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Tutti i personaggi e gli eventi descritti in questo libro, tranne quelli di pubblico
dominio, sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e qualsiasi somiglianza con
persone reali, viventi o defunte, è puramente casuale.
Titolo originale: Sorpréndeme
Copyright © Megan Maxwell, 2013
Copyright © Editorial Planeta, S. A., 2013
Traduzione dallo spagnolo di Amaranta Sbardella
Prima edizione ebook: aprile 2016
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-9162-4
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Realizzazione: S.F.V.
Foto: © Shutterstock Images
Megan Maxwell
Sorprendimi
Con affetto dedico questo romanzo a tutte quelle persone che,
leggendo la trilogia Chiedimi quello che vuoi,
hanno trovato Björn un bel bocconcino. E lo è. Pronte?
Spero vi piaccia!
Capitolo uno
Alto…
Moro…
Occhi azzurri…
Sexy…
Simpatico…
Ecco Björn Hoffmann.
Per un uomo come lui godersi una notte di sesso rovente nel Sensations era la
cosa più facile e divertente del mondo. Le donne, e perfino qualche uomo,
facevano di tutto perché rivolgesse loro il suo sguardo felino proponendo di entrare
in un privé.
Björn era provocante… molto provocante.
In genere gli uomini che entravano da soli in questo o in qualsiasi altro locale di
scambio di coppia non avevano il diritto di scegliere. Erano loro a essere scelti. Ma
a Björn non piaceva. Lui sceglieva. Lui decideva. Lui selezionava.
Quella notte, dopo una settimana stressante e molto lavoro, guidava la sua
elegante macchina sportiva grigia verso il Sensations. Intanto sul lettore CD della
macchina ascoltava Let’s Stay Together di Al Green, uno dei suoi cantanti preferiti.
I’m, I’m so in love with you. / Whatever you want to do is all right with me /
’Cause you make me feel so brand new / And I want to spend my life with you.1
Come diceva la sua cara amica Judith, la musica ammansiva le fiere, e
canticchiare canzoni soul mentre guidava lo rilassava e stimolava per la notte di
sesso che aveva davanti a sé.
Non aveva chiamato nessuna delle sue conquiste. Non ne aveva bisogno. Voleva
solo del sesso, senza cene o chiacchiere inutili. Adorava le donne. Lo divertivano.
Erano meravigliose ed eccitanti, e cercava di circondarsi di compagne simili a lui.
Che pensassero come lui. Che si comportassero come lui. Che chiedessero
solamente del sesso. Solo sesso.
Giunto al Sensations, Björn lasciò la macchina in un parcheggio vicino.
Vedendolo, la custode sorrise. Quel tipo tornava spesso e ogni volta che la
guardava la faceva sentire speciale.
Uscito dal parcheggio, Björn entrò nel locale e al bancone si imbatté in alcuni
amici. Conversò cordialmente con loro finché scorse una coppia che conosceva, e
si capirono subito con lo sguardo. Poco dopo, in compagnia di due dei suoi amici,
Carl e Hans, Björn si avvicinò alla coppia. Mentre li vedevano arrivare, George e
Susan sorridevano. Non era la prima volta che giocavano tutti insieme, e qualche
minuto più tardi i cinque si diressero verso un privé. Non c’era bisogno di parlare.
Tutti sapevano cosa volevano. Tutti sapevano cosa cercavano. La notte si
preannunciava torrida e movimentata.
Appena entrati, George si sedette sul letto mentre gli altri rimasero in piedi.
Susan, una bella donna con capelli lunghi e setosi, era pronta a divertirsi con
quegli uomini e, fissandoli, si morse le labbra aspettando che il rovente gioco
avesse inizio. I suoi capezzoli erano già turgidi, e la vagina bagnata. Tremava
mentre pensava al piacere che le avrebbero procurato. Björn sorrideva. Gli piaceva
percepire l’eccitazione delle donne. Per questo, dopo aver lasciato il calice su un
tavolino, le si avvicinò e le chiese all’orecchio: «Sei pronta, Susan?»
«Sì».
«Pronta a farci giocare con te?», insistette facendo scivolare la mano sul suo
petto.
Lei annuì e il suo respiro accelerò.
Senza bisogno di toccarla, Björn aveva già capito che i suoi fluidi stavano
bagnando il sottile tessuto delle mutandine. Mai nessuna donna, nei suoi trentadue
anni di vita, aveva rifiutato un approccio così intimo. Piaceva. Le eccitava. Björn
era così sexy, così maschile, che tutte, assolutamente tutte, cadevano ai suoi piedi,
e ancor più quando si perdevano nei suoi occhi azzurri.
Susan adorava divertirsi con più uomini alla volta. Non era attratta dalle donne. Il
suo appetito sessuale era insaziabile, e al marito piaceva osservarla in azione. Era il
suo gioco. Erano le sue regole, e amava abbandonarsi al desiderio e al piacere.
Susan si girò per guardare davanti a sé Björn. Il suo sguardo lussurioso era
eloquente. Lo desiderava. Voleva che la toccasse. Moriva dalla voglia di godere e
si bagnava al pensiero di come quegli uomini avrebbero giocato con lei.
Björn cominciò a sbottonarle lentamente la camicetta, mentre il respiro di lei
diventava affannoso. Due secondi dopo, vide il suo seno eretto, i capezzoli turgidi,
e mormorò: «Susan, adoro il tuo petto».
«Per te», offrì lei.
Björn sorrise. Si sedette sul letto e le fece segno di avvicinarsi mentre gli altri
osservavano. Lei obbedì e, non appena si trovò davanti a lui, portò eccitata il suo
meraviglioso capezzolo destro verso la bocca di Björn, che lo colse felice. Per
diversi minuti, lo leccò e succhiò fino a farglielo diventare duro come la pietra. Lei
sorrideva.
George, il marito di Susan, si alzò. Le abbassò la zip della gonna, che cadde a
terra.
Subito dopo, sbottonò le due catenine dorate che legavano il tanga, e anche
questo scivolò giù, lasciando alla vista il pube depilato e il sedere florido e
appetitoso.
«Interessante», sussurrò Hans mentre si accostava per darle uno schiaffetto sulla
natica.
George sorrise. Il gioco stava per avere inizio. Si sbottonò i pantaloni e li tolse
assieme ai boxer. Si sedette sul letto toccandosi il pene duro, guardò Carl e
mormorò: «Anch’io voglio divertirmi».
Carl si avvicinò a lui senza indugi, e George gli sfilò i pantaloni e le mutande.
Lasciò allo scoperto una potente erezione, e se la mise subito in bocca. La
assaporò. La gustò mentre Carl chiudeva gli occhi e stringeva le natiche con
piacere verso di lui.
Eccitata per la scena, Susan sospirò mentre Björn, sempre più avido, le succhiava
i capezzoli e Hans iniziava a toccarla da dietro.
La situazione diventava sempre più rovente. Susan e George avevano trovato ciò
che cercavano nel locale. Björn si saziava di quel bocconcino che lei le offriva.
Tuttavia, quando la donna provò a spogliarlo, lui la fermò e bisbigliò: «Faccio io».
«Non vuoi che ti aiuti?».
Fece segno di no con la testa. Non gli piaceva essere alla mercé degli altri:
decideva lui quando mettersi o togliersi i vestiti. Ecco la sua regola, e tutte, Susan
inclusa, finivano per accettarla.
Mentre Björn si spogliava e sistemava i panni, rigorosamente piegati, sulla sedia,
Hans aveva masturbato la donna, zuppa e vogliosa del pene che si presentava
davanti a lei turgido e maschio.
Björn sorrise. Era cosciente del suo magnetismo. Si appoggiò nudo sul letto e,
senza distogliere lo sguardo da Susan, osservò il suo monte di Venere liscio e le
disse: «Avvicinati».
Lei obbedì, e lui la toccò. Abbassò dolcemente la mano fino a infilarla tra le sue
gambe e si accorse che era bagnata, molto bagnata. Da dietro Hans le strizzò i
capezzoli mentre lei chiudeva gli occhi estasiata, e il marito proseguiva nella
piacevole fellatio.
Per diversi minuti, Björn percorse più volte l’umida fessura con le dita, finché lei
divaricò le gambe. Allora le si inginocchiò davanti e le appoggiò la bocca sul pube.
Lo morse. E quando la sentì vibrare di piacere, le spalancò le labbra della vagina
con le dita e si spinse nello spazio tra le cosce. Susan ansimò. La bocca di Björn
era impetuosa, e non appena le succhiò il clitoride con appetito, lei riuscì solo a
sospirare e godere.
Qualche minuto dopo, Björn si sentì soddisfatto. Si alzò e, prendendola per la
vita, le si avvicinò un po’.
Le infilò un dito nella vagina bagnata, e poi un altro.
«Ti piace se gioco così con te?».
Susan tremò e annuì. Allargò ancora le gambe e afferrò le sue spalle, lasciandosi
masturbare con impeto, mentre Hans le strizzava le natiche e le mormorava frasi
eccitanti e molto, molto oscene che la facevano impazzire.
Un grugnito di soddisfazione gli fece intuire che Carl aveva raggiunto il piacere
grazie a George. Björn continuava a masturbare la donna con le dita, ma si
interruppe e disse: «Sali sul letto e inginocchiati su tuo marito».
Istigata e vogliosa di sesso, fece cosa le aveva chiesto quell’adone. Poi Björn si
mise dietro di lei e, avvicinandole la bocca all’orecchio, le mormorò: «Ora vai su
di lui e mettigli le tette in faccia».
Quando Björn vide che George se le infilava in bocca, sussurrò: «Di’ a tuo
marito tutto quello che vuoi ti succeda e poi quanto godi mentre ti scopo».
«Sì», ansimò eccitata.
«Apri le gambe, Susan».
Non era la prima volta che vivevano quella scena.
Un istante dopo, mentre Björn la masturbava, lei cominciò a dire al marito che
desiderava essere posseduta da tutti gli uomini. Desiderava più membri dentro, e
che non si fermassero più per ore e ore. Sentendola, George si masturbò con foga
sotto di lei. Entrambi amavano divertirsi così, e Björn, afferrandosi il pene duro, si
infilò un preservativo e piano si introdusse dentro Susan che ansimava.
«Così… tutto… tutto…».
Björn si fermò e, mollandole uno scappellotto sul sedere, ordinò: «Non mi
chiedere niente. Di’ a tuo marito quello che ti sto facendo, capito?».
Infervorata dalla sua voce e dai suoi comandi, lei sussurrò: «Björn mi ha
spalancato le gambe e mi sta scopando». Lui si spinse a fondo dentro di lei, che
aggiunse tra i gemiti: «Mi ha infilato tutto il suo pisello, tesoro. Mi piace. Mi sento
piena… di più…».
Esaltato dalle sue parole, il marito la prese per la vita e la mosse per affondarla
ancora di più su Björn.
«Di più. Voglio che ti scopi di più», sibilò.
Björn sorrise e si conficcò dentro di lei.
«Così, George? Devo trombare così tua moglie, eh?».
Susan ansimò. La lussuria e il godimento non le permettevano di parlare, e
George, in deliquio, esclamò: «Proprio così… Sì, scopatela!».
Björn sorrise. Gli piacevano quei giochini, e mormorò mentre spingeva con
impeto e la tirava su per i capelli per farle alzare la testa: «Non appena uscirò, sarà
il turno di Carl, e poi di Hans. L’ultimo sarà tuo marito. E ricomincerò io a
scoparti. È questo che vuoi, vero, Susan?»
«Sì… sì…».
Il loro era sesso intenso, torbido, incandescente e disinibito, e ne andavano matti.
Soprattutto Susan e George, che lo avevano richiesto.
Björn accelerò il ritmo mentre il petto di lei sballottava sulla faccia del marito,
che si masturbava. Nel frattempo attorno a loro Hans e Carl pronunciavano cose
indecenti.
Godimento. Piacere. Ecco cosa provavano.
Gli uomini la penetrarono, uno dopo l’altro.
Lei li accolse vogliosa, uno dopo l’altro.
E uno dopo l’altro la possedettero fino all’orgasmo.
Quando venne anche il marito, Björn la prese per mano, la portò nella doccia e lì,
dopo che lei gli aveva infilato un preservativo con la bocca, la penetrò di nuovo.
Quindi la ricondusse sul letto e domandò: «Che dici, tuo marito si sta divertendo?».
Accalorata nonostante la doccia, Susan guardò George. Godeva mentre Carl lo
penetrava e faceva una fellatio a Hans. Per diversi minuti, grida maschili
inondarono il privé.
Björn li osservò insieme a Susan. Non gli piaceva troppo quel tipo di sesso,
preferiva le donne, ma godeva nel vedere. Quando il trio raggiunse il climax e poi
si diresse alla doccia, il letto rimase libero. Eccitato dalla scena, Björn strappò
l’involucro di un preservativo e lo indossò, poi le disse fissandola: «Siediti sopra di
me».
Lei si mise a cavalcioni su di lui. Con agilità, Björn la mosse alla ricerca del suo
piacere. Adorava condurre il gioco, e ora era il suo momento. Lei ansimò e,
quando credeva che non potesse andare più in profondità, Björn si mosse con un
gesto secco. Lei gridò e, notando che sorrideva, sussurrò: «Mi piace come mi
prendi».
«Dimmi quanto ti piace», le intimò Björn.
«Tanto… tanto… Oh, sì!», urlò mentre lui la scuoteva.
I tre uomini uscirono dalla doccia e si misero attorno al letto. Björn ordinò
ancora mentre continuava a penetrarla: «Susan, di’ a tuo marito perché ti piace
quando ti scopo».
«Mi riempie tutta. È duro… molto duro… non fermarti», strillò, spalancandosi
per lui.
Björn non si interruppe e proseguì a divertirsi con ciò che adorava più di ogni
altra cosa. Il sesso.
Il sesso senza impegno.
Il sesso fine a se stesso.
Il sesso senza amore.
Il sesso sfrenato e rovente.
Infervorato dalle urla della moglie, George non riuscì a trattenersi e pretese di
partecipare.
Björn sorrise. Schiacciò Susan contro di sé, e il marito infilò il suo pene eretto
nello stesso foro. Le riempirono la vagina mentre nella stanza risuonavano i respiri
affannosi e i gemiti goduriosi.
Susan era in estasi. Quella era la sua massima soddisfazione. Le piaceva sentirsi
piena, completamente piena. Scoppiava di piacere mentre i due prendevano il suo
corpo e godevano. Sprofondarono dentro di lei e, quando Björn non ne poté più,
venne.
Dopo che furono usciti, Björn si alzò e andò nella doccia, mentre Hans e Carl
prendevano il suo posto per penetrare Susan. Lei lo voleva. Lei lo desiderava. Lei
si abbandonava eccitata agli uomini, fremente di dare e ricevere il piacere.
Mentre l’acqua scorreva sul suo corpo, Björn chiuse gli occhi. Il sesso lo
rilassava, lo affascinava, ma una parte della sua vita era incompleta. Non l’avrebbe
mai ammesso, ma nel profondo del suo cuore bramava quello che avevano i suoi
amici Frida e Andrés, o Eric e Jud. Una vita sessuale intensa con un partner che
amavano.
Tuttavia era un uomo esigente, e non gli bastava una donna qualsiasi. Poco dopo
averlo conosciuto, tutte gli sbavavano ai piedi, e lui ne era sconcertato. Voleva
incontrare una donna che lo lasciasse a bocca aperta. Che lo facesse impazzire!
Tuttavia, nessuna lo colpiva a tal punto da invogliarlo a rivederla dopo il primo
appuntamento. Aveva amiche. Molte amiche. Ma nessuna speciale.
Dopo aver chiuso il getto della doccia, osservò come gli altri continuavano il
torrido balletto sul letto. Si toccò il pene. Lo sfiorò con le dita, ed ebbe una nuova
erezione. Il sesso era eccitante, e lo stuzzicava. Quando sentì che Carl era scosso
da un orgasmo, indossò un altro preservativo e, tutto bagnato, tornò sul letto, prese
la donna e la penetrò nell’ano. Lei gridò. Poi Björn afferrò con forza i suoi fianchi
e cominciò a muoverla come voleva mentre Susan gemeva impazzita. Il marito si
mise subito davanti a lei e le introdusse il pene in bocca. Susan leccò, succhiò, e
nessuno si fermò più mentre i corpi si contraevano per il piacere.
Tre ore più tardi, Björn uscì solo dal locale. Andò nel garage dove aveva lasciato
la macchina e dopo aver salutato la giovane custode, che diventò rossa, vi salì e si
diresse verso casa mentre la musica di Al Green tornava a suonare all’interno
dell’auto. Aveva bisogno di riposare.
1 Io, io sono così innamorato di te. / Tutto quello che vorrai fare per me va bene /
Perché mi fai sentire così diverso / E voglio passare il resto della mia vita con te.
Capitolo due
Il cielo era bellissimo.
In giorni come quelli pilotare era meraviglioso. Mentre lo faceva, cantava I Gotta
Feeling dei Black Eyed Peas.
I gotta feeling that tonight’s gonna be a good night. / That tonight’s gonna be a
good night. / That tonight’s gonna be a good, good night. / Tonight’s the night,
let’s live it up. / I got my money, let’s spend it up.2
Melanie controllò l’orologio. Le 15:18. Trentacinque minuti più tardi avrebbero
toccato terra nella base statunitense di Ramstein, nell’Ovest della Germania, dove
li aspettavano diverse ambulanze militari per prelevare dall’aereo i soldati
nordamericani feriti da proiettili o esplosivi.
Si sfregò gli occhi. Era stanca, ma l’adrenalina della musica la manteneva
sveglia. Pilotare dall’Afghanistan avrebbe sfinito chiunque, e nell’ultima parte del
viaggio il desiderio di atterrare cresceva sempre di più. Abbassò il volume della
musica per rivolgersi a Neill: «Passami l’acqua».
Neill girò il suo sedile e Fraser, dietro di lui, gli passò una bottiglietta. Melanie,
Mel per gli amici, bevve e ringraziò.
Mel, Neill e Fraser erano rispettivamente pilota, copilota e responsabile del
carico del Boeing C-17 Globemaster, ed erano di ritorno dall’Afghanistan, dove
avevano consegnato gli approvvigionamenti ad alcune basi operative statunitensi e
avevano caricato a bordo i feriti, poi assistiti nell’ospedale militare di Landstuhl.
«A che ora ci muoviamo per Monaco?», domandò Neill.
Melanie sorrise. Non vedeva l’ora di riabbracciare la figlia, ma non sarebbe
successo prima del giorno dopo. Sia lei che Neill avevano lasciato a Monaco, nelle
loro case, gli affetti più cari.
«Prestissimo», rispose.
«Non decollare senza di me. Muoio dalla voglia di soffocare di baci la mia
famiglia».
Mel annuì, rialzò il volume della musica, e i tre cominciarono a cantare a
squarciagola.
Alla fine della canzone, Fraser puntualizzò: «Tenente, ricordati che stavolta
vengo anch’io con voi a Monaco».
«Ti aspetta una persona speciale, eh?», chiese la giovane, divertita.
Fraser replicò mormorando: «Una bellissima hostess con le gambe lunghe e una
bocca esagerata».
Neill scoppiò a ridere, e Mel lo prese in giro.
«Cretino».
Fraser la fissò e ribatté: «Tenente, non si vive solo di pane, e io non sono certo di
pietra».
Mel rise. Neppure lei era di pietra, anche se così pensavano i suoi colleghi, e
aggiunse guardando dritto Fraser: «Stavolta non posso proporti il divano di casa
mia. C’è mia madre».
«Non ti preoccupare. Monica mi ha promesso il suo letto».
«Wow… allora la cosa è seria», scherzò Neill.
Fraser gli batté il cinque: «Monica è una pollastrella tenera e appetitosa», disse
con tono ridanciano, provocando l’ilarità degli altri.
«Ma quello non è Robert?», domandò Fraser indicando un aereo.
I tre osservarono il velivolo che si allontanava, e la tenente rispose: «No.
Eravamo rimasti che stasera ci saremmo fatti una partita a biliardo e ci saremmo
bevuti un paio di birre. Se fosse partito, mi avrebbe avvisato per radio».
Nella cabina calò il silenzio finché Mel domandò: «E la musica che fine ha
fatto?».
Gli altri due sorrisero divertiti, e subito Neill cambiò il CD. Premette PLAY e la
voce di Bon Jovi riempì l’abitacolo. Cominciarono a risuonare i primi accordi di
It’s My Life, e i tre mossero la testa a tempo e ripresero a cantare mentre si
infilavano gli occhiali da sole. Quello era il rito. Il loro rito. Sempre la stessa
canzone. Significava che stavano tornando a casa. Al loro nido.
It’s my life. / It’s now or never. / I ain’t gonna live forever. / I just wanna to live
while I’m alive.3
Per loro quella canzone e il suo significato erano importantissimi, e infatti la
ascoltavano sempre alla partenza per un viaggio o al ritorno. Era l’inizio e la fine
di tutto. E come cantava Bon Jovi, «Non vivrò per sempre. / Voglio solo vivere
finché sono vivo».
Vita… quelle quattro semplici lettere erano diventate il centro di ogni loro gesto,
di ogni loro pensiero.
A causa di quel lavoro vedevano troppe scene terribili.
A causa di quel lavoro avevano imparato a considerarsi sempre dei sopravvissuti.
A causa di quel lavoro Mel aveva perso l’uomo che amava.
Mentre la ragazza canticchiava, si concentrò sulle manovre di atterraggio.
Ridusse la potenza e alzò la cloche. Quando il carrello centrale toccò terra, Mel tirò
i freni al massimo e attivò quelli del carrello di atterraggio mentre l’aeromobile
diminuiva lentamente la velocità. Una volta scesa a quaranta o cinquanta nodi,
ridusse la potenza dei motori e l’aereo cominciò ad arrestare la sua corsa, finché la
pilota, prendendo di nuovo i comandi, lo guidò verso l’hangar che le avevano
indicato i colleghi di terra.
Dopo aver spento i motori, aprì il portellone posteriore e acconsentì a iniziare
l’operazione di scarico. Intanto rimase a riempire dei moduli assieme a Neill e
Fraser. Una volta finito, scese dalla cabina di pilotaggio e sentì: «Tenente Parker».
Guardò davanti a sé e, dopo il saluto militare, rispose: «Tenente Smith».
Abbassarono le mani e sorrisero. Robert Smith era un ottimo amico, e pilota di
un altro C-17.
«Com’è andato il volo, Mel?»
«Tranquillo… come sempre».
Risero, e lui aggiunse: «Stavolta non possiamo berci una birra. Appena avranno
dato da mangiare al mio cavallino, partirò per il Libano».
«Decolli oggi?».
Robert annuì e disse: «Sì. In teoria avrei dovuto farlo domani, ma c’è
un’emergenza per i rifornimenti e ci hanno anticipato il viaggio di un giorno».
Assentirono entrambi. Lo sapevano: la loro vita era così e, strizzandogli l’occhio,
Mel chiese: «Come sta Savannah?».
Pensando alla moglie, l’uomo sorrise e rispose: «È felice di aver traslocato. Ora è
a Fort Worth a sistemare casa. Spero che mi facciano stare con lei per qualche
mese. A proposito, devo assolutamente ringraziare tuo padre. Mi ha detto
Savannah che le sta dando una mano con le pratiche».
«Papà ti conosce, sei mio amico, e sa che si deve prendere cura dei miei amici».
Risero entrambi, e lui disse: «Dai un bacione da parte mia alla principessa».
«Mia madre è qui in Germania con lei».
Robert imprecò e aggiunse: «Cazzo, mi sarebbe piaciuto vedere Luján.
Salutamela, e soprattutto da’ tanti baci a quella bambolina che mi ha rubato il
cuore».
«Sì, la mia Sami, lo so», e vedendo che si avvicinava García, la copilota di
Robert, mormorò: «Allora abbiamo dei boccali di birra in sospeso, vero?».
L’uomo annuì, la salutò di nuovo con la mano e se ne andò.
Mel lo guardò allontanarsi mentre ricordava i bei momenti che avevano
condiviso. Tornò alla realtà e si rimise a controllare il suo aereo. Alla fine del
check, prese un foglio che le porgeva Neill e disse: «Vado a consegnarlo al
comandante Lodwud».
Quindi andò verso l’ufficio dell’hangar 12. Durante il percorso, diversi uomini le
presentarono il saluto militare e lei contraccambiò. Giunta davanti all’ufficio del
comandante, bussò decisa alla porta. Le rispose la voce imperiosa del superiore, ed
entrò.
L’uomo, un militare sulla quarantina, alto e robusto, si alzò dalla sedia, e lei
disse: «Signore, tenente Parker a rapporto».
Il comandante assentì. «Tenente Parker».
Mel accennò un sorriso. Gettò i fogli sul tavolo, e mentre tirava il chiavistello e
abbassava la zip della tuta militare disse: «Abbiamo venti minuti.
Approfittiamone».
Il comandante le si avvicinò d’impeto e, mentre la baciava sul collo, si
abbandonava alla gioia del sesso.
Nessun bacio…
Nessuna carezza…
Nessun gesto d’amore…
I due esigevano sesso allo stato puro, e quando le mani di lui salirono fino al
seno di lei e l’uomo si fermò a guardarlo, Mel mormorò: «Il tempo è tiranno,
comandante».
Infervorato dall’audacia e dalla libidine della ragazza, il comandante non vacillò.
Prese il petto di lei nella bocca per succhiarlo, mentre la afferrava tra le braccia e la
faceva sedere sul tavolo. I fogli si sparpagliarono a terra quando Mel si sdraiò sulla
superficie, e i suoi vestiti e quelli del superiore cominciarono a volare per la stanza.
«Tenente…», sussurrò lui, duro come una pietra, mentre lei gli si offriva
spalancando le gambe.
Mel sorrise. Voleva quello che era andata a prendere e, fissandolo, ordinò:
«Facciamolo. Il tempo passa e i miei uomini mi stanno aspettando».
Smanioso, il comandante la riafferrò tra le braccia e si infilò assieme a lei nel
bagno dell’ufficio, dove non avrebbero sentito i loro gemiti. Chiuse la porta, la
scrutò e, adagiandola per terra, mormorò: «Si volti».
Provocandolo, Mel sussurrò: «Lo faccia lei, signore».
Lui sorrise e la girò con veemenza. Avvicinò il pene eretto al suo sedere e,
strusciandosi contro di lei, mentre dall’armadietto prendeva un preservativo e lo
apriva, disse: «Spalanchi le gambe e si abbassi». Mel obbedì. «Si tenga al bordo
della vasca».
Dopo che aveva indossato il preservativo e lei si era sistemata come le aveva
chiesto, avvicinò la bocca al suo orecchio e disse sottovoce: «Ricordi, tenente,
nessun gemito o lo sapranno tutti».
«Lo ricordi anche lei, comandante», replicò.
La giovane aveva bisogno di sesso, disperatamente. Lasciandosi manipolare
come una bambola, permise che lui le aprisse di più le gambe, le divaricasse le
umide labbra della vagina e la penetrasse. L’attacco fu così violento che dovette
mordersi le labbra per non urlare. Poi l’uomo le palpò le natiche e chiese: «Così le
piace, tenente?»
«Sì… signore…».
Lui si spinse dentro di lei un’altra volta, e un’altra ancora. Una meraviglia. Mel
lo voleva, lo desiderava, godeva, e quando riprese il controllo del corpo, si scostò
dal superiore con uno scatto, si girò e lo ammonì: «Si sieda, signore».
Sorpreso dal cambiamento, stava per protestare quando lei gli morse il mento
mentre gli afferrava il pene con la mano.
«Si sieda… ho detto».
Eccitato, l’uomo obbedì e si appoggiò sul coperchio della tazza. Mel gli si
sedette sopra per sentire dentro di sé tutta la sua erezione. Senza permettergli di
parlare, offrì un seno alla bocca di lui, che lo mordicchiò avidamente.
«Così, bravo… me li succhi».
I suoi movimenti si fecero più intensi.
L’atmosfera era rovente, e nel bagno faceva un caldo pazzesco. I fianchi di Mel
ballavano avanti e indietro, mentre il comandante la teneva per la vita e la aiutava
nelle sue pose frenetiche. I gemiti di lui diventarono sempre più deliranti mentre lei
gli si abbrancava alle spalle e gli infilava il seno in bocca per attutire il rumore.
Un piacere devastante fiorì dentro di lei, e alla fine Mel esplose.
Quando ebbero finito, rimasero abbracciati per qualche istante. Non parlarono.
Non si baciarono. Non si accarezzarono. Poi lei si alzò, si pulì e si spostò
nell’ufficio senza degnarlo di uno sguardo. Prese i vestiti e cominciò a rivestirsi.
Pochi secondi dopo, anche lui la raggiunse e, non appena si furono sistemati, Mel
abbozzò un sorriso e mormorò: «Come sempre, è stato un piacere, comandante
Lodwud».
L’uomo ricambiò il sorriso e, lasciando da parte le formalità, le si avvicinò e
domandò: «Credevo che saresti arrivata prima. Cos’è successo?»
«Problemi nel prelevamento».
Lui assentì. Percorse il suo corpo con gli occhi castani e domandò: «Passi la
notte qui?»
«Sì».
«Ho prenotato una stanza. Buona cena, buona compagnia, buon sesso. Che ne
dici, Mel?».
La giovane gli tese la mano, sfacciata. Il comandante sorrise. Aprì il cassetto del
tavolo e, lanciandole una chiave, disse: «Hotel Bristol. Stanza 168 alle nove e
mezza».
«Ci sarò».
Lodwud sorrise. Il sesso con Mel e i loro giochini erano sempre allettanti, e
quando notò che lei si chiudeva la tuta cachi, aggiunse: «A dopo, tenente».
«Arrivederci, signore».
Si diresse verso la porta, fece scorrere il chiavistello e uscì dall’ufficio per
tornare dai suoi uomini nell’aereo, da dove non si mosse finché non fu
completamente vuoto.
Alle sei di pomeriggio, dopo aver salutato i membri dell’equipaggio ed essersi
accordata con Neill e Fraser per vedersi all’aeroporto alle sette del mattino dopo,
prese un taxi e andò in albergo. Aprì la porta con la chiave che le aveva dato il
comandante e si spogliò. Aveva bisogno di una doccia.
Uscita dal bagno, mise della musica sul cellulare. Le piaceva molto un gruppo
spagnolo, La Musicalité, e in particolare una canzone che si intitolava Cuatros
elementos. Si mise a cantare.
Dolor que no quiero ver. / Dolor que nunca se va. / No puedo decirle adiós / Ni
quiero decir jamás / Tumbado al amanecer / Llorando por que tú vuelvas otra vez.4
Ecco cosa sentiva ancora. Dolore. Un dolore che non voleva ammettere e al
quale non poteva sottrarsi. Mike non la lasciava andare. O forse era lei a non
lasciarlo andare?
Cominciò a ballare. Salì sul letto come una ragazzina e si dimenò scomposta
finché, sfinita, aprì lo zaino, ne trasse mutande e reggiseno e li indossò. Poi guardò
la bustina di marijuana che le aveva scovato un amico e, senza pensarci su, si
arrotolò una sigaretta.
Con gli occhi offuscati dai ricordi, se la fumò. Sapeva che non avrebbe dovuto,
ma non le importava, perché era sola, era padrona della sua vita e faceva quello che
voleva. Quindi se ne preparò altre due, e quando controllò l’orologio non si
sorprese nel vedere che erano le 21:20. Di lì a poco sarebbe arrivato il comandante,
e così fu. Pochi minuti dopo, la porta si aprì, e lui sorrise scorgendola seduta a
fumare in biancheria intima.
Si tolse il berretto e la giacca, le si sedette vicino e, prendendole la sigaretta per
fare un tiro, le chiese: «Tutto bene?».
Cercando di non svelare il suo stato d’animo, Mel rispose: «Sì».
«E perché stai fumando questa merda?».
Lei sorrise.
«Cerco un po’ d’evasione».
Lodwud la capì ma, contrario alle sue scelte, disse: «Questa merda non ti fa bene,
Mel».
«Lo so, ed è l’ultima volta che la fumo». Risero entrambi, e lei proseguì: «Non è
il massimo nemmeno quello che facciamo qui o nell’ufficio dell’hangar, ma
continuiamo a farlo comunque. Ah, per essere precisi, questa merda fa schifo, però
mi sembra che te la stia fumando pure tu».
Si rilassarono, e lui alla fine disse, dopo un’altra boccata: «Il giorno in cui uno
dei due incontrerà qualcuno veramente importante smetteremo di farlo, non
trovi?».
Mel si strinse nelle spalle. Non aveva la benché minima intenzione di trovarsi
qualcuno.
«Questo è da vedere. Ma finché non succederà voglio continuare a divertirmi con
te. Ci conosciamo fin troppo bene. Sappiamo che è sesso senza impegno, e
rispettiamo le nostre regole», ribatté.
Sorrisero. Non baciarsi e non chiedere spiegazioni: erano quelle le loro regole.
Abbracciandolo, Mel aggiunse: «Be’, stiamo messi bene tutti e due! L’amore ci ha
distrutto la vita, e ci rimangono soltanto questi momenti stupidi che ci ritagliamo
per noi. Né Daiana né Mike se lo meritano, ma qui ci siamo tu e io… come
sempre».
Lodwud annuì. Daiana era la donna crudele che lo aveva abbandonato per un
tedesco. Dopo qualche minuto, il comandante prese le redini della situazione e,
sfilando un fazzoletto nero dalla tasca, fece per bendarle gli occhi, ma lei si rifiutò.
Lui si meravigliò.
«Non vuoi pensare a Mike?»
«Sì, come al solito tu sarai Mike, e io Daiana. Ma stavolta non voglio il
fazzoletto. Ho fumato così tanto che non ne ho bisogno».
«Va bene».
Prese la mano di lei e se la portò tra le gambe perché lo toccasse.
«Voglio una Daiana calda, smaniosa e sicura di quello che desidera e, quando
sarò sazio di lei, voglio che Daiana finisca il giochetto come ben sai», le sussurrò
all’orecchio.
Toccandolo come sapeva che adorava, Mel abbassò il tono della voce e rispose:
«Mike… iniziamo».
Il gioco tra i due era pericoloso. Due anime rancorose. Due persone prive di
affetto che di tanto in tanto si ritrovavano in una stanza d’albergo e immaginavano
che fossero altri a possederli.
«Mettiti in ginocchio, Daiana».
Mel accettò di buon grado, e senza bisogno che Lodwud aggiungesse altro, fece
quello che sarebbe piaciuto a Mike. Gli tolse i pantaloni, i boxer e si infilò il suo
pene in bocca. Lo succhiò per diversi minuti, lo assaporò, lo provocò fino a farlo
diventare duro come il marmo.
Il comandante la lasciò fare mentre pensava che fosse Daiana a leccarlo e,
quando non ne poté più, tolse il pene dalla bocca e disse: «Spogliati e siediti sul
letto».
Non appena fu completamente nuda davanti a lui, Mel si sedette. Lodwud sorrise
e, inginocchiandosi, mormorò: «Adoro i tuoi capezzoli, tesoro».
Lei sorrise e sibilò con voce sensuale: «E a me piace che tu me li succhi, Mike».
L’invito fu formalmente accettato, e il comandante divorò il boccone. Con un
gesto sensuale Mel appoggiò la mano sulla testa di lui e lo schiacciò contro il suo
seno. Lodwud cadde in deliquio. Succhiò, mordicchiò, e quando lei ebbe i
capezzoli turgidi proprio come piaceva a lui, disse: «Spalanca le gambe… così…
così… molto bene, Daiana». La lussuria lo invase quando vide come si bagnava, e
ordinò: «Apriti con le dita. Voglio vedere come mi inviti a leccarti».
Eccitata per l’ordine di Mike, con l’indice e l’anulare si spalancò le labbra, e
mentre lo sentiva tra le cosce, mormorò: «Così… così ti piace».
Seduto sul pavimento, Lodwud le prese le gambe e, tirandola a sé, avvicinò la
bocca direttamente al centro del piacere. L’urlo di Mel fu lacerante, mentre lui
mordicchiava le labbra della sua vagina, folle di desiderio.
«Mike, tesoro, sto per cadere dal letto».
Il comandante la prese per i fianchi e, sdraiandosi a terra, mise la sua bocca sotto
di lei e continuò. La sua lingua sembrava scivolare ovunque, e Mel ansimò
sentendo come le aspirava il clitoride strappandole vampate di piacere.
Non avevano bisogno del letto. Il pavimento fu il loro materasso, e vi si
rivoltarono in tutti i modi, mentre fantasticavano su due persone che non sarebbero
mai tornate da loro.
«Su… fa’ la brava. Circondami la vita con le gambe e cercami», disse lui,
dandole uno schiaffetto sul sedere. «Cercami, Daiana!».
Non appena Mel lo fece, il comandante ansimò e lei si inarcò.
«Mike…».
«Ti piace quello che faccio?»
«Mi piace, Mike… da morire. Continua…».
Per diverse ore nella stanza regnò il sesso freddo e impersonale, quello che
avevano praticato negli ultimi anni e che li soddisfaceva. Dopo essersi
impossessati l’uno dell’altra, fumavano nudi stravaccati sul letto, quando lei
domandò: «Che ore sono?».
Lodwud guardò la sveglia sul comodino.
«Mezzanotte e venti».
Il silenzio calò di nuovo nella stanza, e allora lui chiese: «Perché continuiamo a
pensare a Daiana e a Mike?»
«Perché siamo due imbecilli», rise con amarezza Mel e, scacciando via il
pensiero, aggiunse: «Ora riprendiamo e vado a cercare il nostro terzo compagno di
giochi».
Lodwud sorrise.
«Ricordo ancora la donna che avevo trovato nel nostro ultimo appuntamento. Tra
te e me era impazzita».
Mel scoppiò a ridere e bisbigliò: «Veramente eri impazzito tu tra lei e me!».
Alzandosi dal letto, si infilò le mutande, una maglietta e i pantaloni mimetici.
Non disponeva di altro per sedurre. Dopo essersi vestita, guardò Lodwud, e lui
disse: «Se alle due non sei ancora tornata, sceglierò io».
«Non se ne parla nemmeno. Oggi decido io».
Uscita dalla stanza dell’albergo, si diresse con decisione verso il bar. In genere si
incontravano in alberghi vicino all’aeroporto, dove si fermavano persone di
passaggio, ben disposte verso una divertente notte senza inibizioni.
Quando Mel entrò nel bar, esaminò con attenzione il locale. Alcune coppie
chiacchieravano, uomini e donne bevevano da soli al bancone. Lei cercava un
uomo, e li osservò accuratamente. Il primo che vide non le sembrò adeguato,
troppo grande e panciuto. Il secondo non era male, ma optò per il terzo: un
manager della sua età. Avvicinandosi al bancone, mentre lanciava un’occhiata al
cameriere, disse: «Un whisky doppio con ghiaccio».
Così andava a colpo sicuro. Se era una donna a chiederlo, l’uomo si sarebbe
sicuramente voltato. Senza tempo da perdere, Mel sorrise e, dopo aver sbattuto un
paio di volte le palpebre, lui girò lo sgabello. Lei guardò l’orologio: l’una e dieci,
era in orario.
Con un sorriso sulle labbra, si mise a parlare con l’uomo. Si chiamava Ludvig,
era svedese e si trovava in Germania di passaggio. Perfetto. Le raccontò che
lavorava per una ditta di automobili e che era in missione in diversi Paesi. All’una
e venti le aveva guardato il seno diverse volte, e all’una e mezza lei gli aveva già
poggiato una mano sulla gamba. Alle due meno venti lo svedese si era fatto avanti
e Mel gli aveva proposto il trio. Alle due meno dieci lo svedese aveva accettato e
all’una e cinquantadue Mel apriva la porta della stanza e, guardando un Lodwud
sorridente, commentava: «Su, ragazzi… voglio divertirmi».
Dopo due assalti con i due uomini, il gioco finì. Mel congedò lo svedese, che
lasciò la camera felice. Quando chiuse la porta e si voltò verso Lodwud, lui le andò
incontro e osservò: «Daiana, sei una ragazzina… molto… molto cattiva».
Mel sorrise e, toccando il suo pene eretto, annuì.
«Sì, Mike, hai ragione, lo sono».
La mattina dopo, Mel andò all’aeroporto militare. Lì le si avvicinò un ragazzo
che, dopo averle fatto il saluto militare, disse: «Buongiorno, tenente Parker».
«Buongiorno, sergente».
Lui aggiunse con un tono serio: «Tenente, c’è al telefono il maggiore Parker, e
vuole parlare con lei».
Sorpresa dalla notizia, Mel prese il telefono e, scostandosi di qualche metro,
salutò: «Buongiorno, maggiore».
«Tenente, com’è andato ieri il volo?».
Mel sorrise. Suo padre. Quell’uomo che in molti temevano per il suo
caratteraccio, con lei era un vero paparino dal cuore d’oro. Rispose: «Bene. Tutto
alla meraviglia, come sempre».
«Mi hanno detto che stai per partire per Monaco».
«Sì».
«Hai riposato abbastanza?».
Ripensò alla notte folle che aveva appena trascorso con Lodwud e affermò: «Sì,
papà. Mi sono riposata».
Tutti erano in apprensione per lei e per la sua vita. Non era necessario. Mel si era
convinta che poteva ottenere ciò che voleva e disse: «Papà, sono stata via dodici
giorni e non vedo l’ora di rivedere Sami e…».
«Ok», la interruppe. «Capisco… capisco. Ma parla con tua madre. Mi ha
chiamato due volte, e sai che diventa insistente».
Mel sorrise. I genitori si erano separati da poco più di un anno.
«Tranquillo, lo farò».
«Senti, hai ripensato alla faccenda di Fort Worth?»
«No, papà…».
«Fallo, Melanie. Voglio avervi vicino, te e la bambina. Tua sorella tornerà l’anno
prossimo e…».
«E mamma?»
«Tua madre è abbastanza matura per decidere da sola cosa fare», rispose
seccamente.
Mel sorrise e preferì non indagare oltre, e quindi disse: «Papà, riparliamone
un’altra volta».
«Va bene, figlia mia. Ma ricorda, la tua famiglia è qui. In Germania non hai
nulla».
Per Cedric Parker non era facile vivere lontano dalle figlie e dalla moglie.
Soprattutto da Melanie, il suo fiore all’occhiello. Dopo diversi minuti al telefono
con il padre, riattaccò e prese una busta che le porgeva lo stesso militare di prima.
«Tenente, ecco quello che ha chiesto».
Mel afferrò bruscamente la busta, dove c’erano le chiavi dell’elicottero che
l’avrebbe condotta dalla figlia, e chiese: «Tutto bene da queste parti, sergente?».
Il giovane annuì e la salutò di nuovo, si girò sui tacchi e se ne andò. In quel
momento arrivarono Neill e Fraser.
«Cazzo… me ne starei un mese a dormire», borbottò Fraser stropicciandosi gli
occhi.
«Anch’io, cavolo. Sono distrutto».
La tenente Parker sorrise.
«Su, femminucce, salite sull’elicottero, voglio vedere mia figlia», li prese in giro.
Lo stesso giorno, dopo un’ora di volo, arrivarono all’aeroporto di Monaco per le
nove di mattina. Lì lasciarono l’elicottero in un hangar privato e, zaino in spalla,
presero un taxi. Accompagnarono prima Neill e poi continuarono verso casa di
Mel. Quando arrivarono, la madre di lei si precipitò ad abbracciarla.
«Che bello rivederti, tesoro!».
Mel chiuse gli occhi e mormorò felice: «Ciao, mamma».
Qualche secondo dopo, Luján salutò Fraser mentre Mel lasciava a terra lo zaino e
correva a vedere la figlia. Aprì con cautela la porta della stanza ed entrò. La
piccola Samantha dormiva nella culletta. Era bellissima. La bambina più bella che
avesse mai visto, e gli occhi le si velarono di lacrime. Era identica a suo padre. I
capelli, il sorriso…
«Tesoro», sussurrò Luján entrando nella stanza. «Andiamo, ho preparato
qualcosa da mangiare per te e per Fraser. Di sicuro state morendo di fame».
«Vengo subito, mamma. Dammi un secondo».
Luján annuì. Vedere lo sguardo triste con cui la figlia osservava la piccola la
distruggeva. Avevano cercato in tutti i modi di spingere Mel a rifarsi una vita, ma
inutilmente. Si rifiutava. Non riusciva a dimenticare Mike.
Rimasta di nuovo da sola nella stanza con la figlia, le si avvicinò lentamente, le
toccò i ricci biondi e sorrise.
«Ehi…», sussurrò Fraser dietro di lei.
La conosceva. La conosceva fin troppo bene e sapeva che dietro la dura
maschera di tenente dell’esercito statunitense soffriva. Non avrebbe mai
dimenticato la sua reazione alla notizia della morte di Mike. La disperazione, i
pianti, l’impotenza con cui aveva appreso quelle vicende sgradevoli sul compagno.
Incinta di sette mesi, Mel si era chiusa in se stessa e non aveva più voluto
parlarne con nessuno. Era felice solo in compagnia di Sami o sul suo C-17.
Tuttavia, nonostante la gioia per la bambina, i suoi occhi non avevano più brillato
come prima. Non si fidava di nessun uomo, e solo per colpa di Mike. L’uomo che
aveva amato e che l’aveva tradita.
«Ti sembra che la principessa stia bene?», chiese Mel, inghiottendo le lacrime.
Fraser sorrise.
«Bellissima. Ora quanto ha?»
«Quasi venticinque mesi».
I due si fissarono in silenzio, e Mel mormorò: «Come passa il tempo, vero?».
Annuirono e Fraser, provando a cambiare argomento, scherzò: «Questa bambina
spezzerà tanti cuori. Sono sicuro, e me ne intendo, lo sai».
Risero e, prendendola per la vita, Fraser sussurrò: «Ho parlato con la mia bella
hostess. Arriverà all’aeroporto oggi pomeriggio».
«Perfetto».
Uscirono dalla stanza in silenzio ed entrarono in cucina, dove Luján aveva
preparato una tortilla di patate. Mentre mangiavano, la donna disse alla figlia che
doveva tornare nelle Asturie. La nonna, Covadonga, doveva andare dal medico e si
era rifiutata di farsi accompagnare da Scarlett, la sorella.
«La nonna e Scarlett», rise Mel. «Non riesco nemmeno a immaginarmele da
sole».
«A volte tua sorella è peggio di tua nonna», commentò Luján. «Te l’assicuro.
Quando si arrabbia, minaccia di andarsene a Fort Worth, e devo convincerla a non
farlo mentre tua nonna grugnisce a più non posso. Ah…».
«Mamma, prima o poi Scarlett se ne andrà. Sai bene che è venuta da voi nelle
Asturie solo per un periodo».
«Lo so, figlia mia, lo so».
Fraser le ascoltava senza aprire bocca. Anni prima lui e Scarlett avevano avuto
una storia – solo Mel ne era a conoscenza –, ma Scarlett aveva rotto quando aveva
visto Mel soffrire per la perdita di Mike. Aveva lasciato Fraser da un giorno
all’altro, e lui non aveva potuto far altro che accettarlo. All’inizio era stato
terribile, ma poi si era rassegnato, perché aveva scelto una vita particolare, e non
tutti l’avrebbero condivisa volentieri.
Un’ora dopo, la stanchezza accumulata per il viaggio iniziò a manifestarsi. Luján
li guardò e disse: «Fraser, Mel, a nanna!».
«Mammaaaaaaa…».
Fraser scoppiò a ridere e, guardando la madre dell’amica, ribatté: «Grazie per il
pranzo, ma devo andare. Ho un impegno con una donna bellissima».
Luján sorrise e, alzandosi, Fraser disse: «E ora a dormire nel lettino, tenente. Hai
la faccia di chi stanotte non ha riposato».
Mel annuì. La notte di sesso selvaggio si faceva sentire.
Entrò con attenzione nella stanza e sorrise nel vedere la piccola seduta nella
culla.
La bambina spalancò le braccine e si aprì in un megasorriso.
«Mamiiiiiiiiii».
La tenente Parker corse ad abbracciare la figlia. Inspirò il suo odore di innocenza
e sorrise felice nel sentirla parlare in quel suo modo stentato. La prese dalla culla e
la poggiò sul letto mentre si spogliava e indossava il pigiama.
Poi si infilò sotto le coperte con la bimba e si misero a giocare. La risata di Sami
era la sua cura migliore. La cosa più bella al mondo e, come sempre, la riempiva di
felicità.
Che bello stare con la figlia a casa!
Dopo qualche minuto, la piccola si raggomitolò contro il suo corpo e, felice di
essere nuovamente vicina alla madre, si rilassò e si addormentò. Mel osservò il
viso sereno della figlia. Era deliziosa, fantastica, divina, e le diede un bacio dolce
sulla fronte.
Facendo ben attenzione a non svegliarla, prese il portafoglio, da cui estrasse una
lettera. Una lettera dolorosa, che aveva riletto centinaia di volte. La illuminò con
una torcetta e lesse:
Mia amata Mel,
se hai tra le mani questa lettera, significa che te l’ha portata il nostro amico
Conrad, e quindi io sono morto. Voglio che tu sappia che sei quanto di meglio ho
avuto nella mia vita, anche se a volte con te mi sono comportato come un idiota.
Sei sempre stata troppo buona per me, e lo sai, vero?
Mi voglio scusare per tutto quello che scoprirai su di me. Mi vergogno a
pensarci, ma la mia vita è così e non posso farci nulla, se non chiederti perdono e
sperare che non mi odierai per sempre.
Ti auguro di conoscere un uomo speciale. Un uomo che si prenda cura di te, ti
porti in giro con lui, balli con te, ami la nostra creatura e ti dia quella famiglia che
hai sempre voluto. Spero che quell’uomo sia in grado di apprezzarti come io non
ho saputo fare, e che tu sia per lui la cosa più importante. Mel, te lo meriti. Meriti
di trovare una persona così. Non sono tutti come me e, anche se a mio modo ti ho
amato, sai pure che non è mai stato sufficiente per te.
Di’ a nostra figlia che suo padre l’avrebbe amata molto, ma fa’ che ami come un
padre quell’uomo che spero un giorno arriverà nella tua vita. Sei forte, Mel, e so
che ne uscirai a testa alta. Devi rifarti una vita. Promettimelo e poi strappa questa
lettera.
Vi voglio bene,
Mike
Come ogni volta che terminava la lettera, pianse, ma non la fece a pezzi.
2 Ho la sensazione che stanotte sarà una bella notte. / Che stanotte sarà una bella
notte. / Che stanotte sarà proprio una bella, bella notte. / Stanotte è la notte,
viviamola. / Ho i miei soldi, spendiamoli!
3 Questa è la mia vita. / È ora o mai più. / Non vivrò per sempre. / Voglio solo
vivere finché sono vivo.
4 Dolore che non voglio vedere. / Dolore che non se ne va mai. / Non posso dirgli
addio / Né voglio dirlo mai / Sdraiato all’alba / Mentre piango perché tu torni di
nuovo.
Capitolo tre
Al tribunale andò tutto a meraviglia per Björn. Aveva vinto due processi, ed era
raggiante.
«Ci vediamo stanotte?», gli chiese una bionda spettacolare.
Björn sorrise. Era l’avvocatessa della parte avversa. Percorse il suo corpo con gli
occhi azzurri e, aprendo un’agenda, le chiese: «Dammi il tuo telefono. Se non ti
chiamo stanotte, lo farò un’altra volta, ok?».
La donna sorrise e, dopo avergli scritto il numero di cellulare, gli fece
l’occhiolino, si voltò e se ne andò. Björn la seguì con lo sguardo finché scomparve
dalla vista. Poi guardò l’agenda e sorrise nel leggere il numero e il nome di
Tamara.
Uscì dal tribunale, andò diretto al Jokers, il ristorante del padre.
«Papà, dammi una birra bella fredda», gli chiese subito dopo aver varcato la
soglia.
Con un enorme sorriso, Klaus gliela preparò e gli mise davanti il boccale.
«Hai avuto una buona giornata, figlio mio?», domandò.
Björn bevve un sorso e sussurrò complice: «Benissimo. Ho vinto il processo di
Henry Drochen e quello di Alf Bermeulen».
Klaus batté le mani. Era molto orgoglioso di Björn: oltre a essere un figlio
adorabile, era un ottimo avvocato e un abile seduttore. Per un po’ Björn gli
raccontò cos’era successo in sede di giudizio, e l’uomo lo ascoltò interessato.
Prima del pranzo, Klaus disse: «Stamattina ha chiamato tuo fratello».
Pensando a Josh, il suo unico fratello, Björn sorrise e domandò: «Come gli butta
a Londra?»
«Bene, bene, lo conosci», rise Klaus. «Gli va sempre bene. Ah, mi ha detto che
lo devi chiamare. A quanto pare, domani viene a Monaco con un lotto di auto, e
anche quella che volevi tu».
Björn guardò il padre e domandò: «Porta l’Aston?»
«Non lo so, figlio mio. Mi ha solo detto di farlo chiamare».
Björn gli telefonò subito.
Due squilli, e Josh rispose: «Non mi dire che mi porterai la macchina dei miei
sogni con il volante a destra».
Josh scoppiò a ridere e ribatté: «Sì, bello mio, te lo confermo. Una Vanquish
bordò. Ti interessa ancora?»
«Certamente. Be’, solo se mi fai un buon prezzo e ti prendi l’Aston che ho ora».
«Nessun problema, Björn. Venderò senza problemi la tua Aston e, quanto al
prezzo, non ti preoccupare! Sei mio fratello, cavolo».
Risero e dopo aver chiacchierato si diedero appuntamento per il giorno seguente.
Pranzò con il padre e poi uscì dal ristorante per passare nel suo ufficio. Per un
paio di ore si immerse nei processi che avrebbe dovuto affrontare due giorni dopo
finché gli squillò il cellulare. Era il suo amico Eric: «Che c’è, coglione?».
Sentendo il saluto, Eric sghignazzò e precisò: «Così mi ci chiama solo la mia
mogliettina. Non ti ci abituare». Risero, ed Eric proseguì: «Domenica Jud
organizza un pranzo a casa, vieni?»
«Ci saranno belle donne?».
Eric scoppiò a ridere e obiettò: «Più belle di mia moglie, impossibile!».
Ora fu Björn a ridere. Il suo amico si era sposato con una spagnola incantevole e
un po’ matta, ed era completamente innamorato di lei. Erano l’uno l’opposto
dell’altra, ma si adoravano.
«Prova solo a non venire, e Jud ti ci porta per l’orecchio».
«Non ne ho dubbi», affermò Björn divertito.
Aveva capito subito che Jud era una donna straordinaria. Adorava la sua
personalità, il suo piglio e, soprattutto, la fiducia che gli aveva sempre dimostrato
in tutto.
«Vengo. Dille che ci sarò. Porto il vino?»
«Ottimo. Ti fai accompagnare da qualcuno?»
«Devo?»
«No, era solo per capire quanti saremo».
Stuzzicato, Björn mormorò: «Porterò vino e compagnia».
«Va bene. Ora ti lascio, ho una riunione tra dieci minuti».
Dopo aver attaccato, Björn sorrise. Eric e Jud erano i suoi migliori amici: non lo
abbandonavano mai, nei bei momenti e neanche in quelli cattivi. Pensando alla
moglie dell’amico, aprì il cellulare con un sorrisetto malizioso e compose un
numero.
«Ciao, zuccherino», disse in tono smielato.
Sentendolo, la donna abbassò la voce e rispose: «Ciao, Björn, stavo proprio
pensando a te».
«Pensieri belli o brutti?».
La risata argentina di lei risuonò dall’altro capo del telefono, e rispose: «Tutti e
due. Belli perché piacevoli, e brutti perché sei molto… molto cattivo».
«Interessante», sussurrò lui sentendola.
La donna sensuale e focosa era una delle sue conquiste. Si chiamava Agneta
Turpin, ed era una delle presentatrici più belle e famose della CNN tedesca. Il loro
rapporto era fantastico. Sesso… sesso e sesso, senza legami né richieste. Una
combinazione perfetta, perché era quello che entrambi volevano.
«Cosa fai domenica, Agneta?»
«Mi spoglio per te… se vuoi».
Risero, e Björn spiegò: «Non vorrei altro, ma mi ha appena chiamato il mio
amico Eric. Domenica fanno un pranzo a casa loro, ti va di accompagnarmi?»
«Pranzo… in famiglia?».
Björn chiarì subito: «Solo cibo, e ti prometto che Jud non ti si avvicinerà».
Agneta ci pensò su. Conosceva i suoi amici, e lei e Judith, la moglie di Eric, non
avevano mai legato. Non le piaceva per niente come la guardava. Tuttavia,
mangiare con Björn significava sesso notturno a casa sua o in quella di lui.
E alla fine rispose: «Ok, vengo».
«Perfetto!».
Continuarono a parlare quando lui domandò: «Dove sei?»
«Sto tornando a casa in questo momento. Ho avuto un giorno massacrante, e
quindi ora mi spoglio e mi infilo in una rilassante e meravigliosa jacuzzi piena di
schiuma».
«Da sola?».
Dopo aver lasciato la borsa sul suo carissimo divano di design, rispose: «Dipende
tutto da te».
Björn controllò l’orologio e, alzandosi, mormorò: «Spogliati e preparati. Tra
venti minuti sono da te con un amico».
Riattaccò.
Agneta era effervescente, e gli piaceva. Mise il cellulare e dei documenti nella
ventiquattrore. Poiché casa sua e l’ufficio erano separati solo da una porta, lasciò la
valigetta sul tavolo da pranzo e, senza togliersi il costosissimo completo di
Armani, scese in garage e prese la macchina sportiva dopo aver chiamato l’amico
Roland.
Quando arrivò da Agneta, pigiò il bottone del citofono. Salì in ascensore e,
giunto al pianerottolo del lussuoso palazzo, vide la porta aperta. Sorrise quando
sentì la musica che proveniva dall’interno, No Ordinary Love di Sade.
Spalancò subito la porta, entrò e la richiuse dietro di sé. Gli comparve davanti
una sensuale Agneta vestita solamente con una vestaglia di raso rosso. Si fissarono.
Non si rivolsero parola mentre lei si slacciava la vestaglia, e questa scivolava sul
suo corpo fino a cadere a terra.
Björn la esaminò con libidine. I suoi occhi divorarono il corpo snello e sensuale
della donna, mentre sentiva crescergli l’erezione nei pantaloni. Senza scostare lo
sguardo da lei, si tolse il lungo impermeabile, poi la giacca scura, e si allentò il
nodo della cravatta.
«Avvicinati e voltati», chiese Björn.
Agneta eseguì.
Lui si tolse la camicia bianca e la lasciò su una sedia, si sfilò la cinta, si accostò
alla donna e, passandogliela sul sedere nudo, chiese vicino al suo orecchio: «Sei
stata buona?»
«No. Oggi sono stata molto… molto cattiva».
La risposta lo fece sorridere, e con la cinta le diede una sferzata sul sedere. Lei
ansimò e lo supplicò.
«Un’altra».
Ripeté il gesto, e lei gemette di nuovo.
Subito dopo, Björn lasciò la cinta, che cadde a terra mentre si sbottonava i
pantaloni. Rimasto nudo come lei, si mise un preservativo che aveva appena preso
e sibilò: «Ti scoperò come si meritano le ragazzine cattive».
Non disse più nulla, non ce n’era bisogno.
Le aprì le gambe bruscamente, la espose a lui e la penetrò con un colpo duro e
secco. Agneta strillò mentre Björn inseguiva il suo piacere e lei trovava il proprio.
Erano entrambi egoisti. Il loro soddisfacimento era più importante di quello
dell’altro e, come impazziti, si incastrarono ancora. Ecco il loro gioco. Un gioco
voluto e bramato da tutti e due. Dopo aver raggiunto l’orgasmo, quando lui uscì da
lei, Agneta mormorò: «Ho preparato la jacuzzi».
In quel momento suonò il citofono, e Björn commentò: «Perfetto, Roland è già
qui».
Quella notte Björn tornò a casa stanco e sazio di sesso.
Il giorno dopo, non molto lontano dalla casa di Björn, la tenente Melanie Parker
parlava con la madre mentre questa preparava la valigia per rientrare nelle Asturie.
«Robert mi ha detto di salutarti».
«Robert Smith?»
«Sì, mamma. Ieri dovevamo berci qualcosa insieme, ma gli hanno anticipato
l’ora del decollo e abbiamo dovuto rimandare a un’altra occasione».
Ripensando al migliore amico della figlia, Luján sorrise.
«Che simpatico è Robert, e quant’è spassosa Savannah. Mi ricordo ancora il loro
matrimonio, ci siamo divertiti un mondo!».
Riandando con il pensiero alle nozze dell’anno precedente, Mel sorrise, e sua
madre chiese: «Hanno ottenuto il trasferimento a Fort Worth?»
«Sì. E papà li sta aiutando molto con le pratiche».
La menzione del marito fece svanire il sorriso dalle labbra di Luján.
«Ah, tuo padre! È un amore solo quando gli pare e piace, sennò è un orco!»,
sibilò.
Mel scoppiò a ridere, e la madre continuò: «Come va con il corso di grafica che
stavi facendo su internet?»
«Abbandonato, mamma. Non ho tempo nemmeno per respirare».
Luján sospirò e aggiunse: «Ho già dato da mangiare a Peggy Sue. Certo che quei
topi fanno proprio schifo».
«Mamma, non è un topo, è il criceto di Sami», rise ricordando che era stato
Robert a comprarlo alla bambina.
«Non gli dare troppo da mangiare, è così grasso che non riesce a muoversi»,
insistette Luján guardando la bestiolina bianca.
Anche Mel la fissò e sorrise. In effetti il criceto era davvero sovrappeso.
«Va bene, mami. Cercherò di controllare Sami», rispose.
Luján sorrise, ma borbottò guardando la figlia: «Me ne vado, ma sono
preoccupata per te, sappilo».
«Mamma, non c’è motivo di preoccuparsi».
«Perché non dovrei, Mel?», protestò la madre. «Sei spiccicata a tuo padre.
L’esercito corre nelle tue vene, e non posso farci niente. Ma devi pensare a tua
figlia, ha bisogno di te. Ha bisogno di una madre che la cresca e la coccoli e,
soprattutto, che viva a lungo. Non ti rendi conto che il tuo lavoro è incompatibile
con la tua vita?».
La madre aveva ragione.
Tutto si era complicato da quando aveva avuto Sami. Ogni volta che doveva
partire per qualche viaggio si faceva in quattro per trovare la sistemazione migliore
alla figlia. Per fortuna, ci riusciva sempre: Dora, una vicina coetanea della madre,
una donna di fiducia, si occupava della piccola quando lei doveva assentarsi per
viaggi di brevi periodi, ma se duravano più di quattro giorni Luján si trasferiva a
Monaco o Mel portava Sami nelle Asturie.
«Ascolta, mamma, mi piace quello che faccio e…».
«So che ti piace. Ti ripeto che sei come tuo padre. Ha anteposto l’esercito alla
famiglia, e guarda cos’è successo».
Mel sbuffò, e la madre continuò: «Non capisco come tu e tua sorella possiate
essere così diverse. Lei non ne ha mai voluto sapere niente dell’esercito, e invece
tu…».
«Mamma, Scarlett è Scarlett, e io sono io. Quando lo capirai?»
«Mai», gridò la madre, arrabbiata. «Io voglio una figlia che non sia in pericolo.
Voglio una figlia che sia felice con la propria famiglia. Voglio una figlia che si
faccia coccolare da un bravo marito. Perché non mi dai mai ascolto?».
Infastidita dalla solita cantilena, guardò la madre e obiettò: «Tu l’avevi. Una vita
senza pericolo, una famiglia felice e un uomo che si prendeva cura di te. Sei
l’ultima persona che può parlare così».
Luján chiuse gli occhi e, sedendosi sul letto, rispose: «Hai ragione. Io ce l’avevo.
Ma non dimenticare nemmeno che pure io vivevo con il dubbio se tuo padre
sarebbe tornato dalle sue missioni. Dovevo sopportare i suoi cambiamenti
d’umore. Assistere ai suoi incubi quando tornava dai viaggi. Devo continuare?».
Mel scosse la testa. Non era stata giusta con la madre e, abbracciandola,
sussurrò: «Ok, mamma, scusami. Hai ragione, e io non sono nessuno per
rimproverarti».
«Ascolta, Mel, sai che adoro tuo padre. Lo amo anche se lui mi odia perché ho
voluto il divorzio. Però non voglio che un giorno qualcuno odi te perché hai messo
prima l’esercito di lui».
«Mammaaaaaaaa…».
«Non voglio che tu abbia incubi come lui. Non voglio che la tua vita sia solo
l’esercito. Voglio che ti calmi e che tu sia felice con un uomo che…».
«Non ho intenzione di conoscere nessuno».
«Ma perché no, tesoro? Mike era un uomo buono, ma sono sicura che troverai un
altro che ti soddisfi allo stesso modo».
Luján ignorava la verità che aveva scoperto riguardo a Mike, e Mel non aveva
intenzione di distruggere il bel ricordo che aveva di lui, così aggiunse: «Non ho
bisogno di un uomo, mamma. Così vivo alla grande. Sono padrona della mia vita e
non ho bisogno di qualcuno che si metta a ficcare il naso in quello che faccio».
«Quello che tu chiami “ficcare il naso”, io lo chiamo “amare”. Non amerai più
nessuno?»
«Ma amo già te, papà, Sami, Scarlett, nonna…».
Rassegnata alla testa dura della figlia, Luján insistette.
«Sami un giorno sarà grande».
«Non vedo l’ora, mamma. I pannolini sono davvero molto cari», scherzò.
«Come pensi che stia quando te ne vai e la lasci da sola?»
«Non sarà mai da sola. Per questo ho voi».
«Ovvio che ti aiutiamo noi, tesoro, ma poi la bambina lo rinfaccerà a te», sibilò
Luján fissando la figlia. «Ha già perso suo padre, e non può perdere pure te».
«Mammaaaaaa…».
«Hai dimenticato cosa rinfacciavi a tuo padre quando eri piccola e partiva? Credi
che Sami non lo dirà anche a te?»
«Mammaaaaaa…».
«Hai dimenticato quanto piangevi o come ti spaventavi quando tornava da una
missione e aveva gli incubi di notte?»
«Ancora? Io non ho incubi, mamma».
«Li avrai!».
La giovane chiuse gli occhi. La madre non aveva affatto torto. Aveva cominciato
ad avere gli incubi. Ma niente, a parte la figlia, la teneva al mondo e, provando a
non pensarci, si alzò e sussurrò: «Senti, mamma, ora voglio continuare a fare
quello che faccio. Non c’è nessun uomo nella mia vita e sono felice. Ho quello di
cui ho bisogno e…».
«In che senso hai quello di cui hai bisogno?»
«Mammaaaaa…».
«Ecco di cosa hai bisogno, figlia mia, di una stabilità emotiva. Un uomo che ti
abbracci, ti ami, ti vizi…».
«Non mi interessa, mamma. Non mi interessa, come lo devo dire?».
Luján non demordeva: «Sei uscita con qualcuno dopo Mike?»
«No».
«Allora come puoi avere quello di cui hai bisogno?».
Malgrado non volesse mettere a nudo la sua vita intima, fissò la madre e
mormorò: «Mi stai forse chiedendo se sono stata a letto con qualcun altro? La
risposta è sì. La situazione è più che soddisfacente».
Luján la guardò a bocca aperta e mormorò: «Uhi, che spudorata!».
Scoppiarono entrambe a ridere. Abbracciando la madre, Mel disse: «Sta’
tranquilla, mamma. Per il momento la mia vita fila alla grande. Ho un lavoro che
mi piace, una famiglia che si prende cura di me, una figlia bellissima e un nutrito
gruppo di uomini che mi soddisfano, quando e come voglio».
«Non voglio sentire altro».
«Ma sei stata tu a chiedermelo…», ribatté Mel.
«Melanie Parker Muñiz, ti ho detto che non voglio ascoltare nient’altro».
Sorrise. Quando si arrabbiava, la madre diceva sempre i suoi cognomi al
contrario.
Disgustata dalle parole della figlia, Luján chiuse la valigia e aggiunse: «Ne
riparleremo, ragazzetta. Non mi piace per niente che voli di fiore in fiore, come di
sicuro fa pure tuo padre».
«Mamma!».
«E ora portami all’aeroporto o perderò l’aereo per la Spagna».
Mezz’ora dopo, madre, figlia e nipote si dirigevano verso l’aeroporto.
All’imbarco, un mimo regalò alla piccola un adesivo con un volto sorridente. Mel
sorrise e pensò che era un buon segno. Dovevano sorridere di più!
Capitolo quattro
Nel concessionario, un enorme camion articolato scaricava le macchine mentre
Josh Hoffmann, manager dell’Aston Martin, indicava agli operai il posto dove
sistemare i costosi ed eleganti veicoli.
Quel giorno ne aveva trasportati diversi di lusso, e i clienti più abbienti, allertati
dell’arrivo, erano andati a dare un’occhiata.
Mentre gli uomini osservavano le macchine stupefatti, Josh si concentrava sulle
loro mogli. Proprio come il fratello Björn, era uno sciupafemmine, e molto
raramente una donna non lo notava. Tuttavia, a differenza di Björn, aveva gli occhi
e i capelli castani, e un bel viso innocente che non corrispondeva al suo vero
carattere.
Grazie al suo magnetismo, ad appena ventisette anni era un manager di successo
del brand Aston Martin, e viaggiava per il mondo.
Quando la porta del concessionario si aprì ed entrò Björn, per Josh non esistette
più nessuno. Adorava il fratello, ricambiato.
Con un sorriso divertito, Josh camminò verso di lui e lo abbracciò, sotto lo
sguardo attento di alcune donne, che nel vederli sospirarono. Erano due giovani
belli e trionfanti, e li accompagnava la fama di gentlemen.
Dopo essersi scambiati un abbraccio caloroso, il minore dei due fratelli
Hoffmann disse: «Su, andiamo a vedere la tua macchina».
Senza indugiare, si recarono in uno spazio laterale del concessionario, e quando
arrivarono davanti alla macchina fiammante, Björn emise un sibilo e Josh spiegò:
«Eccola qui, fratellino. Aston Martin Vanquish Coupé. Velocità massima: 295
chilometri all’ora. Accelerazione da 0 a 100 in 4,1 secondi. Motore V12. Testata in
alluminio. Iniezione elettronica. Trazione posteriore. Cambio automatico. Sei
velocità».
«Mia», disse Björn toccandola con goduria.
Da quando aveva visto l’automobile su una rivista, più di un anno prima, aveva
capito che doveva diventare sua, e finalmente l’aveva davanti.
Josh sorrise. Adorava quell’espressione contenta e, aprendo una delle due
portiere, lo incoraggiò: «Su, andiamo a fare un giro».
Björn annuì.
Salì assieme al fratello e uscì con la macchina dal concessionario. Guidò per le
strade di Monaco con immensa prudenza. La macchina era stupefacente e, appena
si immisero nell’autostrada, cominciò a volare.
Quando un’ora dopo tornarono al concessionario, Björn era sempre più convinto
dell’acquisto. Quella macchina sconvolgente doveva essere sua, e dichiarò al
fratello divertito: «La voglio domani».
«Domani?»
«Sì, domani».
«Björn, devo preparare i documenti e…».
Guardò Josh deciso e, interrompendolo, disse: «Domani ti lascio la mia vecchia
Aston per prendermi questa. E ora facciamo le pratiche perché la possa avere al più
presto. Non ti preoccupare per l’assicurazione, chiamo Corina e me la trasferisce
dall’altra Aston a questa. Con chi altri dobbiamo parlare?».
Josh sorrise e, fissandolo, rispose: «Vieni con me. Dovremo fare alcune
chiamate, ma risolveremo tutto».
I fratelli Hoffmann sapevano bene che ottenevano sempre ciò che volevano.
Quel pomeriggio, Mel passeggiava con la figlia per un’affollata strada di
Monaco. Faceva freddo. A gennaio la città era sempre nella morsa di un gelo
siberiano. Si fermò davanti a centinaia di negozi assieme alla piccola per comprarle
un sacco di regali, e la bambina batteva le mani emozionata. Mel ne rideva. La
figlia era la sua unica fonte di felicità. Il suo miglior regalo. Quando entrarono in
un bar per bere qualcosa, suonò il cellulare. Vedendo che era un numero speciale,
rispose: «Tenente Parker in ascolto».
«Ciao, tenente».
Mel sorrise. Era il suo caro amico Fraser e, sedendosi, domandò: «Perché mi
chiami da questo numero?»
«Perché ero sicuro che avresti risposto».
Aggrottando le sopracciglia, lei protestò e mormorò: «Sai che fuori dalla base
sono Mel, nessun tenente Parker».
«Lo so… lo so…».
Risero entrambi, e alla fine Mel chiese: «Tutto bene con la hostess di Air
Europa?»
«Bene… molto bene. È già partita tua madre?»
Fine dell'estratto Kindle.
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