Libertà di pensiero e comunicazione politica
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Libertà di pensiero e comunicazione politica
Libertà di pensiero e comunicazione politica di Michela Manetti Villa Vigoni 21 luglio 2011 1. Il declino del pluralismo informativo come fonte di regolazioni pubbliche L’orizzonte del tema a me assegnato è necessariamente più ampio, e sicuramente per questo meno appassionante rispetto alle questioni di permanente attualità che hanno esaminato ed esamineranno gli illustri colleghi, su quale sia la miglior disciplina delle campagne elettorali, e il miglior modo di renderla effettiva. L’ampiezza del tema mi consente tuttavia di proporre una questione fondamentale, che va al di là della comunicazione politica ma che in questa trova la sua più acuta espressione. Il principio del pluralismo informativo (altrimenti declinato in termini di interesse o diritto della collettività ad essere informata), come fonte dell’intervento pubblico nella disciplina dei massmedia, e in particolare nella disciplina dei contenuti televisivi, è soggetto ad una crescente delegittimazione. Al suo posto viene proposto ed esaltato il pluralismo spontaneamente prodotto dalla sinergia tra progresso tecnologico ed espansione del mercato dei media. Secondo una tesi molto diffusa, noi disponiamo oggi di una quantità di informazioni incomparabilmente maggiore rispetto al passato. L’obbiettivo da sempre cercato – la diversità delle voci e delle opinioni, ritenuta indispensabile per il funzionamento delle moderne democrazie pluralistiche - sarebbe quindi stato raggiunto. Ad esempio, In occasione dei referendum abrogativi appena svoltisi in Italia, si è sostenuto apertamente che l’uso libero di Internet avrebbe reso superflua la regolamentazione della par condicio televisiva, o addirittura l’avrebbe resa iniqua, data l’enorme capacità di mobilitazione che la Rete avrebbe dimostrato spingendo gli elettori a votare contro le leggi approvate dalla maggioranza, nonostante poca o nulla fosse stata la copertura televisiva della materia. Suggerendo un’alternativa radicale : o si deregolamenta la propaganda elettorale con qualsiasi mezzo svolta, o si estende la par condicio alla Rete (ben sapendo che ciò è improponibile, se non praticamente impossibile). Premetto che il mio contributo non sarà incentrato sull’Italia, dal momento che questo lo renderebbe inutile. L’Italia non ha più nulla da dire in materia di pluralismo informativo. L’ultimo rapporto dell’ Open Society Institute, risalente al 2008, dal titolo Television Across Europe, tratta dell’Italia assieme a Paesi quali Albania, Macedonia, Ungheria, Romania. In pratica, l’Italia ha gli stessi problemi dei Paesi che sono usciti dal comunismo. Il fatto che la dottrina straniera (non la stampa quotidiana) usi ormai correntemente termini come Berlusconisierung o Berlusconi effect1 per alludere ad una situazione incompatibile con il minimo di pluralismo richiesto ad una società democratica c.d. occidentale lo conferma. Altri Paesi (come dirò poi) cercano di recuperare il ruolo del servizio pubblico, che è di assicurare more speech : la Rai, in occasione delle elezioni regionali del 2010, ha addirittura rinunziato a trasmettere i programmi di 1 Cfr. M. STOCK, Festschrift Badura, 2004 ; C. E. BAKER, Southern California L. Review, 2005 1 approfondimento informativo, facendosi scudo di una delibera della Commissione parlamentare di vigilanza. Si noti che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in base alla legge, ha il potere di sanzionare la RAI, quando essa viene meno agli obblighi previsti dal contratto di servizio, tra i quali rientra ovviamente l’obbligo di mettere a disposizione dell’utente un’informazione completa, specie durante la campagna elettorale. Invece ha preferito ricostruire il level playing field estendendo alle emittenti private l’anomala situazione del servizio pubblico. L’unico soggetto istituzionale rispettoso del proprio ruolo è stato il giudice amministrativo, che ha annullato il provvedimento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ; non ha tuttavia potuto annullare la delibera della Commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI, perché insindacabile (tesi che combatto dal lontano 1983). Uno spaccato del rapporto tra politica e magistratura in Italia… 2. Il modello originario e la sua asserita continuità. Mi limito a ricordare i presupposti, ben noti, sulla base dei quali si è formato il concetto di informazione nelle società democratiche. La teorica ottocentesca o borghese della pubblica opinione presupponeva che questa fosse incentrata sulla discussione delle questioni politiche di interesse generale, in perfetto rispecchiamento della generalità che contrassegnava la legge parlamentare, della quale costituiva premessa. L’avvento della televisione ha mostrato come la diffusione e il commento delle notizie, in senso strettamente inteso, rappresentino soltanto una parte di quello che è il più ampio processo attraverso il quale una società rappresenta se stessa, e perciò elabora le scelte che riguardano la continuità o il cambiamento del proprio modo di essere. Il mezzo ha cambiato il messaggio, determinando lo slittamento dall’informazione alla comunicazione, come categoria che inclina all’ assertività, se non alla manipolazione, e che ibrida la diffusione di notizie e lo scambio delle opinioni con l’intrattenimento. A differenza che negli Stati Uniti, in Europa questo slittamento è stato gestito con l’intervento dello Stato, cercando di mantenere la finalizzazione originaria al dibattito pubblico, attraverso il monopolio statale del mezzo radiotelevisivo. La Costituzione italiana, che è un inno alla partecipazione, ha legittimato con particolare intensità le ragioni del monopolio, visto come una delle pre-condizioni attraverso le quali assicurare a tutti i cittadini non solo la conoscenza delle notizie, ma anche gli strumenti critici per valutarle. Attraverso la televisione si intendeva perfezionare l’istruzione pubblica e la promozione delle conoscenze, secondo il modello dello Stato sociale di cultura ex artt. 3 e 9 Cost. La successiva apertura del sistema radiotelevisivo ai privati è stata giustificata dichiarando di tener fede all’obbiettivo originario, ossia alla maggiore diffusione di voci ed opinioni diverse, tramite il contributo offerto da imprese di tendenza analoghe a quelle presenti nella stampa. La convinzione sottostante era che si potessero inquadrare queste ultime nell’ambito di un sistema complessivamente finalizzato al dibattito pubblico : come dimostrano la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco fin dal 1981, e l’articolo di apertura della legge Mammì, intervenuta tardivamente nel 1990, là dove imponeva a tutte le componenti del sistema misto “pluralismo, obbiettività, completezza e imparzialità dell’informazione”, oltre che “apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche sociali culturali e religiose”. 2 La fedeltà al modello originario è stata, invece, travolta da due fattori concorrenti, anch’essi ben noti : da un lato, il palinsesto ruota intorno ai programmi più idonei ad attirare la pubblicità, tra i quali non rientrano le trasmissioni informative, se non a determinate condizioni (spettacolarizzazione, superficialità). All’informazione sono dedicate sempre minori risorse, il giornalismo investigativo è quasi scomparso, le notizie si riducono spesso alla lettura, senza alcuna elaborazione, dei comunicati ufficiali, le riprese in diretta sono volentieri sostituite dai video girati spontaneamente dai passanti, cresce in modo esponenziale il ricorso a “servizi” giornalistici che sono gratuitamente confezionati da soggetti e imprese intenzionati a pubblicizzare occultamente i loro servizi. Il rapporto dedicato dalla Federal Communications Commission ai “Bisogni informativi delle società..”2, pubblicato nel 2011, è molto istruttivo al riguardo, perché – come spesso avviene - segnala una tendenza riscontrabile anche nei nostri Paesi. Esso dimostra, tra l’altro, che nonostante gli americani si informino anche su Internet, non rinunciano a seguire la televisione, che gode tuttora di elevate percentuali di ascolto. In compenso, però, essa parla molto meno di politica e di elezioni. Se tutto questo è vero, la moltiplicazione dei mezzi non ha aumentato le informazioni in circolazione : benché tutti passino molto più tempo ad informarsi, sanno molto meno3. Tornando all’Europa, si deve notare che il servizio pubblico televisivo è stato spinto all’imitazione delle emittenti private, anche a causa della pressione delle regole di efficienza e di managerialità introdotte a partire dagli anni’80 (basti ricordare la sofferta testimonianza offerta da Michael Tracey nel volume dal titolo “The Decline and Fall of Public Service Broadcasting4). Non a caso in seno al WTO e alla Banca Mondiale, da sempre alfieri della deregulation, si sostiene che le funzioni del servizio pubblico potrebbero ormai essere svolte adeguatamente dai privati. Al massimo, si potrebbe pensare di imporre a queste ultime obblighi di copertura delle c.d. lacune del mercato, ovvero delle fasce di pubblico che al mercato non interessano. Infatti, e dall’altro lato, la comunicazione criptata dei dati resa possibile dalle nuove tecnologie ha consentito di avviare una offerta differenziata e selettiva, che ha come ragion d’essere il pagamento di un corrispettivo da parte dello spettatore e che risucchia i contenuti migliori della programmazione5. La conseguenza è non solo la marginalizzazione dei ceti più poveri, ma la frammentazione del pubblico, ovvero la scomparsa di una platea composta da tutti i cittadini, all’interno della quale le idee e le opinioni possano circolare ed essere commentate in forma generale e inclusiva. Non siamo ancora arrivati all’esito tenuto da Cass Sunstein nel fortunato volume Republic.com : il cittadino ancora non desidera formare il proprio palinsesto quotidiano in modo da evitare l’ascolto di opinioni diverse dalle proprie e di non subire stimoli verso interessi diversi da quelli che già nutre. Ma l’isolamento cui il fruitore di Internet può condannarsi, già denunziato da Antonio Baldassarre6, è tangibile. 2 S. WALMAN et al., The Information Needs of Communities. The Changing Media Landscape in the Broadband Age, www.fcc.gov/infoneedsreport, 74 ss. 3 Da qui la conseguenza : “More is not necessary better”(ivi, 26) : la disponibilità di più canali non assicura di per sé una migliore informazione del pubblico. 4 Oxford University Press, 1998. 5 Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Relazione sul servizio pubblico radiotelevisivo del 12 gennaio 2004. 6 Globalizzazione contro democrazia, Laterza 2002. Ma v. già A. SHAPIRO, The Control Revolution, New York 1999. 3 In conclusione, sono caduti entrambi i presupposti cui il modello originario della informazione/comunicazione al servizio della pubblica opinione si ispirava : possibilità dello scambio di opinioni, presenza di un pubblico coincidente con tutti i cittadini. Da qui una ricorrente osservazione : la sovranità del consumatore nella scelta dei programmi televisivi ha indotto il tramonto della sovranità del cittadino. 3. La politica comunitaria dei servizi di media audiovisivi. I nuovi scenari sono fortemente influenzati, com’è ovvio, dalla politica comunitaria. Questa, come emerge dalla ultima direttiva sui servizi di media audiovisivi continua ad allentare i limiti alla pubblicità, ed anzi apre al product placement, che è il simbolo del definitivo asservimento della fantasia e dell’intelligenza umana agli scopi della produzione materiale. L’interesse dei cittadini a ricercare e ricevere informazioni è protetto in due modi principali : gli obblighi di must carry e /o di accesso ai produttori indipendenti, da un lato, e gli obblighi di servizio universale, dall’altro. Riguardo ai primi, c’è da chiedersi quanti possano essere i produttori indipendenti non motivati esclusivamente dal profitto, in uno scenario di scarsità che vede tagli consistenti ai finanziamenti pubblici alla cultura. Riguardo ai secondi, le direttive sulle comunicazioni elettroniche, anche se attualmente non applicabili alla tv, indicano chiaramente qual è la tendenza destinata ad imporsi nello scenario della convergenza tecnologica : l’interesse del pubblico all’informazione (ma anche all’educazione, alla cultura e all’intrattenimento di buona qualità) sarà confinato in un’area residuale, oggetto degli obblighi minimi di servizio universale. Obblighi che il privato o adempierà con uno scarso impiego di risorse (dato che il servizio universale riguarda per definizione i poveri e gli emarginati), o utilizzerà per rivendicare la propria insopprimibile natura di impresa di tendenza, sotto la veste dell’imparzialità/oggettività. (vedi l’art. 7 del testo unico sui S.M.A. italiano) Il servizio pubblico, che potrebbe porre rimedio a queste lacune, è bensì accettato dall’Unione europea (nel famoso protocollo allegato al Trattato di Amsterdam), ma ostacolato dal divieto di aiuti di stato. La Commissione tende infatti ad applicare severamente questo divieto, da ultimo anche limitando l’accesso del servizio pubblico alla Rete in nome delle esigenze di espansione delle imprese private (come le vicende del Drei-Stufen-Test, ben presenti ai colleghi tedeschi, dimostrano). Se teniamo conto di questi tre elementi, possiamo asserire che il pluralismo, cui pure l’Unione europea si inchina, si è ridotto – salvi i divieti di posizione dominante e/o gli obblighi di fornire accesso alle reti da parte di chi ne è titolare, che non assicurano un’effettiva diversità delle voci - alla tutela della “diversità culturale” dei singoli Stati nell’ambito dell’Unione7, così come la riserva di quote alla produzione europea 7 Indicativo in questo conteso è che il Medienvielfalt , il pluralismo da far valere anche attraverso la tv pubblica, sia inserito come obbiettivo nella Convezione dell’UNESCO sulla tutela e promozione della diversità delle espressioni culturali. 4 tutela la cultura europea nell’ambito della globalizzazione dei massmedia. Si tratta di un’ eccezione rispetto al mainstream, che è – dichiaratamente – quello di rendere competitiva l’industria europea della comunicazione sullo scenario mondiale, del quale di conseguenza si accettano le regole, o meglio la deregulation. Se questa è la parola d’ordine, si capisce bene come mai le norme e gli apparati intesi ad assoggettare le emittenti televisive private agli obblighi di imparzialità/ completezza dell’informazione non siano stati in grado di funzionare : anche in Germania, stando a quanto riporta Stock, ricorrendo alla ben nota etichetta della “agency capturing” a proposito dei Landesmedienanstalten8. Come dicevo all’inizio, l’istanza del pluralismo informativo si è ormai identificata con la pluralità dei canali disponibili, e la libertà dell’impresa di massmedia è diventata il valore di riferimento. 4. Riflessi sulla comunicazione politica. La sentenza n. 155 del 2002. Gli esiti che ho or ora evidenziato si rispecchiano pianamente nella giurisprudenza costituzionale italiana, che pure è stata l’unica sincera promotrice del pluralismo informativo, collegando alla libertà protetta dall’art. 21 il diritto del cittadino ad essere informato, e anche accogliendo un concetto assai ampio di informazione . La sentenza n. 155 del 2002 ha invero respinto la questione di legittimità della legge n. 28 del 2000 sulla par condicio nella comunicazione politica, ma l’ha fatto a prezzo di condizioni e limitazioni. Le condizioni sono le seguenti. In primo luogo, la legge si giustifica in quanto non esiste attualmente, in Italia, un sufficiente pluralismo esterno : se altrove c’è una condizione di oligopolio, da noi c’è un duopolio Rai-Mediaset. In secondo luogo, essa si giustifica perché le emittenti private sono tuttora titolari di una concessione, che consente formalmente allo Stato di vincolarne l’attività. La limitazione consiste nel fatto che i programmi di natura informativa, nei quali l’emittente privata esercita la propria tendenza ovvero esprime la propria identità, possono essere soggetti a vincoli di rispetto della par condicio (così come lo sono gli altri programmi) soltanto nel periodo elettorale, quale momento eccezionale della vita democratica nel quale assume preminente rilievo l’interesse del cittadino a formare la propria scelta politica in assenza di distorsioni informative. Fuori del periodo elettorale, invece, questi programmi sono liberi. L’emittente, allorché operi su scala nazionale, è obbligata soltanto a predisporre appositi programmi di “comunicazione politica”, nei quali sia assicurata “parità di condizioni” nella esposizione di opinioni e posizioni politiche. In questa sede sarebbe troppo lungo spiegare nel dettaglio quanto la sentenza in esame si allontani dal testo della legge n. 28 del 2000, che peraltro appare sotto molti aspetti indeterminato e ambiguo. Qui mi interessa sottolineare che per la Corte costituzionale, in sostanza, la vigente disciplina della par condicio potrebbe venir meno, in relazione alle emittenti private, laddove si realizzasse un ampliamento 8 M. STOCK, Zum Reformbedarf im dualen Rundfunkssystem : Public-Service-Rundfunk und kommerzielle Rundfunk : wie koennen sie koexistieren? , in Arbeitspapiere des Instituts fur Rundfunkoekonomie Universitaet Koeln , Heft 204/2005, www.rundfunk-institut.uni-koeln.de. 5 soddisfacente del numero dei canali disponibili (facendo venir meno il fondamento del regime concessorio), e questo si ripercuotesse nell’accantonamento del duopolio. In quel caso, come fa intendere il riferimento della Corte alle esperienze degli altri Paesi europei, rimarrebbe la necessità di regolare gli spazi televisivi in ossequio al principio della parità di chances, ovvero, se ben intendo, la necessità di consentire a tutti i partiti l’accesso in condizioni di eguaglianza, senza però che sia imposto l’obbligo di predisporre appositi programmi che siano dedicati alla comunicazione politica, e che siano svolti in contraddittorio tra tutti i soggetti politici. E ciò in quanto la Corte riconosce la natura individuale della libertà di informazione (che chiama, non casualmente, libertà di opinione), che abbraccia tutta la programmazione dell’emittente privata (per la Corte, come si è detto, tutta la programmazione è lato sensu in-formativa) e che in quanto tale può essere “funzionalizzata” soltanto in via eccezionale. Questa conclusione smentisce opportunamente, a mio avviso, la possibilità di ricostruire artificiosamente l’attività informativa delle tv private come servizio pubblico o come “attività di interesse generale” (a norma dell’art. 7 del vigente Testo unico dei servizi di media audiovisivi)9, se non per quanto riguarda, ovviamente, il mero obbligo “modale” di trasmettere quotidianamente i telegiornali. E smentisce con ciò la possibilità di usare l’etichetta del servizio pubblico o del servizio universale per legittimare (e un domani magari per far pagare alla collettività le spese di) questi telegiornali, come se fossero veramente oggettivi e imparziali. 5. (segue) : Equal time vs. servizio pubblico radiotelevisivo. Ritorno alle origini. Traendo le somme, mi sembra innegabile che la direzione di marcia di questa giurisprudenza, una volta che siano, auspicabilmente, soddisfatte le condizioni su ricordate, sia l’applicazione alle emittenti private dell’ equal time rule del diritto statunitense10. Una volta rigettata l’apponibilità di limiti di contenuto alla libertà di opinione delle emittenti private, è chiaro infatti che la Corte costituzionale è sbarcata in America. Una sorta di ritorno alle origini della libertà di pensiero, dal momento che agli Stati uniti non può essere disconosciuta la paternità di molti degli argomenti e standard di giudizio fraseggiati dalle nostre Corti nazionali e sovranazionali, che spesso citano alla lettera espressioni coniate dalla Corte Suprema11. Del resto non si può negare la stretta somiglianza tra le condizioni storiche nelle quali fu messa in discussione la Fairness Doctrine e quelle dell’Europa di oggi. Già negli anni ’70 gli obblighi di completezza informativa imposti alle emittenti private statunitensi erano considerati difficili da applicare, se non controproducenti ; con l’avvento della tv via cavo vennero ritenuti non più giustificabili, data la disponibilità di un grande numero di diverse fonti di informazione ; con la deregulation impersonata dal presidente Reagan apparvero infine come un’intollerabile ingerenza del Governo nella libertà di pensiero 12. Ciò che resta della Fairness Doctrine (dopo la perdita di altri pezzi, come il diritto di replicare ad attacchi personali, avvenuta nel 2000) è appunto il diritto di accesso gratuito a favore del candidato, al fine di ricondurlo in parità rispetto all’altro cui l’emittente abbia già concesso di parlare. Ed è l’unico vero diritto di 9 10 11 Cfr. A. Pace, Libertà di informare e diritto ad essere informati, in Dir. Pubbl. 2/2007. Communications Act, § 315 (a). Il discorso pubblico sia unhinibited, robust and wide-open ; il clear and present danger, la distinzione pensiero/azione. Libertà di pensiero come bedrock della democrazia. 12 O. M. FISS, The Irony of Free Speech, Harvard University Press, 1996. 6 accesso riconosciuto negli Stati Uniti, a quanto mi consta13. Come è ben noto, dopo Buckley v. Valeo, gli effetti del quale sono ora amplificati da Citizens United ( e per altri versi da Arizona v. Bennett ) il motore della propaganda negli Stati Uniti è la disponibilità finanziaria del candidato e dei suoi sostenitori, colà identificata con la libertà di pensiero. I Paesi europei non possono bloccare quel motore, semmai fissarne limiti di potenza con la disciplina del finanziamento, delle spese e con le altre regole elettorali c.d. di contorno (ma non tanto di contorno : vedasi il conflitto di interessi). Essi dispongono però anche di un altro motore : il servizio pubblico dedicato a fini di informazione/cultura/educazione/intrattenimento nell’interesse di tutti gli utenti. La necessità di promuovere, con adeguate risorse, tale servizio, e di consentirne l’ingresso in tutte le reti di comunicazione, rappresenta invero una necessità prescrittivamente imposta dal modello di democrazia cui le nostre Carte costituzionali si ispirano. Quella italiana, tramite l’obbiettivo della partecipazione di tutti alla vita politica, economica e sociale del paese, ex art. 3, comma 2, rende imprescindibile il mantenimento di un foro di dibattito pubblico alimentato dall’ampliamento delle conoscenze e anche dall’apertura a scelte e gusti diversi da quelli che ciascuno ha già maturato. La sovranità del cittadino, per tornare agli slogan, deve in questo campo prevalere sulla sovranità del consumatore : si tratta insomma di tornare alle origini, anche per il servizio pubblico. Bisogna, dunque, prendere atto che l’interpretazione del progresso tecnologico nella chiave del mercato (perché il mercato è considerato l’autore del progresso tecnologico) è irresistibilmente destinata a dominare, nelle nostre società, e che essa ha già eroso largamente le fondamenta del tradizionale discorso sul pluralismo informativo. A mio avviso, esso è destinato a tramontare nella sua veste di disciplina del contenuto delle trasmissioni private ; ma questo tramonto non implica anche la residualità del servizio pubblico, e anzi ne richiede, tutt’al contrario, la rivitalizzazione e l’espansione nei nuovi mezzi, come la Rete, che svolge un ruolo cosi importante per le giovani generazioni (come hanno ben capito sia la Gran Bretagna che la Germania) Qualche correttivo da tenere presente per la funzionalità del servizio pubblico : - L’indipendenza dai partiti (che in Italia anche in questo campo hanno fruito della legittimazione costituente e l’hanno usata prima per rinsaldare istituzioni deboli, poi soltanto per occuparle) - Rivitalizzazione dell’accesso, che in Italia è un ramo secco (Cheli) anche perché i partiti lo hanno inteso come strettamente posto sotto il loro controllo. 4. Newcomers vs incumbent. Movimenti e gruppi richiedono un Hyde park corner A Strasburgo si sta muovendo qualcosa su quest’ultimo fronte. Nel caso VgT Verein gegen Tierfabriken v. Switzerland (2002)14 e poi nel caso Tv Vest AS and Rogaland Pensjonistparti v. Norway15 (2009) la Corte ha ritenuto che violi l’art. 10 della Convenzione (ovvero sia un’interferenza sproporzionata nel diritto protetto dall’art. 10) il divieto assoluto di trasmettere spot/annunci/pubblicità di natura politica (come un 13 E. BARENDT, Broadcasting Law, 1998 ; Free speech, 2005. Ricorso n. 24699/94 (2002) 34 EHRR 4, poi ribadito su ricorso n. 32772/02 del 4 ottobre 2007: La grande Chambre ha ulteriormente esaminato questo caso il 9 luglio 2008. 15 Ricorso n. 21132/05 48 EHHR 51 14 7 messaggio diretto da un’associazione di animalisti contro la pubblicità delle industrie produttrici di carne) o specificamente elettorale (come l’invito a votare per il partito dei pensionati). Nel primo caso affermando che il divieto - essendo diretto a prevenire lo strapotere dei grandi gruppi economici - non era applicabile al piccolo gruppo di animalisti ; trattandosi di un dibattito di interesse generale, il margine di apprezzamento normalmente spettante agli Stati era in questo caso ridotto16. Lo stesso per il piccolo partito norvegese, sprovvisto dei mezzi economici per avere adeguata visibilità nella competizione elettorale17. Dato che l’attenzione dei media era dedicata ai partiti esistenti, in pratica la pubblicità era l’unico mezzo per arrivare agli elettori, e competere minimamente con i partiti più grandi o di più lunga tradizione. Trattandosi di pubblicità/messaggi di natura politica ( e nonostante l’assenza di consenso tra i Paesi europei sul tema 18) era necessario applicare uno scrutinio stretto19. Ora, in Germania c’è un divieto assoluto di pubblicità non solo politica, ma anche di Werbung weltanschaulicher oder religioser Art20 , applicata estensivamente, anche nei confronti dei sindacati). In Inghilterra lo stesso divieto si estende a messaggi che siano diretti ad influenzare “le decisioni del Governo”, o (addirittura) ad influenzare la pubblica opinione “su questioni che sono oggetto di controversia nel Paese”. Sul punto la Corte richiama dunque all’apertura dell’agone politico verso i newcomers, risuscitando la discussione sui tempi riservati ai partiti già rappresentati in parlamento rispetto ai nuovi21 (che in Germania è stata risolta facendo leva sull’interesse alla stabilità politica). Si tratta quindi di ammettere l’accesso di gruppi e movimenti alla tv pubblica, e forse anche alla tv privata (come richiede negli USA il pensiero liberal) riconoscendo loro un diritto di trasmettere messaggi di “quasipolitical” o “social advocacy” 22 16 VgT Verein, par. 75 e 71. Pensjonistparti, Para 72. 18 Para 61. 19 Para 64. Bisogna peraltro considerare che in Norvegia non c’è un diritto dei partiti a disporre di tempi di trasmissione gratuiti. 20 Cfr. art. 7, co. 8, RfStV ; cfr. anche art. 6 co. 7 RfStV vecchio testo. 21 La Corte non mostra la stessa devozione verso la libertà di espressione religiosa ( v. Murphy v. Ireland, 2004, ricorso n. 44179/98, 38 EHHR 182, para. 67 ). Ma questa non è una novità : con la sentenza Otto Preminger Institut è divenuto chiaro che la tutela degli “intimi sentimenti religiosi” della maggioranza a Strasburgo è principio supremo. 22 T. LEWIS, Journal of Media Law, 1/2009. 17 8