L`uomo e la morte dal gruppo arcaico alla corsia
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L`uomo e la morte dal gruppo arcaico alla corsia
pubblicazioni L’uomo e la morte dal gruppo arcaico alla corsia Dott.ssa Francesca Parisi, DAI Azienda USL Taranto Pio Lattaruolo, Azienda USL Taranto Q uesto lavoro, chiaramente non esaustivo, vuol essere d’aiuto e di stimolo per gli Infermieri che, nell’agire professionale affrontano le problematiche assistenziali della persona morente. Attraverso un’analisi storica e sociologica, riflette sull’esistente e propone qualche opportunità di miglioramento. L’evento del morire è insito nell’uomo e connaturato al suo esistere, ma al tempo stesso inconoscibile ed inesperibile se non in quello stesso momento dell’evento del quale non si può conservare memoria. Per questo, da quando gruppi umani hanno lasciato ricordo storico di se stessi, la morte appare esorcizzata o trasfigurata, velata di riti magici o sublimata dalla religione. Evoluzione del problema morte attraverso i secoli nella civiltà occidentale Tutte le testimonianze a disposizione segnalano l’inquietudine ed il turbamento estremi all'interno del gruppo arcaico in caso di morte. La morte non è mai considerata un evento naturale; essa è un atto sociale che implica una risposta del gruppo. Se il morto non muore anche il gruppo può continuare a vivere. Ciò comporta l’avvio di una vita “come se”, che può aiutare a sopravvivere supplendo con una presenza astratta ad un vuoto sentito come immediatamente distruttivo. La caratterizzazione dell’uomo medievale, invece, è la familiarità con la morte che appare null’altro che una forma di accettazione 32 dell’ordine naturale, accettazione ingenua della vita quotidiana e insieme detta delle speculazioni astrologiche. L’uomo subiva, con la morte, una delle grandi leggi della specie e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla. Nel Rinascimento la morte comincia a cambiare di segno: non è più semplicemente una conclusione dell’essere, ma una separazione dall'avere. In questo secolo il cadavere, il corpo nauseabondo deve essere nascosto dal lenzuolo funebre, ma non basta, il lenzuolo deve essere nascosto dalla bara e la bara dal catafalco (Ariès, 1977). Il lutto, se prima era momento di partecipazione all’evento della morte, nel seicento comincia a divenire ritualizzato o socializzato, senza alcuna funzione liberatrice. Compare in scena un nuovo personaggio: il medico, che si aggiunge e sostituisce l’uomo di chiesa del medioevo e del rinascimento. Il cadavere, secondo i medici del seicento, conserva ancora un residuo di vita. Questa sensibilità del cadavere è alla radice di una florida farmacopea. Nell’ottocento la medicina abbandonerà queste credenze; “…la morte non ha maggior IO INFERMIERE - N.2 /2003 durata di quanto il punto geometrico abbia densità e spessore…” (Ariès, 1977). La morte diventa drammatica, inesprimibile, impressionante: la morte vera è la “morte dell'altro”. La propria morte è sempre meno accettabile, l’uomo reagisce escludendola, fuggendola, facendo come se non esistesse o falsificandone le apparenze. Fiorisce in letteratura il culto dei cimiteri e delle tombe (Foscolo, Pindemonte). “…Doveva aver avuto un’altra sincope perché si accorse a un tratto di esser disteso sul letto: qualcuno gli teneva il polso: dalla finestra il riflesso spietato del mare lo accecava; nelle camere si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva; attorno vi era una piccola folla… Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora snella, con un vestito marrone da viaggio, ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto…”. Questo breve stralcio in cui Tomasi di Lampedusa, ne: “Il Gattopardo”, descrive magistralmente la morte del Principe Salina, esprimendo la consapevolezza del morire. In era moderna si è verificata una trasformazione così radicale delle idee e dei sentimenti tradizionali che non ha mancato di colpire gli osservatori sociali. La morte un tempo così presente, tanto era familiare, diventa fonte di imbarazzo e di vergogna, morte proibita. Niente più nelle città avverte di quanto è accaduto: il vecchio carro funebre è diventato una banale automobile nera che si perde nel flusso del traffico. La società non segna alcuna pausa; la scomparsa di un individuo non IO INFERMIERE - N.2 /2003 intacca più la sua continuità. La morte è spinta nella clandestinità, nel non detto; il malato non vuole sapere; il parente, il medico, il prete non deve dire. Il moribondo e quelli che lo circondano recitano la commedia del “nulla è cambiato”, “la vita continua come prima”, “tutto è ancora possibile”. Non si muore più in casa in mezzo ai familiari, si muore all’ospedale, da soli. Il fatto che i medici si occupino dell’occultamento del morire è solo il prolungamento tecnologico dell’abbandono già iniziato dalla famiglia fuori dall’ospedale. Il moribondo subisce un triplice isolamento: spaziale (lo si colloca in disparte o lo si nasconde dietro un paravento; temporale (si risponde con minor premura alle chiamate dello stesso); relazionale (la persona che si occupa di lui è sempre meno altolocata nella gerarchia delle mansioni sanitarie). La medicina moderna, stravolgendo una linea di tendenza che fissava l’evento della morte in un attimo, ne ha allungato discrezionalmente il tempo. Il presente excursus storico-sociologico e letterario, per evidenziare come la morte sia stata sempre rimossa dalla coscienza come tabù da esorcizzare con tutti i mezzi disponibili. L’infermiere e il morente: un ruolo non definito Il problema ha senza dubbio un amplissimo respiro, in questo lavoro lo abbiamo ridotto allo specifico che interessa la nostra trattazione ed in particolare all’infermiere che assiste il morente. L’infermiere non è oggi preparato ad analizzare i bisogni dell’ammalato inguaribile, in particolare quelli psicologici, sociologici e spirituali. È più facile andare dal paziente per osservare il respiro, rilevare il polso, la pressione arteriosa, che per parlare con lui, provando un vero interesse ad approfondire la discussione. È questo un tipo di rapporto distorto e distorcente. Distorto in quanto non affronta mai pienamente la morte, pur avendone un contatto quotidiano. Distorcente poiché non favorisce, neppure, il rapporto dell’ammalato con la sua morte. La morte altrui 33 morte, che lo salvaguarda da eccessivi coinvolgimenti che potrebbero essere traumatici e dolorosi per lui. Quindi, a poco a poco, la morte e tutte le pratiche connesse ad essa acquistano un aspetto di “normalità”, in una prassi professionale verso cui si è dovuta sviluppare una certa superiorità psicologica che facesse apparire normale qualcosa che solitamente turba. Talvolta, però, questa “normalità” è esacerbata da atteggiamenti scorretti; è questo un aspetto fondamentale legato all’etica, che spesso non può avere il giusto peso se “l’educazione sul campo” prevale su quella teorica. rievoca la nostra morte, il dolore altrui il nostro dolore per la perdita di un nostro caro. Veder soffrire, morire sono esperienze estremamente toccanti che portano a riflettere sulla fragilità di quel filo che ci tiene legati alla vita terrena e sulla labilità della felicità nella nostra vita familiare e sentimentale: un attimo può essere il tempo sufficiente a sconvolgere ogni nostra sicurezza, ogni nostro progetto. L’infermiere, nella nostra opinione, non è indifferente alla morte altrui, però, pian piano, attraverso l’esperienza quotidiana, si costruisce un proprio sistema di “accettazione” della 34 Sarebbe giusto riconoscere il dolore, dargli il peso adeguato, per dare un nome alla sofferenza. La morte medicalizzata, ipertecnologica ha fatto sì che progressivamente scomparisse quasi il senso del nostro agire. Nelle aree intensive spesso assistiamo a scene deliranti, associate alla messa in opera di interventi inutili. Ciò maschera la fragilità del nostro essere, l’incapacità di accettare la morte altrui, anche perché così facendo rinviamo di giorno in giorno il pensiero che tanto possa accadere anche a noi. Blaise Pascal diversi secoli fa disse: “Gli uomini non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l’ignoranza hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai”. È importante comprendere il senso del limite, non sempre infatti possiamo vincere le nostre battaglie quotidiane. Soltanto se impariamo a convivere con le IO INFERMIERE - N.2 /2003 nostre paure, a rinunciare all’invincibilità potremo accettare la realtà del dolore e della morte. In questo modo il nostro compito sarà più agevole. Nell’assistenza al morente, è necessario, indispensabile, porsi delle domande, assegnando il vero significato alla vita vissuta piuttosto che soltanto all’evento morte. La razionalizzazione del problema La nota psicologa francese Marie de Hennezel ha ampiamente dimostrato attraverso il suo operato ed i suoi scritti, nell’ambito della palliazione, che la paura di morire è ridotta quasi al minimo se l’accompagnamento è condotto in maniera adeguata. Deve essere data al morente la possibilità di separarsi nel giusto modo dai suoi affetti, dai suoi ricordi; così il trapasso avviene in maniera più dolce…ci si allontana dalla vita in punta di piedi. È necessario che si abbia il tempo e siano poste in essere le condizioni per poter sanare i torti, chiedere perdono e dire addio alle persone più care senza rimorsi. Questa non è utopia, è un tentativo di recuperare il senso della morte oggi tanto insidiato dalla spettacolarizzazione degli avvenimenti, grazie soprattutto all’opera dei mass-media. A volte, eventi dolorosi possono ingenerare una “scossa emotiva”. Riteniamo opportuno che ci si interroghi sul senso del nostro agire, e sull’identità professionale. Ne deriverà altrimenti una caduta delle relazioni, ed il vivere gli atti professionali come singole azioni in un contesto di quasi meccanicità. Si va incontro al burn-out, e certamente aumentano le tensioni all’interno del gruppo di lavoro. È per questo che dobbiamo imparare attraverso gli strumenti che ci offre la formazione, sia di base che permanente, ad essere “presenti”, a controllare le emozioni, senza però abituarci al distacco, essere pronti all’ascolto, alla comunicazione efficace. L’assistenza personalizzata che va dedicata ad un morente, implica la conoscenza e comprensione di una serie di ambiti che abbraccino tutte le dimensioni della persona. Sono tanti i piccoli, ma grandi gesti che possono modificare l’andamento di quei momenIO INFERMIERE - N.2 /2003 ti che scandiscono la fine della vita. È fondamentale riconoscere un ruolo alle persone significative per il paziente, ed aver cura che il luogo dove egli chiude il suo ciclo terreno, sia il più familiare possibile. Conclusioni Auspichiamo che venga fatta chiarezza tra quello che è il limite tra l’impegno e l’accanimento terapeutico. Lunghi anni trascorsi in varie tipologie di area intensiva ci hanno insegnato che è quasi proibitivo mantenere il proprio equilibrio. La morte è comunque sempre un’esperienza difficile e angosciante. Il punto nodale sta nella capacità di gestire più o meno bene l’evento. L’improvvisazione difatti rappresenta sempre un fatto pericoloso. Le parole di Florence Nightingale vogliono concludere questo nostro scritto e riscaldarci il cuore: “L’assistenza è un’arte, e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come in qualunque opera di pittore o di scultore, con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti, anzi la più bella delle Arti Belle”. Autori Dott.ssa Francesca Parisi, DAI Dipartimento di Prevenzione – Ufficio Igiene e Sanità Pubblica – Azienda USL Taranto Pio Lattaruolo, Infermiere Dipartimento di Emergenza - Struttura Complessa di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica – Presidio Ospedaliero Centrale “SS.Annunziata” Azienda USL Taranto Studente al II oAnno della Scuola Speciale per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica – Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma Bibliografia Philippe Aries, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Ed.Laterza, Bari,1980 Philippe Aries, Storia della morte in Occidente, Ed.Rizzoli, Milano, 1978 Sigmund Freud, Totem e Tabù, in “Opere” vol. VII, Boringhieri, 1975 Norbert Elias, La solitudine del morente, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Ed. Feltrinelli, 1995 Marie de Hennezel, La morte amica, Ed. Rizzoli, 1998 Marie de Hennezel, La dolce morte, Ed. Sonzogno, 2002 M.Patricia Donahue, Nursing. Storia illustrata dell’assistenza infermieristica, Ed.Delfino, 1991 35