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"En te erémo". La preghiera di Gesù come solitudine orante Prof. Don Carlo Dezzuto Giovedì 17 gennaio 2013 Trascrizione a cura di Paolo Tassinari, rivista dal relatore. Il tema della chiacchierata di stasera è la preghiera di Gesù come solitudine orante. Quando voi fate un pellegrinaggio in Terrasanta, una delle esperienze che certamente vi propongono è quella di portarvi nel deserto per fare 45 minuti di sosta: in genere vi portano sul wadi el-Qelt, vi sguinzagliano e vi lasciano andare un po’ più avanti, sopra il monastero di San Giorgio; naturalmente l'accompagnatore o il responsabile del pellegrinaggio vi ha esortati per tutta la salita da Gerico: “Mi raccomando, il deserto!”, vi ha spiegato che cos'è, “Fate silenzio, è un momento per sentire il rumore del vento o il fruscio della sabbia e i richiami della voce di Dio che risuona”, e poi arrivate lì (a parte che quel deserto è tutto fuorché deserto nel posto dove vi abbandonano, perché trovate decine di pullman e centinaia di persone, i soliti beduini che vogliono vendervi di tutto, dalla coca-cola al transatlantico, e se anche cercate di allontanarvi un po' per sentire per conto vostro le voci del silenzio, in realtà sentite solo gli altri 40 del vostro gruppo che strillano perché hanno trovato la pietra, il sassolino, la conchiglia o si sono fatti fasciare con la kefià del beduino, o sono saliti per la prima volta sul dromedario di turno), e quindi effettivamente quella che volevano proporvi come l'esperienza del deserto fatta là dove Gesù stesso ha vissuto il deserto, sognando di ambientare lì tante belle parole di Gesù, è una delle esperienze più frustranti del pellegrinaggio in Terrasanta. Anche perché tante volte noi abbiamo del deserto un'idea molto romantica: intendiamo il deserto come il deserto del Sahara, il luogo dove effettivamente non c'è nessuno, al limite c'è in lontananza una carovana di tuareg; il luogo dove non si sente altro che il caldo e il soffio del vento, dove si vedono le onde di sabbia; un'idea romantica in cui magari poi arriva anche il Lawrence d'Arabia di turno, vi rapisce, vi porta nella sua tenda e vi offre il thè. 1 Questa è l'idea media che noi abbiamo del deserto, che si scontra con la realtà del deserto che viviamo e che incontriamo là, in quel deserto a cui Gesù tante volte ha fatto riferimento e di cui l'intera Bibbia è costellata. Allora, prima di capire che cosa fa Gesù nel deserto, e qual è lo stile e il senso della sua preghiera nel deserto, si tratta di capire un po’ che cosa è il deserto nella Bibbia. Quando noi nella lingua greca troviamo la parola éremos (la parola dalla quale derivano i nostri eremo ed eremita, del quale abbiamo un'idea molto poetica: l'eremita è colui che vive nella chiesettina sulla collina tra i cipressi in Toscana, lontano da tutti e da tutto), oppure la parola eremía, usata in modo alternativo alla parola éremos, intendiamo prima di tutto uno stato di abbandono: è uno stato di solitudine, è quell'abbandono e quella solitudine che possono essere di un uomo abbandonato a se stesso, un uomo che non ha conforto, che non ha compagnia, che è stato lasciato dagli amici in balìa della sua stessa vita. Si parla anche di éremos riferito alle donne che magari non hanno più marito o figli e sono lasciate appunto a se stesse; può indicare anche una cosa o un luogo; si parla di éremos anche nel linguaggio giuridico per indicare la causa aperta presso un tribunale ma che non viene portata avanti perché l'accusato non si presenta, l'avvocato della difesa non partecipa: ancora oggi in effetti si chiama causa deserta una causa che non ha la replica da parte della difesa. Éremos non è quindi esattamente il concetto di deserto che abbiamo noi, perché si tratta di un luogo senza abitanti, di un luogo desolato; anche una città che è stata abbandonata dagli uomini viene chiamata con questo aggettivo o sostantivo; éremos è anche un posto dove c'è una popolazione scarsa. L'etimologia di questa parola, che peraltro è ancora oggi piuttosto incerta, la collega con una antica voce semitica che è gharmos e che è anche la stessa parola che dà origine a thermós in greco, cioè al caldo: è il luogo dove si prova il caldo, dove non si può stare perché c'è un caldo opprimente, è il luogo dove (proprio perché fa troppo caldo) gli uomini non hanno la possibilità di stare; è il luogo dove abitano in pochi, perché non tutti sono capaci di sopportare queste temperature elevate. E in fondo lo diciamo anche noi metaforicamente nella vita: sovente la vita di chi è solo è un inferno, a indicare questa insopportabilità della condizione di desolazione e solitudine. 2 Mi piacerebbe, però questa è un'ipotesi mia fantasiosa, che in fondo la parola desolazione, che sappiamo tutti deriva da solus, sarebbe bello farla derivare da sol, il sole, cioè il luogo dove il sole picchia così forte che non è possibile realizzare un'esistenza che abbia una dignità umana. Ritroviamo con questa valenza la parola éremos anche in molti dei discorsi di Gesù: per esempio, nel luogo del Dominus flevit, che sempre durante il pellegrinaggio classico in Terrasanta vi portano a vedere, durante la discesa dal Monte degli Ulivi, Gesù guardando la costruzione del Tempio, ormai avviata verso il termine, guardando questa meraviglia del Tempio erodiano (che però non era ancora compiuta, c'era un cantiere in corso), pronuncia il suo famoso oracolo: “Gerusalemme Gerusalemme, tu che uccidi e lapidi i profeti e gli inviati a te, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli nel modo con cui la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali, e non avete voluto”; ed ecco Gesù conclude in modo forte, profetico, questo suo accenno: “Ecco, la vostra casa sarà per voi lasciata come un éremos” (Mt 23, 38), cioè come un deserto. Gesù sta ripetendo, richiamando, un versetto di Geremia (Ger 22, 5) che, anch’egli, profetizzava nella ormai imminente distruzione della città, la (chiamiamola così, inventiamo una parola nuova) eremizzazione, cioè la desolazione futura del Tempio e della città di Gerusalemme. O ancora ritroviamo questo stesso accenno alla desolazione da cui viene colpita la città, negli Atti degli Apostoli (At 1, 20) nel famoso discorso di Pietro, quando al principio del libro Pietro, dicendo che è necessario sostituire Giuda, ne traccia brevemente la vicenda umana e biografica, e soffermandosi su quel campo di sangue che sarebbe stato comprato coi soldi restituiti da Giuda ai sacerdoti del Tempio, cita il salmo 68, 26 e, con le parole di questo salmo, dice: “Il tuo accampamento diventerà un éremos, e non ci sarà mai più chi abita in esso”, dicendo così che questo campo, essendo campo di sangue, diventa come questo accampamento desolato, abbandonato al suo destino, lasciato a se stesso, rifiutato da tutti gli uomini. Nella Bibbia troviamo però anche la parola éremos ad indicare proprio il deserto così come lo intendiamo noi, cioè il deserto infecondo, il deserto come luogo di pietre, come luogo di sabbia; il deserto anche come pascolo solitario; e infatti, dal luogo dove vi sguinzagliano nel vostro pellegrinaggio in Terrasanta, talvolta potete vedere sulla 3 collina di fronte a voi qualche beduino che rincorre le pecore sperdute in mezzo alle pietre e ai sassi, in questa assoluta mancanza di acqua, tant’è che tutti appena arrivano lì si chiedono: ma che cosa mangiano queste pecore? Le novantanove pecore della famosa parabola di Gesù (Lc 15, 4) vengono appunto lasciate “en te erémo”, in questo luogo deserto, con un atto peraltro del tutto irresponsabile, perché qual è il pastore saggio che avendo perso una sola pecora, ne abbandona novantanove al loro destino, per andare a cercarne una sola? Il pastore con un po' di buon senso dice: “E’ meglio che custodisca queste novantanove, che non vadano perse, piuttosto che andare a cercarne una sola” che viene così abbandonata al suo destino. Questa valenza della parola éremos come luogo di desolazione, come luogo non certo romantico, come luogo invece di durezza di vita, di impossibilità di vita, la ritroviamo ancora più volte nei Vangeli, in un percorso che richiama tutte le ricorrenze di questa parola nell'Antico Testamento. Che cosa sono queste regioni solitarie? Queste regioni solitarie sono prima di tutto il luogo dove vagano gli spiriti demoniaci: c'è dietro naturalmente tutta l'esperienza di un popolo nomade, di un popolo di pastori, che ben sanno che il deserto, non avendo luoghi di riferimento, non avendo cartelli indicatori, non avendo piste tracciate (o, se ne ha, sono piste comunque ambigue perché basta una frana o un acquazzone improvviso o un passaggio di animali selvaggi e questa pista viene ben presto dimenticata), è il luogo dove non è possibile avere la certezza sul cammino da seguire. E’ il luogo dove oltretutto, manifestandosi i miraggi, le fatemorgane, è facilissimo perdere il riferimento, perdere il contatto, perdere l'orientamento: e perdere l'orientamento nel deserto, è chiaro, vuol dire andare a finire incontro a morte certa; tant'è che nella lingua ebraica, con quella forza efficace che la lingua ebraica ha, come tutte le lingue primitive, il comando che esprime l'ordine di convertirsi, cioè di fare la svolta a “U” che ti permette di tornare sui tuoi passi e di recuperare il cammino che avevi abbandonato inseguendo qualche miraggio o qualche fatamorgana, ha la forza del richiamo rapido del pastore che sta invitando il cane a tornare indietro, "shub!", 4 torna indietro, ritorna sui tuoi passi, fai una svolta a “U”, una conversione vera e propria, che ti permetta di ritrovare il cammino. Chi genera le fatemorgane nel deserto? E’ certamente il demonio, il cui compito è proprio quello di distoglierti dal cammino intrapreso, perché ci gode, il demonio, nel farti perdere la strada, nel farti perdere la traccia e quindi nel disorientarti; il deserto è il luogo dove è facile disorientarsi, non avere più l'orientamento, il riferimento della strada da seguire. E’ proprio per questo che nel deserto abitano gli spiriti demoniaci, è proprio per questo che il deserto è il luogo dei pericoli per il corpo: san Paolo, elencando tutti i pericoli che ha dovuto affrontare, quando scrive ai cristiani di Corinto, non dimentica di presentare anche i pericoli che ha affrontato nel deserto (2 Cor 11, 26); e così anche la lettera agli Ebrei, nel momento in cui parla e fa il lungo elenco degli uomini che hanno vissuto di fede (“per fede Abramo”, ecc. ecc.), ad un certo punto (Eb 11, 36) parla anche di tutti questi altri grandi uomini, di cui non è possibile fare l'elenco dettagliato, i quali però appunto, pur vagando nel deserto, hanno saputo conservare la strada, il retto cammino. Pericoli per il corpo, dunque, ma anche pericoli per l'anima si incontrano nel deserto, proprio perché i demoni, secondo la tradizione giudaica, si aggirano proprio tra questi luoghi solitari, tra le rovine, tra i cimiteri: ricordate quanti personaggi indemoniati nel Vangelo popolano luoghi che altri non possono abitare, appunto i cimiteri o i luoghi dirupati, diroccati, abbandonati. Non dobbiamo dimenticare poi che, al centro dei riti dell'inizio dell'anno, del yom kippur, veniva scaricato su quel capro nero, che ancora oggi chiamiamo il “capro espiatorio”, tutto il peccato del popolo di Israele, attraverso una preghiera esecratoria pronunciata dal sommo sacerdote nel Tempio; questo capro veniva poi caricato dei peccati di tutto il popolo, compresi quelli del sommo sacerdote, e abbandonato al suo destino, lasciandolo andare nel deserto di Giuda, quindi al di là del Monte degli Ulivi, perché proprio il male, il peccato, opera del demonio, tornasse a quel demonio da cui era venuto e che popolava il territorio dell'éremos, la regione desolata dove vive il demonio. Non possiamo dimenticare, quale esempio fra i molti che si possono rinvenire nei vangeli, che l'indemoniato geraseno, quello che contiene una legione addirittura di 5 demoni che verranno poi scaricati nella mandria di porci che si getteranno in mare, vive appunto, dice il Vangelo (Lc 8, 29) in regioni desertiche; il demonio lo aveva spinto là. Il deserto però al tempo stesso, è anche un luogo dove trova rifugio chi è perseguitato, è un luogo di nascondiglio: troviamo Elia che perseguitato da Gezabele scappa nel deserto dove desidera morire, come racconta il 1 libro dei Re al capitolo 19. E’ un luogo dove anche ai tempi di Gesù i ribelli trovavano rifugio: quando san Paolo viene arrestato a Gerusalemme per la seconda volta (quella in cui si alzerà e dirà: “Ego civis Romanus sum”, e quindi verrà imprigionato e portato a Roma per il processo quale cittadino romano, secondo quello che il diritto dei cittadini romani gli consentiva), avendo suscitato un tumulto nel Tempio, il centurione che lo arresta si stupisce che egli parli greco, e facendo riferimento a un fatto di cronaca dice: “Ma tu allora non sei quell'egiziano che è fuggito nel deserto insieme a 4000 uomini” (At 21, 38). Dunque il deserto, proprio perché è luogo inospitale, è luogo dove chi deve stare solo per un motivo o per l'altro, ritrova il suo habitat ideale. Dunque il deserto, riassumendo questo primo breve excursus biblico, lo ritroviamo come luogo di vagabondaggio, come luogo di demoni vagabondi, come luogo che si raggiunge rompendo tutti i vincoli umani, relazionali. Facciamo riferimento ancora all'indemoniato geraseno: va nel deserto dopo che ha spezzato tutte le catene con cui avevano cercato di trattenerlo; non potendoci essere catene (cioè vincoli, legami, relazioni) che lo trattengano, quest'uomo non può che andare nel deserto, che è il luogo dove manca ogni possibile relazione, il luogo della solitudine più totale. E’ luogo di pericolo il deserto, è luogo di nascondiglio, è luogo di quell'aspetto particolare della solitudine che è la condanna della desolazione. La parola deserto, d'altra parte, nel Nuovo Testamento ricorre anche come luogo che ricorda il deserto dell'Esodo, il deserto del Sinai. Il periodo che Israele ha trascorso nel deserto era presente nella mentalità degli Ebrei e continuamente viene ripresentato anche nel corso del Nuovo Testamento, perché anche per gli ebrei cristiani è pur sempre un periodo fondante, un periodo di riferimento. 6 Anche il deserto dell'Esodo, il deserto sinaitico, è un deserto che dimostra una sua forte ambivalenza (teniamoli presenti tutti questi aspetti, perché serviranno per comprendere l'oggetto del nostro incontro); il periodo che Israele trascorre nel deserto è un periodo ambivalente, perché da un lato è il periodo della disobbedienza del popolo, dall’altro il periodo della sua generazione. Il popolo è costretto a vagare nel deserto perché non si fida di Dio, perché ricorda con nostalgia l'Egitto della schiavitù, perché non si fida di quel Dio che gli dice: “Guarda che la terra promessa è lì davanti a te, ti faccio vedere anche dell'uva grossa così per farti capire che se fai un passo in più nella direzione che io ti sto indicando, ci arrivi”, ma il popolo rifiuta e dunque viene condannato a vagare, a vagabondare nel deserto. Ecco che la lettera agli Ebrei allora, nel momento in cui cita (Eb 3, 8) il salmo 94, 8 (il salmo invitatorio secondo la liturgia romana delle Ore, il salmo in cui si ricorda che Israele è stato disobbediente a Dio) riporta questo esempio del salmo per dire ancora una volta la disobbedienza del popolo, richiamarla e metterla di fronte ai discepoli, richiamando la loro attenzione sul rischio di questa disobbedienza che genera vagabondaggio, disorientamento, solitudine. Ma il deserto come luogo della disobbedienza viene anche citato in quell'altra pagina gloriosa degli Atti degli Apostoli che è il discorso di Stefano (At 7, 41 ss.): Stefano continuamente richiama e accusa i capi di Israele di perpetuare quella disobbedienza che già i loro padri (e Stefano cita questa volta il salmo 77, 17.40), avevano messo in opera nel deserto; Stefano cita anche il profeta Amos (Am 5, 25) nel suo discorso, e dice che, certo, nel deserto Dio aveva parlato al popolo sul Monte Sinai, però per quarant'anni nel deserto il popolo ha continuamente dovuto offrire sacrifici al proprio Dio; vi ha ricevuto il dono della tenda della testimonianza, d’accordo, ma queste (sacrifici e dono della tenda) sono tutte opere con cui Dio cerca di strappare il popolo dalla sua disobbedienza: e il discorso di Stefano, come sappiamo, proprio perché così carico di non velate accuse nei confronti dell’Israele antico, genererà poi la sua morte. Dunque quella generazione dell’Israele del Sinai, che era perìta nel deserto, continuamente il Nuovo Testamento la richiama proprio perché il deserto è luogo in cui si rischia la morte, è luogo in cui si può perire a causa della disobbedienza, dell’incapacità di ascoltare i richiami che ci indicano la via e ci strappano alla solitudine e alla morte. 7 Dall'altra parte, vi richiamavo l'ambivalenza del deserto: oltre al fatto che il deserto del Sinai è luogo di morte, abbiamo, anche nel Nuovo Testamento, tutto quell'insieme di richiami che è la idealizzazione del deserto come luogo dell'innamoramento, come luogo della compagnia, come luogo a cui si riferisce il profeta Osea idealizzando questo periodo di grazia per Israele. Ma prima di arrivare ad Osea, non possiamo dimenticare che, proprio perché è periodo di grazia, al di là della disobbedienza e nonostante la disobbedienza del popolo Dio compie ugualmente prodigi e segni particolari che dimostrano la sua buona disposizione nei confronti di questo popolo. Pensiamo a quei segni che vengono richiamati dal IV° Vangelo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così sarà innalzato il figlio dell'uomo” (Gv 3, 14); oppure il famoso discorso che commenta il miracolo dei pani, con la diatriba tra Gesù e i capi del popolo a proposito della manna (Gv 6, 31.49). Dunque il segno del serpente innalzato del deserto che genera salvezza in chi lo guarda, e il segno di quel cibo che genera vita e salvezza, pur essendo un cibo che comunque è destinato a perire insieme a coloro che lo consumano, sono segni che aiutano il popolo a ricordare il deserto anche come periodo di grazia. Anche Paolo, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (At 13, 18), quando svolge la missione in Turchia, raggiunge Antiochia di Pisidia, vi trova una comunità di Ebrei e anche a loro ricorda questi prodigi e segni particolari che Dio ha messo in opera nel deserto a favore del popolo. Questa ambivalenza (il deserto come luogo della disobbedienza e il deserto come luogo della fedeltà di Dio nonostante la disobbedienza del popolo) viene a far parte dei miti fondanti e del profilo identitario del popolo di Israele e del giudaismo dei tempi di Gesù, il quale (il giudaismo) attribuisce al deserto ogni grandezza, ogni splendore, tanto che l'epoca del deserto diventa il luogo in cui già si manifestano quei caratteri che saranno i caratteri della fine dei tempi, anzi, nel Nuovo Testamento stesso riscontriamo questo, perché si dice che “quelle cose (la disobbedienza di Israele), erano avvenute in modo tipico” (1 Cor 10, 11), esemplare, in modo che servisse da ammaestramento, da lezione, da modello per le condotte future di Israele. 8 In questo modo, il deserto viene collegato con il tempo messianico, con il tempo della fine, tant'è che sarà l’éremos, sarà il deserto il luogo dove apparirà il Messia: questa è la credenza tipica del giudaismo. Il deserto dunque, proprio perché è il luogo in cui Dio si è manifestato, diventa il luogo dove Dio si manifesterà nuovamente. Questo si credeva per l'escatologia, ma questo accenno teniamolo ben presente perché fra un momento vedremo la figura di Giovanni il battezzatore, che proprio nel deserto manifesterà se stesso. Si tratta di una ulteriore ambivalenza del segno. E’ Gesù stesso, infatti, che mette in guardia da quest'attesa giudaica nei confronti delle manifestazioni messianiche nel deserto: ho già citato che quello pseudomessia ricordato dal centurione è fuggito nel deserto, ma non possiamo dimenticare che Gesù (Mt 24, 26) dirà: “In quel tempo vi diranno: eccolo, è nel deserto!”, indicando dove si riteneva che si sarebbe trovato e incontrato il Messia, ma Gesù avverte: “Non andateci, non andateci!”. Infatti Gesù, come vedremo, è ben consapevole dei rischi che il deserto comporta e del fatto che aspettarsi che il Messia venga dal deserto, è un'attesa decisamente ambigua che può essere anche un'attesa mortale (comincio già ad anticipare qua che il deserto per Gesù è un luogo ambiguo, è un luogo di possibile morte anche per lui). Proprio cogliendo quest'attesa degli ultimi tempi, della manifestazione escatologica nel deserto, troveremo che l'Apocalisse ambienta due scene fondanti proprio nel deserto, due scene fondanti che hanno per protagonista la donna, che non è la Madonna, ma è il popolo di Israele nella sua ambivalenza: infatti se il popolo di Israele è idolatra, troviamo la visione del capitolo 17, quando Giovanni (Ap 17, 3) viene portato nel deserto e lì vede la donna seduta sulla bestia, su quella bestia che è l'idolatria; d'altra parte però Giovanni sa bene che il deserto è anche il luogo della possibile rinascita, il luogo della grazia, il luogo dell'incontro con Dio, ed ecco che invece nel capitolo 12 la donna viene rapita e portata nel deserto dopo il parto, e lì fuggendo viene messa in salvo (Ap 12, 6.14). Il deserto come luogo ambiguo che al tempo stesso può essere di grazia o di smarrimento, di morte o di salvezza; ma perché era ritenuto come luogo dell'attesa di salvezza il deserto? Proprio perché, come citavamo, è anche luogo dell'innamoramento, è il luogo della compagnia. Ricordiamo tutti le parole veterotestamentarie di Osea: “La condurrò nel deserto, le parlerò con gentilezza, ti farò 9 abitare nelle tende” (Os 2, 16; 12, 10), oppure anche altri testi profetici che tutti potete facilmente ricercare. La stessa idea percorre anche i commenti rabbinici. Non dimentichiamo inoltre che il glorioso (per Israele, anche per l’Israele attuale) episodio di Masada si svolge proprio in una roccaforte totalmente circondata dal deserto; e se voi andate in Terrasanta e avete la fortuna di andare a Masada, vi accorgete lì forse più che altrove di cosa vuol dire deserto, e cogliete tante sfumature dell'ambigua esperienza che nel deserto si può fare. Raccogliendo altri punti riassuntivi del discorso fatto finora, il deserto è luogo dell'ambivalenza: luogo di disobbedienza e di morte, ma anche luogo di prodigi (il serpente e la manna), luogo dell'innamoramento e della compagnia; è il luogo dove può essere superata la desolazione, perché se io nel deserto, nella mia desolazione, trovo uno che mi ama, la mia desolazione si scioglie al calore di questo amore; ed è il luogo allora dove si svolge l'escatologia, perché è il luogo dove finalmente troverò la compagnia definitiva di colui che è innamorato di me, e che mi colma dei doni della grazia. Possiamo cogliere, ancora nel Nuovo Testamento, l'azione di Dio che si svolge tra l'altro anche nel deserto: il deserto è anche il frutto di un'azione di Dio, perché a volte il desolatore, cioè colui che mi abbandona alla mia solitudine, è proprio Dio stesso. Questo può avvenire in vari modi: Israele ha la certezza che Dio guida la storia, dunque anche le truppe nemiche che devastano la città e la lasciano desolata, sono il frutto dell'azione di Dio che desola; ogni regno diviso in se stesso, dirà Gesù, viene desolato (Mt 12, 25), cioè viene abbandonato alla sua stessa solitudine. Ci sono anche passi profetici che suggeriscono questo, come Isaia 6, 11: “Finché la campagna non resti desolata”, Lamentazioni 5, 18: “Il monte Sion è desolato”, Ezechiele 6, 6: “Le vostre città saranno desolate”. Ci può essere quindi la collera divina che agisce direttamente (abbiamo già ricordato la profezia di Gesù al Dominus flevit), però al tempo stesso l'azione desolatrice di Dio può diventare anche un'azione che trasforma totalmente il deserto in una opportunità: quante profezie, sempre soprattutto da Isaia, dicono: “Il deserto diventerà un giardino…, ecco traccio una strada nel deserto che vi riporti a casa…, cambierò il 10 deserto in un luogo d'acqua, la terra arida insorgenti…, pianterò cedri nel deserto…, si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa” (Is 32, 15; 41, 18-19; 35, 1 ss.), un linguaggio che alimenta la speranza. Ancora una volta dunque siamo richiamati ad un'azione di Dio che rispecchia l’ambivalenza del deserto, poiché è desolazione, ma anche promessa di un nuovo germoglio, perché ancora una volta il popolo di Israele, il popolo nomade, il popolo di pastori, sa bene che basta la pioggia di un'ora per trasformare il deserto in un luogo di splendida fioritura: e anche questa può essere una delle felici opportunità che un viaggio in Terrasanta vi può offrire, soprattutto se è fatto nella stagione tardo invernale o primaverile; passate mentre c'è il temporale e passate dopo un'ora, non riconoscete più quel luogo, perché è completamente ricoperto di fiori e vegetazione, un luogo rinnovato. Dunque l'azione di Dio diventa questo aprire una strada nel deserto. Ricordate quello che dicevamo in principio, il deserto è il luogo dove le strade si smarriscono, ma è il luogo dove anche Dio apre la strada perché io non mi smarrisca. Ecco allora che quell'uomo che grida nel deserto, Giovanni, prende la sua configurazione da un'identità tutta particolare, proprio partendo dal celebre versetto di Isaia 40, 3, essendo presentato dagli evangelisti come la “voce di uno che grida nel deserto”: la deformazione della punteggiatura (peraltro non esisteva la punteggiatura nell'ebraico e neppure nel greco), la deformazione semantica dello spostamento di quei due punti che portano il deserto dal prima al dopo, per cui Isaia leggeva: “Voce di uno che grida: Nel deserto preparate la strada” e Giovanni il battezzatore viene invece presentato come: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la strada”, fa sì che Giovanni venga ad essere l'abitante del deserto; e a questo punto dobbiamo interrogarci su questa figura. Giovanni non è l'unico a condurre una vita così. Nel suo tempo la letteratura rabbinica, o anche Flavio Giuseppe, testimoniano di gente che faceva la scelta del deserto; una scelta del deserto che viene confermata dal suo modo di vestire, dalle sue abitudini alimentari, dalla sua spinosità come personaggio che attrae e respinge, che, come tutti i burberi ci attraggono ma al tempo stesso ci respingono, e Giovanni era veramente un 11 burbero: ma, al di là delle caratterizzazioni psicologiche che lasciano il tempo che trovano, il Vangelo dà delle attente caratterizzazioni teologiche di quest'uomo che grida nel deserto. Intanto è veramente assurdo, ancora una volta, come era assurdo lasciare 99 pecore abbandonate a se stesse per andare a cercarne una, è assurdo andare nel deserto a gridare! E’ il matto che va nel deserto e grida e il suo è un parlare da soli che lascia disorientati. Giovanni grida nel deserto, Matteo ce lo presenta così, come uno che va a fare annunci stratosferici nel deserto (Mt 3, 1); ma se non c'è nessuno a chi annunci? Marco invece ce lo presenta (Mc 1, 4) come uno che va a battezzare nel deserto: ma di nuovo, se non c'è nessuno chi vai a battezzare? Se il deserto è desolazione, se il deserto è assenza, se il deserto è mancanza di persone che possano intessere con te una relazione? Dobbiamo interrogarci: perché queste azioni folli, da pazzi, vengono comunque compiute, portate in evidenza, sottolineate come il segno dei tempi nuovi? Ci aiuta a capire un po' meglio la presentazione che fa, parallelamente a questi passi che ho citato, il terzo evangelista, Luca, che chiudendo il suo sterminato primo capitolo, quello sull'infanzia di Giovanni, ci dice che egli “cresceva e si rafforzava nello spirito” (e lo Spirito è un protagonista che dobbiamo già ora tenere presente), e nel deserto stava “finché non fosse venuto il giorno della sua manifestazione, rivelazione ad Israele” (Lc 1, 80). In questo passo, il deserto diventa un luogo inabitato dallo Spirito: allora quella di Giovanni non è più la desolazione del pazzo lasciato a se stesso che non ha alcuna relazione, il deserto diventa luogo dove uno Spirito soffia; il deserto è il luogo dove il vento è particolarmente impetuoso perché non conosce ostacoli, dove il vento viene a scombussolare le carte perché alza la sabbia e confonde le strade; il deserto è il luogo dove lo Spirito può agire liberamente… Questa è una sottolineatura da tenere presente per comprendere la figura di Giovanni descritta da Luca. Nel capitolo terzo poi, presentando l’attività pubblica di Giovanni, egli non viene più presentato come uno che va ad annunciare nel deserto (Matteo) o come uno che va a battezzare nel deserto (come Marco), ma è uno che sente nel deserto la voce di Dio (Lc 3, 2). Questo cambiamento di prospettiva è gravido di conseguenze, perché il deserto è 12 il luogo ideale dove più facilmente sentire una voce; certo, l'ambiguità (ancora una volta questa parola!) di Giovanni viene continuamente ripresa e indicata da Gesù stesso perché quando la gente (Lc 7, 24) gli chiede e gli parla di Giovanni, Gesù li sgriderà dicendo: “Ma cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? No! Siete andati a vedere un uomo in morbide vesti? No! Siete andati a vedere – ve lo dico io – un profeta, e ancor più che un profeta”, “il” profeta, l'uomo che ha dentro di sé quella voce di Dio che gli è ingenerata dallo Spirito. Giovanni è l'uomo che nel deserto raccoglie la presenza dello Spirito. C'è, anche nel ritratto di Giovanni il battezzatore, questa ambiguità: il deserto come luogo di desolazione, dove non c'è nessuno a cui dire, ma proprio perché non c'è nessuno a cui dire, in Giovanni diventa il luogo dove c'è qualcuno che mi dice, cioè dove divento orecchio per una voce che è quella dello Spirito. Siamo arrivati finalmente alla preghiera di Gesù nel deserto. Quando ho detto alla mia mamma che questa sera vi avrei parlato, lei mi ha detto: “Qual è il titolo del discorso che farai?”. “La preghiera di Gesù nel deserto”. “Se era nel deserto – mi ha detto con una battuta – come possiamo sapere che cosa diceva durante la sua preghiera?”. E’ vero, e infatti non lo sappiamo, perché gli evangelisti non ci dicono che cosa Gesù stava dicendo. Ma è banale fermarsi al dato storico-fisico: “Non c'era nessuno che lo ascoltava”, perché il Vangelo non è storia, il Vangelo è teologia, e dunque dobbiamo andare a interrogarci sul senso di questa preghiera di Gesù nel deserto. Per fare questo dobbiamo cogliere prima qual è il rapporto tra Gesù e il deserto, perché Gesù scelga il deserto per andare a pregare. Le conferenze di quest'anno vertono sulle varie indicazioni di Gesù che prega; Gesù non ha pregato solo nel deserto, ha pregato in tanti altri modi: ha pregato liturgicamente, ha insegnato a pregare, ha pregato insieme agli altri, ha pregato al Tempio, ha pregato nelle cerimonie pasquali a cui ha partecipato, ma Gesù (dicono i Vangeli, anche se solo due volte) ha pregato pure nel deserto. Perché Gesù va nel deserto? 13 Di primo acchito, sembrerebbe che Gesù vada nel deserto per evitare i pericoli: Gesù va nel deserto perché ha paura, va nel deserto per stare da solo, ma questa solitudine non è quella che noi potremmo romanticamente pensare, nel solco di secoli di preghiera cristiana, che indica il deserto come luogo più bello in cui entrare in contatto con Dio. E’ il deserto come nascondiglio quello che Gesù trova, perché Gesù si sente perseguitato, perché Gesù si sente col fiato sul collo, perché Gesù si sente inseguito. Gesù va nel deserto per evitare il pericolo della folla, oppure il pericolo di gente che potrebbe metterlo in prigione. Per esempio Matteo (Mt 14, 13) ci dice che Gesù va nel deserto dopo l'arresto di Giovanni, ed è molto interessante questo breve versetto di Matteo, perché ci dice che Gesù, avendo sentito la notizia, “anechóresen”, cioè “si separò”, andando su una barca verso un éremon, un luogo deserto, standosene kat’idían, “in proprio”. Gesù vuole fare l'anacoreta, se ne va in un eremo per starsene per conto proprio; ma ricordiamoci che tutto questo dipende dalla paura, dalla paura di essere preso. E’ stata poi fondata qui tutta la legittimità della preghiera monastica, della preghiera anacoretica, della preghiera eremitica, il proprium che attraversa due millenni di spiritualità, verso cui c'è un ricorso ambivalente: rinunciarci o ricercarlo; ma Gesù in questo momento sta andando là per paura, per evitare che lo arrestino come hanno fatto con Giovanni. Gesù scappa anche dalla gente (Mc 1, 45) dopo la guarigione del lebbroso, se ne va in luoghi deserti, eppure viene comunque raggiunto; Gesù scappa ancora, scappa dall'assalto della gente che vuole fare di lui un terapeuta; dopo la giornata tipo, come viene descritta da Luca (Lc 4, 42), “fattasi sera, andandosene, raggiungeva un luogo deserto, ma le folle lo cercavano”, lo inseguivano, gli davano la caccia. Gesù fugge questi cacciatori di lui; ricordiamoci che anche dopo aver compiuto il miracolo del pane, Gesù scappa perché volevano farlo re; stavolta Gesù scappa sulla montagna, ma tutto sommato l'analogia la sua fuga nel deserto c'è comunque. Scappa dalla celebrità, scappa dall'arresto e però è interessante che in questa sua fuga tante volte Gesù non voglia essere solo: Gesù scappa dalla gente, cerca la solitudine, ma ha anche paura della solitudine, perché porta con sé i suoi discepoli: dopo la missione, quando gli apostoli tornano e gli raccontano le meraviglie che sono state 14 compiute grazie alla potenza che ha comunicato loro, dopo che anche però è morto il battezzatore, Gesù dice loro (Mc 6, 31 ss.) con una frase che ci commuove, perché ci sembra di una tenerezza incredibile, ma che in realtà è anch'essa ambiguissima, come diremo tra un momento: “Venite nel deserto, e cessate dalle vostre fatiche un poco”. Sembra esprimere tenerezza, ma esprime chiaramente la paura di un regime di vita che consuma, che inaridisce, che rende deserto, per cui è preferibile (guardate che strano) il deserto fisico a quel deserto spirituale che viene dall'iperattivismo, dall'esaltazione di chi è iper-attivo. Non dimentichiamo poi che il deserto (ma qui viene usata la parola eremía, non éremos: Mt 15, 33; Mc 8, 4; in Lc 9, 12 c’è invece éremos) anche per Gesù diventa il luogo della prova: egli si porta dietro i discepoli anche per metterli alla prova, e proprio il deserto è il luogo dove avviene la moltiplicazione dei pani, è il luogo dove Gesù dice: “Date voi a loro da mangiare”, e loro dicono: “Dove in questo luogo deserto troveremo?”. Dunque il deserto non è un luogo di rifugio in senso positivo, ma è piuttosto il luogo dove scappare, dove nascondersi e dove, però, affrontare la prova. Prendiamo poi ancora il racconto delle tentazioni nel deserto secondo la versione di Marco 1, 12-13: “Subito lo Spirito lo spinge nel deserto, e stava nel deserto 40 giorni messo alla prova da Satana, ed era con le belve e gli angeli lo servivano”. Subito dopo il battesimo, ritroviamo quel protagonista già richiamato prima: è lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, lo spinge, notiamolo, cioè Gesù non ci va di sua spontanea volontà, è spintonato, è strattonato da questo Spirito che lo butta in balia del deserto. E stava nel deserto 40 giorni: secondo molti biblisti, non stanno in piedi i riferimenti ai quarant'anni delle prove (Dt 8, 2), o ai 40 giorni e notti di Elia, che hanno assonanza con questo testo ma semplicemente numerica, perché di per sé i 40 giorni di Gesù non sono né l’una né l’altra cosa, ma sono il numero che nella cabala rabbinica esprimeva la durata di un cammino di perfezione. Dunque Gesù viene strattonato, spintonato, condotto a prova perché questo suo cammino di perfezione avvenga, e avvenga nell'essere dilaniato tra due estremi opposti: Satana che lo tenta, lo Spirito che lo spinge tra le braccia di Satana; questi due estremi trovano altri due estremi come esito, simboleggiati dalle fiere e dal servizio 15 degli angeli; allora Gesù nel deserto è spinto dallo Spirito, è provato da Satana, ha di fronte a sé due possibilità: o diventi una bestia o diventi un angelo. Dunque il deserto si presenta come il luogo del bivio, il luogo dove siamo buttati tra belve e angeli; è una metafora della vita, la nostra vita che può diventare bestiale, o aprirsi al servizio da parte degli angeli. E’ una metafora della vita, è il luogo del bivio; ma attenzione: è il luogo di un bivio dove non ci sono indicazioni, perché nel deserto non ci sono possibili riferimenti, non ci sono cartelli stradali; nel deserto la strada che inizi a percorrere improvvisamente si perde, nel deserto puoi morire come puoi trovare la tua salvezza, nel deserto la strada che hai iniziato a percorrere può diventare improvvisamente un'altra, come nella vita: giunti quasi alle vette della santità, precipitiamo improvvisamente nel baratro del peccato più profondo. È per questo che il deserto diventa allora, e Gesù ne dà la dimostrazione, luogo di preghiera: Gesù si alza, nel racconto di Marco, nella giornata tipo (Mc 1, 35), si alza presto al mattino, se ne va, raggiunge il deserto, “e lì pregava”. È un imperfetto, quindi un’azione continuativa nel tempo; l'altro momento in cui Gesù prega nel deserto, viene descritto dall'evangelista Luca, dopo che Gesù ha guarito un lebbroso e un paralitico (Lc 5, 16), “Se ne andava nei deserti e là stava in preghiera”: questa volta si usa un participio, “era un pregante”. Secondo il racconto matteano delle tentazioni (Mt 4, 2) la presenza di Gesù nel deserto si accompagna al digiuno; infatti Gesù nel deserto è tentato da Satana, ma dopo i 40 giorni del digiuno. Secondo Matteo è una preghiera senza parole, perché non è come quando Gesù insegnerà il Pater, è una preghiera che è come quella da fare nel segreto, in quella cameretta (Mt 6, 6) in cui bisogna rinchiudersi per fare una preghiera senza parole che Dio però capisce. In conclusione, la preghiera di Gesù nel deserto è una preghiera che è scoperta della propria disponibilità al Padre, è un disporsi al Paradiso senza però dimenticare gli assalti della fame, gli assalti di Satana, gli assalti delle fiere; il deserto è allora il luogo 16 dove possiamo trovare la nostra verità, è il luogo dove possiamo formarci, nel deserto non possiamo avere delle ambizioni di possesso perché non abbiamo la possibilità di portarci dietro un bagaglio. Il deserto è anche luogo da cui desideriamo uscire il più in fretta possibile: la preghiera è un rendersi conto di questa necessità di scappare dal deserto, la preghiera è la necessità di rendersi conto di quali opposte prospettive ci stanno davanti. Il deserto allora è apertura ad un futuro, il luogo in cui abbandonarci alla novità, disertando, lasciando indietro tutte le nostre false illusioni; un luogo pericoloso chiaramente, un luogo dove si può fare l'esperienza del terribile, dell'insensato, della profondità più nera dell'essere che è quella dell'uomo desolato, e però, proprio perché nel deserto c'è la preghiera, una preghiera che non è facile, perché non è facile fare deserto, perché non è facile pregare nel deserto, però è l'unica cosa che si può fare nel deserto: bisogna avere il coraggio della desolazione. Questa preghiera di Gesù nel deserto, ci dice che tante volte nella vita dobbiamo assumere su di noi il coraggio della desolazione, e non è facile ammettere la nostra nudità, la nostra solitudine, la nostra miseria, però soltanto arrivando in fondo a questa desolazione possiamo aprirci alla realtà di una vita nuova, che raggiungeremo quando gli angeli ci serviranno, è chiaro, ma che già fin d'ora può essere gustata, se non altro facendo attenzione che non sia un miraggio, quindi qualche cosa che ci allontana. Concludo con il racconto di quel padre del deserto, che dopo anni e anni di perfezione, dopo anni e anni di vaglio da parte del responsabile della comunità monastica, ottiene finalmente di poter condurre la vita di recluso, cioè di murato vivo. I reclusi vivevano in un recinto di pietre, completamente impossibilitati ad uscire, solo con il cielo come tetto; portavano loro da mangiare una volta alla settimana ma loro non li vedevano, restituivano soltanto le ciotole vuote. Questo recluso, dopo una settimana, non restituisce le ciotole vuote, anzi il cibo che era stato portato dal cuciniere viene trovato ancora sul ripiano, e allora il capo della comunità si affaccia sulle mura pensando che egli sia morto santamente, però non trova nessuno. Si scatena la ricerca, finché trovano il monaco suicidato in fondo ai piedi di un dirupo. 17 Non è per concludere “in allegria” la conferenza, ma per dirci in realtà come neanche la preghiera può dare delle certezze; nel racconto del vangelo, in Gesù che prega, non si dice il futuro della preghiera. Si dice però che pregava e in tal modo sopravviveva al deserto. 18