Impresa e Consumerismo - Università degli Studi di Milano
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Impresa e Consumerismo: la comunicazione consumeristica Aldo Spranzi Working Paper n.20.2001 – dicembre Dipartimento di Economia Politica e Aziendale Università degli Studi di Milano via Conservatorio, 7 20122 Milano tel. ++39/02/76074534 fax ++39/02/76009695 E Mail: [email protected] Pubblicazione depositata presso gli Uffici Stampa della Procura della Repubblica e della Prefettura di Milano IMPRESA E CONSUMERISMO: LA COMUNICAZIONE CONSUMERISTICA Aldo Spranzi Parte prima: il consumerismo e l’impresa 1. Consumerismo e pseudo-consumerismo 2. Il consumerismo aziendale: una contraddizione in termini? 3. Consumerismo è sinonimo di innovazione primaria 4. Il consumerismo aziendale: fattore strategico o tattico? 5. Il consumerismo aziendale non figura nella letteratura sulla strategia d’impresa. Perche? 6. Per un cambiamento della cultura aziendale nei confronti del consumerismo 7. Il consumerismo aziendale esiste, e ha mostrato di essere per chi se ne serve un formidabile fattore di successo di lungo periodo. Il caso Leclerc e il caso dell’innovazione nel marketing dell’arte Parte seconda: la comunicazione di una strategia consumeristica 8. La comunicazione dell’impresa che ha adottato una strategia consumeristica 9. Comunicazione consumeristica e comunicazione trasgressiva: si assomigliano ma non sono parenti 1 Parte prima: il consumerismo e l’impresa 1. Consumerismo e pseudo-consumerismo Nella moderna economia l’efficienza dei mercati garantisce generalmente una effettiva sovranità del consumatore, che ingiustamente si considera intaccata dai diffusi fenomeni di consumismo, che sono in realtà espressione di libere scelte dei consumatori, quindi proprio della loro sovranità. In realtà esistono circostanze strutturali, poco visibili se non invisibili, che da posizioni remote insidiano in misura sostanziale quella sovranità del consumatore che certamente si può, con le dovute eccezioni, considerare realizzata se si trascurano i fattori strutturali ora evocati. Di cosa si tratta? Si tratta di inefficienze, rendite, distonie, di malformazioni strutturali situate a monte dei mercati sui quali le imprese operano, che possono impunemente operare e produrre i loro effetti perversi perché da un lato non vengono percepite dai consumatori, dall’altro sono protette da equilibri che nessuno ha interesse a mettere in discussione. Le protegge anche la convinzione, confusa ma forte, che si tratti di inevitabili inefficienze strutturali, non eliminabili perché situate a monte dei mercati, sui quali soltanto può utilmente esercitarsi lo sforzo di ottimizzazione; distonie inaccessibili all’azione del mercato, quindi solo eccezionalmente vulnerabili. Queste distonie occulte, intoccabili, mettono in discussione la sovranità del consumatore in modi e misure diversi da quanto fa l’inefficienza dei mercati, ivi inclusa la scarsa trasparenza e (ma si tratta di una circostanza sopravvalutata) la limitata razionalità del consumatore. Un esempio significativo può essere quello dell’impossibilità della massa dei consumatori di accedere all’arte a causa delle modalità di fruizione previste dalla cultura artistica ufficiale, di cui diremo più in dettaglio più avanti; un difetto strutturale riconducibile a un complesso di fattori remoti, e reso invulnerabile dalla situazione di rendita in cui opera l’industria culturale al riparo dalle insidie del mercato. Ciò posto, definiamo consumerismo quelle azioni, soprattutto se organizzate in politiche e strategie, con le quali si cerca di colpire le distonie situate a monte dei mercati, mirando in tal modo a modificazioni strutturali del sistema sociale - economico, giuridico, amministrativo, politico, culturale, eccetera - nel quale quelle distonie sono radicate, per produrre un miglioramento sostanziale della sovranità del consumatore. Gli agenti del consumerismo sono numerosi – agenzie governative, forze sociali quali i movimenti dei consumatori, forze politiche, eccetera. In questa sede interessano le azioni consumeristiche messe in atto dalle imprese per il perseguimento del profitto. Parleremo invece di pseudo-consumerismo per indicare quelle azioni volte solo apparentemente a modificare circostanze estranee ai mercati, in realtà semplici strumenti delle politiche di immagine attuate dalle imprese nei mercati in cui operano. Perché “pseudo-consumerismo”, perché questa dizione svalutativa con riferimento agli sforzi di migliorare la sovranità del consumatore nell’ambito o ai margini del funzionamento del mercato? Per il semplice motivo che si tratta di espedienti volti a migliorare l’immagine dell’impresa costruendo un look consumeristico, o fornendo servizi superflui imposti da processi di trading 2 up connessi al prevalere della non-price-competition. L’impresa finge di dare al consumatore – ai propri clienti o alla massa dei consumatori – qualcosa che non sarebbe tenuta a dare, come ad esempio l’educazione alimentare o le sponsorizzazioni culturali. Che così sia è dimostrato dal fatto che le imprese eccellenti si sottraggono a questo meccanismo Lasciamo dunque da parte lo pseudo-consumerismo e concentriamo l’attenzione sul consumerismo, su quelle azioni cioè che in caso di successo modificano in misura sostanziale la sovranità del consumatore, agendo su circostanze lontanissime dal mercato sul quale l’impresa opera. 2. Il consumerismo aziendale: una contraddizione in termini? Il consumerismo aziendale sembrerebbe essere una contraddizione in termini, dato che, secondo una percezione diffusa del fenomeno, solo o principalmente dall’azione delle imprese la sovranità del consumatore viene messa in pericolo. Nelle vesti di paladino della sovranità del consumatore l’impresa non riesce proprio a entrare. Non per nulla il termine consumerismo è generalmente associato a una difesa del consumatore dallo strapotere e da comportamenti scorretti delle imprese, a un atteggiamento ostile nei confronti dell’impresa. In realtà per vedere l’impresa nei panni del consumerismo è sufficiente configurare una convenienza economica che la spinga a svolgere un tale ruolo. Deve trattarsi, certo, di una convenienza particolarmente forte per indurla a spingersi lontanissimo dal proprio business, una prospettiva che le consenta di farvi ritorno ricca di vantaggi competitivi (sul mercato in cui opera) sostanziali e duraturi. 3. Consumerismo è sinonimo di innovazione primaria Per cogliere l’intima essenza del consumerismo bisogna aver presente che esso è sinonimo di innovazione primaria1: la scorreria dell’impresa fuori dal proprio ambito, fino a raggiungere mete lontanissime, è resa possibile dalla realizzazione di un’innovazione primaria - in grado per definizione di scardinare assetti strutturali fino a questo momento stabili – o dall’adozione di un’innovazione primaria concepita da altri, alla quale l’impresa dà attuazione. 4. Il consumerismo aziendale: fattore strategico o tattico? L’interrogativo posto è pleonastico: quanto detto in precedenza, la stessa definizione del fenomeno fanno del consumerismo un’azione genuinamente strategica. Si può dire, senza esagerare, che non esiste azione aziendale che sia – ci si passi l’espressione non proprio elegante – strategica quanto il consumerismo, più strategica del consumerismo. Il consumerismo, definito come sopra, ha in sé, nel massimo grado, tutti i requisiti che connotano un comportamento strategico. 1 Distinzione tra innovazione primaria e secondaria 3 5. Il consumerismo aziendale non figura nella letteratura sulla strategia d’impresa. Perché? Il consumerismo, dicevamo, rappresenta la frontiera più avanzata della strategia aziendale, la sua configurazione paradigmatica, la sua versione più audace, ma di esso i testi di strategia non parlano. Il caso Leclerc è un caso da manuale di strategia consumeristica, ma i manuali di strategia, che dovrebbero metterlo in tutta evidenza, lo ignorano. Perché? Si potrebbe rispondere che il consumerismo – anzi: la strategia consumeristica – sono ignorati perché non fanno parte della cultura dell’impresa; ma a una tale risposta dà sùbito il cambio un’altra domanda: perché la cultura d’impresa rifiuta – dato che di un rifiuto si tratta – di prendere in considerazione la prospettiva consumeristica? In fondo il consumerismo aziendale non è un fantasma: qualcuno, come Leclerc, l’ha fatto diventare realtà; una realtà che ha garantito a questo gruppo distributivo successi strepitosi per molti decenni. E dunque? La spiegazione più plausibile sta nel fatto che la cultura d’impresa è ripiegata sui mercati sui quali le imprese operano, e sul contesto – istituzionale, economico, ecc. – che condiziona quei mercati, mentre il consumerismo consiste in una ‘fuga’ da mercati e contesto di mercati, in una scorreria in spazi lontani, dalla quale però si fa ritorno al proprio mercato con elementi decisivi di successo competitivo. Una spiegazione aggiuntiva, e complementare, riguarda la rarità dei casi di innovazione primaria utilizzati in senso consumeristico da imprese. I casi sono pochissimi, erratici e soprattutto irripetibili. L’innovazione primaria è eccezionale, originale, discontinua, un unicum. Nei pochissimi casi in cui si manifesta rimane chiusa in se stessa, in si diffonde, perché l’innovazione primaria, per definizione, si sottrae ai meccanismi di diffusione tramite l’imitazione. Probabilmente – ma non abbiamo elementi empirici che suffraghino questa ipotesi – l’atteggiamento culturale del mondo delle imprese nei confronti del consumerismo è responsabile di una elevata mortalità di innovazioni primarie atte a essere utilizzate in senso consumeristico. In altri termini, un cambiamento nell’atteggiamento delle imprese farebbe aumentare la casistica, e imporrebbe un’attenzione che oggi manca del tutto. 6. Per un cambiamento della cultura aziendale nei confronti del consumerismo Ha senso proporre che la cultura d’impresa si apra al consumerismo considerato come un’opportunità strategica straricca di vantaggi competitivi duraturi e libera dalle insidie dell’imitazione? La casistica, si diceva è esigua, e composta da ‘pezzi unici’ che sembra siano stati donati alle imprese dal caso. Si tratta di vedere se un cambiamento nell’atteggiamento delle imprese – e degli studi di management che tramite la formazione su quell’atteggiamento influiscono – trasforma l’innovazione consumeristica in un meccanismo strategico che può essere costruito e padroneggiato dalle imprese e sottratto ai comportamenti erratici del caso. In secondo luogo bisogna rendersi conto pienamente della barriera altissima rappresentata dalla resistenza a uscire dal proprio business, e dal relativo contesto, per spostarsi su terreni estranei e lontanissimi, nei 4 quali vige una diversa professionalità. Una autentica rivoluzione culturale perché viene messa in discussione non tanto una generica inerzia ma la stessa identità culturale. Sul primo punto non è ardito affermare che, se appena l’impresa cambia il proprio atteggiamento, prende in considerazione e cerca di far proprie le opportunità strategiche offerte dal consumerismo, deve prendere atto che, proprio come avviene per le altre specie di innovazione strategica, esiste un ricco campionario di opportunità a disposizione delle imprese che sono in grado di coglierle. Se appena ci si guarda intorno, ci si accorge che la società è straordinariamente ricca di situazioni (a) pregiudizievoli per la sovranità del consumatore; (b) su cui è possibile intervenire con azioni di tipo consumeristico; (c) col risultato di far ritorno al proprio mercato con elementi che consentono vantaggi competitivi sostanziosi e duraturi. Per individuare le opportunità strategiche di tipo consumeristico non occorre poi sforzarsi così tanto: i vuoti creati dalle distonie strutturali da aggredire parlano, a volte urlano: si deve solo essere disposti ad ascoltare la loro voce. Inoltre, non solo si fanno sentire, ma indicano anche la strada per eliminarli: c’è una segnaletica, a volte vistosa, che può guidare alla meta. Ma occorre aprirsi a questa problematica, e attrezzarsi per capirla e per piegarla alle convenienze strategiche delle imprese. Non è tutto: si può dimostrare che le (pochissime) innovazioni consumeristiche realizzate sono prodighe di insegnamenti e di suggerimenti. Ciò nega il carattere casuale dell’innovazione consumeristica, che non viene dal Cielo ma può essere costruita in modi non molto dissimili da quelli con cui si costruiscono le altre strategie aziendali. Se vogliamo tenere in campo il Caso, possiamo dire che esso non è poi così anarchico: dobbiamo cercarlo, renderlo familiare e convincerlo a collaborare. Resta il punto cruciale dell’apertura al consumerismo da parte della cultura d’impresa. Spetta alla ricerca universitaria, con i suoi meccanismi di formazione manageriale, proporre al management delle imprese un’apertura al consumerismo, con adatti argomenti che non è difficile costruire, a partire da un esame approfondito della casistica esistente. Del resto una domanda imprenditoriale di consumerismo esiste, nel comparto ad esempio della cooperazione di consumo: per le imprese della cooperazione, che sono nate e possono competere solo in quanto realizzano una missione consumeristica, si tratta di un’esigenza vitale. Più in generale, la strategia consumeristica può diventare, nei comparti del largo consumo, il tratto dominante dell’eccellenza. 7. Il consumerismo aziendale esiste, e ha mostrato di essere per chi se ne serve un formidabile fattore di successo di lungo periodo. Il caso Leclerc e il caso dell’innovazione nel marketing dell’arte. Per teorizzare la strategia consumeristica è sufficiente analizzare a fondo pochi casi. Ne rammentiamo due: il primo è quello realizzato da Leclerc a partire dagli anni 50; il secondo riguarda un’innovazione primaria nel marketing dell’arte, che può essere adottata da una molteplicità di tipologie d’impresa. In quest’ultimo caso l’innovazione non è stata ancora 5 adottata da un’impresa, ma ai fini del chiarimento della problematica consumeristica è come se lo fosse stata. Sul ‘fenomeno Leclerc’, come viene definito, c’è un’ampia documentazione nella stampa specializzata della distribuzione commerciale, francese soprattutto. Si può inoltre vedere L. CHAVANE, Le phénomène Leclerc, Plon, Paris, 1986; M.E.LECLERC, La fronde des caddies, Plon, Paris, 1994. Sull’utilizzazione consumeristica dell’innovazione nel marketing dell’arte si veda A.SPRANZI, L’innovazione nel marketing dell’arte, Rapporti di ricerca di ‘Sinergie’, CUEIM, Verona, 2001. 6 Parte seconda La comunicazione di una strategia consumeristica 8. La comunicazione consumeristica dell’impresa che ha adottato una strategia Le strategie consumeristiche danno luogo a una comunicazione aziendale totalmente differente dalle forme di comunicazione relative a strategie non consumeristiche. Le peculiarità della comunicazione consumeristica sono numerose, e possono essere così sintetizzate: sono anzitutto dominate dalla trasgressività che connota la strategia consumeristica, intesa come denuncia e aggressione di una inefficienza o rendita gravemente lesive degli interessi dei consumatori, consentite dalla tacita accettazione di chi le potrebbe mettere in discussione. Il consumerismo è un comportamento trasgressivo perché l'impresa che lo attua esce dal proprio ruolo, entra in campi estranei al suo, alterando in certo senso in tal modo il gioco competitivo, anche se nell'interesse dei consumatori. Questa trasgressività che caratterizza la comunicazione consumeristica non ha nulla a che vedere, vedremo nel prossimo paragrafo, con la trasgressività di facciata diffusa soprattutto in alcune industrie. La trasgressività che caratterizza l'intima natura del consumerismo si traduce in una aggressività delle politiche di marketing che a sua volta si trasferisce nella comunicazione. Siamo di fronte dunque a una comunicazione caratterizzata non solo da una violenza eccezionale, a volte inaudita, ma soprattutto di natura diversa dall'aggressività delle politiche e della comunicazione non consumeristiche. Per capire questa differenza bisogna aver presente che l'aggressione consumeristica prende le mosse dalla denuncia di uno scandalo. Si può dire che la comunicazione consumeristica è 'scandalistica', se il termine non è usato in senso spregiativo. Va tenuto presente che l'aggressione consumeristica non ha mai per oggetto il comportamento delle imprese concorrenti, ma quello di industrie o istituzioni esterne all'ambito nel quale l'impresa opera. La comunicazione consumeristica è tutta volta a mettere in evidenza la battaglia intrapresa per la tutela degli interessi dei consumatori, lo scandalo sollevato, per dare l'immagine di un'impresa che si fa carico, al di là dei suoi compiti istituzionali, di interessi generali e sostanziali dei consumatori. Ma fondamentale è che il consumerismo paga se l'impresa che lo pratica è in grado di far sperimentare ai consumatori vantaggi concreti e non marginali prodotti dall'azione consumeristica. Un consumerismo che non sia propositivo e che non sia in grado di mostrare i frutti che produce, un consumerismo parolaio, è controproducente. Un altro connotato della comunicazione consumeristica, che discende dalla natura di questa strategia, è il suo respiro di lungo periodo. Se la strategia consumeristica ha successo, e l'impresa riesce a mantenerla viva e ad alimentarla nel lungo periodo, produce un forte impatto sulla massa dei consumatori, sull'opinione pubblica, perché lo scandalo suscitato si trasferisce sui media. Ciò significa che una parte consistente della comunicazione consumeristica è a costo zero per l'impresa. Un impatto straordinariamente forte con un costo di comunicazione eccezionalmente basso. Le battaglie consumeristiche di Leclerc 7 non necessitano di essere comunicate con la pubblicità perché sono tutti i giorni oggetto di notizia e di dibattito sui media, un dibattito interessante per i consumatori perché hanno per oggetto i loro concreti e immediati interessi. La comunicazione consumeristica non consente l'imitazione, per il semplice motivo che le battaglie consumeristiche non sono imitabili. Ciò significa maggiore efficacia e minor costo della comunicazione. 9. Comunicazione consumeristica assomigliano ma non sono parenti e comunicazione trasgressiva: si La trasgressività in campo economico ha tante facce e tanti significati. C'è anzitutto quella trasgressività che caratterizza la comunicazione di un'impresa che non ha alcuna pretesa di contestazione di valori e di situazioni strutturali sfavorevoli ai consumatori, ma che è solo evocatrice di uno stile spregiudicato di vita, di consumo, per uno scopo di differenziazione dell'immagine dell'impresa. E' significativo che trovi applicazione in settori, come quello della moda, nei quali c'è una grande sensibilità a elementi vagamente allusivi, genericamente simbolici. Tutt'altra cosa, abbiamo visto, anche dal punto di vista della comunicazione, la trasgressività rivoluzionaria del consumerismo. E' la contestazione puntuale, concreta, di un ordine che penalizza ingiustamente il consumatore, e che si accompagna alla proposta di un ordine nuovo che al consumatore rende giustizia. E' il marchio distintivo di un consumerismo non di facciata, nominale, che non contesta e non fa proposte. La trasgressività dura del consumerismo punta allo scandalo nella sua accezione più positiva; non è fastidiosa, o repellente, e stimola i consumatori a verificarne la giustezza. In certo senso accusa l'ordine che contesta di essere trasgressivo nei confronti di un ordine giusto, ritorcendo l'accusa dell'avversario. La trasgressività del consumerismo non è anarchica, né confusionaria, neanche generica: ha obiettivi precisi e concreti ed è dominata da una profonda positività. Perciò dal punto di vista della comunicazione la trasgressività del consumerismo dà luogo a messaggi di una violenza e di una efficacia inaudite, anche perché è in grado di dotare i propri messaggi di elementi di prova concreti che sottopone al giudizio dei consumatori.. La comunicazione trasgressiva che non appartiene al consumerismo è imitabile, costosa, ed esprime un modo di essere del conformismo. 8 La serie dei Working Papers del Dipartimento di Economia Politica e Aziendale può essere richiesta al seguente indirizzo: Sezione Working Papers - Dipartimento di Economia Politica e Aziendale - Università degli Studi di Milano, Via Conservatorio 7 - 20122 Milano - Italy - fax 39-02-76009695 - Email: [email protected]. A partire dal numero 98.01, i working papers sono scaricabili dal sito Internet del dipartimento, all’indirizzo: http://www.eco-dip.unimi.it/index1.htm The Working Paper Series of the Dipartimento di Economia Politica e Aziendale can be requested at the following address: Sezione Working Papers - Dipartimento di Economia Politica e Aziendale - Università degli Studi di Milano, Via Conservatorio 7 - 20122 Milano - Italy - fax 39-02-76009695 - Email: [email protected]. From number 98.01, working papers are downloadable from the Internet website of the Department at the following location: http://www.eco-dip.unimi.it/index1.htm Papers già pubblicati/Papers already published 94.01 - D. CHECCHI, La moderazione salariale negli anni 80 in Italia. Alcune ipotesi interpretative basate sul comportamento dei sindacati 94.02 - G. BARBA NAVARETTI, What Determines Intra-Industry Gaps in Technology? A Simple Theoretical Framework for the Analysis of Technological Capabilities in Developing Countries 94.03 - G. MARZI, Production, Prices and Wage-Profit Curves:An Evaluation of the Empirical Results 94.04 - D. CHECCHI, Capital Controls and Conflict of Interests 94.05 - I. VALSECCHI, Job Modelling and Incentive Design: a Preliminary Study 94.06 - M. FLORIO, Cost Benefit Analysis: a Research Agenda 94.07 - A. D’ISANTO, La scissione di società e le altre operazioni straordinarie: natura, presupposti economici e problematiche realizzative 94.08 - G. PIZZUTTO, Esistenza dell’ equilibrio economico generale: approcci alternativi 94.09 - M.FLORIO, Cost Benefit Analysis of Infrastructures in the Context of the EU Regional Policy 94.10 - D.CHECCHI - A. ICHINO - A. RUSTICHINI, Social Mobility and Efficiency - A Re-examination of the Problem of Intergenerational Mobility in Italy 94.11 - D.CHECCHI - G. RAMPA - L. 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