Investimenti in infrastrutture. Patto di stabilità
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Investimenti in infrastrutture. Patto di stabilità
CENTRO INTERUNIVERSITARIO PER LO STUDIO DELLA FINANZA REGIONALE E LOCALE UNIVERSITA’ CATTOLICA DI MILANO INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE Patto di Stabilità e Partnership Pubblico-Privata M. Flavia Ambrosanio, Massimo Bordignon, Federico Etro Milano, ottobre 2004 INDICE 1 2 3 BENEFICI ECONOMICI DEGLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE 1.1 Infrastrutture e produzione 1 1.2 Infrastrutture e crescita 4 1.3 L’evidenza empirica 7 1.4 Investimento pubblico e investimento privato in infrastrutture 8 INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE IN ITALIA E ALL’ESTERO: il quadro generale La misura della dotazione di infrastrutture 12 2.2 La dotazione infrastrutturale nelle regioni europee 15 2.3 La dotazione infrastrutturale nelle regioni e province italiane 21 2.4 Conclusioni 30 SPESA PER INVESTIMENTI E VINCOLO DI BILANCIO PUBBLICO Gli investimenti pubblici in Italia 33 33 3.2 Investimenti delle Amministrazioni Pubbliche in Italia per livelli di Governo e settore di intervento 38 3.3 43 Conclusioni l patto di stabilità interno ed il suo impatto sulla spesa per investimenti pubblici 44 4.1 Le origini del Patto in Italia e in Europa 44 4.2 Il Patto di stabilità interno in Italia 47 4.3 I risultati raggiunti 57 4.4 Conclusioni 64 5 LA PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATA: tipologie, esperienze internazionali e questioni teoriche 6 12 2.1 3.1 4 1 66 5.1 Sviluppo e diffusione della PPP 66 5.2 L’esperienza internazionale ed in particolare inglese 71 5.3 Vantaggi e limiti della PPP 73 5.4 Il rapporto fra investimenti pubblici diretti e PPP 82 5.5 Conclusioni 83 LA PPP IN ITALIA: normativa giuridica, esperienze settoriali e valutazione complessiva 6.1 Il quadro giuridico di riferimento 85 85 7 6.2 L’esperienza italiana di PPP 6.3 La PPP in Italia settore per settore 102 6.4 Conclusioni 107 Conclusioni 91 109 INTRODUZIONE Con il definitivo completamento del quadro normativo di riferimento, avvenuto nel 2002 a seguito di un processo decennale di revisione legislativa, le forme di patnership pubblico-privato nel nostro Paese, ed in particolare la finanza di progetto, hanno conosciuto uno sviluppo impressionate. Gli avvisi di gara sono più che raddoppiati dal 2002 al 2003 (da 600 a 1230) e sulla base delle prime stime potrebbero raddoppiare ancora nel 2004. In termini di importi complessivi, i progetti avviati sono passati dai 3,1 miliardi di Euro del 2002 ai 10,5 miliardi del 2003, e si stima che raggiungeranno i 18 miliardi di Euro nel 2004, anche se questi dati possono contenere qualche duplicazione. Naturalmente, ci vuole del tempo perché si passi dalla fase del progetto a quella della aggiudicazione; inoltre, non è detto che tutti i progetti vadano a buon fine. Tuttavia, dei 16,6 miliardi di Euro di progetti complessivamente approvati da gennaio del 2000 a giugno del 2003, si stima che progetti per ben 6,3 miliardi di Euro abbiano già raggiunto la fase esecutiva (OICE, 2003). Si tratta di cifre davvero notevoli, non solo in assoluto ma anche rispetto a ciò che devono finanziare. Per esempio, se tutti i progetti avviati nel 2003, in larghissima parte dagli enti territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni), andassero a buon fine, essi rappresenterebbero circa il 28% degli investimenti tradizionali complessivi delle Amministrazioni Pubbliche e circa il 43% di quelli delle sole Amministrazioni Locali. Ma forse ancora più sorprendente del valore dei progetti, è la distribuzione sul territorio. Dopo un periodo iniziale in cui i progetti, sia per numero che per importo, si sono concentrati nel Centro-Nord del Paese, a partire dal 2003 la finanza di progetto si è andata sviluppando a ritmi sempre più elevati al Sud. Dei circa 1100 avvisi di gara segnalati nei primi due trimestri del 2004, per esempio, oltre la metà si colloca nel Mezzogiorno; in termini di importi, le percentuali sono di circa il 30% nel Centro-Nord e il 70% nel Sud. Per numero di progetti presentati nel 2003 dai propri enti territoriali, la Campania è la prima regione italiana, seguita da Lombardia e Puglia; in termini di valore dei progetti, nello stesso anno, la prima regione è il Piemonte, ma la seconda è la Sicilia, con Puglia e Campania di nuovo nelle primissime posizioni. Ancora, in rapporto al Pil pro-capite, gli importi finanziati in project financing nel secondo trimestre del 2004 sono sei volte superiori al Sud che al Nord del Paese. Queste cifre suscitano naturalmente una serie di interrogativi, di natura concettuale, ma con riflessi assai concreti per la vita economica del Paese. Si è finalmente trovato con la patnership pubblico privato (PPP), e in particolare con la finanza di progetto, la soluzione ai problemi secolari di carenza di infrastrutture del Paese e in particolare del Mezzogiorno? Oppure lo straordinario sviluppo delle PPP rappresenta soltanto l’ultima disperata trovata di governi locali e nazionali, strozzati da scarsità di risorse, vincoli di bilancio stringenti e Patti di Stabilità interni e internazionali, per rispondere alla domanda dei propri cittadini? Quali sono esattamente i costi e i benefici della finanza di progetto? Esiste un rapporto di sostituibilità o di complementarietà tra investimenti pubblici tradizionali e le varie forme di PPP? Il presente lavoro si propone di rispondere a questi interrogativi, utilizzando a tal fine sia i risultati più recenti della letteratura teorica sia l’analisi approfondita dell’esperienza internazionale e nazionale sulle PPP. Alla ricerca di ipotesi esplicative, il lavoro analizza in I dettaglio anche l’evoluzione degli investimenti pubblici nell’ultimo ventennio e illustra la storia del Patto di Stabilità Interno, introdotto nel nostro Paese a partire dal 1999, inquadrandola nel contesto europeo. Per rispondere alla domanda sull’effettiva capacità delle forme di PPP di incentivare la crescita del Paese attraverso il volano degli investimenti in opere pubbliche, il lavoro discute anche delle relazioni tra dotazioni di infrastrutture, livello del reddito e crescita del reddito, alla luce della ricerca teorica ed empirica più avanzata. Infine, sempre allo scopo di mettere nel giusto contesto la discussione sulle PPP, il lavoro illustra e discute i dati relativi alle stime della carenza di infrastrutture del Paese, sia rispetto ai più avanzati partner europei, sia sotto il profilo della sua articolazione interna, tra le diverse regioni d’Italia. In estrema sintesi, i risultati della ricerca possono essere sintetizzati come segue. Non è vero che sia in atto una vera e propria crisi degli investimenti pubblici nel nostro Paese, in particolare tra le Amministrazioni locali, nel senso che queste non sarebbero più in grado di finanziare le opere pubbliche per scarsità di risorse o vincoli sull’indebitamento. Una crisi vi è stata, attorno alla metà degli anni ’90, ma essa è stata superata negli anni successivi. Non è neanche vero che il Patto di Stabilità Interno, introdotto per coinvolgere direttamente gli enti territoriali nel processo di riequilibrio finanziario disegnato dal Patto di Stabilità e Crescita europeo, abbia determinato una caduta dei loro investimenti. Almeno finora, in parte per scelta deliberata del legislatore, in parte per insufficienze nel sistema di monitoraggio e nel meccansimo sanzionatorio, il Patto di Stabilità Interno, nelle sue diverse formulazioni, ha imbrigliato la spesa corrente degli enti locali, ma non ne ha limitato la capacità di indebitarsi per finanziare investimenti. È tuttavia vero che uno dei grandi vantaggi delle forme di PPP in generale, e della finanza di progetto in particolare, è che esse consentono di posticipare flussi di spese (o mancate entrate) al futuro. Per il modo con cui sono costruiti i bilanci pubblici, ciò rappresenta un indubbio sollievo per le finanze, un vantaggio apprezzato dai Governi di tutto il mondo e di tutti i livelli. Questo vantaggio è però puramente contabile e non esisterebbe se la contabilità pubblica fosse organizzata diversamente. Il risparmio di risorse non rappresenta dunque il vero beneficio economico della PPP, ma piuttosto una delle ragioni pratiche per cui queste forme di investimento sono diventate così popolari. Il reale beneficio economico delle PPP non sta neanche nelle loro presunta capacità di finanziare le opere pubbliche a costo più basso della tradizionale emissione di debito pubblico. Al contrario, soprattutto laddove i mercati finanziari sono poco sviluppati come nel caso italiano, è più probabile che la tradizionale forma di finanziamento tramite indebitamento sia di gran lunga la meno costosa. Il vero grande vantaggio economico delle PPP, rispetto alla forme tradizionali di investimento pubblico, consiste nei diversi incentivi che esse offrono agli operatori privati per innovare e ridurre i costi sia della produzione sia della gestione del servizio. Per ragioni complesse, ma sostanzialmente legate all’incompletezza dei contratti, un operatore pubblico non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad innovare per abbattere i costi del progetto, sia nella fase della costruzione sia nella fase della gestione del servizio. Su questo punto, l’evidenza empirica internazionale è robustissima. Ma questo stesso vantaggio comporta dei rischi. Gli stessi incentivi che spingono il settore privato a innovare per ridurre i costi, possono condurlo a innovare per ridurre la qualità dei servizi. Inoltre, non tutto può essere affidato alla PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni dei mercati dei capitali, il settore privato tende a II selezionare solo i progetti caratterizzati da basso grado di rischio e rendimenti sufficientemente rapidi. Questi aspetti sono confermati, oltre che dall’evidenza empirica internazionale, anche dalla nostra analisi sugli sviluppi della PPP in Italia. Per quanto i dati disponibili coprano un arco temporale troppo breve per consentire conclusioni certe, emerge che la maggior parte dei progetti si concentra nei settori dei servizi sociali e territoriali, piuttosto che nel comparto dei servizi economici e a rete. In genere, cioè, in quei campi, dove i progetti hanno bassi rischi e rapidi ritorni. Gli investimenti pubblici di maggiore sostegno alla crescita economica hanno invece la caratteristica di essere caratterizzati da maggiore incertezza, richiedono più lunghi periodi di tempo, producono rilevanti esternalità positive, non catturabili da sistemi di tariffazione. In questo settore, un ruolo fondamentale deve essere ancora giocato dagli investimenti pubblici tradizionali. In conclusione, le diverse forme di PPP non sono né un mero trucco contabile né la panacea di tutti i mali. Appaiono un utile strumento alternativo di finanziamento per alcune categorie di opere pubbliche, che, se ben organizzato in fase di formulazione del bando di gara e di assegnazione delle opere, è capace di condurre a robusti guadagni di efficienza e di riduzione nei costi. In questo senso, libera risorse preziose per l’operatore pubblico. È importante tuttavia che queste risorse non vengano sprecate, ma investite in quelle opere, spesso le più vantaggiose per la crescita, a cui la PPP non si presta. La ricerca è organizzata come segue. Il capitolo 1 discute la teoria economica e l’evidenza empirica relativa ai rapporti tra dotazione di infrastrutture, livello del reddito e crescita del reddito. Dimostra che c’è qualche sostegno teorico ed empirico all’ipotesi che una più elevata dotazione infrastrutturale sia correlata positivamente non solo con il livello del reddito, ma anche con il tasso di crescita del reddito stesso, anche se questa relazione dovrebbe essere verificata nella pratica caso per caso. Il capitolo 2 contiene un’analisi della dotazione di infrastrutture del nostro Paese, con riferimento sia alla situazione interna sia al contesto internazionale. Sulla base degli studi disponibili, dimostra che il Paese presenta un gap strutturale, ancora più accentuato se misurato rispetto al reddito procapite, rispetto ai principali Paesi europei. Il gap strutturale è ancora più marcato all’interno del Paese, con le regioni del Centro- Nord e il Lazio caratterizzate da dotazioni paragonabili a quelle medie europee, e le regioni del Sud, caratterizzate da livelli di infrastrutture ben più bassi. Inoltre, mentre il divario nei confronti degli altri Paesi tende a ridursi nell’ultimo decennio, non altrettanto vale per il gap interno tra le diverse regioni. Il capitolo 3 illustra l’evoluzione della spesa pubblica per investimenti nel lungo periodo, in Italia (con qualche confronto con il resto dell’Europa), soprattutto con riferimento all’aggregato delle Amministrazioni Pubbliche, quando possibile, anche al più ampio aggregato del Settore Pubblico Allargato. Mostra che nella prima metà degli anni ’90 si è manifestata una crisi degli investimenti pubblici, dovuta anche alle manovre di riequilibrio dei conti pubblici, poi III superata negli anni successivi. I primi anni 2000 registrano una crescita, sia pure non elevata, degli investimenti pubblici e vedono confermato il ruolo trainante delle Amministrazioni Locali, che erogano circa il 75% delle spese d’investimento complessive delle Amministrazioni Pubbliche. Il capitolo 4 discute ed illustra in dettaglio la storia del Patto di Stabilità Interno in Italia, per tutti i livelli di governo territoriali, ed offre un confronto con le analoghe esperienze estere. Dimostra che per volontà esplicita del legislatore, ma anche per la non corretta applicazione dei meccansimi sanzionatori, il PSI ha, almeno finora, scarsamente influenzato la capacità di Comuni, Province e Regioni di finanziare la propria spesa per investimenti con strumenti tradizionali, come il debito. Il capitolo 5 è dedicato ad uno studio approfondito delle diverse forme di PPP. Parte da una tassonomia, discute le principali esperienze internazionali e utilizza la letteratura teorica ed empirica, per fare il quadro più esuriente possibile dei vantaggi e degli svantaggi potenziali della PPP. Le conclusioni gettano una luce diversa su alcuni aspetti che generalmente si associano alla PPP. Il capitolo 6 illustra e discute l’esperienza italiana nel campo delle PPP ed in particolare della finanza di progetto. Ricostruisce l’evoluzione legislativa nel settore, comparandola al quadro normativo degli altri Paesi. Analizza e rielabora i dati sul project financing messi a disposizione dall’Osservatorio Italiano sul Project Financing, al fine di fornire un quadro quantitativo sintetico del fenomeno. Particolare attenzione è rivolta anche alla distribuzione dei progetti per settori di intervento e per aree geografiche. Il capitolo si chiude con un’analisi puntuale di alcuni dei case study più significativi. Il capitolo 7 presenta infine le conclusioni della ricerca. Riprende le domande fondamentali qui sollevate e utilizza i risultati della ricerca stessa per motivarne le risposte. Esso contiene anche qualche sguardo aggiuntivo ai dati e alle informazioni disponibili. IV 1 BENEFICI ECONOMICI DEGLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE Questo capitolo ha l’obiettivo di presentare una breve rassegna della letteratura economica sul ruolo degli investimenti pubblici per lo sviluppo. Studieremo le principali analisi teoriche della relazione fra investimenti in infrastrutture, sia in un’ottica statica che dinamica e le stime empiriche di tali relazioni in un ottica macroeconomica internazionale. Cercheremo di individuare sotto che condizioni l’investimento in infrastrutture abbia effetti positivi e possibilmente anche quale dovrebbe essere il livello di investimento ottimale per favorire lo sviluppo. I risultati teorici ed empirici qui raggiunti saranno alla base delle successive discussioni sul gap infra-strutturale e sull’evoluzione dell’investimento pubblico in infrastrutture in un contesto internazionale. Il capitolo sintetizza anche le principali proposizioni della letteratura in merito alla scelta fra investimento pubblico e privato in diversi contesti e con particolare riferimento a forme di Public Private Partnership, PPP. In questo caso sono le modalità attraverso le quali l’investimento ha luogo che possono garantire maggiori o minori benefici dallo stesso. Le indicazioni teoriche in merito saranno poi riprese nella successiva analisi sulle forme di partenariato pubblico-privato in Italia e all’estero. 1.1 Infrastrutture e produzione L’investimento in infrastrutture è finalizzato a favorire il progresso economico attraverso l’aumento della produttività dei fattori di produzione e la promozione della crescita. Creare una rete di comunicazione riduce i costi di trasporto e facilita gli scambi, migliorare i servizi pubblici accompagna lo sviluppo industriale e in molti casi promuove la propensione a esportare. Siccome questi fattori costituiscono dei beni pubblici, la loro produzione è tradizionalmente demandata, almeno nell’organizzazione, ma spesso anche nell’esecuzione, al settore pubblico. Gli investimenti pubblici hanno tuttavia un costo (un costo opportunità nella logica economica); il livello ottimale di investimento deve dunque bilanciare i benefici con i costi presenti e futuri. Per valutare questo livello, è importante studiare i meccanismi che diffondono i guadagni sociali ottenuti grazie alle infrastrutture in termini di creazione di reddito e di crescita futura e tentare di valutarli empiricamente. Come punto di partenza, si consideri una prospettiva statica in cui solo la dotazione di infrastrutture pubbliche, cioè lo stock di capitale pubblico1 (e non la sua evoluzione nel tempo), conta per la crescita. Più avanti considereremo il processo di accumulazione del capitale pubblico e la sua relazione con la sviluppo dell’economia. In una prospettiva statica, la dotazione di infrastrutture aumenta la produttività marginale del capitale privato e del lavoro, i principali fattori di produzione. Sia Y la produzione di un’economia dotata di infrastrutture G, stock di capitale K e quantità di lavoro L. Questi tre input aggregati possono essere visti come 1 In questo capitolo dotazione infrastrutturale e stock di capitale pubblico sono considerati come sinonimi. 1 i fattori che permettono di sostenere il livello di produzione secondo una particolare funzione di produzione aggregata. Assumendo una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas, si ottiene la relazione: Y = AK α L1−α G β con A produttività totale dei fattori, mentre α e β sono due coefficienti che mettono in relazione inputs e output. Chiaramente, un maggiore livello di infrastrutture accresce la produzione e la produttività marginale di entrambi i fattori ovvero, se i mercati del credito e del lavoro sono approssimativamente competitivi, accresce salari e redditi da capitale. Dalla espressione precedente, si possono ricavare facilmente le elasticità della produzione rispetto ai fattori di produzione ed anche al livello di infrastrutture. Basta prendere i logaritmi della funzione di produzione per ottenere: log Y = log A + α log K + (1 − α) log L + β log G La stima di questo tipo di relazione nella letteratura empirica è assai comune, benché non priva di problematiche econometriche relative all’ipotesi di funzione Cobb-Douglas, alla non stazionarietà delle serie, all’indeterminatezza della relazione causale fra capitale privato e infrastrutture e così via. I risultati mostrano tuttavia che la correlazione fra produzione e infrastrutture è positiva e robusta, sebbene le stime puntuali possono essere diverse a seconda della metodologia e del campione utilizzati. Per esempio, ECOTER (2001) stima la correlazione fra dotazione infrastrutturale e PIL pro capite in 0,57 per l’Italia, 0,67 per la Germania, 0,59 per la Spagna, 0,89 per la Francia e 0,25 per il Regno Unito, con una media tra paesi di 0,49.2 Aschauer (1989) ottiene β = 0,39 per gli USA, Munnell (1993) β = 0,34 , mentre altre studi sempre per gli USA tendono a produrre stime più basse. Evans e Karras (1994) ottengono un elasticità complessiva del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale di β = 0,18 per un gruppo di paesi sviluppati. In un’analisi più accurata e recente su 22 paesi OCSE, Kamps (2004a) ottiene un’elasticità media di 0,22 (con un valore di 0,15 per l’Italia e di 0,79 per gli USA). Kamps (2004b) sviluppa un’analisi dinamica più avanzata (con metodologia VAR) ottenendo elasticità di lungo periodo assai variabili da paese a paese (con un valore di 0,33 per gli USA). Simili risultati sono ottenuti adottando funzioni di produzione più complesse della CobbDouglas come la translog. Le stime tendono a scendere se l’analisi viene sviluppata in contesti regionali piuttosto che nazionali. Riassumendo i risultati di questi studi, un valore ragionevole della elasticità del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale è attorno a β = 1 / 6 . Risultato 1. Il valore medio fra le numerose stime effettuate per l’elasticità del reddito alla dotazione di infrastrutture si aggira attorno a 1/6. 2 ECOTER (2001): l’indice di dotazione infrastrutturale è quello discusso nel capitolo successivo, il PIL pro capite si riferisce al 1995. Inoltre la correlazione media fra la dotazione di infrastrutture ed il valore aggiunto industriale per unità di superificie, che misura il grado di diffusione e competitività delle attività industriali, arriva fino allo 0,89. Cfr Biehl (1994) e Confindustria-ECOTER (1998). 2 Per capire le implicazioni di questa stima, questo significa che, per esempio, una regione povera potrebbe colmare un differenziale di reddito del 17% rispetto a una ricca semplicemente raddoppiando la propria dotazione infrastrutturale. Fin qui si sono trascurati i costi degli investimenti in infrastrutture. Nella nostra semplice ottica statica, si immagini adesso che la dotazione di infrastrutture sia finanziata attraverso la tassazione. Supponendo che la spesa per infrastrutture sia pari alla frazione t del reddito, il vincolo di bilancio del governo implica: G = tY Sostituendo nella funzione di produzione e risolvendo per il reddito netto della società, y=Y(1-t), che corrisponde al consumo potenziale ed è quindi un’ utile misura per valutare il benessere sociale, si ottiene facilmente: [ y = AK α L1−α t β ] 1 /(1− β ) (1 − t ) L’equazione mostra la presenza di una relazione a U invertita nella spesa per investimenti quale frazione del reddito. Quando questa frazione t è troppo bassa il consumo può essere aumentato innalzando il livello di infrastrutture, quando è troppo alta riducendolo. La massimizzazione del reddito netto rispetto a t ci fornisce l’ottimo livello di spesa in infrastrutture, ossia la frazione t * = β del reddito totale. Sulla base della stima β = 1 / 6 possiamo quindi trarre una conclusione suggestiva, per quanto assai rudimentale: sarebbe ottimale per la crescita destinare un sesto del reddito alla spesa in infrastrutture. Questo calcolo è assai rudimentale per vari motivi, il primo dei quali è che le imposte introducono distorsioni nell’economia e creano inefficienze di cui non abbiamo tenuto conto. Per continuare la nostra analisi, immaginiamo quindi che proprio a causa di queste inefficienze convenga ridurre ulteriormente l’investimento in infrastrutture e la tassazione ad esso connessa, diciamo al 10% del reddito. In conclusione abbiamo un secondo risultato assai rudimentale ma in qualche modo suggestivo: Risultato 2. Tenendo conto dell’elasticità del reddito rispetto alla dotazione di infrastrutture pari a 1/6 e delle distorsioni introdotte dalle imposte, il livello ottimale di investimento pubblico si aggira attorno al 10% del reddito. Come vedremo nei prossimi capitoli, l’investimento pubblico è comunque sensibilmente inferiore in tutti i paesi occidentali. Tuttavia nella nostra analisi teorica non abbiamo finora considerato la dimensione temporale: l’investimento costruisce lo stock di capitale pubblico accumulandosi nel tempo. Possiamo farlo in modo assai semplice notando che la dotazione di infrastrutture nette evolve nel tempo a seconda del tasso di investimento e del deprezzamento del capitale già presente. Se Gt è lo stock di capitale nell’anno t, I t l’investimento in nuove infrastrutture pubbliche e 3 µ il tasso di deprezzamento (per semplicità assunto costante nel tempo), l’accumulazione di infrastrutture segue la regola: Gt +1 = Gt (1 − µ) + I t Ora la frazione di reddito destinata all’investimento pubblico in ogni periodo contribuisce a creare lo stock di capitale pubblico ( I = tY ). E’ chiaro che la dotazione di infrastrutture rimane costante solo quando l’investimento è costante e a un preciso livello, I = µG . Ciò implica che il rapporto ottimale fra capitale pubblico e reddito di una nazione è pari all’ottimo investimento in infrastrutture come frazione del reddito diviso per il tasso di deprezzamento, (G/Y) =(t/ µ) Ipotizzando µ = 4% (e ricordando il risultato 2) si otterrebbe un ottimo livello di capitale pubblico pari a una volta e mezza il reddito, ipotizzando µ = 10% lo stock ottimale pareggerebbe il reddito nazionale e così via. Nei prossimi capitoli vedremo come il rapporto capitale pubblico / PIL sia in realtà un po’ inferiore a queste stime in tutti i paesi occidentali. Ciò permette di trarre una terza conclusione: Risultato 3. Ipotizzando un tasso di deprezzamento del capitale pubblico pari al 4% e tenendo conto delle perdite di efficienza indotte dalle imposte, l’ottimo livello di infrastrutture si aggira attorno al 150% del reddito. L’analisi è ancora insoddisfacente perché non tiene propriamente conto degli effetti delle infrastrutture sulla crescita, di cui ci occuperemo nella prossima sezione. Abbiamo tuttavia fin qui evidenziato il principale trade-off nella scelta dell’investimento in infrastrutture: i benefici dell’aumento della produttività dei fattori contro i costi della tassazione necessaria a mantenere o a aumentare il livello di infrastrutture. 1.2 Infrastrutture e crescita Le infrastrutture pubbliche possono anche avere effetti permanenti sul tasso di crescita e non solo, come ipotizzato in precedenza, sul livello del reddito. In tal caso i loro benefici si moltiplicano. La teoria economica ha approfondito questi aspetti nell’ambito della letteratura sulla crescita endogena iniziata da Romer (1987, 1990) e Aghion e Howitt (1992). Questa letteratura studia i fattori principali che inducono tassi di crescita più elevati, quali il progresso tecnologico tramite innovazioni, l’accumulazione di capitale umano e quella di capitale pubblico.3 Quest’ultimo aspetto in particolare è stato enfatizzato per la prima volta da Barro (1990), il quale ha anche avviato un’ ampia ricerca empirica sulle determinanti della crescita in un contesto internazionale. Per enfatizzare gli effetti della dotazione infrastrutturale sulla crescita, possiamo di nuovo ricorrere alla semplice struttura dell’economia adottata finora. Anche lo stock di 3 Si vedano Aghion e Howitt (1998) e Barro e Sala-i-Martin (1995) per delle rassegne. 4 capitale privato evolve secondo una semplice regola di accumulazione (risalente a Solow (1956)): K t +1 = K t (1 − δ ) + sy t dove δ è il tasso di deprezzamento del capitale privato e l’ultimo termine rappresenta il risparmio privato, che in un’economia chiusa è anche pari all’investimento privato. Si è qui assunto semplicemente che il risparmio sia una frazione s del reddito al netto delle imposte. Sostituendo per y dalla funzione del reddito netto già ricavata in precedenza, si può facilmente ottenere il tasso di crescita dell’economia. Questo risulta essere una funzione crescente del tasso di risparmio s e nuovamente risulta collegato all’investimento pubblico in infrastrutture t da una relazione a U invertita.4 Ciò fornisce diverse conclusioni. La prima è che anche in presenza di capitale pubblico, il tasso di crescita dell’economia si riduce durante il processo di sviluppo. Infatti il tasso di crescita è negativamente correlato con lo stock di capitale. Nel nostro contesto, ciò mostra che mentre l’economia cresce, lo stock di capitale cresce e l’investimento pubblico cresce, ma ciò riduce il tasso di crescita, fino a quando si raggiunge un cosiddetto stato stazionario senza crescita e con un livello costante di capitale pubblico e privato. La ragione per cui ciò accade è che mentre il capitale si accumula, la sua produttività marginale decresce fino a raggiungere un livello al quale l’investimento privato si limita a rimpiazzare il deprezzamento del capitale esistente. La seconda conclusione è che tanto maggiore è l’ elasticità complessiva del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale , β , tanto maggiori sono il tasso di crescita ed il livello di reddito raggiungibili nello stato stazionario. In terzo luogo, esistono circostanze particolari sotto le quali il tasso di crescita del reddito può rimanere positivo grazie alla dotazione infrastrutturale. Ciò succede in particolare quando l’ elasticità dell’prodotto rispetto alla dotazione infrastrutturale è abbastanza grande da raggiungere la frazione di reddito del fattore lavoro (ossia se β = 1 − α ). In tal caso la produttività marginale del capitale è così aumentata dalla dotazione infrastrutturale da rimanere costante nel lungo periodo e permettere alla crescita di autoalimentarsi. Empiricamente, si attribuisce al lavoro una remunerazione pari a due terzi del reddito mentre al capitale spetterebbe un terzo circa; con mercati dei fattori competitivi ciò significa che α = 1 \ 3 . Sotto tali condizioni, le stime relative all’ elasticità del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale ricordate in precedenza non garantirebbero la possibilità di una crescita sostenuta nel lungo periodo. Tuttavia, interpretando il capitale in senso esteso a includere anche il capitale umano, 4 Sostituendo la funzione del reddito netto già evidenziata si può facilmente ottenere il tasso di crescita dello stock di capitale, g t ≡ ( K t +1 − K t ) / K t , quale: [ g t = s AL1−α t β ] 1 /(1− β ) (1 − t ) K tα /(1− β ) − (1 + δ) α + β < 1 il tasso di crescita è negativamente correlato con lo stock di capitale ed è tanto maggiore quanto maggiore è β . Si noti infine che il tasso di crescita è massimizzato dalla stessa spesa per Se investimenti come frazione del reddito che massimizzava il consumo nell’ottica statica. 5 la stima empirica relativa alla sua remunerazione aumenterebbe5, avvicinandosi alla condizione necessaria a garantire una crescita continua. In pratica, se una larga fetta del reddito prodotto spetta a fattori di produzione accumulabili nel tempo, quali il capitale fisico (accumulabile con il risparmio) e il capitale umano (accumulabile con l’investimento in educazione), l’investimento in infrastrutture può generare crescita endogena tramite lo stimolo all’accumulazione di questi fattori. In altre parole l’investimento pubblico promuove quello privato sia in risparmi che in educazione. Infine, in tutti i casi, date le nostre ipotesi sulla funzione di produzione dell’economia, il livello ottimale di spesa per investimenti in percentuale sul reddito, definito come quello che massimizza il reddito di lungo periodo oppure il tasso di crescita (in caso che questo resti positivo anche nel lungo periodo per le ragioni già dette), resta lo stesso ottenuto in precedenza, nonostante siano qui presi in considerazione i benefici dell’investimento in infrastrutture sulla crescita nel lungo periodo. Possiamo riassumere questi risultati nel modo seguente: Risultato 4. Se una parte abbastanza grande del reddito spetta alla remunerazione del capitale privato e dell’investimento in capitale umano, l’investimento in infrastrutture può generare tassi di crescita positiva nel lungo periodo, che nel nostro modello è massimizzata con un investimento annuale attorno al 10% . L’analisi qui sviluppata è naturalmente assai semplificata, perché non si è tenuto conto di numerosi fattori. Senza entrare nel dettaglio, vale la pena di citarne i più importanti. Intanto, abbiamo assunto che l’investimento in infrastrutture sia costante nel tempo, mentre questo potrebbe essere variato durante il processo di crescita. In generale potrebbe convenire investire di più in infrastrutture pubbliche all’inizio del processo di crescita per aumentare più rapidamente la produttività dei fattori; tuttavia, ciò comporterebbe un minor reddito disponibile proprio nella fase in cui il reddito è più basso in termini assoluti. E’ chiaro che un’analisi di benessere in questo contesto richiederebbe un modello in grado di rispecchiare le conseguenze del processo di crescita sul reddito di generazioni successive. In secondo luogo, non abbiamo studiato attentamente l’interazione fra accumulazione di capitale privato e pubblico. Vi è la possibilità concreta che l’investimento pubblico spiazzi quello privato: nella realtà, capitale pubblico e privato non costituiscono due fattori di produzione concettualmente diversi e separati e vi è un’ampia sovrapposizione fra i due. In secondo luogo, da un punto di vista più teorico, l’interazione fra le due forme di capitale e la loro accumulazione può dare adito a fenomeni più complicati di quelli appena delineati, come ad esempio a fluttuazioni cicliche nei due stock di capitale. Per esempio, in una recessione pochi investimento in capitale pubblico possono essere finanziati, perché il reddito è basso. Ma in questo caso la produttività marginale del capitale è alta, il che promuove un forte investimento privato che genera a sua volta un’espansione dalle conseguenze opposte (cfr. Etro, 2003). In terzo luogo ci siamo limitati a considerare un capitale pubblico che costituisce un bene pubblico nazionale. In realtà, in un ambito internazionale, vi sono forti spillovers fra le 5 Parte dei redditi da lavoro, cioè, sarebbero in realtà remunerazioni per il capitale umano dei lavoratori. 6 nazioni e come è noto, la politica fiscale di investimenti pubblici ha una forte componente prosper-thy-neighbour, ovvero espansiva sia all’interno di un paese che all’estero. Ciò implica che i paesi tendono comunque ad effettuare troppo pochi investimenti pubblici perché non tengono conto degli effetti positivi che questi esercitano all’estero. Proprio per questo unioni internazionali promuovono il coordinamento delle politiche fiscali e anche degli investimenti pubblici (Alesina e Wacziarg, 1999).6 In quarto luogo, non si è tenuto conto del fatto che lo strumento di policy in esame, ovvero l’investimento in infrastrutture, è nella realtà il frutto di scelte politiche che non necessariamente combaciano con scelte ottimali, specie in presenza di conflitti generazionali come quelli sottesi ad investimenti di lungo periodo. In effetti, alcuni studi hanno enfatizzato come fattori politici e generazionali possano giustificare investimenti in infrastrutture diversi da quelli che sarebbero ottimali (cfr, Alesina e Rodrick, 1994, e Etro, 2003). 1.3 L’evidenza empirica L’evidenza empirica sulla relazione fra crescita e dotazione infrastrutturale si è ampliata notevolmente negli ultimi anni, sotto l’impulso dei primi lavori di Barro e Sala i Martin (1995). Negli anni ’90, questa ricerca empirica ha adottato strumenti tecnici sempre più sofisticati (regressioni semplici, a variabili strumentali, VAR), e campioni sempre più ampi (da pochi paesi occidentali a panel data su quasi tutti i paesi mondiali e talvolta anche su tutte le regioni) per mettere in evidenza la relazione fra crescita economica e un insieme di fattori che la possono determinare. I principali fattori studiati sono stati il reddito iniziale (che mostra un effetto negativo, testimone della convergenza del paesi poveri verso quelli ricchi), il capitale umano (effetto positivo), l’apertura al commercio internazionale (effetto positivo). Ma molti altri si sono rivelati importanti. Occorre anche sottolineare che inizialmente si è anche rivelato un forte effetto negativo della spesa pubblica sulla crescita (Barro e Sala i Martin, 1995), sebbene sia stato successivamente messo in evidenza che l’effetto è non lineare: positivo per bassi livelli di spesa pubblica e negativo per livelli più alti. Naturalmente, ciò conta poco per i nostri fini dato che l’investimento pubblico è solo una parte, generalmente assai limitata, della spesa pubblica. Non esistono a tutt’oggi analisi definitive sulla relazione fra crescita e infrastrutture. Il principale motivo risiede nella mancanza di dati adeguati. Come vedremo, esistono dati sugli stocks di capitale calcolati attraverso i flussi di investimento (il più recente e accurato è quello di Kamps, 2004a), ma sembrano poco attendibili, e in contrasto con informazioni qualitative sul livello di infrastrutture. Esistono anche indici qualitativi sulle dotazioni di capitale pubblico che pare riflettano meglio lo stock di infrastrutture. Utilizzandone uno, Calderon e Serven (2004) hanno fornito un’indicazione in merito all’esistenza di positivo e significativo effetto del livello di infrastrutture sul tasso di crescita di un’economia. Calderon e Serven costruiscono un indice qualitativo del tipo di quelli che studieremo nel prossimo capitolo e ne analizzano la correlazione con la crescita per un insieme di oltre 100 paesi nel periodo 1960-2000, tenendo conto di numerosi altri fattori fra cui (oltre a quelli tradizionali precedentemente ricordati), la qualità del sistema finanziario, il tasso di cambio, il 6 Ciò avviene, almeno in parte, anche nell’Unione Europea (con il programma dei Fondi Strutturali). 7 tasso di inflazione etc. Lo stock di infrastrutture risulta significativamente correlato alla crescita: la correlazione media risulta di 0,21 (si veda la Figura 1.1). Sebbene questi siano solo risultati preliminari, e vi siano notevoli problemi tecnici in questo tipo di analisi, è importante sottolineare che si comincia ad evidenziare un rapporto stretto fra infrastrutture e crescita anche dal punto di vista empirico. Figura 1.1 – Tasso di crescita e qualità delle infrastrutture Fonte: Calderon e Serven (2004) 1.4 Investimento pubblico e investimento privato in infrastrutture Una vasta letteratura ha studiato la scelta fra pubblico e privato in una prospettiva microeconomica. Se la tradizionale teoria sottolineava l’equivalenza fra un sistema di mercato e uno di comando e controllo in assenza di imperfezioni dei mercati e di piena informazione, le recenti teorie sulle asimmetrie informative e sui contratti incompleti hanno aperto nuovi campi di indagine per un confronto fra pubblico e privato. La letteratura ha soprattutto studiato la possibilità di privatizzare settori tradizionalmente sotto controllo pubblico, sostituendo alla produzione diretta pubblica quella privata, salvo regolamentarne l’attività a vario livello, specialmente nei rapporti coi consumatori. Un aspetto solo recentemente studiato riguarda invece l’outsorcing di attività precipuamente definite nell’ambito del settore pubblico a privati sotto specifici contratti: appalti per opere pubbliche, concessioni di gestione delle stesse o di servizi pubblici e forme di partenariato pubblico-privato (PPP) per entrambe le fasi di costruzione e gestione di un servizio pubblico. Le domande cruciali sono: quali sono i vantaggi e gli svantaggi che queste 8 nuove forme di collaborazione pubblico privato possono offrire rispetto alla tradizionale produzione pubblica? In quali settori possono svolgere un ruolo positivo? Solo di recente la teoria economica ha affrontato il tema della scelta fra investimento pubblico o privato in infrastrutture di interesse pubblico. Si consideri due possibili tipi di relazione fra governo e impresa per la creazione di un servizio o un’opera pubblica: un contratto fra un ente pubblico e un’impresa privata, o la proprietà pubblica diretta dell’impresa. Se i contratti sono completi (ovvero privi di opportunità di ri-negoziazione ex post e di fattori imprevedibili e non contrattabili) e non vi è asimmetria informativa (ovvero governo e imprese hanno le stesse informazioni), non vi è ragione di ritenere che una debba essere superiore all’altra; quello che si può ottenere con una delle due opzioni, la si può ottenere anche con l’altra.7 E’ proprio perché nella realtà contratti completi sono impossibili e le asimmetrie informative prevalenti che vi sono ampie ragioni perché una delle opzioni possa essere preferibile. In presenza di asimmetrie informative a favore di chi dirige l’impresa o i lavori pubblici, (Laffont e Tirole, 1993), in caso di delega ai privati occorre lasciare loro una rendita associata all’asimmetria informativa dovuta ad adverse selection (vi sono imprese più o meno efficienti e la loro efficienza è informazione privata) o moral hazard (le imprese assumono iniziative che migliorano i benefici netti dell’opera ma tali iniziative non possono essere controllate o specificate per contratto). Quando l’asimmetria informativa è molto rilevante può essere preferibile operare con investimento pubblico diretto, nonostante i possibili vantaggi del sistema privato. Sistemi di assegnazione delle opere ad asta possono rivelare parzialmente l’informazione privata, ma non sono generalmente in grado di risolvere il problema. Nel momento in cui i contratti sono incompleti, nel senso che ci sono circostanze non prevedibili o non interamente specificabili nel contratto oppure che ci siano situazioni ex post non verificabili da una terza parte (un giudice) e quindi non assoggettabili ad una contrattazione ex ante, allora il confronto fra le due opzioni diventa complesso. Hart, Shleifer and Vishny (1997), Shleifer (1998) e Hart (2002)8 hanno proposto la prima analisi teorica del partenariato pubblico-privato ispirandosi alla teoria dei contratti incompleti per l’analisi dell’integrazione verticale fra imprese (Grossman e Hart, 1986, Hart, 1990). Hart, Shleifer and Vishny (1997) basano la loro analisi sugli incentivi che le due diverse forme danno ad innovare aumentando la qualità della produzione e a ridurre i costi (con possibili conseguenze negative sulla qualità). Un manager pubblico che guida un investimento pubblico diretto ha pochi incentivi a fare entrambe le cose, dato che la propria remunerazione non ne dipende (sebbene il salario possa essere funzione in qualche misura dei risultati ottenuti, problemi di incompletezza contrattuale e di non misurabilità o verificabilità dei risultati rendono pressoché impossibile fare del manager pubblico il residual claimant dei propri sforzi) e può essere anche sostituito senza compenso per gli investimenti fatti. Innovazione qualitativa e riduzione dei costi sono dunque entrambi effettuati a livello sub-ottimale. Un’impresa privata deve comunque dividere il surplus creato con il settore pubblico in sede contrattuale cosicché ha forti incentivi a ridurre i costi e ha anche incentivi ad innovare, sebbene in misura inferiore a 7 Ad esempio, si è soliti ritenere che il servizio postale debba essere pubblico perché imprese private non troverebbero profittevole estenderlo ad aree remote e sperdute dove vi sono pochi clienti: in realtà il problema è risolvibile con contratti che prevedano l’obbligo di consegnare la posta ovunque, cosa che puntualmente avviene per imprese internazionali private di consegna postale. 8 Cfr. De Fraja (2002). 9 quanto sarebbe ottimale perché non riceve completamente i frutti dell’investimento. Ne segue che il confronto fra le due opzioni è ambiguo. Se i privati tendono a investire troppo in iniziative per ridurre i costi a scapito della qualità è preferibile l’intervento pubblico diretto, mentre se l’innovazione gioca un ruolo importante è preferibile la delega ai privati. Un esempio suggestivo concerne l’affidamento ai privati della costruzione e della gestione delle carceri (sebbene non vi siano esperienze simili in Italia, esse sono assai comuni in paesi anglosassoni come USA e Regno Unito). Empiricamente si nota che i privati sono assai più efficienti nella costruzione e nella riduzione dei costi nella gestione, tuttavia tendono a creare condizioni di vita assai peggiori per i carcerati9 a meno che vi sia un’attenta regolamentazione da parte del settore pubblico. Un secondo esempio concerne la raccolta dei rifiuti; per quel che riguarda la riduzione dei costi si osserva che essa è più importante ed in effetti assai più mirata se svolta da privati. Tuttavia, laddove vi sia anche un servizio di eliminazione dei rifiuti, la ricaduta ambientale di scelte poco costose ma inquinanti potrebbe essere drammatica e far propendere per il servizio pubblico. Un altro esempio assai discusso in USA dopo l’11 settembre 2001 concerne i servizi di sicurezza agli aeroporti, che sono stati tradizionalmente demandati ai privati: è chiaro che risparmi sui costi di controllo possono facilitare episodi drammatici di terrorismo. I settori forse di maggiore interesse per la delega ai privati riguardano i due beni privati più ampiamente forniti dal settore pubblico: scuole e ospedali, ovvero educazione e sanità. Sulla scuola esiste un acceso dibattito in molti paesi concernente la delega ai privati. Qui la qualità sembra essenziale e sistemi competitivi come quello americano (almeno a livello universitario) sembrano portare a livelli di qualità nettamente superiori e differenziati rispetto a sistemi prevalentemente pubblici e uniformati (generalmente verso il basso). Esistono però altre problematiche riguardanti distorsioni da parte del privato a favore dell’educazione dei ricchi (e talvolta dei ricchi meno dotati), oppure verso l’educazione di stampo religioso, che creano preoccupazioni in merito alla delega ai privati. Riguardo alla sanità, i ben noti problemi di asimmetria informativa fra paziente e medico suggeriscono l’intervento pubblico oppure la regolamentazione stretta; tuttavia, si tratta anche di un settore in cui sono assai importanti gli investimenti in innovazione e in riduzione dei costi, a cui il settore privato sembra più in grado di far fronte. Ci sono rischi importanti di riduzione di costi a scapito della qualità o altri fenomeni degeneri indotti dalla presenza dei privati (il dumping dei malati gravi sugli ospedali pubblici, per esempio), ma si sostiene spesso che la competizione fra ospedali privati e la reputazione possono ridurre gli incentivi a questi comportamenti, così da far propendere la bilancio a favore della delega ai privati. Hart (2002) estende il modello studiando più direttamente problemi di incompletezza contrattuale nella PPP. Confronta due diverse forme di PPP: un sistema con appalto per la costruzione e successiva concessione della gestione di un servizio pubblico; ed un sistema di concessione di entrambi i processi, costruzione e gestione. Nella fase di costruzione si possono fare due investimenti aggiuntivi con conseguenze nella fase di gestione: un investimento produttivo che aumenta i benefici sociali dell’opera e riduce i costi di gestione, ed un altro improduttivo che riduce i benefici sociali dell’opera ma anche i suoi costi. Questi 9 Costa molto meno circondare un carcere con reti elettriche ad alto voltaggio che utilizzare guardie attrezzate al fine di impedire la fuga dei prigionieri , ma ciò non è necessariamente ottimale da un punto di vista sociale (friggere i detenuti generalmente non rientra tra gli obiettivi perseguiti dal sistema carcerario). 10 investimenti non sono verificabili dal settore pubblico e quindi non possono essere specificati nel contratto di costruzione. Le due forme di PPP creano delle scelte inefficienti rispetto all’ottimo, che in generale implica un certo livello positivo dell’investimento produttivo e uno nullo dell’investimento improduttivo. In caso di appalti separati per la costruzione e la concessione, al momento dell’asta per la concessione della gestione il prezzo sarà uguale ai costi di gestione previsti. In precedenza, il costruttore che aveva vinto l’appalto avrà scelto ottimamente gli investimenti per massimizzare i propri profitti, ma siccome il contratto per ipotesi non poteva dipendere da quegli investimenti, il costruttore non fa né l’investimento improduttivo (il che è ottimale) né quello produttivo (il che è sub-ottimale). Nell’asta per l’appalto di costruzione si presume che il prezzo da corrispondere al costruttore sia uguale ai costi di costruzione, nella fattispecie privi di investimenti aggiuntivi. In caso di concessione sia della costruzione che della gestione, il costruttore che ha vinto la gara sceglierà investimenti aggiuntivi in modo da massimizzare i profitti di costruzione e gestione, per cui sceglierà un livello positivo di investimento produttivo, benché sub-ottimale in quanto non sono internalizzati i benefici sociali, ed un livello positivo anche dell’investimento improduttivo, il che risulta sub-ottimale. Si ha quindi un trade-off fra le due opzioni: troppo poco investimento produttivo nel primo caso e un po’ di più nel secondo caso ma con troppo investimento improduttivo. E’ chiaro che la separazione dell’appalto per la costruzione e concessione per la gestione è preferibile laddove la qualità della costruzione possa essere ben specificata e la qualità della gestione non possa esserlo: in tal caso un investimento produttivo sub-ottimale non così problematico quanto potrebbe esserlo un eccessivo investimento improduttivo: questo potrebbe essere il caso di scuole o prigioni. Laddove invece la qualità del servizio può essere ben specificata e quella della costruzione no, un investimento produttivo sub-ottimale è più preoccupante di un eccessivo investimento improduttivo e la concessione dell’intero processo in PPP è preferibile. Un ultimo problema teorico è legato alla rinegoziabilità dei contratti con le imprese. Si assuma che in caso di mancato rispetto dei vincoli di bilancio, il settore pubblico proprietario dell’impresa possa intervenire a sua difesa e che in caso di necessità sia ex post ottimale farlo. Sapendo ciò l’impresa pubblica adotterà forme di produzione meno efficienti, grazie alla garanzia prestata dal settore pubblico ed aumenterà la probabilità di insolvenza. In caso di privatizzazione, il settore ha meno incentivi ad aiutare ex post l’impresa anche perché può sempre affidarsi ad un’altra impresa e ciò riduce la tendenza a mettere in atto forme di produzione inefficienti. In altre parole in presenza di un soft budget constraint sotto investimento pubblico diretto, la delega ai privati induce un hard budget constraint che rafforza gli incentivi dell’impresa. 11 2 INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE IN ITALIA E ALL’ESTERO: IL QUADRO GENERALE Questo capitolo è dedicato ad un tentativo di valutazione, sulla base delle informazioni disponibili, del livello di infrastrutture pubbliche esistenti in Italia. Questo anche ai fini di un confronto con i principali paesi europei, allo scopo di verificare l’esistenza e l’entità del gap di infrastrutture a livello nazionale e, possibilmente, anche locale. In linea generale, è possibile distinguere tra due tipi di infrastrutture: • infrastrutture economiche, che si riferiscono alla dotazione di vero e proprio capitale fisico con ruolo di bene pubblico, come strade, ferrovie, porti, reti energetiche e di telecomunicazioni, e così via. Queste strutture hanno la caratteristica di essere utilizzate prevalentemente, anche se non esclusivamente da parte delle imprese; • infrastrutture sociali, che sono invece relative ai settori dell’istruzione, della sanità e dei servizi vari, che per lo più sono collegate allo sviluppo di capitale umano e sono di prevalente utilizzo delle famiglie. Nelle pagine che seguono si farà riferimento ad entrambe le tipologie, con un approccio di tipo quali-quantitativo alla misura delle infrastrutture. 2.1 La misura della dotazione di infrastrutture Misurare la dotazione di infrastrutture è un’operazione complessa sulla quale si è sviluppato un grande dibattito teorico ed empirico. Vi sono molti lavori relativi alla stima delle dotazioni di capitale e alcuni studiano in particolare la dotazione di infrastrutture pubbliche, ma non vi è consenso su quale sia il metodo migliore per affrontare il problema. È possibile tuttavia individuare due principali metodologie di valutazione: • una basata sul calcolo dello stock di capitale tramite il flusso di investimenti ed • una basata su un approccio quali-quantitativo. Entrambe presentano vantaggi e svantaggi. I metodi di valutazione dello stock di capitale derivano dalla teoria dell’accumulazione del capitale e sono stati impiegati soprattutto per calcolare lo stock di capitale fisico totale di un’economia, astraendo cioè dalla sua natura di investimento privato o pubblico. Ricorrendo alla notazione già introdotta nel capitolo precedente, se Gt è lo stock di capitale al tempo t, I t l’investimento e µ il tasso di deprezzamento (assunto costante nel tempo), la regola di accumulazione del capitale ci dice che: Gt +1 = Gt (1 − µ) + I t 12 Questa semplice equazione alle differenze può essere risolta a ritroso per ottenere lo stock di capitale corrente in funzione dei flussi di investimento precedenti: Gt = I t + I t −1 (1 − µ) + I t − 2 (1 − µ) 2 + ... = ∞ = ∑ I t − s (1 − µ) s s= 0 In teoria basterebbe quindi avere un’ipotesi realistica sul tasso di deprezzamento del capitale (stimato nella letteratura di solito fra il 3% ed il 10%) e disporre delle informazioni sui flussi annui di investimento per calcolare con buona approssimazione lo stock di capitale corrente. Nella pratica si assume solitamente uno stock di capitale pari a zero in un periodo iniziale sufficientemente lontano nel tempo e si ottiene una buona approssimazione dell’entità dello stock di capitale corrente. Kamps (2004a) ha fornito la più recente e accurata misura dello stock di capitale pubblico per i paesi occidentali, utlizzando questa metodologia. I risultati sono riportati nella Tabella 2.1. Tabella 2.1 - Rapporto capitale pubblico/PIL in 22 paesi dell’OCSE PAESI GIAPPONE NUOVA ZELANDA A USTRIA OLANDA SVIZZERA FRANCIA GRECIA ISLANDA NORVEGIA USA SPAGNA ITALIA FINLANDIA GERMANIA DANIMARCA PORTOGALLO SVEZIA REGNO UNITO A USTRALIA CANADA BELGIO IRLANDA MEDIA 1980 97,7 1990 95,7 2000 117,1 110,3 102,4 75,4 69,3 80,2 68,9 46,1 48,4 55,0 53,0 44,4 51,9 48,4 50,5 49,3 52,5 59,9 54,1 35,8 40,9 44,7 49,0 43,7 47,1 58,4 52,0 76,4 60,8 27,9 32,0 42,1 40,2 63,9 48,5 53,8 46,5 41,6 40,0 40,2 45,5 75,9 66,8 57,8 55,3 Fonte: Kamps (2004a) 76,6 57,0 56,4 54,7 54,0 51,0 50,7 50,5 50,0 48,0 47,9 47,0 47,0 45,9 43,3 42,0 40,3 40,0 38,4 37,9 35,2 51,4 13 In media lo stock di capitale pubblico costitutisce circa la metà del PIL nazionale; è superiore al PIL solo nel caso isolato del Giappone. L’Italia si attesta al di sotto della media, sebbene in leggero recupero nel ventennio in esame (dal 15° al 12° posto), ma in peggioramento tra il 1990 e il 2000. Tuttavia, la situazione del nostro Paese non sembra particolarmente arretrata, se confrontata con quella di altri importanti partner europei, quali la Germania e il Regno Unito. È però opportuno sottolineare i limiti di quest’analisi. Per quanto logicamente ineccepibile, il metodo utilizzato da Kamps presenta numerosi problemi, quando applicato al nostro contesto. Primo fra tutti, come si è già ricordato, quello della scelta del tasso di deprezzamento, che influisce in misura determinante sui risultati ed è comunque arbitraria. È, d’altra parte, vero che ai fini del confronto internazionale ciò che conta sono le differenze fra i diversi Paesi e non il problema della stima precisa dei valori assoluti. Più importante è il fatto che questo metodo si applica bene all’accumulazione di capitale privato in un’economia di mercato, molto meno bene all’accumulazione di capitale pubblico. Nel primo caso, infatti, l’accumulazione di capitale riflette le scelte di risparmio e investimento sulla base di un tasso di rendimento che rappresenta la produttività marginale del capitale e ciò induce ad una misura corretta dello stock di capitale. Ma nel secondo caso, vi sono spesso esternalità o fattori di produzione accumulabili diversi dal capitale fisico, come il capitale umano, e il tasso di rendimento di mercato non riflette necessariamente la produttività marginale effettiva del capitale. Ne discende che lo stock di capitale fisico così calcolato non rappresenta l’effettiva utilità sociale degli investimenti. Da un lato, infatti, il capitale umano aumenta il valore del capitale fisico in modo difficilmente quantificabile, dall’altro l’investimento pubblico in infrastrutture segue logiche diverse da quelle di mercato e crea esternalità difficilmente riassumibili in una misura puramente quantitativa dello stock di capitale fisico. Infine, in ogni caso, il metodo di Kamps ha il difetto di confondere quantità con qualità. In genere la quantità di investimenti effettuati non riflette la qualità delle dotazioni addizionali di infrastrutture. In teoria sarebbe anzi interessante ponderare i vari tipi di investimento per le esternalità che essi provocano, ma la mancanza di informazioni adeguate renderebbe in pratica questo esercizio ancora più arduo ed arbitrario. Per ovviare ai problemi appena discussi, si ricorre talvolta a misure quali-quantitative che analizzano tecnicamente il livello di infrastrutture e cercano di determinarne la rilevanza. Per esempio, per un’infrastruttura a rete come strade, autostrade e ferrovie si adotta solitamente un indice del tipo: Indice di Infrastruttura a Rete = ∑ Km i ⋅ ωi i Superficie Coperta dove i denota i vari tipi di qualità (ad esempio autostrade a due o tre corsie) il cui chilometraggio è pesato diversamente con ωi . Anche tali misure sono soggette a scelte arbitrarie, naturalmente, ma analizzando ogni singola componente delle infrastrutture separatamente, riescono comunque a dare un’idea più precisa del livello quali-quantitativo delle infrastrutture, rispetto all’approccio precedente. 14 Un forte limite di questo approccio risiede nella normalizzazione delle osservazioni rispetto a superficie e popolazione dell’area: nessuna normalizzazione è del tutta appropriata ed ogni indice risente dei vincoli territoriali. Ad esempio, una regione piccola e densamente popolata tende ad avere indici migliori di una regione grande e poco popolata, dato che nel secondo caso si richiedono maggiori investimenti e d’altra parte forse non è neanche necessaria una rete troppo fitta di infrastrutture. Un altro limite risiede nell’aggregazione di indici che si riferiscono a tipi diversi di infrastrutture, che non sono mai pienamente confrontabili. Il problema diventa però tanto meno rilevante da un punto di vista empirico quanto più numerosi sono i dati utilizzati e quanto più accurate sono le misurazioni. In questo capitolo, si è scelto di adottare l’approccio quali-quantitativo alla misurazione del livello infrastrutturale per determinare il gap strutturale, sia per le ragioni teoriche già discusse, sia perché esistono ottimi studi nazionali e internazionali che adottano questo approccio. In particolare, ECOTER (2001) calcola indicatori fisici di dotazione infrastrutturale, a livello nazionale e regionale per i principali Paesi europei nel 1985 e nel 1995, analizza il contributo offerto dalle infrastrutture ai processi di sviluppo dei sistemi territoriali italiani ed europei e individua indicatori qualitativi sul livello di servizio offerto dalle diverse tipologie infrastrutturali in esame. L’Istituto Guglielmo Tagliacarne (2002) fornisce un’analisi simile con dettagli anche a livello provinciale. 2.2 La dotazione infrastrutturale nelle regioni europee Le analisi quali-quantitative di ECOTER si focalizzano sulle cosiddette infrastrutture economiche, relative ai trasporti (rete ferroviaria e stradale, porti e aeroporti) all’energia (oleodotti, gasdotti ed elettricità) e alle telecomunicazioni, ma studiano anche alcune cosiddette infrastrutture sociali, relative ad esempio al settore dell’istruzione. Le stime si basano sui dati di Eurostat per Germania, Italia, Spagna, Francia e Regno Unito, relativi al 1985 e al 1995. Per ciascun tipo di infrastrutture, sono state considerate misurazioni di più componenti da pesare appropriatamente. Per esempio, per la rete stradale, è stato considerato il chilometraggio di strade statali e provinciali e autostrade, ponderato per l’ampiezza delle carreggiate e, trattandosi di infrastrutture a rete, si è considerato il rapporto con la superficie della regione o del Paese in esame. Per le ferrovie, si è tenuto conto della presenza di reti elettrificate o meno e a binario semplice o doppio. Per gli aeroporti, si è considerata la superficie delle piste; per i porti la lunghezza degli accosti, rapportata poi con la popolazione della regione o del Paese, dato che si tratta di infrastrutture puntuali. Per l’energia, il chilometraggio di elettrodotti (200/220 kv e a 380/400 kv opportunamente pesati in bade alla tensione), oleodotti e gasdotti è stato rapportato alla superficie. Infine, per l’istruzione si sono considerati gli studenti iscritti a scuole superiori di tipo professionale e gli studenti universitari per popolazione. Su questa base sono stati creati degli indici normalizzati ponendo pari a 100 la media dei cinque Paesi. I risultati principali sono mostrati nella Tabella 2.2. Nel 1985 il Paese leader era la Francia, soprattutto nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni, seguita dal Regno Unito, 15 leader nei trasporti (soprattutto stradali e aeroportuali), e dalla Germania, leader nell’istruzione. L’Italia e soprattutto la Spagna erano sensibilmente meno dotati. L’Italia restava nella media delle dotazioni degli altri Paesi nei trasporti e nell’istruzione ma era penalizzata da scarse dotazioni soprattutto nel settore dell’energia. Nell’arco di dieci anni il divario fra le nazioni si è ridotto; la Francia appare in arretramento relativo rispetto alla Germania (che segnala ottimi progressi nel settore dell’energia) e al Regno Unito (che presenta ottimi progressi nel settore dell’istruzione); l’Italia e la Spagna in netto miglioramento. Le rilevazioni del 1995 in particolare mostrano che l’Italia si mantiene ancora al di sotto della media di questi Paesi, ma con un indice aggregato di 95 (80,7 nel 1985), contro 117,9 per il Regno Unito, 115,9 per la Germania, 101,8 per la Francia e 71,4 per la Spagna. La Figura 2.1 mostra l’intensità della dotazione di infrastrutture nelle regioni europee. La Germania ha una dotazione elevata ed omogenea (superiore al 75% della media in tutte le sue regioni, nonostante alcune appartengano all’area dell’ex DDR). Il Regno Unito ha una elevata dotazione infrastrutturale ma meno omogenea. La dotazione francese è inferiore ma estremamente omogenea. La Spagna è il paese meno dotato di infrastrutture e come l’Italia è piuttosto disomogeneo, un punto su cui si tornerà in seguito. Tabella 2.2 - Indice infrastrutturale ECOTER (1985-1995) 1985 REGNO UNITO GERMANIA FRANCIA ITALIA SPAGNA 1995 REGNO UNITO GERMANIA FRANCIA ITALIA SPAGNA Trasporti Energia Telecom. Istruzione 149,5 117,6 107,8 72,7 125,4 72,5 108,3 125,4 127,8 204,9 128,3 87,5 101,6 56,3 73,7 100,5 61,4 23,9 70,4 107,1 Trasporti Energia Telecom. Istruzione 184,9 85,4 100,1 122,4 120,1 153,5 96,6 101,2 98,4 104 115,2 90,9 97,1 92,9 92,2 98 48,6 65 95,7 86,1 Fonte: ECOTER (2001) INDICE 108,4 105,4 130,9 80,7 57,7 INDICE 117,9 115,9 101,8 95 71,4 La leadership inglese deriva per lo più dal settore dei trasporti (soprattutto grazie al sistema stradale ed aeroportuale) e dell’istruzione. L’ottima situazione tedesca è dovuta soprattutto al settore dei trasporti (sia stradali che ferroviari) e a quello dell’energia. La Francia e l’Italia hanno risultati abbastanza omogenei nei vari settori mentre la Spagna è penalizzata soprattutto dal settore dei trasporti. Nel settore dei trasporti la Germania è la meglio equipaggiata nelle ferrovie, il Regno Unito in strade, aeroporti e porti mentre la Spagna risulta ultima in tutte le categorie. L’Italia è al di sopra della media per porti e aeroporti e leggermente al di sotto per ferrovie e strade. Nel settore dell’energia la Germania è più dotata per elettricità e gasdotti, il Regno Unito per oleodotti, la Spagna è ultima in tutte e tre le categorie e l’Italia resta al di sotto della media solo per la categoria dell’elettricità. Nelle telecomunicazioni il paese più dotato è la Francia, ma le differenziazioni fra i paesi appaiono minori. 16 Per quanto riguarda l’istruzione, la leadership è del Regno Unito seguito da Germania e Italia, ma è chiaro che l’indice utilizzato è piuttosto grezzo e assai più discutibile dei precedenti. I settori considerati dall’analisi di ECOTER non esauriscono le infrastrutture economiche, ma sono comunque fra i più rilevanti. Per completezza di esposizione, sembra opportuno richiamare anche gli studi dell’ANCE, che si focalizzano sul settore delle costruzioni. La Figura 2.2 illustra il rapporto fra investimenti in costruzioni e PIL nel 2001 per un gruppo di paesi occidentali e mette in evidenza che l’Italia si trova in una posizione assai arretrata. Figura 2.1 - Livello di infrastrutture nelle regioni europee (1995) 17 Fonte: ECOTER (2001) Figura 2.2 - Investimenti in costruzioni in Europa (2001, % PIL) 0,0 5,0 10,0 15,0 Spagna 15,5 Norvegia 14,1 Portogallo 13,2 Turchia 12,7 Germania 12,3 Olanda 11,9 Canada 11,6 Finlandia 10,4 Messico 10,1 Danimarca 9,4 Usa 9,3 Regno Unito 8,6 Francia 8,6 Italia 20,0 7,9 Fonte: ANCE L’Istituto Tagliacarne ha sviluppato una serie di indici analoghi a quelli prodotti da ECOTER, relativi a quindici Paesi europei. Sebbene i dati (si vedano le Tabelle da 2.3 a 2.9) non siano perfettamente confrontabili con i precedenti, sono globalmente in linea, confermando la leadership di Germania e Regno Unito, mostrando il sorpasso dell’Italia sulla Francia ma a livelli di media europea, e ribadendo l’arretratezza relativa della Spagna. Per ciò che concerne gli altri Paesi, astraendo dal Lussemburgo, che concentra le proprie infrastrutture su una area ristretta e densamente popolata rispetto alle altre, la leadership europea spetta al Belgio seguito dai Paesi Bassi, il cui dato è anch’esso viziato da un territorio limitato e densamente popolato; i due paesi sono comunque nelle posizioni di testa per tutte le categorie. Dotazioni complessivamente migliori di quella italiana si hanno anche in Germania, Austria e Danimarca, mentre fra i Paesi europei meno dotati dell’Italia sono anche la Svezia e la Finlandia, per le quali valgono però attenuanti relative al territorio esteso e poco popolato, l’Irlanda, il Portogallo, la Grecia. L’unica categoria nella quale l’Italia è dotata sensibilmente più della media europea è quella dei porti, che è però la categoria più anomala per motivazioni 18 prettamente geografiche. Escludendo dal computo dell’indice generale i porti, l’Italia torna al di sotto della media europea e della Francia. Tabella 2.3 - Rete stradale 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 INDICE TAGLIACARNE PAESE Unione Europea=100 BELGIO 227,4 LUSSEMBURGO 171,3 PAESI BASSI 163,8 DANIMARCA 152,5 FRANCIA 147,4 AUSTRIA 146,8 IRLANDA 105,3 96,1 ITALIA GERMANIA 94,9 REGNO UNITO 90,9 PORTOGALLO 89,5 SPAGNA 86,0 SVEZIA 47,8 FINLANDIA 34,2 GRECIA 28,6 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere Tabella 2.4 - Rete ferroviaria 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Tabella 2.5 - Aeroporti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 INDICE TAGLIACARNE PAESE Unione Europea=100 LUSSEMBURGO 1121,0 PAESI BASSI 213,5 BELGIO 199,4 GERMANIA 146,3 REGNO UNITO 143,0 DANIMARCA 115,6 GRECIA 104,9 90,5 ITALIA AUSTRIA 89,9 IRLANDA 77,7 PORTOGALLO 74,1 FRANCIA 72,2 SPAGNA 71,8 SVEZIA 42,7 FINLANDIA 37,6 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere INDICE TAGLIACARNE Unione Europea=100 LUSSEMBURGO 252,9 BELGIO 173,4 GERMANIA 163,5 AUSTRIA 150,7 FRANCIA 118,6 REGNO UNITO 102,1 DANIMARCA 93,8 PAESI BASSI 92,3 88,8 ITALIA SVEZIA 83,9 SPAGNA 56,8 FINLANDIA 45,6 PORTOGALLO 43,5 IRLANDA 41,9 GRECIA 19,3 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere PAESE Tabella 2.6 - Porti INDICE TAGLIACARNE Unione Europea=100 PAESI BASSI 237,3 GRECIA 234,4 DANIMARCA 209,3 BELGIO 170,3 150,3 ITALIA REGNO UNITO 145,6 SVEZIA 145,4 FINLANDIA 82,6 FRANCIA 68,6 SPAGNA 60,0 IRLANDA 58,8 GERMANIA 43,3 PORTOGALLO 36,3 LUSSEMBURGO 0,0 AUSTRIA 0,0 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere PAESE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 19 Tabella 2.7 - Impianti e reti energetico-ambientali INDICE TAGLIACARNE Unione Europea=100 LUSSEMBURGO 227,3 GERMANIA 164,8 BELGIO 156,3 PAESI BASSI 125,4 AUSTRIA 120,9 REGNO UNITO 105,1 DANIMARCA 103,8 FRANCIA 103,8 SVEZIA 91,1 86,3 ITALIA SPAGNA 60,6 FINLANDIA 52,2 GRECIA 48,6 PORTOGALLO 48,4 IRLANDA 35,7 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere Tabella 2.8 - Indice generale di dotazione infrastrutturale relativa PAESE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 INDICE TAGLIACARNE Unione Europea=100 LUSSEMBURGO 354,5 BELGIO 185,4 PAESI BASSI 166,4 DANIMARCA 135,0 GERMANIA 122,6 REGNO UNITO 117,3 102,4 ITALIA FRANCIA 102,1 AUSTRIA 101,6 GRECIA 87,2 SVEZIA 82,2 SPAGNA 67,0 IRLANDA 63,9 PORTOGALLO 58,4 FINLANDIA 50,4 Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere PAESE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Tabella 2.9 - Indice generale di dotazione infrastrutturale relativa (porti esclusi) PAESE 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 LUSSEMBURGO BELGIO PAESI BASSI GERMANIA AUSTRIA DANIMARCA FRANCIA REGNO UNITO ITALIA SPAGNA SVEZIA IRLANDA PORTOGALLO GRECIA FINLANDIA INDICE TAGLIACARNE Unione Europea=100 443,1 189,1 148,7 142,4 127,1 116,4 110,5 110,3 90,4 68,8 66,4 65,2 63,9 50,4 42,4 In conclusione, dal confronto internazionale, emerge che l’Italia è penalizzata dalla sua dotazione infrastrutturale rispetto ai Paesi caratterizzati da un grado di sviluppo economico paragonabile e comunque rispetto ai principali partner nell’economia europea, quali Germania, Francia, e Regno Unito. Sebbene l’entità del gap infrastrutturale non appaia particolarmente 20 elevata, resta comunque un problema prioritario. E’ tuttavia confortante che nell’arco del periodo considerato il gap sembri essersi ridotto. Inoltre, come si è già notatao, il Paese presenta una profonda disomogeneità interna. Le regioni dell’Italia settentrionale (Ligura, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Friuli) e il Lazio si posizionano al di sopra della media europea; ciò significa che il gap infrastrutturale italiano resta un fenomeno strettamente el gato alla questione meridionale. A questo problema è dedicato il prossimo paragrafo, che fornisce un’analisi più dettagliata della situzione italiana. 2.3 La dotazione infrastrutturale nelle regioni e province italiane ECOTER (2001) fornisce anche dati dettagliati a livello regionale, illustrati nella Tabella 2.10. La leadership della Liguria è rafforzata dal fatto che si tratta di una regione dalla superficie ristretta ma interamente attraversata da ferrovie, strade e autostrade, nonché caratterizzata dal principale porto italiano e da altri importanti porti. La seconda posizione del Lazio è chiaramente motivata dalla presenza di numerose infrastrutture collegate alla presenza della capitale, mentre le rimanenti regioni settentrionali con dotazioni al di sopra della media sono tradizionalmente caratterizzate da maggiore ricchezza ed efficienza amministrativa. Tabella 2.10 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1995) Indice ECOTER (Italia=100) LIGURIA 163,6 LAZIO 124,7 LOMBARDIA 118,6 VENETO 112,6 EMILIA ROMAGNA 105,8 PIEMONTE 105,1 FRIULI V. GIULIA 102,0 TOSCANA 98,0 CAMPANIA 92,2 MARCHE 85,3 ABRUZZO 84,4 SICILIA 82,3 VALLE D'AOSTA 82,1 PUGLIA 80,1 UMBRIA 71,5 CALABRIA 68,6 BASILICATA 65,9 REGIONE TRENTINO A. ADIGE SARDEGNA MOLISE 64,5 58,7 57,1 Fonte: ECOTER (2001) 21 Le regioni settentrionali più arretrate sono invece la Valle d’Aosta ed il Trentino, ma le loro caratteristiche territoriali spiegano il risultato. Le migliori dotazioni del Mezzogiorno sono in Campania, Abruzzo, Sicilia e Puglia. Le dotazioni di zone arretrate come Molise e Sardegna sono invece pari ad un terzo di quelle liguri. L’Istituto Tagliacarne ha sviluppato una serie di indici analoghi, ma con particolare attenzione alle infrastrutture sociali, considerando anche le reti bancarie e di servizi alle imprese, le strutture culturali e ricreative e le strutture sanitarie. Sono state anche apportate modifiche nella costruzione degli indici. Inoltre i risultati sono dettagliati fino al livello provinciale per l’Italia per il periodo 1997-2000 (Istituto Tagliacarne, 2001). Gli stessi indici sono stati ricostruiti per il 1991, in modo da consentire una valutazione dinamica relativa agli anni ’90 (Istituto Tagliacarne, 2002). Il numero di variabili elementari rilevate ed usate per la costruzione degli indici è aumentato, il che comporta un miglioramento della qualità dei risultati. Ad esempio, per la rete stradale sono stati utilizzati anche dati sul numero di porte autostradali con vari servizi (Viacard, Telepass), di stazioni autostradali, sul numero di incidenti e sulla spesa per manutenzione, per un totale di 10 tipi di informazioni. Per la rete ferroviaria, sono state rilevate 9 serie di informazioni, per l’energia 17, per le telecomunicazioni 11, per i porti 18, per gli aeroporti 14. Sono stati inoltre introdotti alcuni accorgimenti, per evitare di falsare l’attribuzione di infrastrutture di rilevanza non strettamente locale: ad esempio, si è tenuto conto del fatto che l’aeroporto di Malpensa non beneficia la sola provincia di Varese, ma l’intera regione Lombardia ed altre province e regioni (cfr. Istituto Tagliacarne, 2001, 2002, 2004). Uno sforzo ancora maggiore ha riguardato la costruzione degli indici per le infrastrutture sociali. Per l’istruzione, sono state prese in considerazione 25 variabili, fra le quali il numero di sezioni e docenti di scuola materna, elementare, media e superiore, il numero di aule di scuole medie, istituti superiori e licei, il numero di corsi universitari (di vario tipo), il numero di scuole (e con spazi verdi, mensa, scuolabus), e così via. Per le strutture sanitarie, le variabili utilizzate salgono a 44, fra cui la dotazione di personale medico e non medico, il numero di posti letto per ventiquattro diverse categorie di cura e così via. Per le strutture creditizie e di servizi alle imprese, sono state utilizzate 16 variabili e ben 35 per quelle culturali e ricreative. La Tab. 2.11 mostra che i risultati di ECOTER sono in gran parte confermati (salvo il forte recupero della Toscana e l’arretramento relativo del Piemonte nella rilevazione più recente) e che la classifica delle regioni è rimasta sostanzialmente inalterata nell’arco degli anni ’90, ma con una leggera convergenza fra gli indici delle due regioni più e meno dotate di infrastrutture, rispettivamente Liguria e Basilicata nel 1991 e Lazio e Basilicata nel 1997-2000. Se si fa riferimento alle macroregioni, nel 1991 il Centro era la zona del Paese meglio dotata (indice124,2) seguito da Nord-Ovest (115,5) e Nord-Est (104) mentre il Mezzogiorno restava sensibilmente più indietro (74,9); alla fine del decennio, la classifica resta immutata. Il Centro è la macroregione leader nel campo della rete ferroviaria, degli aeroporti (benché quasi raggiunto dal Nord-Ovest alla fine degli anni ’90), delle strutture per l’istruzione, culturali e ricreative. Il Nord-Ovest è leader per la rete stradale, gli impianti e le reti energeticoambientali, la struttura e le reti per telefonia e telematica e le strutture sanitarie. Per quanto riguarda le reti bancarie e di servizi vari, la leadership è passata dal Centro al Nord-Ovest. Il Mezzogiorno resta la macroregione peggio dotata in ogni categoria e registra anche un 22 peggioramento relativo eccetto che nella rete ferroviaria e nelle strutture culturali e sanitarie, nonostante una buona dotazione di porti. Tabella 2.11 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1991 e 1997/2000) REGIONE LIGURIA LAZIO LOMBARDIA T OSCANA VE N E T O FRIULI V. GIULIA EMILIA ROMAGNA CAMPANIA PIEMONTE UMBRIA M ARCHE A BRUZZO SICILIA PUGLIA T RENTINO A. A DIGE CALABRIA M OLISE SARDEGNA VALLE D 'A O S T A BASILICATA Indice Tagliacarne 1991 (Italia=100) Totale 187 139,3 113,6 124,2 113,9 136,9 112,7 97,3 86,7 82,6 92,6 84,8 87,1 81,2 65,6 70 50,5 59,2 41,3 36,4 REGIONE Indice Tagliacarne 1997-2000 (Italia=100) Porti esclusi Totale 152,4LAZIO 142,0 150,5LIGURIA 183,8 125,3LOMBARDIA 120,3 121,5T OSCANA 117,1 110,1VE N E T O 115,9 110EMILIA ROMAGNA 107,2 108,3FRIULI V. GIULIA 118,6 98,1CAMPANIA 96,6 95,2PIEMONTE 89,2 90,4M ARCHE 92,5 89,3UMBRIA 81,8 86,9A B RUZZO 78,5 79,2PUGLIA 81,6 77,6SICILIA 86,2 72,6CALABRIA 78,0 72,4T RENTINO A. A DIGE 62,7 51,9M OLISE 54,3 51,4VALLE D 'A O S T A 46,2 45,3SARDEGNA 57,0 39,5BASILICATA 43,3 Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) Porti esclusi 151,6 141,2 132,6 114,7 108,7 108,2 102,3 98,8 97,8 90,7 88,9 82,4 79,1 76,3 72,6 69,3 56,5 50,6 48,6 47,1 In termini relativi alla media nazionale (Tabelle 2.12 e 2.13), il divario Nord-Sud tende a crescere nel decennio per quanto riguarda le infrastrutture economiche. La rete stradale e autostradale peggiora nel Mezzogiorno; la rete ferroviaria peggiora relativamente nel NordOvest, mentre migliora al Sud e al Centro, grazie ad alcune elettrificazioni al Sud e al contributo dell’Eurostar per il Centro. Per gli aeroporti, l’esperienza Malpensa trascina il Nord-Ovest, mentre nel campo delle infrastrutture energetiche la situazione resta sostanzialmente inalterata nel decennio, fatto salvo un leggero miglioramento relativo di NordEst e Centro. Per quanto riguarda la rete telefonica migliorano Nord-Ovest e Centro mentre per la rete bancaria il Nord accresce il suo vantaggio sul resto del paese. Nel campo delle infrastrutture sociali, cioè i cui servizi si rivolgono più alle famiglie che alle imprese, la forbice fra Nord e Sud tende invece a diminuire nello stesso periodo. In particolare, spiccano l’arretramento relativo del Centro e del Nord-Est per le strutture culturali, sanitarie e per l’istruzione nelle quali avanzano invece Mezzogiorno e Nord-Ovest, con riduzioni del gap fra macroregioni meglio e peggio dotate in tutte e tre le categorie. 23 Tabella 2.12 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1991) REGIONI Rete stradale Rete ferroviaria Porti e bacini utenza Impianti e Aeroporti e reti bacini energeticoutenza ambientali PIEMONTE VALLE D 'A O S T A LOMBARDIA T RENTINO A. A DIGE VE N E T O FR IULI V. GIULIA LIGURIA EMILIA ROMAGNA T OSCANA UMBRIA M ARCHE LAZIO A BRUZZO M OLISE CAMPANIA PUGLIA BASILICATA CALABRIA SICILIA SARDEGNA 128,3 90,4 77,7 91,3 103,2 101,8 185,8 109,7 100,0 96,5 112,0 94,5 157,4 112,1 96,1 82,9 82,3 117,0 94,7 55,2 131,3 17,7 93,7 103,1 85,6 132,0 166,6 105,8 116,3 189,1 73,1 117,4 134,5 53,4 111,2 91,9 29,4 103,9 77,2 22,7 10,3 5,2 8,2 2,5 147,4 379,0 498,5 153,1 148,7 12,0 122,3 38,3 66,2 37,6 90,6 114,2 8,7 48,3 158,2 129,1 79,9 43,5 159,9 18,0 97,2 75,5 161,3 82,8 111,1 87,9 55,3 243,2 73,4 56,3 40,4 57,2 4,0 77,1 94,8 84,0 98,2 46,2 173,1 66,8 142,5 115,8 136,4 125,1 94,3 73,5 78,3 104,9 72,7 56,0 85,3 79,2 43,5 58,1 69,9 33,6 NORD -OVEST NORD -EST CENTRO M EZZOGIORNO 106,5 103,8 99,4 94,1 112,1 101,3 118,2 81,8 58,3 156,4 88,1 102,3 129,2 77,7 150,1 66,6 140,1 121,8 93,7 65,9 REGIONI PIEMONTE VALLE D 'A O S T A LOMBARDIA T RENTINO A. A DIGE VE N E T O FRIULI V. GIULIA LIGURIA EMILIA ROMAGNA T OSCANA UMBRIA M ARCHE LAZIO Strutture e Reti Strutture Strutture reti bancarie culturali per telefonia e servizi vari e ricreative l'istruzione e telematica 107,0 44,8 157,1 62,0 115,5 98,6 160,9 112,9 103,8 63,5 86,3 143,2 89,6 58,0 128,1 107,4 119,4 109,1 132,6 114,0 183,5 93,4 104,9 116,2 72,1 55,5 92,5 43,3 103,1 109,9 118,6 145,8 204,3 52,2 87,1 273,2 77,2 25,6 115,0 80,0 102,6 119,4 123,8 104,7 95,2 92,6 112,2 130,3 Strutture sanitarie 79,0 28,5 151,3 87,5 137,3 134,2 181,7 90,0 92,7 66,5 101,9 131,7 24 A BRUZZO M OLISE CAMPANIA PUGLIA BASILICATA CALABRIA SICILIA SARDEGNA NORD -OVEST NORD -EST CENTRO M EZZOGIORNO 66,9 40,4 97,1 72,3 31,5 52,4 77,8 40,9 73,3 44,0 82,4 56,7 33,8 58,4 67,2 61,9 33,4 13,7 112,3 43,5 43,2 33,6 33,8 57,0 86,7 52,8 129,8 98,3 51,8 84,8 99,2 64,2 83,2 36,8 97,4 103,6 32,7 56,9 82,3 39,4 137,2 104,8 111,6 67,4 113,3 114,4 136,4 64,2 87,1 111,2 196,4 53,5 100,3 102,1 110,8 93,3 125,9 112,0 106,1 75,9 Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) Tabella 2.13 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1997-2000) Impianti e Aeroporti e reti bacini energeticoutenza ambientali 83,9 105,4 37,9 43,2 189,6 165,4 PIEMONTE VALLE D 'A O S T A LOMBARDIA T RENTINO A LTO A DIGE VE N E T O FRIULI VENEZIA GIULIA LIGURIA EMILIA ROMAGNA T OSCANA UMBRIA M ARCHE LAZIO A BRUZZO M OLISE CAMPANIA PUGLIA BASILICATA CALABRIA SICILIA SARDEGNA 119,9 112,7 82,2 108,4 17,3 84,3 Porti e bacini utenza 11,9 6,0 9,4 88,3 105,0 77,9 84,2 2,9 180,6 14,1 90,0 61,3 147,6 90,4 199,9 113,3 107,8 99,1 121,4 90,0 144,6 125,1 95,8 79,4 91,4 106,9 87,4 63,2 121,9 147,9 131,5 137,2 153,8 69,8 129,9 98,9 45,8 124,2 110,1 74,8 104,9 64,7 24,5 264,5 566,6 97,8 138,9 17,9 108,2 55,7 43,0 34,5 76,5 104,2 9,3 126,7 174,9 132,9 64,1 131,5 79,5 97,3 71,6 50,4 264,3 67,3 55,1 47,7 43,6 3,6 70,7 81,7 77,0 123,0 121,5 131,7 97,7 83,9 86,2 103,0 77,6 49,1 83,2 80,0 40,7 52,8 65,9 30,5 NORD -OVEST NORD -EST CENTRO M EZZOGIORNO 107,7 104,0 102,1 91,8 97,2 105,6 126,1 84,7 65,6 133,6 89,5 109,2 143,4 72,0 150,6 60,5 137,2 126,2 96,4 63,8 REGIONI REGIONI PIEMONTE VALLE D 'A O S T A LOMBARDIA T RENTINO A LTO Rete stradale Rete ferroviaria Strutture e Reti Strutture Strutture reti Strutture bancarie culturali per telefonia sanitarie e servizi vari e ricreative l'istruzione e telematica 98,5 116,2 88,8 83,1 83,4 34,2 51,6 106,4 38,4 16,6 177,1 143,1 100,7 117,7 154,4 61,9 89,6 67,6 93,0 77,2 25 A DIGE VE N E T O FRIULI VENEZIA GIULIA LIGURIA EMILIA ROMAGNA T OSCANA UMBRIA M ARCHE LAZIO A BRUZZO M OLISE CAMPANIA PUGLIA BASILICATA CALABRIA SICILIA SARDEGNA NORD -OVEST NORD -EST CENTRO M EZZOGIORNO 104,9 127,4 108,7 104,6 120,8 94,4 146,4 101,9 114,4 71,0 80,2 148,7 66,1 36,0 94,2 68,2 39,0 61,5 72,1 32,8 117,8 130,9 119,2 128,6 85,4 107,0 123,5 70,0 48,3 75,6 64,0 35,5 55,1 63,2 48,1 97,5 132,7 133,7 178,7 79,9 107,1 225,3 53,2 34,3 97,5 48,7 45,8 36,7 47,6 54,9 110,6 127,5 102,7 90,0 87,1 101,4 127,7 84,1 66,9 134,3 97,1 54,7 84,8 97,7 57,0 109,2 133,5 75,9 88,3 70,5 100,3 151,2 78,1 46,1 104,7 107,2 35,3 68,7 89,3 46,4 143,2 96,3 117,5 65,0 130,2 117,7 118,6 61,0 100,0 110,6 175,0 57,0 104,5 102,9 105,8 93,0 123,8 96,2 112,2 81,9 Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) A livello provinciale (Tabelle da 2.14 a 2.17) miglioramenti e peggioramenti relativi si presentano in modo abbastanza omogeneo sul territorio nazionale. Spiccano la provincia di Milano in forte miglioramento, ma anche altre del Nord (Treviso, Pordenone, Rovigo, Bologna, Ravenna, Forlì, Lodi, Varese, Torino). Trieste resta la provincia meglio dotata di infrastrutture in Italia seguita al Nord da Lodi. Ad alti livelli sono anche Varese, Milano, Genova, Gorizia, Rimini, Bologna, Padova, Savona, Venezia, Novara e Verona, mentre situazioni più critiche si registrano in province in territorio alpino come Aosta, Belluno e Sondrio. Tabella 2.14 - Indice infrastrutturale nelle province italiane (1991) Province e Regioni Alessandria Asti Biella Cuneo Novara Torino Verbania Vercelli Piemonte Valle d'Aosta Bergamo Brescia Como Cremona Totale Province e Totale Province e senza porti Regioni senza porti Regioni 106,7 Genova 183,2 Chieti 88,5 Imperia 105,1 L'Aquila 98,9 La Spezia 125,7 Pescara 63,1 Savona 138,8 Teramo 132,3 Liguria 152,4 Abruzzo 106,5 Bologna 139,6 Campobasso 67,0 Ferrara 83,8 Isernia 97,9 Forli' 84,4 Molise 95,2 Modena 111,0 Avellino 45,3 Parma 110,2 Benevento 111,4 Piacenza 87,4 Caserta 84,7 Ravenna 115,7 Napoli 117,5 Reggio Em. 84,1 Salerno 105,1 Rimini 151,4 Campania Province e Totale senza Totale Regioni porti 87,9 Agrigento 53,6 75,1 Caltanissetta 53,0 112,3 Catania 95,6 86,1 Enna 50,8 86,9 Messina 107,5 54,4 Palermo 95,7 46,8 Ragusa 54,7 51,9 Siracusa 58,2 69,9 Trapani 77,9 58,6 Sicilia 79,2 81,8 Cagliari 60,6 140,5 Nuoro 31,5 76,4 Oristano 51,9 98,1 Sassari 58,3 26 Lecco Lodi Mantova Milano Pavia Sondrio Varese Lombardia Bolzano Trento Trentino Belluno Padova Rovigo Treviso Venezia Verona Vicenza Veneto Gorizia Pordenone Trieste Udine Friuli 101,4 Emilia 194,6 Arezzo 83,2 Firenze 158,2 Grosseto 115,6 Livorno 58,7 Lucca 178,5 Massa 125,3 Pisa 70,6 Pistoia 74,8 Prato 72,6 Siena 53,9 Toscana 140,7 Ancona 78,2 Ascoli P. 101,0 Macerata 138,1 Pesaro- U. 126,4 Marche 95,0 Frosinone 110,1 Latina 189,2 Rieti 66,7 Roma 279,7 Viterbo 85,3 Lazio 110,0 108,3 Bari 84,3 Brindisi 186,0 Foggia 57,3 Lecce 132,3 Taranto 158,0 Puglia 109,5 Matera 152,7 Potenza 99,9 Basilicata 114,0 Catanzaro 75,6 Cosenza 121,5 Crotone 121,9 Reggio C. 76,8 Vibo Val. 77,8 Calabria 81,0 89,3 107,1 94,5 68,6 194,9 86,4 150,5 96,8 Sardegna 85,5 59,4 66,4 Nord-Ovest 76,1 Nord-Est 77,6 Centro 31,0 Mezzogiorno 43,9 39,5 82,5 65,2 49,4 77,2 101,1 72,4 51,4 115,5 104,0 124,2 74,9 Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) Al Centro migliorano Roma, che diventa la seconda provincia meglio dotata di infrastrutture in Italia, Prato, Pesaro e Ascoli; su livelli elevati si collocano anche Firenze e le altre province toscane. Nel Mezzogiorno si mostrano sviluppi positivi a Napoli, ma spiccano le province meno dotate di infrastrutture di tutto il paese come quelle in Molise e Basilicata. Tabella 2.15 - Indice infrastrutturale nelle province italiane (1997-2000) Province e Regioni Alessandria Asti Biella Cuneo Novara Torino Verbania Vercelli Piemonte Valle d'Aosta Bergamo Brescia Como Cremona Lecco Lodi Mantova Totale senza Province e porti Regioni 101,8 Genova 93,3 Imperia 98,3 La Spezia 64,9 Savona 127,1 Liguria 114,5 Bologna 71,5 Ferrara 91,1 Forli' 97,8 Modena 50,6 Parma 114,6 Piacenza 89,9 Ravenna 119,2 Reggio Emilia 97,3 Rimini 110,3 Emilia 202,8 Arezzo 87,0 Firenze Totale senza Province e porti Regioni 166,9 Perugia 99,9 Terni 120,7 Umbria 131,2 Chieti 141,2 L'Aquila 142,8 Pescara 83,8 Teramo 93,7 Abruzzo 102,9 Campobasso 100,5 Isernia 88,1 Molise 120,6 Avellino 86,5 Benevento 149,1 Caserta 108,2 Napoli 82,4 Salerno 175,8 Campania Province e Totale Regioni 85,8 Agrigento 98,3 Caltanissetta 88,9 Catania 81,3 Enna 72,0 Messina 111,3 Palermo 79,4 Ragusa 82,4 Siracusa 57,2 Trapani 55,2 Sicilia 56,5 Cagliari 71,4 Nuoro 73,9 Oristano 87,1 Sassari 131,8 Sardegna 80,1 98,8 27 Totale senza porti 53,4 54,2 95,5 48,5 96,1 89,4 54,2 62,8 74,5 76,3 58,3 32,9 55,7 49,1 48,6 Milano Pavia Sondrio Varese Lombardia Bolzano Trento Trentino Belluno Padova Rovigo Treviso Venezia Verona Vicenza Veneto Gorizia Pordenone Trieste Udine Friuli 177,2 Grosseto 54,0 Bari 108,5 Livorno 125,6 Brindisi 54,5 Lucca 146,4 Foggia 186,2 Massa 106,8 Lecce 132,6 Pisa 128,5 Taranto 66,4 Pistoia 100,0 Puglia 72,6 Prato 134,1 Matera 69,3 Siena 73,7 Potenza 57,6 Toscana 114,7 Basilicata 134,8 Ancona 120,9 Catanzaro 84,9 Ascoli Piceno 80,0 Cosenza 103,9 Macerata 78,3 Crotone 128,1 Pesaro 84,2 Reggio C. 122,5 Marche 90,7 Vibo Valentia 96,4 Frosinone 93,7 Calabria 108,7 Latina 89,4 156,0 Rieti 67,4 71,3 Roma 200,4 247,7 Viterbo 88,6 80,6 Lazio 151,6 102,3 Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) 94,1 94,7 58,4 74,6 78,6 79,1 45,7 47,8 47,1 82,7 61,3 50,6 85,7 99,0 72,6 Tabella 2.16 - Classifica delle province italiane per l’indice infrastrutturale (1991) Migliori venti province Indice Tagliacarne Peggiori venti province Posizione porti esclusi Posizione 1 TRIESTE 279,7 84 CAGLIARI 2 ROMA 194,9 85 FOGGIA 3 LODI 194,6 86 SONDRIO 4 GORIZIA 189,2 87 BENEVENTO 5 FIRENZE 186,0 88 SASSARI 6 GENOVA 183,2 89 SIRACUSA 7 VARESE 178,5 90 GROSSETO 8 MILANO 158,2 91 RAGUSA 9 LUCCA 158,0 92 CAMPOBASSO 10 PISA 152,7 93 BELLUNO 11 RIMINI 151,4 94 AGRIGENTO 12 PADOVA 140,7 95 CALTANISSETTA 13 NAPOLI 140,5 96 ORISTANO 14 BOLOGNA 139,6 97 ENNA 15 SAVONA 138,8 98 CROTONE 16 VENEZIA 138,1 99 ISERNIA 17 LIVORNO 132,3 100 AOSTA 18 NOVARA 132,3 101 POTENZA 19 VERONA 126,4 102 NUORO 20 LA SPEZIA 125,7 103 MATERA Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) Indice Tagliacarne porti esclusi 60,6 59,4 58,7 58,6 58,3 58,2 57,3 54,7 54,4 53,9 53,6 53,0 51,9 50,8 49,4 46,8 45,3 43,9 31,5 31,0 28 Tabella 2.17 - Classifica delle province italiane per l’indice infrastrutturale (1997-2000) Migliori venti province Posizione 1 TRIESTE 2 LODI 3 ROMA 4 VARESE 5 MILANO 6 FIRENZE 7 GENOVA 8 GORIZIA 9 RIMINI 10 LUCCA 11 BOLOGNA 12 PADOVA 13 PRATO 14 NAPOLI 15 SAVONA 16 PISA 17 VENEZIA 18 NOVARA 19 LIVORNO 20 VERONA Indice Tagliacarne Peggiori venti province porti esclusi Posizione 247,7 84 SIRACUSA 202,8 85 COSENZA 200,4 86 FOGGIA 186,2 87 CAGLIARI 177,2 88 BELLUNO 175,8 89 CAMPOBASSO 166,9 90 ORISTANO 156,0 91 ISERNIA 149,1 92 SONDRIO 146,4 93 RAGUSA 142,8 94 CALTANISSET. 134,8 95 GROSSETO 134,1 96 AGRIGENTO 131,8 97 AOSTA 131,2 98 CROTONE 128,5 99 SASSARI 128,1 100 ENNA 127,1 101 POTENZA 125,6 102 MATERA 122,5 103 NUORO Fonte: Istituto Tagliacarne (2002) Indice Tagliacarne porti esclusi 62,8 61,3 58,4 58,3 57,6 57,2 55,7 55,2 54,5 54,2 54,2 54,0 53,4 50,6 50,6 49,1 48,5 47,8 45,7 32,9 29 2.4 Conclusioni In sintesi, l’analisi quali-quantitativa applicata all’Italia indica l’esistenza di un gap infrastrutturale rispetto ai Paesi europei più avanzati e di un forte gap infrastrutturale del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. E mentre il gap a livello internazionale appare in via di riduzione, quello intranazionale sembra rimanere su livelli elevati. In linea teorica, come è stato sottolineato nel capitolo precedente, dovrebbe esistere una relazione diretta tra livello delle infrastrutture e livello di sviluppo economico (tralasciando, in prima approssimazione, il problema delle specializzazioni produttive dei vari Paesi o delle varie regioni). Ne discende che il gap infrastrutturale è tanto più preocuupante quanto minore è il gap reddituale. Per valutare il gap italiano da questo punto di vista, le figure 2.2 e 2.3 mettono in relazione il PIL pro-capite con l’indice di dotazione infrastrutturale a livello internazionale e nazionale. Figura 2.2 – Indice infrastrutturale e PIL pro-capite in Europa 200 Indice di dotazione infrastrutturale Belgio Paesi Bassi 150 Germania Regno Unito Francia Danimarca 100 Portogallo 50 Austria Italia Spagna Svezia Irlanda Finlandia Grecia 0 14000 16000 18000 20000 22000 24000 26000 PIL pro-capite, parità di potere d'acquisto All’interno dell’Unione Europea, l’Italia appartiene al gruppo di Paesi con reddito procapite medio alto. Nella Figura 2.2. l’indice infrastrutturale generale (porti esclusi) più recente (1997-2000) dei paesi europei (ad eccezione del Lussemburgo) viene correlato al PIL procapite, ricalcolato a parità di potere d’acquisto (nel 2000). Si osserva innanzitutto una relazione positiva fra le due variabili: i Paesi più ricchi hanno anche migliori dotazioni 30 infrastrutturali (anche se naturalmente di per sé la figura non dice nulla sulla relazione di causalità tra le due variabili). Tuttavia, se si astrae dai tre Paesi più poveri (Grecia, Portogallo e Spagna) - che sono notevolmente distanziati in termini di reddito medio - la differenza nel reddito reale degli altri Paesi è minima. E tuttavia sussiste una marcata differenza in termini di dotazione infrastrutturale, con l’Italia in posizione assai arretrata rispetto agli altri (l’indice infrastrutturale di Svezia e Finlandia è naturalmente poco significativo a causa delle caratteristiche di questi due Paesi, molto grandi ma scarsamente popolati). La conclusione è che tenendo conto del grado di sviluppo economico, il gap infrastrutturale italiano appare ancora più marcato di quanto rilevino i semplici confronti tra indici. La nota positiva tuttavia è che tutti gli studi sembrano suggerire che questo gap infrastrutturale si sia parzialmente ridotto nell’ultimo quarto di secolo. Un’immagine più negativa e preoccupante emerge se l’analisi viene portata a livello regionale. Benché le regioni italiane settentrionali si attestino al di sopra della media di dotazioni infrastrutturali europea (anche se non ai vertici, eccetto per il caso assai positivo della Liguria), le restanti regioni, ed in particolar modo quelle meridionali, sono tutte al di sotto della media europea. Figura 2.3 – Indice infrastrutturale e PIL procapite in Italia 160 Lazio Liguria Indice di dotazione infrastrutturale 140 Lombardia 120 Toscana 100 Veneto Friuli V.G. Campania Puglia Sicilia 80 Emilia R. Piemonte Marche Umbria Abruzzo Trentino A.A. Calabria 60 Molise Basilicata Valle D'Aosta Sardegna 40 10 15 20 25 30 PIL pro-capite Fonte: Elaborazioni su dati Tagliacarne (1997-2000). PIL pro-capite del 2000 La Figura 2.3. mette in evidenza la correlazione positiva fra reddito pro-capite e indice infrastrutturale (si tratta dell’indice generale a esclusione della dotazione portuale) in Italia. 31 Fra le regioni virtuose spiccano Liguria, Lazio, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, che tra l’altro anche a livello comunitario si attestano nettamente al di sopra della media delle regioni europee. La Liguria è la regione leader per i porti, il Lazio per gli aeroporti, la Lombardia per la rete energetica e per quella telefonica e telematica, l’Umbria per la rete ferroviaria, il Piemonte e la Liguria per la rete ferroviaria. Al Nord, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta hanno un indice di dotazione infrastrutturale al di sotto di quanto stimabile dato il loro elevato reddito medio, ma, come si è già sottolineato in precedenza, in questo caso l’indice qualitativo da un’immagine sbagliata della situazione, data la conformazione geografica di queste regioni e data la loro specializzazione produttiva, fortemente orientata al turismo. La principale nota positiva nel Mezzogiorno proviene dalla Campania che, nonostante un reddito medio tra i più bassi fra le regioni italiane, ha una dotazione infrastrutturale nettamente al di sopra delle altre regioni meridionali. Puglia e Sicilia anche appaiono avre un livello di infrastrutture maggiore quanto prevedibile secondo la relazione lineare stimata fra reddito e indice infrastrutturale. Peggiore è invece la situazione di Sardegna, Basilicata e Molise il cui rapporto infrastrutture/PIL è assai inferiore alla media italiana: queste sono le tre regioni in cui si evidenzia maggiormente la necessità di interventi migliorativi. La Sardegna ha un buon sistema portuale ma forti carenze nella rete ferroviaria ed in quella energetica. La Basilicata è estremamente penalizzata da carenze nel campo di porti e aeroporti, ma si attesta al di sotto della media italiana in ogni settore infrastrutturale. Il Molise è uniformemente arretrato in tutti i settori eccezion fatta per quello stradale. Il dato più preoccupante è che nell’arco degli anni ’90 il gap del Mezzogiorno rispetto al Nord Italia non sembra sia stato colmato se non in misura trascurabile. Le regioni più povere, e che quindi necessiterebbero di maggiori investimenti pubblici, restano arretrate nelle loro dotazioni infrastrutturali. Dati gli elevati spillovers esistenti tra infrastrutture, è molto probabile che questo danneggi anche il resto del Paese, limitandone crescita e sviluppo potenziale. 32 3 SPESA PER INVESTIMENTI E VINCOLO DI BILANCIO PUBBLICO Questo capitolo illustra l’evoluzione degli investimenti pubblici in Italia nel lungo periodo. Particolare attenzione è dedicata agli avvenimenti degli anni Novanta, nei quali si rafforza il processo di risanamento della finanza pubblica, in vista dell’Unione Monetaria, e agli avvenimenti dei primi anni 2000, durante i quali l’obiettivo della politica di bilancio diventa fondamentalmente quello di rispettare i parametri di Maastricht (rapporto indebitamento/PIL al 3% e riduzione del rapporto debito pubblico/PIL). L’analisi tende anche a mettere in luce il ruolo fondamentale degli enti locali che rappresentano il motore degli investimenti pubblici nel nostro Paese. 3.1 Gli investimenti pubblici in Italia La spesa pubblica, ed in particolare la spesa pubblica per investimenti, ha giocato un ruolo importante nella fase di forte crescita dell’economia italiana del secondo dopoguerra. Nel corso degli anni ’50 e ’60 furono infatti avviati rilevanti programmi di ricostruzione delle infrastrutture danneggiate dalla guerra – in particolare delle reti stradale e autostradale ma anche ferroviaria ed energetica – che contribuirono in modo non secondario alla crescita sostenuta del Paese per un lungo periodo e a ritmi senza precedenti. La Figura 3.1 illustra il rapporto fra gli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche e il PIL negli ultimi cinquant’anni. La Figura mette in rilievo il suo andamento altalenante: dopo la crescita del dopoguerra, la quota della spesa per investimenti sul PIL tende a decrescere nel corso degli anni Sessanta (durante i quali si registra invece, è opportuno ricordarlo, una sostenuta crescita delle spese correnti, per l’avvio dei grandi programmi di spesa sociale) per poi tornare a crescere negli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta. Segue una nuova fase di declino fino alla ripresa degli anni 2000. Per gli scopi di questo lavoro, è rilevante concentrare l’attenzione sugli avvenimenti degli anni Novanta, durante i quali uno degli obiettivi prioritari della politica di bilancio è stato quello della riduzione del deficit pubblico, attraverso l’aumento della pressione fiscale ma anche la riduzione del tasso di crescita della spesa pubblica. Come si vedrà in seguito, le manovre di riequilibrio dei conti pubblici hanno contribuito non poco a quella che si potrebbe definire la crisi degli investimenti pubblici che si manifesta a metà degli anni Novanta. Figura 3.1 - Investimenti pubblici in % del PIL (aggregato delle Amministrazioni Pubbliche) 33 4.0 3.5 3.0 2.5 2.0 55 60 65 70 75 80 85 90 95 00 Fonte: Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico, Statistiche di finanza pubblica nell’Unione Europea 3.1.1 La crisi degli investimenti pubblici in Italia Come valutare la drastica riduzione della quota degli investimenti pubblici sul PIL nella prima metà degli anni Novanta? Il primo elemento da considerare, come si è detto, è il vincolo di bilancio per l’entrata nell’Unione Monetaria (poi Patto di Stabilità e Crescita). La maggior parte dei Paesi europei ha dovuto attuare politiche di riequilibrio dei conti pubblici e non c’è dubbio che qualche effetto si sia manifestato anche sulle spese d’investimento, che, per la loro discrezionalità, si prestano maggiormente ad essere compresse, al contrario delle spese correnti, caratterizzate da un elevato grado di rigidità. La Figura 3.2 illustra l’evoluzione della quota degli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche sul PIL in Italia e nella media dei quindici paesi dell’Unione Europea, a partire dal 1980. Innanzitutto si osserva che fino al 1993, l’Italia si è caratterizzata per un più elevato livello di investimenti della P.A. rispetto alla media europea. Con i primi anni ’90 e le prime consistenti manovre di riduzione del deficit pubblico, si porta al di sotto della media e la quota degli investimenti della P.A. sul PIL scende a poco più del 2%. Questa riduzione ha comunque interessato anche gli altri partner europei, al pari dell’Italia impegnati a riequilibrare i conti pubblici. Figura 3.2 - Investimenti pubblici in % del PIL 34 (aggregato delle Amministrazioni Pubbliche) 4.0 3.5 Italia 3.0 UE 15 2.5 2.0 80 82 84 86 88 90 92 94 96 98 00 02 Fonte: Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico, Statistiche di finanza pubblica nell’Unione Europea Gli effetti delle manovre restrittive di finanza pubblica si manifestano a partire dal 1992, con i provvedimenti volti dapprima a limitare e poi a congelare, sul finire dell’anno, i pagamenti dello Stato e degli enti locali (D.L. 333/1992). Questo orientamento si rafforza nel corso del 1993, innanzitutto con la legge finanziaria e poi con i provvedimenti di blocco della spesa (D.L. 155/1993), con conseguente raffreddamento della capacità d’investimento di tutti gli enti del comparto delle Amministrazioni Pubbliche. Il 1994 è ancora un anno di ridimensionamento degli investimenti pubblici, non solo a causa della manovre finanziarie ma anche per effetto del cosiddetto fenomeno di Tangentopoli, legato, come è noto, alle vicende giudiziarie dell’inizio degli anni ’90 in materia di appalti pubblici e che, per un certo tempo, hanno bloccato, direttamente o indirettamente, parte dell’attività di investimento degli enti dell’amministrazione pubblica. Ad esempio, si legge nella Relazione Generale sulla situazione economica del Paese del 1994 “…. La presenza nei primi mesi dell’anno di difficoltà operative connesse con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni concernenti la stipulazione e l’esecuzione dei contratti pubblici – legge 537/1993 – nonché della nuova regolamentazione delle procedure finalizzate all’appalto delle opere pubbliche – legge 109/1994 – ha determinato una forte caduta degli investimenti nel primo semestre dell’anno in quasi tutti i livelli istituzionali. Tale ridimensionamento non ha trovato adeguata compensazione nel secondo semestre, nonostante la sospensione della normativa operata dal Governo all’atto del suo insediamento nell’ambito del pacchetto di misure di rilancio dell’attività d’investimento, in attesa di una revisione organica dell’intera 35 materia atta ad assicurare la trasparenza delle procedure e a consentire il rapido svolgimento dell’attività amministrativa unitamente al contenimento dei costi”. Tabella 3.1 - Investimenti pubblici in % del PIL per alcuni paesi europei (1990-2002) 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 ITALIA BELGIO GERMANIA S PAGNA FRANCIA IRLANDA S VEZIA REGNO UNITO 3,3 1,3 2,3 4,9 3,6 2 2,4 2,6 3,2 1,4 2,6 4,8 3,5 2,1 2,3 2,4 3 1,5 2,8 4 3,5 2 2,7 2,3 2,6 1,6 2,7 4,2 3,2 2,1 1,1 2,1 2,3 1,7 2,6 4 3,2 2,3 3 2 2,1 1,8 2,3 3,7 3,3 2,3 3,4 2 2,2 1,6 2,1 3,1 3,2 2,4 3 1,5 2,2 1,6 1,9 3,1 3 2,5 2,7 1,2 2,4 1,6 1,9 3,3 2,9 2,7 2,7 1,2 2,4 1,8 1,9 3,4 3 3,2 3,2 1,1 2,4 1,8 1,8 3,1 3,2 3,7 2,9 1,1 2,5 1,5 1,7 3,2 3,2 4,6 3 1,2 1,8 1,6 1,6 3,3 3,1 4,4 3,3 1,3 Fonte: Banca d’Italia. Nota: questi dati non tengono conto delle dismissioni effettuate in Italia nel 2001 e 2002 L’effetto delle manovre di contenimento è riscontrabile anche guardando agli stanziamenti per opere pubbliche riportati nella Figura 3.3, con la riduzione degli stanziamenti e delle autorizzazioni di cassa tra il 1993 e il 1995. Figura 3.3 - Stanziamenti per Opere Pubbliche (dati in milioni di Euro) Fonte: elaborazioni ANCE 70000 60000 50000 40000 30000 20000 Competenza Residui passivi 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 0 1990 10000 Autorizzazione di cassa 36 A partire dal 1995, la fase di declino degli investimenti pubblici sembra superata, sia per la riattivazione dei programmi d’investimento sia per il consolidarsi delle nuove procedure finalizzate all’appalto delle opere pubbliche ed alla stipulazione ed esecuzione dei contratti pubblici. La quota degli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche sul PIL riprende a crescere e i primi anni 2000 mostrano che l’Italia si è riportata al di sopra della media europea. Va sottolineato che gli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche non coincidono con il totale degli investimenti pubblici, che comprendono anche quelli spesso rilevanti di imprese di proprietà pubblica, particolarmente numerose ed attive in Italia, più che in molti altri paesi europei. Tuttavia i dati sulle Amministrazioni Pubbliche sono quelli che consentono confonti temporali omogenei Resta infatti difficile ricostruire l’ammontare esatto di investimenti del settore pubblico allargato, perché i dati sono influenzati dalle numerose trasformazioni dell’aggregato di riferimento. Ad esempio, nel luglio del 1992 è avvenuta la trasformazione dell’ENEL in società per azioni; il 1993 è stato un anno caratterizzato dalla trasformazione in società per azioni delle aziende autonome dei Telefoni e dei Monopoli e dell’Ente Ferrovie dello Stato e dalla soppressione dell’Agenzia per lo sviluppo per il Mezziogiorno e del connesso Dipartimento. Dal 1994 fuoriesce dal settore pubblico anche l’Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni in seguito alla trasformazione in ente pubblico economico. Tabella 3.2 - Spesa per investimenti delle imprese pubbliche 1990-2003 (milioni di euro) 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Imprese a partecipazione 3.771 3.557 2.335 2.451 2.252 2.597 statale 3.025 2.918 2.416 2.847 3.559 2.959 ENEL 2.647 2.607 3.637 4.698 5.466 6.957 Ferrovie 261 350 406 649 564 483 Poste 3.134 3.452 3.760 4.066 4.522 4.100 Imprese pubbliche locali 12.839 12.884 12.554 14.711 16.363 17.096 TOTALE Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni La Tabella 3.2 e la Figura 3.4 forniscono comunque una panoramica, sia pure parziale, relativa agli investimenti delle imprese a partecipazione statale, ad ENEL, Ferrovie, Poste ed altre imprese pubbliche locali. I loro investimenti crescono negli ultimi quattro anni, evidenziando uno sforzo nella direzione del potenziamento delle infrastrutture. In particolare, è da rilevare la forte crescita degli investimenti delle Ferrovie, in seguito all’approvazione del Piano d’impresa 2000-2003, rivolti sia al potenziamento della rete tradizionale sia alla realizzazione della nuova rete “Alta Velocità/Capacità”. Come mostrato nella Figura 3.4, se si tiene conto anche degli investimenti di questi enti, si arriva nel 2003 a circa il 5,5% del PIL. 37 Figura 3.4 - Spesa per investimenti delle imprese pubbliche 1998-2003 (% su PIL) 6% 5% Impr. Part.Stat. 4% ENEL Ferrovie 3% Impr Pubbl Loc Impr Pubbl Tot 2% Pubbl Amm Totale 1% 0% 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni 3.2 Investimenti delle Amministrazioni Pubbliche in Italia per livelli di Governo e settore di intervento In questo paragrafo gli investimenti pubblici vengono analizzati con particolare attenzione alla loro composizione per livello di governo, anche al fine di tentare di valutare l’impatto delle politiche di riequilibrio delle finanze pubbliche sui diversi comparti di enti territoriali. L’attenzione va concentrata sugli investimenti diretti dell’Amministrazione Centrale (AC), ovvero lo Stato, l’Ente Nazionale per le Strade (ANAS) e altri Enti dell’AC,10 nonché degli Enti di previdenza, su quelli ancora più rilevanti delle Amministrazioni Locali (AL) quali Regioni, Province, Comuni, Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere ed altri Enti dell’AL11. Le Tabelle 3.3. e 3.4 illustrano il livello e la quota sul PIL degli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche dal 1990 al 200312, ripartiti per ciascun comparto della P.A., e mostrano che la crisi degli investimenti di cui si è discusso nel paragrafo precedente ha riguardato sia gli enti dell’amministrazione centrale che gli enti locali. La stessa considerazione vale per la ripresa dell’attività d’investimento a partire dal 1995. 10 Come ENEA, CNR, INFN, CONI e la Croce Rossa Italiana. Come gli enti di sviluppo agricolo, le camere di commercio, gli enti provinciali del turismo, gli Enti lirici, le Università… 12 Occorre precisare che i dati sono tratti dalla Relazione Generale più recente; essi quindi possono non coincidere con i dati della stessa Relazione generale di anni precedenti, a causa delle normali revisioni e aggiustamenti nei conti di contabilità nazionale. Va anche precisato che i dati seguono lo schema contabile SEC 95. 11 38 Le Figure 3.5 e 3.6 mettono invece in evidenza che gli enti locali sono stati la forza trainante degli investimenti pubblici, con una quota che è andata lentamente crescendo nel corso degli anni ’90 e sembra essersi stabilizzata negli anni più recenti intorno al 75%. Per ciò che concerne il contributo dei vari comparti (Figure 3.7 e 3.8), non si rilevano grandi modificazioni tra il 1990 e il 2003, eccetto per un leggero aumento delle spese di Province e Comuni e dello stesso Stato, sebbene a scapito degli altri enti dell’Amministrazione Centrale. Se si guarda all’evoluzione degli investimenti in termini reali (nella Figura 3.9 è stato utilizzato il deflatore degli investimenti di contabilità nazionale), si registra una ripresa tra il 1995 e il 1999, più modesta invece negli anni 2000. Un ultimo aspetto di interesse concerne i settori di intervento per livelli di governo, la distribuzione territoriale della spesa e le spese medie pro-capite, che vengono analizzati sulla base dei dati più recenti. Le informazioni relative al 2003 indicano, come si è visto, che gli investimenti complessivi delle Amministrazioni Pubbliche si attestano sui 37 miliardi di euro, il 2,85% del PIL (si è depurato il risultato dall’effetto delle dismissioni tramite operazioni Tabella 3.3 - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (milioni di Euro) 1990 5621 2573 2133 915 1991 6638 2945 2741 951 1992 6408 2716 3049 643 1993 5890 2561 2708 621 1994 5307 2726 2121 459 1995 4832 3006 1452 374 1996 5487 3882 1271 334 15246 2541 9286 1225 2195 15670 2740 9256 1241 2433 15223 2721 9218 1056 2228 14194 2550 8587 936 2121 13532 2177 8446 804 2106 14193 2226 9293 989 1685 15278 2405 10386 1051 1437 1405 1744 1835 1137 731 1025 976 22272 24051 23466 21220 19570 20050 21740 1997 5837 3961 1519 356 1998 6837 4907 1585 344 1999 6970 5263 1384 322 2000 6903 4845 1680 378 2001 7793 5389 1905 499 2002 8095 5746 1938 411 2003 8995 7156 1471 368 15278 2389 11624 1253 1427 16693 2418 12901 1637 1417 18372 2485 14827 1680 1513 20505 3090 13581 2119 1761 20551 3985 15156 1853 1996 22990 4677 15965 1750 2156 24548 5038 17276 1835 2044 473 498 559 353 -587 -8875 3800 8800 23003 25707 28034 27807 33996 32568 Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, -760 2700 37128 Amministrazioni Centrali Stato ANAS Altri Enti A.C. Amministrazioni Locali Regioni Province e Comuni Az. San. e Osped. Loc. Altri Enti A.L. Enti Previdenziali Dismissioni Totale Amministrazioni Centrali Stato ANAS Altri Enti A.C. Amministrazioni Locali Regioni Province e Comuni Az. San. e Osped. Loc. Altri Enti A.L. Enti Previdenziali Dismissioni Totale 39 Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni di cartolarizzazione degli immobili registrate da alcuni enti ed in particolare gli Enti di previdenza). Di questi, il 24% circa, poco meno di 9 miliardi di euro, deriva dalle decisioni delle Amministrazioni Centrali; la parte più cospicua è invece rappresentata dagli investimenti degli enti territoriali, soprattutto comuni e province (circa il 46% del totale). Per quanto riguarda gli investimenti dello Stato, il 40% circa si è concentrato nel settore della Difesa; la parte restante ha riguardato i trasporti per vie d’acqua, le attività culturali, le opere igienico-sanitarie13. In relazione alle Regioni, il 30% degli investimenti ha riguardato opere pubbliche, il 10% opere per la viabilità e altrettanto per uffici e per gli acquedotti, il 6% la difesa della salute. Tabella 3.4 - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (% PIL) Amministrazioni Centrali Stato ANAS Altri Enti A.C. Amministrazioni Locali Regioni Provincie e Comuni Az. San. e Osped. Loc. Altri Enti A.L. Enti Previdenziali Dismissioni Totale PA 1990 0,82 0,38 0,31 0,13 1,17 0,20 1,36 0,18 0,32 0,21 3,26 1991 0,97 0,43 0,37 0,13 1,20 0,21 1,24 0,17 0,33 0,23 3,23 1992 0,94 0,40 0,39 0,08 1,17 0,21 1,18 0,13 0,28 0,23 2,99 1993 0,86 0,38 0,34 0,08 1,09 0,20 1,06 0,12 0,26 0,14 2,63 1994 0,78 0,40 0,25 0,05 1,04 0,17 0,99 0,09 0,25 0,09 2,29 1995 0,71 0,44 0,16 0,04 1,09 0,17 1,01 0,11 0,18 0,11 2,17 1996 0,80 0,57 0,13 0,03 1,17 0,18 1,06 0,11 0,15 0,10 2,21 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Amministrazioni Centrali 0,86 1,00 1,02 1,01 1,14 1,19 1,32 Stato 0,58 0,72 0,77 0,71 0,79 0,84 1,05 ANAS 0,15 0,15 0,12 0,14 0,16 0,15 0,11 Altri Enti A.C. 0,03 0,03 0,03 0,03 0,04 0,03 0,03 Amministrazioni Locali 1,28 1,41 1,58 1,58 1,77 1,89 2,01 Regioni 0,18 0,19 0,19 0,24 0,31 0,36 0,39 Provincie e Comuni 1,13 1,20 1,34 1,16 1,24 1,27 1,33 Az. San. e Osped. Loc. 0,12 0,15 0,15 0,18 0,15 0,14 0,14 Altri Enti A.L. 0,14 0,13 0,14 0,15 0,16 0,17 0,16 Enti Previdenziali 0,05 0,05 0,05 0,03 - 0,05 - 0,70 - 0,06 Dismissioni 0,31 0,70 0,21 Totale PA 2,24 2,40 2,53 2,38 2,79 2,58 2,85 Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni 13 Circa 2 miliardi di euro concernono gli investimenti effettuati dalla P.C.M., dalla Corte dei Conti, dai T.A.R. e dalle Agenzie Fiscali. 40 Figura 3.5. - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (% PIL) 2,5% 2,0% 1,5% 1,0% 0,5% 0,0% 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Amm. Centr. Amm. Loc. Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni Figura 3.6 - Investimenti delle Amministrazioni locali (percentuale sul totale di Amministrazioni Locali e Centrali) 19 90 19 91 19 92 19 93 19 94 19 95 19 96 19 97 19 98 19 99 20 00 20 01 20 02 20 03 76,0 75,0 74,0 73,0 72,0 71,0 70,0 69,0 68,0 67,0 Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni I Comuni hanno effettuato investimenti soprattutto nei settori della viabilità (strade, ponti ed altre opere), delle opere idriche e igienico-sanitarie. Per ciò che concerne la distribuzione territoriale degli investimenti, gli investimenti delle Regioni si sono concentrati al Nord, per il 45% circa, al Centro per il 7% e al Sud per il restante 48%. Le Regioni a statuto speciale sono quelle che hanno dimostrato una maggiore capacità di spesa, con il 61% degli investimenti complessivi. In termini di spesa pro-capite, gli investimenti medi delle Regioni sono ammontati a circa 68 euro, ma con rilevanti differenze tra le diverse aree geografiche: a fronte dei 127 euro del Nord-Est, si rilevano i 92 euro del 41 Mezzogiorno, mentre il Centro e il Nord-Ovest sono i fanalini di coda con 24 e 27 euro rispettivamente. Figura 3.7 - Composizione degli investimenti pubblici dell’Amministrazione Centrale e Locale, 1990 Altri Enti A.L. Az. San. e Osped. Loc. Stato ANAS Altri Enti A.C. Regioni Provincie e Comuni Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni Comuni e Province hanno effettuato investimenti al Nord per circa il 51% del totale, al Centro per il 18,5% e al Sud per il 30,1%. I Comuni hanno effettuato investimenti per circa 236 euro pro-capite nella media nazionale; le Province per circa 52 euro. Anche in questo caso, si osserva una forte disuguaglianza territoriale, che vede il Nord-Est in testa (409 euro), seguito dal Nord-Ovest (329 euro), dal Centro (302 euro) e dal Sud (263 euro). Figura 3.8 - Composizione degli investimenti pubblici dell’Amministrazione Centrale e Locale, 2003 Altri Enti A.L. Az. San. e Osped. Loc. Stato Altri Enti A.C. ANAS Provincie e Comuni Regioni Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni 42 Figura 3.9 - Spesa pubblica reale per investimenti 1995-2003 (milioni di Euro 1995) 35000 30000 25000 20000 15000 10000 5000 0 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 Amm. Centr. Amm. Loc. Pubbl. Amm. Tot. Fonte: Elaborazione su dati Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni 3.3 Conclusioni La spesa per investimenti pubblici (investimenti delle Amministrazioni Pubbliche) in Italia mostra un andamento discontinuo nel corso del tempo. Al trend decrescente, dopo il boom del dopoguerra, si contrappone una fase di crescita che dura fino alla metà degli anni ’80. Si osserva poi un periodo di declino, anche marcato, dovuto in buona parte alle manovre di contenimento del deficit pubblico, con la riduzione dell’ammontare di risorse destinate ai progetti d’investimento. A partire dal 1995, inizia una fase di lenta ripresa, che è ancora in atto. Questo scenario è comune anche agli altri Paesi europei, impegnati come l’Italia nel rispetto dei vincoli derivanti dall’entrata nell’Unione Monetaria. La crisi, dapprima, e la ripresa, poi, hanno riguardato tutti i livelli di governo coinvolti, amministrazioni centrali ed enti locali. Questi ultimi, in particolare i Comuni, sono gli enti dai quali origina la quota più rilevante di investimenti, con una spesa media pro-capite di 236 euro nel 2003. Ciò spiega anche il dibattito che si è acceso intorno al loro diretto ed esplicito coinvolgimento nel rispetto dei vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita, sottoscritto in sede europea, con l’introduzione del Patto di stabilità interno. Al Patto di stabilità interno è dedicato il prossimo capitolo, al fine di mettere in luce i suoi effetti sui comportamenti di spesa degli enti territoriali ed in modo particolare sulle spese d’investimento. 43 4 L PATTO DI STABILITÀ INTERNO ED IL SUO IMPATTO SULLA SPESA PER INVESTIMENTI PUBBLICI Questo capitolo è dedicato al Patto di stabilità interno introdotto in Italia sul finire del 1998, al fine di coinvolgere in modo esplicito e diretto gli enti territoriali nel rispetto delle regole imposte dal Patto di Stabilità e crescita europeo. In particolare, viene innanzitutto fornita una panoramica sugli analoghi strumenti utilizzati nei principali Paesi europei. Il secondo paragrafo illustra e discute in dettaglio l’evoluzione del Patto in Italia, con riferimento ai suoi aspetti essenziali, quali la definizione degli obiettivi, il sistema di monitoraggio, i meccanismi di sanzioni e incentivi. Il terzo paragrafo fa un primo punto sui risultati raggiunti, sulla base delle (non molte) informazioni disponibili. Il capitolo si chiude con una valutazione degli effetti del Patto sulla spesa per investimenti pubblici. 4.1 Le origini del Patto in Italia e in Europa Il Patto di stabilità interno (PSI) è stato introdotto in Italia con la Legge finanziaria per il 1999, legge 448/1998, che all’art.28 recita: “nel quadro del federalismo fiscale, …le regioni, le province autonome, le province, i comuni e le comunità montane concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha adottato con l’adesione al patto di stabilità e crescita, impegnandosi a ridurre progressivamente il finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il rapporto tra il proprio ammontare di debito e il prodotto interno lordo”. Esso è nato dunque, come sottolineano Balassone e Franco [2001] da esigenze “di coordinamento tra i comportamenti finanziari dei vari livelli di governo”, al fine di “evitare che i governi decentrati si comportino da free-riders”, dal momento che l’unico responsabile per il rispetto degli impegni europei è il governo centrale, ma i governi regionali e locali possono contribuire in modo significativo a determinare il disavanzo complessivo delle amministrazioni pubbliche, il riferimento assunto nei trattati internazionale. Il problema è potenzialmente tanto più rilevante quanto maggiore è la quota di spesa pubblica che gli enti decentrati si trovano a gestire. Queste esigenze di coordinamento sono state avvertite anche in altri Paesi europei, caratterizzati anch’essi da un elevato grado di decentramento finanziario. La maggior parte dei paesi ha adottato provvedimenti volti ad accrescere il grado di controllo del governo centrale sulla finanza locale e le soluzioni adottate14 hanno caratteristiche differenti, a seconda dei meccanismi introdotti per incentivare i livelli inferiori di governo a rispettare le regole di bilancio. Va comunque sottolineato che l’art. 104 del Trattato della Comunità Europea e le Risoluzioni del 1997, che hanno introdotto il Patto di stabilità e crescita (PSC), non contengono nessun esplicito riferimento ai livelli di governo sub-centrali; non esiste dunque alcun obbligo formale per i paesi membri di adottare regole e procedure che limitino la formazione dei disavanzi dei governi regionali e locali. 14 Sulle possibili configurazioni del patto di stabilità interno si vedano Balassone, Franco e Zotteri [2002] 44 Prima di analizzare in dettaglio l’esperienza italiana, è utile avere come punto di riferimento qualche informazione sull’esperienza degli altri partner europei. In linea generale si possono rilevare, OECD [2002], due approcci al problema: quello cosiddetto cooperativo e quello delle regole fiscali, stabilite attraverso disposizioni di legge. Con il primo, caratterizzato da un elevato grado di flessibilità, il contributo dei diversi livelli di governo al rispetto della disciplina fiscale è determinato sulla base di un processo partecipativo e le decisioni in materia coinvolgono tutti i soggetti interessati. Il secondo approccio, con il contributo dei diversi enti territoriali stabilito per legge, si caratterizza per un elevato grado di rigidità e, almeno ex ante, potrebbe sembrare più efficace. In realtà, nell’uno e nell’altro caso, le possibilità di successo sono affidate alla corretta applicazione di meccanismi di sanzioni e di incentivi. Nel panorama europeo, si rifanno all’approccio cooperativo Austria, Belgio, Germania e Olanda; seguono il secondo approccio Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Paesi Scandinavi. In particolare, l’Austria, dove la responsabilità per il rispetto del PSC è del Ministro delle Finanze, nel 1999 ha adottato un esplicito PSI modellato su quello europeo, con il quale vengono fissati gli obiettivi di bilancio per ogni livello di governo (federazione, lander e comuni) fino al 2004. I Comuni, nel loro insieme, devono realizzare il pareggio di bilancio entro il 2004, mentre le Regioni, sempre in aggregato, devono produrre un surplus annuale pari almeno allo 0,75% del PIL. È inoltre consentito “scambiare” i risultati di bilancio programmati, nel senso che un disavanzo più basso di quello richiesto dal PSI di un certo ente può essere utilizzato per compensare il disavanzo più elevato programmato per un altro ente. Mancano espliciti riferimenti al finanziamento degli investimenti pubblici. Il PSI austriaco prevede, al pari del PSC, l’applicazione di sanzioni e procedure nel caso di mancata realizzazione degli obiettivi programmati. Gli enti che non rispettano il PSI devono depositare presso la Banca Centrale somme corrispondenti ad una certa quota del contributo al PSI che vengono restituite se i risultati migliorano entro un anno, altrimenti sono distribuite tra gli enti che hanno rispettato il Patto. Le sanzioni sono tuttavia soggette alla decisione unanime delle parti interessate e non si applicano se il bilancio pubblico complessivo è in pareggio oppure se il mancato rispetto degli obiettivi dipende da modifiche delle regole di contabilità o da riduzioni delle entrate dipendenti da decisioni della Corte Suprema. Un aspetto interessante collegato all’introduzione del PSI è la costituzione di Commissioni di coordinamento verticale e orizzontale. Nella “Commissione verticale” sono coinvolti i rappresentanti dei tre livelli di governo – nazionale, regionale e locale; nelle “Commissioni orizzontali”, una per ciascuno dei nove Bundesland; e i rappresentanti dei governi regionali e locali discutono le politiche intra-regionali. Le Commissioni hanno competenza per discutere i problemi della gestione del bilancio ma anche gli obiettivi ed i programmi di breve e medio periodo. Sembra che questa esperienza, soprattutto a livello locale, abbia accresciuto la capacità di coordinamento della finanza dei diversi livelli di governo ed abbia anche introdotto maggiore informazione e trasparenza nel processo di bilancio. In Belgio, il Superior Finance Council (SFC) coordina la finanza centrale e la finanza locale, in un contesto di procedure di bilancio caratterizzate da un elevato grado di complessità, che discende dalla stessa complessità dell’assetto istituzionale. Nel Paese, ci sono infatti il Governo federale, tre Regioni (Fiamminga, Valloni e Bruxelles, che hanno competenza sui problemi in campo economico), tre Comunità (Fiamminga, Francese e Tedesca, che hanno 45 competenza nel campo dei servizi alla persona, quali cultura, istruzione, salute pubblica), dieci province e 589 comuni. Da essi derivano due “entità di bilancio pubblico”: la prima comprende il Governo federale e i Sistemi di sicurezza sociale; la seconda comprende le Comunità e le Regioni (e i Governi locali). L’SFC ha un mandato parlamentare per monitorare il rispetto degli impegni del PSC da parte di tutti i livelli di governo. Non esiste un vero e proprio Patto di stabilità interno, anche se il SFC fissa, in termini assoluti, per ciascun governo della prima entità l’ammontare di surplus da realizzare o l’ammontare massimo di indebitamento. Ciascuna Comunità e Regione deve annualmente predisporre il suo programma di stabilità pluriennale, dove specifica quali azioni intende intraprendere per raggiungere gli obiettivi indicati dal SFC. A loro volta, le Regioni, che sovrintendono alla Province e ai Comuni, si impegnano a far sì che questi realizzino gli obiettivi di bilancio loro assegnati. Gli impegni delle varie entità di bilancio sono formalizzati in accordi tra il Governo federale da una parte e le Comunità dall’altra15. Non sono infine previste sanzioni per gli enti che non realizzano gli obiettivi programmati, ma il Governo federale può, per legge, limitare l’indebitamento delle regioni per un periodo di due anni. I governi regionali invece hanno il compito di monitorare il bilancio dei comuni e, in caso di necessità, il potere di imporre tagli alle spese e aumenti di entrate. Come sottolineano Plasschaert e Pochet [2004], … the rather original mechanism of the intervention by the SFC, and related fiscal contracts with multiple budgetary authorities, has been highly useful, and even essential, in piloting the complex vessel of the Belgian public sector, with its mant layers of government, towards the fulfiment of the commitments of Belgium stemming from the Stability Pact. In Germania l’adozione del PSI risale al 2002, dopo l’approvazione nel 2001 della nuova “Law of budgetary principles”, nella quale viene esplicitamente riconosciuto che tutti i livelli di governo devono sopportare la responsabilità del rispetto del PSC. Il PSI viene introdotto in un contesto di finanza pubblica insoddisfacente, determinato anche dal rilevante contributo dei governi locali alla formazione del deficit complessivo, per circa la metà del totale. Il patto viene in qualche misura subito dai Lander, in linea di principio contrari all’introduzione di regole di bilancio vincolanti, viste come una perdita della loro autonomia di bilancio. La nuova procedura di bilancio prevede che il deficit complessivo consentito sia diviso in proporzione tra i diversi livelli di governo: il 55% del disavanzo totale può essere utilizzato dal Lander e dai governi locali; il restante 45% può essere utilizzato dal governo federale, che deve però finanziare anche la sicurezza sociale. Il bilancio programmatico per il 2004 prevede inoltre limiti alla crescita della spesa pubblica, pari allo 0,5% per il governo federale e all’1% per il Lander e gli enti locali. Il PSI tedesco non prevede espliciti meccanismi sanzionatori a carico degli enti indempienti. Infine, la maggior parte dei Lander ha adottato una sorta di golden rule, per cui i comuni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento, a condizione che che ci sia l’approvazione del governo regionale. In Spagna, nel 2001 è stata approvata la General law of budgetary stability, con effetti a partire dal 2003. Essa obbliga tutti i livelli di governo (compresi i programmi di sicurezza sociale e le imprese pubbliche) a produrre un bilancio in pareggio o in surplus. 15 Nel dicembre 2000 fu concluso un accordo con gli obiettivi di bilancio per il periodo 2001-2005. La Comunità Fiamminga, che ha il bilancio più consistente, deve realizzare un surplus di bilancio, le altre Comunità non devono superare un certo ammontare di disavanzo. 46 L’indebitamento è consentito ai governi regionali solo per finanziare spese in conto capitale16. In caso di disavanzo, la legge prevede che l’ente interessato presenti un piano finanziario di riduzione del deficit, che deve essere approvato dal Fiscal and Financial Policy Council; l’equilibrio di bilancio deve essere ripristinato in un arco di tre anni e il raggiungimento degli obiettivi è controllato dal governo centrale. In caso di sanzioni comminate alla Spagna nell’ambito del Patto di stabilità e crescita, l’onere deve essere sopportato dagli enti responsabili del deficit. Infine, in Francia agli enti locali non è consentito produrre disavanzi di gestione ed essi possono indebitarsi solo per finanziare spese d’investimento. Se un ente locale non rispetta le disposizioni legislative, la Chamber of Accounts a livello regionale propone le appropriate misure fiscali al governo locale, al fine di ristabilire l’equilibrio di bilancio. 4.2 Il Patto di stabilità interno in Italia Come è stato sopra ricordato, il PSI è stato introdotto perché gli enti territoriali contribuiscano al conseguimento degli obiettivi di disavanzo che il Governo centrale si impegna a rispettare in sede europea (e che vengono resi espliciti nel Programma di Convergenza che ogni anno viene presentato alla Commissione europea). Agli enti territoriali viene dunque richiesto il miglioramento del saldo di bilancio, ovvero un aumento dell’avanzo o una riduzione del disavanzo. La misura del miglioramento viene annualmente definita attraverso al legge finanziaria, che, unitamente alle successive circolari, indica anche le modalità di calcolo del disavanzo da prendere come punto di partenza per ottenere il saldo obiettivo, rispetto al quale valutare ex-post la performance degli enti soggetti al Patto17. Per ciò che concerne quest’ultimo aspetto, le disposizioni legislative sul PSI hanno fatto riferimento a diverse nozioni di saldo di bilancio: • il saldo “Patto” • il saldo tendenziale (per il 1999 e per il 2000) • il saldo obiettivo (per il 1999 e per il 2000) • il saldo programmatico (a partire dal 2001) Si tratta di una questione rilevante non tanto sotto il profilo operativo quanto dal punto di vista della natura più o meno stringente del vincolo così introdotto dal PSI sui comportamenti finanziari degli enti locali. 16 È prevista un’autorizzazione da parte del Ministro delle Finanze se la spesa annuale per il servizio del debito eccede il 25% delle entrate correnti; il governo centrale può inoltre introdurre ulteriori vincoli all’indebitamento dei governi locali per ragioni di politica e stabilità macroeconomica. 17 Per il triennio 1999-2001, la legge finanziaria per il 1999 aveva previsto un impegno da parte degli enti locali a perseguire anche l’obiettivo della riduzione del rapporto tra il proprio ammontare di debito e il Pil, pur senza imporre obiettivi quantitativi precisi. Le versioni successive del Patto non forniscono più indicazioni in relazione al debito. 47 4.2.1 Il saldo di bilancio rilevante per il PSI (Saldo Patto) Il saldo di riferimento, rispetto al quale fissare gli obiettivi, cosiddetto “saldo Patto”, è definito annualmente dalla legge finanziaria e dalle circolari esplicative, per i diversi enti coinvolti. Le regole di calcolo del saldo di riferimento sono cambiate nel tempo, per varie ragioni, come illustrano le Tavole 4.1, 4.2 e 4.3, riferite rispettivamente alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Sembra allora opportuno richiamare alcune questioni concernenti la definizione di questo saldo. Un primo aspetto riguarda la natura dei flussi finanziari da considerare, ovvero se considerare i flussi di competenza (accertamenti di entrata ed impegni di spesa) oppure quelli di cassa (riscossioni e pagamenti, in conto competenza e in conto residui). Il saldo rilevante per il Patto di stabilità e crescita sottoscritto in sede europea, l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche, è un saldo di competenza. Al contrario, il saldo rilevante per il PSI è un saldo di cassa. Questa scelta è stata dettata, anche ai fini dell’attività di monitoraggio, dal fatto che i dati di cassa sono più immediatamente disponibili rispetto a quelli di competenza. La legge finanziaria per il 2002 ha tuttavia aggiunto un vincolo anche sulla competenza (sugli impegni di spesa), con l’obiettivo rendere più incisiva l’azione di contenimento della spesa pubblica. In secondo luogo, l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche include sia le spese per interessi passivi sia le spese in conto capitale. Al contrario, queste sono attualmente escluse dal saldo di riferimento per il PSI. Questo, per due ragioni. La prima concerne l’intenzione di non introdurre disincentivi agli investimenti, che rappresentano la spesa più facilmente comprimibile e dunque più potenzialmente soggetta a “tagli” per esigenze di bilancio18. La seconda ragione è collegata al profilo temporale dei pagamenti per spese di investimento, che possono concentrarsi in un esercizio particolare e alterare in misura significativa i risultati di quel particolare esercizio. Questo punto era stato oggetto di chiarimento esplicito da parte del Ministero del Tesoro:”poiché le spese da utilizzare per il computo del disavanzo finanziario non includono le spese in conto capitale … il patto di stabilità interno non sottopone ad alcun vincolo le spese per investimenti che possono essere finanziate con mutui nel rispetto delle regole pre-vigenti alla legge finanziaria per il 1999. Si consideri inoltre che gli eventuali maggiori interessi passivi non incidono sul saldo finanziario in quanto si utilizzano le sole spese correnti al netto degli interessi” 19. Queste ragioni sembrano avere perduto la loro validità, dal momento che la legge finanziaria per il 2003 ha disposto che “…A decorrere dall'anno 2005, per ciascuna provincia e per ciascun comune con popolazione superiore a 5.000 abitanti, il disavanzo finanziario utile ai fini del rispetto delle regole del patto di stabilità interno è calcolato, sia per la gestione di competenza che per quella di cassa, quale differenza tra le entrate finali e le spese finali. …”20. È vero che in tal modo il parametro di riferimento del PSI si 18 Su questo punto si era sviluppato un ampio dibattito parlamentare, come è documentato in Giarda e Goretti [2001]. 19 Si veda “Il Patto di stabilità interno”, Nota a cura del Sottosegretario al Tesoro Prof. Piero Giarda 20 Nel disavanzo finanziario non sono considerati: a) i trasferimenti, sia di parte corrente che in conto capitale, provenienti dallo Stato, dall'Unione europea e dagli enti che partecipano al patto di stabilita' 48 avvicinerebbe a quello europeo, ma porrebbe quei problemi di disincentivo agli investimenti cui si accennava sopra. La questione non dovrebbe riguardare le Regioni, per le quali i vincoli sul saldo di bilancio sono stati sostituiti dall’introduzione di limiti alla crescita della spesa. In realtà, poiché, come si vedrà nelle pagine successive, la definizione degli obiettivi è stata modificata quasi tutti gli anni, ci può aspettare che le disposizioni della finanziaria per il 2003 saranno a loro volta modificate, magari eliminando anche per gli enti locali il vincolo sul saldo e rafforzando i vincoli alla crescita della spesa. In tal caso, per valutare gli effetti sugli investimenti degli enti locali, bisognerà vedere se saranno introdotti limiti anche alla crescita delle spese di investimento e in quale misura. Il “saldo Patto” esclude poi altre voci di entrata e di spesa, sulla base di quanto avviene anche per il Patto di stabilità europeo. Ad esempio, dalle entrate sono esclusi i proventi derivanti dalla cessione di attività mobiliari e, dal 2000, anche quelli derivanti dalla vendita di immobili; sono altresì esclusi i trasferimenti provenienti dagli altri enti che partecipano al Patto. Inoltre, con il processo di devoluzione di funzioni agli enti di livello inferiore di governo, il legislatore ha provveduto ad adeguare le modalità di calcolo del saldo Patto, in modo da escludere le entrate e le spese connesse alla delega di funzioni. 4.2.2 Il saldo obiettivo Per gli anni 1999 e 2000, il saldo obiettivo è stato calcolato sulla base del saldo tendenziale. Quest’ultimo a sua volta è pari al saldo patto incrementato di un ammontare pari all’80% del tasso di crescita del Pil nominale stimato nei Dpef. Il rispetto del PSI richiedeva un miglioramento del saldo tendenziale – un aumento se positivo, una riduzione se negativo - pari allo 0,1% del Pil21. Gli enti che non avessero rispettato il PSI nel 1999 avrebbero potuto recuperare nell’anno successivo22. Dal 2001, cambiano le modalità per il calcolo del saldo obiettivo, che prende il nome di saldo programmatico, con la scomparsa del saldo tendenziale 23. Il saldo obiettivoprogrammatico si ottiene direttamente dal saldo Patto, al fine di semplificare gli adempimenti e consentire una più immediata percezione dell’obiettivo da parte degli enti interessati. In particolare, nel 2001, l’obiettivo è fissato nell’aumento (se positivo) o nella riduzione (se interno; b) i trasferimenti statali attribuiti sotto forma di compartecipazione ai tributi erariali; c) le entrate derivanti dai proventi della dismissione di attivita' finanziarie e dalla riscossione dei crediti; d) le spese derivanti dall'acquisizione di partecipazioni azionarie e di altre attivita' finanziarie, dai conferimenti di capitale e dalle concessioni di crediti. 21 In assenza di misure del Pil locale, il miglioramento richiesto è stato commisurato al livello di spesa corrente primaria: alle regioni è stato richiesto un miglioramento del saldo tendenziale pari all’1% della spesa corrente primaria del 1998. Ai comuni e alle province è stato richiesto un miglioramento pari al maggiore importo tra l’1,1% della spesa corrente primaria del 1998 e il 3% del saldo tendenziale. 22 Inoltre, per il 2000, era stato concesso agli enti locali di scegliere se utilizzare il saldo Patto 1999 o quello 2000 e se cumulare i risultati del 1999-2000. In quest’ultimo caso, l’obiettivo fissato era un abbattimento del disavanzo in misura pari allo 0,2% del Pil. 23 Sempre nel 2001 viene risolta la questione della spesa sanitaria, che viene esclusa, anche per il 2000, dal calcolo del saldo obiettivo per le Regioni. 49 negativo) del 3% del saldo patto dell’esercizio 1999. Vengono inoltre esclusi dai vincoli del PSI i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti24. Ulteriori novità vengono introdotte nel 2002, con una diversa articolazione della disciplina per le Regioni e per gli altri enti locali. Per le Province e i Comuni, si dispone che il saldo finanziario calcolato secondo le regole applicate per il 2001, può essere peggiorato entro il limite del 2,5% del risultato conseguito nel 2000. Viene inoltre introdotto un vincolo puro sulla spesa, nel senso che i pagamenti e gli impegni di parte corrente possono crescere al massimo nella misura del 6% degli impegni e dei pagamenti del 200025. Tale limite è ridotto al 2% per il 2003 e il 2004. Per quanto riguarda le Regioni, il vincolo sul saldo viene sostituito dal vincolo sulla crescita delle spese correnti (al netto di una serie di componenti, Tavola 4.1). Il tasso di crescita delle spese correnti, sia impegni sia pagamenti, viene fissato al 4,5% (pari alla somma dei tassi di inflazione programmati per il 2001 e il 2002, 2,8% e 1,7%) degli importi del 2000. Per il 2003, la disciplina del PSI subisce ancora sostanziali modifiche. La principale innovazione è una diversa impostazione per i comuni e per le province. Per i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, il disavanzo finanziario, calcolato sia per la gestione di competenza sia per la gestione di cassa, non può essere superiore a quello del 2001. Alle province è imposto un miglioramento del saldo finanziario del 2001 nella misura del 7%. Vengono aboliti i vincoli sulla spesa. Per le Regioni, per il triennio 2003-2005 restano valide le disposizioni vigenti (D.L. n.347/2001), ovvero vincoli alla crescita della spesa entro il tasso d’inflazione programmato annualmente nel DPEF (nel 2003 il limite era pari al 5,9%, somma dei tassi di inflazione programmati per il triennio 2000-2003). Per il 2004 province e comuni sono nuovamente soggetti allo stesso vincolo e il saldo finanziario non può essere superiore a quello del 2003 incrementato del tasso d’inflazione programmato per l’anno 2004 indicato nel Dpef (pari all’1,3%). Manca invece un esplicito riferimento al miglioramento dei risultati di bilancio degli enti in avanzo. Va infine sottolineato che la normativa sul PSI non ha mai imposto l’utilizzazione di determinati strumenti per il conseguimento degli obiettivi. Essa si è limitata a suggerire delle regole di comportamento tendenti a migliorare il saldo finanziario, quali il perseguimento di obiettivi di efficienza, aumento della produttività e riduzione dei costi nella gestione dei servizi pubblici, contenimento del tasso di crescita della spesa corrente, potenziamento della lotta all’evasione, aumento delle tariffe dei servizi pubblici a domanda individuale, dismissione di immobili, riduzione della spesa di personale, sviluppo delle iniziative per la stipula di contratti di sponsorizzazione, accordi e convenzioni, e simili. 24 Le ragioni per l’esclusioni dei piccoli comuni concernono da un lato l’esigenza di non imporre a questi enti adempimenti troppo gravosi per le loro strutture di ridotte dimensioni e dall’altro l’entità modesta dell’impatto dei loro risultati di bilancio sull'intero comparto degli enti locali. 25 Le spese correnti, ai fini del calcolo di quest’ultimo obiettivo, sono calcolate al netto degli interessi passivi, delle spese sostenute sulla base di trasferimenti con vincolo di destinazione dallo Stato, dall’Unione europea e dagli enti che partecipano al Psi, delle spese che per loro natura rivestono il carattere dell’eccezionalità e delle spese per il trasferimento di funzioni. Inoltre vengono escluse dalla definizione di spese correnti rilevante ai fini del Psi: casi di adozione da parte degli enti di impostazioni contabili diverse tra gli esercizi 2000 e 2002, riferite a gestioni di servizi di carattere imprenditoriale; spese interamente finanziate da proventi di convenzioni stipulate con enti pubblici e privati. 50 Questo breve excursus della determinazione degli obiettivi mostra un continuo cambiamento delle regole del gioco. Sembra pertanto che anche per il PSI, gli enti territoriali si trovino ad agire, secondo una ben tradizione italiana, in un contesto di incertezza, che certamente non incentiva una seria programmazione finanziaria. Tavola 4.1 - Il saldo del patto per le Regioni 1999 1) Entrate dei primi tre titoli • Trasferimenti di parte corrente dallo Stato 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti di parte capitale dallo Stato • Proventi della vendita di attività finanziarie • Riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi Saldo = (1) + (2) – (3) 2000-2001 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Addizionale Irpef; gettito Irap al netto del fondo perequativo; i contributi sanitari pregressi se contabilizzati tra le entrate tributarie • Entrate per trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti di parte capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari • Riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi • Spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione • Trasferimenti agli Enti del S.S.N., al netto delle spese della gestione sanitaria 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) + (4) 2002-2003 Vincoli alla crescita delle spese correnti, al netto di e 2004 • Interessi • Spese correnti finanziate dai programmi comunitari • Spese correnti relative all’assistenza sanitaria • Spese correnti per l’esercizio di funzioni statali trasferite nei limiti dei corrispondenti finanziamenti statali 51 4.2.3 Il sistema di monitoraggio La normativa sul PSI include anche disposizioni relative al sistema di monitoraggio sui comportamenti degli enti interessati, alla trasmissione delle informazioni e alla verifica della realizzazione degli obiettivi programmati. Anche queste disposizioni, al pari degli obiettivi, sono state più volte modificate dall’introduzione del Patto ad oggi. Un primo aspetto concerne la cadenza temporale del monitoraggio. Nel primo anno di applicazione del PSI, si prevedeva un monitoraggio con cadenza mensile per regioni, province autonome, province con popolazione superiore ai 400.000 abitanti e comuni con popolazione superiore a 60.000 abitanti, un monitoraggio su base trimestrale per i comuni con popolazione compresa tra 15.000 e 60.000 abitanti e uno annuale per gli altri comuni. Nel 2000 (circolare di attuazione del PSI per il 2000) la trasmissione dei prospetti informativi avviene invece su base trimestrale per regioni, province con popolazione superiore ai 400.000 abitanti e per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. La legge finanziaria del 2002 conferma la cadenza trimestrale del monitoraggio, ma restringe il numero di enti tenuti alla trasmissione delle informazioni, limitandolo alle regioni a statuto ordinario, alle province e ai comuni con popolazione superiore ai 60.000 abitanti. Un secondo aspetto riguarda l’oggetto del monitoraggio e dell’attività di verifica. Per il 1999, la verifica dell’andamento dei conti degli enti territoriali viene effettuata mediante la trasmissione al Ministero del Tesoro di prospetti sui dati di cassa effettivamente realizzati. Nel 2000, alle province e ai comuni di grandi dimensioni viene richiesto di fornire anche le informazioni necessarie al calcolo dell’indebitamento netto delle Pubbliche Amministrazioni (l’aggregato rilevante in sede europea). La finanziaria per il 2001 estende l’attività di verifica anche ai dati di competenza e richiede alle 52 Tavola 4.2 - Il saldo del patto per le Province 1999 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA) • Trasferimenti correnti dallo Stato 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato • Proventi della vendita di attività finanziarie e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi Saldo = (1) + (2) – (3) 2000 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA) • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) + (4) 2001 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA) • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 2002-2003 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA), per le province • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica; compartecipazione all’Irpef) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie, riscossione di crediti e dismissioni immobiliari 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese vincolate e per funzioni delegate o trasferite, nei limiti dei trasferimenti 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 2004 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA), per le province • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese vincolate e per funzioni delegate o trasferite, nei limiti dei trasferimenti • Maggiori oneri di retribuzione e connessi ad attività istruttoria di condono 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 53 Tavola 4.3 - Il saldo del patto per i Comuni 1999 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposte di registro, ipotecaria e catastale 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato • Proventi della vendita di attività finanziarie e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi Saldo = (1) + (2) – (3) 2000 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) + (4) 2001 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposte di registro, ipotecaria e catastale • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (addizionale sui consumi di energia elettrica) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 2002-2003 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 2004 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di • Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni • Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica) 2) Entrate del titolo IV, al netto di • Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi • Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti 3) Spese di parte corrente, al netto di • Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione • Maggiori oneri di retribuzione e connessi ad attività istruttoria di condono 4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità Saldo = (1) + (2) – (3) +(4) 54 alle province e ai comuni di grandi dimensioni di inviare, con cadenza trimestrale, al Ministero dell’Economia, anche tutte le informazioni sugli impegni di spesa assunti26. Per il 2003, viene introdotto un sistema di programmazione trimestrale dei flussi finanziari di cassa. In particolare, le province ed i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti sono tenuti a predisporre entro il mese di febbraio di ciascun anno una previsione cumulativa trimestrale del disavanzo di cassa, coerente con l’obiettivo annuale, da comunicare al Ministero dell’Economia. Viene comunque concesso loro di riassorbire gli eventuali scostamenti della gestione di cassa rispetto alle prvisioni trimestrali, intervenendo sui flussi di pagamenti, nella misura necessaria a riassorbire l’eventuale maggiore disavanzo. Nulla viene modificato per il 2004. L’ultimo aspetto, ma forse quello più importante, è relativo ai soggetti destinatari delle informazioni. Dall’analisi della normativa emata dal 1999 ad oggi, non si riesce ad individuare con chiarezza chi siano i responsabili della verifica. Come efficacemente sottolinea Goretti [2003], “I primi cinque anni di applicazione del PSI non fanno emergere un modello di responsabilità chiaro nella verifica del rispetto dell’obiettivo di disciplina fiscale” . Nella fase iniziale di attuazione del PSI, sembra che il compito di verifica del rispetto dell’obiettivo sul saldo di bilancio spetti al Ministero dell’Economia, in qualità di unico soggetto a ricevere le informazioni trasmesse dagli enti. Le disposizioni per il 2000 e il 2001 introducono inoltre l’obbligo per gli enti locali e per le regioni (in caso di peggioramento dei disavanzi) di trasmettere al Ministero stesso una relazione sulle misure correttive da porre in essere per il rispetto del Patto. Il Ministero dell’Economia non è comunque l’unico soggetto coinvolto nel processo di verifica dell’andamento dei conti degli enti territoriali. Entrano in gioco anche le conferenze Stato-Regioni e Stato-Città (il PSI del 2000 prevede infatti che il Ministero riferisca loro trimestralmente sugli esiti del monitoraggio). C’è un tentativo di maggiore coinvolgimento delle rappresentanze degli enti territorili (il PSI del 2001 prevede che i presidenti delle giunte regionali riferiscano alla conferenza Stato-Regioni sui risultati del comparto e che l’ANCI e l’UPI riferiscano i risultati delle province e dei comuni con più di 60.000 abitanti alla conferenza Stato-Città). Si cerca di promuovere la discussione sul vincolo di bilancio all’interno dei singoli enti (il Patto del 2000 prescrive che la relazione sulle misure da adottare sia allegata ai bilanci e che le giunte regionali, provinciali e dei comuni con più di 15.000 abitanti riferiscano ai rispettivi consigli). Con la legge finanziaria per il 2003 si assiste ad un’inversione di tendenza che sposta la responsabilità della verifica in capo agli enti interessati, che devono autocertificare il conseguimento degli obiettivi. È tuttavia parallelamente previsto il coinvolgimento di revisori dei conti esterni, ai quali viene assegnato il compito di verificare il raggiungimento degli obiettivi annuali del Patto e, in caso di fallimento, l’obbligo di comunicarlo al Ministero degli Interni. Il collegio dei revisori dei conti è infine tenuto a verificare anche la coerenza dell’obiettivo 26 Come si legge nelle relazioni della Corte dei Conti, “… In questo modo si tiene maggiormente conto della situazione finanziaria degli enti locali ove, per diverse ragioni, spesso la divaricazione tra il dato di competenza e di cassa è notevole e le misure adottate sul solo versante della cassa rischiano di dimostrarsi effimere”. 55 trimestrale con quello annuale e, in caso di inadempienza, a darne comunicazione all’ente, al Ministero dell’economia e alle associazioni di rappresentanza. 4.2.4 Il sistema di sanzioni ed incentivi “Il patto di stabilità interno non sembra avere la natura di norma imperativa quanto di esortazione programmatica … si tratta di un complesso di precetti tendenti a realizzare obiettivi condivisi, una maggiore trasparenza nei rapporti tra livelli di governo, la responsabilizzazione dei rappresentanti politici. Per realizzare questo obiettivo è sembrato più utile, almeno in una fase iniziale, definire forme premianti e procedure di monitoraggio informativo, che non misure di penalizzazione”. (Giarda e Goretti[2001]). Sulla base di queste premesse, nel triennio 1999-2001, il PSI non prevede un vero e proprio meccanismo sanzionatorio. Il Patto del 1999 stabilisce infatti una sanzione molto generica, da applicarsi solo in caso di procedura europea per deficit eccessivo 27 ; introduce invece un incentivo con riferimento all’obiettivo della riduzione del rapporto tra l’ammontare di debito e il PIL: agli enti che avessero presentato un piano finanziario di progressiva e continuativa riduzione del rapporto debito/Pil, proiettato su un arco temporale di almeno cinque anni, tale da assicurare, alla fine del quinquennio, un ridimensionamento del rapporto almeno del 10% rispetto al valore iniziale, sarebbe stato concesso di estinguere anticipatamente i mutui contratti con la Cassa Depositi e Prestiti a condizioni agevolate (con l’esonero dal pagamento della penale prevista dalle norme vigenti). La legge finanziaria per il 2000 non contiene più alcun riferimento a meccanismi sanzionatori, ma introduce un meccanismo premiante, consistente nella riduzione del tasso d’interesse sui mutui contratti con la Cassa DD.PP., per gli enti che avessero realizzato gli obiettivi prescritti28. Questo meccanismo avrebbe dovuto indurre gli enti con un maggior margine di compressione delle proprie spese (o di aumento delle entrate) a fornire un contributo superiore a quello medio degli altri enti, aumentando in tal modo la probabilità dell’intero comparto di raggiungere l’obiettivo. Il Patto del 2001 non fa alcun riferimento a sanzioni o incentivi. A partire dal 2002, il sistema viene modificato, nella direzione di introdurre maccanismi sanzionatori ben definiti. Come sottolineato dalla Corte dei Conti, “L’aspetto di innovazione maggiormente significativo è costituito dalla previsione di un sistema sanzionatorio di immediata cogenza che molto si discosta da quello fondato sul riverbero delle sanzioni comunitarie previsto nel primo impianto della normativa”. Vengono introdotti due tipi di sanzioni. Il primo consiste nella riduzione agli enti locali dell’importo dei trasferimenti 27 L’eventuale sanzione sarebbe stata posta a carico degli enti che non avessero realizzato l’obiettivo. La sanzione sarebbe stata assegnata per la quota ad essi imputabile, secondo modalità da definire in sede di Conferenza permanente per i rapporti fra Stato, Regioni e Province autonome e di Conferenza Stato-Città ed autonomie locali. 28 L’entità del premio – ovvero la riduzione del tasso d’interesse – era distinta: 50 punti base sul tasso di interesse nominale applicato sui mutui della Cassa Depositi e Prestiti, qualora l’obiettivo di miglioramento del saldo finanziario fosse distintamente raggiunto da ciascun comparto di enti; 100 punti base ad ogni singolo ente che avesse realizzato nel biennio 1999-2000 un miglioramento del disavanzo superiore allo 0,3% del Pil. 56 erariali spettanti, in misura pari alla differenza tra gli obiettivi e i risultati conseguiti (ovvero pari alla differenza tra i pagamenti effettivi e quelli che sarebbero discesi dal rispetto del vincolo del tetto di crescita stabilito). L’applicazione della sanzione è prevista anche per gli enti che non inviano al Ministero dell’Economia le informazioni sul conseguimento degli obiettivi, enti che vengono pertanto considerati inadempienti. Alla riduzione sanzionante è associata la possibilità di redistribuzione delle medesime risorse a favore degli enti adempienti. Il secondo tipo di sanzione riguarda la facoltà degli enti locali di procedere ad assunzioni di personale; il rispetto del PSI (come certificato da ciascun ente) diventa infatti una condizione necessaria per procedere all’assunzione di personale a qualsiasi titolo. Ma questa disciplina, a causa dei dubbi di incostituzionalità sollevati da più regioni, non è mai stata applicata, in quanto il Ministero dell’Economia non ha mai adottato il decreto di attuazione. Nel 2003 infatti il legislatore interviene nuovamente e abroga la norma relativa alla riduzione dei trasferimenti per gli enti locali inadempienti rispetto all’obiettivo della crescita della spesa. Resta invece il vincolo alle assunzioni di personale a tempo indeterminato. Per quanto riguarda le Regioni, il rispetto delle prescrizioni del Patto diventa invece condizione necessaria per ottenere le risorse aggiuntive, come concordate secondo l’Accordo dell’8 agosto 2001 (e successivi riferimenti normativi, Legge n.112/2002), in riferimento alla questione dei disavanzi del comparto della Sanità. Per gli enti locali, ai vincoli alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo, si aggiungono il divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziare le spese di investimento e l’obbligo di ridurre almeno del 10%, rispetto al 2001, le spese per acquisto di beni e servizi. In aggiunta, il PSI 2003 indica alcune prescrizioni da applicarsi in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi trimestrali, come accertato dal collegio dei revisori. In tali casi, gli enti locali sono tenuti ad intervenire tempestivamente, nel periodo successivo e fino al riassorbimento dello scostamento registrato, limitando i pagamenti correnti entro l’ammontare di quelli effettuati alla stessa data e allo stesso titolo nell’anno 2000. 4.3 I risultati raggiunti Come valutare i risultati del PSI? Ovvero, regioni ed enti locali hanno contribuito al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nell’ambito del Patto di stabilità e crescita? La risposta non è immediata né facile. Ci sono almeno due possibili alternative: la prima è quella di valutare le performances di ciascun comparto – regioni, province, comuni - nel suo complesso, attraverso il confronto tra risultati attesi ex-ante e risultati ottenuti ex-post; la seconda è quella di considerare i risultati conseguiti dai singoli enti di ciascun comparto. Per ciò che concerne la prima alternativa, la quantificazione ex ante degli effetti del PSI per i diversi comparti è definita nelle relazioni tecniche alle leggi finanziarie. La Tavola 4.4 evidenzia, per ogni anno di applicazione del Patto, il contributo totale richiesto agli enti territoriali e la ripartizione a carico dei singoli comparti. Mancano invece un’esposizione ed una discussione sistematica sui risultati raggiunti a consuntivo. Si può comunque fare riferimento innanzitutto alle informazioni diffuse dal Ministero dell’Economia, sia pure nella loro incompletezza e frammentarietà. 57 Tavola 4.4 – Risultati attesi ex ante (milioni di euro) Anno 1999 2000 2001 2002 Contributo richiesto ex- ante Anno Regioni a statuto ordinario 516 2003 Regioni a statuto speciale 196 Province 52 Comuni e comunità montane 372 Totale 1.140 Regioni a statuto ordinario 516 2004 Regioni a statuto speciale 196 Province 52 Comuni e comunità montane 372 Totale 1.140 Mancato obiettivo 1999 570 1.300 2005 Regioni Enti locali Totale Contributo richiesto ex- ante Regioni 400 Enti locali 2.200 Totale 2.600 Regioni Enti locali Totale 700 2.550 3.250 Regioni Enti locali Totale 1.000 3.060 4.060 310 1.100 1.410 Fonte: Goretti 2003 Ad esempio, per il periodo 1999-200029, il Ministero ha certificato con decreto il conseguimento da parte del comparto dei comuni e delle province degli obiettivi posti dal patto di stabilità interno (riduzione del disavanzo pari allo 0,2% del PIL). Ciò ha comportato l’applicazione del meccanismo premiante, per cui gli enti locali hanno beneficiato a partire dal 2001 della riduzione di 50 punti base sul tasso d’interesse nominale applicato sui mutui della Cassa DDPP. Gli enti che hanno conseguito una riduzione superiore allo 0,2% (2.152 comuni e 87 province) hanno beneficiato della riduzione del tasso d’interesse è di 100 punti base. Al riguardo, la Corte dei Conti30 aveva giustamento sottolineato che il sistema premiante, estendendo il beneficio a tutto il comparto, “… non incentiva i comportamenti responsabili degli enti e favorisce allo stesso modo quelli che non hanno compiuto uno sforzo di adeguamento”. E ancora “…si è perso il valore di direttiva volta a diffondere negli enti comportamenti virtuosi e si è avallata di fatto anche l’inadempienza, che non è stata sanzionata, ma premiata”. Per gli anni successivi non viene fornita dal Ministero nessuna informazione ufficiale sui risultati ottenuti. Tuttavia, dalla lettura dei documenti relativi ai conti pubblici, si desume che nel complesso province e comuni abbiano conseguito in buona misura i loro obiettivi, mentre più 29 I riscontri del Ministero hanno preso in esame congiuntamente gli esercizi 1999 e 2000, in ragione del fatto che gli enti avevano la facoltà di recuperare nel secondo esercizio la quota di riduzione del disavanzo non conseguita nel primo; un riscontro limitato al primo esercizio evidentemente si sarebbe dimostrato parziale e avrebbe rappresentato una situazione di adempimento meno favorevole di quella che si è potuta riscontrare al termine del biennio. 30 Si veda la Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività degli enti locali per l’esercizio 1999, allegata a deliberazione n.7/2001 58 problematica si prospetta la situazione delle regioni, soprattutto per le questioni legate alla gestione della spesa sanitaria. In relazione ai risultati conseguiti dai singoli enti di ciascun comparto, la fonte più esuriente è costituita dalle Relazioni della Corte dei Conti (Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni e Relazione sui risultati della gestione finanziaria e dell’attività degli enti locali), sull’attività degli enti locali e delle regioni. La verifica dei risultati conseguiti dagli enti soggetti al PSI viene effettuata attraverso un esame analitico della documentazione inviata dagli enti interessati, previa verifica formale dell’esattezza degli adempimenti richiesti, e quindi della corrispondenza tra i dati esposti nei modelli e gli omologhi dati riportati nel rendiconto. Le pagine che seguono offrono una panoramica della situazione per i comuni, le province e le regioni. 4.3.1 I risultati dei Comuni Le Tabelle da 4.1 a 4.3 illustrano i risultati raggiunti dai comuni soggetti al PSI negli anni dal 1999 al 2002. Nel 1999, primo anno di applicazione del Patto, si osserva che circa il 67% (663 su 994) dei comuni esaminati dalla Corte ha rispettato le prescrizioni del Patto. I 331 enti inadempienti sono dislocati in tutte le regioni e probabilmente si tratta anche di quei comuni che non hanno adottato le misure richieste per la riduzione del disavanzo (contenimento della spesa e aumento delle entrate) con una “completa inerzia rispetto alle azioni imposte dal patto” 31. Per il 2000, l’analisi della Corte è stata condotta separatamente per i comuni di maggiori dimensioni (con popolazione superiore a 60.000 abitanti) e per i comuni più piccoli (escludendo però quelli inferiori a 8.000 abitanti). Nel complesso, ha rispettato gli impegni il 53% dei comuni osservati, ma i risultati migliori sono stati conseguiti dai comuni di minori dimensioni. La situazione sembra migliorare nel 2001, con il 68% degli comuni in regola con gli obiettivi loro assegnati. Ancora una volta, i comuni più grandi sono quelli che incontrano le maggiori difficoltà ad adeguarsi alla disciplina del Patto. In riferimento al 2002, occorre ricordare l’introduzione dei vincoli alla crescita della spesa. Circa il 71% degli enti rispetta tutti e tre gli obiettivi, ovvero il miglioramento del 2,5% del saldo finanziario 2000, il limite del 6% alla crescita degli impegni e il limite del 6% alla crescita dei pagamenti; il 92% consegue l’obiettivo di miglioramento del saldo finanziario; l’86% rispetta la crescita del 6% dei pagamenti e l’82% la crescita del 6% degli impegni. Dal punto di vista della collocazione geografica dei comuni, la Calabria è la regione con la minore quota di enti che rispettano tutti gli obiettivi; i maggiori successi si realizzano in Molise, Liguria, Friuli. 31 Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività degli enti locali per l’esercizio 1999, allegata a deliberazione n.7/2001 59 Tabella 4.1 - Risultati dei comuni nel 1999 e nel 2000 1999 N. enti Piemonte Lombardia Liguria Trentino Veneto Friuli Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale 66 186 20 2 116 27 49 76 8 30 57 22 5 77 98 10 37 82 26 994 Comuni >60.000 ab. Enti in N. enti Enti in regola regola 47 4 1 126 11 7 14 1 1 1 91 5 4 24 2 2 40 9 8 58 9 7 5 2 1 22 30 2 2 13 2 2 1 36 9 5 49 5 1 7 1 1 29 4 3 54 5 3 16 1 1 663 72 49 2000 Comuni <60.000 Totale ab. N. enti Enti in N. enti Enti in regola regola 56 32 60 33 168 77 179 84 18 14 19 15 1 0 1 0 105 66 110 70 25 9 27 11 55 37 64 45 75 46 84 53 12 9 13 10 28 15 28 15 40 17 42 19 15 8 17 10 4 1 4 1 69 39 78 44 88 39 93 40 10 4 11 5 27 11 31 14 54 24 59 27 20 10 21 11 872 458 942 507 Tabella 4.2 - Risultati dei comuni nel 2001 Val d’Aosta Piemonte Lombardia Liguria Veneto Friuli Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Comuni >60.000 Comuni <60.000 Totale ab. ab. N. enti Enti in N. enti Enti in N. enti Enti in regola regola regola 1 0 1 0 2 0 64 46 66 46 12 10 164 90 176 100 3 1 26 15 27 16 5 4 108 76 113 80 2 2 22 14 24 16 12 8 64 38 76 46 10 8 76 55 86 63 1 1 16 12 17 13 1 1 36 17 37 18 2 2 47 34 49 36 2 1 17 12 19 13 4 4 4 4 6 2 66 55 72 57 6 4 97 74 103 78 1 1 12 10 13 11 2 1 23 17 25 18 6 4 67 53 73 57 60 Sardegna Totale 2 75 1 51 21 931 16 638 23 1006 17 689 Tabella 4.3 - Risultati dei comuni nel 2002 N. enti Piemonte Lombardia Liguria Veneto Friuli Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale 4.3.2 55 170 19 96 17 78 78 14 32 39 16 2 78 81 8 28 75 21 907 Enti in Rispetto regola con limite 2,5% i 3 obiettivi saldo 2000 42 121 17 72 14 62 56 11 19 26 9 2 46 63 6 14 51 12 643 52 158 19 93 16 72 73 14 29 35 15 2 66 78 8 24 66 16 836 Rispetto Rispetto limite 6% limite 6% impegni pagamenti 2000 2000 47 50 132 149 17 18 86 81 15 16 68 78 64 68 12 13 25 24 35 31 12 13 2 2 60 61 70 71 6 7 18 22 58 65 15 15 742 784 I risultati delle province Se si analizza la situazione delle province (Tabelle 4.4 e 4.5), risulta che nel triennio 1999-2001 la maggior parte degli enti ha realizzato gli obiettivi di miglioramento del saldo finanziario. Nel 2000 solo una provincia delle 81 esaminate risulta inadempiente. Nel 2002, su 88 enti esaminati, 67 raggiungono tutti e tre gli obiettivi fissati. L’obiettivo che è stato maggiormente rispettato è quello del limite alla crescita degli impegni di parte corrente (83 province su 88); il vincolo sui pagamenti è stato rispettato da 80 province su 88; infine, l’obiettivo del saldo è stato centrato da 77 province su 88. 61 Tabella 4.4 - Risultati delle province nel 1999-2001 Piemonte Lombardia Liguria Veneto Friuli Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale 1999 2000 2001 N. enti Enti in N. enti Enti in N. enti Enti in regola regola regola 7 6 6 6 8 86 10 10 10 10 11 11 4 2 4 4 4 4 6 6 7 7 7 7 4 3 4 4 4 3 9 8 7 7 9 97 8 7 6 6 9 96 2 1 2 2 2 2 3 2 3 3 4 4 4 3 5 5 5 5 4 4 2 2 4 4 2 1 2 2 2 2 4 1 4 4 4 4 5 4 5 5 5 5 2 2 2 2 2 1 5 5 5 5 4 3 8 7 3 2 9 5 4 2 4 4 4 3 91 74 81 80 97 89 Tabella 4.5 - Risultati delle province nel 2002 N. enti Piemonte Lombardia Liguria Veneto Friuli Emilia R. Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia 8 9 4 7 4 9 10 2 4 2 2 1 3 4 2 4 9 Enti in Rispetto regola con limite 2,5% i 3 obiettivi saldo 2000 3 7 1 7 4 8 9 2 3 2 1 1 2 2 1 2 8 4 9 2 7 4 8 10 2 4 2 2 1 3 2 1 3 9 Rispetto Rispetto limite 6% limite 6% impegni pagamenti 2000 2000 7 8 8 8 4 3 7 7 4 4 9 9 10 9 2 2 3 4 2 2 2 1 1 1 3 2 4 4 2 2 3 2 8 8 62 Sardegna Totale 4.3.3 4 88 4 67 4 77 4 83 4 80 I risultati delle Regioni Per quanto riguarda le Regioni, dalle Relazioni della Corte emerge che, nel complesso, per il triennio 1999-2001, la generalità delle regioni a statuto ordinario risulta più che adempiente agli obiettivi fissati dal Patto, nella versione non comprensiva della sanità. Ciò deriva anche dalla circostanza che per molte regioni l’obiettivo è consistito nel miglioramento di un saldo già positivo. Al raggiungimento dell’obiettivo in termini di saldo finanziario, si è però accompagnata una crescita della spesa corrente molto elevata, non soltanto nel settore della sanità. Anche l’obiettivo posto per il 2002, vale a dire il rispetto del limite del 4,5% per gli impegni e i pagamenti, sembra essere generalmente conseguito. Occorre però fare alcune precisazioni. In primo luogo, i dati sui quali si basano le verifiche della Corte sono spesso dati provvisori. In secondo luogo, manca una sistematica riscrittura delle poste di bilancio che renda omogenei i dati di bilancio delle diverse regioni, il che richiede un’estrema cautela nel valutare i risultati conseguiti da ciascuna regione. 4.3.4 La riduzione del rapporto debito/PIL Come è stato precedentemente ricordato, nel primo anno di applicazione del PSI, all’obiettivo del miglioramento del saldo finanziario degli enti locali si affianca l’obiettivo della riduzione del rapporto tra il debito e il PIL. Sembra anche opportuno ribadire che questo secondo obiettivo viene concepito come diretta derivazione del conseguimento del primo, secondo la logica del circolo virtuoso “minore disavanzo, minore debito”, come avevano precisato gli stessi Ministeri dell’Interno e del Tesoro, nell’emanare le disposizioni applicative32 della norma. In altre parole, l’obiettivo della riduzione del rapporto debito/PIL non viene concepita come un vincolo all’attuazione di spese di investimento, che anzi dovrebbero trarre stimolo dalla liberazione di risorse destinate a finanziare le spese correnti. Si è già anche detto del meccanismo premiante connesso al conseguimento dell’obiettivo. Quali risultati sono stati raggiunti? Ancora una volta, qualche elemento di valutazione si può trarre delle Relazioni della Corte dei Conti, che ha effettuato delle verifiche per le province ed i comuni con popolazione superiore a 8.000 abitanti33. Un problema che la Corte sottolinea ripetutamente è la scarsa percentuale di adesione degli enti all’invito a trasmettere i prospetti informativi necessari per l’attività di verifica, forse a 32 Circolari del Ministero dell’Interno del 18 febbraio 1999 e del Ministero del Tesoro del 12 marzo 1999 Occorre sottolineare che l’esposizione della Corte si presenta di difficile lettura anche per il lettore esperto. 33 63 causa del “minore grado di cogenza assegnato all’obiettivo della riduzione del debito”. Si ricorda infatti che la normativa non prevede per questo obiettivo né un sistema specifico di monitoraggio né tanto meno un meccansimo sanzionatorio in caso di inadempienza. Ne consegue che i dati forniti dalla Corte rappresentano un quadro solo parziale della realtà, in quanto gli enti virtuosi potrebbero essere ben più numerosi di quelli rilevati. La tabella 4.6 illustra comunque i risultati raggiunti a consuntivo dagli enti locali che hanno prodotto la documentazione richiesta. Province Comuni Totale Tabella 4.6 – Andamento del rapporto debito/Pil 1999 - 2001 Enti che hanno ridotto il rapporto Enti che hanno aumentato il rapporto debito/PIL debito/PIL 1999 2000 2001 1999 2000 2001 17 24 27 25 23 36 208 191 333 175 171 294 225 215 247 200 194 330 Essa mette in evidenza risultati non proprio soddisfacenti, dal momento che molti enti hanno visto aumentare il rapporto debito/PIL. L’interpretazione della Corte è che “non tutti gli enti avrebbero avuto l’opportunità di finanziare gli investimenti con risorse proprie di bilancio, rinvenute attraverso il risparmio della parte corrente e le dismissioni patrimoniali, e che per questi ultimi, dunque, una rigorosa applicazione dell’impegno alla riduzione dell’indebitamento si sarebbe sostanzialmente tradotta in un limite allo sviluppo delle spese per infrastrutture”. 4.4 Conclusioni Nel terzo capitolo sono stati discussi gli effetti delle politiche di riequilibrio dei conti pubblici sull’evoluzione della spesa pubblica per investimenti. Nel corso degli anni Novanta, il processo di risanamento della finanza pubblica, in vista dell’entrata nell’Unione Monetaria, ha prodotto, sia pure insieme ad altri fattori, un rallentamento degli investimenti di tutti i comparti delle Amministrazioni Pubbliche, particolarmente accentuato tra il 1992 e il 1995. Non sembra invece che l’introduzione del Patto di stabilità interno abbia avuto le stesse conseguenze. Esso viene introdotto a partire dal 1999 e da allora il rapporto tra investimenti pubblici e PIL non si riduce, ma anzi tende ad aumentare. Del resto, basta considerare che esso è costruito sulla base della cosiddetta golden rule, secondo la quale le spese per investimenti sono escluse dal calcolo del saldo obiettivo e i vincoli alla crescita della spesa riguardano solo le spese correnti. Sulla base della legislazione vigente, invece, si porrebbe qualche problema per il futuro. Si è infatti richiamato che a partire dal 2003, agli enti locali che non rispettano il patto è fatto divieto di ricorrere all’indebitamento anche per il finanziamento delle spese di investimento. 64 Inoltre, a partire dal 2005, le spese d’investimento dovrebbero rientrare nel calcolo del saldo obiettivo. Tuttavia, è in qualche modo dubbio che queste norme possano realmente rappresentare un vincolo per lo sviluppo delle spese in investimenti delle amministrazioni locali, e dunque per il recupero del gap infrastrutturale da parte del Paese. Questo sulla base di più ordini di considerazioni. In primo luogo, le sanzioni, come per esempio, la riduzione dei trasferimenti erariali agli enti inadempienti, sia pure previste per legge, non sono mai state applicate, per effetto di modifiche ex post (ad hoc) della normativa. Al contrario, semmai, il meccanismo premiante è stato applicato in modo perverso, attribuendo i benefici all’intero comparto degli enti locali, dunque anche agli enti inadempienti. In secondo luogo, gli obiettivi e la definizione del saldo rilevante sono cambiati quasi tutti gli anni. E’ dunque plausibile che – magari già con la legge finanziaria per il 2005 – si assista ad un ulteriore ripensamento. In terzo luogo, non andrebbe anche dimenticato, sebbene non sia questa la sede per approfondire l’argomento, che la riforma Costituzionale del 2001, al quinto comma dell’art.119, prevede già esplicitamente la golden rule per gli enti territoriali. A questi è fatto divieto di indebitarsi, se non per finanziare le spese di investimento; il che significa, rovesciando l’articolo, che la Costituzione riconosce alle regioni e altri enti territoriali il diritto di presentare bilanci in deficit, purché il saldo di parte corrente resti in attivo. Allo Stato centrale resta la possibilità di determinare in qualche misura che cosa rappresenti esattamente una spesa in conto corrente e che cosa una spesa in conto capitale, un aspetto che si è puntualmente verificato con la legge Finanziaria per il 2003. Ma è evidente che vincoli troppo restrittivi sul lato della possibilità da parte degli enti locali di finanziare gli investimenti potrebbero creare difficoltà di ordine costituzionale. La conclusione è dunque che né nel passato né nel prevedibile futuro è ipotizzabile che il Patto di Stabilità Interno abbia generato o possa generare compressioni indebite sulla spesa per investimenti degli enti locali, stimolandoli, per esempio, ad utilizzare forme alternative di finanziamento dell’infrastrutture (come le PPP) rispetto ai tradizionali investimenti pubblici. Caso mai, la preoccupazione è quella opposta, che la mancanza di vincoli appropriati sugli enti locali e in particolare sulle loro spese in conto capitale possa generare problemi agli Stati membri dell’Unione Europea, che sono tenuti per il Patto a soddisfare vincoli sui deficit complessivi (e non solo su quelli di parte corrente) e sul debito. E questa preoccupazione è particolarmente seria per un Paese come il nostro, caratterizzato da finanze pubbliche non ancora a posto e da un forte debito pregresso. Tuttavia, queste preoccupazioni dovrebbero essere anche viste nel contesto dell’accessissimo dibattito europeo sugli effetti del Patto di stabilità e crescita e delle sue necessarie revisioni. Da un lato, da più parti si auspica l’adozione della golden rule anche a livello europeo, proprio per i timori che il Patto possa indebitamente rallentare gli investimenti e dunque la crescita economica dell’area. Quest’ipotesi sembra essere stata per il momento formalmente accantonata dalla Commissione, ma la stessa ha riconosciuto l’esigenza di un’interpretazione più flessibile del Patto, anche alla luce dei recenti avvenimenti concernenti la mancata approvazione delle sanzioni (da parte dell’Ecofin) per la Francia e la Germania e la successiva decisione della Corte Europea di Giustizia sul ricorso presentato dalla 65 Commissione. In pratica, queste vicende possono condurre ad un’interpretazione meno “fiscale” del Patto, possibilmente sostanzialmente equivalente all’imposizione di una ragionevole Golden Rule a livello europeo. Infine, nonostante le ambiguità e incertezze del PSI italiano, in particolare per la mancata definizione e attuazione di un meccanismo di sanzioni e incentivi adeguato, l’esperienza italiana negli ultimi cinque anni non sembra peggiore di quella di altri Paesi europei per quel che riguarda il controllo delle finanze degli enti locali, per quanto sia difficile misurare il contributo che le regole di disciplina fiscale, vuoi basate sul modello cooperativo vuoi basate sulla legislazione fiscale, stiano effettivamente dando al processo di risanamento finanziario nei diversi Paesi. 5 LA PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATA: TIPOLOGIE, ESPERIENZE INTERNAZIONALI E QUESTIONI TEORICHE L’obiettivo di questo capitolo è quello di introdurre il tema delle Partneship fra Pubblico e Privato (PPP), come forme di investimento in infrastrutture pubbliche alternative all’investimento pubblico diretto. Vengono in primo luogo analizzate le origini e lo sviluppo della PPP a livello internazionale e specialmente nel mondo anglosassone, dove tali iniziative sono nate e si sono poi sviluppate – fino al suo esempio forse più eclatante, il finanziamento e la gestione del tunnel sotto la Manica. In secondo luogo, vengono prese in considerazione le diverse forme di PPP, con particolare attenzione alla Finanza di Progetto, che è la principale e riguarda specificamente progetti per la costruzione e la gestione di infrastrutture spesso su grande scala. Infine, si discutono, su un piano concettuale, i vantaggi e gli svantaggi che la PPP presenta rispetto ai tradizionali investimenti pubblici diretti, approfondendo alcuni dei punti già affrontati nel primo capitolo. Verranno discussi in particolare gli aspetti relativi all’efficienza economica, alla selezione dei progetti, all’allocazione del rischio, al sistema di finanziamento e alla governance dei progetti. 5.1 Sviluppo e diffusione della PPP Negli ultimi anni il settore pubblico di molti Paesi sviluppati ed anche in via di sviluppo ha introdotto forme di collaborazione con il settore privato per la costruzione e/o la gestione di opere di interesse pubblico. Diverse forme di Public-Private Partnership (PPP) hanno modificato il tradizionale approccio dell’intervento pubblico, soprattutto in quei settori capaci di produrre una remunerazione diretta per l’investimento privato, come i settori energetico, dei trasporti e delle telecomunicazioni, della sanità, dell’innovazione, dell’edilizia e di molte infrastrutture locali. Le diverse forme di PPP vengono oramai percepite universalmente come un valido supporto alla creazione di infrastrutture pubbliche ed in vari Paesi è stato predisposto il quadro giuridico e create istituzioni apposite per favorirne lo sviluppo. 66 Nel caso italiano, l’Unità Tecnica Finanza di Progetto (di cui ci si occupa in maggior dettaglio nel capitolo successivo) individua tre tipologie di progetti realizzabili tramite interventi in PPP: • “progetti dotati di una intrinseca capacità di generare reddito attraverso ricavi da utenza”: i ricavi commerciali prospettici di tali progetti consentono all’investitore privato un integrale recupero dei costi di investimento nell'arco della vita della concessione. In tale tipologia di progetti, il coinvolgimento del settore pubblico si limita ad identificare le condizioni necessarie per consentire la realizzazione del progetto, facendosi carico delle fasi iniziali di pianificazione, autorizzazione, indizione dei bandi di gara per l'assegnazione delle concessioni e fornendo la relativa assistenza per le procedure autorizzative; • “progetti in cui il concessionario privato fornisce direttamente servizi alla pubblica amministrazione”: è il caso di tutte quelle opere pubbliche - carceri, ospedali, scuole - per le quali il soggetto privato che le realizza e le gestisce trae la propria remunerazione esclusivamente (o principalmente) da pagamenti effettuati dalla pubblica amministrazione; • “progetti che richiedono una componente di contribuzione pubblica”: è il caso di iniziative i cui ricavi commerciali da utenza sono di per se stessi insufficienti a generare adeguati ritorni economici, ma la cui realizzazione genera rilevanti esternalità positive in termini di benefici sociali indotti dalla infrastruttura. Tali esternalità giustificano l'erogazione di una componente di “contribuzione pubblica.” La diffusione del PPP è stata strettamente legata a fenomeni generalizzati che hanno riguardato il complesso del mondo occidentale negli ultimi vent’anni, quali: o i diffusi processi di privatizzazione, cioè di riconduzione al settore privato di settori o imprese originariamente pubbliche (non solo nei paesi occidentali ma anche nelle economie in transizione con un passato di economia pianificate), processi che si sono spesso accompagnati alla diffusione di forme di PPP; o la globalizzazione, che rende sempre più necessario affrontare opere pubbliche di vaste dimensioni, di notevole contenuto tecnologico, soggette ad alto rischio e sempre più spesso di valore transnazionale così da richiedere l’intervento di imprese altamente specializzate e di più Paesi; o una tendenza verso la riduzione o lo stretto controllo della crescita della spesa pubblica, spesso richiesta da vincoli di bilancio nazionali o internazionali, a fronte di una domanda non decrescente di infrastrutture (esigenze particolarmente sentite nel contesto europeo), e quindi la necessità di strumenti off-balance sheet (fuori bilancio nel senso contabile del termine). 67 A seguito di questi processi, governi ed enti locali stanno cooperando col settore privato un po’ dappertutto nella fornitura di servizi e infrastrutture attraverso sistemi contrattuali, concessioni di vario tipo, forme di Project-Financing, accordi di Build-Operateand-Transfer, joint ventures pubblico-private ed altre modalità ancora. Sebbene tali forme siano più sviluppate nei Paesi anglosassoni, dove tradizionalmente è meno rilevante il peso dell’intervento pubblico e più pragmatico il sistema giuridico, anche altri Paesi occidentali stanno espandendo queste forme di collaborazione e persino molti Paesi in via di sviluppo le trovano utili al fine di risolvere il gap infrastrutturale in modo più veloce ed efficiente di quanto potrebbe fare il settore pubblico da solo. Diverse forme di PPP sono diffuse a livello internazionale ed il loro utilizzo dipende dal settore di impiego, dalle componenti di rischio dell’attività, dagli obiettivi dell’ente pubblico e dal contesto legislativo e industriale in cui si applicano. Sebbene il confine fra diverse alternative sia talvolta labile e le diverse legislazioni nazionali rendano difficile una comparazione internazionale, le principali forme di PPP possono essere classificate come segue:34 • Contratti di Outsorcing con Imprese Private Rappresentano la prima e più tradizionale forma di outsorcing attuata da enti pubblici di ogni livello e possono concretizzarsi mediante contratti di servizio, di gestione o di leasing.35 Il principio economico sotteso al loro utilizzo è lo stesso di ogni forma di outsorcing, ossia la convenienza a delegare attività in cui privati hanno un vantaggio operativo. Vi appartengono tre tipologie: o Contratti di Costruzione. Prevedono l’appalto della sola costruzione a una impresa privata, per poi lasciare la gestione al settore pubblico o cederla in una nuova concessione a privati tramite un contratto di gestione. Sono tipicamente impiegati per le opere pubbliche laddove non vi siano imprese del settore pubblico abilitate ad occuparsene; o Contratti di Servizio. Prevedono la fornitura di un servizio per un predeterminato periodo di tempo. Si applicano spesso a servizi di manutenzione e pulizia delle strade, raccolta della spazzatura, gestione degli ospedali, servizi di ambulanza e di trasporto su autobus, servizi di purificazione dell’acqua, ecc.; o Contratti di Gestione. Prevedono la concessione della sola gestione di un’attività di proprietà pubblica a tempo determinato. Vengono applicati quando la proprietà pubblica è strategica nel lungo periodo e costituisce un asset da mantenere e controllare, ma la gestione pubblica diventa onerosa o inefficiente rispetto a quella privata; 34 Si veda Rondinelli (2004) per una classificazione simile ed un’attenta discussione di esempi tratti da vari paesi industrializzati ed in via di sviluppo. 35 Talvolta si distingue anche tra l’appalto, che prevede il mantenimento del rischio a carico dell’ente pubblico e la concessione, che invece trasferisce il rischio stesso al privato. 68 o Contratti di Leasing. Prevedono la locazione di un bene o un’attività di proprietà pubblica dietro pagamento di un canone. Sono spesso usati per imprese di servizio pubblico e operazioni commerciali. • Imprese miste pubblico-private. Spesso enti pubblici centrali e locali cercano soci privati per costituire società miste pubblico-private, che vengono tipicamente utilizzate per la riorganizzazione dei servizi pubblici locali, soprattutto nella fase di realizzazione e gestione di servizi pubblici integrati. Le politiche di privatizzazione attuate in molti Paesi richiedono o permettono spesso al Governo di trattenere parte delle azioni di imprese ritenute profittevoli o politicamente strategiche, facendone in effetti delle joint-ventures pubblico-private. Nel settore dell’innovazione e della ricerca, capitale pubblico viene spesso irrorato in imprese private ad alto rischio, sostituendo il tipico ruolo delle società finanziarie in joint-ventures che probabilmente il mercato da solo non avrebbe creato per l’eccessivo rischio connaturato all’attività di R&D e la limitata appropriabilità dei profitti derivanti. • Project-Financing per Opere Pubbliche. E’ utilizzato per la costruzione di opere pubbliche che possono essere trattate come progetti autonomi nel loro finanziamento e sviluppo, spesso su vasta scala. In effetti il project financing è nato negli anni ’30 per il settore petrolifero ed energetico americano, quando imprese con limitate risorse finanziarie costruivano pozzi in Texas e Oklahoma o impianti per la produzione di energia elettrica. Queste operazioni avvenivano in un ambito strettamente privatistico: privata era la società che realizzava l'impianto, privata era la società che acquistava l'energia prodotta attraverso contratti di fornitura a lungo termine. Più recente è invece l’impiego per la costruzione di grandi opere pubbliche, di cui l’Eurotunnel sotto la Manica rappresenta l’esempio più eclatante. Vale la pena di richiamare l’esperienza del Regno Unito, dove dal 1992 ad oggi sono stati siglati centinaia di progetti pubblici finanziati dai privati, di cui il 30% nella sanità, il 20% nell’educazione, il 14% nei servizi, il 12% nei trasporti, il 10% nella sicurezza, l’8% nella difesa, il 4% nella raccolta della spazzatura ed il 2% nella giustizia. Nell’80% dei casi, si tratta di costruzione di infrastrutture a tariffazione. Nel 1992 è stato approvato il Private Finance Initiative inglese (PFI), un programma teso a creare un contesto istituzionale favorevole al coinvolgimento dei privati nella realizzazione di investimenti pubblici, attraverso l'erogazione di concessioni di costruzione e gestione in presenza di condizioni di convenienza economica per il settore privato e di ottimizzazione dei costi per il settore pubblico. L’impiego di queste nuove forme di PPP ha avuto buoni risultati in termini di efficienza nell’esecuzione delle opere, sia in relazione alla riduzione dei casi di superamento dei costi preventivati (dal 73% al 22% dei casi), sia in relazione alla riduzione dei ritardi nel completamento delle opere (dal 70% al 24% dei casi, di cui due terzi riguardavano ritardi inferiori ai due mesi). Addirittura si sono registrati anticipi nella conclusione dei lavori in un progetto su tre36. 36 Cfr. National Audit Office (2003). 69 In termini generali, si può vedere nell’Eurotunnel finanziato da inglesi e francesi interamente attraverso il mercato, il progetto che ha reso popolare il project financing per opere pubbliche sul continente. Nonostante questo stesso progetto non si sia poi rivelato di grande successo, il suo alto valore simbolico e di immagine ha certamente promosso l’espansione di forme di project financing in Paesi più tradizionalmente legati all’investimento pubblico diretto come quelli dell’Europa continentale, Italia inclusa. Una spinta in tal senso da parte dell’Unione Europea, e una rapida fase di adeguamento normativo, hanno poi velocizzato il processo. Le fasi che caratterizzano un’operazione di project financing per la costruzione di opere pubbliche sono a) la predisposizione di un progetto preliminare da parte di un ente promotore, b) una analisi di fattibilità tecnica, economica e finanziaria, c) la pianificazione del finanziamento e l’affidamento dell’opera ad una “società di progetto” (o "SPV" - Special Purpose Vehicle) costituita ad hoc, d) la costruzione dell’opera ed e) l’avviamento della sua gestione. Fra i vantaggi di un’operazione di project financing, vi sono37 minori rallentamenti burocratici e maggiore trasparenza, possibilità di beneficiare di un’elevata leva finanziaria, indipendenza del progetto dall’ente pubblico e la possibilità di ripartizione dei rischi connessi all’operazione. Si noti che tradizionalmente, le attività dell’operazione specifica costituiscono l’unica garanzia collaterale associabile al finanziamento dello stesso e l’autonomia della struttura giuridica creata ad hoc isola l’attività dal patrimonio dell’ente pubblico (tramite una struttura di cosidetto ring fence, ovvero di “anello di recinzione”). Ne consegue che la garanzia del debito utilizzato dalla società di progetto, nonché della copertura dei costi di gestione e della remunerazione del capitale di rischio, è costituita dal flusso di cassa che l’operazione produrrà: si parla di tecnica flow based, assai comune nei Paesi anglosassoni, meno altrove. Finanziariamente è possibile classificare le forme di Project Financing in funzione della tipologia di rivalsa dei soggetti finanziatori sugli azionisti della Società di Progetto, come operazioni 1) "senza rivalsa" (without recourse), in cui è esclusa la rivalsa dei finanziatori sugli azionisti, 2) con "rivalsa limitata" (limited recourse), in cui la rivalsa dei finanziatori sugli azionisti è limitata nel tempo, nell'ammontare e nella qualità; e 3) con "rivalsa piena" (total recourse). All’interno della tipologia più generale di PPP nota come project financing per le opere pubbliche, si è soliti distinguere cinque alternative: o Accordi Build-Operate-Transfer (BOT). Implicano l’affidamento della realizzazione dell’opera ed il suo iniziale sfruttamento economico ad una impresa privata per il periodo di concessione. Al termine del quale, l’opera viene trasferita all’ente pubblico, il quale così non sostiene né i costi di costruzione né i rischi connessi ad essa. E’ il metodo più impiegato nel campo delle infrastrutture di grande dimensione, come ponti, autostrade, porti, centrali energetiche,…. o Accordi Build-Operate-Own (BOO). Implicano generalmente la vera e propria privatizzazione dell’opera ovvero una concessione di durata pari all’intera vita economica della stessa. Alternativamente possono prevedere la sola possibilità di 37 Cfr Tamarowski (2001) per un’analisi più dettagliata di questi fattori. 70 rinnovare la concessione dello sfruttamento dell’opera a seconda delle condizioni createsi nel tempo relativamente alla redditività del progetto. Anche questa opzione si applica tipicamente a opere di tipo infrastrutturali. La sottocategoria degli accordi Build-Operate-Own-Transfer (BOOT) implica un periodo di concessione piuttosto lungo, generalmente di decenni, al termine del quale la proprietà dell’opera passa comunque all’ente pubblico che l’ha originariamente commissionata. o Accordi Build-Lease-Transfer (BLT). Implicano un contratto di leasing per cui l’ente pubblico resta proprietario dell’opera ma ne concede una locazione associata ad un diritto di gestione e sfruttamento a fronte di un canone periodico. Il contratto ha tempo determinato e al termine dello stesso l’opera può essere anche acquistata definitivamente dal locatario sotto pagamento di un prezzo di riscatto predeterminato. o Accordi Build-Operate-Own-Subsidize-Transfer (BOOST). Implicano una compartecipazione dell’ente pubblico al finanziamento dell’opera dovuto all’insufficienza del flusso di cassa generato per compensare i costi di produzione e gestione: in gergo si parla di “opere fredde” per distinguerle dalle “opere calde” che generano flussi di cassa maggiori. Questa tipologia riguarda la produzione di beni pubblici tradizionali o misti, ovvero che non hanno il carattere di beni privati escludibili (e su cui dunque non si può applicare tariffe). o Accordi Rehabilitate-Operate-Leaseback (ROL). Implicano la ristrutturazione, piuttosto che la costruzione, di opere pubbliche già esistenti e di proprietà pubblica, la loro gestione per un periodo di tempo determinato e la loro restituzione all’ente pubblico con una procedura di lease-back. Altre forme minori di PPP includono: 5.2 • sponsorizzazioni di opere pubbliche o di eventi cuturali (assai tipico è il caso di restauro conservativo di beni storici, artistici, architettonici ed archeologici o di mostre d’arte finanziati dal settore privato); • deleghe di responsabilità per servizi o infrastrutture ad organizzazioni nongovernative (magari non-profit); • cooperazioni volontarie o informali fra pubblico e privato. L’esperienza internazionale ed in particolare inglese Come si è già detto, nell’ultimo quarto di secolo forme diverse di PPP si sono sviluppate a partire dai paesi anglosassoni, in particolare USA, UK, Irlanda, Canada e 71 Australia ed estese un po’ ovunque a partire da Olanda e Austria,38 ma anche paesi di tradizione latina come Francia, Portogallo,39 Italia.40 L’esperienza del Regno Unito è di gran lunga la prima e la più rilevante in Europa. Si noti che l’uso della PPP è stato promosso da governi conservatori in un periodo di crisi economica, valutaria e di finanza pubblica (nel 1992), ma è stato continuato e ulteriormente espanso dai governi laburisti. Si noti tuttavia anche che il debito pubblico del Regno Unito è pari solo al 31% del PIL, per cui l’economia potrebbe sostenere tranquillamente ulteriori livelli di indebitamento, specialmente per spese in conto capitale. In effetti, il ricorso alla PPP nel Regno Unito riflette soprattutto la ricerca di un miglior rapporto costo/efficienza nella spesa pubblica. Ricerche britanniche (Wilson, [2003]) hanno individuato risparmi nei costi del 2040% per le prigioni nel Regno Unito (le carceri sono stati fra i primi investimenti in PPP pianificati già dal governo Thatcher), del 20-30% per i progetti idrici in Scozia, USA e Canada, del 10-20% per le strade nel Regno Unito, Australia e Canada e fino al 5% per gli ospedali nel Regno Unito. La diffusione iniziale della PPP è stata comunque lenta anche nel Regno Unito, eccezion fatta per i settori dei trasporti e delle prigioni che sono risultati i più remunerativi per i privati. Lo sviluppo maggiore si è avuto verso la fine degli anni ’90. Nell’anno finanziario 2003-2004 ci si attende il finanziamento di 31 miliardi di euro di investimenti pubblici tramite PPP, a fronte dei 35 miliardi di investimenti pubblici diretti: sebbene la componente di PPP sia gonfiata dai nuovi investimenti per la Metropolitana di Londra (le stime per il 2004-2005 sono di 7,5 e 39 miliardi di Euro), la PPP è ormai una componente essenziale dell’investimento britannico in trasporti, edilizia scolastica e sanitaria (Wilson, [2003 a,b]). 5.2.1 Il tunnel sotto la Manica Il tunnel sotto la Manica che congiunge Francia e Inghilterra è forse uno degli esempi più spettacolari di PPP, dal quale si può trarre qualche insegnamento, in negativo e in positivo, sull’utilizzo dello strumento. Sebbene progetti di questo tipo risalissero ad almeno il XIX secolo 41, solo a partire dagli anni 70 i costi dell’operazione si sono ridotti abbastanza da rendere appetibile il progetto e solo nel 1985 i dubbi del Regno Unito sono caduti, a seguito dell’accordo a costruire il tunnel senza investimenti pubblici diretti. Il progetto è stato avviato nel 1986 e ratificato nel luglio 1987. La concessione originale, firmata nell’agosto 1987, per la costruzione e gestione del Tunnel si configurava come un accordo BOT che prevedeva una durata fino al 2042. 38 Sulle esperienze di PPP di Olanda e Austria nel campo dell’innovazione si veda OECD (2003a,b). Sull’esperienza portoghese, che ha devoluto alle PPP la costruzione del ponte sul Tago a Lisbona (17 Km per 1000 milioni di Euro) nel 1993, ed un radicale ampiamento della rete autostradale (360 Km per 1200 milioni di Euro e una concessione di 30 anni) a partire dal 2000 si veda Fernades (2003). 40 Nel 2000 un importante Forum tenuto dall’ONU e dalla Commissione Europea (2001) ha fatto il punto della situazione e dettato i principi guida che dovrebbero informare l’adozione di tali pratiche per lo sviluppo di infrastrutture sulla base delle ultime esperienze internazionali. 41 Del 1802 è un progetto di tunnel di Albert Mathieu. Cfr. Li e Wearing (2001). 39 72 Il finanziamento dell’operazione è stato in parte garantito dal mercato azionario. Nel novembre 1987 vennero emesse le azioni dell’Eurotunnel a 3,5 sterline l’una, con una raccolta di 770 milioni di sterline. Gli scavi cominciarono nel dicembre dello stesso anno. Le aspettative circa l’efficienza della fase di costruzione e circa il futuro sfruttamento commerciale dell’opera erano alte, tanto da portare il valore delle azioni a 11,64 sterline nel giugno 1989 e da restare al di sopra del prezzo di emissione comunque fino al 1994. In questa data i lavori furono completati con un anno di ritardo, l’Eurotunnel aprì ufficialmente il 6 maggio e lo sfruttamento commerciale potè iniziare. Tuttavia emerse anche che i costi erano stati doppi rispetto a quanto previsto42 e che i guadagni dallo sfruttamento successivo inferiori alle previsioni per la accresciuta competizione dei servizi di traghetto, un traffico di passeggeri pari a un terzo delle previsioni ed un aumento dei costi operativi dovuto a esigenze impreviste. Nel settembre del 1995, Eurotunnel bloccò il pagamento degli interessi sul debito a breve. Nel novembre 1996 si verificò un incendio che bloccò il traffico fino a maggio 1997. A questo punto la società era sull’orlo del fallimento ed il prezzo delle azioni era crollato. L’intervento di salvataggio implicò una ristrutturazione finanziaria e l’estensione della concessione fino al 2086. Gradualmente l’indebitamento è stato ridimensionato e stabilizzato e gli interessi ridotti. Tuttavia, a tutt’oggi, il breakeven inizialmente previsto per il 1998 resta assai lontano, e i risultati operativi stentano a decollare. Questo progetto mette in luce importanti elementi. Il principale è l’alto rischio connesso ad opere di vasta scala, non solo di tipo politico e macroeconomico (nella fattispecie non troppo rilevante ed adeguatamente assicurato), ma soprattutto di previsione dei costi di costruzione e del rendimento della gestione. Nel momento in cui il finanziamento deriva dal settore creditizio, è plausibile che le banche abbiano le capacità di stimare adeguatamente costi e rendimenti nonché i rischi ad essi connessi, ma nel momento in cui il finanziamento deriva dal mercato, i singoli azionisti non sono in grado di farlo e devono basarsi sulle informazioni fornite da terzi, che spesso non sono accurate o sono addirittura intenzionalemente deviate. Nel caso dell’Eurotunnel, molti piccoli azionisti (soprattutto francesi, cioè appartenenti ad un mondo finanziario meno sviluppato di quello inglese) non erano per nulla al corrente dei rischi connessi con l’investimento nelle azioni o pensavano addirittura che vi fossero garanzie dei Governi (che invece erano del tutto escluse). In questi casi, in cui la confusione fra responsabilità private e pubbliche può emergere, è opportuno che il settore pubblico, pur non fornendo finanziamenti né garanzie, verifichi la correttezza delle informazioni fornite al mercato circa le stime di remuneratività, tempistica e rischio. Ciò è importante anche per creare un clima di aspettative positive su progetti di PPP finanziati dal mercato che ne permetta la ripetizione in futuro. 5.3 Vantaggi e limiti della PPP Una valutazione complessiva dell’uso di forme di PPP deve confrontare tali pratiche con l’alternativa dell’investimento pubblico diretto in relazione (almeno) ai seguenti aspetti: 1) 42 I costi totali sono ammontati a 9,5 miliardi di sterline, di cui il 22% ottenuto dalle emissioni di titoli azionari ed il resto da prestiti bancari. 73 efficienza produttiva, 2) selezione dei progetti, 3) allocazione del rischio, 4) sistema di finanziamento e 5) governance dei progetti. • Efficienza produttiva E’ un luogo comune ritenere che l’investimento privato sia più efficiente (possa essere effettuato a costi inferiori) di quello pubblico. La teoria economica generalmente supporta questa conclusione per diversi motivi, alcuni dei quali si collegano alla teoria delle asimmetrie informative e dei contratti incompleti a cui abbiamo già fatto riferimento nel primo capitolo. o Innanzitutto la massimizzazione dei profitti perseguita dal settore privato genera naturalmente una minimizzazione dei costi, laddove obiettivi diversi dei manager pubblici possono gonfiare i costi. I manager pubblici possono preferire un’espansione del budget per aumentare il loro controllo o deviare risorse verso obiettivi non connessi al progetto, sono più sensibili a forme di lobbying o di vera e propria corruzione, nonché alle esigenze dei politici da cui dipendono. Inoltre, all’interno del settore pubblico, il vincolo di bilancio è tipicamente più soft che nel settore privato, ed è dunque più probabile che i manager pubblici non tendano aminimizzare i costi. o In secondo luogo, la prospettiva temporale affrontata dal settore privato induce una particolare attenzione alla riduzione dei tempi di sviluppo dell’opera in modo da avvicinare il momento dello sfruttamento commerciale e quindi aumentare i profitti attesi, ridurre la durata dell’indebitamento necessario ed anche i rischi che possono emergere nella fase di sviluppo. Al contrario, manager pubblici e politici sono meno sensibili a questa esigenza e più sensibili invece alle scadenze contrattuali dei primi e elettorali dei secondi. o In terzo luogo, i privati sono tendenzialmente volti a innovare maggiormente per ridurre i costi. Al contrario, come già ricordato nel capitolo 1, i manager pubblici hanno pochi incentivi a innovare, perché il loro reddito è scarsamente collegato alle performances (anche per problemi di non misurabilità o verificabilità delle stesse) e anche perché possono anche essere sostituiti senza beneficiare degli investimenti fatti. Quindi, laddove le innovazioni per la riduzione dei costi sono importanti, la PPP offrono un vantaggio rispetto al tradizionale investimento pubblico. Questo vantaggio si estende anche alle innovazioni per la qualità, quando è possibile contrattare la qualità della gestione ancor prima della costruzione dell’opera, o quando il privato può essere reso residual claimant di almeno parte dei ritorni sociali dell’innalzamento nella qualità. o Infine, quando i privati assumono un’iniziativa di investimento pubblico sono tipicamente scelti dagli enti appaltanti sulla base di gare o aste che selezionano preliminarmente i candidati più efficienti e li vincolano anche a garantire certi risultati almeno in via parziale. In questo senso, le procedure di gara pubblica introdotte in molti Paesi in cui la PPP si sta sviluppando, Italia inclusa, forniscono una garanzia di 74 efficienza produttiva a parità di risultato. Inoltre privati che si specializzano in certe attività acquisiscono know-how ed economie di scala da riutilizzare per più progetti simili, un accumulo di capitale di competenze che sarebbe difficile perseguire e conservare all’interno del settore pubblico. Naturalmente, i privati potrebbero essere portati ad esagerare le proprie capacità in sede d’asta denunciando bassi costi e tempi brevi. Evitare questi incentivi perversi richiede di chiarire preliminarmente che le responsabilità di prestazioni diverse da quelle previste siano addossate agli stessi privati. Un primo metodo è di definire i tempi ed i modi di sfruttamento dell’opera sulla base delle dichiarazioni fatte senza successive deroghe, così da stabilire incentivi a denunciare le capacità effettive dei privati in sede d’asta (i loro guadagni sarebbe proporzionalmente ridotti in caso di insuccesso). Un secondo metodo è di escludere forme di garanzia pubblica su eventuali insuccessi. Nel linguaggio della moderna teoria dei contratti, simili accorgimenti possono non essere renegotiation-proof, ma sono essenziali per ottenere gare trasparenti ed efficienti. Per contro, occorre evidenziare anche alcuni limiti dell’intervento privato nel campo degli investimenti pubblici. o In primo luogo, il settore privato potrebbe manifestare la tendenza ad un’eccessiva riduzione dei costi, con effetti negativi sulla qualità del prodotto finale o sui benefici sociali dell’investimento. La letteratura teorica sull’incompletezza contrattuale nei rapporti di PPP sottolinea questo fattore: laddove è impossibile o difficile contrattare la qualità dell’opera in fase di gestione, diventa preferibile l’investimento diretto operato da manager o imprese pubbliche o tramite appalto a privati per la sola costruzione. o In secondo luogo, il settore privato cui sono demandati investimenti di valore sociale acquisice delle informazioni private circa le tecnologie a sua disposizione, i costi ad esse connessi, i trade-offs fra costi e qualità e così via. Per questo motivo, in sede contrattuale, il settore pubblico deve lasciare delle rendite informative ai privati che possono anche essere piuttosto alte e che possono riflettersi anche in rapporti successivi tra imprese private e settore pubblico. o In terzo luogo, la presenza di esternalità può rendere il valore sociale dei progetti diverso da quello privato; di consequenza, ciò che è efficiente dal punto di vista sociale può differire da quello che è efficiente dal punto di vista privato. Ad esempio, l’utilità sociale di una infrastruttura di comunicazione è assai maggiore dei profitti appropriabili dal suo gestore privato, per cui il tempo di costruzione efficiente dal punto di vista sociale potrebbe essere più breve di quello efficiente dal punto di vista privato. Inoltre, se il gestore potrà sfruttare commercialmente l’infrastruttura per un periodo limitato di tempo, mentre questa rimarrà in mano pubblica successivamente, il gestore investirà in manutenzione in modo subottimale dal punto di vista sociale. In teoria, questi aspetti potrebbe essere risolti nella formulazione della gara per la concessione; in pratica, la stessa incompletezza contrattuale che generalmente avvantaggia il project financing, rende difficile perseguire questa strada. 75 o In quarto ul ogo, le argomentazioni sopra citate a favore del project financing si applicano integralmente nel caso di cosiddette “opere calde”, ovvero il cui sfruttamento commerciale può interamente rimborsare i costi di sviluppo, ma non completamente nel caso di “opere fredde” o “opere tiepide”. In questi casi il settore pubblico deve comunque garantire ai privati una parte della remunerazione e fenomeni di moral hazard o hold up possono determinare distorsioni nelle scelte di produzione. In teoria, se il contributo pubblico fosse indipendente dai tempi di sviluppo dell’opera e dall’effettiva remuneratività della stessa, non ci dovrebbero essere interferenze, ma tali condizioni sono irrealistiche per problemi di incompletezza contrattuale e di rinegoziazione. Nuovamente, la fase contrattuale, e più in generale la normativa giuridica che la regola, sono fondamentali per attribuire i corretti incentivi alle imprese private che investono in opere pubbliche. o In quinto luogo, si è implicitamente assunto che il settore privato agisca in un contesto perfettamente competitivo sui mercati degli input. Generalmente, vi sono invece forti distorsioni sia nel mercato del lavoro sia nel mercato dei capitali, che possono indurre scelte produttive inefficienti da parte dei privati. o Infine, vi è un problema di incertezza connaturato all’investimento dei privati che non sussiste nel caso degli investimenti pubblici. Si tratta dell’incertezza legata alla concorrenza (che può sempre emergere in seguito alla costruzione di un’opera; cfr. per esempio il caso dei traghetti per l’Eurotunnel) e dell’incertezza politica legata all’attività di regolamentazione, all’evoluzione delle norme fiscali ed agli stessi inadempimenti contrattuali che possono derivare dalla classe politica in seguito all’avviamento del progetto (specialmente se di lunga durata ed in caso di notevole instabilità o alternanza politica). Poiché il settore pubblico gode del diritto unilaterale di stabilire regole ed imposizioni fiscali anche in deroga a patti precedenti, vi è un problema di incompletezza contrattuale che va affrontato massimizzando le possibilità di commitment del sistema politico agli accordi presi con i privati. Il problema è tanto più rilevante quanto più locale è l’ente pubblico in questione, per il sovrapporsi di più livelli politici: ad esempio, le iniziative a livello comunale sono soggette ad incertezza, non soltanto in relazione alle scelte del Comune coinvolto, ma anche alle scelte di Provincia, Regione e Stato Centrale, se queste condizionano l’ambito di azione del Comune. Si tratta evidentemente di una problematica complessa, di difficile soluzione, ma che potrebbe condizionare l’espansione di forme di PPP efficienti. • Selezione dei progetti Mentre fino ad ora si è discusso di efficienza produttiva, a parità di progetto, è naturale chiedersi se i progetti attuabili e attuati con forme di PPP combacino con quelli che risulterebbero ottimali dal punto di vista sociale. Nella scelta dei progetti, possono infatti emergere forme di adverse selection che portano a non sviluppare alcuni progetti socialmente desiderabili o addirittura a sviluppare alcuni progetti non socialmente desiderabili. Pertanto, 76 diventa rilevante il ruolo propositivo e decisionale del settore pubblico in merito alla scelta dei progetti. Ciò non significa che le scelte del settore pubblico siano sempre desiderabili da un punto di vista sociale. Sono di seguito esaminati i possibili bias nella scelta dei progetti di PPP. o È naturale ritenere che il mercato assorbirà innanzitutto i progetti a più alta remunerazione attesa, ma il problema non è di grande rilevanza se vi è un’alta correlazione fra quest’ultima e la desiderabilità sociale di un progetto. Tuttavia è evidente che non sempre i progetti che più si prestano allo sfruttamento commerciale sono anche quelli più desiderabili sotto il profilo sociale. Ad esempio, sono molto remunerativi i progetti che garantiscono un flusso di introiti precoce, mentre, quando il punto di break-even è lontano nel tempo, il settore privato potrebbe trovare il valore attuale degli introiti insufficiente o troppo rischioso per giustificare l’investimento. Dato che il fattore di sconto sociale è concettualmente diverso dal tasso di interesse di mercato, progetti a lungo termine ma socialmente desiderabili potrebbero essere impraticabili con la PPP. Inoltre, se il valore sociale di un progetto è maggiore del suo valore privato, il settore privato tenderà ad assorbire troppo pochi progetti. o Il settore privato potrebbe selezionare i progetti in base al loro grado di rischio. In tal caso, si possono verificare diverse alternative. In presenza di imprenditori capaci di autofinanziarsi ma avversi al rischio, o semplicemente incapaci di diversificare i forti rischi connessi ai grandi investimenti in infrastrutture, verrebbero penalizzati i progetti socialmente desiderabili, ma caratterizzati da un elevato grado di rischio. La natura stessa della PPP pone parziale rimedio a questo problema, con il coinvolgimento di un numero maggiore di investitori laddove il rischio è più alto. Tuttavia, la capacità di risolvere il problema è sostanzialmente rimandato all’esistenza di un mercato dei capitali efficienti e capace di assorbire il rischio. Se per esempio invece gli imprenditori fossero neutrali al rischio e si finanziassero in modo prevalente con l’indebitamento bancario, si potrebbe generare un processo di selezione avversa, per cui sarebbero prediletti progetti ad alto rischio, con rendimenti superiori alla media, ed eventuali perdite addossate ai creditori. o Il settore privato può prediligere progetti che garantiscono vantaggi in altre attività in qualche modo collegate all’opera stessa ma non appropriabili dal resto della società. Possono essere progetti in cui è difficile stabilire e far rispettare standard qualitativi minimi e, una volta avviati, concretizzarsi in opere di scarso costo e bassa qualità. o Da ultimo, occorre sottolineare una componente fondamentale nella scelta dei progetti per infrastrutture pubbliche, ossia la complementarietà fra più progetti. Dal punto di vista sociale, la desiderabilità di un’infrastruttura pubblica dipende dalle altre esistenti in modo assai rilevante, per cui la programmazione dell’investimento pubblico dovrebbe essere naturalmente ad ampio raggio. È 77 chiaro che forme di PPP che assegnano diversi progetti ad imprese diverse (in quanto limitate nelle capacità di investimento o specializzate tecnologicamente) possono indurre scelte che non tengono adeguatamente conto della complementarietà fra progetti. Ad esempio, due infrastrutture altamente complementari potrebbero essere socialmente desiderabili se costruite e gestite contemporaneamente, ma ciascuna potrebbe essere singolarmente non conveniente per il settore privato: in questo caso il mercato potrebbe non assorbire più progetti desiderabili in modo congiunto. Anche per questo motivo, un ruolo propositivo e di coordinamento da parte del settore pubblico è auspicabile nella scelta dei progetti da affidare a forme di PPP. Occorre tuttavia notare che l’investimento pubblico diretto può essere soggetto ad altre distorsioni non meno gravi seppure di diversa natura. Se ne elencano alcune che mettono in evidenza il complesso trade-off fra investimento pubblico e privato in infrastrutture. o Gli investimenti pubblici possono rientare nell’ambito di scelte politiche, soggette a vincoli di visibilità politica e di scadenze elettorali che ne condizionano l’adozione a seconda del calendario politico. Ciò talvolta rende difficile attuare investimenti che forniscono visibilità solo nel lungo termine e supporta quelli che incontrano un riconoscimento più vasto nel breve termine. o I politici possono scegliere strategicamente gli investimenti pubblici per accontentare diversi segmenti di elettorato, tipicamente segmenti geografici, data la natura degli investimenti locali (lasciando ad altre politiche il raggiungimento di segmenti sociali o ideologici che sono diversamente distribuiti geograficamente). Ciò crea sovrainvestimento in regioni dove i politici sono in cerca di voti o dove l’attività di lobbying è più attiva a scapito di investimenti meritevoli altrove. o Infine, i politici possono anch’essi valutare il rischio degli investimenti in modo inefficiente e, a seconda delle loro esigenze elettorali, adottare rischi maggiori o minori e soprattutto intraprendere investimenti i cui rischi si manifestino solo successivamente agli appuntamenti elettorali. • Allocazione del rischio Gran parte della letteratura aziendalistica43 sul project financing enfatizza i vantaggi che derivano dalla PPP nella gestione e allocazione del rischio. In realtà, non vi sarebbe ragione economica di ritenere che il settore pubblico debba addossare al settore privato i rischi relativi a infrastrutture di interesse collettivo, tanto più che molti di questi rischi sono di carattere macroeconomico o addirittura politico e quindi trovano il naturale “assicuratore” nella parte pubblica. Tuttavia, da un punto di vista imprenditoriale, può rivelarsi efficiente allocare i diversi 43 Cfr. Tamarowski (2001). 78 tipi di rischio, connessi a progetti specifici, fra istituzioni specializzate presenti nel settore privato, in base alle diverse capacità di gestire i rischi stessi. Nella fase di costruzione, i rischi sono principalmente di natura tecnica, relativi ai costi effettivi di realizzazione, di modifica in corso d’opera nonché di approvvigionamento e fornitura, e ai tempi di completamento. Nella successiva fase di gestione, invece, emergono rischi di natura diversa, associati alle effettive possibilità di sfruttamento dell’opera, all’andamento dei tassi di interesse e di cambio - che diventano tanto più rilevanti quanto più ampio è l’orizzonte temporale – e ai mutamenti dello scenario politico, con effetti sulle relazioni con gli enti pubblici appaltanti. L’allocazione di questi rischi richiede un’attenta e dettagliata negoziazione che coinvolge precisi contratti di responsabilità, compagnie assicuratrici, banche e strumenti finanziari complessi. Senza entrare nel dettaglio, occorre però dire che i problemi di incompletezza contrattuale sono assai rilevanti e non tutti i rischi possono essere assicurati. Ciononostante, è intuitivo che è preferibile e più facile suddividere i rischi fra una moltitudine di istituzioni specializzate che addossarli interamente a pochi soggetti. Occorre tuttavia notare che molti degli strumenti assicurativi disponibili nel settore privato possono anche essere utilizzati da manager pubblici. Un esempio interessante è quello dei revenue bonds americani, che permettono di finanziare contemporaneamente più investimenti, con l’emissione di obbligazioni garantite da un insieme di progetti caratterizzati da diverso grado di rischio44. • Sistema di finanziamento Il lato del finanziamento è sicuramente il punto debole dalla PPP rispetto all’investimento pubblico. Il costo effettivo del capitale è infatti sostanzialmente diverso nei due casi. o L’investimento pubblico diretto è tipicamente finanziato con debito pubblico. In effetti, i principi di teoria della politica fiscale prevedono che l’investimento pubblico, come ogni spesa che ripartisce i suoi benefici nell’arco delle generazioni future (l’esempio accademico sono le spese di guerra), debba essere finanziato non tramite un aumento temporaneo delle imposte, bensì lasciando queste costanti nel tempo (tax smoothing) e creando debito pubblico. Poiché i tassi d’interesse sul debito pubblico sono più bassi rispetto a quelli che il sistema bancario richiederebbe agli investitori privati, il costo del capitale risulta relativamente minore45. 44 Si tratta di uno strumento finanziario non consentito nel contesto italiano. Grout (1998) suggerisce tuttavia che il tradizionale argomento a favore del settore pubblico sul piano del finanziamento sia in realtà fuorviante. E’ vero che il settore pubblico si può finanziare a tassi inferiori di quelli del settore privato, ma questo dipende non da una qualche maggior capacità di cumulo dei rischi da parte del settore pubblico (se i mercati dei capitali sono efficienti, ciò dovrebbe essere possibile anche per il settore privato), ma perché il settore pubblico gode di sovranità fiscale, può cioè costringere i contribuenti a pagare le tasse e dunque a onorare i propri debiti. In altri termini, il minor tasso di interesse dei titoli pubblici dipende da questa capacità, non dal rischio implicito nel particolare progetto sotto considerazione. In realtà, se si considera che i contribuenti e gli eventuali finanziatori privati di un project financing sono in realtà le stesse persone, non fa nessuna differenza se il progetto è eseguito dal settore pubblico o da quello privato. I finanziatori privati richiderebbero un maggior premio per il rischio in un caso 45 79 o Inoltre, la PPP è connessa a forti problemi di finanziamento dato che prevede forti investimenti iniziali a fronte di flussi di cassa futuri e comunque incerti (nel project financing in particolare). L’assenza di garanzie reali associabili ex ante al progetto richiede un finanziamento con maggiori dosi di rischio e crea problemi ben noti in presenza di un mercato imperfetto dei capitali. Per questo motivo, nel mondo anglosassone, più abituato al credito associato a garanzie non reali bensì basate sulla redditività futura, il project financing per opere pubbliche (ma anche private) si è sviluppato precocemente e in modo più vasto. Laddove il settore bancario è meno competitivo e fonte di vincoli sul credito (in termini di razionamento del credito tradizionale) tre soluzioni appaiono possibili. Solo le prime due sono soluzioni di mercato: 1. La prima soluzione consiste nel finanziamento diretto sul mercato dei capitali: nel momento in cui le società di progetto sono in grado di raccogliere capitale tramite prestiti obbligazionari o emissione di azioni, un mercato trasparente sarebbe in grado di misurare adeguatamente la redditività attesa ed il rischio connessi all’operazione, garantendo il finanziamento dei soli progetti convenienti. L’Eurotunnel è un classico esempio il cui finanziamento totalmente privato ed in parte tramite emissione di azioni sul mercato è stato voluto dal Regno Unito come precondizione per la realizzazione dell’opera, costruita in tempi relativamente brevi. Per contro, quell’esperienza insegna che il finanziamento sul mercato azionario può essere un’ottima iniziativa, ma il settore pubblico dovrebbe almeno farsi garante della correttezza e del realismo delle informazioni sulla redditività dei progetti, che sono per loro natura assai soggetti ad incertezza. Nonostante simili forme di finanziamento non siano ad oggi previste in Italia, è auspicabile che il ricorso al mercato venga preso in considerazione laddove possibile. 2. La seconda soluzione è che parti del mondo bancario più direttamente legate al settore pubblico, in quanto sotto il controllo pubblico o con una specializzazione nell’investimento in infrastrutture pubbliche, siano in grado di approfondire la propria esperienza nel campo della PPP ed acquisire livelli di diversificazione tali da trovare conveniente il finanziamento di progetti meritevoli benché privi di garanzie reali. In Paesi, tra cui l’Italia, con una debole cultura del ricorso al mercato azionario, questa soluzione appare l’alternativa principale per risolvere i problemi sopra discussi. Tale via è infatti stata intrapresa in Italia, dove alcune imprese del settore bancario hanno acquisito forte esperienza e professionalità nel campo del finanziamento di PPP. e pagherebbero più imposte nell’altro. Naturalmente in presenza di varie imperfezioni politiche o di mercato, questa equivalenza non è più valida. 80 3. La terza soluzione risiede nella possibilità che sia lo stesso settore pubblico a fornire garanzie anche reali per i creditori. Tale soluzione è però non priva di rischi. Il primo è che tali forme di garanzie renderebbero assai meno utile il ricorso alla PPP annacquandone i vantaggi. In secondo luogo, uno dei motivi più importanti per l’adozione di forme di PPP in pratica (sebbene discutibile o addirittura irrilevante sotto il profilo economico sostanziale) è la possibilità di non aggravare la finanza pubblica a livello sia centrale che locale con indebitamento diretto. Infatti, i limiti, soprattutto a livello europeo, alla possibilità di mettere investimenti fuori bilancio quando sono tuttavia garantiti dallo Stato fanno svanire questo vantaggio. • Governance L’organizzazione di un progetto per la costruzione e la gestione di un’infrastruttura pubblica, i rapporti con le varie parti in causa ed in primo luogo i finanziatori, gli utenti e l’amministrazione politica, pongono complesse questioni di governance. Anche alla luce delle considerazioni precedenti, una corretta allocazione dei poteri decisionali dovrebbe soddisfare i seguenti requisiti: 1. priorità del settore pubblico nella scelta dei progetti da sviluppare nell’interesse dell’utenza; 2. priorità del settore pubblico nella selezione del management più efficiente che possa garantire gli interessi dell’utenza; 3. indipendenza del management nella fase di sviluppo; 4. indipendenza del ruolo di controllo finanziario da parte dei finanziatori. In linea di principio, la PPP è in grado di soddisfare tutti questi requisiti mentre l’investimento pubblico diretto, legando inestricabilmente l’amministrazione politica al management e ai finanziatori, rende difficile soddisfare gli ultimi due requisiti. Tuttavia è importante che la PPP sia organizzata propriamente sotto ogni aspetto e ciò dipende in larga parte dalla normativa giuridica, dai costumi politici e dalla struttura finanziaria del paese in cui si effettua. Il requisito 1) impone che il ruolo propositivo del settore pubblico non assecondi solo le preferenze del settore privato, così da evitare le distorsioni nella selezione dei progetti discusse in precedenza. Il requisito 2) impone che l’asta per l’affidamento dell’opera sia il più trasparente possibile, che consideri costi e tempi di sviluppo accuratamente stimati con responsabilità pendenti sui privati in caso di successivi insuccessi e che delinei contratti precisi per lo sfruttamento commerciale. La fase contrattuale è quindi fondamentale ed il suo corretto disegno dipende in gran parte dalla normativa giuridica che la determina. Il requisito 3) vorrebbe che le interferenze fra l’amministrazione ed in particolar modo la burocrazia pubblica ed il management vengano limitate, e che mutamenti nella direzione 81 politici non influenzino i rapporti pregressi. Ciò permetterebbe di abbattere i rischi politici e quindi di aumentare il valore degli investimenti privati in PPP e dunque la loro attrattiva ex ante. Infine, il requisito 4) richiede che non vi siano incroci perversi fra la classe imprenditoriale e quella bancaria tali da distorcere le scelte del management. I problemi di finanziamento sono i più complessi in opere di project financing e lo sviluppo di un mercato finanziario adeguato è fondamentale per uno sviluppo positivo della PPP. Chiaramente non tutte queste condizioni sono facili da realizzare e sono comunque il frutto di un insieme di fattori politici, culturali e di struttura economica che possono essere mutati solo lentamente nel tempo. 5.4 Il rapporto fra investimenti pubblici diretti e PPP Un ultimo fattore che merita particolare attenzione nella valutazione della PPP e della sua graduale introduzione in un sistema di investimenti pubblici riguarda la sostituibilità fra investimenti pubblici diretti e quelli affidati ai privati. Questo punto è stato largamente sottovalutato nel valutare i benefici della PPP e gioca invece un ruolo fondamentale nel lungo termine. Si consideri un sistema di investimenti pubblici esclusivamente diretti. In tale sistema è prevista una scelta politica di ripartizione della spesa fra spesa corrente e spesa per investimenti. Quest’ultima implicherà ulteriori flussi di spesa corrente nei periodi futuri, ad esempio per opere di manutenzione. Nel momento in cui un investimento viene affidato al settore privato, questo finanzierà l’operazione e gestirà l’opera in futuro, il che fa venire meno non solo la spesa iniziale per investimenti ma anche i flussi di spesa futuri ad essa associati, liberando risorse. In parte queste risorse sono puramente contabili, un punto su cui torneremo nelle conclusioni; in parte, sono risorse reali, dovute alla maggior efficienza e quindi alla riduzione dei costi che l’affidamento ai privati comporta. La questione cruciale è come queste risorse verranno impiegate. Alcune problematiche emergono. Innanzitutto la PPP può modificare la scelta fra spesa corrente e spesa per investimenti: il settore pubblico potrebbe semplicemente ridurre la seconda e destinare le relative risorse ad incrementare le spese correnti, oppure potrebbe destinare le risorse interamente a nuovi investimenti pubblici. Solo nel momento in cui il crowding out non è completo, la PPP crea un vero e proprio moltiplicatore dell’investimento pubblico che porta a sostanziali incrementi della dotazione infrastrutturale. Si tratta evidentemente di una questione empirica, benché difficile da verificare. Per esempio, il caso inglese e lo stesso caso italiano (benché più limitato quantitativamente e temporalmente) discusso nel capitolo successivo, non sembrano dare l’impressione che i fenomeni di crowding out siano stati rilevanti e tantomeni completi. Tuttavia, poiché non è possibile conoscere quali sarebbero stati gli investimenti pubblici in assenza di PPP, e poiché comunque gli effetti finali si vedranno solo tra molti anni, è difficile attribuire con certezza un effetto moltiplicativo e non solo sostitutivo alla PPP. In secondo luogo, se gli investimenti in PPP fossero uniformemente distribuiti fra i diversi settori di intervento, si potrebbe pensare che le risorse residue vengano redistribuite in modo da non alterare l’allocazione delle risorse fra i diversi settori. In realtà poiché la PPP si 82 concentra nei settori ad alta redditività privata (con possibilità di tariffazione, etc.), il settore pubblico potrebbe destinare le risorse liberate agli investimenti meno redditizi, ma comunque specialmente rilevanti. E’ chiaro che considerazioni politiche possono far deviare l’esito di questo processo da condizioni di ottimalità. In un caso estremo, i politici potrebbero usare la PPP come un espediente per liberare risorse da utilizzare per spesa corrente di proprio interesse (a fini elettorali o di rendita politica personale) mantenendo gli investimenti pubblici a livelli accettabili grazie all’iniziativa privata, senza adottare nuove forme di investimento in nuovi settori. 5.5 Conclusioni In questo capitolo è stata presentata l’esperienza internazionale (specialmente inglese) nel campo della PPP, si è discusso delle diverse modalità che la PPP può assumere, insistendo in particolare sul suo aspetto più caratteristico, il project financing, e si è affrontata la questione dei vantaggi e degli svantaggi che questo particolare strumento finanziario può offrire rispetto alle forme più tradizionali di investimento pubblico. Il giudizio complessivo sulla validità della PPP non può che restare sospeso, in parte perché dipende dal particolare progetto sotto analisi, in parte perché ci sono varie forze in gioco e il giudizio finale dipende fondamentalmente da quanto rilevanti sono queste forze in pratica, cioè sostanzialmente da una questione empirica. Tuttavia, la discussione concettuale è almeno utile per chiarire alcuni degli aspetti fondamentali della questione. Innanzitutto, la PPP in generale e la Finanza di Progetto in particolare, sono spesso presentati e difesi come un modo meno costoso di effettuare investimenti pubblici, utile soprattutto in presenza di risorse scarse a disposizione della finanza pubblica, vuoi per crisi strutturali o per vincoli internazionali. Ma questa è sostanzialmente un’illusione ottica, o più esattamente contabile. Un investimento pubblico tradizionale, finanziato con l’emissione di titoli del debito pubblico, comporta un esborso attuale, a fronte del quale ci possono essere ritorni futuri, per esempio in termini di servizi tariffabili (si pensi a un’autostrada) oppure di servizi per la collettività (si pensi ad un carcere). Lo stesso investimento effettuato come PPP non comporta esborsi presenti, perché il privato si fa carico della costruzione, ma può comportare esborsi futuri, per esempio perché il pubblico deve ora acquistare dal settore privato questi stessi servizi (il carcere), oppure perdite future, in quanto il servizio, ceduto ai privati, non può comportare più per il settore pubblico entrate da servizi tariffabili (l’autostrada). Se l’opera pubblica fosse effettuata nello stesso modo dal settore pubblico o in forma di PPP, i flussi finanziari sarebbero esattamente gli stessi nei due casi, implicando che gli effetti (scontati al presente) sul bilancio pubblico sarebbero esattamente gli stessi. E’ solo la (imperfetta) contabilità pubblica che fa apparire i due investimenti come diversi; nei fatti essi sono esattamente equivalenti. E’ vero che molti Governi (a partire da quello inglese) sostengono fortemente la PPP proprio per questi effetti contabili, resi inoltre importanti dai vari vincoli nazionali e internazionali (come il Trattato di Maastricht), che fortemente insistono sulla stessa imperfetta contabilità pubblica; ma ciò non toglie che la base economica di questi ragionamenti sia fallace. 83 Non è neppure vero che gli investimenti finanziati in PPP siano in genere meno costosi, in quanto possono far riferimento ad un robusto mercato finanziario che consente l’allocazione efficiente del rischio, un tema caro agli aziendalisti. In genere, in realtà, è vero il contrario. Per quanto l’argomento sia più complicato di quanto possa apparire a prima vista (cfr. la nota 12), è vero in generale che il settore pubblico può finanziarsi a costi inferiori rispetto al settore privato, per la semplicissima ragione che il settore pubblico, grazie ai suoi poteri di coercizione fiscale, può garantire di onorare i propri debiti in una misura che nessun operatore privato può fare. In prima approssimazione, i progetti in PPP sono dunque più e non meno costosi dei progetti tradizionali di investimento pubblico. Quali sono dunque i vantaggi veri della PPP? Come è già stato notato nel primo capitolo, e come si è qui approfondito, questi vantaggi dipendono dai maggiori incentivi che la PPP offre agli operatori nel ridurre i costi. Per ragioni complesse, ma sostanzialmente legate all’incompletezza dei contratti, e dunque all’appropriabilità dei benefici degli investimenti migliorativi, un operatore pubblico non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad innovare per abbattare i costi del progetto, sia nella fase della costruzione che della gestione del servizio. Su questo punto, l’evidenza empirica è chiara. Nel caso inglese, per esempio, l’affidamento ai privati ha comportato un taglio netto dei costi, un’accelerazione nei tempi di esecuzione delle opere, una riduzione drastica dei casi di costi superiori al preventivato e così via. Questo è il grande vantaggio (economico, non puramente contabile) della PPP. Ma questo stesso vantaggio comporta dei rischi. Gli stessi incentivi che spingono il settore privato a innovare per ridurre i costi, possono condurlo a innovare per ridurre la qualità dei servizi. Questo suggerisce di non affidare in PPP quei progetti in cui la qualità sia un aspetto fondamentale del servizio, oppure in cui la qualità non possa essere contrattata con sufficiente precisione ex ante. Inoltre, non tutto può essere affidato alla PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni dei mercati dei capitali, tanto maggiori in un Paese come il nostro dove i mercati finanziari sono poco sviluppati, il settore privato tenderà a selezionare solo quei progetti dove il rischio è basso e i ritorni possono essere sufficientemente rapidi e sicuri. Il prossimo capitolo fornirà evidenze di questi comportamenti nel nostro Paese. Si possono immaginare interventi migliorativi su questo fronte, e alcuni sono stati discussi in questo capitolo, sia per quanto riguarda il modo con cui si dovrebbe procedere per l’assegnazione di progetti in PPP (il controllo dell’agenda, il contratto, la gara, l’assenza di rinegoziazione etc.) sia per quanto riguarda le varie possibilità di finanziamento, ma resta il fatto che al settore pubblico resterà l’onere di effettuare quegli investimenti, che o per grado di rischio o per insufficienza di ritorni a breve, il settore privato non vorrà fare. Ciò conduce al problema principale, su cui è stata focalizzata l’attenzione in conclusione di capitolo. L’adozione delle PPP libera risorse per il settore pubblico, vere o contabili; è importante che queste risorse non siano sprecate, ma utilizzate efficacemente, per finanziare gli investimenti che le varie forme di PPP non possono coprire. Altrimenti, vi è il rischio che la diffusione della PPP conduca soltanto ad un’accelerazione della spesa corrente nel presente e a maggiori guai per la finanza pubblica in futuro. 84 6 LA PPP IN ITALIA: NORMATIVA GIURIDICA, ESPERIENZE SETTORIALI E VALUTAZIONE COMPLESSIVA Questo capitolo è dedicato all’analisi dell’esperienza italiana di partnership pubblicoprivato e project financing sia sotto il profilo quantitativo sia sotto il profilo qualitativo. In particolare, ci si propone di valutare i risultati dell’esperienza italiana, cercando di evidenziare i fattori (economici, legislativi, finanziari, ecc.) che possono spiegarne la diffusione attuale e/o possono ostacolarne un corretto utilizzo. Vengono in particolare analizzate la normativa giuridica, la morfologia dell’esperienza italiana in termini di articolazione territoriale, tipologica, di committenza e di settore d’intervento. 6.1 Il quadro giuridico di riferimento La diffusione di forme di investimento e finanziamento avanzate come quelle di PPP richede un quadro legislativo adeguato e certo. Il problema è maggiormente avvertito nei Paesi, come l’Italia, soggetti a civil law piuttosto che a common law, ovvero ad una giurisprudenza basata sulle convenzioni formatesi nel tempo e quindi più consona a permettere e ratificare legislativamente l’evoluzione ed il progresso di nuove forme di iniziativa privata. Inoltre, sulla base del nostro diritto commerciale, le parti sono ampiamente limitate nello stipulare un contratto non espressamente previsto nella normativa in vigore46 e devono cercare 46 Sebbene la volontà tra le parti abbia forza di legge, tutte le conseguenze previste e non previste di un contratto sono soggette alla leggee, in mancanza di questa, agli usi o all’equità. 85 di evitare clausole che possano portare l’autorità giudicante all’annullamento o alla risoluzione di un contratto. Ciò amplifica il problema dell’incompletezza contrattuale ed inibisce iniziative private specialmente di carattere innovativo. Negli ultimi dodici anni, il legislatore ha regolamentato le diverse forme di PPP, emanando norme sull’organizzazione degli appalti pubblici e di riorganizzazione della pubblica amministrazione. Ciò ha permesso di avvicinare la normativa italiana a quella anglosassone, promuovendo notevolmente l’uso di forme di finanza innovativa negli anni più recenti, quali il project financing di opere pubbliche, e creando le condizioni necessarie allo sviluppo di una “cultura di progetto” ancora non molto diffusa nel nostro Paese. Il quadro legislativo di riferimento sul project financing è rappresentato da interventi del 1992, 1994, 1995, 1998, 2001 e 2002 che saranno esaminati nell’ordine, al fine di illustrare l’evoluzione della normativa nell’arco dell’ultimo decennio:47 • Legge 498/92 (Interventi urgenti in materia di Finanza Pubblica), che, adeguandosi alla normativa comunitaria (Dir.92/50/CEE del 18 giugno 1992 e Dir.93/36-7/CEE del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori"), permette per la prima volta di applicare il project financing con capitali privati per l’esercizio di “servizi pubblici e per la realizzazione di infrastrutture e opere di interesse pubblico”48. Viene inoltre previsto che “tutti gli enti locali provvedono alla scelta dei soci privati e all’eventuale collocazione sul mercato dei titoli azionari, attraverso procedure di evidenza pubblica” e che i soci privati vengano scelti attraverso un “confronto pubblico concorrenziale”. • Legge 109/94 (Legge Merloni, Legge Quadro in materia di Lavori Pubblici), che istituisce l’Autorità per la Vigilanza dei Lavori Pubblici per garantire trasparenza e correttezza ed introduce l’affidamento dei lavori pubblici tramite concessione di costruzione e gestione. La realizzazione dei lavori pubblici si basa su una programmazione triennale annualmente aggiornata che viene predisposta da varie amministrazioni aggiudicatrici. Queste devono individuare i lavori da realizzare, quali siano finanziabili con capitali privati ed un ordine di priorità.49 Inoltre, la concessione di costruzione e gestione prevede un contratto in forma scritta “fra un imprenditore ed una amministrazione aggiudicatrice, avente ad oggetto la progettazione definitiva, la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici, o di pubblica utilità, e di lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica” (art. 19, comma 2). 47 Cfr. Paradisi (2003). La normativa comunitaria tuttavia, non conosce a tutt’oggi una vera e propira definizione di project financing e riguarda più in generale ogni tipo di appalto pubblico e concessione di lavori pubblici, dove la seconda si differenzia per l’attribuzione del rischio al privato (Signore, 2003). La normativa implica obblighi di pubblicità a livello europeo per opere di vasta scala e trasparenza nelle aggiudicazioni, e vieta discriminazioni basate sulla nazionalità dei partecipanti. 49 In base al combinato disposto dell’art. 13 del d.p.r. 554/1999 e dell’art. 2 del decreto del Ministero dei lavori pubblici del 21 giugno 2000, il Programma triennale ed i suoi aggiornamenti vanno redatti entro il 30 settembre di ogni anno, mentre entro 90 giorni dall’approvazione del Bilancio dello Stato deve avvenire l’aggiornamento definitivo del Programma e dell’elenco dei lavori da effettuare nell’anno. 48 86 • Legge 216/95 (Legge Merloni-bis), che introduce l’obbligo di eseguire le gare d’appalto sulla base di progetti esecutivi, ovvero che prevedono tempi e costi certi, e riduce la possibilità di introdurre varianti in corso d’opera, che costituiscono il tipico escamotage per ampliare i tempi di completamento. • Legge 415/98 (Legge Merloni-ter), volta a riavviare l’investimento in opere pubbliche e ripristinare le condizioni di legalità e trasparenza che si erano perse durante gli anni di Tangentopoli. Il nuovo articolo 37 presenta le principali novità: 1. Viene regolamentata la tempistica ed è ufficialmente introdotto il soggetto promotore. Entro il 30 giugno di ogni anno,50 i promotori possono presentare alle amministrazioni giudicatrici proposte di project financing per lavori pubblici o di pubblica utilità da finanziare a loro totale o parziale carico e da ratificare tramite contratti di costruzione e gestione già introdotti dalla Merloni. “Le proposte devono contenere uno studio di inquadramento territoriale e ambientale, uno studio di fattibilità, un progetto preliminare, una bozza di convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da un istituto di credito, una specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione” (art. 37-bis, comma 1) ed anche le garanzie offerte dal promotore e le spese sostenute per la proposta, che vengono riconosciute per un importo non superiore al 2,5% del valore dell’investimento. Entro il 31 ottobre dello stesso anno vengono selezionate le proposte di pubblico interesse sulla base della loro fattibilità “sotto il profilo costruttivo, urbanistico ed ambientale, nonché della qualità progettutale, della funzionalità, della fruibilità dell’opera, dell’accessibilità al pubblico, del rendimento, del costo di gestione e di manutenzione, della durata della concessione, delle tariffe da applicare, della metodologia di aggiornamento delle stesse, del valore economico e finanziario del piano” (art. 37-ter). Infine, entro il 31 dicembre dello stesso anno viene indetta una gara per aggiudicare la concessione, la cui durata non può essere superiore ai trent’anni (art. 19-bis, comma 2). 2. Al fine di aumentare la trasparenza, il sistema di aggiudicazione del progetto prevede una “asta doppia”, ovvero composta da una prima gara che esclude il promotore e seleziona le due migliori offerte per lo stesso progetto del promotore sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, e da una seconda gara per “aggiudicare la concessione mediante una procedura negoziata da svolgere fra il promotore ed i soggetti presentatori delle due migliori offerte” nella prima gara (art. 37-quater, comma 1).51 La seconda gara è quindi più soggetta a giudizi discrezionali. Per incentivare ulteriormente la trasparenza, i soggetti aggiudicatari della concessione sono anche obbligati ad appaltare a loro volta a terzi una percentuale minima del 30% dei lavori oggetto della concessione. Il concessionario, a fronte degli obblighi di progettazione ed esecuzione (ovvero di revisione o completamento), ha il diritto di 50 Il termine è stato esteso al 31 dicembre nel caso in cui non siano state presentate proposte entro il 30 giugno per lo stesso intervento dalla legge 166/2002. 51 Se alla prima gara ha partecipato un unico soggetto la procedura negoziata si svolge fra questo ed il promotore, la cui proposta iniziale è peraltro vincolante nel caso non partecipi alcun soggetto alla prima gara. Tutti i partecipanti sono soggetti a versare una cauzione e una fideiussione bancaria o assicurativa. 87 gestire e sfruttare economicamente l’opera realizzata per la durata della concessione, e il diritto alla corresponsione da parte della parte concedente, di un prezzo eventualmente stabilito in sede di gara. 3. Viene prevista nel bando di gara la costituzione della società di progetto come S.p.a., S.r.l., consorzio di imprese o società consortile. “Il bando di gara indica l’ammontare minimo del capitale sociale della società. In caso di concorrente costituito da più soggetti nell’offerta è indicata la quota di partecipazione al capitale sociale di ciascun soggetto- […] La società così costituita diventa la concessionaria subentrando nel rapporto di concessione all’aggiudicatario senza necessità di approvazione o autorizzazione. Tale subentro non costituisce cessione di contratto. Il bando di gara può, altresì, prevedere che la costituzione della società sia un obbligo dell’aggiudicatario” (art. 37-quinquies). 4. Per promovere esplicitamente forme di project financing analoghe a quelle esistenti nell’esperienza anglosassone, viene regolamentata l’emissione di obbligazioni nominative o al portatore della società di progetto, che deve avvenire 1) previa autorizzazione degli organi di vigilanza e 2) sotto garanzia ipotecaria pro-quota. Inoltre, “I titoli e la relativa documentazione di offerta devono riportare chiaramente ed evidenziare distintamente un avvertimento dell’elevato grado di rischio del debito” (art. 37-sexies). 5. Il contratto può essere revocato per motivi di interesse pubblico o revocato per inadempienza della parte concedente, ma i diritti della società di progetto sono esplicitamente tutelati in modo da garantire trasparenza e assicurazione per i privati contro l’incertezza politica e burocratica connaturata a questo tipo di rapporti. Infatti nei casi succitati, “sono rimborsati al concessionario: a) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l’opera non abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal concessionario; b) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza delle risoluzione; c) un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire ovvero della parte del servizio ancora da gestire valutata sulla base del piano economico-finanziario” (art 37. septies, comma 1). Per tutelare i finanziatori, l’indennizzo è esplicitamente condizionato al soddisfacimento dei crediti in via prioritaria. 6. Mettendo ordine ad una situazione fino ad allora assai disordinata ed incerta, il legislatore prevede anche il subentro degli enti finanziatori al soggetto concessionario in caso di risoluzione del rapporto per motivi imputabili al concessionario. La richiesta va effettuata entro novanta giorni dal ricevimento della comunicazione scritta da parte del concedente dell’intenzione di risolvere il rapporto e deve essere accettata a patto che “a) la società designata dai finanziatori abbia caratteristiche tecniche e finanziarie sostanzialmente equivalenti a quelle possedute dal concessionario all’epoca dell’affidamento della concessione; b) l’inadempimento del concessionario che 88 avrebbe causato la risoluzione cessi entro novanta giorni successivi alla scadenza del termine di cui all’alinea del presente comma ovvero in un termine più ampio che potrà essere eventualmente concordato tra il concedente e i finanziatori” (art. 37-octies, comma 1). 7. Infine, viene esplicitamente regolamentato il privilegio generale dei crediti dei soggetti finanziatori sui beni mobili del concessionario, che deve risultare da atto scritto a pena di nullità e unitamente alla descrizione delle parti e della linea di credito. • Legge 443/01 (Legge obiettivo) ha individuato per la prima volte le infrastrutture pubbliche e private di preminente interesse nazionale per la modernizzazione del paese, introducendo la figura del Contraente Generale quale esecutore che si addossa l’obbligo di condurre a termine un’opera che risponda alle esigenze del soggetto aggiudicatore e garantisce il rispetto di tempi e costi di esecuzione (ma senza assumere su di sé la gestione vera e propria a differenza dell’ente concessionario). • Legge 166/02 (Legge Merloni-quater), che rivisita le sue versioni precedenti: o permettendo ai soggetti privati di partecipare attivamente alla fase di programmazione e definizione dei lavori pubblici da realizzare con capitale privato, sebbene senza alcun obbligo per l’amministrazione pubblica di recepirne le proposte; o inserendo formalmente le opere a tariffazione sulla P.A. fra le opere attuabili tramite il contratto di costruzione e gestione (art. 19-ter, comma 2); o permettendo la cessione (in proprietà o diritto di godimento) a titolo di prezzo da parte dei soggetti aggiudicatori di beni immobili nella propria disponibilità o allo scopo espropriati, la cui utilizzazione sia strumentale o connessa all’opera da affidare in concessione e beni immobili che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico (art. 19-bis, comma 2); o permettendo, al fine di assicurare il perseguimento dell’equilibrio economico finanziario degli investimenti del concessionario, che la concessione abbia una durata superiore ai trent’anni (inizialmente tetto massimo previsto), tenendo conto del suo rendimento, della percentuale del prezzo corrisposto e dei rischi connessi alle modifiche delle condizioni del mercato (art. 19-bis, comma 2). Con questi ultimi progressi nella legislazione,52 è opinione diffusa tra i giuristi che non vi sia più alcun vincolo normativo all’espansione di forme di PPP ed in particolare di project financing in Italia. Vanno infine ricordate due iniziative del 1999. La prima riguarda l’identificazione di tre progetti-pilota di project financing: l’ammodernamento della tratta autostradale Salerno52 Nel 2000 sono state regolamentate anche le società miste partecipate dagli enti locali e le società di trasformazione urbana con il d.lgs.267/2000. 89 Reggio Calabria, la Pedemontana Veneta ed il Ponte sullo Stretto di Messina. La seconda concerne l’istituzione da parte del Ministero del Tesoro dell’Unità Tecnica Finanza di Progetto (UFP) quale strumento di supporto alla P.A. sull’esempio dell’inglese Private Finance Iniziative Task Force e dell’olandese PPP Knowledge Center. La UFP è composta da tecnici e serve a promuovere, all’interno delle pubbliche amministrazioni, l’utilizzo di tecniche di finanziamento di infrastrutture con ricorso a risorse private e di fornire supporto alle commissioni costituite nell’ambito del CIPE53 su materie inerenti al finanziamento delle infrastrutture e la sua introduzione si è dimostrata utile alla espansione recente di varie forme di PPP.54 La UFP (2004) ha così riassunto le principali ragioni per cui il ricorso al PPP può dare oggi, in Italia, un importante contributo al processo di modernizzazione del Paese: • l’opportunità di “incrementare la dotazione infrastrutturale del Paese a parità di risorse pubbliche impegnate, grazie all'apporto di risorse private addizionali ovvero la possibilità di liberare risorse pubbliche da impiegare in quei settori in cui i servizi di pubblica utilità sono ancora carenti”; • una migliore e più trasparente fase di programmazione, allocazione dei rischi e gestione dei costi. La normativa sulle PPP (come la stessa UFP) sta ora adeguandosi ad esigenze regionali specifiche con nuove normative regionali (e nuovi distaccamenti regionali della UFP), a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 18 ottobre 2001, n.3.55 Nel nuovo art. 117 della Costituzione i lavori pubblici non sono più inclusi nelle materie di potesta legislativa esclusiva dello Stato, ma appartengono alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni, dove la legislazione di dettaglio e le norme attuative spettano alle Regioni nei limiti dei principi generali stabiliti dallo Stato. Più specificatamente, riprendendo per sommi capi la suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni previste nel nuovo art.117, dovrebbero essere di competenza esclusiva dello Stato lavori pubblici in materie come difesa e sicurezza, concorrenza, ordine pubblico, coordinamento informatico e statistico, tutela dell’ambiente e dei beni culturali ed ordinamento civile, mentre dovrebbero essere soggetti a competenza concorrente i lavori pubblici in campi come la tutela e la sicurezza del lavoro, il governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia e valorizzazione dei beni ambientali e culturali. Dovrebbero infine essere di esclusiva competenza regionale nei casi residui. Il nuovo Titolo V ha dunque enormemente accresciuto il potere legislativo delle regioni in tema di lavori pubblici. Per quello che è dato conoscere al momento, questo nuovo potere legislativo delle regioni non è stato usato in deroga alla normativa nazionale. Va tuttavia ricordato che il nuovo Titolo V ha in realtà scatenato un conflitto di competenze tra i due livelli di governo, che ha riguardato in molti casi proprio i lavori pubblici. La c.d. legge obiettivo sulla grandi opere è stata per esempio impugnata di fronte alla Corte Costituzionale da parte delle regioni e l’iter non appare ancora concluso. L’incertezza indotta da questa conflittualità tra i due livelli di governo, e le pressioni esercitate dal mondo delle imprese, preoccupate dagli effetti di questa incertezza, hanno 53 Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Cfr de Pierris e Leone (2001) e Ricchi (2004). 55 Cfr. Cesaretti (2003). 54 90 indotto il legislatore costituente ad un ripensamento. Nel nuovo testo costituzionale in discussione alla Camera, dopo l’approvazione da parte del Senato, la maggior parte delle materie ora previste a legislazione concorrente dovrebbe rientrare nell’alveo della legislazione esclusiva dello Stato e la nuova norma sull’interesse nazionale dovrebbe offrire un ulteriore strumento di controllo e di pressione da parte del centro sugli enti regionali. È dunque immaginabile, se l’iter di questa nuova riforma costituzionale dovesse concludersi positivamente, che tutta l’area dei lavori pubblici rientrerà stabilmente nell’ambito della legislazione nazionale, eccetto che per gli aspetti di maggior dettaglio. 6.2 L’esperienza italiana di PPP Questo paragrafo esamina l’esperienza italiana di PPP, con particolare riferimento ai casi di project financing di opere pubbliche. L’analisi si basa essenzialmente sui dati forniti dall’Osservatorio Nazionale sul Project Financing relativi ai progetti assistiti dalla UFP a partire dal 2000 (dati dettagliati e omogenei vengono forniti trimestralmente solo dal primo trimestre 2003).56 Trattandosi tuttavia di progetti che richiedono tempi lunghi per il completo avvio ed ancora più lunghi per la realizzazione definitiva, è a tutt’oggi arduo quantificare la consistenza esatta delle esperienze di PPP concretamente attuate in Italia. È solo sulla base delle iniziative proposte, di quelle pervenute alla fase di gara e di alcuni casi importanti da seguire nel loro svolgimento pluriennale che si può cercare di dare una valutazione qualitativa dello sviluppo della PPP in Italia. 6.2.1 Quanto conta la PPP? Il primo aspetto che questi dati segnalano è che il ricorso alla PPP nel nostro Paese appare in forte crescita: i soli avvisi di gara sono più che raddoppiati dal 2002 al 2003, passando dai 604 ai 1230. E il trend appare in ulteriore crescita. Nel primo trimestre del 2004 gli avvisi di gara sono stati 300, a fronte di 201 nello stesso trimestre del 2003. Nel secondo trimestre del 2004 sono state indette altre 657 gare, portando l’incremento complessivo del primo semestre 2004 rispetto al 2003 al 58,3%. Se il trend si confermerà nel secondo semestre del 2004, si può prevedere che a fine anno si arrivi a circa quota 2000 gare, di nuovo quasi il doppio dell’anno precedente. È vero che molti di questi progetti sono solo preliminari e non passeranno a fasi successive ed è anche vero che una parte, sia pure probabilmente non molto rilevante, rappresenta la continuazione di progetti precedenti, interrotti per vari motivi, ma l’impressione generale è quello di una crescita quasi esponenziale nell’uso dei nuovi strumenti finanziari. E la crescita non riguarda solo il numero di gare. Anche l’importo dei progetti avviati appare in forte aumento. Dai 3,1 miliardi di Euro del 2002 si è passati ai 10,5 miliardi del 56 Si noti tuttavia che non tutti i progetti di PPP vengono assistiti dalla UFP per cui il panorama offerto dall’Osservatorio suddetto è indicativo ma non esaustivo. 91 2003, cioè ad una triplicazione del volume d’affari. Solo nel primo trimestre del 2004 sono stati indetti avvisi di gara per un volume d’affari di 1,6 miliardi di Euro, a fronte di 1,2 miliardi nel primo trimestre del 2003. Nel secondo trimestre del 2004 sono state indette gare per 3,4 miliardi con un aumento del 102,2% rispetto al 2003, sebbene si debba tenere conto che in questo trimestre è stato avviato un progetto di grandi dimensioni che può falsare i confronti (dell’Autorità d’Ambito dell’ATO di Palermo per l’affidamento in concessione del Servizio Idrico Integrato della provincia di Palermo, con un valore intorno a 1,3 miliardi di Euro). Se questo passo verrà mantenuto, è prevedibile che nel 2004 si raggiungeranno i 16-18 miliardi di Euro, cioè con quasi un ulteriore raddoppio rispetto al 2003. Si osservi tuttavia che questi dati riguardano solo gli avvisi con importo segnalato (il 57% nel 2002, il 68% nel 2003, il 70% nel primo semestre 2004) in crescita nel triennio, per cui è possibile che il tasso di crescita degli importi effettivi sia in realtà minore di quanto questi primi dati segnalino. Ma probabilmente non molto minore, perché la percentuale degli avvisi con importo segnalato è praticamente la stessa (finora) tra il 2003 e il 2004, e anche perché è ragionevole ritenere che i progetti con importi non segnalati siano quelli di minore entità. Più complesso appare rispondere alla domanda su qual è l’esatto numero di esperienze effettivamente iniziate e lo stock di capitali ad esse effettivamente destinato, ripulendo cioè i dati da duplicazioni e progetti abortiti. Qualche suggerimento in questo senso deriva dai dati forniti dall’OICE. Alla fine del giugno 2003 l’OICE ha calcolato che dal gennaio 2000 erano partite 1163 iniziative di PPP per un totale di 16,6 miliardi di Euro. Di questo cosiddetto “fabbisogno” finanziario, solo una parte era passato alla fase di gara e aggiudicazione. Il calcolo di questa parte, detta “mercato”, ammontava per il periodo gennaio 2000-giugno 2003 a 6,3 miliardi di Euro, pari al 38% del fabbisogno. Per avere un’idea più precisa della rilevanza degli investimenti in PPP è utile rapportare questi dati alla spesa pubblica per investimenti. Ad esempio, il valore dei progetti avviati nel 2003, per lo più intrapresi a livello comunale o provinciale, se andassero tutti a buon fine, rappresenterebbero circa il 28% degli investimenti complessivi delle Amministrazioni Pubbliche e circa il 43% degli investimenti delle Amministrazioni Locali, una percentuale dunque assai sostanziosa. Ancora, nella Figura 6.1 si illustra li rapporto tra PPP e opere pubbliche complessivamente realizzate nel 2003. La figura mostra come la quota di PPP abbia raggiunto il 28% nel 2003, con punte del 46% in regioni assai attive come la Puglia e la Liguria (cfr. Osservatorio Nazionale sul Project Financing, 2004). Figura 6.1. Rapporto PPP/Opere Pubbliche nel 2003 Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 92 93 Altri elementi importanti per una valutazione dell’esperienza italiana di PPP concernono l’articolazione dei progetti di PPP per tipologie, committenza, forme contrattuali e soprattutto per settore e aree geografiche. Questi ultimi due fattori, la suddivisione settoriale dei progetti di PPP e la loro distribuzione territoriale, sono particolarmente interessanti e saranno esaminati in profondità più avanti. Per quanto concerne l’articolazione dei progetti, l’analisi per tipologie medie evidenzia una concentrazione su opere di valore medio-basso, ossia inferiore ai 5-10 milioni di Euro (nel 2002 solo 4 progetti su 57 assistiti dalla UFP avevano costi superiori ai 100 milioni di Euro), mentre la committenza è per lo più concentrata a livello comunale (96% dei progetti assistiti dalla UFP nel 2002), il che però non sorprende data la prevalenza di opere di valore medio-basso e il ruolo rilevante dei comuni nell’ambito degli investimenti pubblici (Tabella 6.1). Tabella 6.1 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per importo (migliaia di Euro) Importo Non segnalato <1000 1000-2500 2500-5000 5000-10000 10000-50000 >50000 Totale 2002 2003 I 2004 II 2004 totale 261 389 99 190 939 97 277 58 156 588 73 179 49 111 412 65 155 39 99 358 47 108 22 54 231 49 93 25 43 210 12 29 8 4 53 604 1230 300 657 2791 Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 Con riferimento alla classificazione delle forme di PPP illustrata in precedenza, nel 2002 ben 313 avvisi di gara si sono configurati come forme di project financing, 235 come concessioni di costruzione e gestione, mentre 56 erano forme alternative di PPP, fra cui società miste pubblico-private, sponsorizzazioni e anche programmi complessi di trasformazione urbana. Gli importi totali relativi ai progetti di valore reso noto sono stati rispettivamente di oltre 2363 milioni, 750 milioni e 21 milioni di Euro. Nel 2003 si sono avuti 729 avvisi per project financing dell’importo complessivo di 5287 milioni, 394 avvisi per concessioni per 4678 milioni e 107 avvisi per altre procedure dell’importo di 606 milioni di Euro. La forma di partenariato trainante è quindi quella del project financing, che sembra rispondere meglio alle necessità di autonomia imprenditoriale e gestionale del settore privato che è attivo nell’investimento in opere pubbliche. 6.2.2 Quali sono i settori trainanti della PPP? I settori più coinvolti a livello dell’amministrazione centrale sono quelli delle infrastrutture, dell’energia, delle telecomunicazioni e della sanità mentre a livello locale sono quelli dell’edilizia sociale e pubblica (55% dei progetti assistiti dalla UFP nel 2002 e 42% dei 94 costi), di trasporti e viabilità (6% dei progetti pari al 42% dei costi), degli impianti sportivi e di strutture ricettive, delle risorse idriche e dell’ambiente. Fra le opere più diffuse a livello locale spiccano opere di comunicazione stradale, riqualificazione urbana, parcheggi, impianti sportivi, cimiteri, impianti sportivi e scolastici, ma anche approdi turistici, opere di arredo urbano e verde pubblico, centri culturali e direzionali. Le Figure 6.2 e 6.3 illustrano l’articolazione settoriale dei progetti per numero di avvisi e per importo nel 2002 e nel 2003. Nella Tabella 6.2, sono stati riclassificati i vari progetti in tre categorie principali: servizi a rete ed economici, servizi sociali, servizi ambientali ed urbani. I servizi a rete, quali trasporti e reti energetiche, dell’acqua e del gas sono associati a servizi economici, come servizi per commercio e artigianato nonché per il turismo (inclusi servizi puntuali come porti turistici) dato che si tratta di investimenti che contribuiscono ad aumentare la produttività locale e a creare quindi benefici locali e spillovers economici anche su altre aree. I servizi sociali sono invece più diretti alle famiglie che alle imprese ed includono investimenti legati a sanità, educazione e tempo libero, nonché i cimiteri. Infine i servizi ambientali, che includono opere di riqualificazione, igiene e arredo urbani, hanno per lo più valore locale e comunale e sono quindi associati ad altri servizi urbani fra cui i parcheggi ed i centri direzionali. Figura 6.2 - Avvisi di Gara ne l 2002-2003, per settore 2002 Servizi ambientali e urbani 27% Servizi a rete ed economici 30% Varie 8% Servizi sociali 35% 2003 Servizi ambientali e urbani 31% Varie 7% Servizi a rete ed economici 25% Servizi sociali 37% Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 95 In termini di numero di progetti, i servizi sociali sono il settore leader sia nel 2002 sia nel 2003 e sono trainati dalla costruzione di impianti sportivi e cimiteri. Nel 2002, la seconda posizione spetta ai servizi a rete ed economici con il particolare ruolo delle opere per acqua, gas, energia e telecomunicazioni, mentre nel 2003 sopravanzano i servizi ambientali ed urbani, nettamente dominati dai parcheggi, ma anche da progetti per l’arredo urbano. In termini di importo dei progetti, il settore leader è quello dei servizi a rete ed economici sia nel 2002, con un minimo vantaggio sul settore sociale, sia nel 2003, con un valore totale doppio rispetto al settore sociale, quasi raggiunto dal settore ambientale e urbano. In termini assoluti, i sottosettori trainanti sono nel 2002 quello della sanità seguito dal settore accorpato di acqua, gas, energia e telecomunicazioni, dal settore dei trasporti e dai parcheggi, mentre nel 2003 passano in testa i due settori a rete con al primo posto i trasporti, seguiti da sanità e parcheggi. Infine, per quanto riguarda gli importi medi, vi è una notevole differenziazione dato che nel settore a rete ed economico si hanno gli importi medi massimi (che arrivano oltre i cento milioni di Euro nei trasporti), nel settore ambientale-urbano si hanno valori intermedi e nel settore sociali si hanno gli importi medi minimi (fino al mezzo milione di Euro che è l’importo medio degli interventi relativi ai beni culturali). Figura 6.3- Importi degli avvisi nel 2002-2003, per settore 2002 Servizi ambientali e urbani 19% Varie 5% Servizi a rete ed economici 38% Servizi sociali 38% Servizi ambientali e urbani 21% Servizi sociali 23% 2003 Varie 1% Servizi a rete ed economici 55% Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 96 La Tabella 6.3 riporta le stesse informazioni per i primi due trimestri del 2004, che sembrano confermare le tendenze dei due anni precedenti. Complessivamente, va notato che la PPP sta esercitando il suo intervento in modo abbastanza ampio in tutti i settori, con caratteristiche diverse a seconda delle necessità, ma senza una chiara prevalenza in uno dei tre macrosettori individuati. Tutti e tre sono cresciuti fra il 2002 ed il 2003, anche se la crescita maggiore si è registrata per il settore a rete ed economico. Questo è ovviamente il settore più importante per la riduzione del gap infrastrutturale italiano. È dunque di grande interesse che questo strumento si stia velocemente sviluppando anche nel campo delle opere pubbliche di interesse economico e che questo sviluppo abbia luogo anche nel Mezzogiorno. Tabella 6.2 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per settore N. di avvisi Importo Importo medio 2002 Trasporti Acqua,Gas, Energia, Telec. Turismo Approdi Turistici Commercio/Artigianato Servizi a rete ed economici 2003 2002 2003 2002 2003 10 35 464531 3118401 77421 111371 110 162 583000 1982591 10053 20651 8 41 8124 262525 1624 9375 6 23 7613 258553 1268 16159 46 49 134632 175670 9616 4747 310 1197900 5797740 6655 18702 180 Sanità 45 71 622089 1514912 20736 30298 Impianti Sportivi 90 187 246216 553798 3971 3793 Tempo Libero (Teatri, ecc.) 10 27 6315 50250 3157 2791 Scolastico e sociale 15 52 187416 147470 23427 4468 3 18 2737 3826 912 546 50 100 125111 214626 3207 2649 455 1189884 2484882 5586 5461 Beni Cult. Cimiteri Servizi sociali 213 Parcheggi 81 167 341266 1282699 7756 10689 Riqualif. Urbana 26 65 104031 492971 8669 10716 Centri Polivalenti Igiene Urbana Direzionale Arredo Urbano e verde Servizi ambientali e urbani 17 5 5 29 163 28 25 10 83 378 41035 169761 39912 153309 45774 93672 18714 30915 590732 2223327 4103 19956 11443 1247 3624 7716 8517 11709 657 5882 Varie Totale 48 604 87 162735 68122 1230 3141251 10574071 7075 -- 1703 - Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto (343 nel 2002 e 841 nel 2003) ed è in migliaia di Euro 97 Tabella 6. 3 - Avvisi di Gara nel 2004 (I e II trimestre), per settore Numero di avvisi Importo Importo medio 2004-I 2004-II 2004-I 2004-II 59079 7285 339692 1434658 12801 54975 110593 241515 77271 160480 2004-I 2004-II 11815 1214 12581 28130 1422 4581 22118 26835 11038 4863 Trasporti Acqua,Gas, Energia, Telec Turismo Approdi Turistici Commercio/Artigianato 9 43 11 7 8 8 75 15 15 42 Servizi a rete ed economici 78 155 599436 1891628 - - Sanità Impianti Sportivi Tempo Libero (Teatri, Cin.) Scolastico e sociale Beni Cult. Cimiteri Servizi sociali 13 42 6 4 0 18 83 30 106 11 13 2 59 221 100948 95897 7473 113742 0 20646 338706 276273 211190 32673 138080 5750 167678 831644 7765 2739 2491 37914 0 1214 - 11050 2933 4667 15342 2857 3353 - Parcheggi Riqualif. Urbana Centri Polivalenti Igiene Urbana Direzionale Arredo Urbano e verde Servizi ambientali e urbani 43 21 6 5 2 31 108 112 53 17 8 15 32 237 140328 37940 26080 53266 30773 22255 310642 344482 147454 29121 29857 56630 24774 632318 5613 9485 4346 13316 16386 1309 - 3914 4607 2647 4979 5148 1457 - 31 44 402673 68749 2193 300 657 1646763 3431650 Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto ed è in migliaia di Euro 2644 - Varie Totale 6.2.3 Quali sono le aeree geografiche trainanti per la PPP? Dal punto di vista geografico, l’espansione della PPP si è caratterizzata come un fenomeno abbastanza equilibrato fra Nord, Centro e Sud nel biennio 2003-2003, mentre a partire dal 2004 si è verificata una netta inversione di tendenza a favore del Mezzogiorno. Questa evoluzione emerge sia dall’analisi del numero di avvisi che dal loro importo (Figure 6.4 e 6.5). In termini di articolazione territoriale, fino al 2002 la maggior parte delle iniziative si è collocata al Nord (il 41% dei progetti, contro il 37% del Sud), mentre nel 2003 si è verificata una inversione di tendenza con un recupero del Sud (41% dei progetti, contro il 39% al Nord). I primi dati del 2004 sembrano mostrare il sorpasso del Sud rispetto al Nord: nel primo semestre 2004 si sono avute 533 iniziative al Sud contro le 355 del Nord e le 183 del Centro. In particolare, nel secondo trimestre 2004 il Mezzogiorno ha promosso 359 iniziative 98 (55% del totale) duplicandole rispetto allo stesso trimestre del 2003. Nello stesso trimestre, il Nord ha promosso 207 iniziative ed il centro 91. Proiettando i risultati del primo semestre 2004, sulla base del tasso di crescita che si è registrato nel 2003, ci si può attendere di raggiungere a fine 2004 800-1000 avvisi di gara al Sud, i 500-600 al Nord ed 300 al Centro. Per quanto riguarda gli importi dei progetti, il Nord resta leader nel 2002 e nel 2003. Viceversa, nel primo semestre del 2004 il Sud passa alla guida con il 60,3% degli importi totali. Nel secondo trimestre 2004, il Sud totalizza nuove iniziative per un valore di 2,5 miliardi di Euro, a fronte dei 700 milioni del Nord e i 220 del Centro. Proiettando questi dati, a fine anno si potrebbero raggiungere i 10-12 miliardi di Euro al Sud contro 4 miliardi al Nord e 1,5 al Centro (Tabella 6.4). La Figura 6.6 illustra gli investimenti pro-capite in PPP, per area geografica, sulla base dei dati trimestrali del 2003 e del 2004 (i dati trimestrali per il 2002 non sono disponibili). In media, nel 2003 gli investimenti pro-capite in PPP sono stati pari a 185 Euro, con il Centro nel ruolo di leader, con 202 Euro contro i 193 al Sud e solo 171 al Nord. I dati del 2004 mettono ancora una volta in evidenza la forte espansione del fenomeno nelle regioni del Mezzogiorno, che è passato dai 15 Euro pro-capite del primo trimestre 2003 ai 120 del secondo trimestre 2004. Figura 6. 4 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per area geografica 2002 SUD 37% NORD 41% CENTRO 22% 2003 NORD 39% SUD 41% CENTRO 20% Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 99 Le informazioni di dettaglio a livello regionale sono riepilogate nella Tabella 6.5. Per quanto concerne il numero di avvisi di gara, nel 2002 la regione leader è la Lombardia seguita da Campania, Lazio e Puglia. Nel 2003 la Campania risulta la regione con più iniziative, seguita da Lombardia, Puglia ed Emilia Romagna. In relazione al valore dei progetti avviati, nel 2002 la leadership è appannaggio della Lombardia, seguita da Campania, Veneto e Puglia, mentre nel 2003 il Piemonte ottiene i progetti di maggior valore seguito da Sicilia, Lazio, Emilia Romagna e Campania. Non è possibile dire che cosa sia accaduto nei primi sei mesi del 2004, non essendo disponibili i dati dettagliati a livello regionale. Figura 6. 5 - Importi degli avvisi nel 2002-2003, per area geografica 2002 SUD 38% NORD 52% CENTRO 10% 2003 SUD 38% NORD 41% CENTRO 21% Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 100 Tabella 6.4 - Avvisi di Gara nel 2003-2004, per aree geografiche Nord Centro Sud Totale Nord Centro Sud Totale Numero di avvisi 2003 2004 I II III IV I II 82 186 94 124 148 207 57 100 32 69 92 91 54 193 127 131 174 359 193 479 253 324 414 657 Importo di avvisi segnalati 2003 2004 I II III IV I II 569624 677418 2235982 940979 525339 707994 264453 836203 273238 879682 578823 220187 321446 641473 935965 2125150 593030 2503468 1155523 2155094 3445185 3945811 1697192 3431649 Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2002-2004 Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto (343 nel 2002 e 841 nel 2003) ed è in migliaia di Euro Figura 6.6 - PPP pro capite nel 2003-2004, per aree geografiche (Euro pro-capite) 140 120 100 PPP pro capite 80 60 40 20 0 2003-I 2003-II 2003- 2003- 2004-I 2004-II III IV Nord Centro Sud Fonte: Elaborazioni su dati dell’Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 101 Tabella 6.5 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per regione Numero di avvisi Importo di avvisi segnalati 2002 2003 2002 2003 6 1 11312 1563 Valle d'Aosta 35 70 223846 1914962 Piemonte 14 79 133909 476390 Liguria 89 138 654185 426233 Lombardia 2 2 0 2978 Trentino-A.A. 45 84 364308 415054 Veneto 12 11 9286 13452 Friuli-V.G. 41 91 232446 1125361 Emilia Romagna Toscana Marche Umbria Lazio 49 14 8 64 87 55 20 88 196972 25804 8911 94278 606779 234139 77020 1249980 Abruzzo Molise Campania Basilicata Puglia Calabria Sicilia Sardegna 13 13 71 9 63 18 19 19 56 8 185 15 128 28 57 26 121205 11855 502733 2406 255743 51859 73228 167114 171986 28118 1002850 10906 836186 80070 1826509 73534 604 1230 3141401 10574071 Totale Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004 Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto ed è in migliaia di Euro 6.3 La PPP in Italia settore per settore Infine, sembra opportuno analizzare le principali esperienze italiane di PPP nei diversi settori di intervento, a partire dagli anni ’90 fino ad arrivare ai progetti messi in cantiere nel 2004. • Il settore dell’energia Con una serie di interventi normativi degli anni ‘90 (legge 9/91 e legge 10/91), il settore dell’energia, fino ad allora interamente monopolizzato dall’ENEL, è stato gradualmente liberalizzato nella produzione di energia elettrica, nella distribuzione (con una concorrenza di tipo comparativo) e nell’interscambio con l’estero. Le prime operazioni di finanza di progetto in italia sono state in effetti realizzate a seguito di tale liberalizzazione. Secondo stime fornite dall'Associazione Bancaria Italiana, tali operazioni hanno permesso la realizzazione di impianti 102 di cogenerazione per un controvalore stimato di circa 5 miliardi di Euro. Fra i diversi progetti di PPP spiccano il progetto Rosen57 a Rosignano (Livorno) del 1995 (costo di 370 milioni di Euro), l’API Energia58 a Falconara (Ancona, costo di 500 milioni di Euro) ed il Sarlux 59 a Sarroch (Catania, costo di quasi 1000 milioni di Euro) del 1996, il Serene60 del 1998 in varie località (265 milioni di Euro) e l’Italian Vento Power61 del 1998 che diffonderà trecento mulini a vento fra Puglia e Campania per 200 milioni di Euro). Questi primi esempi di PPP hanno impiegato diverse forme di project financing: ad esempio il progetto Rosen è di tipo BOT, l’API di tipo BOOT e l’Italian Vento Power di tipo BOO. Altre esperienze riguardano il comparto dello smaltimento dei rifiuti per produrre energia elettrica. Nel 1996 ISAB e Mission Energy hanno promosso a Priolo (Siracusa) il piano ISAB Energy da oltre 900 milioni di Euro per costruire un impianto di incenerimento in grado di soddisfare il 2% della domanda italiana di energia elettrica (anche in questo caso si tratta di un’operazione di tipo BOO). Nel primo trimestre 2004, si registrano nuovi bandi di gara nel settore energetico, anche per piccole opere. Molti comuni, soprattutto del Mezzogiorno, stanno selezionando proposte per lavori di ampliamento, adeguamento e manutenzione ordinaria e straordinaria di impianti di pubblica illuminazione (Enna, Belpasso, Santa Elisabetta e Belmonte Mezzagno in Sicilia; Torre Santa Susanna, Poggiorsini, Trinitapoli e Monteiasi in Puglia; Volla, Vico Equense e Contursi Terme in Campania; Montesilvano negli Abruzzi e Anagni nel Lazio; Cadenzano in Toscana e Deruta in Umbria). Un’altra serie di bandi concerne progettazione, costruzione, potenziamento, gestione e manutenzione della rete e degli impianti di distribuzione del gas propano (in una ventina di comuni sardi), del gas naturale (Asola, Oltre il Colle, Peia, Spino d’Adda, Vertova e Lonato in Lombardia; Missanello in Basilicata; Priverno nel Lazio) e del gas metano (Sortino e Montalepre in Sicilia; Orria, Aquilonia, Moio e Omignano in Campania; Ovindoli in Abruzzo e Fiuggi nel Lazio) ed infine per un parco eolico (Cirò Marina in Calabria). Fra le opere di scala maggiore, il Consorzio Asmez di Napoli ha promosso una gara per la creazione di un’impresa per servizi di trattamento e gestione energetica, sistemi di risparmio energetico, produzione di energia con sorgenti rinnovabili od ecologicamente pulite, sistemi di telegestione e telecontrollo, atti alla gestione e manutenzione ottimale degli impianti di illuminazione pubblica e del territorio con finalità sia di ottimizzazione della resa energetica che di controllo ambientale ai fini della sicurezza pubblica. La Società di Gestione degli Impianti Nucleari di proprietà dell’ENEL ha invece aperto una procedura per la selezione di un operatore industriale qualificato nel settore elettrico che acquisti aree, impianti e opere complementari nella zona di Latina, per un valore di 75 milioni di Euro, con l’impegno di utilizzarle per la produzione di energia elettrica mediante centrale a ciclo combinato. 57 Promotori sono l’Ansaldo, la Solvay e la Tractebel. Sono stati previsti tre anni per la costruzione di un impianto in grado di soddisfare l’1% della domanda italiana di energia elettrica e dodici anni di sfruttamento prima del trasferimento allo Stato. 58 Promotori sono API Italia e ABB. 59 Promotori sono stati Enron e Saras. 60 Promotori sono Fiat, British Gas e Sondel. 61 Promotori sono l’americana Cannon, la giapponese Tomen Power e l’inglese British vento. 103 Il settore dell’energia appare quindi particolarmente attivo a livello comunale per iniziative legate all’illuminazione pubblica, alla metanizzazione e alla distribuzione del gas naturale62. • Il settore delle telecomunicazioni In questo settore l’istituzione dell’Autorità per le telecomunicazioni con poteri di regolamentazione, sorveglianza e anti-trust e la liberalizzazione degli anni ’90 hanno permesso l’ingresso di nuovi operatori come Omnitel e Wind oltre all’impresa leader TIM. Il maggiore progetto di PPP da qui derivato è stato promosso da Omnitel, Olivetti, le americane Bell e Air Touch International e la scandinava Tellia nel 1997 per realizzare infrastrutture per la copertura del mercato e l’innovazione tecnologica. Si tratta di un project financing di tipo BOO, del costo di 1400 milioni di Euro e con scadenza nel 2005. Minori iniziative si registrano a livello locale. Nel 2004, il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Siracusa ha promosso una gara informale per la cessione di un’area finalizzata alla realizzazione di un centro di ricerca, sviluppo e produzione operante nel settore delle telecomunicazioni e ICT, mentre il comune di Potenza ha sollecitato manifestazioni di interesse alla realizzazione o messa a disposizione di infrastrutture di reti di comunicazione e servizi interattivi ad alta velocità, board band, in modalità di telefonia wired, fissa e wireless. E’ chiaro che in questo settore tipicamente di rete (per la presenza di forti network effects), vi è un’alta concentrazione a livello nazionale ma anche internazionale, e la maggior parte delle iniziative derivano da poche grandi imprese e sono per lo più a livello non locale. • Il settore delle costruzioni63 Un grande impulso ad iniziative in questo settore si è avuto a partire dal 1994, quando la Commissione Europea ha istituito un Gruppo di Lavoro, che va sotto il nome di gruppo Christophersen, per l’individuazione di grandi opere infrastrutturali da finanziare tramite project financing. Il programma generale, denominato Transeuropean Network, riguarda aeroporti, ferrovie, ed in particolare la rete ad alta velocità, autostrade, ponti e trafori. Anche l’Italia ha beneficiato di questi progetti e dopo un periodo di evidente ritardo rispetto ad altri Paesi europei durante gli anni ’9064, sta ora incrementando gli investimenti in costruzioni di pubblica utilità, anche grazie a importanti interventi di PPP. La prima grande opera italiana di questo genere è il Progetto Malpensa 2000, il cui promotore è stato la SEA (Società Esercizi Aeroportuali), una S.p.a. che fino al 2022 ha la concessione per gestire ed amministrare gli aeroporti di Linate e Malpensa ed il cui capitale è detenuto per l’84,6% dal Comune di Milano, per il 14,5% dalla provincia di Milano, e per lo 0,9% da privati. L’operazione, di tipo BOOT e finanziata dallo Stato italiano, dalla Banca 62 Giova citare anche il settore dell’acqua, attivo sopratttutto nel campo della gestione del servizio idrico e nella realizzazione di opere fognarie e di irrigamento. 63 Una interessante monografia sulle PPP di questo settore è Tamarowski (2001). 64 Nel 1999 l’investimento in costruzioni era il 7,8% del PIL in Italia (di cui 55,6% in abitazioni, 25,8% in fabbricati non residenziali e solo il 18,6% in opere pubbliche) contro il 12,2 % in Germania, l’8,2% in Francia e il 14,4% in Spagna (dati ANCE, 2000). 104 Europea per gli Investimenti (grazie al riconoscimento quale opera ad alta priorità a livello comunitario) e da altre banche nazionali, prevedeva la conversione di Malpensa da aeroporto minore in primo aeroporto italiano.65 Il costo complessivo del progetto è stato stimato in circa 1 miliardo di Euro, di cui la metà per opere di prima urgenza per l’apertura del “polo funzionale” nel 1998. I flussi di reddito futuri, legati alle tasse aeroportuali, alle tariffe di handling ed i ricavi commerciali, garantiscono e dovrebbero ripagare i debiti contratti dalla SEA. Nell’ambito del rilancio degli investimenti in infrastrutture pubbliche promosso a partire dal 2001, sono stati avviati studi pilota per alcuni importanti progetti da sviluppare tramite PPP, fra cui: o la realizzazione della tratta internazionale del collegamento ferroviario transalpino Torino-Lione; o la realizzazione di tre nuovi terminali intermodali ferroviari nell’area di Milano-Sud, Roma-Nord e Napoli; o la realizzazione del tratto Est del nuovo anello esterno delle tangenziali milanesi; o l’ammodernamento della tratta autostradale Salerno-Reggio Calabria; o la realizzazione dell’asse viario Marche-Umbria e del quadrilatero di penetrazione interna; o il sistema di collegamento autostradale trasversale Nord-Sud tra l’asse tirrenico e quello adriatico; o interventi di potenziamento dei collegamenti plurimodali e realizzazione di opere infrastrutturali nell’ambito dell’Hub interportuale di Gioia-Tauro; o la realizzazione di un corridoio trasversale autostradale fra S. Vittore e Termoli; o la realizzazione di oltre 60 interventi a valenza regionale e interregionale miranti a risolvere le emergenze idriche del Mezzogiorno. Tali studi sono sotto competenza dell’UFP che sta valutando priorità e fattibilità dei vari progetti A livello di opere di minori dimensioni e di interesse locale, vale la pena di focalizzare alcuni casi emblematici di un notevole attivismo: trasporti, parcheggi, impianti sportivi e cimiteri. Non è un caso che opere in questi campi siano allo stesso tempo molto redditizie ed in notevole espansione grazie a forme di project financing. Ø Trasporti. Il settore dei trasporti è stato il più importante nel 2003 in termini di importo totale della PPP. È dominato da grandi iniziative di valore nazionale o anche internazionale, come, nel corso del 2004, la superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta66 nelle province di Treviso e Vicenza (che è stata inserita nel programma delle 65 Nel 2001 nei due aeroporti milanesi, Linate occupava il 73,9% dei 51.321 dipendenti otteneva il 71,9% dei ricavi totali pari a circa 3600 milioni di Euro. Le percentuali sono attualmente attorno al 23% e 22% e sono previste scendere al 17 e 16% circa. 66 La vecchia procedura relativa alla Pedemontana Veneta, che aveva raggiunto la fase di gara, era stata annullata con sentenza del Tar del luglio 2003). La nuova procedura riguarda peraltro un tratto più lungo, di 95 Km. Il valore economico non è ancora noto ufficialmente, ma stando alle prime stime si parla di 1,9 miliardi contro i 946 milioni del vecchio progetto. 105 infrastrutture strategiche previsto dalla L. 443/01 e fa parte del Piano Regionale dei Trasporti della Regione Veneto), ma presenta anche molte opere stradali, ferroviarie o di altro tipo a livello locale. Con riferimento alle iniziative del primo trimestre 2004, è stata indetta una gara dal comune di Firenze per la progettazione esecutiva, costruzione e gestione di un sistema integrato di tranvia nei territori dei comuni di Firenze e Scandicci, Bologna sta selezionando proposte per il ripristino della funivia si San Luca, Vicenza lo sta facendo per la realizzazione di viabilità sotterranea, Anagni per la realizzazione di una circonvallazione e un consorzio sardo sta scegliendo soci per progettare, costruire e gestire un aeroporto turistico al Sarrabus. Il settore dei trasporti è particolarmente attivo laddove sia possibile una chiara tariffazione come nel caso delle autostrade. Ø Parcheggi. Si tratta di un settore che è letteralmente decollato grazie alla possibilità di PPP, sicuramente uno dei principali successi in questo campo. Lo sviluppo è per ora più intenso al Nord, dove il problema del parcheggio è più sentito, in particolare nelle grandi città e nelle località turistiche. L’importo medio per queste opere si aggira sui 10 milioni di Euro, senza forte variabilità data la tipologia standard dei lavori. Limitandosi ai casi più recenti (primo trimestre 2004), sta per avviarsi la realizzazione di otto parcheggi a Milano (di cui cinque a Cinisello Balsamo), due a Roma e ben undici a Genova. Si registrano altri progetti in avviamento a Busto Arsizio, Chiavenna, Seriate e Tirano in Lombardia; Torino, Limone Piemonte e Pianezza in Piemonte; Santa Margherita Ligure e Noli in Liguria; Treviso, Verona, Padova e Garda in Veneto; Riccione e Salsomaggiore Terme in Emilia Romagna; Livorno, Arezzo e Rosignano Marittimo in Toscana; Foligno in Umbria; Avellino e San Giorgio a Cremano in Campania; Latisana in Friuli; Bolzano in Trentino. La durata delle concessioni è assai variabile e, per i casi già arrivati alla fase di gara, passa dai 20 anni del parcheggio di Treviso ai 45 anni di quello di Santa Margherita Ligure (entrambi hanno un importo di realizzazione previsto di oltre 5 milioni di Euro). Ø Impianti sportivi. Anche questo è un settore in forte espansione, spesso per la costruzione di centri polivalenti. Gli importi medi sono abbastanza bassi, attorno ai 4 milioni di Euro (con bassa variabilità anche perché la maggior parte delle iniziative si concentra su un’unica tipologia, ovvero le piscine) e con una distribuzione abbastanza omogenea sul territorio nazionale. Alcune delle esperienze più recenti (primo trimestre 2004) sono state avviate a Bologna, Imola, Modena, Rimini e Salsomaggiore in Emilia Romagna; Milano, Como, Pavia, Monticello, Cesano, Rovetta e Limbiate in Lombardia; Boves in Piemonte; Caserta, Salerno, Pomigliano e Casavatore in Campania; Garda in Veneto; Siena e Montemurlo in Toscana; Bari e Trinitapoli in Puglia; Vado e Varazze in Liguria; Dolianova in Sardegna; Giardini-Naxos in Sicilia; Perugina e Amelia in Umbria. Anche in questo caso l’espansione sembra legata alla profittabilità di centri come le piscine da cui si possono estrarre quote d’iscrizione, mentre è possibile prevedere un’espansione futura per palestre e stadi finora rimasti marginali nell’uso di PPP. 106 Ø Cimiteri. Anche questo campo ha conosciuto una forte crescita grazie all’introduzione di forme di PPP per la costruzione o l’ampliamento o la semplice gestione e manutenzione di cimiteri ma anche per l’assegnazione in concessione ai privati dei loculi, dei lotti e delle cappelle. Gare sono in corso (primo trimestre 2004) nelle province di Milano, Varese, Venezia, Padova, Rovigo, Treviso, Savona, Lucca, Livorno, Forlì-Cesena, Ancona, L’Aquila, Isernia, Foggia, Lecce, Napoli, Vibo Valentia, Crotone, Trapani e Agrigento. L’importo medio si aggira sui tre milioni di Euro e le durate delle concessioni sono assai variabili (dai 3 ai 20 anni). Questo settore appare in forte espansione e sembra divenire un campo naturalmente destinato a forme di PPP a livello comunale e provinciale, la cui distribuzione sul territorio nazionale appare del tutto omogenea. • Il settore della sanità In questo settore forme di PPP si stanno diffondendo a livello regionale, soprattutto per l’edilizia sanitaria. Sono previsti interventi nella progettazione e costruzione di nuove strutture ospedaliere (ospedali, tecnologie, attrezzature medicali) e nella gestione di servizi funzionali all’attività sanitaria (attrezzature sanitarie, farmacie, laboratori di analisi) e di supporto (alberghi, parcheggi, mense, pulizie, sistemi informativi). Fra le esperienze del primo trimestre 2004, le Aziende Sanitarie Locali di Venezia e di Sanluri (in provincia di Cagliari) stanno selezionando proposte per la costruzione di nuovi ospedali, mentre il comune di Modena ha appena aggiudicato la gestione, previa costruzione e arredo, di una Residenza Sanitaria Assistenziale con alloggi. Fra le opere minori in fase di gara, vi sono gestioni di case per anziani e ospedali a Suzzara e Castiglione delle Stiviere (Mantova), Marciano (Rimini), Formigine (Modena), Pisa, Alassio (Savona), Sabaudia (Latina), Abbasanta (Oristano), Casavatore (Napoli) e Oriolo (Cosenza). Il settore della sanità è stato uno dei più attivi nella PPP (con gli importi totali maggiori nel 2002) e sembra avere ampie opportunità di espansione nel prossimo futuro in connessione al lento processo di decentralizzazione della sanità. 6.4 Conclusioni In questo capitolo è stata analizzata l’esperienza italiana di partenariato pubblicoprivato, in termini di normativa giuridica e di evoluzione delle iniziative, sia sotto il profilo quantitativo sia sotto il profilo qualitativo. Un primo elemento da sottolineare riguarda l’attività del legislatore, con lo sviluppo della normativa sulla PPP e in particolare sul project financing, nel decennio che va dal 1992 al 2002. La messa a punto di un quadro giuridico di riferimento ha senza dubbio agevolato la rapida espansione delle iniziative, a partire dal 2002. In secondo luogo, lo sviluppo della PPP appare robusto in termini di valore complessivo dei progetti, se si pensa che l’entità dei progetti avviati nel 2003, per lo più intrapresi a livello comunale e provinciale, rappresenta circa il 28% degli investimenti 107 complessivi Amministrazioni Pubbliche e il 43% degli investimenti delle Amministrazioni Locali. La PPP sembra quindi prospettarsi come un valido sostegno all’intervento pubblico. È interessante sottolineare anche il fatto che questo sviluppo abbia riguardato l’intero territorio nazionale. I dati relativi al primo semestre del 2004 mostrano una grande attivismo nelle regioni del Mezzogiorno, che avrebbero sorpassato il Nord, non solo per il numero dei progetti, ma anche per il loro valore complessivo. Si tratta di dati parziali, che necessitano di conferme, ma rappresentano un segnale positivo, considerando che le regioni meeridionali sono anche quelle più carenti dal punto di vista della dotazione di infrastrutture. Infine, per ciò che concerne i settori di intervento, le iniziative hanno riguardato diversi ambiti, dai servizi a rete ed economici, ai servizi sociali, ai servizi ambientali ed urbani. In termini di numero di progetti, i servizi sociali sono il settore leader sia nel 2002 sia nel 2003 e sono trainati dalla costruzione di impianti sportivi e cimiteri. Nel 2002, la seconda posizione spetta ai servizi a rete ed economici con il particolare ruolo delle opere per acqua, gas, energia e telecomunicazioni, mentre nel 2003 sopravanzano i servizi ambientali ed urbani, nettamente dominati dai parcheggi, ma anche da progetti per l’arredo urbano. In relazione all’importo dei progetti, il settore leader è quello dei servizi a rete ed economici sia nel 2002 sia nel 2003, con un valore totale doppio rispetto al settore sociale, quasi raggiunto dal settore ambientale e urbano. Per quanto riguarda gli importi medi dei progetti, si registra naturalmente una forte differenziazione, con gli importi medi più elevati nel settore a rete ed economico (che arrivano oltre i cento milioni di Euro nei trasporti), seguito dal settore ambientale-urbano e dal settore sociale, nel quale si osservano gli importi medi minimi (fino al mezzo milione di Euro che è l’importo medio degli interventi relativi ai beni culturali). 108 7 CONCLUSIONI Questo capitolo riassume le principali conclusioni raggiunte nel corso della nostra ricerca. Come si ricorderà, abbiamo iniziato questo lavoro ponendo una serie di domande, stimolate dall’impressionante crescita di forme di PPP e in particolare della Finanza di Progetto nel nostro Paese. In conclusione, vale la pena di riprendere queste domande una per una e vedere quali risposte il nostro lavoro suggerisce. 1. Sono le infrastrutture utili per la crescita economica? La risposta a questa domanda può sembrare scontata; è un luogo comune che le opere pubbliche incentivino la crescita economica. In realtà, la risposta è tutt’altro che ovvia e i luoghi comuni possono essere fallaci. Le opere pubbliche devono essere finanziate, spesso con imposte distorsive, e spiazzano (attraverso le pressioni al rialzo sui tassi di interesse) gli investimenti privati. Non è dunque detto che comportino incrementi nella dotazione di capitale complessiva e che supportino sempre la crescita. Le opere pubbliche sono poi decise dai politici, che possono perseguire obiettivi diversi dalla semplice massimizzazione del benessere collettivo o del tasso di crescita dell’economia. Infine, non si deve confondere il problema del rapporto tra infrastrutture e livello del reddito con quello del rapporto tra infrastrutture e crescita del reddito. È ben possibile che vi sia una relazione positiva nel primo caso e una relazione negativa o inesistente nel secondo caso. Il primo capitolo fornisce una risposta a questa domanda, riassumendo brevemente le indicazioni della letteratura economica e le evidenze empiriche disponibili. Queste ultime mostrano in modo non ambiguo che esiste una correlazione positiva tra dotazione di infrastrutture e reddito procapite, sia a livello infra-nazionale sia a livello internazionale, sebbene la direzione di causalità appaia di più difficile determinazione. Si osservi che, nei lavori empirici, tra le infrastrutture non vengono considerate solo le tradizionali opere pubbliche (ponti, strade, reti ferroviarie o elettriche) o le infrastrutture fisiche, ma anche le infrastrutture sociali (sanità, istruzione), in quanto esse stesse influenzano il livello del reddito, attraverso gli effetti sull’accumulazione del capitale umano. Più debole ed ambigua è invece, non solo empiricamente ma anche teoricamente, la relazione tra dotazione di infrastrutture e tasso di crescita del reddito, anche nella versione estesa della nozione di infrastrutture prima indicata. La moderna teoria della crescita endogena suggerisce tuttavia un canale attraverso il quale questo rapporto possa esistere ed essere positivo, almeno per livelli di dotazioni infrastrutturali non troppo elevati; le infrastrutture possono contribuire ad aumentare la produttività marginale dei fattori produttivi accumulabili (capitale fisico e, soprattutto, umano), controbilanciando la tendenza verso la riduzione della produttività marginale del capitale a seguito dell’accumulazione dello stesso, consentendo perciò tassi di crescita positivi anche nel 109 lungo periodo. Sfortunatamente, la carenza di dati affidabili a livello nazionale e internazionale rende difficile stimare questa relazione in modo conclusivo. È tuttavia interessante che gli studi più recenti, utilizzando indicatori quali-quantitativi della dotazione di infrastrutture di un Paese, mostrino che esiste una relazione positiva tra crescita economica e infrastrutture. Pur con tutte le cautele del caso, ci sentiamo dunque di suggerire una risposta complessivamente positiva alla prima domanda, anche se naturalmente la relazione dovrebbe essere verificata caso per caso (o progetto per progetto). 2. Esiste un gap di infrastrutture in Italia? Anche la risposta a questa domanda non è ovvia, perché dipende dal modo con cui la dotazione di infrastrutture viene valutata e misurata. Nel secondo capitolo, vengono illustrate le diverse metodologie utilizzabili e quelle che di fatto vengono utilizzate. Fortunatamente, esistono organizzazioni internazionali e nazionali (in particolare, l’Istituto Tagliacarne) che da anni si occupano di questo problema e che hanno sviluppato indici quali-quantitativi di dotazione di infrastrutture. Indici essi stessi discutibili, soprattutto nel loro utilizzo per i confronti tra Stati o regioni di dimensioni assai diverse, ma che rappresentano probabilmente il meglio che si possa fare in questo campo. Sulla base di questi indicatori, la risposta alla domanda è netta. L’Italia presenta una dotazione di infrastrutture assai inferiore a quella dei principali Paesi europei. Di più, questo gap è ancora maggiore se lo si rapporta al PIL pro-capite. L’Italia ha livelli di reddito paragonabili a quelli dei più sviluppati Paesi europei; per contro, ha un indice infrastrutturale nettamente inferiore, più simile quello dei Paesi mediterranei di recente acquisizione nell’UE che a quello dei grandi Paesi dell’Europa continentale, benché i primi abbiano livelli di reddito pro-capite assai più bassi. Inoltre, la dotazione infrastrutturale è distribuita in modo assai difforme sul territorio nazionale. Le regioni del Centro-Nord ed il Lazio, con poche eccezioni dovute più che altro alla presenza di un effetto di scala, presentano tutte dotazioni infrastrutturali in linea con la media europea, sebbene nessuna di esse si collochi sulla fascia alta delle regioni europee. Viceversa, le regioni del Centro-Sud presentano tutte dotazioni infrastrutturali inferiori alla media, in molti casi perfino inferiori al livello stimato corrispondente al loro reddito pro-capite (che è più basso rispetto al Nord). Il gap è particolarmente rilevante nelle infrastrutture economiche; è meno rilevante, sebbene ancora presente, nelle infrastrutture sociali, soprattutto per ciò che riguarda quei servizi che sono direttamente o indirettamente sotto il controllo del governo centrale (come la sanità). Di più, mentre ci sono evidenze che il gap infrastrutturale tra l’Italia nel suo complesso e il resto dei grandi Paesi europei si sia andato chiudendo nell’ultimo decennio, non c’è alcuna evidenza che questo stia avvenendo all’interno del Paese. Il gap infrastrutturale tra Nord e Sud del Paese appare praticamente lo stesso all’inizio e alla fine degli anni ’90. Considerando insieme le risposte alla prima e alla seconda domanda, la conclusione è dunque che si dovrebbe ancora investire nelle infrastrutture per incrementare la crescita del Paese e che gli investimenti necessari dovrebbero essere collocati soprattutto (sebbene non esclusivamente) al Sud. Queste considerazioni portano logicamente anche a chiedersi se le nuove forme di PPP non possano rappresentare un valido ausilio alla risoluzione di questi 110 problemi. Ma prima di rispondere a questa domanda, ci sono altre questioni che devono essere affrontate, come è stato anticipato nell’Introduzione. 3. Esiste una crisi degli investimenti pubblici e in particolare delle Amministrazioni locali? La domanda è importante, per più motivi. Se fosse vero che c’è una crisi degli investimenti pubblici, allora il problema del gap infrastrutturale sarebbe inevitabilmente destinato ad aggravarsi. Se la risposta alla domanda fosse positiva, allora sarebbe forse anche vero che il forte sviluppo delle PPP a cui si assiste nel nostro Paese, potrebbe solo significare che i governi, locali e nazionali, stanno cercando di rispondere ad un problema di carenza di investimenti pubblici con nuove forme di finanziamento, meno onerose per i bilanci pubblici. Gli investimenti finanziati con PPP sarebbero cioè meramente sostitutivi e non aggiuntivi, dunque per definizione incapaci di rispondere al problema della carenza delle infrastrutture. Il terzo capitolo risponde in modo non ambiguo a questa domanda. L’esistenza di una crisi degli investimenti pubblici non trova alcun supporto nei dati. L’Italia è sempre stato tradizionalmente un Paese che ha fortemente investito in infrastrutture (non inaspettatamente, vista la sua elevata propensione al risparmio e viste le proprie carenze infrastrutturali). Nella prima parte degli anni ’90, c’è stata una forte caduta, generalizzata a tutti i livelli di governo, degli investimenti pubblici, una caduta dovuta a più fattori. Da una parte, la necessità di riequilibrare le finanze pubbliche dopo la crisi del 1992 e per l’approdo a Maastricht, necessità che ha probabilmente inciso sulla spesa in conto capitale più che sulla spesa corrente (data la maggiore rigidità verso il basso di quest’ultima); dall’altra, le conseguenze di “Mani Pulite”, che per anni hanno bloccato gli appalti. Questa riduzione degli investimenti non ha tuttavia interessato solo l’Italia; tutti i Paesi europei, e per le stesse ragioni, hanno visto una riduzione della spesa in conto capitale negli stessi anni, sebbene non della stessa entità di quella italiana. Tuttavia, già nella seconda metà degli anni ’90, questa crisi è stata superata. Alla fine del decennio e nei primi anni 2000, la spesa per investimenti in percentuale sul PIL appare più elevata che all’inizio del decennio, nonostante le forti dismissioni effettuate nello stesso periodo; appare anche più elevata di quella dei principali partners europei, riprendendo un trend che ha sempre caratterizzato il Paese. La componente di investimenti attribuibile alle Amministrazioni locali appare poi in crescita nel decennio; negli ultimi anni essa sembra saldamente ancorata a circa il 75% del totale. 4. È il patto di stabilità interno responsabile della crisi degli investimenti pubblici e dello sviluppo delle PPP? La risposta alla domanda precedente in parte risponde già anche a questa; poiché non è in atto una crisi degli investimenti pubblici locali, questa non può essere attribuita al Patto di Stabilità Interno (PSI). Ma l’analisi dettagliata del PSI contenuta nel quarto capitolo, che pone anche a confronto l’esperienza italiana con quelle straniere, aiuta a comprendere meglio anche le ragioni di questa risposta. 111 Il PSI non può avere influenzato le spese per investimento dei governi locali per due ragioni fondamentali. In primo luogo, perché, pur con tutte le oscillazioni dovute ad una sempre cangiante legislazione, il legislatore nazionale ha sempre applicato una sorta di implicita golden rule interna, esentando la spesa per investimenti dai vincoli imposti per legge sulle spese (in qualche caso i saldi) degli enti locali. È possibile, sebbene non ci siano prove di questo, che la disciplina del PSI possa avere addirittura incentivato la spesa in conto capitale degli enti locali, almeno da un punto di vista contabile; gli enti locali, vincolati dal lato della spesa corrente, avrebbero “trasformato” talune spese correnti in spese in conto capitale. La seconda ragione per cui il PSI non può avere influenzato la spesa in conto capitale è che in realtà le sanzioni previste per gli enti inadempienti non sono mai state applicate, anche in quei casi in cui queste implicavano vincoli sulle possibilità di finanziare gli investimenti. Anzi, con il passare del tempo, è diventato sempre meno chiaro chi avesse il compito di monitorare e, in caso di necessità, di punire gli enti locali inadempienti. Ciò non significa naturalmente che le cose non possano cambiare in futuro. Ci sono avvisaglie di possibili cambiamenti nelle finanziarie più recenti, come quella per il 2003, che attraverso una ridefinizione delle spese per investimento ha nei fatti imposto dei vincoli sulle possibilità di finanziamento di alcune di tali spese da parte delle regioni. Ma ciò appare improbabile, anche alla luce dei cambiamenti in atto negli orientamenti a livello europeo sul patto di stabilità e crescita per i paesi appartenenti all’Unione Monetaria, e anche alla luce della riforma costituzionale del 2001. Non è invece improbabile che l’esigenza di mantenere una maggiore disciplina di bilancio a livello locale e nazionale, abbia dato un robusto contributo alla crescita della PPP in generale e della Finanza di Progetto in particolare. La PPP offre questo grande vantaggio contabile ai governi; consente di trasformare maggiori spese presenti in maggiori spese (o minori entrate) future, e per il modo in cui sono costruiti i bilanci pubblici, che tengono conto delle prime ma non delle seconde, ciò rappresenta un immediato sollievo per la gestione finanziaria. Un sollievo non da poco, per governi pressati da vincoli di bilancio, vincoli sul debito, risorse scarse e domande elevata da parte dei propri cittadini. Siccome tuttavia questi vantaggi sono puramente contabili e non economici, è importante porsi la successiva domanda. 5. Quali sono i veri vantaggi economici della PPP? Si tratta di un punto importante e generalmente non ben compreso nella pubblicistica corrente, a cui si risponde in dettaglio nel quinto capitolo, alla luce sia dell’evidenza empirica internazionale che della letteratura economica più recente. Forse il modo più semplice per rispondere alla domanda, è partire dalla conclusione opposta, cercando di spiegare a che cosa non servono le PPP. Intanto, non servono per far risparmiare risorse finanziarie alle Amministrazioni Pubbliche, almeno non nel senso semplicistico che grazie alle PPP le spese per gli investimenti se le accollano i privati. Un investimento pubblico tradizionale, finanziato con l’emissione di titoli del debito pubblico, comporta un esborso attuale, a fronte del quale si possono manifestare ritorni futuri, per esempio in termini di servizi tariffabili (si pensi a una autostrada) oppure di servizi per la collettività (si pensi ad un carcere). Lo stesso investimento effettuato in forma di PPP non comporta esborsi presenti, perché il privato si fa carico della costruzione, ma può comportare 112 esborsi futuri, per esempio perché il pubblico dovrà acquistare dal settore privato questi stessi servizi (il carcere), oppure perdite future, in quanto il servizio, ceduto ai privati, non comporta più per il settore pubblico entrate da servizi tariffabili (l’autostrada). Se l’opera pubblica fosse effettuata nello stesso modo dal pubblico o in forma di PPP, i flussi finanziari sarebbero esattamente gli stessi nei due casi, con effetti (scontati al presente) sul bilancio pubblico esattamente uguali. È solo la (imperfetta) contabilità pubblica (che considera le spese presenti ma non le spese o le mancate entrate future) che fa apparire i due investimenti come diversi; nei fatti essi sono esattamente equivalenti. Un vincolo sulle spese di investimento o sui livelli di indebitamento, oppure, una semplice volontà di presentare bilanci più in ordine renderebbe ovviamente appetibile una PPP per qualunque ente pubblico (una ragione per esempio tutt’altro che estranea all’esperienza inglese); ma ciò non significa che essa sarebbe anche desiderabile sul piano economico. Non è neppure vero, altro argomento tradizionale avanzato a supporto della PPP, che gli investimenti finanziati in PPP siano in genere meno costosi, in quanto possono far riferimento ad un robusto mercato finanziario che consente l’allocazione efficiente del rischio. In genere, è vero esattamente il contrario. E questo non solo perché i mercati finanziari sono tutt’altro che perfetti. La ragione è che il settore pubblico può sempre finanziarsi a costi inferiori rispetto al settore privato, per la semplicissima ragione che, grazie ai suoi poteri di coercizione fiscale, può garantire di onorare i propri debiti in una misura che nessun operatore privato può fare. In prima approssimazione, i progetti in PPP sono dunque più costosi e non meno costosi dei progetti tradizionali di investimento pubblico. Ma allora quali sono i vantaggi veri, quelli economici, della PPP? Questi vantaggi dipendono dai maggiori incentivi che la PPP offre agli operatori nell’innovare per ridurre i costi dell’opera o per migliorarne la gestione. Per ragioni complesse, ma sostanzialmente legate all’incompletezza dei contratti, e dunque all’appropriabilità dei benefici dell’innovazione, un operatore pubblico non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad innovare per abbattere i costi del progetto, sia nella fase della costruzione sia nella fase della gestione del servizio. Su questo punto, l’evidenza empirica è chiara. Nel caso inglese, per esempio, l’affidamento ai privati ha comportato un taglio netto dei costi, un’accelerazione nei tempi di esecuzione delle opere, una riduzione drastica dei casi di sfondamento dei preventivi e così via. Questo è il grande vantaggio (economico, non puramente contabile) della PPP. Ma questo stesso vantaggio comporta dei rischi. Gli stessi incentivi che spingono il settore privato a innovare per ridurre i costi, possono condurlo a innovare per ridurre la qualità dei servizi. Inoltre, non tutto può essere affidato alla PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni dei mercati dei capitali, tanto maggiori in un Paese come il nostro dove i mercati finanziari sono poco sviluppati, il settore privato tende a selezionare solo quei progetti dove il rischio è basso e i rendimenti possono essere sufficientemente rapidi e sicuri. Ciò significa che le risorse che la PPP libera per il settore pubblico, vere o contabili che siano, devono essere usate con cura, per finanziare quegli investimenti che le varie forme di PPP non possono coprire. Significa anche che lo strumento deve essere maneggiato con cautela, per esempio non lasciando al settore privato l’agenda degli investimenti, in modo che sia chiaro su chi deve ricadere l’onere del rischio e contrattando fin dove è possibile la qualità del servizio dato in concessione. A queste condizioni, le PPP possono essere uno strumento di grande supporto agli investimenti pubblici. 113 6. Le PPP possono aiutare a colmare il gap infrastrutturale in Italia? La risposta a questa domanda è un chiaro…“ni”. Purché non provochino un effetto di spiazzamento nei confronti degli investimenti pubblici tradizionali, un punto su cui si tornerà più avanti, le PPP possono sicuramente agire come un moltiplicatore nei confronti degli stessi investimenti pubblici, liberando risorse che il settore pubblico può utilizzare per quegli investimenti che più sono in grado di generare crescita economica. Da questo punto di vista, poco importa se queste risorse sono vere o puramente contabili; se il vincolo è economicamente stupido, aggirarlo può essere economicamente efficiente. Se però la domanda è intesa nel senso che attraverso le PPP sia possibile finanziare direttamente gli investimenti più capaci di generare crescita, la risposta è più dubbia. Molti investimenti con alte potenzialità di crescita generano esternalità positive, utili da un punto di vista sociale, ma difficilmente appropriabili dal settore privato. Sono inoltre molto incerti, un’altra delle ragioni per cui è difficile immaginare che il settore privato vi si voglia impegnare (a meno che non siano garantiti dal pubblico, ma in questo caso, per gli ovvi problemi di moral hazard si perderebbero tutti i vantaggi derivanti dalle PPP). La stessa evidenza empirica, raccolta nel sesto capitolo sull’esperienza italiana, sostiene questa tesi. Essa mostra infatti che la maggior parte dei progetti in PPP, sia per numero che per importo, si concentrano nei settori sociali e ambientali, in aree cioè dove i ritorni in termini di crescita economica appaiono scarsi (cimiteri, parcheggi, impianti sportivi..) ma dove anche il rischio dell’investimento è basso e i ritorni economici rapidi. Minore è invece la presenza di investimenti finanziati in PPP nei settori economici o a rete, cioè di quelli probabilmente più capaci di stimolare la crescita economica. Tuttavia, va anche detto che le ultime osservazioni disponibili mostrano una crescita molto rapida degli investimenti nel settore economico, per importo se non per numero; se questa tendenza fosse confermata in futuro, la PPP potrebbe in effetti svolgere un ruolo anche per la riduzione del gap strutturale. Una seconda questione è se gli investimenti in PPP si concentrano davvero là dove c’è più bisogno, cioè nel contesto italiano, come è stato più volte spiegato, nel Sud del Paese. Anche qui la risposta è incerta. Si osservino per esempio le Figure 7.1.e 7.2, costruite ponendo a confronto i dati relativi agli importi e al numero dei progetti finanziati in PPP per l’ultimo anno per cui sono disponibili dati completi, il 2003, con l’indice di dotazione infrastrutturale discusso nel secondo capitolo (indice Tagliacarne, porti esclusi). La retta che passa all’interno delle due figure è una retta di regressione, stimata utilizzando una semplice OLS. La retta è inclinata positivamente in entrambi i casi, indicando che sia in termini di progetti che di risorse gli investimenti in PPP tendono a concentrarsi laddove la dotazione di risorse è già più elevata, cioè al Centro-Nord del Paese. Questo suggerirebbe una risposta negativa alla domanda. Tuttavia, si osservi anche che la regressione spiega “poco”, indicando che ci sono regioni in chiara controtendenza rispetto a questa relazione generale. Per esempio, come si osserva dalle stesse figure, Campania, Sicilia e Puglia sono dei chiari “outsider”, con livelli di investimenti in PPP molto maggiori di quanto sarebbe implicato dalla loro dotazione infrastrutturale. Inoltre, le informazioni disponibili, relative al primo semestre del 2004, indicano 114 una crescita notevole, superiore in media al Sud che al Centro-Nord, del numero dei progetti avviati Figura 7.1 – Numero di avvisi (2003) e indice di dotazione infrastrutturale 200 Campania 150 Lombardia Avvisi di gare Puglia 100 Emilia Romagna Toscana Piemonte Veneto Sicilia Abruzzo 50 Lazio Liguria Marche Sardegna Umbria Friuli V.G. BasilicataCalabria Molise Trentino A.A. 0 Val d'Aosta 40 60 80 100 120 140 160 Indice di dotazione infrastrutturale Figura 7.2 – Importo totale PPP (2003) e indice di dotazione infrastrutturale 2000 Piemonte Sicilia 1500 Importo totale Lazio Emilia Romagna 1000 Puglia Campania Toscana Liguria 500 Veneto Lombardia Abruzzo Marche Calabria Umbria MoliseTrentino Friuli V.G, 0 40 60 80 100 120 140 160 Indice di dotazione infrastrutturale 115 e dell’importo degli stessi. Di nuovo, fosse questa tendenza confermata in futuro ciò porterebbe molta acqua al mulino dell’ipotesi che le forme di finanziamento in PPP possono dare un contributo importante alla chiusura del gap infrastrutturale interno al Paese. 7. Esiste un effetto di piazzamento della PPP nei confronti degli investimenti pubblici tradizionali? Come si è ripetuto più volte, una condizione importante perché la PPP possa contribuire positivamente allo sviluppo economico è che essa non “spiazzi” interamente gli investimenti pubblici, soprattutto in quelle aree, fondamentali per la crescita, dove per le ragioni dette più volte, è improbabile che la PPP possa svolgere un ruolo altrettanto rilevante dell’investimento pubblico tradizionale. È cioè importante che le risorse liberate dalla PPP (spesso, come si è osservato, puramente contabili), non vengano solo impegnate per aumentare le spese correnti. Sfortunatamente, l’esperienza relativa allo sviluppo della PPP in Italia è troppo breve e per il momento troppo poco sviluppata per poter trarre delle conclusioni robuste. La prima evidenza è sicuramente contraria all’ipotesi dello spiazzamento; come si è già osservato, non c’è nessuna evidenza di una “crisi” degli investimenti pubblici, neppure negli anni più recenti, che anzi mostrano una tendenza, per quanto debole, a crescere. Figura 7.3 – Importi pro-capite per PPP (2003) e spesa pubblica in c/capitale (2001) 500 Piemonte Importi pro-capite 400 Sicilia Emilia Romagna Liguria 300 Puglia 200 Lazio Campania Toscana Marche Abruzzo Molise Veneto Umbria Lombardia Basilicata Valle d'Aosta Calabria Trentino Friuli V.G. Sardegna 100 0 0 1000 2000 3000 4000 Spesa in conto capitale pro-capite Tuttavia, questo riguarda i valori assoluti. È viceversa possibile che, pur all’interno di una crescita complessivamente positiva, gli investimenti in PPP abbiano teso a spiazzare almeno alcuni degli investimenti pubblici tradizionali. La Figura 7.3 indaga questa possibilità 116 mettendo a confronto la spesa pubblica complessiva in conto capitale, in termini pro-capite (si tratta della spesa in conto capitale del settore pubblico allargato all’interno di ogni regione) per l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili (il 2001), con il valore pro-capite dei progetti nel 2003. Di nuovo, la retta nella figura rappresenta una semplice regressione. Si osserva che questa è negativamente inclinata, implicando che la PPP è tanto più sviluppata laddove la spesa in conto capitale pro-capite è complessivamente più bassa. Naturalmente, questa relazione potrebbe avere molte spiegazioni; è possibile per esempio che essa rifletta semplicemente il fatto che le regioni con minori disponibilità economiche per gli investimenti (per la presenza per esempio di vincoli sull’indebitamento) abbiano fatto più uso delle PPP. Si tratta tuttavia di una relazione da tenere d’occhio. Per concludere, il nostro giudizio sul rapido sviluppo delle forme di PPP nel nostro Paese è nel complesso positivo. Non sembra che il loro sviluppo sia solo trainato da effetti contabili e vincoli di bilancio, o che stia spiazzando forme più tradizionali, ma ancora essenziali, di investimento pubblico. È anche positivo che alcune regioni del Centro-Sud (sebbene non tutte) stiano facendo ricorso in modo estensivo ai nuovi strumenti, visto il più elevato gap strutturale che ancora le contraddistingue. Se poi le PPP potranno davvero dare un contributo importante ai problemi del Paese e in particolare al livello ancora basso della sua dotazione infrastrutturale, è cosa da vedersi in futuro. 117 APPENDICE: Riferimenti normativi Normativa comunitaria su PPP • Dir.92/50/CEE del 18 giugno 1992, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi" e successive modifiche ed integrazioni. • Dir.93/36-7/CEE del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori" e successive modifiche ed integrazioni. • Dir.93/38/CEE del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni" e successive modifiche ed integrazioni. • Comunicazione della Commissione UE n. 2000/C 121/02, pubblicata in G.U.C.E. 29 aprile 2000, "Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario". Normativa nazionale su PPP • L. 11 febbraio 1994, n.109 "Legge quadro in materia di lavori pubblici" e successive modifiche ed integrazioni (nel testo aggiornato dalla L. 1 agosto 2002, n. 166 ? "Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti"). • D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, "Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici" • D.P.R. 25 gennaio 2000, n.34, "Regolamento recante istituzione del sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici, ai sensi dell'art.8 della legge 11 febbraio 1994, n.109 e successive modificazioni" • D.M. 19 aprile 2000, n.145, "Regolamento recante il capitolato generale d'appalto dei lavori pubblici, ai sensi dell'art.3, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109". • D.M. 21 giugno 2000, n. 5374, "Modalità e schemi tipo per la redazione del programma triennale e dei suoi aggiornamenti annuali e dell'elenco annuale dei lavori ai sensi dell'articolo 14, comma 11, della legge11 febbraio 1994 n. 109 e successive modificazioni". • D.L.vo 17 marzo 1995, n.157, "Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi"e successive modifiche ed integrazioni. • D.L.vo 17 marzo 1995, n.158, "Attuazione delle direttive 90/531/CEE e 93/38/CEE relative alle procedure di appalti nei settori esclusi" e successive modifiche ed integrazioni. • D.L.vo 18 agosto 2000, n.267, "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" e successive modifiche e integrazioni - Titolo V - Servizi e interventi pubblici locali - Articoli 112 123. • L. 21 dicembre 2001, n.443, "Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive" e successive modifiche e integrazioni. • D. L.vo 20 agosto 2002, n.190 "Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n 443, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale. BIBLIOGRAFIA 118 Bibliografia sugli investimenti in infrastrutture • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • Aghion P., Howitt P., 1992, A Model of Growth Through Creative Destruction, Econometrica, 60, 2, 323-51 Aghion P., Howitt P., 1998, Endogenous Growth Theory, The MIT Press, Cambridge Alesina A., Rodrick D., 1994, Distributive Politics and growth, Quarterly Journal of Economics, 1-22 Alesina A., Wacziarg R., 1999, Is Europe Going too far? 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