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Capitolo uno
Quando squillò il suo cellulare, il commissario Antonio
Prosperi, dagli amici e parenti chiamato Tony, era intento a
godersi lo spettacolo poco entusiasmante di un distributore
di carburante addossato ad un colle sul quale sorgeva un
paesello per niente attraente e che guardava, al di là della
statale, verso villini costruiti gli uni accanto agli altri senza
armonia (l’ultima cosa che i costruttori desideravano, si disse Prosperi, quando rivide il posto a distanza di molti anni
dalla prima volta), occultandone quasi del tutto la lunga
spiaggia e il mare.
«È là, sulla strada che lei ci ha indicato», disse Algo.
«Sto arrivando», rispose Prosperi. Diede indicazioni al
suo autista, Diego buon conoscitore della zona, perché di
tanto in tanto vi faceva un salto per incontrare Callippi, un
vecchio ispettore in pensione, che per un paio di anni era
stato alle dipendenze di Prosperi.
Questi aveva chiesto malignamente a Diego:
«Ma ancora celebra messa?», avendo in mente l’aspetto
curiale di Callippi, un aspetto da prete di paese del mezzogiorno, sensibile al potere, capace di bassezze se qualcosa o
qualcuno arrivava a minacciare il suo mondo piccolo-borghese, tutto fatto di visioni ristrette.
«Non è tempo di divagare», si disse, «c’è da andare a
prendere Cansino».
Ripassò nella sua mente quanto accaduto quella mattina:
la telefonata del questore il quale gli aveva fatto vaghi, ma
già sconcertanti accenni, poi la conversazione telefonica con
Vargas. Era, costui, un collega con il quale Prosperi aveva
lavorato anni prima e si era ricordato che Prosperi, un tempo, era stato ospite nella casa al mare di Cansino (caspita che
memoria! si era detto).
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Dalla voce di Vargas aveva appreso, sempre più stupito,
che doveva arrestare un collega e che doveva pure stare attento: Cansino era armato e capace di tutto.
Era autunno inoltrato. Non faceva freddo, ma il cielo era
grigio. A chi, se non a qualche patito perdigiorno, poteva venire in mente di andare lì, al mare, a passarci una vacanza?
«A un patito perdigiorno e a un funzionario di polizia
ricercato… », si disse.
«Allora?», chiese agli agenti appostati.
«Ha alzato un po’ la serranda», rispose Goro, «Abbiamo
visto le gambe di un uomo. Non può che essere lui, no? Ora
che facciamo, dottore?».
«Andiamo a metterci nella strada di lato. Da lì si può
guardare senza essere visti».
«Più o meno», aggiunse, avendo notato lo sguardo scettico di Goro e di Algo.
A velocità bassissima, raggiunsero in una strada perpendicolare dalla quale si poteva sorvegliare quella di Cansino.
Fra i viali, avevano incrociato solo un anziano su un motorino che li aveva guardati con sospetto, quasi con paura,
temendo probabilmente che fossero dei ladri alla ricerca del
luogo da depredare.
Algo, a quel punto, gli mostrò la paletta, facendogli segno di stare zitto e di andare via, dondolando la mano destra con le dita in giù.
«Sì», disse Prosperi quando iniziò a scrutare la casa, «È
un appartamentino di due stanze con cucina e un bagno al
primo piano. Sotto, mi pare, ce n’è un altro, uguale, di proprietà della sorella. Escludo che si sia messo in contatto con
lei».
Gli altri non fiatarono: stavano aspettando le decisioni di
Prosperi.
«Per prima cosa», disse guardando gli altri, «Evitiamo di
fare sceneggiate. Vado avanti io e voi mi coprite».
«Ma…», cercò di obiettare Goro.
«Non succederà niente, non c’è da preoccuparsi.
Voi,comunque, tenetevi al riparo e poi, quando Cansino mi
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avrà aperto, seguitemi».
Goro e gli altri controllavano le finestre di fronte, senza
notare nulla di allarmante.
Il silenzio era rotto solo dal rumore del mare, lieve, quasi
una ninna nanna. Dalla statale giunse il rumore del clacson
roboante di un camion, poi tornò il silenzio.
Prosperi guardò di nuovo tutt’intorno e a un tratto ebbe
paura che Cansino si fosse tolto di mezzo da solo.
«No, avremmo sentito il colpo», pensò subito dopo «Ha
una pistola, non vedo perché debba scegliere altri modi».
Allora bussò forte alla porta di ingresso.
«Lucio, sono Tony Prosperi. Ti ricordi? Lucio, non fare
fesserie. Sono disarmato, fammi salire».
Non ci fu alcuna reazione. Prosperi, per quanto si sforzasse, non udiva nulla e guardò verso gli altri, incrociando
sguardi pieni dell’inevitabile tensione del momento.
Fece il gesto di portarsi il pollice e l’indice della mano
sinistra alla tempia, come per dire che pensava che si fosse
ammazzato.
Goro si limitò ad un’alzata di spalle.
Poi la porta si aprì, lentamente.
«È tutto a posto», pensò Prosperi, sollevato.
Cansino uscì.
Era un uomo alto poco più di un metro e settanta, abbastanza asciutto. Il suo volto non denotava alcuna espressione.
“Quanti anni ha?”, si domandò Prosperi, “fra i quarantatre e i quarantotto, mi sembra”.
Ma nel complesso, aveva quell’aspetto di vita vissuta,
quel disincanto naturale che doveva piacere molto alle donne, insieme ad un paio di occhi chiari che stavano fra il grigio ed il verde, come un lupo.
Prosperi, in fondo, aveva sempre avuto simpatia per
Cansino, benché ne intuisse una fragilità che faceva a pugni
con la sua aria di “spierto”, come dicevano in Sicilia.
Prosperi notò che era sbarbato di fresco e che profumava
di dopobarba, uno di quelli buoni.
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Cansino lo guardò e passò una rapida occhiata sui poliziotti.
«Vuoi salire?», domandò Cansino.
«Sì», rispose Prosperi e salì le scale dietro Cansino, facendo segno ai suoi di seguirlo.
Entrò nella stanza, mentre gli altri lo raggiungevano a
grandi passi. C’era un tavolino, una sedia e il letto disfatto.
Sul letto c’era un pigiama, nuovo. L’etichetta era strappata
e giaceva in un angolo, tra la polvere che si era depositata lì
dall’estate.
Nel bagno c’era una lametta, usata da poco, un pennello
da barba, una vaschetta di sapone e una bottiglietta di dopobarba di marca francese. La faccia di Prosperi doveva avere
un’espressione incredula, tanto che Cansino sorrise:
«Lungo la strada mi sono fermato in un ipermercato.
Non mi ha filato nessuno. Ho comprato l’occorrente per radermi e lavarmi. Ho comprato pure questa roba che porto
addosso».
Con la coda dell’occhio, Prosperi cercava la pistola, ma fu
più lesto Goro che, malgrado l’età, la vide sotto un asciugamano e se ne impossessò con rapidità, ne tolse il caricatore e
si assicurò che non avesse il colpo in canna.
Cansino aveva seguito i movimenti di Goro, ma non si
era mosso: solo i suoi occhi avevano avuto un bagliore, che
si era subito spento.
Prosperi guardò l’arma di Cansino. Era quella di ordinanza.
«Hai un’altra pistola?».
«Non qui», rispose Cansino.
«E dove, allora?», fece Prosperi.
«A casa».
«Ne sei certo?», lo incalzò Prosperi «Che arma è? Di quale calibro?».
«Bah, una 7,65», disse con noncuranza, come di cosa priva di importanza.
«E poi», aggiunse, «pensi che mi metta subito a mentire
alla polizia?».
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Prosperi lasciò cadere la domanda.
«Adesso devo sistemare un po’ di pubbliche relazioni.
Diego, lei resti qui. Io scendo in strada con Goro».
Quando furono in strada, Goro guardò in silenzio e con
espressione interrogativa il suo capo.
Con espressione di stupore li guardò anche un tizio che
passava con un motorino e che non era abituato a visitatori
in quel periodo.
«Devo chiamare il questore», si disse Prosperi.
Al telefono cercò di essere il più preciso possibile. Ma il
questore doveva avere grossi problemi in quel momento e
tagliò corto.
«Ah, l’avete preso? – domandò – E che ha detto, chille
strunz?».
«Niente, per ora. Sembra molto prostrato».
«Eh, si. Sono tutti buoni a sentirsi prostrati, dopo», e con
queste parole pronunziò il suo giudizio definitivo su Cansino.
«E con la stampa, che facciamo, commendatore?».
«Bah…», sembrò pensarci su, «Falla trattare agli altri, ‘
sta schifezza. Qua c’è da ricavare più scuorno che gloria».
«Ha ragione, commendatore. Ci vogliono occasioni migliori per fare i pavoni».
Pensò al suo collega Vargas che, di certo, attendeva notizie.
Fece il numero quasi con concitazione:
«Cazzo », disse Vargas .
Il suo tono di voce denotava sollievo.
«Finalmente… Iniziavo a preoccuparmi. Allora?».
«Era nel suo appartamento al mare. Lo abbiamo trovato
abbastanza tranquillo…Si è sbarbato e si è pure messo un
dopobarba francese. Il tutto, chissà perché mi ha fatto pensare a Mata Hari prima dell’esecuzione».
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Capitolo due
Risalì nell’appartamento. Trovò l’altro nella stessa posizione. Prosperi guardò Uzzi, Bustamante e Algo:
«Avete cercato bene?».
Algo fece di si con la testa e rispose: «Certo, dottore. Ma
non abbiamo trovato niente».
«Allora facciamo presto e andiamo via. Questo posto mi
piace poco».
Poi si rivolse a Cansino: «Non hai altro con te?».
L’altro scosse la testa.
«Bene», disse rivolgendosi ai suoi «Infilate tutto nel borsone e sbaracchiamo».
Fu un viaggio quasi del tutto silenzioso. Ogni tanto Prosperi rivolgeva qualche parola ai suoi, ottenendone risposte
egualmente laconiche.
Cansino non mostrò alcuna voglia di parlare.
“Che dovrebbe dire?”, considerò Prosperi mentre guardava il paesaggio circostante.
La macchina procedeva sulla statale. A sinistra c’erano la
ferrovia,una stretta pineta e poi la spiaggia e il mare. A destra, invece, terreni posti a livello più basso della sede stradale. Prosperi c’era passato tante volte, ma non aveva mai
posto molta attenzione al declinare di quei luoghi.
Da bambino, quando viaggiava con i suoi sul sedile posteriore, non se ne curava. Da adulto, era troppo attento alla
guida per farsi distrarre dal paesaggio.
Giunti a destinazione, Cansino uscì velocemente dall’auto e Algo, senza voler dar l’idea di costrizione, lo condusse
nel suo ufficio. Cansino fu fatto accomodare nella sedia che
il poliziotto riservava di solito a figli di puttana, poveracci,
testimoni più meno reticenti.
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Se a Cansino ciò provocasse imbarazzo, non fu chiaro.
Prosperi girovagò un po’ negli Uffici domandando se ci
fossero novità, quasi che quella della giornata non fosse bastata a riempirla.
In verità, ritardava più o meno consapevolmente il momento di porsi davanti a Cansino per ascoltarlo. Certamente
ne era incuriosito, sebbene immaginasse quanto ciò potesse risultargli indigesto. Era quasi sicuro che Cansino non si
sarebbe chiuso in un mutismo da sicario di una ndrina. Al
contrario, avrebbe parlato, e molto.
Si sedette, guardò un po’ di carte e poi chiamò al telefono
Goro.
«Porti qui quel campione…».
Era più o meno ora di pranzo. Quindi fu convocato anche Diego, il quale domandò a Cansino e agli altri che cosa
volessero mangiare.
Diego tornò di lì a poco con dei panini che tutti consumarono quasi voracemente, in particolare Cansino: sembrava
aver una fame da lupi.
Dopo per un po’ ci fu silenzio, interrotto da Algo: «Vado
a fare di là i verbali. Perquisizione, sequestro e il resto».
«Sì, vai».
«Ti sarai chiesto cosa sia accaduto», disse allora Cansino.
«Tu che dici?», rispose Prosperi con tono acido.
«Beh, sai tutto comincia con la bonaria composizione dei
privati dissidi…».
«Cosa?».
«Ma si, gli esposti».
«Ah», disse Prosperi con intonazione scettica.
Pensò a una delle piaghe che affliggevano i Commissariati: gli esposti dei cittadini, uno degli interstizi attraverso
i quali si può vedere all’opera il male. Certo, la parola sembrava grossa, ma il Male con la emme maiuscola lo si incontra di rado, poiché esso, invece, ha sempre un po’ di pancia,
spesso le caviglie gonfie e l’alito cattivo e, di primo acchito,
sa quasi sempre più di sporco che di luciferino.
Gli era capitato di vedere negli esposti all’opera la catti14
veria pura, disinteressata: le persecuzioni telefoniche, il dispetto fatto, per così dire, a perdere, la piccineria più odiosa.
Spesso, per la verità, l’intervento della Polizia, che chiamava la controparte, e la “ammoniva” (questo il verbo, fra
il vetusto e il calcistico, che si usava) a non far più danni, a
non arrecare più molestie, sortiva i suoi effetti, talvolta la
storia finiva per spegnersi per naturale esaurimento. In alcuni casi, infine, le cose finivano comunque male.
Di sicuro c’era che mai quello che veniva chiamato ed
ammonito ammetteva di essere quel che era: un rompicoglioni, uno stronzo, spesso un dongiovanni da strapazzo
che si era messo in testa di possedere una donna, malgrado
l’evidente impossibilità di averla, ché la donna, invece, non
ne voleva sapere di lui.
Non mancavano poi i casi nei quali gli esposti si incrociavano e allora, anche volendo raggiungere la verità della
questione, non si sarebbe usciti dalla palude delle mezze
verità, dell’inventato, di ciò che non era mai avvenuto, ma,
che, ormai, uno dei contendenti riteneva fatto incontestabile.
Insomma, si trattava di una gran rottura di scatole che, in
genere, nei Commissariati, quasi tutti tendevano ad evitare.
Cansino cominciò la sua deposizione: «Un pomeriggio
rientrai in ufficio. Era fine maggio, già un’estate precoce, si
sudava parecchio.
Allora, stavo in quel Commissariato squallido, che aveva
un prato incolto di fronte, in una via anonima… Insomma
un posto ameno».
Prosperi ricordava vagamente quel posto: gli pareva di
rammentare che nelle vicinanze passassero dei tram. Di certo, non era lontano da una stazione della metropolitana.
«Quel giorno», proseguì Cansino «Era più umido del
solito. Avevo mangiato qualcosa in un ristorante lì vicino,
gestito da un tizio tanto mellifluo, quanto scostante. Quando rientrai nel mio ufficio guardai con disgusto il cumulo
di posta sulla scrivania. Dopo un po’, dal mucchio di carte
scappò fuori questo esposto, scritto in buon italiano. Devo
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dirti che l’insieme dava una certa impressione di falsità, di
bigotteria».
Scosse per qualche secondo la testa e poi riprese:
«Per farla breve, un tizio raccontava di aver avuto una
storia con una ragazza assai più giovane di lui, con la quale
si erano pure fatti fotografie… Sì, fotografie molto spinte.
Folgorato, a suo dire, sulla via di Damasco dal valore della
famiglia, aveva troncato la storia con la ragazza e aveva, poverino, confessato tutto alla moglie, che lo aveva perdonato,
naturalmente. A sentir lui, anzi a leggere il suo scritto, la ragazza, tremendamente umiliata per l’abbandono ed evidentemente vogliosa di continuare la relazione, aveva iniziato
a tempestare la moglie di telefonate nelle quali raccontava
della liaison col marito, compresi i dettagli più piccanti.
Perciò, il figliol prodigo ci pregava di ammonire la ragazza, di invitarla a smettere di importunare la moglie e di
ostacolare la ritrovata felicità coniugale. Il tipo, appunto,
parlava di certe fotografie che, in tutta la storia, avevano
una parte importante, ma ometteva, come fanno tutti, di
dire altre cosette… Idiota! Come se noi ne potessimo restare
all’oscuro…
Così chiamai un assistente, un calabrese che sapeva di
vecchia questura, di muri scrostati, di ufficio politico, di
pattuglie notturne, e gli dissi di notificare alla ragazza di
presentarsi da noi. La tipa aveva un cognome di incerta provenienza, e si chiamava, pensa un po’, Maria Vittoria. Potevi
pensare, con un nome simile, a una placida ragazza che si
prepara a un bel matrimonio, ma non a una che si mette in
posa per farsi immortalare mentre fa un pompino o se lo fa
mettere nel sedere.
Longobardo, questo il nome del calabrese, allontanò le
carte dal proprio viso per leggerle meglio e poi fece una
smorfia indecifrabile:
“Questa storia mi ricorda qualcosa”, disse, “Però, deve
essere successa quando stavo in malattia per l’operazione
che ho dovuto fare. Vado a chiedere in archivio e poi le faccio sapere”.
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Guardai il calendario e dissi a Longobardo di invitarla
per il lunedì successivo.
Poi passai ad altro e ben presto mi dimenticai di questa
storia bizzarra».
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