Oh, la mia bella adolescenza selvaggia!

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Oh, la mia bella adolescenza selvaggia!
5 Tracce di sé – L’autobiografia
Sibilla Aleramo
Oh la mia bella adolescenza selvaggia!
Nel romanzo Una donna, Sibilla Aleramo descrive una vicenda autobiografica: gli anni dell’adolescenza e della giovinezza, il matrimonio e la maternità, il formarsi di una consapevolezza e la
svolta radicale di vita che questa determina.
Nelle pagine che ti proponiamo l’autrice rievoca alcuni ricordi della sua «bella adolescenza selvaggia».
1. Finalmente respiro!: finalmente sono li-
bero, liberato da un’oppressione!
2. stringere i freni:
frenare, limitare le iniziative.
3. metodica: ordinata,
regolare, abitudinaria.
4. compensi materiali ragguardevoli: uno
stipendio consistente.
5. svaporavano: svanivano, andavano in
fumo.
6. Figgevo: fissavo intensamente.
Un mattino io mi chiedevo che risoluzione si sarebbe presa circa il
proseguimento dei miei studi, poi che avevo terminata la quinta classe, quando il babbo rientrò in casa un’ora prima del consueto, seguito dal fattorino dell’ufficio che portava una cassetta sulle spalle. Congedato l’uomo, mio padre mi alzò un istante fra le braccia fino al suo
viso, poi mi posò, e alla mamma che l’interrogava collo sguardo ansioso, disse: «È finita… ho troncato tutto. Finalmente respiro!1».
Da parecchio tempo i due soci si sopportavano a vicenda con sempre minor buona volontà. I due temperamenti opposti non riuscivano a conciliarsi, poiché l’uno provocava iniziative ardite, l’altro badava a stringere i freni2. Il babbo d’altronde si annoiava in quella vita d’ufficio, metodica3, che non gli dava neppure compensi materiali ragguardevoli4. Un piccolo incidente aveva, quel mattino, provocata una scena vivace fra i due cognati, decisiva.
A trentasei anni mio padre si trovava a ricominciare la vita per la seconda volta, e ancora per la sua sete di emozioni nuove e di indipendenza.
Quel mattino stesso uscì con me a passeggiare lungamente: il babbo
parlava, quasi a sé stesso; io sentivo il mio piccolo essere esaltarsi tacitamente. L’America, l’Australia… Oh, se veramente il babbo ci
portasse pel mondo! Egli accennava anche a probabilità meno avventurose: tornare all’insegnamento, impiantare qualche azienda;
ma sempre fuori di Milano. La città che fino a quel giorno avevo
amata, pur senza dirmelo, ora mi appariva insopportabile: chi sa
quali altri incanti mi attendevano altrove! E mi sembrava d’essere all’improvviso cresciuta d’anni e d’importanza. Non mi prendeva il
babbo forse a sua confidente? I progetti sul mio prossimo avvenire
di studentella svaporavano5. Forse avrei dovuto lavorare anch’io,
aiutar la famiglia… Figgevo6 in viso a mio padre gli occhi, nei quali
doveva correre una fiamma d’entusiasmo.
A casa, la mamma era invece come smarrita. Di che cosa temeva?
Era giovane anch’ella, più giovane del babbo; noi bambini eravamo
tutti sani e forti… Anche il babbo certo avrebbe voluto vederla più
ardimentosa!
Ella non apparve sollevata neppure qualche settimana dopo, allor-
Rosetta Zordan, Il quadrato magico, Fabbri Editori © 2004 RCS Libri S.p.A. - Divisione Education
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7. in una cittaduzza
del Mezzogiorno: in
una piccola città del
Meridione.
8. sedotto: conquistato.
9. Brianza: zona della
Lombardia, tra Monza
e il lago di Como.
10. alito salso: odore
salmastro, tipico dell’aria di mare.
11. rena: sabbia.
12. meriggio: le ore
nelle quali il sole è più
alto all’orizzonte e la
temperatura più calda.
13. che avevo eletta
a mio studiolo: che
avevo scelto come mia
piccola stanza da studio.
14. inveiva: rivolgeva
parole violente, ingiuriava.
15. luceva: brillava.
16. paranze: imbarcazioni da pesca costiera,
più larghe che lunghe.
ché un signore che voleva stabilire un’industria chimica in una cittaduzza del Mezzogiorno7 offrì la direzione dell’impresa a mio padre.
Certo, questi osava molto accettando un genere di lavoro al quale
era affatto nuovo. Ma il suo bel sorriso sicuro aveva sedotto8 il capitalista. Le condizioni dell’impiego erano ottime; il paese, laggiù, pieno di sole. Per qualche anno. Mio padre non amava guardare molto
innanzi nell’avvenire. Pel momento si sentiva felice del rischio.
E non curando i timori della mamma, decise la partenza per la primavera.
Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo che
per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che
cos’erano i prati verdi della Brianza9 e del Piemonte, le valli e anche
le Alpi intraviste ne’ miei primi anni, e i dolci laghi ed i bei giardini,
in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria?
Entrava ne’ miei polmoni avidi tutta quella libera aria, quell’alito salso10: io correvo sotto il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena11, e mi pareva ad ogni istante di essere per trasformarmi in
uno dei grandi uccelli bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte. Non somigliavo loro?
Oh la perfetta letizia di quell’estate! Oh la mia bella adolescenza
selvaggia!
Avevo dodici anni. Nel paese non esistevano scuole al disopra delle
elementari. Un maestro chiamato a darmi lezione fu presto congedato perché incapace d’insegnarmi più di quel che sapevo. Nelle ore
calde del meriggio12, sola nella stanzuccia della vasta casa, che avevo eletta a mio studiolo13, gettavo, ma senza entusiasmo, qualche occhiata sui grossi manuali di fisica e di botanica e sulle grammatiche
straniere datemi dal babbo; uscivo sull’alto balcone, guardavo giù
nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia o dinanzi al caffè,
qualche contadina oppressa da pesi inverosimili, qualche ragazzo
sudicio che inveiva14 contro qualche altro in un linguaggio sonoro
ed incomprensibile. In fondo alla piazza il mare luceva15. Due ore
avanti il tramonto si disegnavano, lontane lontane, le vele delle paranze16 di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si colorivano di rosso
e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il tumulto delle voci dei
pescatori giungeva spesso fino a me; distinguevo il grido ritmico di
quelli che traevano la barca alla riva.
Scendevo, mi recavo nel vasto recinto presso la strada ferrata, dove
lo stabilimento andava sorgendo con rapidità sorprendente e dove il
babbo passava quasi tutte le sue ore. Egli mi dava talvolta dei piccoli
ordini che eseguivo trepidando, con scrupolosa esattezza. «Mi aiu-
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17. si palesava: si ri-
velava.
18. compagno: marito.
19. mi si inanellavano: mi si arricciavano.
20. le donne dei maggiorenti: le mogli delle
persone influenti e importanti della città.
terai anche più tardi, quando tutto sarà sistemato; sarai la mia segretaria, vuoi?…» Lottava in me l’antica timidezza con un nuovissimo impulso di audacia indipendente. Forse il babbo voleva compensarmi dell’aver troncati gli studi. Una specie d’orgoglio anzi,
inavvertito, mi penetrava, la vaga coscienza di prender contatto colla vita, d’aver dinanzi uno spettacolo, più vario e più interessante
d’ogni libro.
Il babbo si palesava17 uomo di comando, inflessibile e onnipossente,
meraviglioso d’attività e d’energia. Quando certe sere, dopo il pranzo, uscivamo un po’ con lui, la mamma e noi figliuoli, per lo stradone maggiore del paese, la gente ci osservava dalle soglie con un misto di ammirazione e di timore. Trovavano alla mamma un viso da
madonna, e voci femminili le mormoravan dietro benedizioni per i
suoi bambini. Ella ringraziava col sorriso mite, piccola e fine nel vestito quasi dimesso. Mi sembrava contenta anche lei in quei momenti: era ne’ suoi occhi come una riverenza verso il compagno18 rivestito così d’un nuovo fascino.
Ricordo una mia fotografia dell’anno dopo. Ero già in fabbrica come impiegata regolare. Indossavo una giacchetta a taglio diritto, con
tanti taschini per l’orologio, la matita, il taccuino, sopra una gonnella corta. Sulla fronte mi si inanellavano19, tagliati corti, i capelli, dando alla fisionomia un’aria di ragazzo. Avevo sacrificata la mia bella
treccia dai riflessi dorati cedendo alla suggestione del babbo.
Quel mio bizzarro aspetto esprimeva perfettamente la mia condizione d’allora. Io non mi consideravo più una bimba, né pensavo di esser già una donnina: ero un individuo affaccendato e compreso dell’importanza della mia missione; mi ritenevo utile, e la cosa mi dava
un’illimitata compiacenza. In verità, portavo nell’esecuzione dei lavori che il babbo m’aveva assegnato una lealtà assoluta e una forte
passione. M’interessavo quanto lui alle piccole e grandi vicende dell’azienda, e, mentre non mi annoiavo allineando cifre per ore e ore
sui registri, mi divertivo come ad un giuoco stando fra gli operai, osservandoli nelle aspre fatiche e chiacchierando con loro durante
gl’intervalli di riposo.
La fabbrica diventava per me, come per lui, un essere gigantesco che
ci strappava ad ogni altra preoccupazione, che ci teneva perennemente accesa la fantasia e saldi i nervi, e si faceva amare; angolo di
vita vertiginosa, da cui eravamo soggiogati, mentre credevamo di esserne i dominatori.
Mia madre! Come, come ero così incurante a suo riguardo? Quasi
ella era scomparsa dalla mia vita. Io non riesco a determinare nella
mia memoria le fasi della lentissima decadenza avvenuta nella sua
persona dal nostro arrivo in paese. Ella non aveva saputo sin dai
primi giorni liberarsi da una certa timidezza che le impediva di andar sola o coi bimbi per la spiaggia o pei campi. Il paese non offriva
altri svaghi: le donne dei maggiorenti20 non uscivano quasi mai di ca-
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21. indolenti: pigre,
apatiche.
22. riparando la notte: mettendosi al riparo
di notte.
23. attingendone: ri-
cavandone.
24. tosto: subito.
sa, ignoranti, indolenti21 e superstiziose; le contadine lavoravano più
che i loro uomini; gran parte della popolazione viveva sul mare e del
mare, riparando la notte22 nelle catapecchie che si ammucchiavano
a cento metri dalla riva.
Neanche alla fabbrica la mamma s’interessava, attingendone23 motivi di distrazione. È vero che di questo ero quasi lieta, dicendomi che
ella forse non avrebbe visto di buon occhio le mie imprese. La sentivo, ancor più che a Milano, troppo diversa di gusti e di temperamento da mio padre, e per conseguenza da me. E anche sentivo,
confusamente, che questa differenza era sempre più la causa dei malumori che i miei genitori non riuscivano a nascondere. Ma non me
ne preoccupavo, o, per meglio dire, mi liberavo tosto24 dalle impressioni fastidiose senza cercar di approfondirle. Forse per un istintivo
timore di scoperte troppo gravi per la mia età.
(da Una donna, Feltrinelli, Milano, rid. e adatt.)
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