Racconti fantasy. Classe 3C Docente
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Racconti fantasy. Classe 3C Docente
L’OSPEDALE di Giulia Bianchi, Daniel Hasa, Ambra Alacqua, Edoardo Barelli Aveva 11 anni. Si chiamava Megan e abitava in una cittadina poco lontana da San Andreas. Fino alla quinta elementare era stata una ragazzina solare, felice e coraggiosa. Fino ad allora, i suoi genitori l’avevano accompagnata a scuola in auto. Ma, raggiunta la prima media, lei prese ad andarci da sola, percorrendo la strada più esterna della città. Quel tragitto era reso cupo delle fitte chiome degli alberi, che oscuravano i lampioni, uniche luci nelle mattinate invernali. Megan andava a scuola a piedi col sole con la pioggia e, ogni volta, sostava davanti all’ospedale abbandonato, immersa nei suoi pensieri. Eccola lì, come sempre, che cammina verso la scuola con lo zainetto in spalla, persa in mille pensieri, mentre lo fissa. Il vecchio ospedale si erge di fronte a lei. Scuro e imponente riflesso nei suoi occhi innocenti e terrorizzati di bambina. Le porte chiuse con una spessa catena e, alle estremità, un pesante lucchetto, sigillavano all’interno stanze buie e spaventose. Un rampicante dalle foglie scure e polverose impediva ai raggi del sole di penetrare all’interno. A interrompere il silenzio, solo il sibilo del vento che penetrava dai vetri delle finestre rotte. Quella vista gelava il sangue nelle vene di Megan e i capelli mossi dal vento freddo le coprivano il candido viso. Ma lei era risoluta a dare ai compagni prova del suo coraggio e nemmeno le insistenze dei genitori, che non passasse di lì ma percorresse un’altra strada, la facevano desistere. Aveva deciso che non l’avrebbe data vinta ai compagni che le davano della bambina viziata e che, nonostante la paura, avrebbe dato dimostrazione del suo coraggio. Una notte di venti anni fa, Megan uscì dalla finestra di camera sua e attraversò il vialetto trascurato, colmo di erbacce, disconnesso dalle radici degli alberi ancorati al ciglio della strada. Adesso… coloro che percorrono quella strada sentono le urla disperate di una bambina, ma nessuno è così coraggioso da entrarci… MALEDETTO QUEL GIORNO di Emma Cucchi, Aisha Thiam, Sara Forlani, Marina Picari Dopo ben cinque anni me ne tornavo a casa. Il collage era finalmente finito. Mamma e papà mi aspettavano fuori dall’aeroporto. Lei non c’era. Misi da parte la tristezza e con un caloroso abbraccio salutai i miei. Ero di nuovo in quel piccolo paesino della campagna inglese, dimenticato da tutti. Una volta a casa, andai in camera mia. I ricordi invadevano la stanza. Guardai l’autunno fuori dalla finestra: le foglie cadevano senza sosta, come danzassero una danza senza fine. L’inverno si aggirava nell’aria. Faceva già freddo. Per festeggiare il mio rientro, la mamma aveva preparato i biscotti, quelli che mi piacevano tanto. Li mangiavamo sempre, sotto le coperte, ascoltando musica. Li mangiavo sempre con lei, con Allison. Misi il cappotto e uscii senza avvertire nessuno. Volevo andare lì, dove tutto era iniziato e dove tutto si era fermato: nel bosco. L’aria mi scompigliava i capelli, avevo il naso e le labbra gelate. Il sentiero era coperto da un letto di foglie colorate dal giallastro al rossiccio. Il tempo sembrava tornare indietro. Nei pressi del vecchio pozzo, il battito del cuore accelerò improvviso. Non volevo avvicinarmi, avevo paura. Idiota, avevo fatto tutta quella strada per arrivare fin lì! Mi voltai e mi incamminai verso casa. No, non potevo tirarmi indietro. Le gambe tremavano. Mi feci forza, mi rigirai, passo dopo passo e, tremolio dopo tremolio, raggiunsi il pozzo. Maledetto giorno. Era la calda estate e io ero tornata dalla solita settimana al mare con i nonni e i cugini e lei mi era mancata. Allison e io eravamo migliori amiche dal primo anno della scuola elementare. All’epoca ero una bambina timida e introversa e legavo poco con gli altri coetanei, ma con Allison fu tutto diverso, perché lei aveva trovato subito il modo di mettermi a mio agio e farmi divertire. Quel giorno ero in ritardo, colpa di mio fratello che si era chiuso in bagno. Mi incamminai spedita per raggiungere il nostro posto, il pozzo. Lei non c’era, forse era in ritardo. Mi sedetti e aspettai, ma lei non arrivava. Strano, davvero strano. La ritardataria della coppia ero io! Mi alzai e mi sporsi all’interno del pozzo per dare un’occhiata ai fiori che, ogni estate, rampicavano all’interno. Lì la vidi. O meglio, non vidi lei, vidi il suo corpo. Sembrava una statua, era pallida e dava una sensazione di freddo, nonostante l’infernale caldo estivo. Gridai. Le lacrime rigavano senza sosta il mio volto. Lei era lì. Sul fondo del pozzo, il nostro pozzo. Aveva gli occhi spalancati, mi guardava con i suoi spenti occhi verdi. Urlai di nuovo. Forse qualcuno venne in mio aiuto, perché sentii le sirene dell’ambulanze avvicinarsi, il vociare convulso delle persone, le grida di sua madre alla notizia della morte. Mi dissero che era stato un incidente, che lei era scivolata nel pozzo, mentre aspettava me. Era colpa mia. Ora ero lì e piangevo. Mi accasciai a terra e mi addormentai. Mi risvegliai, ancora con le lacrime agli occhi. Nelle mani avevo qualcosa, il ciondolo della mia migliore amica, la sua metà cuore con incisa A. Gliel’ avevo regalata per il suo compleanno e combaciava perfettamente con la mia. Le guardai entrambe, le nostre iniziali, A e S. Piangevo, ma non sentivo più la paura: Allison era lì con me. Sorridevo e piangevo.. e presi a incidere le nostre due lettere sul pozzo, racchiuse da un grande cuore… QUELLA BIRRA DI TROPPO DIALICEDEHÒ,MADDALENAMOIOLI,ELISAFACCHI Il liceo era un grosso stabilimento in mattoni scuri, sorgeva imponente sulla collina. Era diverso da come lo descrivevano in città, più buio e silenzioso. I corridoi sembravano infiniti, illuminati dalla fioca luce del giorno che passava attraverso le finestre poste sopra gli armadietti. Al piano terra e al primo piano le porte in legno conducevano alle aule. Al terzo invece, gli studenti che non avevano possibilità di tornare a casa dormivano in apposite camere condivise. I miei compagni di stanza, Chase e Sam, erano due tipi a posto, entrambi dello Yorkshire. La nostra stanza, piccola e paradossalmente luminosa, dava sul campo di football, dove Sam giocava ogni fine settimana. Era un ragazzo timido, sempre pronto a studiare e a seguire anche la lezione più noiosa. Non si risparmiava comunque dal fare battute orribili. Chase aveva un carattere alquanto strano: si comportava da duro, non aveva paura di nessuno. Era arrogante, questo è certo, ma di voci sulla sua vita privata ne giravano! Raccontavano le sue molte debolezze. Eravamo migliori amici, noi tre. Al nostro trio si aggiungevano la mia ragazza, Ginny, e quella di Sam, Alaska. Avevo sempre pensato che nulla ci avrebbe mai separato, almeno fino a quella sera. -Quindi hai fatto un bel pasticcio, Ty- Aggiunse poi Alaska, mentre si sistemava la gonna a pieghe grigia. -Concordo… Non sarei mai dovuto andare a quella festa. -Già! Pensa se qualcuno venisse a sapere che… - Si interruppe, portando il suo viso vicino al mio, per poi sussurrare: -Che tu e Kate vi siete baciati. Un brivido percorse la mia spina dorsale. La vergogna e i sensi di colpa si insinuavano in me. Non avrei dovuto, ecco. Questo è tutto quello che il mio stupidissimo cervello riuscì a formulare. -Mi piacerebbe sapere com’è successo. -Non lo so, cavolo. Eravamo vicini, avevamo bevuto… ed è successo. -Allora sei un idiota- Si mise a ridere come se avessi appena fatto una battuta. Annuii, per poi aggiungere: -Comunque sei l’unica che lo sa, quindi vedi di non farne parola con nessuno. -Tranquillo, nessuno saprà che hai baciato un’altra- Sorrise compiaciuta, diventai subito rosso. Le guance scottavano e il battito cardiaco era notevolmente accelerato. -Shh! – La zittii. -Non c’è nessuno qui, Tyler- Si giustificò lei, sistemandosi i capelli rossi. Un rumore attirò la nostra attenzione. Qualcosa che si spostava, qualcosa che cadeva, un movimento brusco. C’era qualcuno. Non ero esattamente sconosciuto agli occhi degli altri liceali, anzi, io e Ginny eravamo abbastanza conosciuti. Sarebbe sicuramente stato uno scandalo, sulla bocca di tutti. Scattai e mi avvicinai all’altro lato del corridoio, lanciando un’occhiata di fuoco ad Alaska. Le si leggeva la preoccupazione in volto. Una sensazione di odio balenò in me, cercai di non darle retta. Il poster che era appeso all’inizio del corridoio si trovava a terra, stropicciato. Davanti ad esso Ginny mi osservava esterrefatta, gli occhi lucidi. Un dolore lancinante attraversò il mio petto, arrivando alla testa. I suoi occhi erano fissi su di me, colmi di dispiacere. Le avevo palesemente spezzato il cuore. -Ginny…- Cercai di dire con voce impastata ed insicura. Lei scosse la testa, indietreggiando. Fu un attimo che a me parve infinito, i miei piedi erano incollati al pavimento e le sue gambe cominciarono a correre. D’istinto, appena il mio corpo me lo permise, cominciai a seguirla, senza domandarmi dove fosse diretta. Come il cane che segue il suo padrone, io seguivo colei che avevo ferito, sapendo che oramai tra me e lei non ci sarebbe stato più niente. -Correre per i corridoi di notte così che i professori non ti becchino mi sembra un’ottima idea- La voce di Chase mi fece spaventare. Correva al mio fianco, il suo sguardo impassibile su di me. -Chase, per favore- Aumentai il passo, lui mi raggiunse comunque. -Ehi, non c’è bisogno che sprechi il tuo tempo per spiegarmi cosa è successo, dato che ho sentito la conversazione con Alaska. Mi si strinse lo stomaco. Quante persone si nascondo in un luogo apparentemente deserto? -Dannazione, Chase! –Imprecai a bassa voce, lui mi osservò inarcando un sopracciglio. -Hai spezzato il cuore ad una persona, non hai mica ucciso qualcuno- Alzò le spalle. Era serio? Ginny imboccò un androne più stretto, quello diretto ai piani inferiori. -Dove sta andando? - Domandò Chase, il tono leggermente preoccupato. -Non lo so- Ansimai appena raggiunte le scale di marmo bianco, illuminate dai lampadari appesi al soffitto. Non riuscivo comunque a vedere oltre il mio naso. -Ginny- Cominciai a chiamarla, nessuna risposta. Arrivati al piano inferiore ci ritrovammo davanti ad una porta, simile alle altre, ma più macabra e inquietante. La cantina. Era assolutamente vietato sostare lì, leggende giravano su quella stanza. E Ginny era sparita. -Ginny? - Ripetei, Chase si guardava intorno preoccupato. -Tyler, dobbiamo tornare di sopra… -Ginny? – Ignorai il mio migliore amico, dovevo trovare la mia fidanzata. -Non possiamo stare qui. -Ma Ginny? – Una strana sensazione mi pervase. Non volevo dar retta a quello che mi passò per la testa, no. -Dev’essere di sopra, dev’essere tornata indietro quando ci ha visti- Cercò di convincere sia se stesso che me. Non risposi, il mio sguardo era fisso sulla porta. Cominciai a cercarla nell’atrio, una stanza molto spaziosa. Sapevo che non l’avrei trovata, ma tentar non nuoce. Gli occhi si facevano lucidi, la vista cominciava ad annebbiarsi. Il cuore mi faceva male. Mi avvicinai alla porta, decisi di cercare di aprirla, Chase non mi avrebbe fermato. Presi il pomello dorato ed opaco, sotto lo sguardo allarmato del mio migliore amico. -Cosa fai? -Cerco di aprire la porta- Risposi, cercando di forzarla. Niente, era chiusa. Come se dietro ci fosse un mobile che bloccava il passaggio. Sentivo il cuore in gola. Sbattei la spalla contro la porta, produssi un suono sordo. -Tyler! – Mi chiamò preoccupato Chase, cercando di trascinarmi via. -Non c’è- Puntualizzò poi, le mani in tasca e il viso pallido più del solito –L’ho detto io, probabilmente è di sopra. Non c’era altra spiegazione. Doveva essere di sopra, anche se sapevo che lì non ci sarebbe stata. Infatti, non c’era. Io ed i ragazzi andammo avanti, con la vita e con gli studi, e a differenza del letto di Ginny, che fu subito occupato da un’altra ragazza, nel nostro cuore restò un vuoto incolmabile. Ma la vita va avanti, del resto. E Ginny, beh, il preside se ne lavò le mani. Nessuno poteva testimoniare la scomparsa a parte noi, così disse alla polizia che si trovava fuori scuola. Nessuno ci avrebbe comunque creduto. E così passammo dalla prima alla quinta liceo. Erano anni che ci stavo pensando e ogni giorno maledicevo quella sera e quella birra di troppo, ho perso l’amore della mia vita e questo rimorso non se ne andrà mai. L’ultima settimana di liceo sarei andato a cercarla. Così chiesi l’appoggio degli altri. -Ragazzi – Urlai –Lo so che c’è la festa stasera, ma a me Ginny manca. -Sei tu che l’hai fatta scappare, vai tu in quella cantina- Ribeccò Chase. -Ho sbagliato, a te non capita mai, migliore amico perfetto? Se davvero tenevi a lei mi avresti aiutato a ritrovarla…- Risposi freddo. -Io sarò anche un migliore amico perfetto, come dici tu, ma non sono un angelo custode e nemmeno una spia, e comunque il suo ragazzo eri tu- Mi rispose Chase. -Basta litigare, non è il momento. Non è stata colpa di nessuno. Anche se… – Sam si rivolse a me, guardandomi –Tyler, potevi stare più attento. Ginny manca a tutti, anche a te, Chase, non è così? Una lacrima rigò il volto del ragazzo –E’ ovvio che mi manca. Sono quattro anni che mi tengo tutto dentro, non ho più trovato una come lei- Finì la frase singhiozzando. Sam lanciò a Chase un pacchetto di fazzoletti –La troveremo, e le potrai dire tutti i segreti celati nel tuo cuore da quattro anni. Avranno fatto la muffa! Comunque tu potrai vedere se sei ancora capace di baciare- Fece poi con il suo modo di fare “divertente solo per lui”. Alaska entrò nella stanza con dei bigodini in testa –Non fate domande, sarebbero dovuti essere per stasera, ma a quanto pare i programmi sono cambiati. Sam rise eccessivamente per la situazione, sembrava una risata veramente forzata. -Sta zitto Sam- Lo rimproverò lei sedendosi sul materasso morbido del suo letto. -Per me Tyler ha ragione, dobbiamo ancora cercare per un’ultima volta. Anche se c’è un problema… -La porta non si apre- La scimmiottai io. -Ecco, esatto. -Be’, magari Harry Potter fa l’incantesimo Alohomora e ci apre la porta- Fece Sam per sdrammatizzare la situazione –Dai, a parte gli scherzi, magari è la volta buona- Fece serio. -Mi sa, tanto non costa nulla provare- Disse convincente Alaska più a se stessa che agli altri. -Gente, udite udite! La mia ragazza mi dà ragione! Un evento paragonabile al Big Bang! – Pronunciò sarcasticamente Sam. Alaska infatti commentò con un –Ah ah ah, pessima Sam. Ragazzi, allora: che ne dite di andare per scendere in cantina? -Perfetto- Risposi io mentre Chase replicò con un tono disinteressato e molto irritato: -Eh, va bene- E si mise ad ascoltare la musica come per isolarsi dal mondo. Alaska diede un bacio piuttosto frettoloso a Sam e rivolgendosi a me strizzò l’occhio. -A stasera! - Urlò come per farsi sentire anche da Chase che la guardò e si tolse gli auricolari, lei uscì sbattendo la porta alle sue spalle. Quella sera ci trovammo nell’androne che portava alla scalinata di marmo bianco. Avevo giurato a me stesso che l’avrei evitata, ma forse era l’unico rimedio per alleviare il costante dolore al petto provocato da Ginny. Eravamo tutti, o quasi: io, Alaska, Sam… E Chase? Chase non si era presentato e per un attimo pensai che non sarebbe venuto. Ma certo, uno come lui non si sarebbe mai perso la festa, di sicuro era seduto a qualche tavolo a flirtare con qualche ragazza. -Dov’è Chase? – Domandò Sam, guardandosi intorno. Alzai le spalle, guardando il pavimento: -Non credo che verrà. -Ah- Commentò Alaska –Be’, andiamo? Io e Sam annuimmo, scendemmo le scale lentamente, senza far rumore. Tutta la scuola si trovava alla festa, ma era meglio non correre rischi. -Grazie per avermi aspettato- La voce roca di Chase risuonò alle nostre spalle, non esitai a voltarmi. La sua figura alta e muscolosa era illuminata dalla debole luce lunare che attraversava il vetro della finestra. -Ciao Chase- Mi limitai a dire, senza espressione. -Bando alle ciance, - Cominciò Alaska –Adesso andiamo. Ricominciammo a scendere, con la stessa cautela. Le mie mani sudavano freddo e le mie ginocchia faticavano a reggere il peso delle colpe che mi cadde addosso. Vidi l’atrio, dopo quella scala che sembrava non finire più. Poi la porta, grande e di legno. L’unica incomunicabilità che credevamo avere con Ginny. Un semplice pezzo di legno può rendere tanto inquieta una persona? Sì, credetemi. Non perdemmo tempo e Sam si avviò verso di essa, per cercare di forzarla. Tra noi regnava il silenzio, eravamo intenti ad osservare i movimenti del ragazzo biondo. Non sembrò difficile, ci volle qualche minuto e la porta, come per magia, si aprì. Il mio battito cardiaco cominciò ad accelerare. -Da oggi posso cominciare a considerarmi Harry Potter, no? - Scherzò Sam, ma nessuno rise. Come al solito, del resto. Osservavo la stanza buia, un buio talmente fitto da non lasciar vedere niente. Qualcosa luccicò improvvisamente, qualcosa attirò tutta la mia attenzione. -Che hai visto, Ty? -Qualcosa- Mi schiarii la voce, senza staccare lo sguardo dalla stanza corvina. -Vogliamo entrare? – Propose Alaska, il tono teso. Osservai gli altri, cercando una risposta: avevano tutti la mascella serrata, gli occhi colmi di paura. Deglutii a fatica e mi feci avanti, mentre oltrepassavo gli stipiti il mio cuore sarebbe potuto schizzare fuori dalla gabbia toracica. Chase si affrettò, dopo essersi stabilito dietro di me, ad illuminare l’ambiente con la torcia elettrica nel cellulare. Non c’era traccia di Ginny. Non c’erano tracce di esseri umani. Non c’era niente di insolito. Ma davanti a noi, sulla parete bianca e leggermente sporca, luccicava una scritta rossa, era sangue: sarò sempre con voi –G. Una piccola sbavatura sulla G. rabbrividii, non riuscivo a muovermi nonostante le continue scariche di adrenalina che ricevevo. Il sangue sembrava fresco, colava tracciando sottili linee irregolari. -Andiamocene- Disse Chase con un filo di voce, e prima che potesse dire altro eravamo tutti fuori. Svelto chiusi la porta alle mie spalle, senza dimenticare di sussurrare: -Ti amo, Ginny- Tanto basso che a mala pena lo sentii io. I ragazzi mi aspettavano sulla scale in silenzio, scossi dall’avvenuto. Li raggiunsi e mi voltai un’ultima volta, osservando la porta. Una porta, una semplicissima porta. Conduceva ad una stanza, una stanza capace di farti diventare matto. Scrollai le spalle, salendo le scale. In cima, guardai in faccia Chase, poi Sam ed infine Alaska. -O-Okay- Commentai poi, osservando un punto indefinito del corridoio. -Non lo so. Ho bisogno di schiarirmi le idee. Credo che fumerò una sigaretta- Annunciò Chase, passandosi una mano tra i capelli castani. Lo salutammo con un cenno del capo, si allontanò e poi scomparve girando l’angolo. -Io vado un attimo in bagno, scusatemi- Mi sbrigai a raggiungere in bagno più vicino, appena dopo le fontanelle. Entrai e mi posizionai davanti agli specchi e ai lavandini, per sciacquarmi la faccia. La luce fredda proveniente dalle lampade fissate al soffitto mi illuminavano, rendendomi più trasandato di quanto già fossi. Sbuffai e aprii il rubinetto, cacciandoci sotto le mani. Non è successo niente, continuavo a ripetere nella mente. Le ginocchia tremavano, il cuore batteva irregolarmente. Chiusi gli occhi e lasciai che la mia pelle incontrasse l’acqua fredda, e quando alzai lo sguardo una figura pallida e malmessa mi osservava ad occhi sgranati. Era lei, ma priva di vita. Sembrava volteggiare nell’aria. Era morta. Era il fantasma di Ginny. I lunghi capelli biondi sfioravano appena le spalle, in disordine. Gli occhi azzurri e spenti erano contornati da occhiaie scure, spaventose. Le labbra erano ridotte ad una linea sottile, un po’ più rosea rispetto al colorito del viso. Quasi non si mossero quando sussurrarono: -Ti amo anche io. QUANDO TUTTO SEMBRA ANDARE BENE… di Aurora Mirto, Lorena Mirabile, Marwane Ardi, Loris Carminati Era il mese di novembre. Gli ultimi giorni e poi sarebbe stato Natale. Finalmente. Aspettavo da un anno questo momento, i regali, i dolci, le decorazioni, la neve, ma c’era una cosa che mi tormentava, quel maledetto bosco. Ogni giorno, rientrando a casa dalla scuola insieme a mia madre, passavo davanti al bosco. Talvolta mi balenava il pensiero di addentrarmici e di scoprire cosa fosse successo veramente, se lei c’era, se lui esisteva, ma la paura era troppo forte e vinceva. Gli alberi erano alti e scuri, sulla corteccia era diffusa una strana sostanza che mi faceva girare la testa e mi stordiva. Era pieno di arbusti, di rami e di foglie secche, non distinguevo se ero io a calpestare le foglie o qualcun altro, era buio e c’erano strani rumori. Lei era scomparsa, non la trovavo più, continuavo a chiamarela ma niente, lei non rispondeva, qualcuno l’aveva presa, qualcuno avrebbe preso anche me. Avevo paura, ero terrorizzata. Avevo nove anni all’epoca… al pensiero rabbrividii. -Dai è solo un bosco, entriamo- insisteva Katy -No non vedi è cupo e isolato- le risposi -Appunto è isolato, non ci può succedere niente! -E se ci sono animali feroci che ci attaccano? -Dai vai avanti, non ci succederà nulla! Katy mi convinse, come sempre e andammo nel bosco, poco dopo mi girai e Katy non c’era più. Urlai il suo nome nella speranza di sentire il suono della sua voce. -Katy, dove sei? – urlavo disperata sul punto di scoppiare a piangere. Il cuore mi batteva forte nel petto. Urlavo e camminavo senza una meta alla ricerca di Katy, non ce la facevo più e, esausta, mi accasciai. Ero impaurita, tremavo, pensavo a cosa sarebbe successo se avessi insistito di più con Katy, lei non sarebbe scomparsa e io non mi sarei sentita in colpa. Decisi di ritentare, ripresi a correre, cercavo l’uscita, sentivo i polmoni scoppiare, il cuore che batteva all’impazzata, l’aria che mi arrivava in faccia. Finalmente vidi una piccola luce, le andai in contro e in un attimo mi ritrovai fuori, sana e salva, sì io lo ero, ma lei no. Andai a casa da mia madre e le raccontai quello che era successo, lei si allarmò e chiese aiuto, rintracciò i genitori di Katy e la polizia e nel frattempo mi tranquillizzò, ma io non ero tranquilla, rivolevo la mia amica. Cercarono Katy per qualche tempo, ma di lei non ci fu più traccia. -Allora, Rose, ti muovi? – Fu mia madre a risvegliarmi dai miei pensieri. Alzai il volume della musica, e ascoltavi un motivo degli One Direction per scacciare i pensieri e lasciarmi tutto alle spalle. Mia madre mi ripeteva che non era colpa mia e che non dovevo pensarci ed io, semplicemente, lo facevo. Con il tempo il bosco era diventato un vago ricordo. La mia vita era scorsa serena. Dopo la scuola, avevo trovato un lavoro, mi ero sposata e avevo avuto una figlia, Mary, avevo divorziato e mi ero trasferita in una casa tranquilla, poco distante dal bosco. Sempre lo stesso pensiero ... ogni volta che ci passavo davanti, avrei voluto entrarvi e cercare Katy, ma desistevo per la paura e evitavo di pensarci, come diceva mia madre, che non capiva il mio senso di colpa. Per questo motivo, i rapporti tra noi si erano incrinati, ci eravano allontanate e ci sentivamo solo per telefono, non più di una volta alla settimana. Poi, una sera, guardavo la televisione. L’apparente tranquillità fu interrotta dal breve trillo del cellulare, che annunciava l’arrivo di un messaggio. Il numero era sconosciuto. Lessi il display. Ehy, Rose, ti ricordi del bosco? Ti ricordi di Katy, l’amichetta che ti convinse ad entrare nel bosco, ma alla fine però le cose non andarono bene… Ci vediamo nel bosco. XX Chi mi aveva inviato quel messaggio? Il rapitore di Katy? Katy? Fui indecisa se andarci o meno, se rischiare o no, ma la paura aveva vinto troppe volte fino ad ora e così mi decisi per la peggiore cosa che potessi fare. Ci andai. Entrai, tremavo, c’era freddo. Camminavo senza una meta precisa alla ricerca dell’autore del messaggio… gli alberi erano come me li ricordavo, imponenti e scuri, c’erano ancora molti arbusti e molte foglie secche sul suolo. Ad un tratto sobbalzai, avevo sentito un rumore provenire da sinistra, la sirena della polizia. Cosa ci faceva la polizia in mezzo al bosco? presi a correre in quella direzione, curiosa di capire cosa stesse succedendo. Più mi avvicinavo e più era chiaro che avevano trovato un cadavere. Non era un cadavere qualsiasi, era quello di Katy bambina: per lei il tempo si era fermato, aveva al polso il suo braccialetto preferito, quello che gli avevo regalato per il suo 9° compleanno. Dovevo, volevo raggiungerla. Improvvisamente qualcosa mi afferrò il braccio destro e mi fece cadere, poi qualcosa premette sulla mia bocca, qualcosa che aveva lo stesso odore della strana sostanza presente sulla corteccia degli alberi molti anni prima. Urlavo ma nè la polizia è altri mi sentirono. Cercai per un ultimo istante il cadavere di Katy e poi buio totale. Katy Willows era morta e con lei Rose Sullivan. TREMILA VOLTE TI AMO di Simone Scardino, Nicola Rubini, Enea Torracini, Madalina Vladu Era lì, guardava ciò che lo circondava, solo, avvolto da una coperta di silenzio. In quel momento, niente sembrava più aver senso. “Niente ha più senso”, ripeteva continuamente. Mancava qualcosa, quell’essenziale, o… quella essenziale. Matthew, un ragazzo solare, socievole, con quella voglia di vivere che solo Emily riusciva a trasmettergli. Esattamente un anno fa, 6 Dicembre 1989, era una giornata normalissima, perfetta per andare in montagna, perfetta per festeggiare, perfetta come lei. Era il giorno del suo compleanno e si erano molto organizzati. Sarebbero andati a cenare e dopo, la cosa che li legava di più: il vento soffiava, neve ovunque e il tramonto che le sorrideva, perché sì, il suo sorriso era per Matthew la vittoria più grande. Arrivati in cima alla montagna, circa 3000 metri, i pezzi di ghiaccio erano coperti di neve, impossibile vederli. Quella sera marcò il resto della vita di Matthew. Vedere la persona per cui si è disposti a rinunciare a tutto, per cui si darebbe la propria vita per accontentarla anche di poco, … morirti davanti. Il vento soffiava talmente forte che nemmeno a distanza di pochi metri era possibile sentire qualsiasi suono. Preparavano palline di neve per una piccola gara a “chi lancia la pallina più lontano?”, per vederla sorridere. Invece nel giro di 30 secondi eccola lì. Emily gridava disperatamente aiuto, Matthew riuscì a sentirla, ma purtroppo era troppo tardi, lei non c’era più. Emily non si era accorta del ghiaccio sotto la neve, impossibile vederlo! E scivolò dalla cima di una montagna alta 3000 metri! Troppo difficile accettare le cose in quel momento, ma… nessuna lacrima, aveva un uragano dentro di sé eppure stava immobile, giù in ginocchio fissando il punto. Il silenzio cadde sull’intera umanità. Questa è la storia. Matthew era di nuovo lì, dove tutto gli ricordava lei. Le montagne assunsero il viso pulito di una ragazza bellissima, l’accesso a una grotta prese la forma di due labbra carnose e perfette, quelle di Emily. Il vento era una voce, un richiamo che sussurrava: “Vieni, vieni con me e saremo felici per l ‘eternità; poniamo fine alla tua sofferenza, dove è incominciata”. Matthew si buttò, senza più pensarci, in quel maledetto dirupo. E, mentre cadeva nel vuoto, riuscì a pronunciare le due parole che non era mai riuscito a dirle, quando ancora era in vita: TI AMO. Morosini Irene, Festini Leonardo, Dirane Inasse, Finazzi Mattia 3^C L’INIZIO DELLA FINE Era il 3 novembre 1943 quando entrai ad Aushwitz, varcando la grande rete di spinato alta quasi tre metri. Sentii il mio nome: “Chalom, sinistra!” Sapevo bene cosa sarebbe successo se mi fossi azzardato a infilare la destra e in quel brevissimo lasso di tempo capii che la mia vita era cambiata: basta giocare a pallone per strada e basta mangiare fino a riempirsi la pancia! Le persone anziane si indirizzavano passivamente verso un caseggiato dal cui camino usciva lento e incessante del fumo grigio. Avevo paura e molto freddo. Un agente SS mi indicò la strada obbligata verso una specie di casa, poco più che una baracca. Io e gli altri ragazzi, tutti dagli 11 ai 14 anni, vi entrammo: il luogo in cui avremmo dovuto dormire era una stanza di circa 6 metri per 4, con letti insufficienti per tutti. Più persone erano stipate sulla tavole di legno, tante erano accasciate per terra. Non c’erano latrine, nè un secchio in cui fare i nostri bisogni. Al campo si moriva. Si moriva di stanchezza, di fame, di malattia o di tutte le cose insieme. I cavaderi venivano eliminati nei forni crematori e la cenere usata poi come fertilizzante. Nelle camere a gas veniva sterminata, giorno dopo giorno, una massa inerte di persone. Di giorno si lavorava in fabbrica alla produzione di armi. Ero stanco, avevo fame, avevo paura. Non sentivo più la mancanza di nulla. Non mi mancavano i familiari, nè gli amici di un tempo. Con il trasferimento al campo era iniziata un’esperienza di solitudine che sopportavo perché, da ebreo qual ero, ero stato educato a lavorare e ad accettare la mia vita come essa era. Ma con Giosafat era diverso. Eravamo amici ed eravamo talmente simili da sembrare identici: Giosafat era un ragazzo della mia età, alto e magro come me e il codice che portava impresso sull’avambraccio era pressochè identico al mio. Il tempo passava e, alla stanchezza e alla magrezza, allo sconforto si aggiunse l’inquietante consapevolezza che, uno dopo l’altro, i sparivano nel nulla. Le SS, temendo la fuga, avevano rinforzato le cercavano ovunque, sguinzagliavano i cani, ci interrogavano. sparivano senza lasciare traccia, come inghiottiti da una… cosa. e alla disperazione, ragazzi del campo misure di sicurezza Niente: i ragazzi Mi decisi a parlarne con gli altri della baracca: “Ascoltatemi.. Ogni mese qualche ragazzo sparisce nel nulla. Qualcuno… qualcosa… mira a noi ragazzi. Io penso che, solo restando uniti e insieme, salveremo la pelle. Mentre consolavo i più piccoli in preda al panico, io stesso mi facevo sopraffare dalla paura. Comunque andasse, il nostro destino era segnato e la morte ci avrebbe colti, la morte nella camera a gas o quella, misteriosa, causata da chissà quale cosa oscura. Un vulcano di paura ribollente eruttava dentro di me. I ragazzi continuavano a sparire e noi cercavamo di stare insieme e di rimanere uniti. 1 Morosini Irene, Festini Leonardo, Dirane Inasse, Finazzi Mattia 3^C Quel giorno Giosafat e io avevamo finito di lavorare; stanchi e ghiacciati ci accodammo, scodella in mano, alla lunga fila dei prigionieri in attesa della solita brodosa poltiglia di avanzi che era l’unico cibo del campo. Mi giro … e lui non c’è più, Giosafat non c’è più! Le gambe tremano, vedo tutto nero. Corro, corro, corro alla ricerca di Giosafat, non può essere lontano! Sento urlare il mio nome “Chalom, fermati!”, ma non mi fermo, non mi fermo. Eccolo! E’ lui, è Giosafat… trascinato via da… una massa scura, informe.. Per l’ultima volta i miei occhi incrociano i suoi, per l’ultima volta sento la sua voce: “Chalom, stai attento, state più uniti, toccherà a t… -” . Dovunque Giosafat stesse andando, l’avrei raggiunto presto. 2