Testo Relazione - presenza del vangelo

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Testo Relazione - presenza del vangelo
FRAGILE, MANEGGIARE CON CURA
Uomo, società, ambiente alla luce della Laudato si’
Iniziamo con i due racconti della creazione dell’uomo di Gen 1,26-28 e Gen 2,7-8.15 perché molti
hanno attribuito alla concezione umanistica della religione ebreo-cristiana (una concezione per cui l’uomo,
pur essendo creatura tra le altre creature, è superiore ad esse), la causa della crisi ecologica, come se quei
dominare e soggiogare di Gen 1 autorizzassero l’uomo a sfruttare indiscriminatamente l’ambiente che lo
circonda. Nel mondo antico c’era una visione sacrale della natura, concepita come un unico grande
organismo vivente di cui faceva parte tutto, minerali, piante, animali, uomini e persino dei (gli dei
dell’Olimpo altro non erano che personificazioni delle forze della natura). Nel mondo moderno le cose
cambiano, soprattutto con lo sviluppo della scienza e della tecnica: l’uomo solo è soggetto e il mondo
circostante oggetto della sua azione trasformatrice. Tale azione, però, è divenuta sempre più invasiva e
indiscriminata (LS N. 106). Da qualche decennio si è assistito a un ritorno della visione antica (pensiamo a
correnti come la New Age): la Madre Terra ha una vita propria ed è concepita come soggetto, è qualcuno di
cui noi uomini siamo figli. Tra i due estremi, biocentrismo da un lato e tecnicismo dall’altro, la visione
biblica costituisce una via di mezzo: innanzitutto desacralizza la natura, che non è una divinità, ma
semplicemente una creatura. Anche l’uomo è una creatura, ma diversa da tutte le altre perché partecipa
della signoria del Dio Creatore (Sal 8,6-9). Tale signoria, però, non va intesa come dominio assoluto, l’uomo
non è padrone del cosmo, ne è “l’amministratore responsabile” (N. 116). Il testo biblico, se letto bene, ci
offre la chiave per tale interpretazione. Vero è che all’uomo è chiesto di dominare e soggiogare, ma a
questo suo potere sono posti dei limiti: innanzitutto Gen2, che ci fa leggere quei dominare e soggiogare
come coltivare e custodire; poi il fatto di essere a immagine e somiglianza di Dio, che è detto subito prima
del dominare e soggiogare e che dunque definisce queste azioni a partire dal dominio stesso del Creatore.
Ora, Dio governa ogni creatura con sapienza provvidente e con estrema tenerezza, Dio ama ogni cosa che
ha creato. Il Sal104 canta l’amorevole cura di Dio per tutto ciò che esiste. È quasi una sinfonia della natura,
in cui ognuno ha il suo posto, persino i mostri marini, il Leviatàn che altrove personifica il male (Is 27,1; Sal
74,14) qua gioca con Dio (cfr. Is 11,6-8; Mc 1,13). Il Creatore gioisce di tutto, anche dei mostri che l’uomo
teme (Sap 11,24-26); se dunque l’uomo è immagine di Dio, è come Dio che deve governare l’universo, con
la stessa responsabilità, la stessa cura, la stessa tenerezza, la stessa gioia (cfr. Prv 8,30-31), la stessa
propensione alla bellezza. Dio, Bellezza assoluta, lascia una traccia di Sé in ogni cosa creata (Sap 13,3-5): la
bellezza è modalità dell’agire creativo di Dio e quindi deve esserlo anche del modo umano di amministrare
il mondo (N. 215). Un altro limite al dominare e soggiogare è dato da Gen 1,14-19: l’uomo governa il
mondo, ma è a sua volta governato dagli astri, che scandiscono il tempo del suo lavoro (giorno e notte),
segnando i ritmi delle stagioni. Ciò significa che ci sono tempi da rispettare insiti nel creato (Qo 3,2-8),
l’uomo non può volere tutto subito (quella che il papa definisce mentalità efficientista e “immediatista”),
ma deve saper attendere i ritmi della natura (quel darsi amichevolmente la mano del N. 106), che sono
ritmi lenti. I luminari segnano anche il tempo della festa (cfr. Gen 2,2-3), cioè il tempo da restituire a Dio.
L’uomo è chiamato a riposare per elevare lo sguardo al di sopra di sé e lodare Dio, riconoscendolo come
definitivo Signore del creato. L’uomo loda Dio e Lo benedice dando voce a tutte le creature (Dn 3,52-90):
possiamo dire che l’uomo è l’elemento del creato in cui la materia prende coscienza, coscienza di esistere,
di conoscere, di godere della bellezza che lo circonda. Proprio per questo, è responsabile di far avanzare,
insieme con lui, tutta la creazione verso la pienezza di Dio (Rm 8,19-22). Lo scopo finale delle altre creature
non siamo noi (N. 83), è Dio, quindi la visione biblica in definitiva non è antropocentrica, ma teocentrica, è
un umanesimo teocentrico che punta non sul potere dominante dell’uomo, ma su una fraternità universale,
un rispetto sacro, amorevole, umile (N. 89) perché tutti creati dallo stesso Padre. Questo ci rimanda a s.
Francesco e al suo Cantico delle creature, da cui l’enciclica prende nome. S. Francesco si sentiva
intimamente unito a tutto ciò che esiste e, di conseguenza, si sentiva chiamato a prendersene cura. Il suo
non è un esempio insolito e raro: tutta la tradizione monastica primitiva era caratterizzata dal legame
armonioso con la natura, soprattutto col mondo animale. Narra un aneddoto dei monaci d’Oriente: Una
sera fratel Bruno era assorto in preghiera quando fu disturbato dal gracidare di una rana. Per quanti sforzi
facesse, non gli riuscì di ignorare quel rumore e allora si sporse dalla finestra e urlò: “Silenzio! Sto
pregando”. Poiché egli era un santo tutti obbedirono al suo ordine immediatamente. Ogni creatura vivente
si zittì in modo da creare il silenzio necessario alla preghiera. Ma ecco che Bruno fu di nuovo interrotto,
questa volta da una voce dentro di lui che diceva: “Forse a Dio il gracidare di quella rana era altrettanto
gradito dei salmi che tu stai recitando”. “Che cosa possono trovare di bello le orecchie di Dio nel verso di
una rana?” replicò Bruno sprezzante. Ma la voce proseguì: “Perché mai allora Dio avrebbe inventato un
simile suono?” Bruno decise di scoprirlo da sé: si sporse dalla finestra e ordinò: “Canta!” e l’aria fu piena del
gracidare ritmato della rana, con l’accompagnamento di tutte le raganelle del vicinato. Bruno si pose in
ascolto con attenzione e subito non udì il frastuono, ma scoprì che, se smetteva di irritarsi, quelle voci in
realtà rendevano più ricco il silenzio della notte. Grazie a quella scoperta, il cuore di Bruno entrò in armonia
con l’universo intero e, per la prima volta nella sua vita, egli capì che cosa significa pregare.
Torniamo a Gen, al secondo racconto della creazione. Qua, dicevamo, il dominare e soggiogare del primo
racconto sono sostituiti dal coltivare e custodire. Partiamo dal custodire, che è un verbo particolarmente
caro a papa Francesco, lo ripete spesso nelle sue omelie e anche nella LS compare molte volte. Desidero
solo ricordare che la sua prima omelia da papa, durante la messa d’intronizzazione del 19 marzo 2013, è
tutta incentrata sul verbo custodire: partendo dalla figura di s. Giuseppe, custode della Sacra Famiglia e
della Chiesa, Francesco parla della vocazione umana, non esclusivamente cristiana, del custodire. Ognuno
di noi è custode del creato, dell’ambiente, della famiglia (i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come
genitori si prendono cura dei figli e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori), custode delle
amicizie (Isidoro di Siviglia spiegava il termine amicus come una contrazione di animi custos), custode di
ogni persona, soprattutto dei più fragili (un altro tema molto caro a Francesco, la fragilità) - i vecchi, i
bambini, i poveri, i disabili -, custode di se stesso (custodire vuol dire vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro
cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive). Custodire deriva secondo alcuni da una radice
indoeuropea, keudh-, che significa coprire. Si custodisce, coprendolo, qualcosa di fragile e prezioso:
pensiamo alla custodia degli occhiali, la custodia per i gioielli, il custode del museo, l’angelo custode. San
Paolo chiede a Timoteo di custodire il bene prezioso che ti è stato affidato, cioè il deposito della fede (2Tm
1,14). Dunque, il giardino che Dio affida all’uomo è fragile e prezioso (N. 78). E la custodia della fragilità
chiama in causa un altro concetto, quello della responsabilità, l’uomo cioè deve rispondere a un Altro della
custodia che gli è stata affidata (penso al Piccolo Principe e alla sua rosa, che è così importante per lui
perché se ne sente responsabile). In questo ruolo di custode, l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio, il
Custode per eccellenza (Sal 121,3-8; 91,4.11; Es 23,20; Dt 32,9-12). Dio Custode d’Israele, ma anche
Custode del creato: a parte il Sal 104, sopra citato, è interessante notare cosa comanda la Torah a
protezione di alberi e animali→ Dt 20,19; Es 23,4-5.10-12. Il verbo custodire (in ebraico shamar) ha una
fortissima connotazione religiosa: traduce infatti anche il verbo osservare, che nella Bibbia è riferito
all’osservanza/custodia dei precetti divini (Gen 17,9; Es 19,5; Lv 18,5; Dt 5,1.12 ecc.). All’uomo è chiesto di
custodire il giardino, di custodire i precetti divini, ma anche di custodire il fratello (Gen 4,9): siamo messi gli
uni nelle mani degli altri (non è bene che l’uomo sia solo). Anche il fratello è un bene da custodire, la
relazione con l’altro-da-sé è qualcosa di fragile e prezioso che va curato e custodito, perché è nella
relazione, è uscendo e andando oltre se stesso, che l’uomo ritrova pienamente la propria identità. Dunque,
custodire il giardino, custodire l’uomo: è l’ecologia integrale di cui parla diffusamente l’enciclica,
soprattutto al cap4. In sostanza, dice il papa, tutto è connesso, la crisi ecologica va di pari passo con quella
antropologica, etica, sociale, culturale, spirituale: il tema della salvaguardia del creato va affrontato in
stretta connessione con quello della difesa della dignità umana, calpestata e offesa insieme al creato. Del
resto, l’uomo è inestricabilmente legato al suo ambiente naturale, dalla terra è tratto: adam, il termine
ebraico per indicare l’uomo, viene da adamah, cioè terra, polvere del suolo (più letteralmente, potremmo
tradurre adam con terrestre). La natura non è qualcosa di esterno a noi, è parte di noi, ne siamo
compenetrati (N. 139). La materia, nella visione ebraico-cristiana, non distoglie l’uomo dal divino, ma
diventa motivo di preghiera, perché è carezza di Dio (N. 84).
Accanto al custodire c’è il coltivare: l’uomo è, sì, custode del giardino, ma non come il custode di un museo,
che deve mantenere tutto inalterato. No, l’uomo è chiamato anche a far fruttificare la terra, a continuare
l’opera di Dio, ad essere strumento di Dio per aiutare a far emergere le potenzialità che Dio stesso ha
inserito nelle cose (N. 124). Come per custodire, anche il verbo coltivare (ebr. avad) ha un profondo
significato religioso: il senso letterale è servire, è il verbo del servizio da rendere a Dio come conseguenza
della liberazione dall’Egitto e dell’alleanza del Sinai (cfr. Gs 24,14ss). Coltivare e custodire sono dunque i
due termini classici della teologia dell’alleanza: l’alleanza con Dio si esplica anche nell’alleanza dell’uomo
con la terra, che è dono di Dio esattamente come la Torah, ed entrambe vanno custodite e coltivate. In
questo senso, c’è un’espressione molto bella che usa la Chiesa Ortodossa, per cui l’uomo è visto come
sacerdote della creazione. L’uomo infatti è l’unico essere creato organicamente vincolato con la creazione,
ma nello stesso tempo capace di trascenderla, di essere libero dalle leggi della natura. Può dunque, come fa
il sacerdote, prendere il mondo nelle mani per presentarlo a Dio, portando la creazione alla comunione con
il Creatore. È ciò che fa la Chiesa tramite i Sacramenti, soprattutto attraverso l’Eucaristia (N. 236). Proprio
l’Eucaristia ci indica la strada del custodire e coltivare: la protezione della natura non si oppone allo
sviluppo della materia, infatti il mondo materiale che l’uomo/sacerdote prende nelle sue mani per offrirlo a
Dio, viene trasformato in qualcosa di meglio. Nell’Eucaristia non offriamo a Dio chicchi di grano e acini
d’uva, ma pane e vino, cioè elementi naturali sviluppati e trasformati mediante il lavoro dell’uomo:
l’ecologia non è preservazione, ma sviluppo. Alcuni erroneamente ritengono che la cura e la protezione
della natura fermino il progresso e lo sviluppo umano, ma che progresso è quello che non lascia un mondo
migliore alle generazioni future e una qualità di vita integralmente superiore? L’enciclica invita ad avere
uno sguardo più ampio, che sappia andare al di là del profitto immediato (N. 195). Uno sviluppo, allora, che
aiuti a far uscire le potenzialità che Dio ha già iscritto nella natura e che attendono l’uomo per essere
esplicitate. Possiamo interpretare in questo senso Gen 2,19: dare il nome agli animali, se da un lato
evidenzia la superiorità dell’uomo su di essi, dall’altro significa tirar fuori da ciò che si nomina la sua identità
nascosta. Tale identità è sì esplicitata dalla parola umana, ma è già insita in ogni cosa creata dalla Parola
divina. Nominando le cose, l’uomo dà parola a una natura che è senza parole, completando in un certo
senso l’opera della creazione. Eppure, anche senza parole, la natura ci parla di Dio (Sal 19,1-7):
commentando questo salmo, gli ebrei dicono che tra il cielo e la terra Dio ha disteso una pergamena (il
mondo) sulla quale ha scritto i Suoi messaggi. La natura ha anche testimoniato, dice s. Agostino, la presenza
di Dio sulla terra in Gesù: “Forse che nessuna creatura riconobbe il suo Creatore? Il cielo rese testimonianza
con una stella; il mare, quando sorresse il cammino del Signore; e così il vento, facendo tacere al comando
di lui la sua voce; e la terra, mettendosi a tremare quando fu crocifisso”.
Anche Gesù, nella sua predicazione, ha sottolineato la cura di Dio per ogni minima creatura: “Cinque
passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio […]
Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre […]
Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la
sua gloria, vestiva come uno di loro” (Lc 12,6.24.27). Se Dio ha cura di queste piccole cose, quanto più –dice
Gesù- avrà cura di ogni essere umano! E così torniamo all’ecologia integrale: il cuore è uno solo, dice il papa
(N. 92), per cui se trattiamo con indifferenza o crudeltà le piccole creature di questo mondo, tratteremo
alla stessa maniera anche gli esseri umani. Di contro, se ci preoccupiamo per il fratello, se ce ne sentiamo
responsabili, allora avremo cura anche di tutto il creato, considerando che è un prestito che abbiamo
ricevuto e che appartiene alle generazioni che verranno. Anche questa è ecologia integrale, la solidarietà
fra le generazioni: non possiamo lasciare a chi verrà dopo di noi solo macerie, deserti, sporcizia (N. 161).
Non è in gioco tanto la preoccupazione per le generazioni future, quanto la nostra stessa dignità, il
significato del nostro passaggio su questa terra, la traccia che avremo lasciato (N. 160). E la traccia che ogni
persona lascia passa dallo spazio in cui si svolge la vita quotidiana, a cominciare dal contesto urbano
(l’ecologia della vita quotidiana). Spesso vi sono nelle nostre città quartieri brutti, con gli edifici deteriorati,
soffocati, privi di qualunque armonia. La bruttura estetica cammina quasi sempre insieme al degrado
umano (N. 149). Quando mi trovo a passare per la zona di Brancaccio, a Palermo, e vedo quei casermoni
così brutti, mi viene un senso di angoscia, di oppressione, perché penso al degrado che c’è dentro. Allora mi
viene in mente p. Pino Puglisi, che proprio a Brancaccio ha operato gli ultimi tre anni della sua vita, lottando
perché gli abitanti del quartiere potessero ottenere i servizi essenziali, la rete fognaria, la scuola media, la
palestra. 3P si è battuto per ridare dignità a ogni persona, lui riusciva a vedere nell’abbrutimento fino alla
bellezza, fino all’immagine di luce che ogni persona si porta dentro e quell’immagine ha sempre cercato di
tirare fuori (dentro l’inferno, riusciva a tirar fuori “ciò che inferno non è”). P. Puglisi dava importanza a
ognuno, a ognuno faceva sentire la sua vicinanza, il suo amore: quanto è importante, per ogni persona,
sentirsi amata, amata sempre e comunque, non per meriti personali o interessi calcolatori, ma
gratuitamente (All you need is love, cantavano i Beatles – a questo proposito mi piace ricordare ciò che ci
ha raccontato il sacerdote quando abbiamo fatto il giubileo presso la missione di Biagio Conte, di quel
fratello abbandonato dalla sua famiglia e ospite della missione che un giorno, a un volontario che ogni
tanto si recava là per prestare il suo servizio, chiese “Dammi un po’ del tuo amore”).
Anche in mezzo alla bruttura esteriore si può creare bellezza, se si sviluppano relazioni umane di vicinanza e
calore (nn. 150 e 152). È molto importante creare luoghi di socializzazione –pensiamo al Centro Padre
Nostro, sempre per parlare di 3P-: è quanto sostiene anche l’architetto Renzo Piano, che ha avviato dei
progetti per riqualificare le periferie delle nostre città. Il progetto riguarda le periferie non solo perché sono
i contesti urbanistici più fragili, ma anche perché sono le zone più ricche di umanità: nel centro storico abita
solo il 10% della popolazione urbana. Allora, se si devono costruire nuovi ospedali, teatri, musei, università,
sale da concerto, ristoranti, meglio farlo in periferia, costruire per la gente punti di incontro, dove si possa
entrare in relazione, ci si possa riconoscere nell’altro, si possano condividere i valori.
Ancora, per sviluppare il senso di appartenenza allo spazio che viviamo, il papa loda quei cittadini che,
laddove le istituzioni risultino assenti, autonomamente si raggruppano per curare un luogo pubblico, un
monumento abbandonato, un parco, una fontana, per pulire, risanare, migliorare qualche cosa che è di
tutti. Questo è importante anche per creare legami, un tessuto sociale locale libero dall’indifferenza
consumistica e con un senso di identità comune, di una storia che si conserva e si trasmette (N. 232).
Accanto alla cura, per quanto possibile, della bellezza esteriore, l’impegno di ciascuno deve essere rivolto
soprattutto ai piccoli gesti della vita quotidiana (la piccola via dell’amore di santa Teresa di Lisieux). Questi
diventano tanto più importanti in quanto la vita sociale positiva e benefica degli abitanti diffonde luce in un
ambiente a prima vista invivibile (N. 148). Non perdere mai l’opportunità di un sorriso, una parola gentile,
un atto di generosità, un qualsiasi gesto che semini pace e amicizia. Piccoli gesti in cui spezziamo la logica
della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo. È importante donare il nostro tempo, saperci fermare
quando invece la società attuale ci vuole tutti super attivi, veloci, efficienti, produttivi. È importante
riscoprire la lentezza, reimparare a vivere secondo i ritmi della natura, che sono ritmi lenti. Anni fa ho letto
un libro di Milan Kundera, La Lentezza, che sosteneva che la velocità è direttamente proporzionale all’oblio,
la lentezza alla memoria. Se cammino per strada e voglio ricordare qualcosa, automaticamente rallento il
passo; invece vado veloce se c’è qualcosa che voglio dimenticare, quasi a volerlo lasciare il prima possibile
dietro di me. Lentezza=memoria: è interessante questo binomio, mi richiama Maria (Lc 2,19.51→qui la
lentezza significa vivere pienamente ogni momento per poterlo ricordare, custodendolo – ritorna il tema
del custodire – nel cuore). Anche Gesù ci insegna la via della lentezza, quando c’invita a guardare i gigli del
campo o gli uccelli del cielo, quando si preoccupa di ogni persona che incontra, anche se si trova in una
situazione che oggettivamente richiede fretta (Mc 5,21-34). Gesù sa rimanere pienamente presente davanti
a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo; si consegna ad ogni momento [e ad ogni persona]
come dono divino da vivere in pienezza (N. 226). Gesù mette in moto tutti i sensi, vede (quante volte il
Vangelo ci dice che Gesù vide, come farebbe a vedere se andasse di fretta?), fissa lo sguardo (Mc 10,21),
ascolta (Mc 10,49→si ferma quando sente che Bartimeo lo chiama), tocca, abbraccia (Mc 1,31.41; 5,41;
8,23; 9,27; 10,16 ecc.), gusta (Mc 2,16; Lc 7,34.36 ecc.). Gesù ci ha mostrato una via per superare l’ansietà
malata che ci rende superficiali, aggressivi e consumisti sfrenati (N. 226). E invece noi corriamo, corriamo
per sentirci occupati, travolgendo tutto ciò che ci circonda, anche gli affetti. Al N. 225 il papa invita a
rallentare per scoprire la presenza del Creatore che vive tra di noi e anche in questo Gesù ci è maestro: Mc
13,28 → come potremmo accorgerci delle foglioline sul ramo di fico se andiamo sempre correndo? La
lentezza, allora, è anche la via per cogliere i segni dei tempi, per riuscire a percepire la presenza di Dio, se
pur nascosta, umile, silenziosa, nelle piccole cose quotidiane. Questo per voi il segno, dicono gli angeli ai
pastori (Lc 2,12), ma che segno è un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia? A questo
proposito, ho un’esperienza personale, un pensiero che mi è venuto qualche anno fa davanti al presepe
della Cattedrale di Palermo. Amo molto sostare davanti al presepe per stupirmi sempre di nuovo di fronte
al prodigio dell’Incarnazione. Il presepe della Cattedrale, quell’anno, mi ha colpito particolarmente perché
la grotta della Natività non era messa in un angolo dove tutto converge, come solitamente si fa, ma si
trovava proprio al centro del presepe, nel mezzo della vita che ferveva frenetica. Davanti la grotta, mercanti
che gridavano per vendere la merce; sulla destra uomini e donne intenti nelle attività quotidiane (fornai,
fabbri, lavandaie); sulla sinistra soldati sui cavalli lanciati al galoppo. E io che là davanti riflettevo: ma in
tutta questa fretta, in tutto questo rumore, in tutta questa distrazione ansiosa, ci sarà qualcuno che si
accorge che là dentro sta avvenendo un miracolo, il miracolo della nostra salvezza? Ecco, siamo invitati alla
lentezza per percepire ogni piccolo segno della presenza di Dio in mezzo a noi (anche a Gerusalemme,
dominando la città dall’alto, appare subito maestosa la moschea di Omar, mentre bisogna fermarsi,
sostare, fissare lo sguardo come Gesù per riuscire a scorgere la cupola del Santo Sepolcro, confusa in mezzo
ai tetti delle case circostanti). La lentezza, poi, va di pari passo con la sobrietà, con la semplicità, saper
godere con poco, senza beccare qua e là (N. 223), fermarsi a gustare le piccole cose ringraziando per ciò che
si ha piuttosto che rattristarsi per ciò che non si ha. Concludo, a proposito di lentezza, con la poesia che
anni orsono scrisse una ragazza malata terminale di cancro
DANZA LENTA
Hai mai guardato i bambini in un girotondo?
O ascoltato il rumore della pioggia quando cade a terra?
O seguito mai lo svolazzare irregolare di una farfalla?
O osservato il sole allo svanire della notte?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce.
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Percorri ogni giorno in volo?
Quando dici "Come stai?" ascolti la risposta?
Quando la giornata è finita ti stendi sul tuo letto
con centinaia di questioni successive che ti passano per la testa?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Hai mai detto a tuo figlio,
"lo faremo domani?"
senza notare nella fretta,
il suo dispiacere?
Mai perso il contatto con una buona amicizia
che poi è finita perché
tu non avevi mai avuto tempo
di chiamare e dire "Ciao”?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Quando corri così veloce
per giungere da qualche parte
ti perdi la metà del piacere di andarci.
Quando ti preoccupi e corri tutto il giorno, come un regalo mai aperto . . .
gettato via.
La vita non è una corsa.
Prendila piano.
Ascolta la musica.