Ai Direttori dell`African Development Bank 9 aprile 2009 Oggetto

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Ai Direttori dell`African Development Bank 9 aprile 2009 Oggetto
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Ai Direttori dell’African Development Bank
We help tribal peoples defend
their lives, protect their lands
and determine their own futures.
9 aprile 2009
Oggetto: Progetto P-ET-FAB-005 della centrale idroelettrica Gilgel Gibe III
Introduzione
Entro breve tempo, il Consiglio d’Amministrazione dovrà decidere in merito all’erogazione di fondi
per il progetto della centrale idroelettrica Gibe III. Non è chiaro se il Consiglio si sia reso conto che,
nella fretta di completare il progetto nel minor tempo possibile, le autorità etiopi abbiano tenuto una
condotta sistematicamente illegale, incostituzionale e spesso criminale. Riteniamo che il Consiglio
d’Amministrazione debba essere adeguatamente informato su tali questioni prima di prendere una
decisione e che debba fornire i particolari di almeno alcune delle irregolarità esposte nell’appendice
allegata alla presente lettera.
Se il Consiglio d’Amministrazione approvasse la richiesta di finanziamento per il progetto Gibe III
prima di aver attentamente esaminato le nostre denunce, la Banca potrebbe ritrovarsi nella condizione
di violare la clausola 2.5 delle proprie Procedure di Valutazione Sociale ed Ambientale in cui si
afferma quanto segue:
“I progetti finanziati dalla Banca dovranno essere in ottemperanza alla legislazione, alle politiche
e alle linee guida in materia sociale e ambientale del RMC (Regional Member Country), [nonché]
ai requisiti locali e nazionali relativi alle consultazioni pubbliche e alla divulgazione di
informazioni”.
Tutto ciò avrebbe diverse conseguenze. Minerebbe seriamente la reputazione del Consiglio
d’Amministrazione, la cui responsabilità specifica è di far rispettare le politiche della Banca.
Condonerebbe alla commissione gravi reati che ai sensi del diritto etiope sono di natura penale.
Incoraggerebbe altri RMC a ritenere che ritardando l’inoltro delle rispettive richieste di finanziamento
alla Banca finché i lavori del progetto in questione non abbiano raggiunto uno stadio sufficientemente
avanzato, anche loro potrebbero ignorare impunemente sia le politiche dell’AfDB sia le salvaguardie
legali introdotte nei rispettivi paesi a difesa dei cittadini.
Soprattutto, dal nostro punto di vista, aumenterebbe seriamente il pericolo che il progetto Gibe III
costituisca una minaccia per i popoli indigeni che vivono nella parte bassa del fiume Omo: i Bodi, i
Daasanach, i Karo, i Kwegu, i Mursi e i Nyangatom1.
I popoli indigeni del basso Omo
Le popolazioni indigene che occupano o utilizzano le zone a valle della diga ammontano probabilmente
a circa 200.000 individui che vivono su entrambe le sponde del fiume Omo da quasi due secoli.
I Bodi, i Mursi e i Nyangatom dipendono da una combinazione di tecniche di sussistenza che
comprendono l’agricoltura alimentata dalle esondazioni del fiume, l’agricoltura tradizionale dipendente
dalle acque piovane e l’allevamento del bestiame. Ciascuna di queste attività è vitale per la sostenibilità
a lungo termine delle loro economie.
I Kwegu sono piccoli agricoltori e cacciatori ma non allevano bestiame mentre i Karo dipendono
interamente dalle esondazioni sia per le loro coltivazioni sia per la vegetazione di cui si nutrono le loro
capre. I Daasanach ottengono tutti i loro cereali dalle coltivazioni che sfruttano le esondazioni del
fiume a cui si affidano totalmente anche per i pascoli del loro bestiame.
Nessuno di questi popoli ha rappresentanti eletti o capi ereditari. Pochi parlano l’amarico e il loro
livello di alfabetizzazione è tra i più bassi d’Etiopia. In ogni comunità le decisioni sono prese solo
durante gli incontri a cui partecipano tutti gli uomini adulti. I più anziani sono occasionalmente
convocati da funzionari del governo per essere informati dei progetti che potrebbero avere ripercussioni
sulle loro vite, ma dato che essi non hanno l’autorità di agire per conto della comunità, il significato di
tali consultazioni è trascurabile.
Questi gruppi non ricevono regolarmente alcun sussidio alimentare dal governo. Le dichiarazioni in
senso contrario riportate nell’ESIA (Environmental and Social Impact Assessment) e nell’Additional
Study non sono corrette.
I diritti degli indigeni
Secondo l’articolo 9(4) della Costituzione “tutti i trattati internazionali ratificati dall’Etiopia sono parte
integrante della legge dello Stato”. Uno di questi è la Convenzione ONU sui Diritti Civili e Politici, in
cui all’articolo 2(2) si dichiara che “in nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di
sussistenza”. Per le ragioni espresse di seguito, il Progetto Gibe III sembra invece avere precisamente
questo tipo di impatto sui popoli indigeni che vivono nelle zone a valle della diga.
L’Etiopia ha anche ratificato la Convenzione ONU sull’Eliminazione di tutte le forme di
discriminazione razziale. Come è stato confermato dal Comitato ONU che monitora l’osservanza di
tale Convenzione, i governi che non riconoscono né rispettano il possesso consuetudinario delle terre
da parte delle popolazioni indigene sono colpevoli di discriminazione razziale. Ciò ha portato il
1
Ci preoccupiamo per questi popoli in quanto il nostro statuto stabilisce che uno dei nostri principali obiettivi sia la promozione
dei diritti dei popoli indigeni. Survival è stata fondata nel 1969 ed è una Charity registrata. Abbiamo uno status di organo
consultivo presso il Dipartimento degli Affari Economici e Sociali dell’ONU e di osservatore presso la Commissione africana per i
diritti umani e dei popoli (Africa Commission on Human and Peoples’ Rights). Nel 1989 ci è stato riconosciuto il Right Livelihood
Award.
Comitato a fare appello a tutti gli stati “per riconoscere e proteggere i diritti dei popoli indigeni a
possedere, sviluppare, controllare e utilizzare le loro terre, i loro territori e le risorse comuni”.
La Costituzione dell’Etiopia ha risposto all’appello. Garantisce ai popoli del basso Omo il diritto di
scegliere il proprio luogo di residenza (articolo 32); a non essere sfrattati dalle proprie terre (articolo
40); a essere consultati su progetti dello Stato che possano avere un impatto sulle loro comunità
(articolo 43); e a essere ricompensati se tali progetti hanno ripercussioni negative sui loro mezzi di
sostentamento (articolo 44).
La necessità di proteggere e rispettare tali diritti è anche riconosciuto dalle politiche ufficiali degli
RMC, come ad esempio la clausola 4.3 in materia di politica ambientale che prevede che coloro che
prendono decisioni sullo sviluppo delle risorse naturali del paese
“devono riconoscere il fatto che la Costituzione oggi assicura a coloro che utilizzano la terra il
diritto a un sicuro e ininterrotto accesso ad essa e alle risorse naturali rinnovabili presenti sulla
stessa (ad esempio alberi, acqua, animali selvatici e pascoli)”.
Percorso a ritroso
Il Progetto Gibe III è stato ampiamente criticato da un punto di vista economico, tecnico e ambientale
da soggetti con considerevole esperienza in ciascuno dei suddetti ambiti. Se fosse stato possibile
presentare queste critiche al momento giusto – vale a dire prima che il contratto EPC (Engineering
Procurement and Construction) per l’intero progetto fosse stato stipulato nel luglio 2006 – l’EPA
(Environmental Protection Authority of Ethiopia) avrebbe dovuto, per legge, prenderle in
considerazione.
Se l’EPA si fosse persuasa di non poter “evitare in modo soddisfacente” gli impatti negativi ora
individuati dai critici, per legge avrebbe avuto il dovere di rifiutare l’autorizzazione alla Gibe III,
fermando così sul nascere il progetto. È infatti assolutamente vietato procedere con progetti non
autorizzati e precedentemente rifiutati: in particolare si vedano gli articoli 3 e 18 della Proclamazione
n° 299/2002 in base ai quali chiunque “proceda alla realizzazione” si un’opera in tali condizioni
commette un reato.
Se l’EPA si fosse persuasa che l’adozione di idonei provvedimenti avrebbe “eliminato o ridotto ai
minimi termini gli impatti negativi”, avrebbe potuto approvare il progetto solo a condizione che tali
provvedimenti venissero attuati: si veda l’articolo 9(2)(c) della Proclamazione. Ai sensi dell’articolo
4(2), che definisce le condizioni per l’autorizzazione di un progetto, l’EPA avrebbe dovuto “procedere
con la massima prudenza nella determinazione dell’impatto negativo di un progetto avente sia possibili
effetti positivi che negativi”.
Queste disposizioni forniscono un baluardo essenziale contro le proposte mal progettate o mal
concepite, ma sono state completamente ignorate. In particolare, nonostante i lavori siano iniziati nel
mese di dicembre 2006 o ancor prima, il progetto non ha ricevuto nessuna “autorizzazione” dell’EPA
fino al luglio 2008.
A quel punto due delle tre gallerie necessarie per deviare l’acqua dalla diga erano già state costruite.
Pertanto non era più possibile per l’EPA adempiere al proprio dovere istituzionale di “determinare se e
a che condizioni il progetto potesse proseguire”. La necessaria autorizzazione, quando alla fine fu
concessa, non aveva ormai più alcun valore legale, perché la Proclamazione non permette all’EPA di
autorizzare progetti retroattivamente.
I problemi sono stati ulteriormente aggravati dalla mancanza, fino a quasi due anni dall’inizio del
progetto, di qualsiasi valutazione dell’impatto del progetto sui popoli indigeni oggetto delle nostre
preoccupazioni. Solo con la pubblicazione del cosiddetto “Additional Study” avvenuta nell’aprile 2008
gli osservatori esterni hanno potuto elaborare un parere critico sul probabile impatto della diga su
questi popoli e sulle misure proposte per mitigare tale impatto. In altre parole, le procedure previste
dalla legge etiope sono state condotte a ritroso.
Ciò ha in posto essere un compito impossibile per i consulenti finalmente incaricati di preparare
l’Additional Study. Se fossero arrivati alla conclusione che l’impatto negativo del progetto non poteva
essere “evitato in modo soddisfacente”, le conseguenze finanziarie per il loro committente avrebbero
potuto essere devastanti. Qualsiasi misura da essi proposta per eliminare o ridurre l’impatto avrebbe
probabilmente avuto implicazioni economiche significative per le quali le disposizioni nel contratto
originale o non erano previste o sarebbero state inadeguate. Questo è il motivo per cui si effettuano – o
si dovrebbero effettuare – le Valutazioni sull’Impatto Sociale e Ambientale immancabilmente prima
della stipulazione dei contratti.
Occorre sempre nutrire dei dubbi sull’indipendenza di consulenti nominati in circostanze simili. È
improbabile che tali dubbi vengano fugati. L’Additional Study ha infatti sollevato molte critiche. Di
particolare interesse è quella dell’Africa Resources Working Group (ARWG), un ente costituito da
esperti provenienti da Stati Uniti, Europa e Africa orientale con un’ampia esperienza nelle ricerche
sulle dighe idroelettriche e nella politica della regione: si veda www.arwg-gibe.org/uploads.
L’ARWG tra l’altro sostiene che
1. Affidarsi alla riproduzione artificiale delle esondazioni nelle zone a valle come mezzo per
mitigare l’impatto negativo della diga è completamente fuorviante. Infatti, sostengono gli
autori, non esiste praticamente nessun caso nell’Africa Sub-Sahariana in cui si sia riusciti a
mantenere nel tempo le esondazioni stagionali a valle delle dighe idroelettriche, neanche nel
breve termine. Vengono citati numerosi esempi in cui la tecnica è stata tentata ma senza
successo.
2. L’affermazione che un’attenta regolazione del flusso d’acqua allevierà il problema dei pascoli
per i popoli che vivono a valle della diga è “completamente infondata”. L’ARWG sostiene che
è “nettamente più probabile che succeda” il contrario: “il repentino calo della portata del fiume
farà ridurre notevolmente le terre disponibili per far pascolare e brucare gli animali vicino al
fiume, e questo aumenterà enormemente la pressione per la ricerca di pascoli su tutte le altre
zone erbose della regione”.
3. I piani di irrigazione e i progetti industriali descritti nell’ESIA porterebbero a “ulteriori espropri
e sconvolgimenti fra i gruppi etnici nelle zone più basse del bacino dell’Omo, scatenando così
ondate di nuovi conflitti fra i gruppi, molti dei quali sono armati, che sono già in competizione
tra loro per l’uso delle sempre più scarse risorse naturali”.
4. In generale, l’Additional Study si basa su “una serie di false premesse”, è soggetto a “massicce
omissioni, distorsioni e offuscamenti”, e fa affidamento su dati “selezionati appositamente per
essere coerenti con l’obiettivo predeterminato di corroborare le ragioni a favore del
completamento della diga idroelettrica Gibe III. La progettazione e il contenuto dell’intera
‘indagine’ sociale e ambientale sono manifestamente create per sostenere questa conclusione
predeterminata”.
Queste sono accuse serie su cui, se fossero state presentate all’EPA prima della firma del contratto, o
per lo meno prima dell’inizio dei lavori della Gibe III, l’agenzia avrebbe dovuto indagare. Se fossero
state comprovate, l’EPA avrebbe dovuto o fermare il progetto prima che questo iniziasse o richiederne
modifiche sostanziali. L’EPA ora non ha più queste opzioni, perché ha già rilasciato la sua presunta
autorizzazione.
La critica dell’ARWG è supportata da studi scientifici. Ad esempio, un importante documento
pubblicato nel 2000 spiega chiaramente che:
“I rilasci controllati delle acque non sono una panacea per l’impatto ambientale nelle zone a valle
delle dighe; molte di esse non sono nemmeno in grado di effettuare tali scarichi o di far passare i
sedimenti a causa del modo in cui sono progettate. La stratificazione termica nel bacino idrico
potrebbe rendere la qualità dell’acqua scadente, limitando pertanto il potenziale benefico delle
piene artificiali. Laddove la pianura alluvionale è parecchio a valle della diga, se si vuole che
l’esondazione raggiunga certi livelli, si deve prevedere l’apporto aggiuntivo degli affluenti. Le
infrastrutture della pianura alluvionale, quali terre irrigate, strade o abitazioni, potrebbero aver
bisogno di protezione.
Gli scarichi mal regolati potrebbero avere conseguenze dirette sulla salute (tra cui la possibilità di
annegamento) e indurre cambiamenti nella quantità e distribuzione dei vettori che diffondono le
malattie. Inoltre, ci potrebbero essere delle importanti, seppur indirette, conseguenze di tipo
sanitario quali la malnutrizione, la contaminazione dell’acqua potabile, ferite, stress, violenza
comune e perdita del benessere. Di conseguenza, gli scarichi dovrebbero essere regolati molto
attentamente per evitare impatti negativi. Tuttavia, la mancanza di esondazioni potrebbe
parimenti portare a mancanza di cibo a causa della perdita di terre coltivabili e di riserve di pesca,
e a disordini sociali, conflitti civili ed etnici per l’accaparramento delle risorse, come nel caso
della valle del Senegal.
Per ottenere esondazioni artificiali efficaci occorre il coordinamento di tutte le istituzioni
coinvolte. In molti casi, ci sono vuoti o sovrapposizioni nelle responsabilità delle istituzioni.
Spesso, le istituzioni mancano di competenze, quali ad esempio la rappresentatività presso le Ong
delle comunità per soddisfare le aspirazioni della popolazione locale della zona alluvionale, o
l’expertise a livello tecnico per pianificare e implementare gli scarichi in modo idoneo e
tempestivo al fine di raggiungere i livelli di esondazione concordati”. (Mike Acreman e VV.,
Managed Flood Releases from Reservoirs: issues e guidance).”
L’Additional Study fa riferimento ad un altro documento dello stesso autore, ma non c’è nulla che
indichi che l’EPA abbia letto l’uno o l’altro – né tanto meno che abbia visto la necessità di subordinare
la propria “autorizzazione” a eventuali termini e condizioni concepiti per ridurre o eliminare i rischi a
cui si riferisce Acreman.
La questione centrale
Tutto ciò è, o dovrebbe essere, motivo di grande preoccupazione per il Consiglio d’Amministrazione
che si dovrà anche preoccupare del fatto che il progetto è già stato completato per un terzo. La
questione centrale che i Consiglieri si devono pertanto porre è se si possa permettere a un RMC di
contare sulle sue azioni illegali per eludere la rigorosa indagine alla quale, se non fosse stato per quelle
azioni, le sue proposte avrebbero potuto e dovuto essere sottoposte prima della concessione di un
prestito.
Se il Consiglio d’Amministrazione darà il benestare alla richiesta della EEPCo (Ethiopian Electric
Power Corporation), inevitabilmente sarà come se avesse risposto alla domanda in modo affermativo.
Ciò creerebbe un pericoloso precedente che altri RMC non esiterebbero a sfruttare. E se solo alcune
delle terribili previsioni fatte dall’ARWG saranno confermate dagli eventi a venire, ci sono tutte le
premesse perché il progetto Gibe III torni a perseguitare la Banca negli anni a venire.
L’opzione migliore sarebbe quella di opporre un netto rifiuto alla richiesta. L’EEPCo non potrà che
biasimare se stessa qualora la Banca prendesse una decisione in tal senso.
Una terza possibilità sarebbe quella di rinviare la decisione in attesa di un riesame davvero
indipendente dell’impatto sulle zone a valle della diga. Ci sono numerosi precedenti di questo genere.
Ad esempio, dopo esser stata criticata per il suo supporto ai progetti Sardar Sarovar nell’India
occidentale, la Banca Mondiale commissionò un rapporto indipendente. Quando molte delle critiche si
rivelarono giustificate, la Banca subordinò il proprio futuro sostegno a una revisione delle proposte
presentate dai beneficiari del finanziamento per assicurarsi che si prendessero attentamente in
considerazione gli interessi delle varie popolazioni, incluse quelle tribali, che sarebbero state coinvolte
dal progetto in questione.
Conclusione
Un antropologo con un’intima conoscenza di una delle comunità che vivono nella valle dell’Omo ha
osservato che per loro “l’esondazione annuale è come il sorgere e il tramontare del sole. Influisce su
tutto quello che fanno. Per loro è impossibile immaginare come potrebbe essere la vita senza di essa”.
Se l’impatto della Gibe III fosse stato veramente spiegato loro durante le cosiddette consultazioni,
avrebbero sicuramente espresso il più profondo sgomento per ciò che il futuro pare abbia in serbo per
loro.
Se questo rapporto avesse realmente voluto render conto delle vere opinioni delle reali comunità, ci si
potrebbe stupire di non trovare traccia delle loro reazioni nell’Additional Study. Ma se si voleva
semplicemente dare l’impressione che le comunità avessero espresso il loro benestare a un progetto di
cui, in realtà, sono praticamente all’oscuro [ma che ora ha urgentemente bisogno del sostegno della
Banca!], beh, allora l’omissione non sorprende affatto.
Ci siamo soffermati in modo particolare su alcuni strumenti legali e politici perché i dettagli sono
importanti ma manifestamente assenti nella documentazione che l’EEPCo ha presentato alla Banca.
Tale documentazione non deve semplicemente aspirare a qualcosa; non deve essere appositamente
concepita per favorire qualsivoglia considerazione economica o commerciale. Al contrario, è
fondamentale che l’RMC rispetti tale dossier se si vuole raggiungere un sapiente equilibrio tra i bisogni
dell’economia nazionale e gli interessi delle comunità coinvolte.
L’RMC non ha fatto alcuno sforzo per aggiungere tale equilibrio. Ha invece giocato d’anticipo
aggirando le proprie leggi e le proprie politiche nonché quelle della Banca. Ciò ha già portato a
un’istanza di riesame (Compliance Review and Mediation Unit - CRMU) da parte dell’associazione
Friends of Lake Turkana, e ci risulta che una seconda istanza sia in corso. L’eventuale presentazione di
un’istanza anche da parte di Survival potrebbe dipendere dalla risposta del Consiglio
d’Amministrazione alla presente lettera, senza che ciò precluda di seguire altre strade.
Tuttavia, la nostra speranza è che ciò non sia necessario e che la Banca opponga un netto rifiuto o rinvii
questa richiesta di finanziamento fino al momento in cui abbia avuto i risultati di un rapporto
indipendente sulle questioni che abbiamo individuato. È il minimo che ci si possa aspettare.
Distinti saluti,
Stephen Corry
Direttore Generale
cc: Direttori dell’African Development Bank
Nzabanita Emmanuel, Gibe III Project Task Manager, AfDB
Per Elder Sovik, Director, Compliance Review and Mediation Unit (CRMU)
Giulio Tremonti, Ministro dell’Economia e Finanza della Repubblica italiana
Franco Frattini, Ministro degli Esteri della Repubblica italiana
David Miliband, Ministro degli Esteri del Regno Unito
Douglas Alexander, Ministro per lo Sviluppo Internazionale del Regno Unito
Lesley Johnston, USAID, USA
APPENDICE
1.
Appalti pubblici
1.1
Il committente, l’Ethiopia Electric Power Corporation (EEPCo) ha fatto domanda alla Banca per il
finanziamento degli impianti elettro-meccanici necessari alla diga. La Banca ha già espresso la propria “non
opposizione” ad un APA (Advanced Procurement Action), ma lo ha fatto a condizione che l’APA sia intrapreso
a rischio esclusivo della EEPCo e che la Banca non sia vincolata in alcun modo ad erogare il prestito.
1.2.
Nell’invito alla gara d’appalto per la fornitura e l’installazione di tali impianti la EEPCo ha specificatamente
dichiarato che i lavori per gli impianti elettro-meccanici formano “parte integrante” del “Contratto EPC per
l’intero lavoro”, già commissionato alla Salini Costruttori S.p.A.
1.3.
Non abbiamo ancora preso visione di tale contratto ma la dichiarazione della EEPCo suggerisce che l’intenzione
originale delle parti fosse quella che fosse la Salini a gestire i sub-appalti ai fornitori specialistici. Sembra che le
parti abbiamo convenuto solo successivamente di affidare alla EEPCo stessa il compito di designare i fornitori
specialistici, nella speranza di convincere la Banca che almeno questi contratti siano stati aggiudicati secondo la
sua politica sugli appalti – una tattica concepita per aggirare i requisiti richiesti sia della Banca che dell’RMC,
ma che non dovrebbe essere permessa.
1.4.
Gli appalti pubblici in Etiopia sono governati dalla Procurement Proclamation 430/2005. Ai sensi dell’articolo
54(3) un soggetto designato da un committente che agisce in violazione della Proclamazione commette un reato.
Se condannato, il soggetto è passibile di ammenda pari a non meno di 50.000 Birr e a una reclusione di non
meno di 10 anni. La severità di tali provvedimenti riflette la minaccia posta all’economia etiope dalla corruzione
negli appalti pubblici.
1.5.
In qualità di ente interamente posseduto dallo stato, la EEPCo ha l’obbligo di rispettare alla lettera i dettami
della Proclamazione.
1.6.
Secondo l’articolo 25 della Proclamazione, la EEPCo doveva appaltare il contratto Gibe III mediante una gara
d’appalto aperta. Era particolarmente importante che uno dei più grandi progetti idroelettrici mai intrapresi in
Etiopia fosse sottoposto ad una gara competitiva al fine di evitare eventuali successive accuse di scorrettezza.
1.7.
In deliberata violazione dell’articolo 25, la EEPCo ha trattato solo con la Salini, con cui ha stipulato un contratto
EPC da 1,4 miliardi di euro in data 19 luglio 2006. Non è mai stata indetta una gara d’appalto pubblica. Il
Ministro del Commercio e dell’Industria è anche Presidente del Consiglio d’Amministrazione della EEPCo, e
altri due ministri ne sono consiglieri. Tutti e tre devono essere stati a conoscenza della violazione e l’hanno
sancita. È impensabile che non fossero a conoscenza delle disposizioni dell’articolo 25, ed è difficile
immaginare che si possano sottrarre ad un’azione giudiziaria penale ai sensi dell’articolo 54.
1.8.
Sembra che sia stato questo comportamento (oltre ad altri fattori ) a persuadere la Banca Mondiale a ritirare la
sua precedente manifestazione di interesse al progetto. Le fu chiesto di finanziare l’acquisto degli impianti
elettro-meccanici, pertanto era grosso modo nella stessa posizione della AfDB. Come ha recentemente osservato
il direttore per l’Etiopia della Banca Mondiale in un’intervista alla rete televisiva BBC:
“Penso che abbiamo il dovere non solo di fare la cosa giusta ma di dimostrare senza ombra di dubbio che
stiamo facendo la cosa giusta”: http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/africa
[Vedasi anche http://www.youtube.com/watch?v=sL2SKelDbdQ (Parte 1 del programma televisivo; e
http://www.youtube.com/watch?v=FFvJEil1stc&feature=related (Parte 2)]
1.9.
La AfDB dovrebbe comportarsi allo stesso modo, specialmente alla luce dell’importanza cruciale data alle gare
d’appalto internazionali nei propri Regolamenti e Procedure per l’Appalto di Servizi e Lavori.
1.10.
La BBC ha anche contattato il General Manager della EEPCo, Ato Miheret Debebe, il quale, stranamente, non
ha nemmeno cercato di negare che la EEPCo avesse infranto la legge. Al contrario riteneva che aver pieno
diritto di farlo, perché “l’Africa è al buio. Se dovessimo sottostare a tutte queste lussuose condizioni, non
svilupperemmo nessun impianto idroelettrico”; ibid.
1.11.
Se la Banca condivide tale punto di vista, allora potrebbe cestinare le proprie politiche e linee guida. In caso
contrario dovrebbe rifiutarsi di finanziare qualsiasi quota dell’importo dovuto alla Salini in base al contratto
EPC, almeno fino al completamento di uno studio di revisione indipendente.
1.12.
La posizione della Banca non dovrebbe essere influenzata dal fatto (ammesso che sia un fatto) che il fornitore
degli impianti elettro-meccanici debba stipulare o abbia già stipulato un contratto direttamente con la EEPCo.
Come riconosce la stessa EEPCo, gli impianti elettro-meccanici formano “parte integrante” del contratto
principale e sarebbe totalmente artificioso considerarli separatamente.
1.13.
Questa visione è confermata nei Regolamenti e Procedure per l’Appalto di Servizi e Lavori della Banca.
Nell’articolo 1.2, per esempio, si elencano quattro considerazioni che “generalmente guidano i requisiti della
Banca”. Non sorprende che la prima di queste sia “il requisito di economia ed efficienza nella realizzazione del
progetto, incluso l’appalto dei beni e dei lavori”.
1.14.
Ne segue che la Banca si deve preoccupare non solo delle commesse di particolari beni o lavori per i quali è
stata chiesta la sua assistenza, ma dell’economia ed efficienza con cui il beneficiario dei fondi realizzerà il
progetto di cui quei beni e lavori sono solo una parte.
1.15.
L’economia e l’efficienza con cui la EEPCo realizzerà la Gibe III dipenderanno in larga misura dal fatto che i
termini negoziati con la Salini siano i più favorevoli che si potevano ragionevolmente conseguire. Ma in assenza
di un ICB (International Competitive Bidding), sarà impossibile per la Banca farsi un’idea chiara su questo
punto a meno che il contratto con la Salini non sia sottoposto a un completo riesame indipendente.
1.16.
L’articolo 1.5 degli stessi Regolamenti e Procedure porta ad una conclusione analoga. Accetta che il
Beneficiario dei fondi possa adottare le proprie procedure per le commesse di beni e lavori che non sono oggetto
di finanziamento da parte della Banca. Ma aggiunge anche che:
In tali casi la Banca dovrà assicurarsi che le procedure da adottare soddisfino l’obbligo in capo al
Beneficiario dei fondi di realizzare il progetto con diligenza ed efficienza, e che i beni e i servizi da
acquistare:
(a) siano di qualità soddisfacente e compatibili con il progetto nella sua integrità;
(b) vengano consegnati o completati a tempo debito; e
(c) siano prezzati in modo tale da non avere un effetto negativo sulla validità economica e finanziaria del
progetto.
È difficile immaginare come la Banca possa accertare tutte le suddette condizioni in assenza di un rapporto
indipendente del contratto Salini.
2.
Valutazione dell’impatto ambientale e sociale
2.1.
Ai sensi della clausola 2.5 delle Procedure per la Valutazione dell’impatto ambientale e sociale:
I progetti finanziati dalla Banca dovranno rispettare la legislazione, le politiche e le linee guida in ambito
ambientale e sociale dell’RMC, nonché i requisiti a livello locale e nazionale in materia di consultazioni
pubbliche e divulgazione di informazioni.
2.2.
La Gibe III non ha rispettato la legislazione etiope in campo ambientale.
2.3.
La Proclamazione sulla Valutazione dell’Impatto Ambientale n. 299/2002 stabilisce che:
2.3.1.
“nessun soggetto potrà cominciare la realizzazione di un progetto che richieda la valutazione
dell’impatto ambientale ... senza l’autorizzazione dell’EPA” [articolo 3]
2.3.2.
il proponente del progetto deve effettuare “una valutazione dell’impatto ambientale [che] individui i
probabili impatti negativi dello stesso e incorpori le misure per prevenirli o contenerli” e sottoponga la
valutazione al vaglio dell’Autorità [articolo 7]
2.3.3.
i soggetti che violassero l’una o l’altra delle suddette disposizioni commettono un reato [articolo 18].
2.4.
La Salini ha cominciato i lavori al progetto poco tempo dopo la firma del contratto EPC nel luglio 2006, prima
di aver effettuato la valutazione dell’impatto ambientale e, pertanto, prima che l’EPA potesse rilasciare
l’autorizzazione.
2.5.
In realtà l’autorizzazione non è stata rilasciata fino all’8 luglio 2008, almeno diciotto mesi dopo l’inizio dei
lavori. A quel punto due delle tre gallerie necessarie per deviare l’acqua dalla diga erano già state costruite.
Pertanto era troppo tardi perché l’EPA, ai sensi dell’articolo 8 della Proclamazione n. 299/2002, potesse
adempiere al proprio dovere istituzionale di “determinare se e a quali condizioni il progetto potesse proseguire”.
2.6.
La presunta autorizzazione è chiaramente nulla, perché la Proclamazione non permette all’EPA di autorizzare i
progetti retroattivamente. Al contrario, la Proclamazione si basa sulla premessa che le autorizzazioni devono
essere ottenute preventivamente. Questo è il motivo per cui è un reato cominciare i lavori senza il nullaosta.
2.7.
Ne consegue che la Salini e la EEPCo abbiano chiaramente commesso – e continuino a commettere – reato ai
sensi rispettivamente degli articoli 3 e 7 della Proclamazione. Entrambe le parti sapevano perfettamente fin
dall’inizio degli effetti di tali disposizioni, pertanto hanno infranto la legge deliberatamente.
2.8.
La Gibe III contravviene anche a molti dei principi chiave della Politica Ambientale del RMC. Tanto per dare
un esempio, parecchie delle politiche contenute nelle clausole 3.5 e 4.9 sono state oggetto di violazione, tra cui
quelle che prevedono che:
2.9.
2.8.1.
i programmi e i progetti di sviluppo del settore pubblico individuino anticipatamente eventuali impatti
ambientali e incorporino le eventuali misure di contenimento nel processo di sviluppo del progetto;
2.8.2.
le valutazioni dell’impatto ambientale non considerino solo gli effetti fisici e biologici ma anche le
condizioni sociali, socioeconomiche, politiche e culturali; e
2.8.3.
gli studi di fattibilità per gli impianti idroelettrici includano rigorose valutazioni dell’impatto
ambientale per permettere un processo decisionale ben informato che massimizzi i benefici alla
comunità e più in generale al paese ed elimini o per lo meno minimizzi i danni arrecati alle risorse
naturali e/o allo stato di salute dell’ambiente”.
Quando la International Rivers portò all’attenzione dei funzionari della Banca tali violazioni, l’associazione
venne informata che “secondo la EEPCo, il rapporto ESIA non avrebbe potuto essere diffuso fintantoché il
progetto finale non fosse stato pronto”. Se i funzionari si sono attivati per verificare tale asserzione, non hanno
spiegato che cosa hanno fatto. Comunque:
2.9.1.
Le norme dell’RMC o le politiche o linee guida della AfDB non prevedono che l’RMC possa andare
avanti con un progetto prima che l’ESIA sia stato consegnato e approvato. Anzi:
Senza autorizzazione da parte dell’Autorità o della relativa agenzia regionale per l’ambiente, nessun
soggetto potrà cominciare la realizzazione di un progetto che richieda la valutazione dell’impatto
ambientale”; articolo 3 della Proclamazione n. 299/2002
2.9.2.
L’articolo 11 della stessa Proclamazione prevede specificatamente che si possano verificare degli
eventi che non potevano essere previsti quando l’ESIA fu inizialmente predisposto:
Se si verifica un fatto imprevisto che comporta serie implicazioni dopo la presentazione del rapporto di
valutazione d’impatto ambientale, l’Autorità o la relativa agenzia ambientale regionale possono,
qualora sia appropriato, ordinare che la valutazione dell’impatto ambientale venga riesaminata o rifatta
al fine di valutarne le implicazioni.
3.
Consultazione
3.1.
La mancata effettuazione di un ESIA prima della decisione di procedere alla costruzione della Gibe III ha
privato le comunità a valle della diga del loro diritto ad essere efficacemente consultate in merito al progetto.
3.2.
Tale diritto è fermamente riconosciuto nelle politiche della Banca. Per esempio la politica della AfDB sulla
divulgazione delle informazioni stabilisce che:
3.3.
3.2.1.
Si debbano informare le popolazioni locali sui risultati dell’ESIA e si debbano sollecitarne i pareri sulle
raccomandazioni proposte [articolo 4.24].
3.2.2.
Prima che la Banca proceda ad una missione di valutazione per i progetti di categoria 1, gli studi ESIA
disponibili dovranno essere distribuiti nel paese beneficiario dei fondi in luoghi pubblici accessibili ai
potenziali beneficiari, ai gruppi coinvolti e alle CSO locali (Civil Society Organizations) [articolo
4.25].
Secondo tale politica, l’articolo 3.3.2 del Sommario Esecutivo dell’ESIA assicura alla Banca che “gli otto
Performance Standards dell’IFC (International Finance Corporation) siano rispettati per tutto il periodo di
attività del progetto Gibe III”. Il Performance Standard 7 dell’IFC sui popoli indigeni stabilisce che:
3.3.1.
3.3.2.
3.4.
Il cliente stabilirà un rapporto continuativo con i popoli indigeni interessati fin dalle fasi iniziali della
pianificazione del progetto e per tutta la durata dello stesso. Nei progetti che abbiano un impatto
negativo sulle comunità indigene interessate, si dovrà far sì che la consultazione sia libera, informata e
preventiva, e si dovrà facilitarne la partecipazione informata sugli argomenti che le toccano
direttamente, quali le misure di mitigazione proposte, la condivisione dei benefici e delle opportunità di
sviluppo, e le questioni relative alla realizzazione ... In particolare, il procedimento includerà i seguenti
punti:
•
Fornire tempo sufficiente per i processi decisionali collettivi dei popoli indigeni;
•
Facilitare la manifestazione da parte dei popoli indigeni dei loro pareri, delle preoccupazioni, e
delle proposte nella lingua scelta da loro, senza manipolazione, interferenza o coercizione
esterne e senza intimidazione;
•
Assicurare che il meccanismo di contestazione stabilito per il progetto, come descritto nel
Performance Standard 1, sia culturalmente appropriato ed accessibile ai popoli indigeni
[articolo 9];
Se il cliente propone di ubicare il progetto in terre usate per tradizione o consuetudine dai popoli
indigeni, oppure progetti di sfruttare commercialmente risorse naturali situate all’interno di esse, e
preveda impatti negativi sulle possibilità di sostentamento dei popoli indigeni stessi, o sull’uso
culturale, cerimoniale o spirituale che definisce l’identità e la comunità dei popoli indigeni, il cliente ne
rispetterà l’uso prendendo le seguenti misure:
•
L’utilizzo delle terre da parte dei popoli indigeni verrà documentato da esperti in
collaborazione con i popoli indigeni interessati senza che ciò sia pregiudizievole per le
rivendicazioni territoriali di tali popoli;
•
Le comunità indigene interessate saranno informate dei loro diritti relativi a queste terre ai
sensi della legislazione nazionale, incluse eventuali norme nazionali che ne riconoscano i
diritti o l’uso consuetudinario;
•
Il cliente tratterà in buona fede con le comunità indigene interessaste, e documenterà la loro
partecipazione informata e la buona riuscita dei negoziati [articolo 13].
Uno dei “principi guida chiave” della Politica Ambientale dell’RMC è “l’acquisizione di potere da parte delle
comunità per poter prendere le proprie decisioni sulle questioni che si ripercuotano sulle loro vite e il loro
ambiente”. La Politica riconosce poi il bisogno in particolare di:
3.5.
3.6.
3.4.1.
coinvolgere i fruitori delle risorse idriche, in particolare le donne e i possessori di mandrie di animali,
nella pianificazione, progettazione, realizzazione e controllo a posteriori nelle loro località delle
politiche idriche, dei programmi e dei progetti in modo da attuarli senza turbare l’equilibrio ecologico
[clausola 3.4(f)];
3.4.2.
potenziare le comunità locali in modo che possano acquisire la capacità di impedire l’imposizione
manipolata di decisioni esterne in nome della partecipazione, e assicurare decisioni prese veramente a
livello popolare nella gestione delle risorse e dell’ambiente [clausola 4.2(d)]
3.4.3.
assicurare che tutte le fasi dello sviluppo e della gestione ambientali e delle risorse, dal concepimento
del progetto alla pianificazione e implementazione al monitoraggio e valutazione siano effettuate sulla
base delle decisioni degli utilizzatori e dei gestori delle risorse [clausola 4.3]
3.4.4.
riconoscere che la consultazione pubblica costituisce parte integrante dell’EIA (Environmental Impact
Assessment) e far sì che le procedure dell’EIA prevedano sia l’effettuazione di una revisione
indipendente sia un dibattito pubblico da presentare ai soggetti che prenderanno le decisioni [clausola
4.9].
Secondo l’Articolo 43(2) della Costituzione etiope i suoi cittadini “hanno il diritto in particolare ad essere
consultati per quanto concerne le politiche e i progetti che coinvolgono le loro comunità”. In teoria godono
anche dell’Articolo 15 della Proclamazione n. 299/2002, che stabilisce che:
3.5.1.
L’EPA dovrà rendere accessibile al pubblico ogni relazione sugli studi di impatto ambientale e
sollecitare commenti su di essi.
3.5.2.
L’EPA dovrà assicurarsi che i pareri forniti dal pubblico e in particolare dalle comunità che
probabilmente verranno coinvolte dalla realizzazione di un progetto siano incorporati nella relazione di
impatto ambientale come pure nella sua valutazione.
L’RMC e le sue parti contraenti hanno ancora una volta scelto di ignorare queste salvaguardie legali e
costituzionali;
3.6.1.
Nessun “utilizzatore indigeno di risorse idriche” del basso Omo – siano donne, possessori di mandrie di
animali o chiunque altro – è stato coinvolto nella pianificazione o nella progettazione di qualsivoglia
parte della Gibe III. Non avrebbero potuto esserlo, perché non sapevano nulla del progetto fino a molto
tempo dopo il completamento della pianificazione e della progettazione.
3.6.2.
Non c’è stato nessun “rapporto indipendente” sul progetto prima che “coloro che hanno preso la
decisione” decidessero di procedere con lo stesso. Tanto meno coloro che hanno preso la decisione
avrebbero potuto prendere in considerazione eventuali commenti delle comunità, perché queste ultime
erano ancora all’oscuro del progetto quando la EEPCo decise di procedere con lo stesso.
3.6.3.
Non si sono stabiliti rapporti “continuativi” (o di qualsiasi altro tipo) con le comunità a valle “nelle fasi
iniziali della pianificazione del progetto” o successivamente. Ancora oggi non ci sono rapporti.
3.6.4.
Secondo l’Additional Study, al contrario, le prime consultazioni con le comunità a valle non hanno
avuto luogo fino al dicembre 2007, diversi anni dopo “il concepimento del progetto”. Ci sono motivi di
supporre che tali “consultazioni” sono state concepite per fugare eventuali preoccupazioni da parte
della Banca piuttosto che per ottenere i pareri autentici delle comunità.
3.6.5.
Sono stati spesi sul campo solo sei giorni, durante i quali sono stati organizzati incontri con solo 175
persone. È chiaro che un tal lasso non poteva lasciare il “tempo sufficiente” affinché i popoli indigeni
considerassero la questione, né tanto meno di farlo rispettando i “processi decisionali collettivi”.
3.6.6.
L’Additional Study indica che i soggetti furono “selezionati in modo che i loro pareri potessero
rappresentare l’atteggiamento di tutta la comunità” (sic). Il metodo adottato per la selezione non viene
spiegato. Come abbiamo detto, i popoli di cui siamo preoccupati non agiscono tramite rappresentanti
ma grazie a meeting che riuniscono tutta la popolazione adulta maschile. Se si volesse veramente
sentirne i pareri occorrerebbe organizzare degli incontri nei loro territori principali, e organizzare delle
riunioni separate per sentire anche i pareri delle donne.
3.6.7.
Per quanto ci risulta, a tutt’oggi non si sono verificate riunioni di tal genere.
3.6.8.
Siamo consci del fatto che i questionari che apparentemente dovevano verbalizzare i pareri dei popoli
indigeni sono stati di solito completati da funzionari wareda senza riferimento alle comunità. Ciò si
potrebbe in parte spiegare con il fatto che quasi nessuno tra le popolazioni indigene a valle della diga
sarebbe stato in grado di leggere il questionario, ma si è trattato anche di un comodo espediente. Ad
esempio, in una delle domande si chiedeva agli intervistati quale soluzione avrebbero preferito se non
avessero più potuto coltivare sfruttando il deflusso delle esondazioni. I funzionari invariabilmente
hanno scritto “irrigazione” su tutti i questionari, che guarda caso coincideva con la soluzione
“preferita” dallo stesso governo.
3.6.9.
Queste circostanze sono esattamente quelle che più probabilmente potrebbero essere definite
“imposizione manipolata di decisioni prese esternamente in nome della partecipazione”, che non “vere
decisioni da parte del popolo”.
3.6.10. Copie dell’ESIA o dell’Additional Study non fsono state “distribuite nei luoghi pubblici accessibili”
alle popolazioni indigene a valle della diga prima che la Banca conducesse la sua missione valutativa
nell’aprile 2008.
3.6.11. Non si è tentato in modo sistematico, mediante l’uso di esperti o con altre modalità, di “documentare
l’uso della terra” da parte delle popolazioni indigene della zona, con o senza la loro “collaborazione”.
3.6.12. Non si è tentato di informare tutte le popolazioni coinvolte dei loro diritti sulle terre da loro usate e
occupate.
3.6.13. Non si è neppure tentato di negoziare un eventuale accordo con tali comunità, né in buona né in cattiva
fede. Tra l’altro un eventuale accordo avrebbe dovuto:
3.6.14.
3.6.13.1.
essere preceduto da studi indipendenti sui bisogni delle comunità a valle, e su come
conciliare tali bisogni in una zona in cui le infrastrutture sono palesemente assenti;
3.6.13.2.
definire, sulla base dei predetti studi, le misure di mitigazione che dovevano essere
effettuate, e in particolare la regolazione dei flussi idrici della diga. Se si fosse proposta
l’irrigazione, sarebbe stato necessario prevedere delle disposizioni dettagliate riguardo al
numero, tipo e ubicazione delle pompe, e degli impegni vincolanti relativi alla
manutenzione, riparazione e sostituzione per tutta la durata del progetto;
3.6.13.3.
stabilire un meccanismo di contestazione in conformità al Performance Standard 1
dell’IFC, in base al quale si doveva assicurare un tempestivo ed efficace intervento
qualora le terre indigene fossero state impattate negativamente. Ciò a sua volta avrebbe
probabilmente richiesto la creazione di un fondo indipendente per finanziare le misure
correttive e per compensare coloro che avessero subito delle perdite.
Le comunità a valle non sono state “informate dei risultati” dell’ESIA o dell’Additional Study e non
sono stati “sentiti” i loro pareri in merito alle loro “proposte raccomandazioni”.