets e di riclassificazione della b ase dati secondo un
modello di prevalenza finalizzato alla simulazione del comportamento degli animali nel
moto attraverso le diverse patch7.
Si è deciso di unificare in un unico tematismo tutte le tipologie di Aree Naturali Protette (di
livello Comunitario, Nazionale, Provinciale e Regionale) considerando quali nodi della RER i
centroidi baricentrici dei poligoni risultanti, senza per ora effettuare alcuna differenziazione tra le
aree lacustri e non.
Tab.1 - Strati informativi
6
Strato Informativo
Produttore
Sistema di
Coordinate
spaziali
Geografiche WGS
84
UTM ED 50 zona
32
Tipologia features
Grafo stradale
Teleatlas Roadnet
Uso del Suolo
CORINE Land
Cover
Reticolo Idrografico
Carta GeoBotanica
Curve di Livello
Sezioni di
Censimento 19918
Aree Naturali
Protette
Aree Naturali
Teleatlas BV
Gauss Boaga Est
Gauss Boaga Est
Gauss Boaga Est
UTM 32 ED 50
Lineari
Poligonali
Lineari
Poligonali
Regione Umbria
Gauss Boaga Est
Poligonali
Ministero
UTM 32 WGS 84
Poligonali
Unione Europea per
tramite delle
Regioni
Regione Umbria
Regione Umbria
Regione Umbria
ISTAT
Lineari
Poligonali
Ovviamente per quanto riguarda i fiumi, sarebbe più idonea al riguardo, una dettagliata perimetrazione dei
corridoi fluviali e non una semplice ed approssimata bufferizzazione delle features lineari dei fiumi stessi
(Gregori & Rapicetta, 2000)
7
Consideriamo, come esempio, l’intersezione topologica tra il tematismo delle infrastrutture stradali e quello
dell’uso del suolo CORINE Land Cover. Sia una feature poligonale rappresentante un viadotto che si trova
sopra un prato stabile. Mentre l’infrastruttura stradale è una barriera al moto degli animali, il viado tto
rappresenta un punto di attraversamento. Pertanto la funzione di prevalenza riclassifica il viadotto con il
codice del prato stabile in modo tale che l’algoritmo di simulazione possa individuare nel viadotto
un’interruzione dell’effetto barriera dell’i nfrastruttura di trasporto.
8
Lo strato informativo delle Sezioni di Censimento Istat 1991 è stato utilizzato per integrare l’informazione
sulla perimetrazione delle aree urbanizzate disponibile nell’uso del suolo CORINE Land Cover. Infatti il
CORINE Land Cover è una cartografia vettoriale ottenuta per interpretazione di immagini satellitari a media
risoluzione e confidente ad una scala 1: 100.000, mentre le Sezioni di Censimento Istat 1991 sono
digitalizzate a partire da cartografia topografica a scala 1 : 25.000. Il confronto tra le due fonti informative ha
confermato che le features delle classi tematiche Istat relative all’edificato includono le features delle
equivalenti classi tematiche CORINE Land Cover ed individuano, al contempo, un più ampio insieme di
aree urbanizzate rispetto al CORINE Land Cover.
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
Strato Informativo
Protette
Rete Ecologica
Nazionale
Aree a Rischio
Frane e Alluvioni
Produttore
dell’Ambiente
Ministero
dell’Ambiente
AdB Tevere
Sistema di
Coordinate
spaziali
Tipologia features
UTM 32 ED 50
GRID
UTM 33 ED 50
Poligonali
141
Specie focali
Vista la superficie e le caratteristiche geomorfologiche ed ecologiche dell’area di studio, per
l’identificazione della rete ecologica potenziale sono state utilizzate tre specie significative di
mesomammiferi selvatici: Felis s. silvestris, Lepus europaeus e Hystrix cristata9.
Tale scelta è stata determinata considerando le caratteristiche comportamentali del moto delle
stesse, che alla scala di analisi, risultano essere rappresentative della fauna della regione Umbria.
Per ciascuna delle suddette specie quindi, sono state elaborate delle tabelle di impedenza alla
loro dispersione in realzione all’uso del suolo e alle peculiari esigenze ecologiche (altitudine
min/max, ecc.).
Tab.2 - Impedenze
codice
111
112
121
122
123
124
131
132
133
141
142
211
212
213
221
222
223
231
241
242
243
244
9
Classe di Uso del Suolo
Tessuto urbano continuo
Tessuto urbano discontinuo
Aree industriali o commerciali
Reti stradali e ferroviarie e spazi accessori
Aree portuali
Aeroporti
Aree estrattive
Discariche
Cantieri, aree in costruzione
Aree verdi urbane
Aree sportive e ricreative
Seminativi in aree non irrigue
Seminativi in aree irrigue
Risaie
Vigneti
Frutteti e frutti minori
Oliveti
Prati stabili
Colture annuali associate a colture permanenti
Sistemi colturali e particellari complessi
Aree prevalentemente occupate da colture agrarie con presenza di spazi naturali
Aree agroforestali
Lepre Istrice Gatto
100 100 100
90
60
90
95
95
95
95
95
95
100 100 100
30
95
95
100 100 100
100 100 100
100 100 100
95
0
95
50
95
80
50
10
10
40
10
0
0
0
95
50
10
40
40
40
40
0
95
80
80
80
80
80
80
80
La scelta delle suddette specie e l’identificazione delle medesime come specie focali, è stata effettuata
grazie alla segnalazione del Prof. Bernardino Ragni del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Perugia.
142
codice
311
312
313
321
322
323
324
331
332
333
334
335
411
412
421
422
423
511
512
521
522
523
600
700
800
900
Inf_A
Inf_B
Inf_C
Inf_D
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
Classe di Uso del Suolo
Boschi di latifoglie
Boschi di conifere
Boschi misti
Aree a pascolo naturale e praterie d'alta quota
Brughiere e cespuglieti
Aree a vegetazione sclerofila
Aree a vegetazione boschiva e arbustiva in evoluzione
Superfici sabbiose e alvei ghiaiosi
Rocce nude
Aree con vegetazione rada
Aree percorse da incendi
Ghiacciai e nevi perenni
Zone umide interne
Torbiere
Paludi salmastre
Saline
Zone intertidali
Corsi e vie d'acqua
Bacini d'acqua
Lagune
Estuari
Mari e oceani
Aree Naturali Protette
Ferrovie
Fiumi
Laghi
Grande viabilità
Viabilità primaria e di scorrimento
Viabilità secondaria e di connessione
Viabilità locale
Lepre Istrice Gatto
40
0
80
80
40
80
40
0
80
40
10
40
40
10
80
80
40
80
40
40
40
40
90
10
80
80
0
40
40
0
90
90
0
90
90
10
90
90
90
90
40
40
0
90
100
100
100
95
90
80
0
90
100
100
100
95
90
80
0
90
100
100
100
95
90
80
Algoritmo di costruzione del reticolo e simulazione
Gli archi del reticolo ecologico sono stati identificati mediante il calcolo dei percorsi ottimi
delle specie focali modellizzato mediante quella tecnica di analisi spaziale nota come path analisys
implementata discretizzando l’intero territorio con una matrice di celle di risoluzione 100 m
ognuna delle quali ha un’impedenza caratteristica connessa all’uso del suolo, come descritto nel
paragrafo precedente, e alla biodiversità misurata secondo i dati REN validati dal Ministero
dell’Ambiente a livello nazionale (Boitani et al., REN, 2002)10 relativa alla porzione di suolo che la
cella stessa identifica.
Come detto i Nodi della RER sono i centroidi baricentrici delle aree naturali protette. A partire
da essi è stato creato un sistema di origini e di destinazioni per l’areale di presenza della specie
focale relativamente alla quale calcoliamo il reticolo. Le origini sono state scelte una centrale, le
10
La biodiversità è stata considerata come un fattore di “impedenza negativa” utile per compensare il livello
di dettaglio “aprioristico” e “rigidamente modellistico” dell’analisi di uso del suolo. Infatti l’indicatore REN,
pari al numero di specie presenti in una cella di 100 m di lato, è stato sottoposto a validazione con dati
empirici. Tale indicatore è stato, da noi, normalizzato su una scala da 0 a 50.
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
143
altre agli estremi dell’insieme dei nodi (Nord, Sud, Est, Ovest). L’algoritmo di cost path genera dei
grafi ad albero per ogni sottosistema origine-destinazioni o source-sink. Il reticolo somma dei
singoli sottografi garantisce una sufficiente circuitazione.
Figura 4 – Rete Ecologica Regionale della Regione Umbria
Operativamente il calcolo degli archi della RER si è articolato nei seguenti step:
- join tra il tematismo vettoriale dell’uso del suolo ambientale e le tabelle delle impedenze;
- rasterizzazione del tematismo risultante dal passo precedente con risoluzione 100 m;
- calcolo dei reticoli per ogni specie focale,
- somma dei tre reticoli per ottenere un reticolo complessivo con gli archi “pesati” (ogni arco
ha come attributo il numero dei reticoli nei quali è complessivamente presente)
- vettorializzazione del reticolo di sintesi (Figura 4).
Applicazioni “transdisciplinari” delle reti
Successivamente si sono voluti individuare quegli archi della RER che hanno valenza di difesa
del suolo (Rete Ecologica di Protezione Diretta) mediante procedure di overlay topologico (Figura
5).
Sono state quindi individuate tre tipologie di Rete Ecologica di Protezione Diretta a seconda che
la RER si trovi su boschi a protezione diretta, su aree in frana o su aree esondabili secondo l o
schema concettuale riportato in tabella 3.
144
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
Figura 5 – RER Umbria. Elementi della rete con funzione di difesa del suolo
Tab. 3. Tipologie di Reti Ecologiche con funzione di difesa del suolo
Tipologia
PD1 Bosco a Protezione Diretta
PD2 Rischio Frane
PD3 Rischio Alluvioni
Condizioni
Pendenza > 40 %
Uso Suolo = Bosco
Area in Frana
Uso Suolo = Bosco
Area Esondabile
Infine, l’ultima fase della sperimentazione ha visto il confronto della RER Umbria con un
modello applicato al Rischio incendi boschivi al fine di identificare gli archi della suddetta RER
più vulnerabili agli incendi (Figura 6).
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
145
Figura 6 – RER Umbria. Archi vulnerabili agli incendi
Nel rimandare ad una più specifica pubblicazione la descrizione del modello del Rischio incendi
ci si limiterà, in questa sede, ad esporne solo l’impostazione concettuale che è stata implementata.
Il Rischio incendi è stato modellizzato mediante la relazione di Varnes implementata con un
modello GRID:
Rischio = Hazard * Danno Atteso
Dove
Hazard = fattore Pendenza + fattore Esposizione + fattori Pirologici + fattore Infrastrutture di
Trasporto
Danno Atteso = fattore Aree Naturali Protette + fattore Boschi a Protezione Diretta
Da segnalare inoltre che sia il modello del rischio incendi che quello dei Bo schi a Protezione
Diretta hanno implicato la realizzazione di un DEM dell’intero territorio regionale con risoluzione
pari a 100 m. Il DEM è stato realizzato con l’algoritmo ANUDEM che attraverso le curve di livello
ed il reticolo idrografico permette una affidabile rappresentazione della morfologia del territorio.
Strutture di informazione geospaziale e processi di conoscenza per l’identificazione della connettività ecosistemica
potenziale
146
CONCLUSIONI
La sperimentazione presentata ha dimostrato la possibilità di utilizzare le fonti di dati
geospaziali già disponibili presso le PPAA Centrali e Locali per realizzare un’analisi ad el evato
valore aggiunto intellettuale realizzando una notevole economia di investimenti e consentendo di
individuare linee generali di programmazione anche in assenza di cartografie di dettaglio. Pertanto,
il metodo qui utilizzato si è rivelato adeguato e conforme all’obiettivo prefissato.
Così come nei processi di valutazione comunemente in uso e nei più comuni metodi parametrici
a punteggio e pesi, anche nel metodo qui ipotizzato, la creazione delle tabelle di impedenza
rappresenta il vero passaggio critico dell’intera procedura.
La struttura diretta di tale metodo comunque, presenta innumerevoli vantaggi utili anche nel
ridurre al massimo i rischi nel suddetto passaggio: il metodo adottato infatti prevede il puntuale e
continuativo intervento di specialisti delle varie discipline scientifiche coinvolte che possono
controllare, verificare, aggiornare, modificare e correggere i dati (sia numerici che alfanumerici)
durante tutta la sua applicazione, senza che il metodo stesso ne venga in alcun modo invalidato.
La forma “aperta” di tale metodo inoltre, oltre ad essere in grado di supportare ulteriori analisi,
interpolazioni e valutazioni a differenti scale è predisposta anche per l’introduzione di ulteriori
importanti indagini, come ad esempio la valutazione della resilienza della rete ecologica agli stress
(es. incendio).
La novità del contributo consiste nell’oggettività e nella riproducibiltà del metodo che porta
all’individuazione dell’assetto spaziale del reticolo potenziale (troppo spesso prodotto di un
tecnicismo inaccessibile ai policy makers), ma di avere anche identificato nuove applicazioni delle
reti ecologiche nel campo della difesa, gestione tutela del territorio sia in fase programmatica che di
emergenza oltre al ruolo tradizionale di tutela della biodiversità
Il modello consente, poi, di estrarre criteri di gerarchizzazione degli archi del reticolo sia
rispetto a criticità nel ruolo specifico (gli archi comuni a più sottoreticoli) che rispetto a
vulnerabilità nei confronti di fenomeni in grado di comprometterne gravemente la funzionalità
(incendi boschivi, alluvioni, frane, ecc.); queste caratteristiche ne consentono inoltre una facile
applicazione nel settore della pianificazione territoriale dove la comprensione degli effetti sinergici
di “sistema” è elemento determinante per una corretta impostazione delle politiche gestionali e
finanziarie.
L’uso delle reti s.l. costituisce un interessante e versatile strumento in vari campi di ricerca e di
politica territoriale. Dati ed elementi di dominio stretta mente ecologico (biologici, fitosociologici,
ecc.) infatti, vengono “trasferiti” in campi di ricerca scientifica e di gestione politico/territoriale
concettualmente molto distanti.
La rapida ed agevole realizzazione di cartografie tematiche, mirate alla identificazione di
parametri estemamanete diversificati e/o complessi costituisce un substrato imprenscindibile nella
valutazione politico-economica e nella tutela-difesa del territorio da rischi ambientali s.l. (rischio
sismico, vulcanico, idrogeologico, chimico/ batteriologico ecc.).
Infine osserviamo che le cartografie ed i dati di base utilizzati in questo lavoro, sono quelli
comunemente in possesso delle Pubbliche Amministrazioni (ministeri, regioni, ecc.) 11 ma, visto il
significativo approccio “transdisciplinare”(Gregori & Rapicetta, 2003) nell’individuazione delle
reti ecologiche adottato con il metodo qui proposto, sarebbe auspicabile che i dati di ingresso
fossero ulteriormente implementati, nella fase analitica, di elementi inerenti il “fattore stru tturale”
statico e dinamico.
Concludiamo portando la nostra attenzione sul fatto che:
11
Va ricordata la vasta disponibilità di altre informazioni su supporto cartografico in possesso delle
Pubbliche Amministrazioni della Regione Umbria. Tuttavia, per motivi di “validazione del metodo”, in
questo lavoro si è scelto di utilizzare solo le informazioni che sono facilmente a disposizione anche presso
altre realtà amministrative locali.
Andrea Fiduccia, Luciano Fonti, Marina Funaro, Lucilia Gregari, Silvia Rapicetta, Stefano Reniero
147
1. i dati. alla base dell’approccio analitico proposto, sfortunatamente non sempre però sono a
disposizione, ad una scala di dettaglio, di tutte Pubbliche Amministrazioni ed in questo
senso si auspica che tutte le Regioni procedano sollecitamente alla redazione di cartografie
di uso del suolo secondo lo standard CORINE Land Cover Liv. 4 e di CTR secondo le
specifiche dei database topografici dell’Intesa GIS;
2. il dato geologico (in termini di litologia, geomorfologia, idrografia/idrologia, ecc. e quindi
di instabilità, sismicità, esondabilità, ecc.) può costituire una variabile significativa che
rende sicuramente più complessa, ma più affidabile ed aderente alla realtà, la
configurazione delle reti ecologiche, sopratutto in considerazione del fatto che la loro
tracciabilità si basa su dati solamente biotici non sufficientemente avvalorati da dati
abiotici.
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potenziale
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Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi frammentati
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Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 149-158
PROGETTAZIONE ESECUTIVA E CONSERVAZIONE DEI
CORRIDOI ECOLOGICI ARBOREI
Giustino MEZZALIRA
Paulownia Italia s.r.l., Venezia Mestre
[email protected]
150
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
PREMESSA
Nei territori intensamente urbanizzati e coltivati delle pianure italiane la conservazione (e, ove
possibile, la ricostruzione) di un minimo di connettività ecologica si basa sostanzialmente su due
sistemi: quello dei corsi d’acqua e quello delle siepi campestri (nel se nso più generale dato a questa
parola, come nel caso del francese “haie”).
Riguardo al primo, lo svilupparsi della teoria e della pratica della “River restoration” sta
rapidamente mutando la valenza ecologica del reticolo idraulico, per sua natura intercon nesso.
Riguardo il secondo sistema, si può dire che la presa di coscienza del “valore” sensu lato delle
siepi campestri in Italia si sia affermato a partire dall’inizio degli anni ’80, soprattutto per merito
delle associazioni ambientaliste.
E’ solo a partire dall’inizio degli anni ’90 però che, anche a causa dell’evoluzione della PAC e
per mezzo delle ingenti risorse finanziarie messe a disposizione dopo la “Riforma Mac Sharry”, si
inizia realmente a conservare attivamente e, su scala ancor oggi modesta, a ricostruire il reticolo
delle siepi campestri.
Un’azione fondamentale in questo senso fu svolta dall’Azienda Foreste del Veneto (poi
divenuta “Veneto Agricoltura”) che diede alla ricostruzione del reticolo ecologico delle siepi
campestri una valenza fortemente pratica, in grado di interessare anche con motivazioni
economiche gli attori principali costituiti dalle aziende agricole e dai Consorzi di Bonifica.
Quando brevemente descritto di seguito è tratto proprio da quell’esperienza che, partendo dal
Veneto, si è poi affermata con forza in gran parte del territorio della pianura padano -veneta.
LA PROGETTAZIONE
A parità di superficie occupata l’utilità complessiva e la funzionalità di un reticolo di corridoi
ecologici arborei, costituito soprattutto da siepi campestri di varia natura (frangiventi, siepi da
legna, fasce tampone, etc.), dipende da due fattori principali: tipologia compositivo -strutturale e
localizzazione.
Tipologia compositivo-strutturali
Le specie impiegabili per l’impianto delle siepi sono centinaia; ciascuna di esse è in grado di
fornire simultaneamente numerosi prodotti e servizi: ad esempio dare legna da ardere e nettare,
favorire la nidificazione di certe specie di uccelli ed abbellire il paesaggio.
Gli elementi strutturali sono invece molto meno numerosi e derivano dalle forme spontanee od
artificiali (prodotte dalla mano dell'uomo) che possono prendere i vegetali legnosi: arbusto, albero
ad alto fusto, albero a ceppaia, albero a capitozza, etc.
La scelta delle specie ed il modo in cui esse sono associate e governate definiscono la tipologia
compositivo-strutturale della siepe. Tra tutte le tipologie, quelle a frangivento sono sicuramente le
più efficaci. Una siepe, per essere definita "frangivento" deve essere priva di discontinuità sia i n
senso orizzontale che in senso verticale. Nei frangiventi medi e grandi per ottenere ciò lo strato
basso va "tamponato" con arbusti, ottenendo così una struttura multistratificata e multispecifica. E'
proprio questa complessità strutturale e compositiva che rende estremamente produttivi ed utili i
frangivento, di gran lunga le più multifunzionali tra tutte le siepi campestri.
Al variare dei caratteri ecologici dell'area in cui la siepe viene piantata, delle esigenze di chi
pianta e di chi eventualmente finanzia l’impianto, varieranno i moduli in grado di massimizzare
l’efficacia delle siepi. Non esistono pertanto predefiniti “miscugli” di specie ma, di volta in volta,
un esperto progettista dovrà individuare i moduli di impianto più efficaci. Di contro, il numero
delle combinazioni tra specie non è comunque elevatissimo perché i caratteri ecologici sono
relativamente costanti all’interno di vaste aree e perché le funzioni principali richieste dalla
Giustino Mezzalira
151
maggioranza dei proprietari sono relativamente costanti. Zona per zona è pertanto possibile definire
degli elenchi di moduli di impianto relativamente rigidi. Se possibile essi dovrebbero tenere conto
anche della tradizione, cercando, ove possibile, di rivalutare le specie ed i moduli che in passato
caratterizzavano gli ambienti rurali.
Localizzazione
Il secondo fattore che influenza l’efficacia ecologica di un reticolo di siepi campestri è la sua
organizzazione spaziale. Particolarmente efficaci risultano i sistemi a maglia chiusa; una
organizzazione di questo tipo prende il nome di “bocage”12.
Nel caso dei frangivento è evidente la vantaggiosità dell’organizzazione a “maglia chiusa” per
massimizzare l’efficacia nella difesa dal vento delle colture agrarie. Una tale organizzazione è
particolarmente favorevole anche per la dispersione degli individui di specie di animali e di piante
dotati di scarsa mobilità.
E’ interessante notare che nel bocage anche altre funzioni delle siepi campestri vengono
esaltate, soprattutto se le singole siepi hanno la struttura del frangi vento: ad esempio la produzione
di selvaggina od il miglioramento del paesaggio.
Le siepi campestri devono sempre arrecare il minimo intralcio alle attività agricole. Siti
preferenziali di impianto sono pertanto quelli collegati alla presenza di elementi f isiografici “rigidi”
quali i corsi d’acqua naturali ed i canali di bonifica ed irrigazione, le strade e le capezzagne; i
bruschi cambi di pendenza (margini di gradoni e di ciglioni); i confini di proprietà 13.
Studi di ecologia agraria hanno mostrato che perché un sistema di siepi campestri possa
massimizzare l'efficacia della sua presenza e, nel contempo, essere compatibile con le ordinarie
tecniche di coltivazione dei campi, la sua densità deve oscillare tra 80 e 120 m/ha. In una recente
indagine volta a ricreare il reticolo delle siepi campestri (con funzione di fascia tampone) nel
territorio dei navigli lombardi, si è visto che nella fascia della pianura caratterizzata dal fenomeno
delle risorgive è facile reperire almeno 60 m/ha di siti ripariali idonei. Il resto del sistema potrà
essere facilmente “appoggiato” alla viabilità interpoderale.
Una procedura che si è dimostrata molto valida per progettare l'impianto di un nuovo sistema di
siepi campestri in un territorio prevalentemente agricolo è la seguente :
1. definizione delle funzioni principali del sistema aziendale delle siepi campestri;
2. censimento sul campo dei siti potenzialmente utilizzabili (elementi fisiografici rigidi);
3. definizione a tavolino dei siti più opportuni in modo da ottenere la densità del sistema
desiderata e, se possibile, la chiusura di tutte le maglie;
4. definizione dei moduli strutturali delle singole siepi;
5. definizione della composizione delle singole siepi.
L’impianto delle siepi campestri
Dotare un'azienda agricola di un articolato reticolo di siepi campestri è un'operazione onerosa
sia in termini di tempo che in termini di denaro. Inoltre si vorrebbe che il tempo che passa tra
l'impianto della siepe e la sua entrata in produzione (il momento in cui comincia ad erogare i suoi
molteplici servigi) fosse minimo. In sostanza le esigenze di chi pianta sono:
- contenere i costi di impianto e di gestione
- ottenere una buona ripresa delle piantine dopo la messa a dimora
- avere un pronto sviluppo in modo da ridurre i tempi di attesa dell'entrata in produzione.
12
Il termine "bocage" è di derivazione francese ed indica un territorio carratterizzato dalla presenza di siepi
organizzate a maglia chiusa che cingono completamente i campi coltivati ("campi chiusi").
13
In tutti questi casi l'impianto di nuove siepi è sempre subordinato al rispetto delle norme che regolano
l'impianto degli alberi (Codice Civile, Codice della Strada, Norme di Polizia Idraulica, Regolamento di
Polizia Rurale dei Comuni, etc.).
152
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
Una tecnica di impianto che soddisfa pienamente le tre esigenze esposte sopra è quella
dell'impianto su pacciamatura plastica di giovani piante coltivate con pane di terra 14. Essa è
sostanzialmente basata sui seguenti punti:
- utilizzo di giovani piante di tipo “forestale” coltivate con pane di terra;
- provenienza certa delle piante impiegate e, per le specie indigene, privilegio per le
provenienze locali;
- lavorazione profonda del terreno;
- pacciamatura del terreno con film plastico.
L’impiego di piante giovani, di tipo forestale è una scelta obbligata se si vogliono contenere i
costi d’impianto. Le cosiddette piantine forestali hanno d imensioni che vanno da 30-40 cm a 120150 cm; nel caso delle latifoglie (non si realizzano in genere siepi campestri con conifere) per
raggiungere queste dimensioni sono necessari 1-2 anni. Possibilmente sono da preferire quelle con
pane di terra in quanto:
- possono essere messe a dimora molto rapidamente sia manualmente che con l’ausilio di un
apposito attrezzo detto “bastone trapiantatore;
- vengono piantate correttamente anche da persone non esperte 15;
- possono essere piantate anche quando sono in attività vegetativa, allungando di parecchio il
periodo utile per l’esecuzione degli impianti;
- garantiscono un elevato grado di attecchimento, vicino al 100% in condizioni normali;
- lo sviluppo delle piantine è subito pronto perché l’apparato radicale non viene danneggiato
durante il trapianto.
L’insieme dei vantaggi offerti dal pane di terra compensa ampiamente il maggior costo
d’acquisto16: alla fine il costo complessivo dell'impianto sarà comunque più basso di quello che si
avrebbe avuto utilizzando piantine a radice nuda.
L'esperienza ha mostrato che, nel caso delle specie indigene, le piantine che danno i migliori
risultati sono quelle originate da semi, talee o meristemi di origine locale. Ogni specie vegetale,
all'interno del suo vasto areale di distribuzione, presenta sempre delle sottili differenziazioni (razze
ed ecotipi), selezionate per rispondere alle mutevoli condizioni ambientali ed ecologiche.
Oltre che dare risultati migliori, l'uso di piantine di origine locale evita che si verifichino
ibridazioni negative tra le piante selvatiche presenti nel territorio e le piante messe artificialmente a
dimora per l'impianto delle siepi (fenomeno noto come "inquinamento genetico").
Purtroppo la legislazione è attualmente inadeguata e sul mercato possono essere messe in
commercio piantine di qualsivoglia origine. Per evitare di realizzare impianti scadenti e di
provocare indesiderati fenomeni di inquinamento genetico non resta altro che rivolgersi a vivaisti
di fiducia e chiedere loro piantine di origine "certamente" locale.
Per quanto riguarda le tecniche di lavorazione del terreno, l’impianto di una siepe campestre va
considerato alla stregua di quello di un frutteto o di un vigneto: la lavorazione dovrà essere andante
lungo tutta la fascia, accurata e profonda. In condizioni ordinarie una buona preparazione del
terreno d’impianto dovrà comprendere:
- ripuntatura profonda (almeno 70-80 cm);
14
La tecnica è stata messa a punto dall'Azienda Regionale Foreste del Veneto verso la fine degli
anni '80 e da allora si è rapidamente diffusa in varie regioni dell'Italia settentrionale.
15
l’impianto delle piantine a radice nuda invece richiede una notevole esperienza per la
preparazione dell’apparato radicale (potatura, imbozzimatura) e per la sua corretta disposizione nel
terreno;
16
Il costo di una buona piantina con pane di terra adatta per l’impianto di siepi campestri oscilla
attorno ad 1 €.
Giustino Mezzalira
-
-
153
spargimento di 50-60 t/ha di letame maturo, accompagnato da una concimazione minerale
di fondo (tenendo presente che le esigenze nutritive delle giovani piante forestali sono
analoghe a quelle degli alberi da frutto nei primi anni dopo l’impianto);
aratura a 30-40 cm per interrare l’eventuale cotico erboso, il letame ed i concimi minerali;
erpicatura.
Per un impianto monofilare, la fascia lavorata dovrà essere larga almeno 2 m; nel caso di
impianti plurifilari o di bande boscate, la larghezza della fascia lavorata sarà pari alla distanza tra i
filari più esterni aumentata di 2 m.
Per favorire l’accrescimento delle giovani piante è bene ricoprire il terreno con un materiale
pacciamante; migliore è risultato il film plastico di etilvinilacetato (EV A) nero, stabilizzato contro i
raggi ultravioletti : sebbene più costoso del polietilene, esso conserva più a lungo l’elasticità ed
anche dopo parecchi anni può essere facilmente rimosso dal terreno ed avviato allo smaltimento.
Ideali sono risultate le bobine di 120 cm di larghezza e di spessore di 0.08 mm (80 micron).
I vantaggi della pacciamatura con film plastico sono numerosi:
-
protegge le giovani piante dalle erbe infestanti;
mantiene fresco il terreno;
conserva la struttura data al terreno con le lavorazioni;
riscalda il terreno favorendo la mineralizzazione della sostanza organica e lo sviluppo degli
apparati radicali.
I vari effetti positivi della pacciamatura agiscono in modo sinergico, stimolando notevolmente
lo sviluppo delle giovani piante e riducendo in modo significativo gli oneri di coltivazione nei
primi anni dopo l’impianto.
Nel caso di piccoli impianti il film plastico può essere steso manualmente. Per impianti di
almeno 2-300 m di lunghezza è conveniente ricorrere ad una pacciamatrice portata dalla trattrice.
Nel caso che la stagione decorra secca o che si piantino piantine in fase vegetativa, sarà utile
effettuare qualche irrigazione nei primi giorni dopo l’impianto. In condizioni climatiche normali la
pacciamatura è però in grado di assicurare la disponibilità dell’acqua necessaria alle piante.
Cure colturali alle giovani siepi campestri
A partire dal momento dell'impianto si devono assicurare adeguate cure colturali alla giovane
siepe ed ai suoi immediati dintorni. Le operazioni principali sono le seguenti:
Risarcimento delle fallanze: se qualche piantina non attecchisce, essa va prontamente sostituita
entro il primo anno al fine di assicurare la funzionalità della siepe;
Controllo delle erbe infestanti attorno al punto di impianto: sia che si sia piantato su banda
di film plastico, sia che si sia piantato su terreno nudo, l'area immediatamente circostante la
piantina va tenuta libera di erbe infestanti. Su terreno nudo la superficie da tenere pulita è di 0.5 m 2.
Vista la vicinanza con le giovani piante, tale area va pulita manualmente (diserbo manuale o
sarchiatura).
Controllo delle erbe infestanti lungo il filare: se il filare è stato pacciamato, è importante
controllare lo sviluppo delle erbe lungo le fasce laterali di contatto tra film pl astico e terreno. Esso
può essere meccanico (con l'ausilio di una falce, di un decespugliatore o di un minitrinciasarmenti
semovente) oppure chimico (consigliato l'uso di Gliphosate distribuito con una normale pompetta
da diserbo). Se il filare non è stato pacciamato oltre ai sistemi illustrati sopra si potrà anche
sarchiare la superficie o manualmente o meccanicamente (sarchiatrici con sistemi di rientro tra le
piante)
Controllo delle erbe infestanti tra i filari (in caso di impianti plurifilari): ci si co mporta come
nei frutteti o nei vigneti: il terreno nei primi anni può essere tenuto lavorato ma poi sarà bene
lasciarlo inerbire e controllare le erbe con dei normali trinciasarmenti.
Difesa dai predatori e dai parassiti: le giovani piante delle siepi possono essere mangiate da
erbivori (cervidi, lepre, coniglio selvatico) od attaccate da parassiti. Raramente però i danni
154
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
superano la soglia di danno e giustificano gli interventi di difesa. Nel caso di danni provocati dagli
erbivori le giovani piante potranno essere difese con degli shelter. Per quanto riguarda i parassiti
sono soprattutto le eventuali specie a legname pregiato presenti nella siepe (noci, ciliegio selvatico,
frassini, etc.) che necessitano di specifiche azioni di difesa.
Potature : lo sviluppo degli alberi e degli arbusti delle siepi va seguito con le potature per far sì
che esse svolgano al meglio le funzioni per cui sono state piantate. Esistono almeno quattro tipi di
intervento da attuare a carico delle diverse specie in m omenti diversi del loro sviluppo:
Riceppatura: consiste nel tagliare poco sopra il colletto una giovane pianta per favorire
l'emissione di numerosi polloni ed ottenere così una ceppaia (la forma a ceppaia è sempre ricercata
nelle specie arbustive e nelle specie di alberi c he si vogliono governare a ceduo);
Tagli di formazione e di produzione: sono l’insieme dei tagli che vanno eseguiti a carico di un
albero a legname pregiato al fine di ottenere un fusto diritto e privo di difetti, in grado un domani di
dare tronchi di grande pregio commerciale.
Taglio di contenimento: consiste nel controllo dello sviluppo laterale dei rami. Questo taglio
viene praticato ogniqualvolta si vuole lasciare alla siepe uno spazio laterale predefinito.
Tutoraggio: consiste nel fornire un sostegno alle giovani piante. Si adotta, solo in caso di
necessità (piante filate che tendono a piegarsi), solo per sostenere i giovani alberi a legname
pregiato, in modo da migliorare la forma del loro fusto.
Eliminazione della pacciamatura: questa operazione colturale viene eseguita solo nel caso di
impianti pacciamati. Dopo 2 - 3 anni dall'impianto, quando le giovani piante si sono ben sviluppate,
il film va raccolto e smaltito come gli altri teli plastici utilizzati in agricoltura.
LA CONSERVAZIONE DEI CORRIDOI ECOLOGICI ARBOREI
L’azione di conservazione e di reimpianto di siepi campestri nelle aziende agricole oggi in atto
in Italia, come in gran parte del resto dell’Europa, non trae origine da un nostalgico ritorno ad un
bucolico passato (tra l’altro mai esistito) ma rappresenta una concreta attuazione degli indirizzi di
politica agricola dell’Unione Europea, contribuendo al conseguimento di tutti i principali obiettivi
della riforma della PAC.
Perché tale azione non sia effimera (legata all’erogazione di contributi) e passeggera (terminati i
contributi si tornerà ad espiantare), è necessario che ai corridoi ecologici arborei costituiti dalle
siepi campestri sensu lato vengano fatte svolgere funzioni tali da giustificarne comunque la
presenza. Tali funzioni “forti” rispondono o ad una logica economica (quanto producono, al netto
dei costi di produzione, è almeno pari alla redditività delle ordinarie colture agricole) oppure
derivano da obblighi che vanno comunque rispettati (vedi ad esempio la “ecocondizionalità a cui
sempre più è legata l’erogazione dei sussidi della PAC).
Di seguito vengono brevemente analizzate le due funzioni “forti” che negli ultimi 15 anni hanno
permesso di rilanciare la presenza delle siepi campestri nelle pianure dell’Italia settentrional e.
Siepi ripariali e controllo dei nutrienti nei corpi idrici superficiali
Da tempo è noto che le formazioni forestali ripariali (siepi, bande boscate) sono in grado di
ridurre il carico di nutrienti presenti nei corpi idrici. Tale funzione veniva princip almente attribuita
alla capacità di assorbire direttamente dall’acqua i sali minerali in essa disciolti. Un secondo
meccanismo da tempo noto è la capacità di fissare il terreno delle rive e di filtrare fisicamente le
acque di run off prima che si immettano nei corpi idrici, in tal modo riducendo il trasporto solido e
la presenza degli inquinanti adsorbiti ai colloidi del terreno (in particolare il fosforo ed i pesticidi).
Ciò che rende di grande interesse le formazioni forestali ripariali e viciniori ai can ali è la recente
dimostrazione del fatto che esse favoriscono l’attività dei batteri denitrificatori, capaci di
trasformare in azoto molecolare (N2) le varie molecole azotate disciolte nell’acqua di falda drenata
dai corsi d’acqua.
Giustino Mezzalira
155
L’attività dei batteri denitrificatori è favorita da vari fattori; tra questi sono di primaria
importanza l’assenza o carenza di ossigeno (condizione di anerobiosi) e la presenza di sostanza
organica che costituisce la loro fonte trofica. A parità di disponibilità di ossigeno nei diversi strati
del terreno, la presenza di vegetali legnosi arricchisce di sostanza organica strati più profondi di
suolo, arrivando a portarne contenuti significativi fino alle zone che presentano periodiche o
costanti condizioni di anerobiosi. In tal modo l’attività dei batteri denitrificatori viene esaltata e, in
presenza di formazioni forestali (lineari od a pieno campo), la sottrazione di azoto dalle acque di
percolazione e/o di falda diviene rilevante.
Condizione essenziale perché le formazioni forestali possano svolgere, attraverso i vari
meccanismi illustrati, la loro azione positiva di sottrazione dei nutrienti dai corpi idrici è che vi sia
contatto tra gli apparati radicali degli alberi e degli arbusti e l’acqua, soprattutto quella che dai
campi fluisce verso i canali per flusso ipodermico.
Nei territori agrari vi sono vaste zone dove sussistono tutte le condizioni favorevoli perché le
formazioni forestali ripariali possano fornire un contributo efficace nel controllo dei nutrienti. Nella
pianura padana ad esempio vi sono due contesti in cui la loro presenza può essere al meglio
utilizzata per tal fine:
- Nella parte alta dei bacini dei fiumi di risorgiva, dove le acque di falda, già ricche di azoto a
causa degli apporti che giungono alla falda nelle aree di media ed alta pianura che stanno a
monte dei loro bacini idrografici superficiali, emergono in un fitto reticolo di canali.
Ponendo lungo ogni corpo idrico che drena i campi o la falda delle fasce di vegetazione
forestale anche di limitato spessore (una o due file, aventi un’area di insidenza larga circa
10 metri) si possono qui ottenere significativi abbattimenti del carico di azoto. Si noti che in
questi territori l’intervento di imboschimento delle rive dei canali e delle scoline non
richiede significativi interventi di tipo idraulico perché il flusso dell’acqua dalla falda o dai
campi ai collettori è “naturale” e diffuso. L’attuazione di questa iniziativa è pertanto
indipendente dalla disponibilità di fondi destinati alla regimazione idraulica e può essere in
ogni momento attivata, utilizzando le ingenti risorse finanziarie messe a disposizione dalle
misure dai PSR o da specifiche leggi (vedi ad esempio la legge per il disinquinamento della
laguna di Venezia)..
- Nella parte bassa dei bacini, dove i fiumi attraversano le zone di bonifica a scolo meccanico,
tenendosi “alti” sopra il piano campagna, la valorizzazione delle formazioni forestali
potrebbe avvenire derivando artificialmente quote dell’acqua fluente nei canali arginati e,
ove le condizioni pedologiche sono favorevoli, facendole scorrere , sfruttando il naturale
gradiente piezometrico, sotto le formazioni forestali verso i canali della rete delle “acque
basse” che drena le aree di bonifica. L’efficacia dei “filtri forestali” così realizzati , come
dimostrato da alcune importanti esperienze condotte nel Veneto, in particolare nell’ambito
del progetto europeo NICOLAS (Nitrogen Control by Landscape Structures), potrebbe
essere talmente elevata da ripulire quasi completamente le acque dalla prese nza dei nitrati in
eccesso. In questo secondo contesto l’utilizzo delle formazioni forestali ai fini del
disinquinamento è strettamente collegato ad interventi di tipo idraulico condotti a carico
della rete idrografica principale e secondaria.
Siepi campestri e produzione di biomassa legnosa a fini energetici (“legno-energia”)
Fino a tempi recenti ovunque la campagna italiana era ricca di formazioni forestali lineari. Ciò
derivava dal fatto che in campagna esisteva una forte domanda di legna da ardere utilizzata per il
riscaldamento delle case e per la cottura dei cibi. Il modo più conveniente di produrla (quasi
sempre per puro autoconsumo) era quello di piantare alberi a rapido accrescimento (pioppo nero,
salice bianco, ontano nero, platano, robinia) in sit i che al contempo erano in grado di offrire
un’elevata produttività e di non ridurre in modo significativo la superficie agraria utilizzabile per le
ordinarie colture: le rive dei fossi, delle scoline, dei canali, i margini delle strade poderali. In
epoche in cui tutte le operazioni di manutenzione erano svolte manualmente, la presenza delle siepi
ripariali non era di intralcio ed anzi contribuiva a ridurre gli oneri di manutenzione perché nel
156
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
contempo deprimeva lo sviluppo delle erbe acquatiche e sosteneva le rive, riducendone l’erosione
ed il conseguente interrimento dei canali.
Negli ultimi decenni lo sviluppo economico da un lato e l’evoluzione dell’agricoltura dall’altro
avevano messo in crisi questa antica funzione “forte” delle siepi campestri.
La recente evoluzione delle tecnologie per la combustione del legno, unite ad una crescente
attenzione per le fonti rinnovabili di energia hanno riaperto la strada all’utilizzo del legno come
fonte energetica integrativa o sostitutiva dei combustibili fossili. Due sono in particolare le
innovazioni che rendono oggi competitivo sul piano economico e compatibile con le moderne
esigenze di confort sul piano pratico l’uso del legno per il riscaldamento domestico, soprattutto
delle abitazioni dei paesi e delle case s parse:
- bruciatori a fiamma rovesciata: necessitano di legna tal quale, in pezzi grossi; hanno
un’efficienza termodinamica superiore all’80 %; richiedono un limitato impegno per
l’alimentazione della legna (inferiore ai 10 minuti al giorno); sono compatibil i con una
presenza saltuaria nell’abitazione o nel luogo di utilizzo (bastano una o due cariche al
giorno); sono compatibili con ogni tipo di impianto termico già presente nella casa o nel
luogo di utilizzo (serre, allevamenti, etc.), presentano emissioni gassose compatibili con le
più restrittive legislazioni europee in tema di difesa dell’aria dall’inquinamento.
- bruciatori a legna cippata: necessitano di legno ridotto in piccole scaglie (cip); possono
utilizzare ogni fonte di materiale legnoso, comprese le ramaglie, i sarmenti, gli scarti
legnosi di attività artigianali od industriali; sono ad alimentazione automatica con
autonomia dipendente dal volume del silos di stoccaggio dei cip; hanno un’efficienza
termodinamica superiore all’80%; presentano emissioni gassose compatibili con le più
restrittive legislazioni europee in tema di difesa dell’aria dall’inquinamento; sono
compatibili con ogni tipo di impianto termico preesistente; necessitano della contemporanea
presenza di una filiera di approvigionamento in grado di trasformare i vari prodotti legnosi
in cip; necessitano della presenza di silos di stoccaggio del cippato.
In condizioni ordinarie sono sufficienti m 500 od ha 0.5 rispettivamente di siepe monofilare da
legna e di boschetto da legna per garantire l’autosufficienza energetica per il riscaldamento di una
abitazione di dimensioni ordinarie nella pianura padana. Se utilizzata per l’autoconsumo e se
l’efficienza di utilizzo è intorno all’80%, il valore di sostituzione della legna prodotta nel
“boschetto famigliare” si aggira attorno ai 20 €, pari al doppio del suo ordinario valore di mercato.
Sommando il valore dei contributi comunitari al valore di sostituzione della legna, la superficie
investita a “boschetto famigliare” è in grado di fornire un reddito netto di almeno 2.000 € per ettaro
e per anno, pari a circa il doppio dell’utile netto ricavabile dal mais.
L’autoconsumo della legna, ottenuto ricorrendo ai moderni bruciatori a fiamma rovesciata od a
cippato, rende la coltura legnosa competitiva con le ordinarie colture agrarie ed apre un’
interessante prospettiva alla diffusione “spontanea” delle siepi campestri a funzione energetica.
Tale processo attualmente è limitato solo da un gap di tipo culturale visto che gli aspetti sia
economici che tecnologici sono favorevoli; esso potrà essere superato solo ricorrendo ad una decisa
e coordinata azione di animazione rurale basata sul tema della vantaggiosità economica ed
ambientale degli impianti forestali da legna nelle aziende agricole.
In alcuni contesti delle pianure dell’Italia settentrionale sono oggi in atto iniziative che tendono
a superare la dimensione autarchica del legno-energia, per fare della produzione di biomasse
legnose a fini energetici una nuova coltura specializzata da reddito.
Un esempio particolarmente significativo è quello dei Navigli Lombardi che ha preso spunto
dalle seguenti constatazioni/opportunità:
- La produzione di energia termica partendo dal legno (biomasse legnose) è oggi conveniente
e competitiva rispetto ai combustibili fossili in un ampio range di scale e campi di utilizzo
(vedi da ultimo studi ENEA nell’ambito del progetto “BIOHEAT”: www.bioheat.info).
Giustino Mezzalira
-
-
-
-
-
157
Sia in termini di praticità di utilizzo che in termini di convenienza econo mica
dell’investimento, il campo ottimale di impiego è quello del riscaldamento delle grandi
utenze civili (ospedali, case di riposo, scuole) e delle reti locali o “minireti” di
teleriscaldamento (riscaldamento di insiemi di utenze civili pubbliche o priva te). Come
risulta da una recente indagine comparativa condotta in Austria, i costi di investimento sono
minimi per impianti di potenza compresa tra 300-1.000 kW e si attestano attorno ai 300
€/kW.
Con tempi di ritorno di 8-10 anni dell’investimento necessario (senza contributo pubblico a
fondo perduto od in conto interessi) per realizzare l’impianto e la rete di distribuzione del
calore, il gestore dell’impianto può vendere il calore ad un prezzo conveniente per l’utenza
remunerando nel contempo il combustibile ad un prezzo allettante. Il legno cippato nell’arco
alpino oggi viene commercializzato, con u.r. del 35%, ad un prezzo di 15-18 €/ms,
corrispondente ad un valore di 60-70€/t, pari a circa 2 volte il valore dello stesso legno nel
mercato elettrico ed a 4 volte il valore dello stesso l egno nel mercato dei pannelli. Ciò
configura un quadro particolarmente favorevole dal punto di vista dei produttori di
biomasse legnose.
Nell’Italia settentrionale la produzione di legno è massima nei terreni agricoli di pianura
(arboricoltura di quantità) utilizzando sistemi arborei lineari associati alla rete idrografica
minore (canali irrigui e di scolo a scala aziendale). Utilizzando un’ampia gamma di specie
esotiche a rapido accrescimento (pioppo ibrido, platano, robinia) ed impostando il turno per
ottenere la massima produzione legnosa (“turno fisiocratico”, pari a 5-10 anni a seconda
delle diverse specie), in questi sistemi è possibile raggiungere produttività di 20 t/ss per
ettaro e per anno.
La coltivazione di siepi campestri affiancata al reticolo idrografico ha numerosi vantaggi
rispetto alla coltivazione di cedui a corta rotazione a pieno campo:
? Riduzione degli oneri di manutenzione del reticolo idrografico aziendale (minori
necessità di rimozione dei sedimenti; riduzione pressochè totale degli sf alci della
vegetazione ripariale ed acquatica)
? Creazione di una rete interconnessa di sistemi arborei in grado di contribuire in modo
significativo alla connettività ecologica del territorio
? Creazione di cortine verdi che migliorano in modo significativo e diffuso il paesaggio
? Intercettazione molto efficace dei nutrienti e dei pesticidi utilizzati in agricoltura (ruolo
di fascia filtro ripariale o “fascia tampone boscata”, FTB).
? Fissazione dell’anidride carbonica (carbon sink) più elevata e diffusa nel territorio
La diffusione di siepi campestri ripariali permette pertanto di conseguire
contemporaneamente importanti obiettivi di rilevanza strategica:
? Efficienza della rete idraulica
? Interconnessione ecologica (creazione di reti ecologiche)
? Miglioramento paesaggistico
? Controllo diffuso dell’inquinamento diffuso (soprattutto di origine agricola)
? Riduzione delle emissioni di gas serra.
Partendo da queste considerazioni, la Regione Lombardia sta sviluppando un progetto “di area
vasta” configurabile come “opera pubblica” per la rilevanza dei benefici economici, ambientali e
sociali che è in grado di generare, basato sui seguenti punti cardine:
- Impianto diffuso di siepi ripariali lungo il reticolo idrografico minore, gestito direttamente
dalle aziende agricole o dai Consorzi di bonifica o di irrigazione con una densità di almeno
60 m/ha, in grado di generare una produzione di 1-2 t/ss, ha, anno. Tale densità è
perfettamente compatibile con l’attuale organizzazione del reticolo idrografico minore
esistente nella pianura lombarda, come risulta anche dalle recenti indagini condotte
nell'ambito del Master Plan Navigli della Regione Lombardia
158
Progettazione esecutiva e conservazione dei corridoi ecologici arborei
-
-
Nascita di soggetti in grado di gestire l’intero ciclo colturale delle siepi campestri,
dall’impianto, alla manutenzione degli impianti, alla raccolta (con meccanizzazione
integrale).
Realizzazione di un sistema diffuso di minireti di teleriscaldamento alimentate a legno
cippato, gestite da un soggetto in grado di realizzare economie di scala attraverso la gestione
di un elevato numero di impianti standardizzati. Ottimale è la configurazione che vede la
fornitura di calore attraverso le mini-reti ai grandi edifici pubblici, ad insiemi di edifici
pubblici, a quartieri di edilizia popolare.
In entrambi i casi esaminati il diffuso reimpianto delle siepi campestri si basa su solide
motivazioni che fanno dei contributi oggi disponibili solo un utile “stater”.
Starà agli indirizzi forniti dai decisori pubblici che mettono a disposizione queste importanti
risorse finanziarie ed alle capacità dei progettisti fare in modo che il “neo-bocage” che sta per
nascere sia in grado di svolgere anche altre utili funzioni, non ultima quella di ricreare in modo
diffuso sul territorio un efficace rete ecologica.
Reti ecologiche: una chiave per la conservazione e la gesione dei paesaggi framment ati
a cura di T. Sitzia & S. Reniero
Atti del XL Corso di Cultura in Ecologia, 2004: 159-164
LE RETI ECOLOGICHE E LA LEGGE REGIONALE
DEL VENETO 13/2003
LINEE GUIDA PER LA PROGETTAZIONE DEI BOSCHI DI PIANURA
Federico CORREALE SANTACROCE
Veneto Agricoltura
Centro Vivaistico e per le attività fuori foresta
Via Bonin-Longare - 36030 Montecchio Precalcino (VI)
[email protected]
160
Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la progettazione dei boschi di pianura
I BOSCHI E LE AREE FORESTATE NELLA PIANURA PADANO-VENETA
Le superfici a bosco che insistono sui territori di pianura della nostra regione hanno subito
un’erosione progressiva che li ha ridotti ad elementi sporadici e non connessi fra loro, in un tessuto
variegato a sua volta molto frammentato costituito dalle più diverse espressioni dell’attività umana.
Tutte le superfici residue che insistono sulla pianura padano -veneta si possono considerare a
rischio di estinzione, vuoi per la pressione delle attività circostanti, vuoi per intrinseche
caratteristiche di debolezza, con processi di deperimento spesso già in atto.
Tutti questi boschi sono da considerarsi, in quanto a superficie totale, al di sotto della MDA
(Minimum Dynamic Area), e la loro localizzazione sul territorio, distante e frammentata, non rende
facilmente attuabili meccanismi di connessione.
Nonostante ciò il valore di queste formazioni resta molto alto sotto vari punti di vista:
?
RAPPRESENTANO UN VALORE STORICO E CULTURALE, IN QUANTO
CATEGORIA DI “USO DEL SUOLO” ESTREMAMENTE RAREFATTA SULLE
TERRE PLANIZIALI, TRACCIA DEL CONCETTO STESSO DI “FORESTA”
TANTO PREZIOSO NEI NOSTRI STILEMI CULTURALI QUANTO ORMAI RARO
NELLA REALTÀ CHE ABBIAMO DAVANTI AGLI OCCHI OGNI GIORNO.
?
Sono, pur localmente, e insieme alle formazioni lineari ed agroforestali, elementi cardine
del paesaggio rurale della nostra regione.
?
Accumulano con l’età un valore intrinseco che cancella e supera ogni funzione cui
furono via via destinati, in particolare in qualità di portatori di memoria biologica e di
riserve biogenetiche, uniche portatrici di informazione sulla complessità delle possibili
entità sub specifiche locali di alcune specie guida della vegetazione planiziale.
E’ peraltro innegabile che lo stesso concetto attuale di “bosco di pianura”, tende a discostarsi da
quell’immagine di unità primigenia che caratterizza il “ricordo storico” di ciò che fu la grande
foresta planiziale che copriva in epoca preromana la pianura padana.
Così le proposte volte ad ampliare ed integrare le superfici forestate della pianura veneta non
possono prescindere dal rispetto dei valori sopra citati, in uno scenario però di evoluzione socio culturale, ove nuove esigenze del territorio e dei suoi abitanti cercano una e videnza in contesti
boschivi di elevata polifunzionalità.
Un simile, e ci si augura florido, destino accomuna i lembi di foresta planiziale e la rete di siepi,
fontanili, rive alberate e boschetti artefatti dall’uomo che ha caratterizzato negli ultimi seco li il
paesaggio planiziale: entrambi possono divenire strumento, in una rete interconnessa dalla
complessità crescente, per il raggiungimento di standard ecologici che siano lo specchio delle
nuove esigenze di qualità della vita dell’uomo che abita la nostra pianura, tanto ricca nelle sue
prerogative socio economiche, quanto muta nell’offrire risposte alla crescente richiesta di qualità e
salubrità dell’ambiente, di sicurezza e stabilità delle reti idriche, di bellezza del contesto
paesaggistico in cui tanti uomini vivono e lavorano.
LA LEGGE 13/2003 E LE SUE CARATTERISTICHE ESSENZIALI
Nel riconoscere le prerogative del bosco, in una accezione moderna e in un quadro di spiccata
polifunzionalità delle strutture, la regione Veneto ha emanato nel maggio del 2003 un testo di legge
destinato a erogare contributi a tutti i soggetti pubblici che volessero edificare nuove superfici
forestali in pianura, nonché informare ed educare la collettività alle utilità del bosco.
La Legge Regionale 13/2003 presenta un taglio semplice, che già nel suo dettato fa salve le
funzioni più attuali dei boschi in pianura, definendo peraltro con chiarezza il contesto di “interesse
comune” derivante dal reimpianto di formazioni forestali di lunga permanenza sul territorio .
Vengono infatti evidenziati obbiettivi chiari di principio (Tab. 1), perseguiti con il fine di
contribuire alla risoluzione di alcune fra le principali emergenze ambientali della nostra pianura:
Federico Correale Santacroce
161
qualità di ambiente, aria, acqua; aumento della sicurezza idraulica, riduzi one dell’inquinamento
atmosferico e incremento della biodiversità.
E’inoltre esplicita l’intenzione di offrire una opportunità per rispondere ad esigenze collettive la
cui domanda è da anni in costante crescita, come quella che riguarda la disponibilità d i spazi
naturali a scopo ricreativo e di rilassamento.
La sfera dell’interesse collettivo marcata dalla Legge 13/03 trova naturale conseguenza nella
definizione dei destinatari degli interventi. Il legislatore ha qui ritenuto di premiare non solo le
Pubbliche Amministrazioni o singoli Enti che si dimostrassero particolarmente attenti alle
problematiche ambientali ed alla qualità della vita dei propri cittadini, ma anche coloro che da anni
spendono parte del proprio tempo e mettono impegno personale, spesso a costo zero, in
organizzazioni ed associazioni no profit nate per difendere gli spazi naturali e promuovere la
cultura ambientale sul nostro territorio.
Fra i molti strumenti a disposizione per affrontare i problemi ambientali considerati dal
legislatore lo strumento che viene selezionato è semplice e diretto: il ritorno del bosco su ampie
superfici della pianura realizzato mediante l’impianto, ex-novo, di giovani piantine forestali. E’
chiaro e inconfutabile che qui si parla proprio di bosco nella sua acc ezione più stretta, non già di
interventi pesantemente mediati dalle esigenze proprie del mondo agricolo quali quelli proposti
nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale e di altri strumenti legislativi quali la coetanea legge
14/03 a promozione del comparto della produzione a scopo energetico di biomasse legnose.
A rafforzare l’azione, si stabilisce anzi una superficie minima di progetto pari a 5 ha, con il fine
di escludere interventi che, per le loro ridotte dimensioni, apportino un trascurabile effetto gl obale
sull’ambiente circostante.
La deroga relativa al “bosco periurbano”, ove sono ammesse superfici inferiori (comunque
maggiori di 2,5 ha) interpreta una realtà di frammentazione delle destinazioni d’uso del territorio
che, in aree bisognose di intervento come le cinture extraurbane, porterebbe alla probabile
esclusione a priori di progetti riguardanti le aree più densamente popolate della nostra Regione.
LE LINEE GUIDA PER LA REALIZZAZIONE DI BOSCHI NELLA PIANURA
VENETA
L’impianto di boschi ex-novo nella pianura veneta si è detta un’azione semplice e diretta. Il
legislatore, in realtà, ben conscio della complessità dell’intenzione, e del come le più diverse
interpretazioni dell’accezione di “bosco” avrebbero potuto inficiare le intenzioni vere del
provvedimento, ha ritenuto di definire, fra gli elementi a corredo della prima applicazione della
norma, un documento tecnico volto a “a formulare le linee guida per la progettazione e la
realizzazione degli impianti, al fine di offrire un supporto di orientame nto tecnico ai progettisti ed
agli operatori”.
Tale documento, affidato con altri adempimenti all’Azienda Regionale Veneto Agricoltura, e
redatto ad opera di un gruppo di lavoro composto dal Prof. Franco Viola, dai Dottori Forestali G.
De Lucchi, F. Correale Santacroce e R. Fiorentin, nonché dal Dottore Agronomo Luigi Forlin, si
distingue da subito per l’impossibilità di scindere le indicazioni relative ai parametri tecnici di
progetto da quelli del contesto territoriale in cui i boschi si troveranno inseri ti.
D’altra parte, la necessità di definire il modello di bosco più consono al raggiungimento degli
obbiettivi esplicitati nel testo di legge, e la naturale connessione di ogni entità ecologicamente
complessa con la rete delle simili entità che insiste sul l’intorno ha suggerito agli estensori del
documento un approccio che andasse ben al di là della stretta superficie di progetto.
Si è cercata in sostanza una sintesi fra parametri selvicolturali delle nuove formazioni ed il peso
effettivo di queste sul territorio destinato ad ospitarle, anche in ragione della necessità di definire le
regole su cui si sarebbero costruite le graduatorie di merito per l’assegnazione del contributo.
La filosofia di fondo è stata segnata da alcune scelte che hanno caratterizzato tutto il
documento.
162
Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la progettazione dei boschi di pianura
In particolare si voleva un documento operativo, chiaro nei suoi contenuti, e quanto più
rigorosamente fedele alla lettera delle finalità esplicitate nel testo di legge e nella sua premessa.
Per il raggiungimento di quest’ultimo obbiettivo si sono quindi messi a punto indici risultanti da
algoritmi semplici e lineari, di facile calcolo, che consentissero di dare un peso “ponderale” ai
diversi progetti e al loro livello di “rispondenza” alle finalità di legge.
Il punteggio finale, e quindi la maggiore probabilità di ottenere i contributi, vuole essere quindi
oggettivamente legato al valore della realizzazione nel contesto territoriale e nella rete di elementi
critici e/o di valorizzazione ambientale esistenti.
La strutturazione del progetto richiesta sin dalla fase preliminare è inoltre tale da valorizzare
quanto più possibile le professionalità indispensabili alla realizzazione di un idea complessa quale
quella di un bosco planiziale, benché di nuovo impianto.
I CRITERI DI VALUTAZIONE DEI PROGETTI
Vengono in questa sede presi in considerazione i parametri di giudizio e gli indicatori definiti
per la sezione della legge relativa all’impianto di boschi (il testo, ricordo, prevede contributi anche
per azioni di informazione e divulgazione sul tema dei boschi di pianura).
Senza ricalcare la descrizione degli indici, peraltro ben esplicitata nel testo delle “Linee Guida”,
mi limito ad alcune brevi considerazioni, ove necessarie, sui percorsi che hanno portato alla scelta
di tali parametri:
I.
Area di progetto
area interessata da boschi
periurbani (ha)
Da 2,5 a 5,0 compreso
Da 5,0 a 10,0 compreso
> 10,0
II.
area interessata dal progetto
(ha)
Da 5.0 a 10.0 compreso
da 10.0 a 20.0 compreso
>20.0
punteggio
1
2
3
Qualità forestale
area interessata dal progetto (ha/ha)
Da 0.50 a 0.65 compreso
da 0.66 a 0.85 compreso
> 0.85
punteggio
1
3
6
Indice di qualità forestale = area boscata / area di progetto
La legge, definendo precise soglie dimensionali per le superfici interessate dai progetti, fa
proprie le considerazioni relative alla minima superficie utile perché un bosco svolga una o più
funzioni e possegga una stabilità minima al suo interno. Le soglie indicate si attestano per la verità
molto al di sotto della MDA considerata idonea per le formazioni planiziali della nostra pianura,
indicata da alcuni autori intorno ai 100 ettari; resta però chiara ed evidente l’indicazione di voler
privilegiare, in prima battuta, boschi “grandi” rispetto a superfici limitate.
Lo si è ritenuto pertanto un parametro imprescindibile, anche se, nella lettura degli indici,
andrebbe valutato in abbinamento al parametro della “qualità forestale” che offre la misura delle
superfici di progetto effettivamente boscate.
Nel voler escludere forme di copertura forestale non sufficientemente delineate (densità troppo
basse, distribuzione frammentata, copertura delle chiome non continua nelle prime fasi evolutive
del bosco) si è infatti voluto interpretare il termine “copertura” riportato nella legge non già
nell’accezione tecnico selvicolturale, bensì in quanto “copertura forestale” contrapposta ad altre
coperture del suolo. In questo senso, riprendendo le soglie di superficie riportate nella legge, in
Federico Correale Santacroce
163
ogni progetto è necessario che almeno il 50% della superficie sia effettivamen te coperta da
“bosco”. Le caratteristiche possibili di questo bosco sono delineate nella seconda parte delle Linee
Guida, il “Prontuario Tecnico”.
III.
Connettività
connettività (m/m)= L/P
Da 0.0 a 1.0 compreso
da 1.0 a 3.0 compreso
> 3.0
punteggio
1
2
3
L= Lunghezza siepi a contatto con area di progetto
P= Perimetro area di progetto
IV.
Boscosità relativa
boscosità relativa (ha/ha)
Da 0.0 a 0.5 compreso
da 0.5 a 2.0 compreso
> 2.0
punteggio
1
2
3
boscosità relativa = area cumulata di boschi esistent i nel contorno / area di progetto
V.
Conservazione degli habitat
vicinanza ad aree di tutela naturalistica e
ambientale - conservazione di habitat
no
si
punteggio
0
2 (+2)
Si può supporre che i boschi realizzati utilizzando le provvigioni di questa legge rimangano
comunque elementi “spot” sui vasti territori della pianura veneta. Qui insistono, accanto alle
attività agricole, le più diverse soluzioni di continuità fra i pochi e frammentati elementi di
naturalità residui; stante la superficie media ipoti zzabile dei boschi di nuova piantagione, che
difficilmente si attesterà verso la soglia massima dei 20 ettari consentiti, è sembrato importante
dare un adeguato peso agli elementi di connessione lineare più ricchi e tradizionalmente diffusi
nella pianura veneta, cioè le siepi campestri che, potenziando tratti di rete ecologica diffusa sul
territorio e connettendo gli elementi boscati esistenti con nuove superfici forestate, elevano
l’efficacia del sistema bosco sul territorio nel suo insieme, anche nei conf ronti degli obbiettivi
definiti dalla legge.
Le stesse considerazioni che portano a valutare positivamente la rete di siepi connesse con i
boschi di progetto, porta a considerare altrettanto positivamente la presenza di ulteriori “nodi”, a
maggior ragione se rappresentati da preziosi e antichi residui di foresta planiziale.
In questo senso un particolare peso si è ritenuto di offrirlo a quei “nodi”, non necessariamente di
natura forestale, già mappati e censiti nell’ambito dei siti “Natura 2000”, nonché a p archi, riserve,
biotopi di tipologie diverse, ancorchè mai segnalati prima.
Si potrebbe obbiettare che tali parametri, come d’altra parte tutto il sistema di indicatori, non
dipendono tanto dalla “bontà” del progetto, ma da evidenze oggettive del territorio che sfuggono ad
ogni possibilità di condizionamento da parte del progettista.
E’ vero peraltro che proprio questi dati oggettivi offrono un quadro altrettanto limpido della
effettiva portata degli interventi, che acquisiscono valore, oltre che in un quad ro di virtuosismo
progettuale, anche e soprattutto nelle relazioni bioecologiche, sociali, paesaggistiche che si
instaurano dal momento dell’impianto sul territorio circostante.
164
Le reti ecologiche e la Legge Regionale del Veneto 13/2003: linee guida per la progettazione dei boschi di pianura
VI.
Idroefficacia
idroefficacia (m x 100/m2)
Da 0.0 a 0.5 compreso
da 0.5 a 1.0 compreso
> 1.0
punteggio
1
2
3
idroefficacia = lunghezza dei corsi d’acqua a contatto (m x 100) / area interessata dal progetto (m 2)
È questo un indicatore molto sintetico, volto a rappresentare, seppur molto parzialmente, una
esigenza dettata dalla legge, che nelle intenzioni e nella sostanza risulta molto sentita nel contesto
della bassa pianura ed in particolare nel bacino scolante in laguna di Venezia.
Si tratta della necessità di realizzare, mediante pratiche adeguate e scelte gestionali negli us i del
suolo, un abbattimento rilevante del carico di nutrienti di origine agricola contenuti nelle acque di
scolo superficiali. La legge riconosce tout-court tale capacità alle supercici boscate, che in realtà
divengono interesanti da questo punto di vista solo in presenza di condizioni particolari, sia in
termini di caratteristiche pedologiche della stazione, sia di localizzazione degli impianti, sia in
relazione alla gestione dei regimi idrici dei corsi d’acqua interessati.
Condizioni che peraltro si possono realizzare in molti contesti della bassa pianura veneta,
qualora il progetto sia specificamente votato a questa finalità. In molti casi all’effetto positivo sulla
qualità delle acque si accosta spesso la possibilità di gestire aree “buffer” capaci di i nvasare
all’occorrenza grandi quantità di acqua su formazioni forestali ricostruite con profili vegetazionali
spiccatamente ripariali, ottenendo un’innalzamento delle soglie di rischio di esondazione in caso di
piene improvvise.
Nella impossibilità, per ogni progetto, di effettuare una valutazione preliminare di possibile
efficacia in questi ambiti, si è preferito ricorrere ad una sorta di indice “potenziale”, facendo
propria la constatazione che in assenza di contatto fra corpi idrici e superficie forestat a non si
potrebbe attivare alcuno dei benefici effetti sopra descritti.
IL PRONTUARIO TECNICO
Ricostruire con assoluta proprietà tecnica ed ecologica un bosco di pianura con un discreto tasso
di naturalità è opera che anche allo specialista appare irta di difficoltà apparentemente
insormontabili.
Nella realtà non si può propriamente parlare di ricostruzione neppur lontanamente fedele a tratti
di foresta primigenia, non fosse altro che per la enorme distanza che separa ogni ecosistema
naturale evoluto e complesso da un intervento artificiale, per quanto rigoroso possa essere.
D’altra parte proprio le condizioni stazionali, le conoscenze sulle caratteristiche climaciche di
molte specie forestali planiziali, e considerazioni più prettamente selvicolturali, sugg eriscono un
approccio comunque rigoroso nella costituzione di questi nuovi boschi.
Nella sintesi fra il rigore e la semplicità delle proposte sta un tentativo di creare formazioni che
abbiano in prima battuta una discreta capacità di affermarsi, per poi ve dere, negli anni, una
evoluzione mediata dall’uomo verso livelli di complessità ecologica via via più elevati.
Con tale tentativo, riportato nel Prontuario Tecnico per l’Impianto di Boschi, parte integrante
delle Linee Guida, si cercano di superare le problematiche evidenziatesi durante l’applicazione di
altri programmi pubblici di forestazione agricola (es. il Reg CEE 2078/92), con particolare
riferimento agli aspetti riguardanti la struttura dell’impianto al suo anno zero e la composizione.
Un certo livello di rigore è previsto peraltro su tutti i principali parametri tecnici di queste
neoformazioni artificiali, dalla densità di impianto alla qualità genetica e tecnica del materiale
vivaistico impiegato, con particolare riferimento all’idoneità delle prove nienze, alla disposizione
planimetrica ed all’alternanza delle specie per piede d’albero.