Il sistema dei media in Italia - Società Italiana di Scienza Politica

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Il sistema dei media in Italia - Società Italiana di Scienza Politica
XXV Convegno SISP
Università degli Studi di Palermo – Dipartimento di Studi su Politica, Diritto e Società
“Gaetano Mosca”
8 - 10 settembre 2011
DIMENSIONE COMUNICAZIONE POLITICA
Il sistema dei media in Italia: libertà dei media, pluralismo e fiducia
nell’informazione1.
Donatella Campus
(Università di Bologna)
Antonio Ciaglia
(Sum – Istituto Italiano di Scienze Umane, Firenze)
1. La comunicazione politica come fattore trasversale della qualità della democrazia.
La qualità della democrazia è analizzabile con riferimento a diverse dimensioni, in
precedenza già individuate da Diamond e Morlino [2005]. Alcune di queste dimensioni
sono profondamente toccate dai flussi comunicativi intercorrenti tra cittadini, media e
politica [Campus 2008]. Infatti, la comunicazione politica ha a che fare con la
partecipazione, poiché, come numerosi studi testimoniano, la qualità dell’informazione
aumenta o deprime la propensione dei cittadini ad impegnarsi e a dare un contributo
partecipativo [Newton 1999, Norris 2000a]. La comunicazione politica garantisce inoltre,
elezioni libere e competitive, perciò riguarda molto strettamente la tutela e la salvaguardia
della libertà e l’attuarsi di condizioni di effettiva competizione. Infine, come
argomenteremo, nelle moderne democrazie non possono darsi soddisfacenti livelli di
accountability e responsiveness senza adeguata comunicazione politica. Per questa
ragione, la valutazione della qualità democratica di un paese non può prescindere da
1
La stesura dei paragrafi 1 e 4 è di Donatella Campus; quella dei paragrafi 2 e 3 di Antonio Ciaglia. Gli
autori sono grati a tutti gli intervistati che, oltre a dedicare parte del loro tempo a rispondere alle domande e
ad approfondire diversi temi con gli autori, hanno consentito di utilizzare stralci delle loro interviste nel testo.
un’analisi approfondita delle modalità della comunicazione politica e delle caratteristiche
dei media. Ciò verrà effettuato in modo trasversale alle già individuate dimensioni della
qualità democratica stessa, cercando di comprendere come la comunicazione politica
venga a incidere sui fattori che condizionano il buon funzionamento dei regimi
democratici.
Sulla scorta dei numerosi studi che hanno affrontato il nodo della comunicazione politica
in democrazia [Sartori 1987, Morlino 2003, Norris 2004, Hallin e Mancini 2004], abbiamo
articolato la presente analisi intorno a tre aspetti fondamentali, che concorrono insieme a
definire il quadro complessivo della comunicazione politica in una democrazia. Il primo è
la libertà dei media, ovvero il loro grado di indipendenza e autonomia dal potere politico,
una condizione ampiamente riconosciuta come essenziale da tutta la letteratura in materia.
Il secondo è il pluralismo, inteso come pluralità di fonti di informazione, ma anche come
pluralità di voci ai quali è dato spazio sui mezzi di informazione. Pur facendo qui
riferimento alla letteratura che ha affrontato il tema del pluralismo dei mezzi di
informazione [Klimkieviz 2008; Hallin e Mancini 2004], ci confronteremo in particolare,
con l’accezione dicotomica di pluralismo interno ed esterno che è stata introdotto nel
contesto italiano dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 826 del 1988. Secondo questa
definizione, la componente della pluralità del mercato e delle fonti va distinta dalla
componente della pluralità delle voci internamente rappresentate dalle fonti di
informazione. Ciò impone allo studioso, da un lato, di procedere con una ricognizione
sulla proprietà dei media e sulla concentrazione delle risorse. Dall’altro lato, si dovranno
invece verificare se esistono le condizioni per garantire l’accesso ai circuiti
dell’informazione a tutti coloro che hanno opinioni, idee e convinzioni ideologiche da
esprimere.
Il terzo aspetto fondamentale riguarda l’esposizione e la fiducia nei media. Si è preferito
parlare di esposizione ai media piuttosto che di accesso in quanto lo scopo dell’analisi è di
arrivare quanto più possibile ad una rilevazione dei flussi di comunicazione politica che
effettivamente raggiungono il cittadino. Per questa ragione, il dato aggregato non può che
essere ricavato attraverso la rilevazione di atteggiamenti e propensioni individuali. Sulla
base di dati di survey, si è pertanto analizzata innanzi tutto, la fruizione dei mezzi di
informazione e, specialmente, l’esposizione all’informazione politica. In secondo luogo, si
è presa in esame la fiducia nelle fonti di informazione. Entrambi gli elementi sono cruciali
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nel permettere l’attivazione di un circuito positivo tra informazione e partecipazione, ma
soprattutto tra informazione e accountability elettorale.
2. La libertà e l’indipendenza dei media: l’attuale framework normativo di
riferimento.
La libertà e l’indipendenza dei media rappresentano i principi che si collocano alla base del
corretto svolgimento del processo di produzione e circolazione dell’informazione
all’interno di un sistema democratico, tanto più se la democrazia in questione può dirsi,
come quella italiana, di provata maturità. Tuttavia, per quanto concerne il caso italiano,
due aspetti vanno evidenziati. Il primo è che in Italia l’aspetto attinente alla libertà dei
media rientra nel novero di quelle questioni sensibili, costantemente all’ordine del giorno
nei dibattiti tra soggetti politici, economici e culturali. Tale “sensibilità” è certamente
motivata dalla particolare e delicata situazione di conflitto d’interessi che caratterizza
l’Italia. Tuttavia, a completamento del quadro, va ricordato che questa particolare
attenzione che istituzioni e partiti riservano alla questione mediatica affonda le sue radici
in un periodo storico di molto precedente alla “discesa in campo” di Berlusconi. I media, e
in particolare la televisione, in Italia hanno sempre rappresentato una questione
eminentemente politica.
La seconda considerazione è che, come si cercherà di far notare dall’analisi delle due
normative principali sulle quali si regge l’impianto mediale italiano, in una democrazia
matura come quella italiana, lo strumento principale attraverso cui la politica è in grado di
influenzare il modo in cui il principio dell’indipendenza dei media trova attuazione è
quello legislativo, che, giocoforza, finisce per determinare anche le regole e le modalità
con cui entrano in gioco gli attori economici.
A tal riguardo, i principali provvedimenti legislativi di riferimento in materia di
comunicazioni di massa sono la legge n. 112/2004, nota anche come “legge Gasparri”, dal
nome del Ministro delle Comunicazioni allora in carica, e la legge n. 28/2000, la legge
sulla par condicio. Il primo provvedimento consiste in una legge “di sistema”, volta, cioè,
a disegnare un nuovo assetto per l’intero sistema delle comunicazioni attraverso una nuova
disciplina anticoncentrazione, la riorganizzazione del servizio pubblico radiotelevisivo e la
pianificazione dello switch over digitale. La legge sulla par condicio, varata quattro anni
prima, agisce invece su un livello differente, quello dell’equilibrio e dell’obiettività
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dell’informazione in periodi di campagna elettorale o ordinari, attraverso la fissazione di
precisi vincoli ai quali editori e giornalisti devono necessariamente attenersi.
2.1 La legge di sistema 112/2004 e il rilancio del duopolio strutturale.
Come è ampiamente noto, sin dai primi anni ottanta, dopo l’acquisizione dell’emittente
Italia1 (fino ad allora di proprietà del gruppo Rusconi) e di Rete4 (gruppo Mondadori) da
parte del gruppo Fininvest – già proprietaria dell’emittente Canale5 e della concessionaria
di pubblicità Publitalia -, il sistema televisivo italiano si è caratterizzato per un assetto
duale che, di recente, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha definito
“duopolio strutturale”.
I provvedimenti legislativi che dagli anni ottanta si sono susseguiti non sono stati in grado
di scalfire questo duopolio; al contrario, lo hanno dapprima legittimato, con il “decreto
Berlusconi” riconvertito in legge con il provvedimento n. 10/1985, e poi mantenuto,
nonostante le pressanti indicazioni in senso contrario più volte fornite dalla Corte
costituzionale, e nonostante le occasioni per un intervento radicale non fossero mancate,
con la “legge Mammì” (n. 223/1990) e la “legge Maccanico” (n. 249/1997).
Un’occasione particolarmente significativa in tal senso si presenta proprio alla vigilia
dell’approvazione della “legge Gasparri”. Infatti, la Corte, con la sentenza n. 466/2002,
aveva giudicato incostituzionale la mancata fissazione di un limite certo al completamento
del processo di liberazione e messa a disposizione delle frequenze terrestri liberate dalla
Maccanico, e aveva perciò individuato a propria volta tale data nel 31 dicembre 2003. È
questo lo scenario che fa da sfondo all’approvazione della “legge Gasparri”, di cui
riteniamo opportuno evidenziare soprattutto due punti.
Il primo punto sensibile corrisponde al fatto che i possibili effetti di apertura del mercato e
di rottura del duopolio, suscettibili di derivare dallo switch over digitale, sono stati
disinnescati dalla legge stessa, attraverso la fissazione di soglie anticoncentrazione
particolarmente elastiche. La “legge Gasparri”, difatti, elabora il Sic (Sistema Integrato
della Comunicazione), un paniere comprendente al proprio interno la radiotelevisione, la
carta stampata quotidiana e periodica, la raccolta pubblicitaria, la produzione di contenuti,
la produzione e la distribuzione di opere cinematografiche e l’editoria libraria, e stabilisce
l’unico limite del 20% alle risorse massime ricavabili da un solo soggetto dal Sic
complessivo. Non sono introdotte limitazioni, invece, alla concentrazione della proprietà
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internamente ai singoli segmenti della comunicazione; l’unica limitazione pro tempore2,
consiste nel divieto di proprietà incrociate tra emittenti nazionali e carta stampata
quotidiana.
Il secondo punto sensibile della legge attiene alla disciplina del servizio pubblico nel
regime transitorio (tuttora in corso) che dovrebbe portare alla progressiva privatizzazione
dell’emittente pubblica. Un aspetto particolarmente delicato attiene alla nomina dei
“vertici”, ossia dei membri del Cda. È stato detto in precedenza che in Italia partiti e
istituzioni, indipendentemente dal fenomeno Berlusconi, hanno sempre mostrato massima
attenzione alla gestione della radiotelevisione, ed in particolare del servizio pubblico. Tale
attenzione ha raggiunto una delle sue massime estremizzazioni con la lottizzazione, un
fenomeno che ha caratterizzato la Rai italiana per molti anni, le cui logiche e dinamiche
sembrano riprodursi tuttora nel processo di individuazione e designazione delle personalità
“di potere” all’interno dell’emittente di Stato [Mancini 2009].
Infatti, la “legge Gasparri” prevede un meccanismo di nomina che ha l’effetto di
“coinvolgere” in toto la politica nel delicato compito di designazione dei dirigenti. La
nomina di sette consiglieri spetta alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e
la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (Commissione di vigilanza), al cui interno si riflette
il rapporto di forze tra i partiti esistente in Parlamento. Questo meccanismo non fa altro che
riprodurre nel Cda tale rapporto di forza, elevando il criterio dell’affiliazione politica dei
membri su un livello pari (se non superiore) a quello della qualificazione professionale. Gli
altri due membri, tra cui il Presidente “di garanzia” sono nominati direttamente
dall’“editore” della Rai, il Ministro dell’Economia. Pertanto, rispetto alla normativa
precedentemente in vigore che assegnava ai Presidenti delle Camere il compito di nomina3,
la “Gasparri” ha l’effetto di “politicizzare” ulteriormente il processo di designazione, da un
lato, coinvolgendo nuovamente il governo nella procedura, dall’altro – in ambito
parlamentare – spostando l’equilibrio decisionale dai Presidenti ai partiti.
Sommati alla già descritta situazione di conflitto di interessi, questi due “punti sensibili”
della legge n. 112/2004 contribuiscono ad accrescere la criticità del panorama mediale
italiano in relazione alla delicata questione dell’indipendenza dei media. Tuttavia, a questo
si affiancano altri aspetti critici degni di nota, di cui probabilmente l’esempio più
2
Tale divieto, che in base alla legge avrebbe dovuto durare sino al 31 dicembre 2010, è stato inizialmente
prorogato al marzo 2011 e successivamente, in linea definitiva, al 31 dicembre 2012.
3
La legge in questione è la n. 206/1993, “Disposizioni sulla società concessionaria del servizio pubblico
radiotelevisivo”.
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significativo è l’attuale legge in vigore in materia di obiettività e completezza
dell’informazione che contribuisce ulteriormente a fare dell’Italia un caso unico tra le
democrazie occidentali. La legge in questione, nota come par condicio, è la legge n.
28/2000.
2.2 La legge sulla par condicio n. 28/2000: la strada italiana al pluralismo
dell’informazione.
L’elemento che maggiormente caratterizza la legge nota come par condicio è l’estrema
minuziosità delle prescrizioni che, a loro volta, prevedono dei vincoli molto stringenti alle
modalità di comunicazione politica, soprattutto nei periodi ufficiali di campagna elettorale.
Uno dei punti più rilevanti è rappresentato dal divieto assoluto di trasmissione di spot
elettorali. È concesso soltanto presentare i punti programmatici della propria piattaforma
politica attraverso i messaggi politici autogestiti, i quali, ricalcando molto parzialmente la
forma tipica degli spot elettorali, consistono in un’esposizione argomentata, ma unilaterale,
di un’opinione o di un punto programmatico. In pratica, questo esclude ogni forma di vera
e propria pubblicità politica all’americana, con attacchi agli avversari o confronti tra i
programmi. Inoltre, l’accesso ai messaggi è paritario per tutte le forze politiche,
indipendentemente dalla loro consistenza elettorale.
Al cuore della legge vigono due distinzioni. La prima è i tra periodi ordinari e periodi di
campagna elettorale, in cui le diverse limitazioni si fanno necessariamente più stringenti.
La seconda distinzione intercorre tra i programmi di informazione e i contenitori di
“comunicazione politica”. Sebbene anche per i primi valgano dei precisi divieti (come dare
indicazioni di voto esplicite, mettere in atto forme di influenza politica ecc.), è in relazione
ai programmi di comunicazione politica (contenitori specificamente allestiti per ospitare
tavole rotonde, interviste, confronti in contraddittorio tra candidati secondo modalità
diverse dai consueti programmi di approfondimento giornalistico ecc.) che vengono
previste misure rigidissime.
Un ulteriore aspetto particolarmente critico attiene al fatto che la legge rimanda a dei
regolamenti applicativi che devono essere varati campagna per campagna dall’Agcom per
le emittenti private e dalla Commissione di vigilanza per il servizio pubblico. In passato,
tale meccanismo “duale” non ha impedito l’uniforme ed omogenea applicazione della
legge; lo stesso non può dirsi in relazione a quanto accaduto in occasione delle Elezioni
Regionali del 2010.
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In questa occasione sono emersi in tutta la loro problematicità due aspetti strettamente
connessi alla normativa in questione: l’esistenza stessa della Commissione parlamentare di
vigilanza Rai e il coordinamento tra il suddetto organo e l’Agcom. Infatti, il cosiddetto
“silenzio elettorale”, che ha colpito i talkshow Rai durante la campagna elettorale, è stato il
frutto di una vicenda complessa nata all’interno della Commissione, che, su iniziativa di un
esponente dei Radicali, approva un regolamento in base al quale i programmi di
approfondimento giornalistico Rai (Porta a porta, Annozero, Ballarò, ecc.), diversamente
da quanto avvenuto in passato, sono tenuti ad attenersi al rigido regolamento previsto per i
programmi di comunicazione politica propriamente intesi, basato su una rigida
suddivisione dei tempi di parola tra i politici presenti. Inizialmente anche l’Agcom fa
proprio, secondo consuetudine, questo regolamento. Tuttavia, in seguito si verificano due
avvenimenti importanti. In primo luogo, i conduttori delle trasmissioni in questione si
rifiutano di andare in onda adottando una formula che, di fatto, stravolgerebbe le sesse
logiche sulle quali la trasmissione si fonda. È da quel momento in poi che scatta la fase di
“silenzio”. A questo si aggiunge il fatto che l’Authority per le comunicazioni perde il
ricorso al Tar fatto da Sky Italia e Telecom Italia Media contro l’approvazione di tale
regolamento per l’emittenza privata, pertanto si vede costretta ad annullare il
provvedimento stesso. Ed è qui che, come ben riassunto dalle parole del Enzo Cheli4,
professore di Diritto costituzionale all’Università di Firenze e primo Presidente Agcom dal
1998 al 2005,
si apre la diversificazione delle discipline regolamentari. Con un’altra aggravante: mentre gli atti
Agcom sono impugnabili davanti al giudice amministrativo, i regolamenti della Commissione
parlamentare non possono esserlo in quanto atti parlamentari.
Il risultato, per certi versi paradossale, che ne deriva è che durante la campagna elettorale,
le trasmissioni di approfondimento andranno regolarmente in onda sulle emittenti private,
mentre sul servizio pubblico scatterà il famoso black out. Dalle parole di Cheli emerge un
importante punto critico, forse decisivo: liberare la Rai dalla morsa della politica sarà
estremamente complicato finché il potere di indirizzo e di vigilanza resterà appannaggio di
un organo di natura eminentemente politica quale è una Commissione parlamentare.
Diversi studiosi sono concordi nel ritenere, infatti, che al fine sia di garantire al servizio
pubblico una maggiore indipendenza dai partiti, che di prevenire i possibili black out
4
Intervista realizzata dagli autori con Enzo Cheli a Firenze il 29 aprile 2010.
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suscettibili di emergere tra i due organismi (uno di garanzia, l’altro di carattere politico)
nell’applicazione della par condicio, una possibile soluzione potrebbe essere rappresentata
dall’abolizione della Commissione stessa. Si leggano le parole particolarmente
significative di Carlo Fusaro5, professore di Diritto elettorale e parlamentare, Università di
Firenze.
Forse ci vorrebbe un’Authority in grado di dettare delle norme molto blande, valide per tutti i
media, soprattutto per la radiotelevisione. Come si fa negli Stati Uniti, e in parte in Inghilterra.
La Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai andrebbe semplicemente abolita. La Rai sarà
sempre, in misura maggiore o minore, oggetto di lottizzazione finché resterà una cosa sulla quale
la politica ha facoltà di intervenire. La Rai non deve essere necessariamente a capitale privato,
anche se io penso che sarebbe la soluzione migliore. Naturalmente con adeguate norme
anticoncentrazione. E’ possibile fare servizio pubblico anche da mezzi privati attraverso la
predisposizione di norme che determinino i contenuti minimi del servizio pubblico. La
Commissione di Vigilanza semplicemente va abolita perché è una distorsione in sé. Non è un
problema risolubile: prenderà sempre decisioni di tipo politico, in quanto organo politico.
Anche Roberto Zaccaria6, deputato del Partito democratico e professore di Istituzioni di
diritto pubblico all’Università di Firenze (nonché Presidente Rai dal 1998 al 2002), che
pure ritiene la par condicio uno strumento necessario per porre un argine alla situazione di
anomalia incarnata nella figura del premier Berlusconi, riconosce la farraginosità del
sistema fondato sull’azione comune di Agcom e Commissione di vigilanza.
Se mi si chiede se ci sono troppi organi adibiti all’applicazione di questa legge, la mia risposta è
semplicissima: andrebbe eliminata la Commissione parlamentare di vigilanza. La legge può
essere assolutamente semplificata, rendendola più rispondente al suo fine; il vero problema è
tuttavia la sua debolezza, perché, se consideriamo le esperienze passate, l’Autorità, tutte le volte
che ha riscontrato la violazione della legge, ha comminato delle sanzioni insignificanti.
Oltre alle perplessità che questa organizzazione duale desta riguardo all’applicazione della
legge, un ulteriore punto critico va rintracciato nel merito delle prescrizioni normative
contenute nel testo legislativo che è qui oggetto di discussione. Un eventuale tentativo
riformatore dovrebbe seriamente considerare, da un lato, l’eventualità di snellirla,
limitandosi a sole indicazioni di massima, inasprendo, dall’altro, le sanzioni previste per
chi contravviene alle disposizioni. Le parole di Cheli, anche in relazione a questo aspetto,
sono particolarmente calzanti.
5
Intervista realizzata dagli autori con Carlo Fusaro a Firenze il 21 aprile 2010.
6
Intervista realizzata dagli autori con Roberto Zaccaria a Roma il 26 luglio 2010.
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Credo che la legge 28/2000 abbia due difetti fondamentali: per l’ansia di mettere un argine a
Berlusconi si è ecceduto nel dettaglio. È una legge troppo minuziosa, troppo articolata, troppo
intrusiva. Non solo la legge è complicata, ma rinvia ai regolamenti. Però, mentre da una parte si
eccede nel carico normativo perché si vuole inseguire una realtà fondata sul terrore che la sinistra
ha degli spot di Berlusconi, dall’altra questa legge è debolissima sulle sanzioni. Una legge sulla
par condicio che voglia funzionare deve avere meno norme, più elasticità nell’applicazione delle
stesse, a favore di un’Autorità indipendente che le deve applicare. Ma tali sanzioni devono essere
pesanti. Invece sono minime. È tutto lì il punto: è una legge squilibrata, troppo pesante nella
normazione e troppo leggera nelle sanzioni. E allora, se ci si deve rimettere le mani, io direi che
va alleggerita da un lato, molto alleggerita, e dall’altro va appesantita, dando all’Autorità dei
poteri sanzionatori seri. Oggi manca il deterrente.
La visione di Cheli trova concorde anche Paolo Caretti7, professore di Diritto
costituzionale all’Università di Firenze, il quale sottolinea un altro aspetto fondamentale
attinente alla competizione elettorale che è toccato dalla legge, ossia il divieto di spot
elettorali in virtù dell’introduzione dei messaggi politici autogestiti.
In questa materia il legislatore dovrebbe limitarsi a dei principi di base che assicurino la parità di
trattamento. Si guardi agli spot elettorali, ad esempio. O si decide che non si fanno gli spot a
pagamento - che non si fanno per niente, come avviene in alcuni Paesi - oppure, se si fanno, è
inutile dire che devono durare due minuti e mezzo, un minuto e mezzo alla radio. Sono cose che
hanno poco senso, perché poi mettono in moto un meccanismo di controllo, attraverso il
minutaggio, il monitoraggio, ecc.
Infatti, un ultimo punto che ha sollevato numerose polemiche coincide con il divieto di
trasmettere spot elettorali a pagamento, una misura varata con l’obiettivo primario di
annullare la posizione di vantaggio in cui, alla partenza di qualunque competizione
elettorale, si sarebbe trovato Silvio Berlusconi. Ci si concentra in linea pressoché esclusiva
comunicazione elettorale, omettendo, tuttavia, di considerare adeguatamente i molteplici
canali alternativi attraverso cui è possibile parlare al proprio elettorato di riferimento e che,
probabilmente, sono ancor più decisivi degli spot nella formazione e nell’indirizzo delle
opinioni, come i programmi di intrattenimento puro e di infotainment.
Proprio a questo proposito, non può non meravigliare che tra le proposte di riforma della
par condicio sul tavolo della discussione ci sia quella di alleggerire i vincoli sulle
trasmissioni generaliste; infatti, tra le proposte figura quella di eliminare il divieto per i
politici in campagna elettorale di partecipare a trasmissioni che non sono a carattere
informativo. D’altro canto, e in conclusione, in base alla prospettiva di chi, come Zaccaria,
seppur cosciente dei limiti intrinseci alla normativa, ritiene la par condicio uno strumento –
7
Intervista realizzata dagli autori con Paolo Caretti a Firenze il 5 maggio 2010.
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per certi versi estremo – per contenere lo strapotere di Berlusconi, possibili tentativi di
abrogazione e di riforma della legge potrebbero generare effetti anche peggiori rispetto a
quelli derivanti dall’applicazione della stessa. Anche in relazione a quest’ultimo punto è
particolarmente utile citare testualmente le parole di Zaccaria.
La par condicio è perfettibile come qualsiasi legge. Devo dire che coloro che la difendono, come
il sottoscritto, lo fanno perché se si mettesse mano alla par condicio la si peggiorerebbe in
maniera sensibile. La legge della par condicio nasce su input del presidente della Repubblica nel
1996 […]. Vengono impiegati quattro anni per fare una legge abbastanza elementare.
Quattro anni, e questo la dice lunga sulla difficoltà parlamentare; e se ci sono voluti quattro anni
per fare la legge sulla par condicio, ci sarebbe da capire quanti anni ci sarebbero voluti per fare
una legge sul conflitto di interessi.
La legge dice sostanzialmente due cose molto semplici: in campagna elettorale ci deve essere
una fascia di programmi in cui ci sono pari opportunità; non tutti i programmi, ma una fascia. E
sono vietati gli spot, secondo la logica che chi ha più soldi fa più propaganda. Questi sono i due
capisaldi di quella legge. E sono due principi sacrosanti, dopodiché ci sono una serie di
imperfezioni che riguardano vari aspetti.
Il sistema è farraginoso ma nessuno vuole migliorarlo per renderlo più elastico. Io sono
dell’avviso che questo tipo di legge è certamente perfettibile, ma il rischio che noi corriamo con
gli equilibri politici esistenti nel nostro paese è di renderla peggiore. Se la si peggiorasse, o
cancellasse, il danno sarebbe enorme per la qualità della democrazia.
Questa visione risulta particolarmente utile per comprendere dall’interno le difficoltà
esistenti e gli elementi che, sostanzialmente, finiscono per disincentivare la messo in atto
di qualche tentativo riformatore. Infatti, seppure la legge sulla par condicio susciti forti
perplessità e aspre critiche tra le forze politiche e gli esperti del settore, dando vita a
regolari confronti e discussioni su come cambiarla, sino a questo momento non si è avuta
nessuna convergenza tra i partiti su qualche possibile soluzione, proprio perché sono
molteplici le incognite relative a ciò che ne deriverebbe in seguito alla sua eventuale
abrogazione o sostituzione.
3. Il pluralismo dei media: la composizione del sistema dei media italiano.
Il pluralismo dell’informazione è una componente essenziale per il funzionamento di una
democrazia.
In
particolare,
secondo
Schedler
e
altri
[1999]
il
meccanismo
dell’accountability necessita di una corretta informazione perché possa funzionare
correttamente. Infatti, perché il processo valutativo nei confronti degli office holders
avvenga con adeguata cognizione, è necessario che l’informazione politica a disposizione
del cittadino risponda a determinati criteri di qualità. E se si considera che nelle
democrazie contemporanee la funzione di informare i cittadini sulla gestione della cosa
pubblica è assolta in maniera pressoché esclusiva dai mezzi di comunicazione di massa che si sono prima sovrapposti e poi sostituiti alle forme di comunicazione interpersonale
10
dapprima dominanti [Norris, 2000a; Norris, 2000b] – ben si comprende, allora,
l’importanza di capire sotto quali condizioni i media rappresentano uno strumento di
supporto alla democrazia. In particolare, come sottolineano Diamond e Morlino [2005], in
un’epoca come quella attuale, in cui i media hanno una rilevanza decisiva nell’indirizzare e
nel determinare le sorti del dibattito pubblico, sono frequenti i tentativi da parte degli attori
politici di “sottrarre” libertà a questi mezzi, al fine di utilizzarli in chiave strumentale,
compromettendo il funzionamento del meccanismo di vertical accountability. E’
probabilmente questa la dimensione della qualità democratica maggiormente interessata –
e dipendente – dalla performance del sistema dei media in un contesto democratico
avanzato.
Come si diceva in precedenza, il pluralismo dei media è una componente imprescindibile
perché i cittadini possano fruire di un’informazione di qualità. Ma è necessario
comprendere esattamente come il concetto di pluralismo si articola in questo specifico
campo. Si può affermare che il termine pluralismo – nella sua classica accezione
dicotomica di pluralismo interno ed esterno – è stato introdotto dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 826 del 1988, con la quale si vincolava la costituzionalità della legge n.
10/1985 alla natura transitoria del regime che il provvedimento stesso prevedeva. Il senso
dicotomico che il principio del pluralismo qui acquisiva fu riconosciuto ed accettato anche
dagli studiosi del settore e, di conseguenza, trovò una vasta affermazione nella letteratura
di riferimento [Hallin, Mancini, 2004]. Ed effettivamente questa distinzione di carattere
“spaziale” è servita a rendere bene la diversità dei livelli applicativi individuati dal
principio stesso, ponendo in evidenza la necessità di coniugare alla pluralità del mercato e
delle fonti con la pluralità delle voci internamente a ciascuna fonte.
La prima grande questione che si impone all’attenzione in relazione alla tematica del
pluralismo è quella relativa alla proprietà dei media, della concentrazione delle risorse e
delle fonti di ricavo delle maggiori imprese editrici. E’ la Corte stessa a rilevare la
necessità di garantire effettività al principio del pluralismo, evitando che ad attori di
rilevanza politico-sociale sia precluso l’accesso ai canali dell’informazione a causa di
un’eccessiva concentrazione dei mezzi tecnici ed economici nelle mani di pochi soggetti.
La Corte, dunque, individua nella concentrazione della proprietà un elemento che è
fortemente suscettibile di influenzare la pluralità (e quindi la qualità) dell’informazione. In
questo passaggio, come è possibile rilevare, prende forma lo stretto e necessario legame
che collega il pluralismo esterno al pluralismo interno: diversificazione delle risorse
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tecniche e economiche affinché nessun soggetto possa trovarsi in condizioni di forza tali da
poter escludere portatori di qualunque tipo di opinioni, idee e ideologie dai circuiti
dell’informazione.
3.1 Il pluralismo del sistema televisivo italiano.
Il mercato italiano della radiotelevisione, similarmente a quanto negli altri contesti
democratici avanzati, si regge sostanzialmente su tre principali fonti di ricavi: il
finanziamento pubblico per le emittenti di Stato, che solitamente consiste in un fee
(canone) che i cittadini che posseggono almeno un apparecchio televisivo pagano
annualmente; gli abbonamenti o i pagamenti una tantum per la fornitura di contenuti pay,
che vengono solitamente sottoscritti al fine di poter fruire di contenuti premium; e la
pubblicità, che, almeno in Italia, rappresenta una fonte comune di ricavi tanto all’emittente
di servizio pubblico quanto ai soggetti privati operanti sulle varie piattaforme. Il grado di
pluralismo esterno, relativo alla composizione della media ownership nel settore
radiotelevisivo, risente necessariamente dal peso che sul mercato stesso detengono le
diverse fonti di ricavo.
La composizione dei ricavi risulta, in Italia, sostanzialmente equilibrata, ma questo non si
traduce necessariamente in un sistema altrettanto in equilibrio; al contrario, la caratteristica
italiana consiste proprio nel fatto che in ciascun “segmento” si afferma una singola azienda
come player principale. In altri termini, come testimoniato dalla Tab. 2 a seguire, ciascun
operatore ha lo “zoccolo duro” dei suoi ricavi in un settore differente, rendendo il sistema
particolarmente rigido e scarsamente concorrenziale.
12
Tab. 1 - Entrate generate dall’attività televisiva nel 2008 e loro ripartizione tra le
imprese in Italia. Dati in milioni di euro.
MEDIA COMPANIES
VAL. ASS.
Rai
Finanziamento pubblico (canone)
Pubblicità
Ricavi da altri operatori
Rti - Mediaset
Pubblicità
Offerte pay
Ricavi da altri operatori
Telecom Italia Media
Sky Italia
Abbonamenti pay tv
Pubblicità
Ricavi da altri operatori
Totale parziale
Totale complessivo
%
2723
32,1
1603
59,1
1096
40,2
24
0,7
2531
29,9
2165
85,3
199
7,7
167
7,0
152
1,8
2640
31,2
2373
89,7
232
8,6
34
1,7
8046
95,0
8473
100
Fonte: Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
Prendendo in considerazione solamente i ricavi realizzati dalle principali media companies
italiane – e omettendo, per il momento, di soffermarci sulla natura degli stessi, e quindi,
sulla provenienza degli introiti – emerge uno scenario che presenta diversi elementi di
novità rispetto al recente passato. Innanzitutto, è evidente che, esclusivamente in termini di
ricavi realizzati, non è più possibile parlare di duopolio per descrivere il mercato italiano
della televisione. Si è, invece, in presenza di una situazione in cui si fronteggiano tre
soggetti che tendono ad equivalersi nei ricavi. In realtà, come avremo modo di sottolineare
in seguito, la competizione che si instaura tra i tre concorrenti è relativa, data la diversa
natura delle loro “specializzazioni” finanziarie. Per il momento, sia sufficiente rilevare che
sia la Rai – il soggetto pubblico – che Mediaset vedono contrarsi sensibilmente la loro
quota di mercato. Addirittura Mediaset, con il 29,9% dei ricavi, non è più la seconda forza
del mercato, ma si vede superata da Sky Italia che, attestandosi a quota 31,2%, si pone a
minima distanza dalla stessa Rai, la prima media company italiana (32,1%).
Limitando, per ora, la disamina del mercato italiano della radiotelevisione ai ricavi
realizzati e alle quote di mercato detenute da chi vi opera, se ne potrebbe trarre che negli
ultimi dieci anni il grado di pluralismo esterno si sia effettivamente incrementato e che, di
conseguenza, la proprietà dei media abbia intrapreso un percorso virtuoso di
diversificazione. Certamente il duopolio che dapprima esisteva in questo mercato è stato
13
scalfito, e questo rappresenta eo ipso un dato importante. Se nel 1998 Rai e Mediaset
catalizzavano l’84,7% delle risorse totali, nel 2008 ne controllano il 60,0%. Si è di sicuro
più vicini ad una situazione in linea con altre democrazie occidentali. Questi dati, però, se
presi da soli e non integrati con analisi più approfondite, rischiano di disegnare uno
scenario fuorviante. È errato, infatti, ritenere conseguito un adeguato livello di pluralismo
esterno fondando questa considerazione esclusivamente sul numero delle imprese operanti
e sull’entità dei ricavi realizzati. Sicuramente è necessario che in un singolo mercato,
perché si abbia pluralismo, operino più di due soli concorrenti; ma, allo stesso tempo, è
altrettanto necessario che tra questi si inneschi una reale competizione.
Per questa ragione è opportuno chiarire i termini in cui il principio del pluralismo esterno
trova effettiva realizzazione, al fine di farne emergere non soltanto l’entità, ma anche, e
soprattutto, la qualità.
La competizione tra attori è un prerequisito del pluralismo esterno importante quanto
quello economico. Ed è proprio in relazione a questo aspetto che il mercato italiano si
dimostra particolarmente debole. Infatti, come è possibile ravvisare dalla stessa Tab.2,
l’elevato grado di settorializzazione relativa alle fonti di ricavo di ciascuna azienda
rappresenta un freno all’innescarsi di una dinamica competitiva virtuosa. La Rai, che
realizza i propri ricavi attingendo, quasi in parti uguali, dalla pubblicità e dal canone, è
l’azienda con il grado di differenziazione più elevato. Il discorso è diverso per Mediaset e
Sky. Mediaset, seguendo la propria vocazione di network commerciale, realizza la quasi
totalità dei suoi ricavi con la vendita di spazi pubblicitari (85,3%), mentre Sky, che per il
momento opera esclusivamente sulla piattaforma digitale satellitare, ha il suo asset
portante nella fornitura di contenuti pay e nella sottoscrizione di abbonamenti (89,7%).
L’aspetto più importante da mettere in evidenza è che, se dal punto di vista dei ricavi
realizzati e della quota di mercato detenuta il mercato è sicuramente più “plurale” rispetto a
soli pochi anni fa, nell’ambito delle trasmissioni “in chiaro” – ossia visibili a tutti senza la
sottoscrizione di un abbonamenti – il duopolio persiste ed è ancora una realtà effettiva,
nonostante l’avvio del processo digitalizzazione. Questo dato dimostra che i timori espressi
in merito alla legge Gasparri, in particolare in relazione all’impatto che la normativa
avrebbe potuto avere sul pluralismo di un mercato già da parecchi anni immobile, si
rivelano particolarmente fondati. Sky deve la sua crescita quasi esclusivamente alle
sottoscrizioni di abbonamenti; infatti, se si considera l’ammontare degli introiti derivanti
dalla pubblicità, si può notare come, in definitiva, in questo settore strategico, l’azienda di
14
Murdoch non rappresenta un concorrente molto temibile per il servizio pubblico e per
l’azienda controllata dalla famiglia del premier Berlusconi. A conferma di quanto
affermato, si guardi la Tab. 2 a seguire.
Tab.2 – Share giornaliero medio per canale
relativo all’anno 2008.
CANALI
RaiUno
RaiDue
RaiTre
Totale Rai
Canale5
Italia1
Rete4
Totale Mediaset
La7
Altre terr. + sat.
Totale complessivo
%
21,8
10,6
9,1
41,5
20,3
10,8
8,3
39,4
3,1
16,0
100,0
Fonte: Auditel
Ciò che spicca immediatamente analizzando questa tabella è la sensibile sproporzione che
esiste tra la suddivisione del mercato radiotelevisivo e la composizione della relativa
audience. Infatti, mentre Rai e Mediaset catalizzano il 60% del totale dei proventi
economici del mercato radiotelevisivo, sommando lo share giornaliero medio relativo
all’anno 2008 delle tre maggiori reti Rai e delle tre reti Mediaset, la percentuale
complessiva è dell’80,9%. Lo share medio di La7 è del 3,1%, mentre le televisioni
satellitari, sommate alle altre emittenti terrestri non contenute nell’elenco raggiungono, in
media, solo il 16% dei telespettatori. Sembra di essere in presenza di uno scenario ancora
piuttosto “ingessato”, come dimostra anche il modo in cui gli ascolti si suddividono tra le
diverse emittenti. Gli ascolti tendono a ripartirsi in maniera speculare tra le reti Rai e
Mediaset: spicca una rete “ammiraglia” che punta su una programmazione più
marcatamente generalista, alla quale si affiancano due reti minori, che puntando su
contenuti maggiormente tarati sulle caratteristiche di determinati pubblici, fanno registrare
delle percentuali d’ascolto più basse. Per quanto la percentuale dell’80,9% sia di qualche
punto inferiore a quelle che si registravano in anni passati (anche più recenti) è
indubbiamente significativa e indicativa di un duopolio televisivo ben lontano dall’essere
definitivamente superato. E’ probabilmente questo l’aspetto più preoccupante e delicato a
15
cui rimanda il problema di un’eccessiva concentrazione mediatica – sia in termini di
controllo che di effettiva proprietà – nelle mani di un unico soggetto, a maggior ragione se
tale figura corrisponde al capo del governo e al leader del maggior partito italiano.
3.2 Il pluralismo della stampa italiana.
Nonostante la minore disponibilità di risorse per cui il settore della carta stampata si
caratterizza rispetto alla televisione, la concentrazione della proprietà non è altrettanto
accentuata, come è possibile riscontrare dalla Tab. 3 riportata di seguito. Al contrario,
agevolato anche dalle caratteristiche tecniche del mezzo che consentono una più agevole
diversificazione del sistema, il settore della stampa si mostra, nella sua composizione,
nettamente più equilibrato, per quanto comunque emergano importanti similarità con il
sistema radiotelevisivo.
Tab. 3 - Entrate generate dalla stampa quotidiana italiana nel 2008 e
ripartizione tra le imprese. Dati in milioni di euro.
RICAVI
SOCIETA'
VAL. ASS.
Gruppo Ed. l’Espressso
RCS Media Group
Il Sole 24 ore
Caltagirone
Poligrafici Editoriale
Altri
Totale
%
706,6
27,2
704,0
27,1
301,4
11,6
272,8
10,5
223,4
8,6
389,7
15,0
2598,0
100,0
Fonte: Fieg-Wan; elaborazioni Agcom
Anche in questo mercato spiccano due imprese dominanti che, sostanzialmente, si
equivalgono in termini di ricavi realizzati e quote di mercato detenute: il Gruppo Editoriale
l’Espresso, editore di Repubblica, e Rcs Media Group, la holding proprietaria del maggiore
quotidiano nazionale, il Corriere della Sera. Va rilevata, però, una particolarità importante:
tra le prime due aziende del mercato e gli altri concorrenti, pur intercorrendo un margine
rilevante, non si può certo dire che vi sia un abisso incolmabile: sia il Sole 24 ore Spa,
editore dell’omonimo giornale e di proprietà della Confindustria, che il Gruppo
16
Caltagirone, che edita importanti testate come il Messaggero e il Mattino, realizzano ricavi
ingenti all’interno del mercato italiano, seppur, comunque, nel quadro di una forte crisi che
negli ultimi anni ha colpito il settore nel suo complesso.
Particolarmente interessante, anche alla luce delle peculiarità che da sempre caratterizzano
la stampa italiana, è la posizione di Poligrafici Editoriale, proprietario de la Nazione, Resto
del Carlino e il Giorno, che, con il suo 8,6%, si attesta come quinta forza del mercato, ma
come primo editore “puro” italiano.
E’ possibile affermare, pertanto, che internamente al mercato della carta stampata il
principio del pluralismo esterno trova un’applicazione maggiormente in linea con gli
standard delle altre democrazie occidentali, rispetto a quanto invece avviene nel settore
radiotelevisivo. Basti considerare che se solo Rai, Mediaset e Sky Italia realizzano il 95%
dei ricavi generati dall’attività radiotelevisiva, le prime cinque imprese attive nel mercato
dell’editoria quotidiana fanno registrare l’85% dei proventi. Tale percentuale si abbassa
ulteriormente se non ci si limita alla stampa quotidiana, ma si prende in considerazione il
settore editoriale nel suo complesso. In ogni caso, occorre considerare che il fenomeno
della concentrazione della proprietà, per quanto non marcato come nel settore della
radiotelevisione, riguarda da vicino anche l’ambito della carta stampata. Infatti, soltanto
nel 1998, sempre le prime cinque imprese editrici di quotidiani realizzavano solo il 65,4%
del totale dei ricavi. Inoltre, se nel 2008 i due maggiori competitors – Gruppo Espresso e
Rcs Mediagroup – realizzano nel complesso il 54,3% dei ricavi, gli stessi soggetti nel 1998
si fermavano al 37,3%8. Ma la preoccupazione maggiore, in relazione alla carta stampata, è
destata dalla scadenza del 31 dicembre 2012, data a partire dalla quale, secondo quanto
previsto dalle modifiche apportate alla legge Gasparri, i soggetti operanti nel settore
radiotelevisivo potranno iniziare ad avere partecipazioni anche in imprese editrici di
quotidiani (mentre è già concesso loro detenere partecipazioni in imprese editrici di
periodici). Consentire la proprietà incrociata stampa quotidiana-televisione rappresenta
un’ulteriore spinta verso la concentrazione della proprietà mediale, prospettando per coloro
che già occupano una posizione dominante la possibilità di consolidarsi ulteriormente,
grazie alle nuove aree di mercato da questi potenzialmente sfruttabili.
Per quanto attiene, invece, all’offerta editoriale, nonostante un mercato fortemente
sbilanciato verso la televisione, il mercato si mostra estremamente variegato, sia in termini
8
Fonte Fieg-Wan, elaborazioni Agcom.
17
numerici che in merito alla specializzazione delle differenti testate. Per quanto riguarda i
quotidiani, che individuano il settore sul quale la nostra analisi si concentra in maniera più
approfondita, si contano, in base ai dati Fieg-Wan, ben 94 titoli in circolazione, di cui 9
free. Il fenomeno della free press, dunque, sebbene detenga una rilevanza marginale in
Italia, soprattutto rispetto ad altre realtà europee, va acquisendo sempre maggiore
consistenza, in particolare nei grandi centri urbani. Oltre a queste tipologie di fogli e ai
classici quality papers a circolazione nazionale, spiccano i quotidiani di approfondimento
sportivo che, come si avrà modo di far notare, esercitano un importante effetto di traino
sull’intero settore. Infine non va omessa la grande rilevanza che in Italia detengono le
testate di partito, i giornali riconducibili alla Chiesa cattolica e le testate a circolazione
locale, maggiormente orientate verso quelle fasce di popolazione “escluse” dal raggio
d’azione dei grandi quotidiani d’élite. Di seguito è riportata la diffusione media delle
testate italiane relativamente all’anno 2008.
Tab. 4 – Diffusione media dei quotidiani italiani nell’anno
9
2008. Dati in migliaia .
TESTATA
Corriere della Sera
Repubblica
Gazzetta dello Sport
Il Sole 24 Ore
La Stampa
Corriere dello Sport-Stadio
Il Messaggero
Il Giornale
Il Resto del Carlino
La Nazione
Tuttosport
Libero
Avvenire
Il Secolo XIX
DIFFUSIONE
MEDIA
620,6
556,4
470,5
334,6
309,1
226,1
210,9
192,7
165,2
137,1
129,9
125,1
105,8
103,2
Fonte: Audipress-Wan
Dalla tabelle illustrata, emerge una tendenza consolidata da anni, che vede le due maggiori
testate nazionali, Corriere della Sera e Repubblica, contendersi il primato per poche
9
Per quanto riguarda i quotidiani sportivi sono state presi in considerazione i dati relativi all’edizione del
lunedì. La tabella riporta soltanto le testate la cui diffusione media è superiore alle 100mila copie al giorno.
18
migliaia di copie, anche se nel 2008 il quotidiano di via Solferino sembra aver guadagnato
un margine sufficientemente ampio. Ciò che risalta, in maniera altrettanto lampante, è la
presenza nelle prime sei posizioni di ben due quotidiani sportivi, che diventano tre se si
guarda alla graduatoria nel suo complesso. Questo dato conferma un’altra caratteristica
tipica del giornalismo italiano, che vede i quotidiani sportivi detenere una posizione di
assoluta preminenza all’interno del settore economico di riferimento. Nella pagina
precedente, come si ricorderà, oltre ai quality papers nazionali e alla stampa sportiva,
erano state individuate almeno altri due generi di assoluta rilevanza nel panorama italiano
della stampa quotidiana: i giornali di partito e i giornali locali. Per quanto concerne i primi,
nessuno di essi figura tra le prime posizioni: il Giornale di Milano, seppure abbia una linea
editoriale politicamente ben connotata, non può essere inserito in questa categoria. Lo
stesso discorso vale per Libero, in dodicesima posizione, anche se questa testata sembra
presentare quei tratti che maggiormente lo avvicinano a un organo di partito propriamente
inteso. Va rilevata, tuttavia, l’elevata diffusione raggiunta dalla testata della Cei, Avvenire,
che con le sue 105mila copie al giorno, risulta il primo giornale cattolico e, in assoluto, la
tredicesima testata più diffusa a livello nazionale.
Per quanto attiene ai quotidiani locali, proprio in quanto diffusi in un raggio territoriale
circoscritto, i giornali locali non possono certo figurare nelle posizioni di preminenza di
una graduatoria sulla diffusione nazionale. Tuttavia, la tabella si chiude proprio con una
testata locale, il Secolo XIX di Genova che raggiunge la rilevante quota di 103mila copie
diffuse.
4. Esposizione ai media e fiducia
Com’è noto, i media, in quanto principali fonti di informazione, costituiscono il
collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Infatti, è soprattutto attraverso i media
che i cittadini vengono a conoscenza dell’operato del governo e dell’opposizione fuori e
dentro il Parlamento. Infatti, per quanto possano esistere canali di comunicazione diretta
tra politici e cittadini, quale il cosiddetto porta a porta, è in gran parte attraverso i giornali,
la televisione e internet che i politici cercano di far conoscere quello che stanno facendo e,
soprattutto, cercano di apparire al meglio e di mantenere alta la loro popolarità. Questo
rende la comunicazione politica un fattore determinante nel consentire l’attivazione del
meccanismo di accountability elettorale: infatti, i cittadini hanno bisogno di informazione
per poter esprimere un giudizio positivo o negativo sull’operato del governo.
19
Le attività attraverso le quali il governo comunica possono essere interamente gestite dai
politici stessi - ad esempio tramite un sito web o messaggi televisivi alla nazione - ma per
lo più le notizie passano attraverso il filtro e la mediazione della stampa. Questo ha portato
la politica a sviluppare sempre più raffinate tattiche per incidere e influenzare la copertura
dei media. E’ il cosiddetto news-management, ovvero l’insieme delle attività di
comunicazione e propaganda che vengono pianificate allo scopo di dirigere l’attenzione
dei media sulle notizie che rafforzano l’immagine positiva del governo e distoglierla da
altri temi che possono invece gettare una luce sfavorevole. E’ evidente, tuttavia, che i
media non sono completamente proni di fronte alle “strategie manipolatorie dei politici che
desiderano rimanere al loro posto”, come le definisce Maravall [1999, 521]. Si innesta,
pertanto un complesso processo di interazione tra politici e media, con entrambe le parti
che perseguono i propri scopi: gli uni cercano di massimizzare le probabilità di essere
rieletti; gli altri cercano di massimizzare le proprie audience.
Nel perseguimento della massimizzazione dell’audience, tuttavia, i media svolgono una
funzione
importante
anche
nell’ambito
della
dimensione
speculare
a
quella
dell’accountability, la responsiveness. Infatti, i media si sono costruiti un ruolo di
portavoce dei cittadini e aumentano i loro fatturati anche grazie a inchieste a tutela dei
cittadini, a sondaggi su come la pensano, a rubriche di posta dei lettori e ai blog dove si
consente agli utenti di dire quello che vogliono. Insomma, i media si fanno portatori delle
istanze dei cittadini affiancando quelli che sono gli strumenti di ascolto più tradizionali di
cui il governo dispone, ovvero dell’opera di filtro compiuta dagli intermediari sociali quali
partiti, sindacati, associazioni. Anche questa funzione non è tuttavia svolta in modo neutro:
benché i media aspirino a dare voce alle richieste del popolo, in realtà essi stessi plasmano
l’opinione pubblica inducendo nuovi bisogni e priorità. E’ il caso delle cosiddette
‘maggioranze percepite’ [Entman e Herbst 2001]: i media, attraverso inchieste e sondaggi,
presentano l’opinione del pubblico su una certa questione. Si tratta però, comunque, di
un’interpretazione, in quanto anche il sondaggio non è uno strumento di assoluta
precisione e può prestarsi a errori di valutazione [Althaus 2003]. In questo modo,
l’attribuzione di un certo desiderio all’opinione pubblica può rafforzare l’idea che esista
una maggioranza reale e non solo percepita e influenzare così l’azione del governo.
Da queste premesse appare chiaro che i media hanno un impatto fondamentale sul
funzionamento di una democrazia. Da un lato, essi contribuiscono a formare l’opinione
pubblica in termini di agenda; dall’altro, il governo cerca di utilizzare i media in modo da
20
migliorare e consolidare la propria popolarità. Pertanto, vi sono almeno due elementi
cruciali della comunicazione politica che influenzano la qualità democratica rispetto alla
dimensione dell’accountability e della responsiveness: primo, la regolare esposizione alle
notizie, senza la quale il cittadino non sarebbe in grado di raccogliere l’informazione
necessaria alla formulazione di un giudizio sul governo. Per questa ragione, la prima
domanda alla quale daremo risposta riguarda l’esposizione ai mezzi di informazione,
prevalentemente rilevato attraverso i dati sulla lettura diffusione di quotidiani e periodici,
l’utilizzo di apparecchi radiofonici e televisivi, e di Internet. Non sfugga che l’esposizione
non coincide con la diffusione sebbene, come è ovvio, la seconda è presupposto della
prima. La diffusione è una caratteristica sistemica e, come tale, è stata trattata nei
precedenti paragrafi nell’ambito dell’analisi dell’offerta mediale.
L’esposizione ai mezzi di informazione è invece una caratteristica individuale e, come tale,
può essere investigata solo attraverso strumenti metodologici atti a rilevare abitudini e
predisposizioni dei singoli componenti di una cittadinanza.
Secondo elemento che influenza la coppia di dimensioni accountability/assertiveness è la
fiducia che i cittadini hanno nei mezzi di informazione, fiducia che si basa su un ventaglio
di fattori che vanno dalla credibilità della fonte, dalla percezione della sua imparzialità, al
grado di spettacolarizzazione e banalizzazione della politica. E’ chiaro, infatti, che
l’efficacia persuasiva dei mezzi di informazione presuppone che i lettori, telespettatori e
utenti della rete siano disposti a credere alla veridicità delle informazioni che li
raggiungono. Questo, come vedremo in seguito, dipende fortemente da alcune
caratteristiche personali e prevalentemente dalle predisposizioni politiche degli individui.
Infatti, ciò che emerge dalle ricerche della psicologia cognitiva e sociale è che si tende ad
avere fiducia in una fonte che percepiamo come già allineata sulle nostre stesse posizioni.
Al contrario, non si dà ascolto a coloro che non ci sembrano in linea con noi. Questo
atteggiamento discriminatorio si spinge fino alla cosiddetta esposizione selettiva, ovvero al
rifiuto di esporsi a fonti in disaccordo per il timore e il fastidio di trovarsi di fronte ad
un’informazione in contrasto con le nostre convinzioni. In generale, però, come vedremo,
bassi livelli di fiducia aggregata non sono necessariamente il segnale della percezione di
una troppo alta partigianeria dei media, ma esprimono soprattutto un senso di distacco dal
‘circuito politico-mediatico’, come se la relazione tra politica e media venisse vista come
negativa o deficitaria nel suo complesso. In altri termini, un forte sentimento antielitario
può associare i media alla politica, anziché considerare i mezzi di informazione come dalla
21
parte del cittadino. Un effetto quest’ultimo più probabile in quei contesti, come appunto
l’Italia, dove è sempre prevalso un alto grado di parallelismo politico dei media [Hallin e
Mancini, 2004] con stampa schierata e comunque poco diffusa e televisione pubblica
controllata dai partiti secondo un modello di lottizzazione.
4.1 L’esposizione degli italiani ai media.
Vediamo ora il primo punto relativo all’esposizione ai media. Secondo la più recente
indagine Istat (2006), il mezzo di informazione più utilizzato è la Tv, seguita dalla radio.
Poi vengono i quotidiani, i settimanali, Internet.
Tab. 5 – Esposizione italiani ai media nell’anno 2006. Valori percentuali
% utenti
Televisione Radio
Quotidiani Settimanali Internet
93,2
61,4
71,2
51,7
28,3
Fonte: Istat 2006
La televisione continua a fare la parte del leone con un picco nella fascia di popolazione
più anziana (tra i sessanta e i settantaquattro anni) con quote superiori al 95%. E’ bene
chiarire che l’utilizzo del mezzo non si traduce necessariamente in esposizione
all’informazione, in particolare quella politica. Infatti, un telespettatore assiduo potrebbe
passare la propria giornata davanti a telefilm, reality e altra programmazione evitando con
cura ogni programma a contenuto informativo. Tuttavia, va sottolineato che ben il 75.5%
guarda i telegiornali. Molto inferiore è la fruizione di tribune politiche e dibattiti: solo il
18,7%. Poiché è sempre più invalso l’uso dell’infotainment (cioè proliferano le
trasmissioni che offrono un mix di informazione e intrattenimento), possiamo presumere
che una parte di notizie su fatti di rilievo politico arrivi al pubblico anche attraverso una
programmazione dedicata all’attualità con ospiti e pubblico, seguita dal 14,7%. Come è
logico, esiste un divario relativo all’istruzione che fa sì che i telegiornali e le trasmissioni
di argomento politico siano più seguite da persone con alto titolo di studio.
Passiamo ora alla radio, che è un mezzo molto popolare fra i giovani e adulti fino a 44 anni
(oltre 80%). In generale, tra gli ascoltatori della radio, il 40,5% segue i giornali radio e solo
il 18.3% i programmi di attualità. Programmi dedicati alla politica hanno seguito solo tra il
5.9 %.
Per i quotidiani bisogna distinguere tra i lettori regolari e quelli più sporadici, come
illustrato nella tabella sottostante. I lettori, soprattutto i regolari, si trovano tra i 35 e i 64
22
anni di età. I quotidiani più letti sono quelli di informazione generale e a diffusione
nazionale (66,6 %). In particolare, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, le testate
più vendute nell’anno 2008 secondo dati Audipress-WAN sono state il Corriere della Sera,
la Repubblica, seguite ad una certa distanza da Gazzetta dello Sport e il Sole 24 ore.
Sempre secondo i dati Istat, la cronaca locale è in testa nella graduatoria dei tipi di notizie
lette, tuttavia anche la politica interna e quella estera attirano buone percentuali
(rispettivamente 59,4% e 37,4%). 20,1% legge le notizie economiche e finanziarie, 30,6%
notizie di attualità varia.
Tab. 6 – Frequenza nella lettura di quotidiani. Anno 2006. Valori percentuali
Totale dei Tutti i
lettori di
giorni
quotidiani
5-6 gg a
settimana
3-4 gg a
settimana
1-2 gg a
settimana
61,4
7,0
17,6
46,2
29,2
Fonte: Istat 2006
Alla lettura tradizionale del quotidiano a pagamento vanno poi affiancandosi due realtà in
crescita in particolare tra le fasce giovanili, la free press e il quotidiano on line.
Molti leggono sia il quotidiano a pagamento sia la free press (34,5%), ma per il 11.8% la
free press è l’unico quotidiano letto soprattutto tra i giovani.
Nel complesso, l’informazione politica passa soprattutto per la televisione, specialmente
attraverso i telegiornali. Come vedremo, l’esposizione ai telegiornali è fortemente
influenzata da scelte di tipo partigiano e ideologico. Per quel riguarda la lettura dei
giornali, essa appare medio-bassa se comparata con altre democrazie europee, anche se è
opportuno sottolineare che in Italia non esistono i tabloid, ovvero non esistono veri e propri
quotidiani popolari che alzino il volume complessivo dei lettori. Questo fenomeno in
passato poteva essere considerato come separato in quanto i tabloid non erano considerati
strumenti di informazione politica e, quindi, solo i quotidiani tradizionali e più blasonati
potevano essere ascritta alla categoria dell’informazione politica. Oggi con il processo di
‘popolarizzazione’ della politica in atto [Van Zoonen 2005, Mazzoleni e Sfardini, 2009] la
stampa tradizionale si è sempre più ‘tabloidizzata’ nel senso che dà sempre più spazio alle
cosiddette soft news. Il divario tra quotidiani di informazione generale e tabloid si è ridotto
notevolmente perché i primi danno sempre più spazio ad aspetti della politica più vicini al
privato e di taglio scandalistico. Pertanto, molta informazione politica oggi passa attraverso
la stampa popolare a diffusione nazionale. Come si è detto, questa tipologia manca in
23
Italia, mentre è vero che si è assistito anche qui ad un processo di popolarizzazione dei
principali quotidiani per quel che riguarda la copertura delle notizie di politica con articoli
di analisi e editoriali colti affiancati da gossip e inchieste scandalistiche.
4.2 LA fiducia nei media.
Passiamo ora all’aspetto della fiducia nei media. Come già osservato, possiamo affermare
che i media svolgono un’azione informativa ed eventualmente persuasiva rispetto al
pubblico soltanto se la fonte di informazione gode di una certa credibilità. Ecco perché la
prima domanda da porsi è: qual è il grado di fiducia dei cittadini nel sistema
dell’informazione e nella sua capacità di riportare fedelmente e puntualmente notizie
relative al dibattito pubblico e all’agone politico?
A questo proposito, il caso italiano ci mostra dati poco incoraggianti che sono riportati
nella tabella qui sotto:
Tab. 7 – Fiducia nei media. Anno 2008. Valori percentuali
FIDUCIA NELLA
STAMPA
Molta
Abbastanza
Poca
Nessuna
2,2
27,2
54,9
15,7
FIDUCIA NELLA TV
2,5
31,7
53,4
12,3
Fonte: World Values Survey.
Emerge molto chiaramente che il pubblico italiano crede poco ai mezzi di informazione.
Più dell’80% sostiene di avere poca/nessuna fiducia nella televisione e circa il 75%
dichiara lo stesso per la stampa. Osservando il dato incrociato con altre variabili, quali
genere, età, istruzione e professione (vedi appendice dati), fatte salve alcune eccezioni su
cui torneremo in seguito, emerge una relativa omogeneità di giudizio negativo.
Leggermente più ottimista rispetto al dato della World Values Survey è l’Eurobarometro,
secondo cui il 50% dei cittadini considera la TV inaffidabile, mentre il 54% ha scarsa
fiducia nei giornali. Come vedremo in seguito, si tratta di percentuali al di sopra della
media europea. Probabilmente a seguito della presenza del conflitto di interesse di
Berlusconi, sono soprattutto gli elettori di sinistra e di centro (60% e 63%) a non fidarsi
della TV.
Di fronte ad un dato così desolante si apre un duplice interrogativo: primo, quali sono le
ragioni che hanno portato ad un così evidente giudizio negativo dei cittadini? Secondo,
poiché la sfiducia nei mezzi di informazione, soprattutto la televisione, non si riflette nei
24
consumi mediali (in altri termini, non mi fido, però comunque la guardo), fino a che punto
comunque i media sono in grado di influenzare i cittadini e intervenire nei processi di
responsiveness e accountability?
Circa il primo punto, la specificità dell’offerta mediale in Italia è stata già ampiamente
illustrata nei precedenti paragrafi. Il sistema ereditato dalla prima Repubblica si presentava
con fortissimi aspetti di collateralismo politico tali per cui difficilmente i cittadini
avrebbero potuto concepire i media, in particolare la televisione pubblica, come autonomi
dalla politica. In questa situazione, che già implicava una forte commistione tra media e
politica e un certo grado di controllo della seconda sui primi, si è venuto ad innestare il
problema della proprietà del primo polo della televisione privata da parte del leader del
centro destra Silvio Berlusconi. A tutto ciò, si aggiungono altri segnali che rafforzano
l’immagine di una contiguità forte tra ambiente politico e mondo dei media: ad esempio, la
circostanza che spesso i giornalisti entrano in politica, come si evince dalla tabella qui
sotto.
Tab. 8 – Professione dei parlamentari italiani
PROFESSIONE
avvocato
giornalista
imprenditore
docente universitario
professionista di partito
dirigente
medico
insegnante
impiegato
dirigente pubblico
consulente
commercialista
libero professionista
sindacalista
ingegnere
Totale parziale
Totale complessivo
V.A.
%
119
118
102
75
65
64
54
46
41
29
28
18
18
17
14
808
952
12,5
12,4
10,7
7,9
6,8
6,7
5,7
4,8
4,3
3,0
2,9
1,9
1,9
1,8
1,5
84,9
100,0
Insomma, se i cittadini italiani esprimono una sfiducia generalizzata nei confronti dei
media, ciò non può non essere messo in relazione con il più complessivo senso di distacco
nei confronti della politica. Non è un caso che, alla domanda dell’Eurobarometro volta ad
investigare il grado di fiducia nelle principali istituzioni, i media, suscitano molto
scetticismo. Ma ancor più significativo è che il fanalino di coda siano i partiti politici (79%
25
di sfiducia dichiarata); il governo (75%); il Parlamento (73%). La tendenza è quella di
associare i due ambiti: i media pertanto non vengono visti come ‘cani da guardia’ secondo
il modello anglosassone, ma piuttosto come entità che perseguono i propri interessi in
sostanziale accordo con i politici. Pertanto, in un clima di insoddisfazione e di diffidenza
verso la politica, come quello che contraddistingue la cultura italiana in forma più o meno
radicale, si pone indubbiamente il problema di un cattivo funzionamento del collegamento
tra politica e cittadini attraverso i media. Teniamo presente che, se un possibile benchmark
è rappresentato dalla media UE27, i cittadini italiani hanno un grado di sfiducia superiore
alla media per qual che riguarda sia i mezzi di informazione sia le istituzioni politiche
(vedi tabella qui sotto).
Tab. 9 - Confronto tra dato italiano e benchmark europeo (%)
Grado di fiducia
Italia
Media UE27
nella televisione
50
43
nella stampa
53
50
nel parlamento
nazionale
73
58
nel governo
nazionale
75
62
Preso atto che esiste un problema nel rapporto tra cittadini e istituzioni, da un lato, e
cittadini e mezzi di informazione, dall’altro, possiamo da ciò inferire che, poiché la fiducia
nell’informazione è bassa, di fatto i media sono poco rilevanti nel formare l’opinione dei
cittadini circa l’operato del governo? In realtà, questo passaggio non è da darsi per scontato
e dovrebbe essere investigato a fondo, con appropriate metodologie che consentano una
ricostruzione più accurata dei meccanismi psicologici dei cittadini.
A questo proposito, non si può prescindere dall’introdurre la più importante delle variabili
esplicative, quella dell’esposizione selettiva. Se, infatti, i cittadini sono convinti che i
media siano inaffidabili nel loro complesso, spesso è anche perché li considerano troppo
allineati con una parte politica che non è la loro. Questo effetto si produce anche in sistemi
politici molto diversi da quello italiano. Negli Stati Uniti, ad esempio, ricerche
testimoniano che anche lì, dove pure i media possono essere simpatizzanti, ma restano
sostanzialmente indipendenti dalla politica, i cittadini si lamentano che i media sono troppo
26
di parte, e in particolare stanno sempre dall’altra parte, ovvero per gli elettori Repubblicani
i media sono troppo filodemocratici, mentre per gli elettori Democratici sono troppo
filorepubblicani [Iyengar e McGrady 2007]. In altri termini, la percezione del grado di
allineamento dei media è soggettiva e dipende dal livello di partigianeria del pubblico.
Quel che è certo è che il cittadino medio, più o meno ovunque, tende ad esporsi
preferibilmente a fonti di informazione che sa essere dalla sua parte.
Per quel che riguarda l’Italia negli ultimi quindici anni, questo fenomeno è stato
ampiamente dimostrato da numerose ricerche [Legnante 2002, 2006, 2007]. Chi guarda
prevalentemente Mediaset vota in maggioranza il centrodestra, chi guarda prevalentemente
i telegiornali Rai, soprattutto Tg3, vota il centrosinistra. Anche le preferenze per certi
programmi, tipo Porta a porta, Ballarò, Blob, sembrano associate a precise posizioni
politiche. Come rileva Legnante [2007, 292], “nel complesso, i pubblici che apprezzano le
trasmissioni Rai sono politicamente più eterogenei di quelli delle trasmissioni Mediaset”.
Ancora più evidente è l’associazione con la stampa: ad esempio, gli elettori di sinistra sono
sovrarappresentati tra coloro che leggono la Repubblica, mentre il Corriere della Sera ha
un bacino di lettori più equilibrato [Legnante 2007, 288].
Insomma, in Italia il tasso di esposizione selettiva è molto alto. Questo riduce
notevolmente il potenziale persuasivo dei media sugli elettori, se per persuasione
intendiamo riuscire a convincere a votare per uno schieramento piuttosto che per un altro.
Campus, Pasquino, Vaccari [2008] hanno riscontrato che, mentre l’omogeneità politica dei
network di discussione interpersonale ha un notevole peso sul voto, l’effetto della
comunicazione mediatica è assai inferiore. L’impatto di certi programmi sembra dipendere
dalla loro capacità di apparire più neutri rispetto agli altri e, quindi, di evitare di scatenare
l’effetto dell’esposizione selettiva.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò per le dimensioni coinvolte, accountability e
responsiveness? Ovviamente, la prima considerazione da trarre è che, in Italia, livelli di
esposizione all’informazione politica non alti, come è logico in un paese dove l’interesse
per la politica è sempre stato modesto (Itanes), si sposano ad una situazione di video
malaise, come quella testimoniata dall’alta percentuale di cittadini che non si fidano dei
mezzi di informazione. Ciò indebolisce la funzione di collegamento che i media
dovrebbero svolgere. La forte polarizzazione della politica italiana e la percezione della
partigianeria o, comunque, della mancanza di neutralità dei media italiani fa sì che
l’esposizione selettiva impedisca alla maggior parte dei cittadini di venire a contatto con
27
un’informazione contrastante con le loro predisposizioni. Ne consegue che le opinioni
politiche siano rafforzate, ma quasi mai messe davvero in discussione. Questo implica una
difficoltà ad attivare meccanismi di ricompensa/punizione nei confronti dei propri
rappresentanti.
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radiofoniche, per la dichiarazione di rinuncia agli utili di cui all’articolo 9, comma 2,
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Governo italiano – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria.
Ads – Accertamenti diffusione stampa.
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