Il CORAGGIO DI GUARDARE

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Il CORAGGIO DI GUARDARE
Il CORAGGIO DI GUARDARE
Antonio Muñoz Molina
Guardare, distogliere gli occhi, chiuderli per non vedere. Tapparsi gli occhi e tuttavia guardare attraverso le dita. Guardare ciò che nessuno ha mai visto prima. Guardare ciò che tutti hanno davanti agli occhi e fingono di non vedere. Guardare le cose, le facce comuni e vedervi qualcosa che non può essere reale eppure – anche se ha tutta l’aria di un incubo o proprio per questo – è senz’altro vero. Guardare ciò che è proibito guardare sebbene nessuna norma esplicita lo vieti. Guardare e non dissimulare lo sguardo: ammettere di aver guardato, rendere pubblico ciò che si è visto anche se nessuno ascolta o mostra interesse. Guardare e desiderare di non aver guardato e non dimenticare più. Aprire gli occhi nell’oscurità e distinguere poco a poco le forme che si condensano in essa e le loro rapide metamorfosi. Vedere qualcosa e chiudere gli occhi serrando le palpebre con la speranza che quanto abbiamo visto sia scomparso quando torniamo ad aprirli. Guardare con desiderio. Guardare con gli occhi colmi di desiderio e accrescere il tormento: guardare ma non toccare; guardare, ma toccare e accarezzare con lo sguardo non la pelle bensì l’aria. Proiettare una luce potente contro le tenebre e far sì che le figure mostruose che sembravano abitarle si dissolvano senza lasciare traccia. Guardare da presso ciò che viene ritenuto indiscutibile e veritiero, addirittura sacro, e scoprire un rozzo simulacro. Isolato nella campana di vetro della sordità, nel suo povero e barbaro paese a un’estremità dell’Europa, Goya definisce i termini dello sguardo moderno che è inscindibile dall’audacia e dal pericolo, a volte dal castigo. “Non si può guardare” (cat. 156.26), dice la didascalia di uno dei Disastri della guerra. Ma il suo non è solo lo sguardo di un pittore e la sua novità trascende la pittura, riecheggia addirittura in arti che non erano ancora state inventate alla sua morte: la fotografia, il cinema, il fumetto. Si possono seguire le tracce delle influenze visuali, confrontare la fucilazione dei patrioti madrileni con quella dell’imperatore Massimiliano, il Funerale della sardina con l’Entrata di Cristo a Bruxelles, i Disastri della guerra con i disegni bellici di Otto Dix o le figure tra il minerale e l’umano di Zoran Music, le licenziose majas dei Capricci con le donne di Bruno Schultz. I corpi deformati dalla follia e dalla lussuria disegnati da Robert Crumb li avevamo già visti nei Capricci e nei Disparates, come le figure antropomorfe con teste d’animale di Art Spiegelman. La bocca spalancata e carnivora dell’Innocenzo X di Francis Bacon discende in linea retta dai numerosi frati mostruosi e dai fantasmi dei Dipinti neri, come le mummie dei vescovi nell’Âge d’or di Buñuel. Perfino la banalizzazione alla moda – più incline alla marachella che alla provocazione – si nutre di Goya: le bambinate britanniche dei fratelli Chapman comprendono manichini di lattice che riproducono in tre dimensioni i corpi mutilati penzolanti da un albero in uno dei Disastri. I fratelli Chapman, da multimilionari dell’arte, si concedono il capriccio di comprare un esemplare completo dei Disastri della guerra per aggiungere scarabocchi o musi di topo da cartone animato alle figure atroci di Goya, ma la potenza e la verità delle incisioni restano integre, senza che la presunta irriverenza giunga a 1
sfiorarle. Goya non può essere addomesticato, né banalizzato, da nessuno. Su di lui non ha effetto l’anestetico della familiarità. Ma al di là del contagio visuale esiste un’influenza più profonda, un atteggiamento che non è solo estetico. La decisione di guardare. Non nel senso letterale, è ovvio, o non soltanto. Goya non è un documentarista né un reporter di guerra sebbene il suo esempio conti parecchio in entrambi i campi. L’“Io l’ho visto” (cat. 156.44) dei Disastri non deve essere interpretato come un tentativo di rimarcare la veridicità di una testimonianza su un fatto che si afferma accaduto proprio così come viene rappresentato, ma come una dichiarazione di principio. Goya non vide con i suoi occhi la fucilazione dei patrioti la notte del 3 maggio esattamente come non poteva vedere dei demoni alati e con la mitria divorare un uomo nudo, ma in entrambi i casi ha raccontato una verità intollerabile non già perché raccapricciante, ma perché prima di lui non l’aveva raccontata nessuno. La verità della violenza umana e del modo in cui i forti abusano dei deboli e degli inermi; la verità delle angosce che possono assalire la coscienza, indotte dal disturbo mentale e dalla superstizione che si alimentano a vicenda. Goya non vide il plotone di soldati francesi far fuoco quella notte contro i prigionieri terrorizzati, ma nessuno prima di lui aveva dipinto davvero il panico di chi sta per morire: uno si copre gli occhi, un altro li ha sbarrati, fissa il vuoto e si morde le nocche con la bocca spalancata. Occhi che guardano la morte: si trovano in Goya e un secolo e mezzo più tardi in altre immagini che non si possono guardare e dalle quali non si può distogliere lo sguardo, le fotografie scattate dai Khmer rossi ai condannati un attimo prima dell’esecuzione, istantanee sommarie – come quelle dei passaporti o delle carte d’identità – di qualcuno che ci guarda sapendo che entro pochi minuti sarà morto. Lo sa lui e lo sappiamo noi. Lo sa il fotografo che gli ha indicato come posare. “Non si può guardare”. Meglio sarebbe non aver visto, ma non si può farne a meno, non si deve farne a meno. È parte della condizione moderna. Torno a guardare le Fucilazioni al Prado e mi pare di vedervi qualcosa che fino ad allora la pittura non aveva osato rappresentare: il foro nero prodotto da una pallottola nella testa di un morto e il sangue secco, scuro, sudicio, non il sangue retorico dei dipinti di martiri o di battaglie ampollose, il sangue versato da un essere umano che assomiglia a quello di un animale sgozzato in un macello (come nei macelli, i soldati francesi praticano in quella notte d’oscurità primordiale la mattanza seriale moderna; è una sorta di catena di montaggio: al mucchio dei morti si appressa la coda di quelli che moriranno). Quant’è diverso questo sangue quasi nero da quello che si scorge nel quadro accanto, il sangue fresco di un rosso chiaro e vivace che scorre in un rivolo dal ventre del cavallo di un mamelucco e sprizza sul volto dell’uomo che affonda il coltello nel corpo dell’animale, lo stesso uomo forse – la camicia bianca, i pantaloni gialli, i capelli corvini – che sarà fucilato al termine di quella notte. Continuo a girare per le sale dedicate a Goya. Quando entro in una di esse non cerco nessun altro pittore, neppure Velázquez. (“Solo Goya” è scritto sulla sabbia, ai piedi della duchessa d’Alba, nella tela conservata presso l’Hispanic Society di New York, e in un certo senso è vero: chi, oltre a Goya, ha mai guardato così?) In Volo di streghe (cat. 26) qualcuno china il capo e lo nasconde sotto un lenzuolo per non vedere ciò che accade sopra di lui, qualcun altro si getta a terra tappandosi le orecchie per non vedere e nemmeno sentire più nulla. A un uomo sordo le urla di chi viene divorato vivo e lo 2
scrocchio delle mandibole dei demoni devono sembrare più agghiaccianti ancora giacché per lui sono inaudibili, così come più spaventoso è ciò che si immagina stia accadendo nell’oscurità rispetto a quel che si vede con i propri occhi. Qualcun altro si tappa invano le orecchie nelle Fucilazioni: come se fosse possibile, a così breve distanza, non udire le urla di paura e di dolore, gli ordini e gli spari. Non si può guardare ma non resta altra scelta che farlo, e non si tratta di un obbligo di ordine estetico. Ciò che non si può guardare ma bisogna guardare è ciò che gli uomini possono fare agli altri, ciò che riusciamo solo a intravedere, perché non ce lo consentono o perché avviene in segreto o perché preferiamo fingere che non stia accadendo. Quanto poco hanno guardato e guardano davvero gli artisti, gli scrittori, tutti noi. Né l’arte né la letteratura hanno quasi mai voluto o saputo raccontare le cose come stanno, penso malinconicamente questa mattina al Prado. Ha guardato Fernando de Rojas, hanno guardato l’autore del Lazarillo e Cervantes, ha guardato Velázquez, ma solo certe cose, alcuni volti isolati. Ha guardato papa Innocenzo X e ci ha fatto provare un brivido. Ha guardato Caravaggio, più di chiunque altro a suo tempo e per vari secoli. Ha guardato Goya e sono quasi duecento anni che stiamo imparando da lui, e la lezione non finisce mai. Ogni volta che qualcuno guarda o racconta le cose come stanno, lo scandalo della sua novità ci coglie alla sprovvista. Ci fornisce notizie inedite sul mondo che abbiamo davanti agli occhi. Qualcuno decide di non illudersi e non illudere e questo provoca uno strepito simile a quello degli specchi che cadono in frantumi alla fine di quel film “tenebrista” di Orson Welles, La Signora di Shangai. Guardare è anche annientare con coraggio, rabbia o sarcasmo i simulacri visivi che vengono generalmente accettati come rappresentazioni reali. Raccontando com’erano, come mangiavano e parlavano, addirittura come puzzavano dei veri pastori di capre Cervantes ha sabotato per sempre tutti i luoghi comuni del romanzo bucolico, che lui stesso aveva tanto amato. L’immaginazione umana, come i ricchi committenti dei pittori del Settecento, sollecita paesaggi bucolici, menzogne consolatorie, e l’arte si affretta a fornirli. Passeggiando per le sale del Prado in cui sono esposti i cartoni per arazzi di Goya mi ricordo di quella varietà tardiva della favola pastorale che era tanto apprezzata in Unione Sovietica negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: prati verdi e fertili kolchoz, giovani contadini ridenti, dediti al lavoro, pronti a godersi il meritato riposo e la festa che segue la mietitura. Mentre degli esseri umani venivano trascinati via nell’oscurità della notte e scomparivano divorati dal cannibalismo del terrore e altri si coprivano la testa per non vedere e si tappavano le orecchie per non ascoltare. Raccolti abbondanti, contadini felici, danze popolari con pittoreschi costumi folcloristici. I macellai di Stalin e di Mao avevano una particolare predilezione per gli idilli pastorali. Ma il pittore della corte borbonica si permette barlumi di verità che non sarebbero stati tollerati dall’ortodossia sovietica: il volto annerito e sdentato di un contadino, la testa tignosa di un bimbo, un bracciante curvo nell’aria infuocata di luglio, ci rivelano ciò gli occhi del pittore hanno visto, l’aspra realtà dissimulata dalle convenzioni dell’arte ufficiale, che accompagna i signori altrettanto amabilmente della musica suonata da orchestre composte da servi. Nel Don Chisciotte Cervantes racconta più e più volte l’atto di narrare: il modo in cui le storie intervengono nella vita, il diverso posto che occupano a seconda della loro 3
natura e del loro pubblico, addirittura a seconda dello spazio fisico in cui si svolgono; perché, per esempio, la passione solitaria e lunatica del fanatico lettore protagonista non è la stessa cosa delle narrazioni orali dei personaggi che si trovano nell’osteria o della lettura ad alta voce di una lettera o di un manoscritto trovato in una valigia. In maniera analoga, ciò che spesso Goya rappresenta non è solo l’oggetto dello sguardo, ma l’atto stesso del guardare, e quello di distogliere gli occhi o tenerli chiusi. O, con maggiore sottigliezza, il gesto di chi guarda e per un istante non vede ciò che ha dinanzi perché si è smarrito in un’idea o in un ricordo: vicinissimo alle Fucilazioni e al Due di maggio si trova il misterioso autoritratto dipinto nel 1815, la cui singolarità si avverte meglio se lo si confronta con quello, quasi identico, che è custodito nell’Accademia di San Fernando. In quello dell’Accademia, Goya – l’uomo vigoroso che a quasi settant’anni non mostra segni di vecchiaia – guarda lo spettatore, o guarda serenamente se stesso nello specchio. In quello del Prado è assente, anche se magari non smarrito, la sua prodigiosa memoria di pittore è assorta in un qualche ricordo. L’atto di guardare e quello di raccontare comportano le stesse severe conseguenze politiche e morali: ciò che si sceglie di guardare o di raccontare fa risaltare per contrasto ciò che viene nascosto e taciuto. La funzione esplicita di una quantità immensa di storie e di immagini, ora come ai tempi di Goya, è quella di nascondere e mentire. Nell’illuminismo, cui fu sempre così prossimo, è implicita la metafora di una volontà di chiarezza che dissipa le ombre e mostra il volto sgradevole e vero delle apparenze, il ridicolo della vanità e della pompa. Le ombre, per quanto profonde siano, non sono impenetrabili e la chiarezza non è un dono della natura né del cielo, ma il risultato di un’azione razionale anche se, inevitabilmente, pregiudicata dallo scoraggiamento e a volte dall’esasperazione. Goya ha ispirato i surrealisti, ma non sarebbe mai stato uno di loro. Il mondo dei sogni per lui non è una liberazione, ma una minaccia, e i suoi mostri non sono il frutto di un irresponsabile delirio personale, ma di una patologia civile che ha origini precise e che in qualche misura potrebbe essere curata, entro i limiti della fragilità umana, e delle tendenze apparentemente congenite della nostra specie alla crudeltà e all’errore. Anthony Julius ha distinto con grande acume il proposito militante di Goya dalla brama di provocazione puerile o di trasgressione di tanti artisti contemporanei che dichiarano di seguire il suo esempio, e fingono di combattere le convenzioni in un parossismo nichilista, simili a bambini isterici che rompono i giocattoli per attirare l’attenzione. “L’impresa di Goya aveva un’intenzione politica” – scrive Julius – “mettere in ridicolo la reazione spagnola e in questo modo ridimensionarne l’autorità”. Ai fratelli Chapman le provocazioni procurano guadagni milionari. A Goya, se non avesse attentamente calibrato le proprie, l’avrebbero potuto trascinare in carcere. Che guardare sia un atto politico lo si percepisce osservando il ritratto di Jovellanos dipinto da Goya nel 1798 (cat. 3). Torna a stupirmi ogni volta che mi ci accosto, ogni volta che entro nella sala in cui è conservato e il suo volto mi accoglie come fossi un amico andato a fargli visita in un ufficio da cui vorrebbe scappare al più presto. Si presume che i ritratti ufficiali abbiano il proposito di trasmettere il senso del potere, ma quel che Goya ritrae in questo caso sembra essere piuttosto lo sconforto, l’impotenza addirittura. È forte la tentazione di considerare Goya come un uomo di un’epoca diversa dalla sua: spesse volte ci sembra che appartenga alla nostra. Ma per valutarne 4
l’originalità è assai importante realizzare che quanto vi è di nuovo in lui è intimamente legato alla tradizione a cui apparteneva e che sottoponeva sempre a violente tensioni, utilizzandola con spregiudicatezza, con tanta profonda cognizione quanta irriverenza. Il vocabolario visivo del ritratto è quello distillato da secoli di pittura di corte, e l’atteggiamento di Jovellanos è quello, canonico, del pensieroso malinconico, proprio come l’effigie di Minerva che accenna un gesto protettivo nei confronti del ministro fresco di nomina proviene dai più tediosi repertori accademici. Ma ciò che è nuovo, ciò che richiama sempre la nostra attenzione, è quello sguardo, l’espressione di quella bocca, l’atteggiamento combattuto tra ansia e speranza. Un volto così la pittura fino ad allora non lo aveva ancora mostrato. I re, i potenti dell’ancien régime, compreso lo spettrale Carlo II, posano con piena coscienza della propria posizione di privilegio nelle gerarchie immutabili del mondo. Possono essere incompetenti o abulici, persino idioti, possono essere perfettamente consapevoli del fatto che il loro regno sta andando in malora mentre loro si mettono in posa per quell’essere subalterno che è sempre il pittore. Ma non dubitano mai della posizione che occupano. Jovellanos no. Jovellanos si siede sulla poltrona ufficiale, poggia il gomito sul piano dello scrittoio e sembra non essere sicuro di riuscire a conservare l’equilibrio. Senza parrucca, con una casacca grigio chiaro, senza decorazioni o insegne, Jovellanos è un borghese e un intruso che per i casi della vita ha ricevuto una nomina e un ufficio in cui sa di essere di passaggio, cui non riesce ancora ad abituarsi, e che apprezza, in mezzo a tanti estranei, il volto di un amico. Seppur ministro di un re assoluto la sua missione va oltre i protocolli stantii e la salvaguardia dei privilegi: è un illuminista, un intellettuale prestato al servizio pubblico, ha accettato l’incarico come un’opportunità di mettere in pratica i suoi principi, di lavorare al compito urgente e ponderoso di trascinare il paese fuori dall’oscurantismo e dall’arretratezza. I simboli tradizionali del potere – il cortinaggio, il tavolo imponente – gli sono di ben scarso aiuto, come la protezione allegorica della dea Minerva. Il mondo esiste per le dee. Jovellanos considera il compito colossale che lo attende, misura le proprie forze e forse comprende che sono di gran lunga inferiori al suo entusiasmo e il suo sguardo, al tempo stesso rivolto alla propria coscienza e attento all’esterno, sembra prevedere gli ostacoli che non saprà vincere, non per mancanza di intelligenza e coraggio, ma solo per l’enormità delle energie politiche che sarebbero necessarie per concretizzare qualcosa in un paese in cui non esiste quasi nulla, e nel quale rettitudine e capacità nel servizio pubblico sono più inconvenienti che vantaggi. Lo sguardo di Jovellanos è malinconico, ma limpido. È lo sguardo di qualcuno che non vuole farsi tante illusioni, ma neppure prevede catastrofi. Lo sguardo di chi ha visto cose deprimenti, ma che non ha dovuto tapparsi gli occhi sconvolto dalla paura, e non impensierito neppure dalle visioni che intorno a quell’epoca Goya aveva raffigurato nei Capricci e su quelle piccole tele che aveva dipinto per se stesso: immagini di manicomi, di crimini sanguinosi, di cannibalismo e stregoneria. Jovellanos è una figura di illuminista dalle buone intenzioni cui i tempi moderni hanno riservato le peggiori sorprese; il sognatore che non riesce a figurarsi i cataclismi distruttivi e l’infamia che finiranno per sommergere anche lui, senza che i suoi buoni propositi o la sua integrità personale servano a porre rimedio a qualche sciagura o ad assolverlo dalla colpa. Giochiamo d’anticipo e siamo in grado di predire il futuro che lo sguardo intelligente 5
di Jovellanos avrebbe voluto sbirciare: il suo percorso nelle stanze del potere sarà ancora più breve e meno efficace di quel che teme; lo attendono, insieme alla vecchiaia, il biasimo e il carcere; conoscerà la guerra e morirà senza vederla finire, viaggiando per luoghi che immaginiamo altrettanto desolati di quelli che fanno da sfondo alle incisioni di Goya: pianure aride, rovine, alberi amputati. Vedo il ritratto di Jovellanos e mi ricordo di altri spagnoli illuminati destinati alla sciagura, di Antonio Machado e Manuel Azaña. Nelle fotografie, persino nei più solenni ritratti ufficiali, anche Azaña guarda con l’insicurezza di chi sa di essere un intruso nei saloni del potere e di dover far fronte a difficoltà di una scala terrificante, incluse le varianti tipicamente spagnole della meschinità e della follia umana. Ci sarebbe piaciuto che Goya avesse ritratto di nuovo l’amico Jovellanos alla fine dei suoi giorni: lo immaginiamo altrettanto anonimo e smarrito di Manuel Azaña nelle ultime foto scattategli a Montauban prima della morte, quando i suoi occhi avevano già visto e le sue orecchie già ascoltato ciò che neppure i suoi peggiori vaticini gli avrebbero permesso di immaginare nel 1931. Goya è nostro predecessore e nostro contemporaneo non perché fa a pezzi le regole del decoro nella pittura, ma perché si rifiuta di non guardare, aprendo così territori vergini alla rappresentazione visiva, dando mostra di un atteggiamento che è anche un metodo di osservazione inattaccabile, parallelo a quello scientifico, in cui le convenzioni e le certezze del passato non valgono niente rispetto ai dati freschi derivati dalla sperimentazione. È l’atteggiamento di De Quincey che racconta in prima persona le allucinazioni dell’oppio e l’agonia della dipendenza, è quello di Baudelaire che legge De Quincey e ne segue l’esempio per guardare e raccontare ciò che fino ad allora la letteratura non aveva preso in considerazione: lo spettacolo della solitudine moderna nelle città, dell’essere umano smarrito non nelle foreste o negli orizzonti della poetica del Sublime ma nella moltitudine degli sconosciuti che riempiono le strade. Nei peggiori sogni dell’oppio De Quincey diceva di soccombere alla tirannia del volto umano, alla sua infinita moltiplicazione: ci sovvengono le folle ammassate di Goya, quei volti che si accalcano, uno accanto all’altro, per guardare qualcosa, con l’espressione al tempo stesso distaccata e morbosa con la quale si assiste a uno spettacolo di crudeltà pubblica, che si tratti di un delitto o di una corrida. Ciò che rende così terribili quei mostri è che hanno sempre qualcosa di riconoscibile, qualcosa che ci impedisce di sperare in un risveglio che li faccia scomparire. “Il grande merito di Goya è quello di aver creato un mostruoso verosimile – scrive Baudelaire con la perentoria chiarezza che gli è propria nel giudicare le arti visive – tutti quei contorcimenti, quelle facce bestiali, quelle smorfie diaboliche, sono sature di umanità”. Si tratta di uno dei tratti cardinali dell’orrore moderno: il mostruoso non appartiene al regno della fantasia. Ciò che rende intollerabile l’incredibile è il fatto che sia avvenuto o che stia avvenendo sotto i nostri occhi, un fatto del genere obbliga a una conversione di tutti i codici della narrazione e della rappresentazione. Alla decisione di guardare corrisponde lo stupore dinanzi a spettacoli che sfidano i limiti della verosimiglianza e della ragione e travalicano le capacità che si consideravano sufficienti fino a quel momento. Goya, come qualsiasi altro artista di talento, non avverte la brama di innovare per forza che tanto pungola i provocatori alla moda, e meno ancora il bisogno di scandalizzare: vuole documentare l’inaudito e il mai visto e pertanto deve trovare 6
procedure adatte alla nuova sfida; lo scandalo non è nei suoi intenti, ma nella nuda realtà delle cose e, caso mai, nella sua decisione di mostrarle così come sono. Lo sguardo, come ci insegnano i neurologi, è una sofisticata costruzione intellettuale, non un riflesso passivo delle forme visibili. Condizionati dalla fotografia e dalle immagini documentarie guardiamo Le fucilazioni, Il due di maggio e le incisioni dei Disastri della guerra, come istantanee di un reportage e in maniera più o meno esplicita chiediamo loro lo stesso grado di verità. Goya è presente, lo si voglia o meno, in qualsiasi testimonianza grafica sulle bestialità della guerra, ma il suo metodo di lavoro, anche fosse solo per motivi tecnici, non ha niente a che vedere con quello del reportage, e non ci mostra lo stesso tipo di verità. Neppure Manet partecipò all’esecuzione in Messico dell’imperatore Massimiliano e ancor meno Picasso al bombardamento di Guernica, eppure l’impatto delle opere cui ci riferiamo non lascia alcuno spazio per i giochi di destrezza e le vaghezze della finzione; proprio come avviene in un altro supremo capolavoro della narrazione della verità, Luci di bohème di Valle‐Inclán, in cui, come altrove, una madre urla la propria disperazione con il figlio morto tra le braccia. Il due di maggio e Le fucilazioni ci appaiono più veri perché non esistono schizzi, né fonti letterarie precise, né antecedenti visivi. Ma il confronto con L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano di Manet ci può essere assai utile per verificare il modo in cui l’immagine che sappiamo per certo “costruita” si impone con l’immediatezza della foto scattata da un testimone oculare. C’è un punto rilevante: Goya è un predecessore di Manet, un modello al quale senza dubbio il secondo si ispirò, come alla Maja desnuda per l’Olympia (“Ora vedrete per davvero una donna nuda”, sembra dirci: non una dea o una qualche allegoria che vi consenta di coltivare la lascivia e mantenere la decenza, guarderete senza alcun alibi). Ma l’ispirazione, in entrambi i casi, non è tanto formale quanto di atteggiamento e di metodo: è doveroso raccontare ciò che è accaduto anche se non lo si è visto con i propri occhi, anche se ci si basa su testimonianze altrui, a volte di seconda o terza mano, o si utilizzano modelli e motivi tratti dalla tradizione. È doveroso raccontare le cose proprio come avvengono non nei mondi ideali della mitologia e della storia, ma nel presente, senza le velature poetiche dello stile, senza le certezze corruttrici della propaganda, sotto la stessa luce cruda in cui si svolge la nostra esistenza quotidiana. Due anni fa si è tenuta a New York una meravigliosa mostra su Manet e le diverse versioni dell’Esecuzione dell’imperatore Massimiliano. Si potevano esaminare i materiali che servirono da punto di partenza al pittore: tra di essi, curiosamente, non figurava alcuna testimonianza visiva. Manet vide forse le foto del cadavere nella bara, della camicia sforacchiata e dell’ampio cappello che Massimiliano indossava, ma non della fucilazione in sé, perché quegli eventi non venivano fotografati e perché nessuno fece uno schizzo della scena che tuttavia venne rappresentata spesso. Lesse le relazioni della stampa, abbondanti ma contraddittorie, nessuna di prima mano, perché la fucilazione era avvenuta in un luogo remoto e praticamente senza testimoni. Che il quadro dell’esecuzione di Massimiliano non sia un documento, ma una composizione, il risultato di un processo di ricerca e congettura, risulta ancora più evidente perché Manet dipinse tre versioni senza indicarne mai nessuna come definitiva. Lavorò, come Goya, a distanza – Goya a sei anni di distanza nel tempo, Manet più vicino nel tempo, ma molto più lontano nello spazio e con l’obbligo di dover immaginare un paese nel 7
quale non era mai stato – ma anche lui, come Goya, con una vicinanza emotiva alimentata dalle convinzioni politiche e dalla sete di sapere. Per Manet la crudele verità della fucilazione di Massimiliano costituiva un antidoto alla pompa opprimente e mistificatoria di Napoleone III, alla sua vacua retorica imperiale, obsoleta quanto l’arte accademica che patrocinava e sotto la quale si nascondevano gli interessi monetari più sordidi. Nel Due di maggio e nelle Fucilazioni Goya dichiara un’intenzione propagandistica – “ardenti desideri di perpetuare per mezzo del pennello le più notevoli ed eroiche azioni della nostra gloriosa insurrezione contro il tiranno d’Europa” – senza dubbio accentuata dalla necessità di mettersi in buona luce nella nuova situazione politica creata nel 1814 dal ritorno di Ferdinando VII, ma ciò che dipinge non concorda con le sue stesse parole, e ancora meno con le rappresentazioni abituali di eroismo e sacrificio patriottico. Non si deve cedere alla comodità quasi inevitabile di considerare ben noti questi due quadri. Non ci si può accontentare di esaminare una volta ancora le riproduzioni e pensare di conoscere gli originali a memoria, come si ritiene, per esempio, di conoscere a menadito Delitto e castigo, la Nona sinfonia o il David. In questo mondo anestetico colmo di simulacri virtuali di qualunque cosa bisogna recarsi al Prado e raggiungere la sala dove si trovano, fianco a fianco, Le fucilazioni e il Due di maggio, e sostare davanti a essi tutto il tempo che serve, cercando di ignorare le successive ondate di turisti e ancor di più le spiegazioni delle guide, soprattutto quelle impartite in lingue che capiamo. L’effetto è sempre devastante. Non è possibile costruire nessuna epica, nessuna storia esemplare a partire da queste immagini che disgregano con l’irreparabile furia di un acido tutte le rappresentazioni di eroismo o di nobiltà bellica ideate prima e dopo, l’intera montagna di enfatiche verbosità e gli spettacoli di masse in rivolta o di sobrie ed efficienti armate sparse per il mondo negli ultimi due secoli: dipinti storici, gruppi scultorei, schiere di operai che avanzano verso la vittoria, parate marziali, sacrifici generosi, inni, discorsi, chilometri di versi. Tutto diviene grottesco in confronto a questi due dipinti quanto la prosa amministrativa con la quale le autorità di Madrid, nel 1814, bandivano un concorso di pittura destinato a esaltare “il momento felice, anche se cruento, in cui il popolo spagnolo passò dall’infausta schiavitù alla benigna libertà”. L’insulsa retorica municipale è sostanzialmente la stessa che è servita a mandare al macello chissà quanti milioni di vittime in tutto il mondo, in nome delle idee più disparate e a beneficio di non importa quale fornitore di uniformi e razioni da campo. I momenti felici e cruenti, afferma Goya per la prima volta – e per sempre – non esistono, se non per i carnefici o gli sfruttatori del supplizio altrui. Nel Due di maggio la “gloriosa insurrezione” è il confuso ammutinamento di una marmaglia che circonda alcuni militari a cavallo, li uccide affidandosi alla pura forza del numero e si accanisce sui cadaveri ancora caldi. Goya, così attento a raffigurare lo sguardo umano, dipinge qui occhi che quasi escono dalle orbite a causa del panico o dell’ebbrezza della violenza fisica. Tutto è allo stesso tempo atroce e banale e non si vede nessuno passare dall’“infausta schiavitù alla benigna libertà”, ma solo dalla vita alla morte, dalla condizione umana a quella animalesca, allo stesso tempo sbigottita e omicida. Al centro della scena figura un uomo che continua a pugnalare un cadavere e che probabilmente non tarderà a morire anche lui in una maniera sventata e spaventosa. 8
L’unica nobiltà è negli occhi dei cavalli che presto saranno sventrati dai coltelli ancora avidi di sangue. Non che Goya guardi senza prendere posizione. Sa che esistono innocenti e colpevoli, carnefici e vittime, ma sa anche che, una volta scatenata, la violenza è un incendio furioso che distrugge tutto alimentandosi di quanto v’è di peggio nell’animo umano. Il due di maggio e Le fucilazioni non sono tanto due episodi successivi quanto due facce di una stessa medaglia, i due poli di un flusso di catastrofi che per sei anni ha imperversato per la Spagna, peggio ancora, l’ha indirizzata verso un futuro di barbara tirannia, povertà e guerra civile. Coloro che uccidono la mattina muoiono durante la notte. La furia omicida non cede il posto alla nobilitazione spirituale del martirio, ma al puro terrore. L’uomo che conficca la lama nel ventre del cavallo e riceve sul viso il getto caldo del sangue indossa pantaloni gialli e una camicia bianca identici a quelli del patriota che spalanca le braccia dinanzi ai fucili del plotone d’esecuzione. In quanto ai soldati francesi, la disciplina e l’efficienza servono loro a quello che sono servite le stesse glorificate virtù a tutti gli eserciti, a Madrid nel 1808 come nelle Asturie nel 1934, in Ucraina nel 1941 o in Vietnam nel 1968, a massacrare civili disarmati. Altri scelgono di non guardare o di guardare solo da un lato. A partire dal quaderno da cui nacquero i Disastri della guerra, anche a causa della malattia che lo rese sordo intorno ai cinquant’anni, Goya acuisce al massimo il proprio sguardo, lo sguardo che già traspariva dai suoi cartoni per arazzi: guardare sempre, ecco il suo imperativo, guardare tutto con la convinzione incrollabile che solo la verità merita di essere raccontata, che non ci sono scuse per attenuare o distorcere ciò che si è visto, anche se si pretende di farlo in nome di un bene o di una causa superiore. Ma non è affatto un nichilista segretamente compiaciuto per la selvaggia degradazione degli esseri umani, come lo sono stati alcuni dei suoi discepoli e imitatori del Novecento. Estranea quanto l’ossessiva irrazionalità onirica dei surrealisti gli risulta la crudeltà morbosa manifestata da Grosz nelle caricature di ricconi e militari e nei disegni di crimini sessuali degli anni Venti che, tanto spesso, vengono definiti “goyeschi”. Torniamo all’intuizione di Baudelaire: nei volti più bestiali di Goya resta sempre una traccia di umanità, e per questo ci inquietano ancora di più, perché li avvertiamo vicini, perché vi scorgiamo la nostra stessa capacità di trasformarci in esseri mostruosi o di soccombere a un’invasione di ombre niente affatto fantastica, perché è dentro di noi o proviene da persone che ci somigliano molto, non da maschere confinate nel regno del grottesco. E ciò che lo stesso Baudelaire definisce mirabilmente cauchemar plein de choses inconnues, lungi dall’essere una condizione naturale o congenita della psiche umana, ha sempre in Goya un risvolto politico che ben pochi tra i suoi imitatori vogliono percepire: vi si manifesta la convinzione, per noi fatalmente ingenua, che i lumi della conoscenza possano dissipare gli incubi e migliorare la vita umana. Prescindere da questa vigorosa dimensione programmatica del lavoro di Goya, che egli stesso sottolinea tante volte, è più di un errore, credo, è un anacronismo. La sua nerezza lo rende nostro contemporaneo: è la sua fede nel progresso politico che lo distanzia da noi. Ci commuove che abbia scritto “Io l’ho visto” ai piedi di una scena d’orrore, ma ci sconcerta quando in un’immagine allegorica in cui la Libertà irradia raggi accecanti assicura: “Questa è la verità”. Il suo radicalismo intransigente ci appare ingenuo perché non ha alcuna riluttanza a servirsi di motivi religiosi: quell’uomo con il 9
mantello che si genuflette davanti alla “Divina Libertà” è sicuramente Goya stesso, e sembra pregare con devozione un’immagine sacra. Il metodico sarcasmo illuminista si inibisce dinanzi all’idea stessa dell’illuminismo, e questo in un’epoca in cui quell’idea appariva non solo sconfitta dal brutale rilancio dell’assolutismo, ma addirittura screditata dai tanti crimini che gli occupanti francesi avevano commesso in suo nome, e anche dall’incapacità dei liberali spagnoli di resistere in maniera efficace alla tirannia e creare una solida organizzazione politica invece che attardarsi in smancerie dottrinarie e fumose tiritere. Eredi dello sconquasso ideologico del Novecento, noi non siamo più capaci di immaginare conciliabili l’integrità estetica e morale e la fedeltà a una causa politica. La maggior parte degli eroi intellettuali si sono rivelati dei truffatori. I campioni della lotta per l’emancipazione non hanno avuto il minimo scrupolo nel vendersi alla polizia o nel diventare accoliti dei tiranni. Il secolo nel quale hanno tracimato le visioni più cruente dei Disastri della guerra è stato anche quello dei grandi prestigiatori specializzati nel non guardare e nel non vedere, o nel guardare ciò che si trovava lontano e non quel che avevano sotto gli occhi, o nel vedere solo una parte della sofferenza, una faccia dell’orrore, o nel non vedere al di là del proprio augusto naso. Picasso ha dipinto Guernica e Sogno e menzogna di Franco (cat. 201, 202), ma firmava senza alcun problema tutti i manifesti che gli sottoponevano i delegati francesi di Stalin: nel suo Massacro in Corea ha fatto qualcosa di peggio che banalizzare l’eredità visuale di Goya e Manet, la ha utilizzata in favore di un’ottusa propaganda politica. H.G. Wells, il paladino internazionale della giustizia, fu probabilmente testimone nel suo viaggio in Ucraina nei primi anni Trenta della stessa fame che aveva attanagliato la Madrid di Goya nel 1811, ma si guardò bene dal raccontarla, o giunse alla suprema maestria di non vederla neppure. Primo Levi racconta che quando i primi soldati russi entrarono nel campo di Auschwitz distoglievano gli occhi dai prigionieri, come se si vergognassero di appartenere all’Umanità. “Non si può guardare” avranno detto, come Goya, che ritrasse molte volte quel gesto, l’istante in cui si volta la faccia per non vedere ciò che degli esseri umani sono capaci di fare ad altri esseri umani, come ritrasse la fredda decisione di non guardare con la quale tanti specchiati cittadini d’Europa assistettero alla scomparsa e allo sterminio di una parte dei loro simili, domandandosi magari “se fossero di un altro lignaggio”, come i due cavalieri che passano conversando accanto a un cumulo di agonizzanti e morti di fame. O si guarda o non si guarda. Se si racconta solo una parte della verità si sta mentendo. Lo comprese George Orwell e accettò di restare solo quando si ribellò contro la parziale cecità della sinistra che vedeva i crimini di Hitler ma non quelli di Stalin, proprio come Camus pochi anni dopo, o André Gide nel 1936 quando si recò in Unione Sovietica, invitato in pompa magna a pronunciare l’elogio funebre di Gorkij, e comprese che la decenza gli imponeva di guardare ciò che nelle visite precedenti non aveva saputo o voluto vedere e di raccontarlo chiaramente, ignorando coloro che lo calunniavano e quanti gli ripetevano che rivelare certe cose equivaleva a consegnare le armi al nemico. Dalla parte di chi sta colui che rifiuta di chiudere gli occhi e vede prendere la decisione opposta ai suoi amici meglio intenzionati? Il prezzo da pagare per chi guarda davvero e racconta ciò che ha visto è spesso la solitudine, anche se non sempre la misantropia. Nel 1824, quando Goya raggiunse il suo esilio di Bordeaux, quasi ottantenne, Moratín 10
lo ritrasse come un vecchio già consumato dagli anni, ma ancora colmo di coraggio e di un’energia che immaginiamo brusca e implacabile, come quella dell’anziano dell’“Ancora imparo”. Sembra nostro contemporaneo, ma apparteneva a un’epoca meno narcisista e quindi meno piagnucolosa della nostra: aveva venduto solo trenta copie dei Capricci, ma i Disastri della guerra, cui aveva dedicato tanto tempo e una dedizione così profonda, non riuscì neppure a vederli pubblicati; Il due di maggio e Le fucilazioni non piacquero praticamente a nessuno e finirono presto in un magazzino. L’inganno ottico della posterità ce lo fa immaginare come un artista cosciente della venerazione che l’avvenire gli avrebbe riservato, ma bisogna tenere a mente che perché un elogio serva a qualcosa è imprescindibile che il destinatario non sia morto. L’eredità di Goya nell’arte moderna è probabilmente più ricca di quella di qualsiasi altro pittore, ma non è meno potente la corrente sotterranea che sentiamo provenire da lui quando accarezziamo la possibilità, ora così screditata, di un radicamento delle arti dell’immaginazione nel racconto veridico del mondo, o perfino della sua influenza pedagogica o umanizzante che a Goya stava tanto a cuore. Ritrovo l’esempio di Goya nell’intrepida oscenità con cui James Joyce nell’Ulisse ritrae Leopold Bloom nell’atto di defecare mentre legge il giornale, o in Vladimir Nabokov che racconta di Humbert – coperto dalla sua dignitosa giacca da camera – in preda all’orgasmo quando Lolita, sventata e ancora totalmente innocente, gli si siede sulle ginocchia. I preti che trascinano la carcassa di un asino morto in Un chien andalou discendono da Goya, ma riconosco il suo sorriso e la sua tenerezza tragica anche nei mendicanti di Viridiana e nei monelli di Los olvidados. In Vita e destino Vasilij Grossman ha immaginato ciò che nessuno ha potuto vedere e poi raccontare: il momento in cui, chiuse le porte della camera a gas, i condannati stipati nell’ombra iniziavano ad avvertire l’asfissia. Sapeva, come Goya, che quando non esistono testimoni sono la finzione può raccontare la verità e come lo spagnolo non si è permesso il lusso del cinismo. In un discorso memorabile uno dei suoi personaggi sembra dirci anche lui: “Questa è la verità”, e parla di una speranza che sopravvive all’orrore e risiede nella bontà umana, quella vera, quella che si trova a volte nei personaggi di Cechov, non il Bene astratto in nome del quale si commettono i crimini. (Ma Grossman morì pensando che il suo libro, confiscato dal KGB, non esistesse più). Nel mediocre dramma Notte di guerra al Museo del Prado Rafael Alberti ha manipolato come marionette i personaggi di Goya, al servizio di ciò che il pittore aveva fatto tanto per contrastare: le menzogne della propaganda. Assai più affine al suo sguardo incorruttibile era quello di Arturo Barea che senza dubbio pensò a lui nell’ultimo volume di La Forja de un rebelde [La forgia di un ribelle, mai tradotto in italiano], nel raccontare lo spettacolo degradante delle famiglie madrilene che nelle mattine d’estate del 1936 si recavano a vedere nelle cunette e nelle spianate intorno alla città i cadaveri di coloro che erano stati fucilati durante la notte, i morti che chiamavano “triglie” perché avevano la bocca spalancata e gli occhi sbarrati cui mettevano a volte tra le labbra sigarette accese o frittelle. A differenza di Alberti, Barea sapeva, come Orwell e Grossman, che la brutalità del nemico non giustifica quella della propria fazione, e che un crimine non è meno degradante se viene commesso in nome della giustizia o della rivoluzione. Finì in esilio anche Barea naturalmente e il suo nome, come quello di Orwell, fu altrettanto scomodo per gli uni e per gli altri. Ma è questa la lezione 11
permanente di Goya, il vero segreto della sua originalità. Per questo continua ancora a interpellarci, ci sfida a ripetere la prova d’audacia che nessuno aveva osato affrontare prima di lui, che nessuno ha portato tanto oltre. 12