Investimenti in infrastrutture. Patto di stabilità

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Investimenti in infrastrutture. Patto di stabilità
CENTRO INTERUNIVERSITARIO PER LO STUDIO
DELLA FINANZA REGIONALE E LOCALE
UNIVERSITA’ CATTOLICA DI MILANO
INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE
Patto di Stabilità
e
Partnership Pubblico-Privata
M. Flavia Ambrosanio, Massimo Bordignon, Federico Etro
Milano, ottobre 2004
INDICE
1
2
3
BENEFICI ECONOMICI DEGLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE
1.1
Infrastrutture e produzione
1
1.2
Infrastrutture e crescita
4
1.3
L’evidenza empirica
7
1.4
Investimento pubblico e investimento privato in infrastrutture
8
INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE IN ITALIA E ALL’ESTERO: il quadro generale
La misura della dotazione di infrastrutture
12
2.2
La dotazione infrastrutturale nelle regioni europee
15
2.3
La dotazione infrastrutturale nelle regioni e province italiane
21
2.4
Conclusioni
30
SPESA PER INVESTIMENTI E VINCOLO DI BILANCIO PUBBLICO
Gli investimenti pubblici in Italia
33
33
3.2
Investimenti delle Amministrazioni Pubbliche in Italia per livelli di Governo e settore di
intervento
38
3.3
43
Conclusioni
l patto di stabilità interno ed il suo impatto sulla spesa per investimenti pubblici
44
4.1
Le origini del Patto in Italia e in Europa
44
4.2
Il Patto di stabilità interno in Italia
47
4.3
I risultati raggiunti
57
4.4
Conclusioni
64
5
LA PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATA: tipologie, esperienze internazionali e questioni
teoriche
6
12
2.1
3.1
4
1
66
5.1
Sviluppo e diffusione della PPP
66
5.2
L’esperienza internazionale ed in particolare inglese
71
5.3
Vantaggi e limiti della PPP
73
5.4
Il rapporto fra investimenti pubblici diretti e PPP
82
5.5
Conclusioni
83
LA PPP IN ITALIA: normativa giuridica, esperienze settoriali e valutazione complessiva
6.1
Il quadro giuridico di riferimento
85
85
7
6.2
L’esperienza italiana di PPP
6.3
La PPP in Italia settore per settore
102
6.4
Conclusioni
107
Conclusioni
91
109
INTRODUZIONE
Con il definitivo completamento del quadro normativo di riferimento, avvenuto nel
2002 a seguito di un processo decennale di revisione legislativa, le forme di patnership
pubblico-privato nel nostro Paese, ed in particolare la finanza di progetto, hanno conosciuto
uno sviluppo impressionate. Gli avvisi di gara sono più che raddoppiati dal 2002 al 2003 (da
600 a 1230) e sulla base delle prime stime potrebbero raddoppiare ancora nel 2004. In
termini di importi complessivi, i progetti avviati sono passati dai 3,1 miliardi di Euro del 2002
ai 10,5 miliardi del 2003, e si stima che raggiungeranno i 18 miliardi di Euro nel 2004, anche
se questi dati possono contenere qualche duplicazione. Naturalmente, ci vuole del tempo
perché si passi dalla fase del progetto a quella della aggiudicazione; inoltre, non è detto che
tutti i progetti vadano a buon fine. Tuttavia, dei 16,6 miliardi di Euro di progetti
complessivamente approvati da gennaio del 2000 a giugno del 2003, si stima che progetti per
ben 6,3 miliardi di Euro abbiano già raggiunto la fase esecutiva (OICE, 2003).
Si tratta di cifre davvero notevoli, non solo in assoluto ma anche rispetto a ciò che
devono finanziare. Per esempio, se tutti i progetti avviati nel 2003, in larghissima parte dagli
enti territoriali di governo (Comuni, Province, Regioni), andassero a buon fine, essi
rappresenterebbero circa il 28% degli investimenti tradizionali complessivi delle
Amministrazioni Pubbliche e circa il 43% di quelli delle sole Amministrazioni Locali.
Ma forse ancora più sorprendente del valore dei progetti, è la distribuzione sul
territorio. Dopo un periodo iniziale in cui i progetti, sia per numero che per importo, si sono
concentrati nel Centro-Nord del Paese, a partire dal 2003 la finanza di progetto si è andata
sviluppando a ritmi sempre più elevati al Sud. Dei circa 1100 avvisi di gara segnalati nei primi
due trimestri del 2004, per esempio, oltre la metà si colloca nel Mezzogiorno; in termini di
importi, le percentuali sono di circa il 30% nel Centro-Nord e il 70% nel Sud. Per numero di
progetti presentati nel 2003 dai propri enti territoriali, la Campania è la prima regione italiana,
seguita da Lombardia e Puglia; in termini di valore dei progetti, nello stesso anno, la prima
regione è il Piemonte, ma la seconda è la Sicilia, con Puglia e Campania di nuovo nelle
primissime posizioni. Ancora, in rapporto al Pil pro-capite, gli importi finanziati in project
financing nel secondo trimestre del 2004 sono sei volte superiori al Sud che al Nord del
Paese.
Queste cifre suscitano naturalmente una serie di interrogativi, di natura concettuale, ma
con riflessi assai concreti per la vita economica del Paese. Si è finalmente trovato con la
patnership pubblico privato (PPP), e in particolare con la finanza di progetto, la soluzione ai
problemi secolari di carenza di infrastrutture del Paese e in particolare del Mezzogiorno?
Oppure lo straordinario sviluppo delle PPP rappresenta soltanto l’ultima disperata trovata di
governi locali e nazionali, strozzati da scarsità di risorse, vincoli di bilancio stringenti e Patti di
Stabilità interni e internazionali, per rispondere alla domanda dei propri cittadini? Quali sono
esattamente i costi e i benefici della finanza di progetto? Esiste un rapporto di sostituibilità o di
complementarietà tra investimenti pubblici tradizionali e le varie forme di PPP?
Il presente lavoro si propone di rispondere a questi interrogativi, utilizzando a tal fine
sia i risultati più recenti della letteratura teorica sia l’analisi approfondita dell’esperienza
internazionale e nazionale sulle PPP. Alla ricerca di ipotesi esplicative, il lavoro analizza in
I
dettaglio anche l’evoluzione degli investimenti pubblici nell’ultimo ventennio e illustra la storia
del Patto di Stabilità Interno, introdotto nel nostro Paese a partire dal 1999, inquadrandola nel
contesto europeo. Per rispondere alla domanda sull’effettiva capacità delle forme di PPP di
incentivare la crescita del Paese attraverso il volano degli investimenti in opere pubbliche, il
lavoro discute anche delle relazioni tra dotazioni di infrastrutture, livello del reddito e crescita
del reddito, alla luce della ricerca teorica ed empirica più avanzata. Infine, sempre allo scopo
di mettere nel giusto contesto la discussione sulle PPP, il lavoro illustra e discute i dati relativi
alle stime della carenza di infrastrutture del Paese, sia rispetto ai più avanzati partner europei,
sia sotto il profilo della sua articolazione interna, tra le diverse regioni d’Italia.
In estrema sintesi, i risultati della ricerca possono essere sintetizzati come segue.
Non è vero che sia in atto una vera e propria crisi degli investimenti pubblici nel nostro
Paese, in particolare tra le Amministrazioni locali, nel senso che queste non sarebbero più in
grado di finanziare le opere pubbliche per scarsità di risorse o vincoli sull’indebitamento. Una
crisi vi è stata, attorno alla metà degli anni ’90, ma essa è stata superata negli anni successivi.
Non è neanche vero che il Patto di Stabilità Interno, introdotto per coinvolgere
direttamente gli enti territoriali nel processo di riequilibrio finanziario disegnato dal Patto di
Stabilità e Crescita europeo, abbia determinato una caduta dei loro investimenti. Almeno
finora, in parte per scelta deliberata del legislatore, in parte per insufficienze nel sistema di
monitoraggio e nel meccansimo sanzionatorio, il Patto di Stabilità Interno, nelle sue diverse
formulazioni, ha imbrigliato la spesa corrente degli enti locali, ma non ne ha limitato la capacità
di indebitarsi per finanziare investimenti.
È tuttavia vero che uno dei grandi vantaggi delle forme di PPP in generale, e della
finanza di progetto in particolare, è che esse consentono di posticipare flussi di spese (o
mancate entrate) al futuro. Per il modo con cui sono costruiti i bilanci pubblici, ciò rappresenta
un indubbio sollievo per le finanze, un vantaggio apprezzato dai Governi di tutto il mondo e di
tutti i livelli. Questo vantaggio è però puramente contabile e non esisterebbe se la contabilità
pubblica fosse organizzata diversamente. Il risparmio di risorse non rappresenta dunque il vero
beneficio economico della PPP, ma piuttosto una delle ragioni pratiche per cui queste forme di
investimento sono diventate così popolari. Il reale beneficio economico delle PPP non sta
neanche nelle loro presunta capacità di finanziare le opere pubbliche a costo più basso della
tradizionale emissione di debito pubblico. Al contrario, soprattutto laddove i mercati finanziari
sono poco sviluppati come nel caso italiano, è più probabile che la tradizionale forma di
finanziamento tramite indebitamento sia di gran lunga la meno costosa.
Il vero grande vantaggio economico delle PPP, rispetto alla forme tradizionali di
investimento pubblico, consiste nei diversi incentivi che esse offrono agli operatori privati per
innovare e ridurre i costi sia della produzione sia della gestione del servizio. Per ragioni
complesse, ma sostanzialmente legate all’incompletezza dei contratti, un operatore pubblico
non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad innovare per abbattere i costi del progetto,
sia nella fase della costruzione sia nella fase della gestione del servizio. Su questo punto,
l’evidenza empirica internazionale è robustissima. Ma questo stesso vantaggio comporta dei
rischi. Gli stessi incentivi che spingono il settore privato a innovare per ridurre i costi, possono
condurlo a innovare per ridurre la qualità dei servizi. Inoltre, non tutto può essere affidato alla
PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni dei mercati dei capitali, il settore privato tende a
II
selezionare solo i progetti caratterizzati da basso grado di rischio e rendimenti sufficientemente
rapidi.
Questi aspetti sono confermati, oltre che dall’evidenza empirica internazionale, anche
dalla nostra analisi sugli sviluppi della PPP in Italia. Per quanto i dati disponibili coprano un
arco temporale troppo breve per consentire conclusioni certe, emerge che la maggior parte dei
progetti si concentra nei settori dei servizi sociali e territoriali, piuttosto che nel comparto dei
servizi economici e a rete. In genere, cioè, in quei campi, dove i progetti hanno bassi rischi e
rapidi ritorni. Gli investimenti pubblici di maggiore sostegno alla crescita economica hanno
invece la caratteristica di essere caratterizzati da maggiore incertezza, richiedono più lunghi
periodi di tempo, producono rilevanti esternalità positive, non catturabili da sistemi di
tariffazione. In questo settore, un ruolo fondamentale deve essere ancora giocato dagli
investimenti pubblici tradizionali.
In conclusione, le diverse forme di PPP non sono né un mero trucco contabile né la
panacea di tutti i mali. Appaiono un utile strumento alternativo di finanziamento per alcune
categorie di opere pubbliche, che, se ben organizzato in fase di formulazione del bando di gara
e di assegnazione delle opere, è capace di condurre a robusti guadagni di efficienza e di
riduzione nei costi. In questo senso, libera risorse preziose per l’operatore pubblico. È
importante tuttavia che queste risorse non vengano sprecate, ma investite in quelle opere,
spesso le più vantaggiose per la crescita, a cui la PPP non si presta.
La ricerca è organizzata come segue.
Il capitolo 1 discute la teoria economica e l’evidenza empirica relativa ai rapporti tra
dotazione di infrastrutture, livello del reddito e crescita del reddito. Dimostra che c’è qualche
sostegno teorico ed empirico all’ipotesi che una più elevata dotazione infrastrutturale sia
correlata positivamente non solo con il livello del reddito, ma anche con il tasso di crescita del
reddito stesso, anche se questa relazione dovrebbe essere verificata nella pratica caso per
caso.
Il capitolo 2 contiene un’analisi della dotazione di infrastrutture del nostro Paese, con
riferimento sia alla situazione interna sia al contesto internazionale. Sulla base degli studi
disponibili, dimostra che il Paese presenta un gap strutturale, ancora più accentuato se
misurato rispetto al reddito procapite, rispetto ai principali Paesi europei. Il gap strutturale è
ancora più marcato all’interno del Paese, con le regioni del Centro- Nord e il Lazio
caratterizzate da dotazioni paragonabili a quelle medie europee, e le regioni del Sud,
caratterizzate da livelli di infrastrutture ben più bassi. Inoltre, mentre il divario nei confronti
degli altri Paesi tende a ridursi nell’ultimo decennio, non altrettanto vale per il gap interno tra le
diverse regioni.
Il capitolo 3 illustra l’evoluzione della spesa pubblica per investimenti nel lungo
periodo, in Italia (con qualche confronto con il resto dell’Europa), soprattutto con riferimento
all’aggregato delle Amministrazioni Pubbliche, quando possibile, anche al più ampio aggregato
del Settore Pubblico Allargato. Mostra che nella prima metà degli anni ’90 si è manifestata una
crisi degli investimenti pubblici, dovuta anche alle manovre di riequilibrio dei conti pubblici, poi
III
superata negli anni successivi. I primi anni 2000 registrano una crescita, sia pure non elevata,
degli investimenti pubblici e vedono confermato il ruolo trainante delle Amministrazioni Locali,
che erogano circa il 75% delle spese d’investimento complessive delle Amministrazioni
Pubbliche.
Il capitolo 4 discute ed illustra in dettaglio la storia del Patto di Stabilità Interno in
Italia, per tutti i livelli di governo territoriali, ed offre un confronto con le analoghe esperienze
estere. Dimostra che per volontà esplicita del legislatore, ma anche per la non corretta
applicazione dei meccansimi sanzionatori, il PSI ha, almeno finora, scarsamente influenzato la
capacità di Comuni, Province e Regioni di finanziare la propria spesa per investimenti con
strumenti tradizionali, come il debito.
Il capitolo 5 è dedicato ad uno studio approfondito delle diverse forme di PPP. Parte
da una tassonomia, discute le principali esperienze internazionali e utilizza la letteratura teorica
ed empirica, per fare il quadro più esuriente possibile dei vantaggi e degli svantaggi potenziali
della PPP. Le conclusioni gettano una luce diversa su alcuni aspetti che generalmente si
associano alla PPP.
Il capitolo 6 illustra e discute l’esperienza italiana nel campo delle PPP ed in
particolare della finanza di progetto. Ricostruisce l’evoluzione legislativa nel settore,
comparandola al quadro normativo degli altri Paesi. Analizza e rielabora i dati sul project
financing messi a disposizione dall’Osservatorio Italiano sul Project Financing, al fine di
fornire un quadro quantitativo sintetico del fenomeno. Particolare attenzione è rivolta anche alla
distribuzione dei progetti per settori di intervento e per aree geografiche. Il capitolo si chiude
con un’analisi puntuale di alcuni dei case study più significativi.
Il capitolo 7 presenta infine le conclusioni della ricerca. Riprende le domande
fondamentali qui sollevate e utilizza i risultati della ricerca stessa per motivarne le risposte. Esso
contiene anche qualche sguardo aggiuntivo ai dati e alle informazioni disponibili.
IV
1
BENEFICI ECONOMICI DEGLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE
Questo capitolo ha l’obiettivo di presentare una breve rassegna della letteratura
economica sul ruolo degli investimenti pubblici per lo sviluppo. Studieremo le principali analisi
teoriche della relazione fra investimenti in infrastrutture, sia in un’ottica statica che dinamica e le
stime empiriche di tali relazioni in un ottica macroeconomica internazionale.
Cercheremo di individuare sotto che condizioni l’investimento in infrastrutture abbia
effetti positivi e possibilmente anche quale dovrebbe essere il livello di investimento ottimale
per favorire lo sviluppo. I risultati teorici ed empirici qui raggiunti saranno alla base delle
successive discussioni sul gap infra-strutturale e sull’evoluzione dell’investimento pubblico in
infrastrutture in un contesto internazionale.
Il capitolo sintetizza anche le principali proposizioni della letteratura in merito alla scelta
fra investimento pubblico e privato in diversi contesti e con particolare riferimento a forme di
Public Private Partnership, PPP. In questo caso sono le modalità attraverso le quali
l’investimento ha luogo che possono garantire maggiori o minori benefici dallo stesso. Le
indicazioni teoriche in merito saranno poi riprese nella successiva analisi sulle forme di
partenariato pubblico-privato in Italia e all’estero.
1.1
Infrastrutture e produzione
L’investimento in infrastrutture è finalizzato a favorire il progresso economico
attraverso l’aumento della produttività dei fattori di produzione e la promozione della crescita.
Creare una rete di comunicazione riduce i costi di trasporto e facilita gli scambi, migliorare i
servizi pubblici accompagna lo sviluppo industriale e in molti casi promuove la propensione a
esportare. Siccome questi fattori costituiscono dei beni pubblici, la loro produzione è
tradizionalmente demandata, almeno nell’organizzazione, ma spesso anche nell’esecuzione, al
settore pubblico.
Gli investimenti pubblici hanno tuttavia un costo (un costo opportunità nella logica
economica); il livello ottimale di investimento deve dunque bilanciare i benefici con i costi
presenti e futuri. Per valutare questo livello, è importante studiare i meccanismi che diffondono
i guadagni sociali ottenuti grazie alle infrastrutture in termini di creazione di reddito e di crescita
futura e tentare di valutarli empiricamente.
Come punto di partenza, si consideri una prospettiva statica in cui solo la dotazione di
infrastrutture pubbliche, cioè lo stock di capitale pubblico1 (e non la sua evoluzione nel tempo),
conta per la crescita. Più avanti considereremo il processo di accumulazione del capitale
pubblico e la sua relazione con la sviluppo dell’economia. In una prospettiva statica, la
dotazione di infrastrutture aumenta la produttività marginale del capitale privato e del lavoro, i
principali fattori di produzione. Sia Y la produzione di un’economia dotata di infrastrutture G,
stock di capitale K e quantità di lavoro L. Questi tre input aggregati possono essere visti come
1
In questo capitolo dotazione infrastrutturale e stock di capitale pubblico sono considerati come sinonimi.
1
i fattori che permettono di sostenere il livello di produzione secondo una particolare funzione di
produzione aggregata. Assumendo una funzione di produzione di tipo Cobb-Douglas, si
ottiene la relazione:
Y = AK α L1−α G β
con A produttività totale dei fattori, mentre α e β sono due coefficienti che mettono in
relazione inputs e output. Chiaramente, un maggiore livello di infrastrutture accresce la
produzione e la produttività marginale di entrambi i fattori ovvero, se i mercati del credito e del
lavoro sono approssimativamente competitivi, accresce salari e redditi da capitale.
Dalla espressione precedente, si possono ricavare facilmente le elasticità della
produzione rispetto ai fattori di produzione ed anche al livello di infrastrutture. Basta prendere i
logaritmi della funzione di produzione per ottenere:
log Y = log A + α log K + (1 − α) log L + β log G
La stima di questo tipo di relazione nella letteratura empirica è assai comune, benché
non priva di problematiche econometriche relative all’ipotesi di funzione Cobb-Douglas, alla
non stazionarietà delle serie, all’indeterminatezza della relazione causale fra capitale privato e
infrastrutture e così via. I risultati mostrano tuttavia che la correlazione fra produzione e
infrastrutture è positiva e robusta, sebbene le stime puntuali possono essere diverse a seconda
della metodologia e del campione utilizzati.
Per esempio, ECOTER (2001) stima la correlazione fra dotazione infrastrutturale e
PIL pro capite in 0,57 per l’Italia, 0,67 per la Germania, 0,59 per la Spagna, 0,89 per la
Francia e 0,25 per il Regno Unito, con una media tra paesi di 0,49.2 Aschauer (1989) ottiene
β = 0,39 per gli USA, Munnell (1993) β = 0,34 , mentre altre studi sempre per gli USA
tendono a produrre stime più basse. Evans e Karras (1994) ottengono un elasticità
complessiva del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale di β = 0,18 per un gruppo di
paesi sviluppati. In un’analisi più accurata e recente su 22 paesi OCSE, Kamps (2004a)
ottiene un’elasticità media di 0,22 (con un valore di 0,15 per l’Italia e di 0,79 per gli USA).
Kamps (2004b) sviluppa un’analisi dinamica più avanzata (con metodologia VAR) ottenendo
elasticità di lungo periodo assai variabili da paese a paese (con un valore di 0,33 per gli USA).
Simili risultati sono ottenuti adottando funzioni di produzione più complesse della CobbDouglas come la translog. Le stime tendono a scendere se l’analisi viene sviluppata in contesti
regionali piuttosto che nazionali.
Riassumendo i risultati di questi studi, un valore ragionevole della elasticità del reddito
rispetto alla dotazione infrastrutturale è attorno a β = 1 / 6 .
Risultato 1. Il valore medio fra le numerose stime effettuate per l’elasticità del
reddito alla dotazione di infrastrutture si aggira attorno a 1/6.
2
ECOTER (2001): l’indice di dotazione infrastrutturale è quello discusso nel capitolo successivo, il PIL pro
capite si riferisce al 1995. Inoltre la correlazione media fra la dotazione di infrastrutture ed il valore aggiunto
industriale per unità di superificie, che misura il grado di diffusione e competitività delle attività industriali,
arriva fino allo 0,89. Cfr Biehl (1994) e Confindustria-ECOTER (1998).
2
Per capire le implicazioni di questa stima, questo significa che, per esempio, una regione
povera potrebbe colmare un differenziale di reddito del 17% rispetto a una ricca
semplicemente raddoppiando la propria dotazione infrastrutturale.
Fin qui si sono trascurati i costi degli investimenti in infrastrutture. Nella nostra semplice
ottica statica, si immagini adesso che la dotazione di infrastrutture sia finanziata attraverso la
tassazione. Supponendo che la spesa per infrastrutture sia pari alla frazione t del reddito, il
vincolo di bilancio del governo implica:
G = tY
Sostituendo nella funzione di produzione e risolvendo per il reddito netto della società,
y=Y(1-t), che corrisponde al consumo potenziale ed è quindi un’ utile misura per valutare il
benessere sociale, si ottiene facilmente:
[
y = AK α L1−α t β
]
1 /(1− β )
(1 − t )
L’equazione mostra la presenza di una relazione a U invertita nella spesa per investimenti quale
frazione del reddito. Quando questa frazione t è troppo bassa il consumo può essere
aumentato innalzando il livello di infrastrutture, quando è troppo alta riducendolo. La
massimizzazione del reddito netto rispetto a t ci fornisce l’ottimo livello di spesa in
infrastrutture, ossia la frazione t * = β del reddito totale. Sulla base della stima β = 1 / 6
possiamo quindi trarre una conclusione suggestiva, per quanto assai rudimentale: sarebbe
ottimale per la crescita destinare un sesto del reddito alla spesa in infrastrutture. Questo
calcolo è assai rudimentale per vari motivi, il primo dei quali è che le imposte introducono
distorsioni nell’economia e creano inefficienze di cui non abbiamo tenuto conto. Per continuare
la nostra analisi, immaginiamo quindi che proprio a causa di queste inefficienze convenga
ridurre ulteriormente l’investimento in infrastrutture e la tassazione ad esso connessa, diciamo
al 10% del reddito. In conclusione abbiamo un secondo risultato assai rudimentale ma in
qualche modo suggestivo:
Risultato 2. Tenendo conto dell’elasticità del reddito rispetto alla dotazione di
infrastrutture pari a 1/6 e delle distorsioni introdotte dalle imposte, il livello
ottimale di investimento pubblico si aggira attorno al 10% del reddito.
Come vedremo nei prossimi capitoli, l’investimento pubblico è comunque
sensibilmente inferiore in tutti i paesi occidentali.
Tuttavia nella nostra analisi teorica non abbiamo finora considerato la dimensione
temporale: l’investimento costruisce lo stock di capitale pubblico accumulandosi nel tempo.
Possiamo farlo in modo assai semplice notando che la dotazione di infrastrutture nette evolve
nel tempo a seconda del tasso di investimento e del deprezzamento del capitale già presente.
Se Gt è lo stock di capitale nell’anno t, I t l’investimento in nuove infrastrutture pubbliche e
3
µ il tasso di deprezzamento (per semplicità assunto costante nel tempo), l’accumulazione di
infrastrutture segue la regola:
Gt +1 = Gt (1 − µ) + I t
Ora la frazione di reddito destinata all’investimento pubblico in ogni periodo contribuisce a
creare lo stock di capitale pubblico ( I = tY ).
E’ chiaro che la dotazione di infrastrutture rimane costante solo quando l’investimento
è costante e a un preciso livello, I = µG . Ciò implica che il rapporto ottimale fra capitale
pubblico e reddito di una nazione è pari all’ottimo investimento in infrastrutture come frazione
del reddito diviso per il tasso di deprezzamento, (G/Y) =(t/ µ)
Ipotizzando µ = 4% (e ricordando il risultato 2) si otterrebbe un ottimo livello di
capitale pubblico pari a una volta e mezza il reddito, ipotizzando µ = 10% lo stock ottimale
pareggerebbe il reddito nazionale e così via. Nei prossimi capitoli vedremo come il rapporto
capitale pubblico / PIL sia in realtà un po’ inferiore a queste stime in tutti i paesi occidentali.
Ciò permette di trarre una terza conclusione:
Risultato 3. Ipotizzando un tasso di deprezzamento del capitale pubblico pari al
4% e tenendo conto delle perdite di efficienza indotte dalle imposte, l’ottimo
livello di infrastrutture si aggira attorno al 150% del reddito.
L’analisi è ancora insoddisfacente perché non tiene propriamente conto degli effetti
delle infrastrutture sulla crescita, di cui ci occuperemo nella prossima sezione. Abbiamo
tuttavia fin qui evidenziato il principale trade-off nella scelta dell’investimento in infrastrutture: i
benefici dell’aumento della produttività dei fattori contro i costi della tassazione necessaria a
mantenere o a aumentare il livello di infrastrutture.
1.2
Infrastrutture e crescita
Le infrastrutture pubbliche possono anche avere effetti permanenti sul tasso di crescita
e non solo, come ipotizzato in precedenza, sul livello del reddito. In tal caso i loro benefici si
moltiplicano. La teoria economica ha approfondito questi aspetti nell’ambito della letteratura
sulla crescita endogena iniziata da Romer (1987, 1990) e Aghion e Howitt (1992). Questa
letteratura studia i fattori principali che inducono tassi di crescita più elevati, quali il progresso
tecnologico tramite innovazioni, l’accumulazione di capitale umano e quella di capitale
pubblico.3 Quest’ultimo aspetto in particolare è stato enfatizzato per la prima volta da Barro
(1990), il quale ha anche avviato un’ ampia ricerca empirica sulle determinanti della crescita in
un contesto internazionale.
Per enfatizzare gli effetti della dotazione infrastrutturale sulla crescita, possiamo di
nuovo ricorrere alla semplice struttura dell’economia adottata finora. Anche lo stock di
3
Si vedano Aghion e Howitt (1998) e Barro e Sala-i-Martin (1995) per delle rassegne.
4
capitale privato evolve secondo una semplice regola di accumulazione (risalente a Solow
(1956)):
K t +1 = K t (1 − δ ) + sy t
dove δ è il tasso di deprezzamento del capitale privato e l’ultimo termine rappresenta il
risparmio privato, che in un’economia chiusa è anche pari all’investimento privato. Si è qui
assunto semplicemente che il risparmio sia una frazione s del reddito al netto delle imposte.
Sostituendo per y dalla funzione del reddito netto già ricavata in precedenza, si può facilmente
ottenere il tasso di crescita dell’economia. Questo risulta essere una funzione crescente del
tasso di risparmio s e nuovamente risulta collegato all’investimento pubblico in infrastrutture t
da una relazione a U invertita.4 Ciò fornisce diverse conclusioni.
La prima è che anche in presenza di capitale pubblico, il tasso di crescita
dell’economia si riduce durante il processo di sviluppo. Infatti il tasso di crescita è
negativamente correlato con lo stock di capitale. Nel nostro contesto, ciò mostra che mentre
l’economia cresce, lo stock di capitale cresce e l’investimento pubblico cresce, ma ciò riduce
il tasso di crescita, fino a quando si raggiunge un cosiddetto stato stazionario senza crescita e
con un livello costante di capitale pubblico e privato. La ragione per cui ciò accade è che
mentre il capitale si accumula, la sua produttività marginale decresce fino a raggiungere un
livello al quale l’investimento privato si limita a rimpiazzare il deprezzamento del capitale
esistente.
La seconda conclusione è che tanto maggiore è l’ elasticità complessiva del reddito
rispetto alla dotazione infrastrutturale , β , tanto maggiori sono il tasso di crescita ed il livello di
reddito raggiungibili nello stato stazionario.
In terzo luogo, esistono circostanze particolari sotto le quali il tasso di crescita del
reddito può rimanere positivo grazie alla dotazione infrastrutturale. Ciò succede in particolare
quando l’ elasticità dell’prodotto rispetto alla dotazione infrastrutturale è abbastanza grande da
raggiungere la frazione di reddito del fattore lavoro (ossia se β = 1 − α ). In tal caso la
produttività marginale del capitale è così aumentata dalla dotazione infrastrutturale da rimanere
costante nel lungo periodo e permettere alla crescita di autoalimentarsi. Empiricamente, si
attribuisce al lavoro una remunerazione pari a due terzi del reddito mentre al capitale
spetterebbe un terzo circa; con mercati dei fattori competitivi ciò significa che α = 1 \ 3 . Sotto
tali condizioni, le stime relative all’ elasticità del reddito rispetto alla dotazione infrastrutturale
ricordate in precedenza non garantirebbero la possibilità di una crescita sostenuta nel lungo
periodo. Tuttavia, interpretando il capitale in senso esteso a includere anche il capitale umano,
4
Sostituendo la funzione del reddito netto già evidenziata si può facilmente ottenere il tasso di crescita
dello stock di capitale, g t ≡ ( K t +1 − K t ) / K t , quale:
[
g t = s AL1−α t β
]
1 /(1− β )
(1 − t ) K tα /(1− β ) − (1 + δ)
α + β < 1 il tasso di crescita è negativamente correlato con lo stock di capitale ed è tanto maggiore
quanto maggiore è β . Si noti infine che il tasso di crescita è massimizzato dalla stessa spesa per
Se
investimenti come frazione del reddito che massimizzava il consumo nell’ottica statica.
5
la stima empirica relativa alla sua remunerazione aumenterebbe5, avvicinandosi alla condizione
necessaria a garantire una crescita continua. In pratica, se una larga fetta del reddito prodotto
spetta a fattori di produzione accumulabili nel tempo, quali il capitale fisico (accumulabile con il
risparmio) e il capitale umano (accumulabile con l’investimento in educazione), l’investimento
in infrastrutture può generare crescita endogena tramite lo stimolo all’accumulazione di questi
fattori. In altre parole l’investimento pubblico promuove quello privato sia in risparmi che in
educazione.
Infine, in tutti i casi, date le nostre ipotesi sulla funzione di produzione dell’economia, il
livello ottimale di spesa per investimenti in percentuale sul reddito, definito come quello che
massimizza il reddito di lungo periodo oppure il tasso di crescita (in caso che questo resti
positivo anche nel lungo periodo per le ragioni già dette), resta lo stesso ottenuto in
precedenza, nonostante siano qui presi in considerazione i benefici dell’investimento in
infrastrutture sulla crescita nel lungo periodo.
Possiamo riassumere questi risultati nel modo seguente:
Risultato 4. Se una parte abbastanza grande del reddito spetta alla
remunerazione del capitale privato e dell’investimento in capitale umano,
l’investimento in infrastrutture può generare tassi di crescita positiva nel lungo
periodo, che nel nostro modello è massimizzata con un investimento annuale
attorno al 10% .
L’analisi qui sviluppata è naturalmente assai semplificata, perché non si è tenuto conto
di numerosi fattori. Senza entrare nel dettaglio, vale la pena di citarne i più importanti.
Intanto, abbiamo assunto che l’investimento in infrastrutture sia costante nel tempo,
mentre questo potrebbe essere variato durante il processo di crescita. In generale potrebbe
convenire investire di più in infrastrutture pubbliche all’inizio del processo di crescita per
aumentare più rapidamente la produttività dei fattori; tuttavia, ciò comporterebbe un minor
reddito disponibile proprio nella fase in cui il reddito è più basso in termini assoluti. E’ chiaro
che un’analisi di benessere in questo contesto richiederebbe un modello in grado di
rispecchiare le conseguenze del processo di crescita sul reddito di generazioni successive.
In secondo luogo, non abbiamo studiato attentamente l’interazione fra accumulazione
di capitale privato e pubblico. Vi è la possibilità concreta che l’investimento pubblico spiazzi
quello privato: nella realtà, capitale pubblico e privato non costituiscono due fattori di
produzione concettualmente diversi e separati e vi è un’ampia sovrapposizione fra i due. In
secondo luogo, da un punto di vista più teorico, l’interazione fra le due forme di capitale e la
loro accumulazione può dare adito a fenomeni più complicati di quelli appena delineati, come
ad esempio a fluttuazioni cicliche nei due stock di capitale. Per esempio, in una recessione
pochi investimento in capitale pubblico possono essere finanziati, perché il reddito è basso.
Ma in questo caso la produttività marginale del capitale è alta, il che promuove un forte
investimento privato che genera a sua volta un’espansione dalle conseguenze opposte (cfr.
Etro, 2003).
In terzo luogo ci siamo limitati a considerare un capitale pubblico che costituisce un
bene pubblico nazionale. In realtà, in un ambito internazionale, vi sono forti spillovers fra le
5
Parte dei redditi da lavoro, cioè, sarebbero in realtà remunerazioni per il capitale umano dei lavoratori.
6
nazioni e come è noto, la politica fiscale di investimenti pubblici ha una forte componente
prosper-thy-neighbour, ovvero espansiva sia all’interno di un paese che all’estero. Ciò
implica che i paesi tendono comunque ad effettuare troppo pochi investimenti pubblici perché
non tengono conto degli effetti positivi che questi esercitano all’estero. Proprio per questo
unioni internazionali promuovono il coordinamento delle politiche fiscali e anche degli
investimenti pubblici (Alesina e Wacziarg, 1999).6
In quarto luogo, non si è tenuto conto del fatto che lo strumento di policy in esame,
ovvero l’investimento in infrastrutture, è nella realtà il frutto di scelte politiche che non
necessariamente combaciano con scelte ottimali, specie in presenza di conflitti generazionali
come quelli sottesi ad investimenti di lungo periodo. In effetti, alcuni studi hanno enfatizzato
come fattori politici e generazionali possano giustificare investimenti in infrastrutture diversi da
quelli che sarebbero ottimali (cfr, Alesina e Rodrick, 1994, e Etro, 2003).
1.3
L’evidenza empirica
L’evidenza empirica sulla relazione fra crescita e dotazione infrastrutturale si è ampliata
notevolmente negli ultimi anni, sotto l’impulso dei primi lavori di Barro e Sala i Martin (1995).
Negli anni ’90, questa ricerca empirica ha adottato strumenti tecnici sempre più sofisticati
(regressioni semplici, a variabili strumentali, VAR), e campioni sempre più ampi (da pochi
paesi occidentali a panel data su quasi tutti i paesi mondiali e talvolta anche su tutte le regioni)
per mettere in evidenza la relazione fra crescita economica e un insieme di fattori che la
possono determinare. I principali fattori studiati sono stati il reddito iniziale (che mostra un
effetto negativo, testimone della convergenza del paesi poveri verso quelli ricchi), il capitale
umano (effetto positivo), l’apertura al commercio internazionale (effetto positivo). Ma molti
altri si sono rivelati importanti. Occorre anche sottolineare che inizialmente si è anche rivelato
un forte effetto negativo della spesa pubblica sulla crescita (Barro e Sala i Martin, 1995),
sebbene sia stato successivamente messo in evidenza che l’effetto è non lineare: positivo per
bassi livelli di spesa pubblica e negativo per livelli più alti. Naturalmente, ciò conta poco per i
nostri fini dato che l’investimento pubblico è solo una parte, generalmente assai limitata, della
spesa pubblica.
Non esistono a tutt’oggi analisi definitive sulla relazione fra crescita e infrastrutture. Il
principale motivo risiede nella mancanza di dati adeguati. Come vedremo, esistono dati sugli
stocks di capitale calcolati attraverso i flussi di investimento (il più recente e accurato è quello
di Kamps, 2004a), ma sembrano poco attendibili, e in contrasto con informazioni qualitative
sul livello di infrastrutture. Esistono anche indici qualitativi sulle dotazioni di capitale pubblico
che pare riflettano meglio lo stock di infrastrutture. Utilizzandone uno, Calderon e Serven
(2004) hanno fornito un’indicazione in merito all’esistenza di positivo e significativo effetto del
livello di infrastrutture sul tasso di crescita di un’economia.
Calderon e Serven costruiscono un indice qualitativo del tipo di quelli che studieremo
nel prossimo capitolo e ne analizzano la correlazione con la crescita per un insieme di oltre 100
paesi nel periodo 1960-2000, tenendo conto di numerosi altri fattori fra cui (oltre a quelli
tradizionali precedentemente ricordati), la qualità del sistema finanziario, il tasso di cambio, il
6
Ciò avviene, almeno in parte, anche nell’Unione Europea (con il programma dei Fondi Strutturali).
7
tasso di inflazione etc. Lo stock di infrastrutture risulta significativamente correlato alla crescita:
la correlazione media risulta di 0,21 (si veda la Figura 1.1).
Sebbene questi siano solo risultati preliminari, e vi siano notevoli problemi tecnici in
questo tipo di analisi, è importante sottolineare che si comincia ad evidenziare un rapporto
stretto fra infrastrutture e crescita anche dal punto di vista empirico.
Figura 1.1 – Tasso di crescita e qualità delle infrastrutture
Fonte: Calderon e Serven (2004)
1.4
Investimento pubblico e investimento privato in infrastrutture
Una vasta letteratura ha studiato la scelta fra pubblico e privato in una prospettiva
microeconomica. Se la tradizionale teoria sottolineava l’equivalenza fra un sistema di mercato
e uno di comando e controllo in assenza di imperfezioni dei mercati e di piena informazione, le
recenti teorie sulle asimmetrie informative e sui contratti incompleti hanno aperto nuovi campi
di indagine per un confronto fra pubblico e privato.
La letteratura ha soprattutto studiato la possibilità di privatizzare settori
tradizionalmente sotto controllo pubblico, sostituendo alla produzione diretta pubblica quella
privata, salvo regolamentarne l’attività a vario livello, specialmente nei rapporti coi
consumatori.
Un aspetto solo recentemente studiato riguarda invece l’outsorcing di attività
precipuamente definite nell’ambito del settore pubblico a privati sotto specifici contratti: appalti
per opere pubbliche, concessioni di gestione delle stesse o di servizi pubblici e forme di
partenariato pubblico-privato (PPP) per entrambe le fasi di costruzione e gestione di un
servizio pubblico. Le domande cruciali sono: quali sono i vantaggi e gli svantaggi che queste
8
nuove forme di collaborazione pubblico privato possono offrire rispetto alla tradizionale
produzione pubblica? In quali settori possono svolgere un ruolo positivo?
Solo di recente la teoria economica ha affrontato il tema della scelta fra investimento
pubblico o privato in infrastrutture di interesse pubblico. Si consideri due possibili tipi di
relazione fra governo e impresa per la creazione di un servizio o un’opera pubblica: un
contratto fra un ente pubblico e un’impresa privata, o la proprietà pubblica diretta
dell’impresa. Se i contratti sono completi (ovvero privi di opportunità di ri-negoziazione ex
post e di fattori imprevedibili e non contrattabili) e non vi è asimmetria informativa (ovvero
governo e imprese hanno le stesse informazioni), non vi è ragione di ritenere che una debba
essere superiore all’altra; quello che si può ottenere con una delle due opzioni, la si può
ottenere anche con l’altra.7 E’ proprio perché nella realtà contratti completi sono impossibili e
le asimmetrie informative prevalenti che vi sono ampie ragioni perché una delle opzioni possa
essere preferibile.
In presenza di asimmetrie informative a favore di chi dirige l’impresa o i lavori pubblici,
(Laffont e Tirole, 1993), in caso di delega ai privati occorre lasciare loro una rendita associata
all’asimmetria informativa dovuta ad adverse selection (vi sono imprese più o meno efficienti e
la loro efficienza è informazione privata) o moral hazard (le imprese assumono iniziative che
migliorano i benefici netti dell’opera ma tali iniziative non possono essere controllate o
specificate per contratto). Quando l’asimmetria informativa è molto rilevante può essere
preferibile operare con investimento pubblico diretto, nonostante i possibili vantaggi del
sistema privato. Sistemi di assegnazione delle opere ad asta possono rivelare parzialmente
l’informazione privata, ma non sono generalmente in grado di risolvere il problema.
Nel momento in cui i contratti sono incompleti, nel senso che ci sono circostanze non
prevedibili o non interamente specificabili nel contratto oppure che ci siano situazioni ex post
non verificabili da una terza parte (un giudice) e quindi non assoggettabili ad una contrattazione
ex ante, allora il confronto fra le due opzioni diventa complesso. Hart, Shleifer and Vishny
(1997), Shleifer (1998) e Hart (2002)8 hanno proposto la prima analisi teorica del
partenariato pubblico-privato ispirandosi alla teoria dei contratti incompleti per l’analisi
dell’integrazione verticale fra imprese (Grossman e Hart, 1986, Hart, 1990).
Hart, Shleifer and Vishny (1997) basano la loro analisi sugli incentivi che le due diverse
forme danno ad innovare aumentando la qualità della produzione e a ridurre i costi (con
possibili conseguenze negative sulla qualità). Un manager pubblico che guida un investimento
pubblico diretto ha pochi incentivi a fare entrambe le cose, dato che la propria remunerazione
non ne dipende (sebbene il salario possa essere funzione in qualche misura dei risultati ottenuti,
problemi di incompletezza contrattuale e di non misurabilità o verificabilità dei risultati rendono
pressoché impossibile fare del manager pubblico il residual claimant dei propri sforzi) e può
essere anche sostituito senza compenso per gli investimenti fatti. Innovazione qualitativa e
riduzione dei costi sono dunque entrambi effettuati a livello sub-ottimale. Un’impresa privata
deve comunque dividere il surplus creato con il settore pubblico in sede contrattuale cosicché
ha forti incentivi a ridurre i costi e ha anche incentivi ad innovare, sebbene in misura inferiore a
7
Ad esempio, si è soliti ritenere che il servizio postale debba essere pubblico perché imprese private non
troverebbero profittevole estenderlo ad aree remote e sperdute dove vi sono pochi clienti: in realtà il
problema è risolvibile con contratti che prevedano l’obbligo di consegnare la posta ovunque, cosa che
puntualmente avviene per imprese internazionali private di consegna postale.
8
Cfr. De Fraja (2002).
9
quanto sarebbe ottimale perché non riceve completamente i frutti dell’investimento. Ne segue
che il confronto fra le due opzioni è ambiguo. Se i privati tendono a investire troppo in
iniziative per ridurre i costi a scapito della qualità è preferibile l’intervento pubblico diretto,
mentre se l’innovazione gioca un ruolo importante è preferibile la delega ai privati.
Un esempio suggestivo concerne l’affidamento ai privati della costruzione e della
gestione delle carceri (sebbene non vi siano esperienze simili in Italia, esse sono assai comuni
in paesi anglosassoni come USA e Regno Unito). Empiricamente si nota che i privati sono
assai più efficienti nella costruzione e nella riduzione dei costi nella gestione, tuttavia tendono a
creare condizioni di vita assai peggiori per i carcerati9 a meno che vi sia un’attenta
regolamentazione da parte del settore pubblico. Un secondo esempio concerne la raccolta dei
rifiuti; per quel che riguarda la riduzione dei costi si osserva che essa è più importante ed in
effetti assai più mirata se svolta da privati. Tuttavia, laddove vi sia anche un servizio di
eliminazione dei rifiuti, la ricaduta ambientale di scelte poco costose ma inquinanti potrebbe
essere drammatica e far propendere per il servizio pubblico.
Un altro esempio assai discusso in USA dopo l’11 settembre 2001 concerne i servizi
di sicurezza agli aeroporti, che sono stati tradizionalmente demandati ai privati: è chiaro che
risparmi sui costi di controllo possono facilitare episodi drammatici di terrorismo.
I settori forse di maggiore interesse per la delega ai privati riguardano i due beni privati
più ampiamente forniti dal settore pubblico: scuole e ospedali, ovvero educazione e sanità.
Sulla scuola esiste un acceso dibattito in molti paesi concernente la delega ai privati. Qui la
qualità sembra essenziale e sistemi competitivi come quello americano (almeno a livello
universitario) sembrano portare a livelli di qualità nettamente superiori e differenziati rispetto a
sistemi prevalentemente pubblici e uniformati (generalmente verso il basso). Esistono però altre
problematiche riguardanti distorsioni da parte del privato a favore dell’educazione dei ricchi (e
talvolta dei ricchi meno dotati), oppure verso l’educazione di stampo religioso, che creano
preoccupazioni in merito alla delega ai privati. Riguardo alla sanità, i ben noti problemi di
asimmetria informativa fra paziente e medico suggeriscono l’intervento pubblico oppure la
regolamentazione stretta; tuttavia, si tratta anche di un settore in cui sono assai importanti gli
investimenti in innovazione e in riduzione dei costi, a cui il settore privato sembra più in grado
di far fronte. Ci sono rischi importanti di riduzione di costi a scapito della qualità o altri
fenomeni degeneri indotti dalla presenza dei privati (il dumping dei malati gravi sugli ospedali
pubblici, per esempio), ma si sostiene spesso che la competizione fra ospedali privati e la
reputazione possono ridurre gli incentivi a questi comportamenti, così da far propendere la
bilancio a favore della delega ai privati.
Hart (2002) estende il modello studiando più direttamente problemi di incompletezza
contrattuale nella PPP. Confronta due diverse forme di PPP: un sistema con appalto per la
costruzione e successiva concessione della gestione di un servizio pubblico; ed un sistema di
concessione di entrambi i processi, costruzione e gestione. Nella fase di costruzione si
possono fare due investimenti aggiuntivi con conseguenze nella fase di gestione: un
investimento produttivo che aumenta i benefici sociali dell’opera e riduce i costi di gestione, ed
un altro improduttivo che riduce i benefici sociali dell’opera ma anche i suoi costi. Questi
9
Costa molto meno circondare un carcere con reti elettriche ad alto voltaggio che utilizzare guardie
attrezzate al fine di impedire la fuga dei prigionieri , ma ciò non è necessariamente ottimale da un punto di
vista sociale (friggere i detenuti generalmente non rientra tra gli obiettivi perseguiti dal sistema carcerario).
10
investimenti non sono verificabili dal settore pubblico e quindi non possono essere specificati
nel contratto di costruzione. Le due forme di PPP creano delle scelte inefficienti rispetto
all’ottimo, che in generale implica un certo livello positivo dell’investimento produttivo e uno
nullo dell’investimento improduttivo.
In caso di appalti separati per la costruzione e la concessione, al momento dell’asta
per la concessione della gestione il prezzo sarà uguale ai costi di gestione previsti. In
precedenza, il costruttore che aveva vinto l’appalto avrà scelto ottimamente gli investimenti per
massimizzare i propri profitti, ma siccome il contratto per ipotesi non poteva dipendere da
quegli investimenti, il costruttore non fa né l’investimento improduttivo (il che è ottimale) né
quello produttivo (il che è sub-ottimale). Nell’asta per l’appalto di costruzione si presume che
il prezzo da corrispondere al costruttore sia uguale ai costi di costruzione, nella fattispecie privi
di investimenti aggiuntivi.
In caso di concessione sia della costruzione che della gestione, il costruttore che ha
vinto la gara sceglierà investimenti aggiuntivi in modo da massimizzare i profitti di costruzione e
gestione, per cui sceglierà un livello positivo di investimento produttivo, benché sub-ottimale in
quanto non sono internalizzati i benefici sociali, ed un livello positivo anche dell’investimento
improduttivo, il che risulta sub-ottimale.
Si ha quindi un trade-off fra le due opzioni: troppo poco investimento produttivo nel
primo caso e un po’ di più nel secondo caso ma con troppo investimento improduttivo. E’
chiaro che la separazione dell’appalto per la costruzione e concessione per la gestione è
preferibile laddove la qualità della costruzione possa essere ben specificata e la qualità della
gestione non possa esserlo: in tal caso un investimento produttivo sub-ottimale non così
problematico quanto potrebbe esserlo un eccessivo investimento improduttivo: questo
potrebbe essere il caso di scuole o prigioni. Laddove invece la qualità del servizio può essere
ben specificata e quella della costruzione no, un investimento produttivo sub-ottimale è più
preoccupante di un eccessivo investimento improduttivo e la concessione dell’intero processo
in PPP è preferibile.
Un ultimo problema teorico è legato alla rinegoziabilità dei contratti con le imprese.
Si assuma che in caso di mancato rispetto dei vincoli di bilancio, il settore pubblico
proprietario dell’impresa possa intervenire a sua difesa e che in caso di necessità sia ex post
ottimale farlo. Sapendo ciò l’impresa pubblica adotterà forme di produzione meno efficienti,
grazie alla garanzia prestata dal settore pubblico ed aumenterà la probabilità di insolvenza. In
caso di privatizzazione, il settore ha meno incentivi ad aiutare ex post l’impresa anche perché
può sempre affidarsi ad un’altra impresa e ciò riduce la tendenza a mettere in atto forme di
produzione inefficienti. In altre parole in presenza di un soft budget constraint sotto
investimento pubblico diretto, la delega ai privati induce un hard budget constraint che
rafforza gli incentivi dell’impresa.
11
2
INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE IN ITALIA E ALL’ESTERO: IL
QUADRO GENERALE
Questo capitolo è dedicato ad un tentativo di valutazione, sulla base delle informazioni
disponibili, del livello di infrastrutture pubbliche esistenti in Italia. Questo anche ai fini di un
confronto con i principali paesi europei, allo scopo di verificare l’esistenza e l’entità del gap di
infrastrutture a livello nazionale e, possibilmente, anche locale.
In linea generale, è possibile distinguere tra due tipi di infrastrutture:
• infrastrutture economiche, che si riferiscono alla dotazione di vero e proprio capitale
fisico con ruolo di bene pubblico, come strade, ferrovie, porti, reti energetiche e di
telecomunicazioni, e così via. Queste strutture hanno la caratteristica di essere utilizzate
prevalentemente, anche se non esclusivamente da parte delle imprese;
• infrastrutture sociali, che sono invece relative ai settori dell’istruzione, della sanità e dei
servizi vari, che per lo più sono collegate allo sviluppo di capitale umano e sono di
prevalente utilizzo delle famiglie.
Nelle pagine che seguono si farà riferimento ad entrambe le tipologie, con un
approccio di tipo quali-quantitativo alla misura delle infrastrutture.
2.1
La misura della dotazione di infrastrutture
Misurare la dotazione di infrastrutture è un’operazione complessa sulla quale si è
sviluppato un grande dibattito teorico ed empirico. Vi sono molti lavori relativi alla stima delle
dotazioni di capitale e alcuni studiano in particolare la dotazione di infrastrutture pubbliche, ma
non vi è consenso su quale sia il metodo migliore per affrontare il problema.
È possibile tuttavia individuare due principali metodologie di valutazione:
•
una basata sul calcolo dello stock di capitale tramite il flusso di investimenti ed
•
una basata su un approccio quali-quantitativo.
Entrambe presentano vantaggi e svantaggi.
I metodi di valutazione dello stock di capitale derivano dalla teoria dell’accumulazione
del capitale e sono stati impiegati soprattutto per calcolare lo stock di capitale fisico totale di
un’economia, astraendo cioè dalla sua natura di investimento privato o pubblico. Ricorrendo
alla notazione già introdotta nel capitolo precedente, se Gt è lo stock di capitale al tempo t,
I t l’investimento e µ il tasso di deprezzamento (assunto costante nel tempo), la regola di
accumulazione del capitale ci dice che:
Gt +1 = Gt (1 − µ) + I t
12
Questa semplice equazione alle differenze può essere risolta a ritroso per ottenere lo stock di
capitale corrente in funzione dei flussi di investimento precedenti:
Gt = I t + I t −1 (1 − µ) + I t − 2 (1 − µ) 2 + ... =
∞
= ∑ I t − s (1 − µ) s
s= 0
In teoria basterebbe quindi avere un’ipotesi realistica sul tasso di deprezzamento del
capitale (stimato nella letteratura di solito fra il 3% ed il 10%) e disporre delle informazioni sui
flussi annui di investimento per calcolare con buona approssimazione lo stock di capitale
corrente. Nella pratica si assume solitamente uno stock di capitale pari a zero in un periodo
iniziale sufficientemente lontano nel tempo e si ottiene una buona approssimazione dell’entità
dello stock di capitale corrente.
Kamps (2004a) ha fornito la più recente e accurata misura dello stock di capitale
pubblico per i paesi occidentali, utlizzando questa metodologia. I risultati sono riportati nella
Tabella 2.1.
Tabella 2.1 - Rapporto capitale pubblico/PIL
in 22 paesi dell’OCSE
PAESI
GIAPPONE
NUOVA
ZELANDA
A USTRIA
OLANDA
SVIZZERA
FRANCIA
GRECIA
ISLANDA
NORVEGIA
USA
SPAGNA
ITALIA
FINLANDIA
GERMANIA
DANIMARCA
PORTOGALLO
SVEZIA
REGNO UNITO
A USTRALIA
CANADA
BELGIO
IRLANDA
MEDIA
1980
97,7
1990
95,7
2000
117,1
110,3
102,4
75,4
69,3
80,2
68,9
46,1
48,4
55,0
53,0
44,4
51,9
48,4
50,5
49,3
52,5
59,9
54,1
35,8
40,9
44,7
49,0
43,7
47,1
58,4
52,0
76,4
60,8
27,9
32,0
42,1
40,2
63,9
48,5
53,8
46,5
41,6
40,0
40,2
45,5
75,9
66,8
57,8
55,3
Fonte: Kamps (2004a)
76,6
57,0
56,4
54,7
54,0
51,0
50,7
50,5
50,0
48,0
47,9
47,0
47,0
45,9
43,3
42,0
40,3
40,0
38,4
37,9
35,2
51,4
13
In media lo stock di capitale pubblico costitutisce circa la metà del PIL nazionale; è
superiore al PIL solo nel caso isolato del Giappone. L’Italia si attesta al di sotto della media,
sebbene in leggero recupero nel ventennio in esame (dal 15° al 12° posto), ma in
peggioramento tra il 1990 e il 2000. Tuttavia, la situazione del nostro Paese non sembra
particolarmente arretrata, se confrontata con quella di altri importanti partner europei, quali la
Germania e il Regno Unito.
È però opportuno sottolineare i limiti di quest’analisi.
Per quanto logicamente ineccepibile, il metodo utilizzato da Kamps presenta numerosi
problemi, quando applicato al nostro contesto. Primo fra tutti, come si è già ricordato, quello
della scelta del tasso di deprezzamento, che influisce in misura determinante sui risultati ed è
comunque arbitraria. È, d’altra parte, vero che ai fini del confronto internazionale ciò che
conta sono le differenze fra i diversi Paesi e non il problema della stima precisa dei valori
assoluti. Più importante è il fatto che questo metodo si applica bene all’accumulazione di
capitale privato in un’economia di mercato, molto meno bene all’accumulazione di capitale
pubblico. Nel primo caso, infatti, l’accumulazione di capitale riflette le scelte di risparmio e
investimento sulla base di un tasso di rendimento che rappresenta la produttività marginale del
capitale e ciò induce ad una misura corretta dello stock di capitale. Ma nel secondo caso, vi
sono spesso esternalità o fattori di produzione accumulabili diversi dal capitale fisico, come il
capitale umano, e il tasso di rendimento di mercato non riflette necessariamente la produttività
marginale effettiva del capitale. Ne discende che lo stock di capitale fisico così calcolato non
rappresenta l’effettiva utilità sociale degli investimenti. Da un lato, infatti, il capitale umano
aumenta il valore del capitale fisico in modo difficilmente quantificabile, dall’altro l’investimento
pubblico in infrastrutture segue logiche diverse da quelle di mercato e crea esternalità
difficilmente riassumibili in una misura puramente quantitativa dello stock di capitale fisico.
Infine, in ogni caso, il metodo di Kamps ha il difetto di confondere quantità con qualità. In
genere la quantità di investimenti effettuati non riflette la qualità delle dotazioni addizionali di
infrastrutture. In teoria sarebbe anzi interessante ponderare i vari tipi di investimento per le
esternalità che essi provocano, ma la mancanza di informazioni adeguate renderebbe in pratica
questo esercizio ancora più arduo ed arbitrario.
Per ovviare ai problemi appena discussi, si ricorre talvolta a misure quali-quantitative
che analizzano tecnicamente il livello di infrastrutture e cercano di determinarne la rilevanza.
Per esempio, per un’infrastruttura a rete come strade, autostrade e ferrovie si adotta
solitamente un indice del tipo:
Indice di Infrastruttura a Rete =
∑ Km
i
⋅ ωi
i
Superficie Coperta
dove i denota i vari tipi di qualità (ad esempio autostrade a due o tre corsie) il cui
chilometraggio è pesato diversamente con ωi .
Anche tali misure sono soggette a scelte arbitrarie, naturalmente, ma analizzando ogni
singola componente delle infrastrutture separatamente, riescono comunque a dare un’idea più
precisa del livello quali-quantitativo delle infrastrutture, rispetto all’approccio precedente.
14
Un forte limite di questo approccio risiede nella normalizzazione delle osservazioni
rispetto a superficie e popolazione dell’area: nessuna normalizzazione è del tutta appropriata
ed ogni indice risente dei vincoli territoriali. Ad esempio, una regione piccola e densamente
popolata tende ad avere indici migliori di una regione grande e poco popolata, dato che nel
secondo caso si richiedono maggiori investimenti e d’altra parte forse non è neanche
necessaria una rete troppo fitta di infrastrutture. Un altro limite risiede nell’aggregazione di
indici che si riferiscono a tipi diversi di infrastrutture, che non sono mai pienamente
confrontabili. Il problema diventa però tanto meno rilevante da un punto di vista empirico
quanto più numerosi sono i dati utilizzati e quanto più accurate sono le misurazioni.
In questo capitolo, si è scelto di adottare l’approccio quali-quantitativo alla
misurazione del livello infrastrutturale per determinare il gap strutturale, sia per le ragioni
teoriche già discusse, sia perché esistono ottimi studi nazionali e internazionali che adottano
questo approccio. In particolare, ECOTER (2001) calcola indicatori fisici di dotazione
infrastrutturale, a livello nazionale e regionale per i principali Paesi europei nel 1985 e nel
1995, analizza il contributo offerto dalle infrastrutture ai processi di sviluppo dei sistemi
territoriali italiani ed europei e individua indicatori qualitativi sul livello di servizio offerto dalle
diverse tipologie infrastrutturali in esame. L’Istituto Guglielmo Tagliacarne (2002) fornisce
un’analisi simile con dettagli anche a livello provinciale.
2.2
La dotazione infrastrutturale nelle regioni europee
Le analisi quali-quantitative di ECOTER si focalizzano sulle cosiddette infrastrutture
economiche, relative ai trasporti (rete ferroviaria e stradale, porti e aeroporti) all’energia
(oleodotti, gasdotti ed elettricità) e alle telecomunicazioni, ma studiano anche alcune cosiddette
infrastrutture sociali, relative ad esempio al settore dell’istruzione.
Le stime si basano sui dati di Eurostat per Germania, Italia, Spagna, Francia e Regno
Unito, relativi al 1985 e al 1995.
Per ciascun tipo di infrastrutture, sono state considerate misurazioni di più componenti
da pesare appropriatamente. Per esempio, per la rete stradale, è stato considerato il
chilometraggio di strade statali e provinciali e autostrade, ponderato per l’ampiezza delle
carreggiate e, trattandosi di infrastrutture a rete, si è considerato il rapporto con la superficie
della regione o del Paese in esame. Per le ferrovie, si è tenuto conto della presenza di reti
elettrificate o meno e a binario semplice o doppio. Per gli aeroporti, si è considerata la
superficie delle piste; per i porti la lunghezza degli accosti, rapportata poi con la popolazione
della regione o del Paese, dato che si tratta di infrastrutture puntuali. Per l’energia, il
chilometraggio di elettrodotti (200/220 kv e a 380/400 kv opportunamente pesati in bade alla
tensione), oleodotti e gasdotti è stato rapportato alla superficie. Infine, per l’istruzione si sono
considerati gli studenti iscritti a scuole superiori di tipo professionale e gli studenti universitari
per popolazione.
Su questa base sono stati creati degli indici normalizzati ponendo pari a 100 la media
dei cinque Paesi.
I risultati principali sono mostrati nella Tabella 2.2. Nel 1985 il Paese leader era la
Francia, soprattutto nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni, seguita dal Regno Unito,
15
leader nei trasporti (soprattutto stradali e aeroportuali), e dalla Germania, leader
nell’istruzione. L’Italia e soprattutto la Spagna erano sensibilmente meno dotati. L’Italia
restava nella media delle dotazioni degli altri Paesi nei trasporti e nell’istruzione ma era
penalizzata da scarse dotazioni soprattutto nel settore dell’energia.
Nell’arco di dieci anni il divario fra le nazioni si è ridotto; la Francia appare in
arretramento relativo rispetto alla Germania (che segnala ottimi progressi nel settore
dell’energia) e al Regno Unito (che presenta ottimi progressi nel settore dell’istruzione); l’Italia
e la Spagna in netto miglioramento. Le rilevazioni del 1995 in particolare mostrano che l’Italia
si mantiene ancora al di sotto della media di questi Paesi, ma con un indice aggregato di 95
(80,7 nel 1985), contro 117,9 per il Regno Unito, 115,9 per la Germania, 101,8 per la
Francia e 71,4 per la Spagna.
La Figura 2.1 mostra l’intensità della dotazione di infrastrutture nelle regioni europee.
La Germania ha una dotazione elevata ed omogenea (superiore al 75% della media in tutte le
sue regioni, nonostante alcune appartengano all’area dell’ex DDR). Il Regno Unito ha una
elevata dotazione infrastrutturale ma meno omogenea. La dotazione francese è inferiore ma
estremamente omogenea. La Spagna è il paese meno dotato di infrastrutture e come l’Italia è
piuttosto disomogeneo, un punto su cui si tornerà in seguito.
Tabella 2.2 - Indice infrastrutturale ECOTER (1985-1995)
1985
REGNO UNITO
GERMANIA
FRANCIA
ITALIA
SPAGNA
1995
REGNO UNITO
GERMANIA
FRANCIA
ITALIA
SPAGNA
Trasporti
Energia
Telecom. Istruzione
149,5
117,6
107,8
72,7
125,4
72,5
108,3
125,4
127,8
204,9
128,3
87,5
101,6
56,3
73,7
100,5
61,4
23,9
70,4
107,1
Trasporti
Energia
Telecom. Istruzione
184,9
85,4
100,1
122,4
120,1
153,5
96,6
101,2
98,4
104
115,2
90,9
97,1
92,9
92,2
98
48,6
65
95,7
86,1
Fonte: ECOTER (2001)
INDICE
108,4
105,4
130,9
80,7
57,7
INDICE
117,9
115,9
101,8
95
71,4
La leadership inglese deriva per lo più dal settore dei trasporti (soprattutto grazie al
sistema stradale ed aeroportuale) e dell’istruzione. L’ottima situazione tedesca è dovuta
soprattutto al settore dei trasporti (sia stradali che ferroviari) e a quello dell’energia. La
Francia e l’Italia hanno risultati abbastanza omogenei nei vari settori mentre la Spagna è
penalizzata soprattutto dal settore dei trasporti.
Nel settore dei trasporti la Germania è la meglio equipaggiata nelle ferrovie, il Regno
Unito in strade, aeroporti e porti mentre la Spagna risulta ultima in tutte le categorie. L’Italia è
al di sopra della media per porti e aeroporti e leggermente al di sotto per ferrovie e strade.
Nel settore dell’energia la Germania è più dotata per elettricità e gasdotti, il Regno
Unito per oleodotti, la Spagna è ultima in tutte e tre le categorie e l’Italia resta al di sotto della
media solo per la categoria dell’elettricità. Nelle telecomunicazioni il paese più dotato è la
Francia, ma le differenziazioni fra i paesi appaiono minori.
16
Per quanto riguarda l’istruzione, la leadership è del Regno Unito seguito da Germania
e Italia, ma è chiaro che l’indice utilizzato è piuttosto grezzo e assai più discutibile dei
precedenti.
I settori considerati dall’analisi di ECOTER non esauriscono le infrastrutture
economiche, ma sono comunque fra i più rilevanti. Per completezza di esposizione, sembra
opportuno richiamare anche gli studi dell’ANCE, che si focalizzano sul settore delle
costruzioni. La Figura 2.2 illustra il rapporto fra investimenti in costruzioni e PIL nel 2001 per
un gruppo di paesi occidentali e mette in evidenza che l’Italia si trova in una posizione assai
arretrata.
Figura 2.1 - Livello di infrastrutture nelle regioni europee (1995)
17
Fonte: ECOTER (2001)
Figura 2.2 - Investimenti in costruzioni in Europa (2001, % PIL)
0,0
5,0
10,0
15,0
Spagna
15,5
Norvegia
14,1
Portogallo
13,2
Turchia
12,7
Germania
12,3
Olanda
11,9
Canada
11,6
Finlandia
10,4
Messico
10,1
Danimarca
9,4
Usa
9,3
Regno Unito
8,6
Francia
8,6
Italia
20,0
7,9
Fonte: ANCE
L’Istituto Tagliacarne ha sviluppato una serie di indici analoghi a quelli prodotti da
ECOTER, relativi a quindici Paesi europei. Sebbene i dati (si vedano le Tabelle da 2.3 a 2.9)
non siano perfettamente confrontabili con i precedenti, sono globalmente in linea, confermando
la leadership di Germania e Regno Unito, mostrando il sorpasso dell’Italia sulla Francia ma a
livelli di media europea, e ribadendo l’arretratezza relativa della Spagna. Per ciò che concerne
gli altri Paesi, astraendo dal Lussemburgo, che concentra le proprie infrastrutture su una area
ristretta e densamente popolata rispetto alle altre, la leadership europea spetta al Belgio
seguito dai Paesi Bassi, il cui dato è anch’esso viziato da un territorio limitato e densamente
popolato; i due paesi sono comunque nelle posizioni di testa per tutte le categorie. Dotazioni
complessivamente migliori di quella italiana si hanno anche in Germania, Austria e Danimarca,
mentre fra i Paesi europei meno dotati dell’Italia sono anche la Svezia e la Finlandia, per le
quali valgono però attenuanti relative al territorio esteso e poco popolato, l’Irlanda, il
Portogallo, la Grecia. L’unica categoria nella quale l’Italia è dotata sensibilmente più della
media europea è quella dei porti, che è però la categoria più anomala per motivazioni
18
prettamente geografiche. Escludendo dal computo dell’indice generale i porti, l’Italia torna al
di sotto della media europea e della Francia.
Tabella 2.3 - Rete stradale
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
INDICE TAGLIACARNE
PAESE
Unione Europea=100
BELGIO
227,4
LUSSEMBURGO
171,3
PAESI BASSI
163,8
DANIMARCA
152,5
FRANCIA
147,4
AUSTRIA
146,8
IRLANDA
105,3
96,1
ITALIA
GERMANIA
94,9
REGNO UNITO
90,9
PORTOGALLO
89,5
SPAGNA
86,0
SVEZIA
47,8
FINLANDIA
34,2
GRECIA
28,6
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
Tabella 2.4 - Rete ferroviaria
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Tabella 2.5 - Aeroporti
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
INDICE TAGLIACARNE
PAESE
Unione Europea=100
LUSSEMBURGO
1121,0
PAESI BASSI
213,5
BELGIO
199,4
GERMANIA
146,3
REGNO UNITO
143,0
DANIMARCA
115,6
GRECIA
104,9
90,5
ITALIA
AUSTRIA
89,9
IRLANDA
77,7
PORTOGALLO
74,1
FRANCIA
72,2
SPAGNA
71,8
SVEZIA
42,7
FINLANDIA
37,6
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
INDICE TAGLIACARNE
Unione Europea=100
LUSSEMBURGO
252,9
BELGIO
173,4
GERMANIA
163,5
AUSTRIA
150,7
FRANCIA
118,6
REGNO UNITO
102,1
DANIMARCA
93,8
PAESI BASSI
92,3
88,8
ITALIA
SVEZIA
83,9
SPAGNA
56,8
FINLANDIA
45,6
PORTOGALLO
43,5
IRLANDA
41,9
GRECIA
19,3
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
PAESE
Tabella 2.6 - Porti
INDICE TAGLIACARNE
Unione Europea=100
PAESI BASSI
237,3
GRECIA
234,4
DANIMARCA
209,3
BELGIO
170,3
150,3
ITALIA
REGNO UNITO
145,6
SVEZIA
145,4
FINLANDIA
82,6
FRANCIA
68,6
SPAGNA
60,0
IRLANDA
58,8
GERMANIA
43,3
PORTOGALLO
36,3
LUSSEMBURGO
0,0
AUSTRIA
0,0
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
PAESE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
19
Tabella 2.7 - Impianti e reti
energetico-ambientali
INDICE TAGLIACARNE
Unione Europea=100
LUSSEMBURGO
227,3
GERMANIA
164,8
BELGIO
156,3
PAESI BASSI
125,4
AUSTRIA
120,9
REGNO UNITO
105,1
DANIMARCA
103,8
FRANCIA
103,8
SVEZIA
91,1
86,3
ITALIA
SPAGNA
60,6
FINLANDIA
52,2
GRECIA
48,6
PORTOGALLO
48,4
IRLANDA
35,7
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
Tabella 2.8 - Indice generale
di dotazione infrastrutturale relativa
PAESE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
INDICE TAGLIACARNE
Unione Europea=100
LUSSEMBURGO
354,5
BELGIO
185,4
PAESI BASSI
166,4
DANIMARCA
135,0
GERMANIA
122,6
REGNO UNITO
117,3
102,4
ITALIA
FRANCIA
102,1
AUSTRIA
101,6
GRECIA
87,2
SVEZIA
82,2
SPAGNA
67,0
IRLANDA
63,9
PORTOGALLO
58,4
FINLANDIA
50,4
Fonte: Istituto Tagliacarne-Unioncamere
PAESE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Tabella 2.9 - Indice generale
di dotazione infrastrutturale relativa (porti esclusi)
PAESE
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
LUSSEMBURGO
BELGIO
PAESI BASSI
GERMANIA
AUSTRIA
DANIMARCA
FRANCIA
REGNO UNITO
ITALIA
SPAGNA
SVEZIA
IRLANDA
PORTOGALLO
GRECIA
FINLANDIA
INDICE TAGLIACARNE
Unione Europea=100
443,1
189,1
148,7
142,4
127,1
116,4
110,5
110,3
90,4
68,8
66,4
65,2
63,9
50,4
42,4
In conclusione, dal confronto internazionale, emerge che l’Italia è penalizzata dalla sua
dotazione infrastrutturale rispetto ai Paesi caratterizzati da un grado di sviluppo economico
paragonabile e comunque rispetto ai principali partner nell’economia europea, quali Germania,
Francia, e Regno Unito. Sebbene l’entità del gap infrastrutturale non appaia particolarmente
20
elevata, resta comunque un problema prioritario. E’ tuttavia confortante che nell’arco del
periodo considerato il gap sembri essersi ridotto.
Inoltre, come si è già notatao, il Paese presenta una profonda disomogeneità interna.
Le regioni dell’Italia settentrionale (Ligura, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e
Friuli) e il Lazio si posizionano al di sopra della media europea; ciò significa che il gap
infrastrutturale italiano resta un fenomeno strettamente el gato alla questione meridionale. A
questo problema è dedicato il prossimo paragrafo, che fornisce un’analisi più dettagliata della
situzione italiana.
2.3
La dotazione infrastrutturale nelle regioni e province italiane
ECOTER (2001) fornisce anche dati dettagliati a livello regionale, illustrati nella
Tabella 2.10. La leadership della Liguria è rafforzata dal fatto che si tratta di una regione dalla
superficie ristretta ma interamente attraversata da ferrovie, strade e autostrade, nonché
caratterizzata dal principale porto italiano e da altri importanti porti. La seconda posizione del
Lazio è chiaramente motivata dalla presenza di numerose infrastrutture collegate alla presenza
della capitale, mentre le rimanenti regioni settentrionali con dotazioni al di sopra della media
sono tradizionalmente caratterizzate da maggiore ricchezza ed efficienza amministrativa.
Tabella 2.10 - Indice infrastrutturale
nelle regioni italiane (1995)
Indice ECOTER
(Italia=100)
LIGURIA
163,6
LAZIO
124,7
LOMBARDIA
118,6
VENETO
112,6
EMILIA ROMAGNA
105,8
PIEMONTE
105,1
FRIULI V. GIULIA
102,0
TOSCANA
98,0
CAMPANIA
92,2
MARCHE
85,3
ABRUZZO
84,4
SICILIA
82,3
VALLE D'AOSTA
82,1
PUGLIA
80,1
UMBRIA
71,5
CALABRIA
68,6
BASILICATA
65,9
REGIONE
TRENTINO A.
ADIGE
SARDEGNA
MOLISE
64,5
58,7
57,1
Fonte: ECOTER (2001)
21
Le regioni settentrionali più arretrate sono invece la Valle d’Aosta ed il Trentino, ma le
loro caratteristiche territoriali spiegano il risultato. Le migliori dotazioni del Mezzogiorno sono
in Campania, Abruzzo, Sicilia e Puglia. Le dotazioni di zone arretrate come Molise e Sardegna
sono invece pari ad un terzo di quelle liguri.
L’Istituto Tagliacarne ha sviluppato una serie di indici analoghi, ma con particolare
attenzione alle infrastrutture sociali, considerando anche le reti bancarie e di servizi alle
imprese, le strutture culturali e ricreative e le strutture sanitarie. Sono state anche apportate
modifiche nella costruzione degli indici. Inoltre i risultati sono dettagliati fino al livello
provinciale per l’Italia per il periodo 1997-2000 (Istituto Tagliacarne, 2001). Gli stessi indici
sono stati ricostruiti per il 1991, in modo da consentire una valutazione dinamica relativa agli
anni ’90 (Istituto Tagliacarne, 2002).
Il numero di variabili elementari rilevate ed usate per la costruzione degli indici è
aumentato, il che comporta un miglioramento della qualità dei risultati. Ad esempio, per la rete
stradale sono stati utilizzati anche dati sul numero di porte autostradali con vari servizi
(Viacard, Telepass), di stazioni autostradali, sul numero di incidenti e sulla spesa per
manutenzione, per un totale di 10 tipi di informazioni. Per la rete ferroviaria, sono state rilevate
9 serie di informazioni, per l’energia 17, per le telecomunicazioni 11, per i porti 18, per gli
aeroporti 14. Sono stati inoltre introdotti alcuni accorgimenti, per evitare di falsare
l’attribuzione di infrastrutture di rilevanza non strettamente locale: ad esempio, si è tenuto conto
del fatto che l’aeroporto di Malpensa non beneficia la sola provincia di Varese, ma l’intera
regione Lombardia ed altre province e regioni (cfr. Istituto Tagliacarne, 2001, 2002, 2004).
Uno sforzo ancora maggiore ha riguardato la costruzione degli indici per le
infrastrutture sociali. Per l’istruzione, sono state prese in considerazione 25 variabili, fra le quali
il numero di sezioni e docenti di scuola materna, elementare, media e superiore, il numero di
aule di scuole medie, istituti superiori e licei, il numero di corsi universitari (di vario tipo), il
numero di scuole (e con spazi verdi, mensa, scuolabus), e così via. Per le strutture sanitarie, le
variabili utilizzate salgono a 44, fra cui la dotazione di personale medico e non medico, il
numero di posti letto per ventiquattro diverse categorie di cura e così via. Per le strutture
creditizie e di servizi alle imprese, sono state utilizzate 16 variabili e ben 35 per quelle culturali
e ricreative.
La Tab. 2.11 mostra che i risultati di ECOTER sono in gran parte confermati (salvo il
forte recupero della Toscana e l’arretramento relativo del Piemonte nella rilevazione più
recente) e che la classifica delle regioni è rimasta sostanzialmente inalterata nell’arco degli anni
’90, ma con una leggera convergenza fra gli indici delle due regioni più e meno dotate di
infrastrutture, rispettivamente Liguria e Basilicata nel 1991 e Lazio e Basilicata nel 1997-2000.
Se si fa riferimento alle macroregioni, nel 1991 il Centro era la zona del Paese meglio
dotata (indice124,2) seguito da Nord-Ovest (115,5) e Nord-Est (104) mentre il Mezzogiorno
restava sensibilmente più indietro (74,9); alla fine del decennio, la classifica resta immutata. Il
Centro è la macroregione leader nel campo della rete ferroviaria, degli aeroporti (benché quasi
raggiunto dal Nord-Ovest alla fine degli anni ’90), delle strutture per l’istruzione, culturali e
ricreative. Il Nord-Ovest è leader per la rete stradale, gli impianti e le reti energeticoambientali, la struttura e le reti per telefonia e telematica e le strutture sanitarie. Per quanto
riguarda le reti bancarie e di servizi vari, la leadership è passata dal Centro al Nord-Ovest. Il
Mezzogiorno resta la macroregione peggio dotata in ogni categoria e registra anche un
22
peggioramento relativo eccetto che nella rete ferroviaria e nelle strutture culturali e sanitarie,
nonostante una buona dotazione di porti.
Tabella 2.11 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1991 e 1997/2000)
REGIONE
LIGURIA
LAZIO
LOMBARDIA
T OSCANA
VE N E T O
FRIULI V. GIULIA
EMILIA ROMAGNA
CAMPANIA
PIEMONTE
UMBRIA
M ARCHE
A BRUZZO
SICILIA
PUGLIA
T RENTINO A. A DIGE
CALABRIA
M OLISE
SARDEGNA
VALLE D 'A O S T A
BASILICATA
Indice Tagliacarne
1991 (Italia=100)
Totale
187
139,3
113,6
124,2
113,9
136,9
112,7
97,3
86,7
82,6
92,6
84,8
87,1
81,2
65,6
70
50,5
59,2
41,3
36,4
REGIONE
Indice Tagliacarne
1997-2000 (Italia=100)
Porti esclusi
Totale
152,4LAZIO
142,0
150,5LIGURIA
183,8
125,3LOMBARDIA
120,3
121,5T OSCANA
117,1
110,1VE N E T O
115,9
110EMILIA ROMAGNA
107,2
108,3FRIULI V. GIULIA
118,6
98,1CAMPANIA
96,6
95,2PIEMONTE
89,2
90,4M ARCHE
92,5
89,3UMBRIA
81,8
86,9A B RUZZO
78,5
79,2PUGLIA
81,6
77,6SICILIA
86,2
72,6CALABRIA
78,0
72,4T RENTINO A. A DIGE
62,7
51,9M OLISE
54,3
51,4VALLE D 'A O S T A
46,2
45,3SARDEGNA
57,0
39,5BASILICATA
43,3
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
Porti esclusi
151,6
141,2
132,6
114,7
108,7
108,2
102,3
98,8
97,8
90,7
88,9
82,4
79,1
76,3
72,6
69,3
56,5
50,6
48,6
47,1
In termini relativi alla media nazionale (Tabelle 2.12 e 2.13), il divario Nord-Sud tende
a crescere nel decennio per quanto riguarda le infrastrutture economiche. La rete stradale e
autostradale peggiora nel Mezzogiorno; la rete ferroviaria peggiora relativamente nel NordOvest, mentre migliora al Sud e al Centro, grazie ad alcune elettrificazioni al Sud e al
contributo dell’Eurostar per il Centro. Per gli aeroporti, l’esperienza Malpensa trascina il
Nord-Ovest, mentre nel campo delle infrastrutture energetiche la situazione resta
sostanzialmente inalterata nel decennio, fatto salvo un leggero miglioramento relativo di NordEst e Centro. Per quanto riguarda la rete telefonica migliorano Nord-Ovest e Centro mentre
per la rete bancaria il Nord accresce il suo vantaggio sul resto del paese.
Nel campo delle infrastrutture sociali, cioè i cui servizi si rivolgono più alle famiglie che
alle imprese, la forbice fra Nord e Sud tende invece a diminuire nello stesso periodo. In
particolare, spiccano l’arretramento relativo del Centro e del Nord-Est per le strutture
culturali, sanitarie e per l’istruzione nelle quali avanzano invece Mezzogiorno e Nord-Ovest,
con riduzioni del gap fra macroregioni meglio e peggio dotate in tutte e tre le categorie.
23
Tabella 2.12 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1991)
REGIONI
Rete
stradale
Rete
ferroviaria
Porti e
bacini
utenza
Impianti e
Aeroporti e
reti
bacini
energeticoutenza
ambientali
PIEMONTE
VALLE D 'A O S T A
LOMBARDIA
T RENTINO A. A DIGE
VE N E T O
FR IULI V. GIULIA
LIGURIA
EMILIA ROMAGNA
T OSCANA
UMBRIA
M ARCHE
LAZIO
A BRUZZO
M OLISE
CAMPANIA
PUGLIA
BASILICATA
CALABRIA
SICILIA
SARDEGNA
128,3
90,4
77,7
91,3
103,2
101,8
185,8
109,7
100,0
96,5
112,0
94,5
157,4
112,1
96,1
82,9
82,3
117,0
94,7
55,2
131,3
17,7
93,7
103,1
85,6
132,0
166,6
105,8
116,3
189,1
73,1
117,4
134,5
53,4
111,2
91,9
29,4
103,9
77,2
22,7
10,3
5,2
8,2
2,5
147,4
379,0
498,5
153,1
148,7
12,0
122,3
38,3
66,2
37,6
90,6
114,2
8,7
48,3
158,2
129,1
79,9
43,5
159,9
18,0
97,2
75,5
161,3
82,8
111,1
87,9
55,3
243,2
73,4
56,3
40,4
57,2
4,0
77,1
94,8
84,0
98,2
46,2
173,1
66,8
142,5
115,8
136,4
125,1
94,3
73,5
78,3
104,9
72,7
56,0
85,3
79,2
43,5
58,1
69,9
33,6
NORD -OVEST
NORD -EST
CENTRO
M EZZOGIORNO
106,5
103,8
99,4
94,1
112,1
101,3
118,2
81,8
58,3
156,4
88,1
102,3
129,2
77,7
150,1
66,6
140,1
121,8
93,7
65,9
REGIONI
PIEMONTE
VALLE D 'A O S T A
LOMBARDIA
T RENTINO A. A DIGE
VE N E T O
FRIULI V. GIULIA
LIGURIA
EMILIA ROMAGNA
T OSCANA
UMBRIA
M ARCHE
LAZIO
Strutture e
Reti
Strutture Strutture
reti
bancarie
culturali
per
telefonia
e servizi vari e ricreative l'istruzione
e telematica
107,0
44,8
157,1
62,0
115,5
98,6
160,9
112,9
103,8
63,5
86,3
143,2
89,6
58,0
128,1
107,4
119,4
109,1
132,6
114,0
183,5
93,4
104,9
116,2
72,1
55,5
92,5
43,3
103,1
109,9
118,6
145,8
204,3
52,2
87,1
273,2
77,2
25,6
115,0
80,0
102,6
119,4
123,8
104,7
95,2
92,6
112,2
130,3
Strutture
sanitarie
79,0
28,5
151,3
87,5
137,3
134,2
181,7
90,0
92,7
66,5
101,9
131,7
24
A BRUZZO
M OLISE
CAMPANIA
PUGLIA
BASILICATA
CALABRIA
SICILIA
SARDEGNA
NORD -OVEST
NORD -EST
CENTRO
M EZZOGIORNO
66,9
40,4
97,1
72,3
31,5
52,4
77,8
40,9
73,3
44,0
82,4
56,7
33,8
58,4
67,2
61,9
33,4
13,7
112,3
43,5
43,2
33,6
33,8
57,0
86,7
52,8
129,8
98,3
51,8
84,8
99,2
64,2
83,2
36,8
97,4
103,6
32,7
56,9
82,3
39,4
137,2
104,8
111,6
67,4
113,3
114,4
136,4
64,2
87,1
111,2
196,4
53,5
100,3
102,1
110,8
93,3
125,9
112,0
106,1
75,9
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
Tabella 2.13 - Indice infrastrutturale nelle regioni italiane (1997-2000)
Impianti e
Aeroporti e
reti
bacini
energeticoutenza
ambientali
83,9
105,4
37,9
43,2
189,6
165,4
PIEMONTE
VALLE D 'A O S T A
LOMBARDIA
T RENTINO A LTO
A DIGE
VE N E T O
FRIULI VENEZIA
GIULIA
LIGURIA
EMILIA ROMAGNA
T OSCANA
UMBRIA
M ARCHE
LAZIO
A BRUZZO
M OLISE
CAMPANIA
PUGLIA
BASILICATA
CALABRIA
SICILIA
SARDEGNA
119,9
112,7
82,2
108,4
17,3
84,3
Porti e
bacini
utenza
11,9
6,0
9,4
88,3
105,0
77,9
84,2
2,9
180,6
14,1
90,0
61,3
147,6
90,4
199,9
113,3
107,8
99,1
121,4
90,0
144,6
125,1
95,8
79,4
91,4
106,9
87,4
63,2
121,9
147,9
131,5
137,2
153,8
69,8
129,9
98,9
45,8
124,2
110,1
74,8
104,9
64,7
24,5
264,5
566,6
97,8
138,9
17,9
108,2
55,7
43,0
34,5
76,5
104,2
9,3
126,7
174,9
132,9
64,1
131,5
79,5
97,3
71,6
50,4
264,3
67,3
55,1
47,7
43,6
3,6
70,7
81,7
77,0
123,0
121,5
131,7
97,7
83,9
86,2
103,0
77,6
49,1
83,2
80,0
40,7
52,8
65,9
30,5
NORD -OVEST
NORD -EST
CENTRO
M EZZOGIORNO
107,7
104,0
102,1
91,8
97,2
105,6
126,1
84,7
65,6
133,6
89,5
109,2
143,4
72,0
150,6
60,5
137,2
126,2
96,4
63,8
REGIONI
REGIONI
PIEMONTE
VALLE D 'A O S T A
LOMBARDIA
T RENTINO A LTO
Rete
stradale
Rete
ferroviaria
Strutture e
Reti
Strutture
Strutture
reti
Strutture
bancarie
culturali
per
telefonia
sanitarie
e servizi vari e ricreative l'istruzione
e telematica
98,5
116,2
88,8
83,1
83,4
34,2
51,6
106,4
38,4
16,6
177,1
143,1
100,7
117,7
154,4
61,9
89,6
67,6
93,0
77,2
25
A DIGE
VE N E T O
FRIULI VENEZIA
GIULIA
LIGURIA
EMILIA ROMAGNA
T OSCANA
UMBRIA
M ARCHE
LAZIO
A BRUZZO
M OLISE
CAMPANIA
PUGLIA
BASILICATA
CALABRIA
SICILIA
SARDEGNA
NORD -OVEST
NORD -EST
CENTRO
M EZZOGIORNO
104,9
127,4
108,7
104,6
120,8
94,4
146,4
101,9
114,4
71,0
80,2
148,7
66,1
36,0
94,2
68,2
39,0
61,5
72,1
32,8
117,8
130,9
119,2
128,6
85,4
107,0
123,5
70,0
48,3
75,6
64,0
35,5
55,1
63,2
48,1
97,5
132,7
133,7
178,7
79,9
107,1
225,3
53,2
34,3
97,5
48,7
45,8
36,7
47,6
54,9
110,6
127,5
102,7
90,0
87,1
101,4
127,7
84,1
66,9
134,3
97,1
54,7
84,8
97,7
57,0
109,2
133,5
75,9
88,3
70,5
100,3
151,2
78,1
46,1
104,7
107,2
35,3
68,7
89,3
46,4
143,2
96,3
117,5
65,0
130,2
117,7
118,6
61,0
100,0
110,6
175,0
57,0
104,5
102,9
105,8
93,0
123,8
96,2
112,2
81,9
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
A livello provinciale (Tabelle da 2.14 a 2.17) miglioramenti e peggioramenti relativi si
presentano in modo abbastanza omogeneo sul territorio nazionale. Spiccano la provincia di
Milano in forte miglioramento, ma anche altre del Nord (Treviso, Pordenone, Rovigo,
Bologna, Ravenna, Forlì, Lodi, Varese, Torino). Trieste resta la provincia meglio dotata di
infrastrutture in Italia seguita al Nord da Lodi. Ad alti livelli sono anche Varese, Milano,
Genova, Gorizia, Rimini, Bologna, Padova, Savona, Venezia, Novara e Verona, mentre
situazioni più critiche si registrano in province in territorio alpino come Aosta, Belluno e
Sondrio.
Tabella 2.14 - Indice infrastrutturale nelle province italiane (1991)
Province e
Regioni
Alessandria
Asti
Biella
Cuneo
Novara
Torino
Verbania
Vercelli
Piemonte
Valle d'Aosta
Bergamo
Brescia
Como
Cremona
Totale
Province e
Totale
Province e
senza porti Regioni senza porti
Regioni
106,7 Genova
183,2 Chieti
88,5 Imperia
105,1 L'Aquila
98,9 La Spezia
125,7 Pescara
63,1 Savona
138,8 Teramo
132,3 Liguria
152,4 Abruzzo
106,5 Bologna
139,6 Campobasso
67,0 Ferrara
83,8 Isernia
97,9 Forli'
84,4 Molise
95,2 Modena
111,0 Avellino
45,3 Parma
110,2 Benevento
111,4 Piacenza
87,4 Caserta
84,7 Ravenna
115,7 Napoli
117,5 Reggio Em.
84,1 Salerno
105,1 Rimini
151,4 Campania
Province e Totale senza
Totale
Regioni
porti
87,9 Agrigento
53,6
75,1 Caltanissetta
53,0
112,3 Catania
95,6
86,1 Enna
50,8
86,9 Messina
107,5
54,4 Palermo
95,7
46,8 Ragusa
54,7
51,9 Siracusa
58,2
69,9 Trapani
77,9
58,6 Sicilia
79,2
81,8 Cagliari
60,6
140,5 Nuoro
31,5
76,4 Oristano
51,9
98,1 Sassari
58,3
26
Lecco
Lodi
Mantova
Milano
Pavia
Sondrio
Varese
Lombardia
Bolzano
Trento
Trentino
Belluno
Padova
Rovigo
Treviso
Venezia
Verona
Vicenza
Veneto
Gorizia
Pordenone
Trieste
Udine
Friuli
101,4 Emilia
194,6 Arezzo
83,2 Firenze
158,2 Grosseto
115,6 Livorno
58,7 Lucca
178,5 Massa
125,3 Pisa
70,6 Pistoia
74,8 Prato
72,6 Siena
53,9 Toscana
140,7 Ancona
78,2 Ascoli P.
101,0 Macerata
138,1 Pesaro- U.
126,4 Marche
95,0 Frosinone
110,1 Latina
189,2 Rieti
66,7 Roma
279,7 Viterbo
85,3 Lazio
110,0
108,3 Bari
84,3 Brindisi
186,0 Foggia
57,3 Lecce
132,3 Taranto
158,0 Puglia
109,5 Matera
152,7 Potenza
99,9 Basilicata
114,0 Catanzaro
75,6 Cosenza
121,5 Crotone
121,9 Reggio C.
76,8 Vibo Val.
77,8 Calabria
81,0
89,3
107,1
94,5
68,6
194,9
86,4
150,5
96,8 Sardegna
85,5
59,4
66,4 Nord-Ovest
76,1 Nord-Est
77,6 Centro
31,0 Mezzogiorno
43,9
39,5
82,5
65,2
49,4
77,2
101,1
72,4
51,4
115,5
104,0
124,2
74,9
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
Al Centro migliorano Roma, che diventa la seconda provincia meglio dotata di
infrastrutture in Italia, Prato, Pesaro e Ascoli; su livelli elevati si collocano anche Firenze e le
altre province toscane. Nel Mezzogiorno si mostrano sviluppi positivi a Napoli, ma spiccano le
province meno dotate di infrastrutture di tutto il paese come quelle in Molise e Basilicata.
Tabella 2.15 - Indice infrastrutturale nelle province italiane (1997-2000)
Province e
Regioni
Alessandria
Asti
Biella
Cuneo
Novara
Torino
Verbania
Vercelli
Piemonte
Valle d'Aosta
Bergamo
Brescia
Como
Cremona
Lecco
Lodi
Mantova
Totale senza
Province e
porti
Regioni
101,8 Genova
93,3 Imperia
98,3 La Spezia
64,9 Savona
127,1 Liguria
114,5 Bologna
71,5 Ferrara
91,1 Forli'
97,8 Modena
50,6 Parma
114,6 Piacenza
89,9 Ravenna
119,2 Reggio Emilia
97,3 Rimini
110,3 Emilia
202,8 Arezzo
87,0 Firenze
Totale senza Province e
porti
Regioni
166,9 Perugia
99,9 Terni
120,7 Umbria
131,2 Chieti
141,2 L'Aquila
142,8 Pescara
83,8 Teramo
93,7 Abruzzo
102,9 Campobasso
100,5 Isernia
88,1 Molise
120,6 Avellino
86,5 Benevento
149,1 Caserta
108,2 Napoli
82,4 Salerno
175,8 Campania
Province e
Totale
Regioni
85,8 Agrigento
98,3 Caltanissetta
88,9 Catania
81,3 Enna
72,0 Messina
111,3 Palermo
79,4 Ragusa
82,4 Siracusa
57,2 Trapani
55,2 Sicilia
56,5 Cagliari
71,4 Nuoro
73,9 Oristano
87,1 Sassari
131,8 Sardegna
80,1
98,8
27
Totale senza
porti
53,4
54,2
95,5
48,5
96,1
89,4
54,2
62,8
74,5
76,3
58,3
32,9
55,7
49,1
48,6
Milano
Pavia
Sondrio
Varese
Lombardia
Bolzano
Trento
Trentino
Belluno
Padova
Rovigo
Treviso
Venezia
Verona
Vicenza
Veneto
Gorizia
Pordenone
Trieste
Udine
Friuli
177,2 Grosseto
54,0 Bari
108,5 Livorno
125,6 Brindisi
54,5 Lucca
146,4 Foggia
186,2 Massa
106,8 Lecce
132,6 Pisa
128,5 Taranto
66,4 Pistoia
100,0 Puglia
72,6 Prato
134,1 Matera
69,3 Siena
73,7 Potenza
57,6 Toscana
114,7 Basilicata
134,8 Ancona
120,9 Catanzaro
84,9 Ascoli Piceno
80,0 Cosenza
103,9 Macerata
78,3 Crotone
128,1 Pesaro
84,2 Reggio C.
122,5 Marche
90,7 Vibo Valentia
96,4 Frosinone
93,7 Calabria
108,7 Latina
89,4
156,0 Rieti
67,4
71,3 Roma
200,4
247,7 Viterbo
88,6
80,6 Lazio
151,6
102,3
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
94,1
94,7
58,4
74,6
78,6
79,1
45,7
47,8
47,1
82,7
61,3
50,6
85,7
99,0
72,6
Tabella 2.16 - Classifica delle province italiane per l’indice infrastrutturale (1991)
Migliori venti province Indice Tagliacarne
Peggiori venti province
Posizione
porti esclusi
Posizione
1
TRIESTE
279,7
84
CAGLIARI
2
ROMA
194,9
85
FOGGIA
3
LODI
194,6
86
SONDRIO
4
GORIZIA
189,2
87
BENEVENTO
5
FIRENZE
186,0
88
SASSARI
6
GENOVA
183,2
89
SIRACUSA
7
VARESE
178,5
90
GROSSETO
8
MILANO
158,2
91
RAGUSA
9
LUCCA
158,0
92
CAMPOBASSO
10
PISA
152,7
93
BELLUNO
11
RIMINI
151,4
94
AGRIGENTO
12
PADOVA
140,7
95
CALTANISSETTA
13
NAPOLI
140,5
96
ORISTANO
14
BOLOGNA
139,6
97
ENNA
15
SAVONA
138,8
98
CROTONE
16
VENEZIA
138,1
99
ISERNIA
17
LIVORNO
132,3
100
AOSTA
18
NOVARA
132,3
101
POTENZA
19
VERONA
126,4
102
NUORO
20
LA SPEZIA
125,7
103
MATERA
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
Indice
Tagliacarne
porti esclusi
60,6
59,4
58,7
58,6
58,3
58,2
57,3
54,7
54,4
53,9
53,6
53,0
51,9
50,8
49,4
46,8
45,3
43,9
31,5
31,0
28
Tabella 2.17 - Classifica delle province italiane per l’indice infrastrutturale (1997-2000)
Migliori venti province
Posizione
1
TRIESTE
2
LODI
3
ROMA
4
VARESE
5
MILANO
6
FIRENZE
7
GENOVA
8
GORIZIA
9
RIMINI
10
LUCCA
11
BOLOGNA
12
PADOVA
13
PRATO
14
NAPOLI
15
SAVONA
16
PISA
17
VENEZIA
18
NOVARA
19
LIVORNO
20
VERONA
Indice Tagliacarne
Peggiori venti province
porti esclusi
Posizione
247,7
84
SIRACUSA
202,8
85
COSENZA
200,4
86
FOGGIA
186,2
87
CAGLIARI
177,2
88
BELLUNO
175,8
89
CAMPOBASSO
166,9
90
ORISTANO
156,0
91
ISERNIA
149,1
92
SONDRIO
146,4
93
RAGUSA
142,8
94
CALTANISSET.
134,8
95
GROSSETO
134,1
96
AGRIGENTO
131,8
97
AOSTA
131,2
98
CROTONE
128,5
99
SASSARI
128,1
100
ENNA
127,1
101
POTENZA
125,6
102
MATERA
122,5
103
NUORO
Fonte: Istituto Tagliacarne (2002)
Indice
Tagliacarne
porti esclusi
62,8
61,3
58,4
58,3
57,6
57,2
55,7
55,2
54,5
54,2
54,2
54,0
53,4
50,6
50,6
49,1
48,5
47,8
45,7
32,9
29
2.4
Conclusioni
In sintesi, l’analisi quali-quantitativa applicata all’Italia indica l’esistenza di un gap
infrastrutturale rispetto ai Paesi europei più avanzati e di un forte gap infrastrutturale del
Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. E mentre il gap a livello internazionale appare in via di
riduzione, quello intranazionale sembra rimanere su livelli elevati.
In linea teorica, come è stato sottolineato nel capitolo precedente, dovrebbe esistere
una relazione diretta tra livello delle infrastrutture e livello di sviluppo economico (tralasciando,
in prima approssimazione, il problema delle specializzazioni produttive dei vari Paesi o delle
varie regioni). Ne discende che il gap infrastrutturale è tanto più preocuupante quanto minore è
il gap reddituale. Per valutare il gap italiano da questo punto di vista, le figure 2.2 e 2.3
mettono in relazione il PIL pro-capite con l’indice di dotazione infrastrutturale a livello
internazionale e nazionale.
Figura 2.2 – Indice infrastrutturale e PIL pro-capite in Europa
200
Indice di dotazione infrastrutturale
Belgio
Paesi Bassi
150
Germania
Regno Unito
Francia
Danimarca
100
Portogallo
50
Austria
Italia
Spagna
Svezia Irlanda
Finlandia
Grecia
0
14000
16000
18000
20000
22000
24000
26000
PIL pro-capite, parità di potere d'acquisto
All’interno dell’Unione Europea, l’Italia appartiene al gruppo di Paesi con reddito procapite medio alto. Nella Figura 2.2. l’indice infrastrutturale generale (porti esclusi) più recente
(1997-2000) dei paesi europei (ad eccezione del Lussemburgo) viene correlato al PIL procapite, ricalcolato a parità di potere d’acquisto (nel 2000). Si osserva innanzitutto una
relazione positiva fra le due variabili: i Paesi più ricchi hanno anche migliori dotazioni
30
infrastrutturali (anche se naturalmente di per sé la figura non dice nulla sulla relazione di
causalità tra le due variabili). Tuttavia, se si astrae dai tre Paesi più poveri (Grecia, Portogallo e
Spagna) - che sono notevolmente distanziati in termini di reddito medio - la differenza nel
reddito reale degli altri Paesi è minima. E tuttavia sussiste una marcata differenza in termini di
dotazione infrastrutturale, con l’Italia in posizione assai arretrata rispetto agli altri (l’indice
infrastrutturale di Svezia e Finlandia è naturalmente poco significativo a causa delle
caratteristiche di questi due Paesi, molto grandi ma scarsamente popolati). La conclusione è
che tenendo conto del grado di sviluppo economico, il gap infrastrutturale italiano appare
ancora più marcato di quanto rilevino i semplici confronti tra indici. La nota positiva tuttavia è
che tutti gli studi sembrano suggerire che questo gap infrastrutturale si sia parzialmente ridotto
nell’ultimo quarto di secolo.
Un’immagine più negativa e preoccupante emerge se l’analisi viene portata a livello
regionale. Benché le regioni italiane settentrionali si attestino al di sopra della media di
dotazioni infrastrutturali europea (anche se non ai vertici, eccetto per il caso assai positivo della
Liguria), le restanti regioni, ed in particolar modo quelle meridionali, sono tutte al di sotto della
media europea.
Figura 2.3 – Indice infrastrutturale e PIL procapite in Italia
160
Lazio
Liguria
Indice di dotazione infrastrutturale
140
Lombardia
120
Toscana
100
Veneto
Friuli V.G.
Campania
Puglia
Sicilia
80
Emilia R.
Piemonte
Marche
Umbria
Abruzzo
Trentino A.A.
Calabria
60
Molise
Basilicata
Valle D'Aosta
Sardegna
40
10
15
20
25
30
PIL pro-capite
Fonte: Elaborazioni su dati Tagliacarne (1997-2000). PIL pro-capite del 2000
La Figura 2.3. mette in evidenza la correlazione positiva fra reddito pro-capite e indice
infrastrutturale (si tratta dell’indice generale a esclusione della dotazione portuale) in Italia.
31
Fra le regioni virtuose spiccano Liguria, Lazio, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto,
che tra l’altro anche a livello comunitario si attestano nettamente al di sopra della media delle
regioni europee. La Liguria è la regione leader per i porti, il Lazio per gli aeroporti, la
Lombardia per la rete energetica e per quella telefonica e telematica, l’Umbria per la rete
ferroviaria, il Piemonte e la Liguria per la rete ferroviaria. Al Nord, il Trentino Alto Adige e la
Valle d’Aosta hanno un indice di dotazione infrastrutturale al di sotto di quanto stimabile dato il
loro elevato reddito medio, ma, come si è già sottolineato in precedenza, in questo caso
l’indice qualitativo da un’immagine sbagliata della situazione, data la conformazione geografica
di queste regioni e data la loro specializzazione produttiva, fortemente orientata al turismo.
La principale nota positiva nel Mezzogiorno proviene dalla Campania che, nonostante
un reddito medio tra i più bassi fra le regioni italiane, ha una dotazione infrastrutturale
nettamente al di sopra delle altre regioni meridionali. Puglia e Sicilia anche appaiono avre un
livello di infrastrutture maggiore quanto prevedibile secondo la relazione lineare stimata fra
reddito e indice infrastrutturale. Peggiore è invece la situazione di Sardegna, Basilicata e
Molise il cui rapporto infrastrutture/PIL è assai inferiore alla media italiana: queste sono le tre
regioni in cui si evidenzia maggiormente la necessità di interventi migliorativi. La Sardegna ha un
buon sistema portuale ma forti carenze nella rete ferroviaria ed in quella energetica. La
Basilicata è estremamente penalizzata da carenze nel campo di porti e aeroporti, ma si attesta
al di sotto della media italiana in ogni settore infrastrutturale. Il Molise è uniformemente
arretrato in tutti i settori eccezion fatta per quello stradale.
Il dato più preoccupante è che nell’arco degli anni ’90 il gap del Mezzogiorno rispetto
al Nord Italia non sembra sia stato colmato se non in misura trascurabile. Le regioni più
povere, e che quindi necessiterebbero di maggiori investimenti pubblici, restano arretrate nelle
loro dotazioni infrastrutturali. Dati gli elevati spillovers esistenti tra infrastrutture, è molto
probabile che questo danneggi anche il resto del Paese, limitandone crescita e sviluppo
potenziale.
32
3
SPESA PER INVESTIMENTI E VINCOLO DI BILANCIO PUBBLICO
Questo capitolo illustra l’evoluzione degli investimenti pubblici in Italia nel lungo
periodo. Particolare attenzione è dedicata agli avvenimenti degli anni Novanta, nei quali si
rafforza il processo di risanamento della finanza pubblica, in vista dell’Unione Monetaria, e agli
avvenimenti dei primi anni 2000, durante i quali l’obiettivo della politica di bilancio diventa
fondamentalmente quello di rispettare i parametri di Maastricht (rapporto indebitamento/PIL al
3% e riduzione del rapporto debito pubblico/PIL).
L’analisi tende anche a mettere in luce il ruolo fondamentale degli enti locali che
rappresentano il motore degli investimenti pubblici nel nostro Paese.
3.1
Gli investimenti pubblici in Italia
La spesa pubblica, ed in particolare la spesa pubblica per investimenti, ha giocato un
ruolo importante nella fase di forte crescita dell’economia italiana del secondo dopoguerra.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 furono infatti avviati rilevanti programmi di ricostruzione delle
infrastrutture danneggiate dalla guerra – in particolare delle reti stradale e autostradale ma
anche ferroviaria ed energetica – che contribuirono in modo non secondario alla crescita
sostenuta del Paese per un lungo periodo e a ritmi senza precedenti.
La Figura 3.1 illustra il rapporto fra gli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche e il
PIL negli ultimi cinquant’anni. La Figura mette in rilievo il suo andamento altalenante: dopo la
crescita del dopoguerra, la quota della spesa per investimenti sul PIL tende a decrescere nel
corso degli anni Sessanta (durante i quali si registra invece, è opportuno ricordarlo, una
sostenuta crescita delle spese correnti, per l’avvio dei grandi programmi di spesa sociale) per
poi tornare a crescere negli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta. Segue una nuova
fase di declino fino alla ripresa degli anni 2000.
Per gli scopi di questo lavoro, è rilevante concentrare l’attenzione sugli avvenimenti
degli anni Novanta, durante i quali uno degli obiettivi prioritari della politica di bilancio è stato
quello della riduzione del deficit pubblico, attraverso l’aumento della pressione fiscale ma
anche la riduzione del tasso di crescita della spesa pubblica. Come si vedrà in seguito, le
manovre di riequilibrio dei conti pubblici hanno contribuito non poco a quella che si potrebbe
definire la crisi degli investimenti pubblici che si manifesta a metà degli anni Novanta.
Figura 3.1 - Investimenti pubblici in % del PIL
(aggregato delle Amministrazioni Pubbliche)
33
4.0
3.5
3.0
2.5
2.0
55
60
65
70
75
80
85
90
95
00
Fonte: Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico,
Statistiche di finanza pubblica nell’Unione Europea
3.1.1
La crisi degli investimenti pubblici in Italia
Come valutare la drastica riduzione della quota degli investimenti pubblici sul PIL nella
prima metà degli anni Novanta?
Il primo elemento da considerare, come si è detto, è il vincolo di bilancio per l’entrata
nell’Unione Monetaria (poi Patto di Stabilità e Crescita).
La maggior parte dei Paesi europei ha dovuto attuare politiche di riequilibrio dei conti
pubblici e non c’è dubbio che qualche effetto si sia manifestato anche sulle spese
d’investimento, che, per la loro discrezionalità, si prestano maggiormente ad essere compresse,
al contrario delle spese correnti, caratterizzate da un elevato grado di rigidità.
La Figura 3.2 illustra l’evoluzione della quota degli investimenti delle Amministrazioni
Pubbliche sul PIL in Italia e nella media dei quindici paesi dell’Unione Europea, a partire dal
1980. Innanzitutto si osserva che fino al 1993, l’Italia si è caratterizzata per un più elevato
livello di investimenti della P.A. rispetto alla media europea. Con i primi anni ’90 e le prime
consistenti manovre di riduzione del deficit pubblico, si porta al di sotto della media e la quota
degli investimenti della P.A. sul PIL scende a poco più del 2%. Questa riduzione ha comunque
interessato anche gli altri partner europei, al pari dell’Italia impegnati a riequilibrare i conti
pubblici.
Figura 3.2 - Investimenti pubblici in % del PIL
34
(aggregato delle Amministrazioni Pubbliche)
4.0
3.5
Italia
3.0
UE 15
2.5
2.0
80
82
84
86
88
90
92
94
96
98
00
02
Fonte: Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico,
Statistiche di finanza pubblica nell’Unione Europea
Gli effetti delle manovre restrittive di finanza pubblica si manifestano a partire dal 1992,
con i provvedimenti volti dapprima a limitare e poi a congelare, sul finire dell’anno, i pagamenti
dello Stato e degli enti locali (D.L. 333/1992). Questo orientamento si rafforza nel corso del
1993, innanzitutto con la legge finanziaria e poi con i provvedimenti di blocco della spesa
(D.L. 155/1993), con conseguente raffreddamento della capacità d’investimento di tutti gli enti
del comparto delle Amministrazioni Pubbliche. Il 1994 è ancora un anno di ridimensionamento
degli investimenti pubblici, non solo a causa della manovre finanziarie ma anche per effetto del
cosiddetto fenomeno di Tangentopoli, legato, come è noto, alle vicende giudiziarie dell’inizio
degli anni ’90 in materia di appalti pubblici e che, per un certo tempo, hanno bloccato,
direttamente o indirettamente, parte dell’attività di investimento degli enti dell’amministrazione
pubblica. Ad esempio, si legge nella Relazione Generale sulla situazione economica del Paese
del 1994 “…. La presenza nei primi mesi dell’anno di difficoltà operative connesse con
l’entrata in vigore delle nuove disposizioni concernenti la stipulazione e l’esecuzione dei
contratti pubblici – legge 537/1993 – nonché della nuova regolamentazione delle
procedure finalizzate all’appalto delle opere pubbliche – legge 109/1994 – ha
determinato una forte caduta degli investimenti nel primo semestre dell’anno in quasi
tutti i livelli istituzionali. Tale ridimensionamento non ha trovato adeguata
compensazione nel secondo semestre, nonostante la sospensione della normativa
operata dal Governo all’atto del suo insediamento nell’ambito del pacchetto di misure
di rilancio dell’attività d’investimento, in attesa di una revisione organica dell’intera
35
materia atta ad assicurare la trasparenza delle procedure e a consentire il rapido
svolgimento dell’attività amministrativa unitamente al contenimento dei costi”.
Tabella 3.1 - Investimenti pubblici in % del PIL
per alcuni paesi europei (1990-2002)
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002
ITALIA
BELGIO
GERMANIA
S PAGNA
FRANCIA
IRLANDA
S VEZIA
REGNO UNITO
3,3
1,3
2,3
4,9
3,6
2
2,4
2,6
3,2
1,4
2,6
4,8
3,5
2,1
2,3
2,4
3
1,5
2,8
4
3,5
2
2,7
2,3
2,6
1,6
2,7
4,2
3,2
2,1
1,1
2,1
2,3
1,7
2,6
4
3,2
2,3
3
2
2,1
1,8
2,3
3,7
3,3
2,3
3,4
2
2,2
1,6
2,1
3,1
3,2
2,4
3
1,5
2,2
1,6
1,9
3,1
3
2,5
2,7
1,2
2,4
1,6
1,9
3,3
2,9
2,7
2,7
1,2
2,4
1,8
1,9
3,4
3
3,2
3,2
1,1
2,4
1,8
1,8
3,1
3,2
3,7
2,9
1,1
2,5
1,5
1,7
3,2
3,2
4,6
3
1,2
1,8
1,6
1,6
3,3
3,1
4,4
3,3
1,3
Fonte: Banca d’Italia.
Nota: questi dati non tengono conto delle dismissioni effettuate in Italia nel 2001 e 2002
L’effetto delle manovre di contenimento è riscontrabile anche guardando agli
stanziamenti per opere pubbliche riportati nella Figura 3.3, con la riduzione degli stanziamenti e
delle autorizzazioni di cassa tra il 1993 e il 1995.
Figura 3.3 - Stanziamenti per Opere Pubbliche (dati in milioni di Euro)
Fonte: elaborazioni ANCE
70000
60000
50000
40000
30000
20000
Competenza
Residui passivi
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
0
1990
10000
Autorizzazione di cassa
36
A partire dal 1995, la fase di declino degli investimenti pubblici sembra superata, sia
per la riattivazione dei programmi d’investimento sia per il consolidarsi delle nuove procedure
finalizzate all’appalto delle opere pubbliche ed alla stipulazione ed esecuzione dei contratti
pubblici. La quota degli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche sul PIL riprende a
crescere e i primi anni 2000 mostrano che l’Italia si è riportata al di sopra della media
europea.
Va sottolineato che gli investimenti delle Amministrazioni Pubbliche non coincidono
con il totale degli investimenti pubblici, che comprendono anche quelli spesso rilevanti di
imprese di proprietà pubblica, particolarmente numerose ed attive in Italia, più che in molti altri
paesi europei. Tuttavia i dati sulle Amministrazioni Pubbliche sono quelli che consentono
confonti temporali omogenei
Resta infatti difficile ricostruire l’ammontare esatto di investimenti del settore pubblico
allargato, perché i dati sono influenzati dalle numerose trasformazioni dell’aggregato di
riferimento. Ad esempio, nel luglio del 1992 è avvenuta la trasformazione dell’ENEL in società
per azioni; il 1993 è stato un anno caratterizzato dalla trasformazione in società per azioni delle
aziende autonome dei Telefoni e dei Monopoli e dell’Ente Ferrovie dello Stato e dalla
soppressione dell’Agenzia per lo sviluppo per il Mezziogiorno e del connesso Dipartimento.
Dal 1994 fuoriesce dal settore pubblico anche l’Amministrazione delle Poste e
Telecomunicazioni in seguito alla trasformazione in ente pubblico economico.
Tabella 3.2 - Spesa per investimenti delle imprese pubbliche 1990-2003
(milioni di euro)
1998 1999 2000 2001 2002 2003
Imprese a partecipazione
3.771 3.557 2.335 2.451 2.252 2.597
statale
3.025 2.918 2.416 2.847 3.559 2.959
ENEL
2.647 2.607 3.637 4.698 5.466 6.957
Ferrovie
261
350
406
649
564
483
Poste
3.134 3.452 3.760 4.066 4.522 4.100
Imprese pubbliche locali
12.839 12.884 12.554 14.711 16.363 17.096
TOTALE
Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
La Tabella 3.2 e la Figura 3.4 forniscono comunque una panoramica, sia pure parziale,
relativa agli investimenti delle imprese a partecipazione statale, ad ENEL, Ferrovie, Poste ed
altre imprese pubbliche locali. I loro investimenti crescono negli ultimi quattro anni,
evidenziando uno sforzo nella direzione del potenziamento delle infrastrutture. In particolare, è
da rilevare la forte crescita degli investimenti delle Ferrovie, in seguito all’approvazione del
Piano d’impresa 2000-2003, rivolti sia al potenziamento della rete tradizionale sia alla
realizzazione della nuova rete “Alta Velocità/Capacità”.
Come mostrato nella Figura 3.4, se si tiene conto anche degli investimenti di questi
enti, si arriva nel 2003 a circa il 5,5% del PIL.
37
Figura 3.4 - Spesa per investimenti delle imprese pubbliche 1998-2003 (% su PIL)
6%
5%
Impr. Part.Stat.
4%
ENEL
Ferrovie
3%
Impr Pubbl Loc
Impr Pubbl Tot
2%
Pubbl Amm
Totale
1%
0%
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese, Ministero dell’Economia e
delle Finanze, vari anni
3.2
Investimenti delle Amministrazioni Pubbliche in Italia per livelli di Governo e
settore di intervento
In questo paragrafo gli investimenti pubblici vengono analizzati con particolare
attenzione alla loro composizione per livello di governo, anche al fine di tentare di valutare
l’impatto delle politiche di riequilibrio delle finanze pubbliche sui diversi comparti di enti
territoriali.
L’attenzione va concentrata sugli investimenti diretti dell’Amministrazione Centrale
(AC), ovvero lo Stato, l’Ente Nazionale per le Strade (ANAS) e altri Enti dell’AC,10 nonché
degli Enti di previdenza, su quelli ancora più rilevanti delle Amministrazioni Locali (AL) quali
Regioni, Province, Comuni, Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere ed altri Enti dell’AL11.
Le Tabelle 3.3. e 3.4 illustrano il livello e la quota sul PIL degli investimenti delle
Amministrazioni Pubbliche dal 1990 al 200312, ripartiti per ciascun comparto della P.A., e
mostrano che la crisi degli investimenti di cui si è discusso nel paragrafo precedente ha
riguardato sia gli enti dell’amministrazione centrale che gli enti locali. La stessa considerazione
vale per la ripresa dell’attività d’investimento a partire dal 1995.
10
Come ENEA, CNR, INFN, CONI e la Croce Rossa Italiana.
Come gli enti di sviluppo agricolo, le camere di commercio, gli enti provinciali del turismo, gli Enti lirici, le
Università…
12
Occorre precisare che i dati sono tratti dalla Relazione Generale più recente; essi quindi possono non
coincidere con i dati della stessa Relazione generale di anni precedenti, a causa delle normali revisioni e
aggiustamenti nei conti di contabilità nazionale. Va anche precisato che i dati seguono lo schema contabile
SEC 95.
11
38
Le Figure 3.5 e 3.6 mettono invece in evidenza che gli enti locali sono stati la forza
trainante degli investimenti pubblici, con una quota che è andata lentamente crescendo nel
corso degli anni ’90 e sembra essersi stabilizzata negli anni più recenti intorno al 75%.
Per ciò che concerne il contributo dei vari comparti (Figure 3.7 e 3.8), non si rilevano
grandi modificazioni tra il 1990 e il 2003, eccetto per un leggero aumento delle spese di
Province e Comuni e dello stesso Stato, sebbene a scapito degli altri enti dell’Amministrazione
Centrale.
Se si guarda all’evoluzione degli investimenti in termini reali (nella Figura 3.9 è stato
utilizzato il deflatore degli investimenti di contabilità nazionale), si registra una ripresa tra il 1995
e il 1999, più modesta invece negli anni 2000.
Un ultimo aspetto di interesse concerne i settori di intervento per livelli di governo, la
distribuzione territoriale della spesa e le spese medie pro-capite, che vengono analizzati sulla
base dei dati più recenti.
Le informazioni relative al 2003 indicano, come si è visto, che gli investimenti
complessivi delle Amministrazioni Pubbliche si attestano sui 37 miliardi di euro, il 2,85% del
PIL (si è depurato il risultato dall’effetto delle dismissioni tramite operazioni
Tabella 3.3 - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (milioni di Euro)
1990
5621
2573
2133
915
1991
6638
2945
2741
951
1992
6408
2716
3049
643
1993
5890
2561
2708
621
1994
5307
2726
2121
459
1995
4832
3006
1452
374
1996
5487
3882
1271
334
15246
2541
9286
1225
2195
15670
2740
9256
1241
2433
15223
2721
9218
1056
2228
14194
2550
8587
936
2121
13532
2177
8446
804
2106
14193
2226
9293
989
1685
15278
2405
10386
1051
1437
1405
1744
1835
1137
731
1025
976
22272
24051
23466
21220
19570
20050
21740
1997
5837
3961
1519
356
1998
6837
4907
1585
344
1999
6970
5263
1384
322
2000
6903
4845
1680
378
2001
7793
5389
1905
499
2002
8095
5746
1938
411
2003
8995
7156
1471
368
15278
2389
11624
1253
1427
16693
2418
12901
1637
1417
18372
2485
14827
1680
1513
20505
3090
13581
2119
1761
20551
3985
15156
1853
1996
22990
4677
15965
1750
2156
24548
5038
17276
1835
2044
473
498
559
353
-587
-8875
3800
8800
23003
25707
28034
27807
33996
32568
Fonte: Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
-760
2700
37128
Amministrazioni Centrali
Stato
ANAS
Altri Enti A.C.
Amministrazioni Locali
Regioni
Province e Comuni
Az. San. e Osped. Loc.
Altri Enti A.L.
Enti Previdenziali
Dismissioni
Totale
Amministrazioni Centrali
Stato
ANAS
Altri Enti A.C.
Amministrazioni Locali
Regioni
Province e Comuni
Az. San. e Osped. Loc.
Altri Enti A.L.
Enti Previdenziali
Dismissioni
Totale
39
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
di cartolarizzazione degli immobili registrate da alcuni enti ed in particolare gli Enti di
previdenza). Di questi, il 24% circa, poco meno di 9 miliardi di euro, deriva dalle decisioni
delle Amministrazioni Centrali; la parte più cospicua è invece rappresentata dagli investimenti
degli enti territoriali, soprattutto comuni e province (circa il 46% del totale).
Per quanto riguarda gli investimenti dello Stato, il 40% circa si è concentrato nel
settore della Difesa; la parte restante ha riguardato i trasporti per vie d’acqua, le attività
culturali, le opere igienico-sanitarie13.
In relazione alle Regioni, il 30% degli investimenti ha riguardato opere pubbliche, il
10% opere per la viabilità e altrettanto per uffici e per gli acquedotti, il 6% la difesa della
salute.
Tabella 3.4 - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (% PIL)
Amministrazioni Centrali
Stato
ANAS
Altri Enti A.C.
Amministrazioni Locali
Regioni
Provincie e Comuni
Az. San. e Osped. Loc.
Altri Enti A.L.
Enti Previdenziali
Dismissioni
Totale PA
1990
0,82
0,38
0,31
0,13
1,17
0,20
1,36
0,18
0,32
0,21
3,26
1991
0,97
0,43
0,37
0,13
1,20
0,21
1,24
0,17
0,33
0,23
3,23
1992
0,94
0,40
0,39
0,08
1,17
0,21
1,18
0,13
0,28
0,23
2,99
1993
0,86
0,38
0,34
0,08
1,09
0,20
1,06
0,12
0,26
0,14
2,63
1994
0,78
0,40
0,25
0,05
1,04
0,17
0,99
0,09
0,25
0,09
2,29
1995
0,71
0,44
0,16
0,04
1,09
0,17
1,01
0,11
0,18
0,11
2,17
1996
0,80
0,57
0,13
0,03
1,17
0,18
1,06
0,11
0,15
0,10
2,21
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Amministrazioni Centrali
0,86
1,00
1,02
1,01
1,14
1,19
1,32
Stato
0,58
0,72
0,77
0,71
0,79
0,84
1,05
ANAS
0,15
0,15
0,12
0,14
0,16
0,15
0,11
Altri Enti A.C.
0,03
0,03
0,03
0,03
0,04
0,03
0,03
Amministrazioni Locali
1,28
1,41
1,58
1,58
1,77
1,89
2,01
Regioni
0,18
0,19
0,19
0,24
0,31
0,36
0,39
Provincie e Comuni
1,13
1,20
1,34
1,16
1,24
1,27
1,33
Az. San. e Osped. Loc.
0,12
0,15
0,15
0,18
0,15
0,14
0,14
Altri Enti A.L.
0,14
0,13
0,14
0,15
0,16
0,17
0,16
Enti Previdenziali
0,05
0,05
0,05
0,03 - 0,05 - 0,70 - 0,06
Dismissioni
0,31
0,70
0,21
Totale PA
2,24
2,40
2,53
2,38
2,79
2,58
2,85
Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
13
Circa 2 miliardi di euro concernono gli investimenti effettuati dalla P.C.M., dalla Corte dei Conti, dai
T.A.R. e dalle Agenzie Fiscali.
40
Figura 3.5. - Spesa pubblica per investimenti 1990-2003 (% PIL)
2,5%
2,0%
1,5%
1,0%
0,5%
0,0%
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Amm. Centr.
Amm. Loc.
Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
Figura 3.6 - Investimenti delle Amministrazioni locali
(percentuale sul totale di Amministrazioni Locali e Centrali)
19
90
19
91
19
92
19
93
19
94
19
95
19
96
19
97
19
98
19
99
20
00
20
01
20
02
20
03
76,0
75,0
74,0
73,0
72,0
71,0
70,0
69,0
68,0
67,0
Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
I Comuni hanno effettuato investimenti soprattutto nei settori della viabilità (strade,
ponti ed altre opere), delle opere idriche e igienico-sanitarie.
Per ciò che concerne la distribuzione territoriale degli investimenti, gli investimenti delle
Regioni si sono concentrati al Nord, per il 45% circa, al Centro per il 7% e al Sud per il
restante 48%. Le Regioni a statuto speciale sono quelle che hanno dimostrato una maggiore
capacità di spesa, con il 61% degli investimenti complessivi. In termini di spesa pro-capite, gli
investimenti medi delle Regioni sono ammontati a circa 68 euro, ma con rilevanti differenze tra
le diverse aree geografiche: a fronte dei 127 euro del Nord-Est, si rilevano i 92 euro del
41
Mezzogiorno, mentre il Centro e il Nord-Ovest sono i fanalini di coda con 24 e 27 euro
rispettivamente.
Figura 3.7 - Composizione degli investimenti pubblici
dell’Amministrazione Centrale e Locale, 1990
Altri Enti
A.L.
Az. San. e
Osped.
Loc.
Stato
ANAS
Altri Enti
A.C.
Regioni
Provincie e
Comuni
Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
Comuni e Province hanno effettuato investimenti al Nord per circa il 51% del totale, al
Centro per il 18,5% e al Sud per il 30,1%. I Comuni hanno effettuato investimenti per circa
236 euro pro-capite nella media nazionale; le Province per circa 52 euro. Anche in questo
caso, si osserva una forte disuguaglianza territoriale, che vede il Nord-Est in testa (409 euro),
seguito dal Nord-Ovest (329 euro), dal Centro (302 euro) e dal Sud (263 euro).
Figura 3.8 - Composizione degli investimenti pubblici
dell’Amministrazione Centrale e Locale, 2003
Altri Enti
A.L.
Az. San. e
Osped.
Loc.
Stato
Altri Enti
A.C.
ANAS
Provincie e
Comuni
Regioni
Fonte: Elaborazioni su Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
42
Figura 3.9 - Spesa pubblica reale per investimenti 1995-2003
(milioni di Euro 1995)
35000
30000
25000
20000
15000
10000
5000
0
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
Amm. Centr.
Amm. Loc.
Pubbl. Amm. Tot.
Fonte: Elaborazione su dati Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese,
Ministero dell’Economia e delle Finanze, vari anni
3.3
Conclusioni
La spesa per investimenti pubblici (investimenti delle Amministrazioni Pubbliche) in
Italia mostra un andamento discontinuo nel corso del tempo. Al trend decrescente, dopo il
boom del dopoguerra, si contrappone una fase di crescita che dura fino alla metà degli anni
’80. Si osserva poi un periodo di declino, anche marcato, dovuto in buona parte alle manovre
di contenimento del deficit pubblico, con la riduzione dell’ammontare di risorse destinate ai
progetti d’investimento. A partire dal 1995, inizia una fase di lenta ripresa, che è ancora in
atto. Questo scenario è comune anche agli altri Paesi europei, impegnati come l’Italia nel
rispetto dei vincoli derivanti dall’entrata nell’Unione Monetaria.
La crisi, dapprima, e la ripresa, poi, hanno riguardato tutti i livelli di governo coinvolti,
amministrazioni centrali ed enti locali. Questi ultimi, in particolare i Comuni, sono gli enti dai
quali origina la quota più rilevante di investimenti, con una spesa media pro-capite di 236 euro
nel 2003. Ciò spiega anche il dibattito che si è acceso intorno al loro diretto ed esplicito
coinvolgimento nel rispetto dei vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita, sottoscritto in
sede europea, con l’introduzione del Patto di stabilità interno.
Al Patto di stabilità interno è dedicato il prossimo capitolo, al fine di mettere in luce i
suoi effetti sui comportamenti di spesa degli enti territoriali ed in modo particolare sulle spese
d’investimento.
43
4
L PATTO DI STABILITÀ INTERNO ED IL SUO IMPATTO SULLA SPESA
PER INVESTIMENTI PUBBLICI
Questo capitolo è dedicato al Patto di stabilità interno introdotto in Italia sul finire del
1998, al fine di coinvolgere in modo esplicito e diretto gli enti territoriali nel rispetto delle
regole imposte dal Patto di Stabilità e crescita europeo. In particolare, viene innanzitutto fornita
una panoramica sugli analoghi strumenti utilizzati nei principali Paesi europei. Il secondo
paragrafo illustra e discute in dettaglio l’evoluzione del Patto in Italia, con riferimento ai suoi
aspetti essenziali, quali la definizione degli obiettivi, il sistema di monitoraggio, i meccanismi di
sanzioni e incentivi. Il terzo paragrafo fa un primo punto sui risultati raggiunti, sulla base delle
(non molte) informazioni disponibili. Il capitolo si chiude con una valutazione degli effetti del
Patto sulla spesa per investimenti pubblici.
4.1
Le origini del Patto in Italia e in Europa
Il Patto di stabilità interno (PSI) è stato introdotto in Italia con la Legge finanziaria per il
1999, legge 448/1998, che all’art.28 recita: “nel quadro del federalismo fiscale, …le
regioni, le province autonome, le province, i comuni e le comunità montane concorrono
alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha adottato con
l’adesione al patto di stabilità e crescita, impegnandosi a ridurre progressivamente il
finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il rapporto tra il proprio
ammontare di debito e il prodotto interno lordo”.
Esso è nato dunque, come sottolineano Balassone e Franco [2001] da esigenze “di
coordinamento tra i comportamenti finanziari dei vari livelli di governo”, al fine di
“evitare che i governi decentrati si comportino da free-riders”, dal momento che l’unico
responsabile per il rispetto degli impegni europei è il governo centrale, ma i governi regionali e
locali possono contribuire in modo significativo a determinare il disavanzo complessivo delle
amministrazioni pubbliche, il riferimento assunto nei trattati internazionale. Il problema è
potenzialmente tanto più rilevante quanto maggiore è la quota di spesa pubblica che gli enti
decentrati si trovano a gestire.
Queste esigenze di coordinamento sono state avvertite anche in altri Paesi europei,
caratterizzati anch’essi da un elevato grado di decentramento finanziario. La maggior parte dei
paesi ha adottato provvedimenti volti ad accrescere il grado di controllo del governo centrale
sulla finanza locale e le soluzioni adottate14 hanno caratteristiche differenti, a seconda dei
meccanismi introdotti per incentivare i livelli inferiori di governo a rispettare le regole di
bilancio. Va comunque sottolineato che l’art. 104 del Trattato della Comunità Europea e le
Risoluzioni del 1997, che hanno introdotto il Patto di stabilità e crescita (PSC), non
contengono nessun esplicito riferimento ai livelli di governo sub-centrali; non esiste dunque
alcun obbligo formale per i paesi membri di adottare regole e procedure che limitino la
formazione dei disavanzi dei governi regionali e locali.
14
Sulle possibili configurazioni del patto di stabilità interno si vedano Balassone, Franco e Zotteri [2002]
44
Prima di analizzare in dettaglio l’esperienza italiana, è utile avere come punto di
riferimento qualche informazione sull’esperienza degli altri partner europei. In linea generale si
possono rilevare, OECD [2002], due approcci al problema: quello cosiddetto cooperativo e
quello delle regole fiscali, stabilite attraverso disposizioni di legge. Con il primo, caratterizzato
da un elevato grado di flessibilità, il contributo dei diversi livelli di governo al rispetto della
disciplina fiscale è determinato sulla base di un processo partecipativo e le decisioni in materia
coinvolgono tutti i soggetti interessati. Il secondo approccio, con il contributo dei diversi enti
territoriali stabilito per legge, si caratterizza per un elevato grado di rigidità e, almeno ex ante,
potrebbe sembrare più efficace. In realtà, nell’uno e nell’altro caso, le possibilità di successo
sono affidate alla corretta applicazione di meccanismi di sanzioni e di incentivi.
Nel panorama europeo, si rifanno all’approccio cooperativo Austria, Belgio, Germania
e Olanda; seguono il secondo approccio Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Paesi
Scandinavi.
In particolare, l’Austria, dove la responsabilità per il rispetto del PSC è del Ministro
delle Finanze, nel 1999 ha adottato un esplicito PSI modellato su quello europeo, con il quale
vengono fissati gli obiettivi di bilancio per ogni livello di governo (federazione, lander e comuni)
fino al 2004. I Comuni, nel loro insieme, devono realizzare il pareggio di bilancio entro il 2004,
mentre le Regioni, sempre in aggregato, devono produrre un surplus annuale pari almeno allo
0,75% del PIL. È inoltre consentito “scambiare” i risultati di bilancio programmati, nel senso
che un disavanzo più basso di quello richiesto dal PSI di un certo ente può essere utilizzato per
compensare il disavanzo più elevato programmato per un altro ente. Mancano espliciti
riferimenti al finanziamento degli investimenti pubblici. Il PSI austriaco prevede, al pari del
PSC, l’applicazione di sanzioni e procedure nel caso di mancata realizzazione degli obiettivi
programmati. Gli enti che non rispettano il PSI devono depositare presso la Banca Centrale
somme corrispondenti ad una certa quota del contributo al PSI che vengono restituite se i
risultati migliorano entro un anno, altrimenti sono distribuite tra gli enti che hanno rispettato il
Patto. Le sanzioni sono tuttavia soggette alla decisione unanime delle parti interessate e non si
applicano se il bilancio pubblico complessivo è in pareggio oppure se il mancato rispetto degli
obiettivi dipende da modifiche delle regole di contabilità o da riduzioni delle entrate dipendenti
da decisioni della Corte Suprema. Un aspetto interessante collegato all’introduzione del PSI è
la costituzione di Commissioni di coordinamento verticale e orizzontale. Nella “Commissione
verticale” sono coinvolti i rappresentanti dei tre livelli di governo – nazionale, regionale e
locale; nelle “Commissioni orizzontali”, una per ciascuno dei nove Bundesland; e i
rappresentanti dei governi regionali e locali discutono le politiche intra-regionali. Le
Commissioni hanno competenza per discutere i problemi della gestione del bilancio ma anche
gli obiettivi ed i programmi di breve e medio periodo. Sembra che questa esperienza,
soprattutto a livello locale, abbia accresciuto la capacità di coordinamento della finanza dei
diversi livelli di governo ed abbia anche introdotto maggiore informazione e trasparenza nel
processo di bilancio.
In Belgio, il Superior Finance Council (SFC) coordina la finanza centrale e la finanza
locale, in un contesto di procedure di bilancio caratterizzate da un elevato grado di
complessità, che discende dalla stessa complessità dell’assetto istituzionale. Nel Paese, ci sono
infatti il Governo federale, tre Regioni (Fiamminga, Valloni e Bruxelles, che hanno competenza
sui problemi in campo economico), tre Comunità (Fiamminga, Francese e Tedesca, che hanno
45
competenza nel campo dei servizi alla persona, quali cultura, istruzione, salute pubblica), dieci
province e 589 comuni. Da essi derivano due “entità di bilancio pubblico”: la prima
comprende il Governo federale e i Sistemi di sicurezza sociale; la seconda comprende le
Comunità e le Regioni (e i Governi locali). L’SFC ha un mandato parlamentare per monitorare
il rispetto degli impegni del PSC da parte di tutti i livelli di governo. Non esiste un vero e
proprio Patto di stabilità interno, anche se il SFC fissa, in termini assoluti, per ciascun governo
della prima entità l’ammontare di surplus da realizzare o l’ammontare massimo di
indebitamento. Ciascuna Comunità e Regione deve annualmente predisporre il suo programma
di stabilità pluriennale, dove specifica quali azioni intende intraprendere per raggiungere gli
obiettivi indicati dal SFC. A loro volta, le Regioni, che sovrintendono alla Province e ai
Comuni, si impegnano a far sì che questi realizzino gli obiettivi di bilancio loro assegnati. Gli
impegni delle varie entità di bilancio sono formalizzati in accordi tra il Governo federale da una
parte e le Comunità dall’altra15. Non sono infine previste sanzioni per gli enti che non realizzano
gli obiettivi programmati, ma il Governo federale può, per legge, limitare l’indebitamento delle
regioni per un periodo di due anni. I governi regionali invece hanno il compito di monitorare il
bilancio dei comuni e, in caso di necessità, il potere di imporre tagli alle spese e aumenti di
entrate. Come sottolineano Plasschaert e Pochet [2004], … the rather original mechanism
of the intervention by the SFC, and related fiscal contracts with multiple budgetary
authorities, has been highly useful, and even essential, in piloting the complex vessel of
the Belgian public sector, with its mant layers of government, towards the fulfiment of
the commitments of Belgium stemming from the Stability Pact.
In Germania l’adozione del PSI risale al 2002, dopo l’approvazione nel 2001 della
nuova “Law of budgetary principles”, nella quale viene esplicitamente riconosciuto che tutti i
livelli di governo devono sopportare la responsabilità del rispetto del PSC. Il PSI viene
introdotto in un contesto di finanza pubblica insoddisfacente, determinato anche dal rilevante
contributo dei governi locali alla formazione del deficit complessivo, per circa la metà del
totale. Il patto viene in qualche misura subito dai Lander, in linea di principio contrari
all’introduzione di regole di bilancio vincolanti, viste come una perdita della loro autonomia di
bilancio. La nuova procedura di bilancio prevede che il deficit complessivo consentito sia
diviso in proporzione tra i diversi livelli di governo: il 55% del disavanzo totale può essere
utilizzato dal Lander e dai governi locali; il restante 45% può essere utilizzato dal governo
federale, che deve però finanziare anche la sicurezza sociale. Il bilancio programmatico per il
2004 prevede inoltre limiti alla crescita della spesa pubblica, pari allo 0,5% per il governo
federale e all’1% per il Lander e gli enti locali. Il PSI tedesco non prevede espliciti meccanismi
sanzionatori a carico degli enti indempienti. Infine, la maggior parte dei Lander ha adottato una
sorta di golden rule, per cui i comuni possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare
spese di investimento, a condizione che che ci sia l’approvazione del governo regionale.
In Spagna, nel 2001 è stata approvata la General law of budgetary stability, con
effetti a partire dal 2003. Essa obbliga tutti i livelli di governo (compresi i programmi di
sicurezza sociale e le imprese pubbliche) a produrre un bilancio in pareggio o in surplus.
15
Nel dicembre 2000 fu concluso un accordo con gli obiettivi di bilancio per il periodo 2001-2005. La
Comunità Fiamminga, che ha il bilancio più consistente, deve realizzare un surplus di bilancio, le altre
Comunità non devono superare un certo ammontare di disavanzo.
46
L’indebitamento è consentito ai governi regionali solo per finanziare spese in conto capitale16.
In caso di disavanzo, la legge prevede che l’ente interessato presenti un piano finanziario di
riduzione del deficit, che deve essere approvato dal Fiscal and Financial Policy Council;
l’equilibrio di bilancio deve essere ripristinato in un arco di tre anni e il raggiungimento degli
obiettivi è controllato dal governo centrale. In caso di sanzioni comminate alla Spagna
nell’ambito del Patto di stabilità e crescita, l’onere deve essere sopportato dagli enti
responsabili del deficit.
Infine, in Francia agli enti locali non è consentito produrre disavanzi di gestione ed essi
possono indebitarsi solo per finanziare spese d’investimento. Se un ente locale non rispetta le
disposizioni legislative, la Chamber of Accounts a livello regionale propone le appropriate
misure fiscali al governo locale, al fine di ristabilire l’equilibrio di bilancio.
4.2
Il Patto di stabilità interno in Italia
Come è stato sopra ricordato, il PSI è stato introdotto perché gli enti territoriali
contribuiscano al conseguimento degli obiettivi di disavanzo che il Governo centrale si impegna
a rispettare in sede europea (e che vengono resi espliciti nel Programma di Convergenza che
ogni anno viene presentato alla Commissione europea). Agli enti territoriali viene dunque
richiesto il miglioramento del saldo di bilancio, ovvero un aumento dell’avanzo o una riduzione
del disavanzo. La misura del miglioramento viene annualmente definita attraverso al legge
finanziaria, che, unitamente alle successive circolari, indica anche le modalità di calcolo del
disavanzo da prendere come punto di partenza per ottenere il saldo obiettivo, rispetto al quale
valutare ex-post la performance degli enti soggetti al Patto17.
Per ciò che concerne quest’ultimo aspetto, le disposizioni legislative sul PSI hanno
fatto riferimento a diverse nozioni di saldo di bilancio:
• il saldo “Patto”
• il saldo tendenziale (per il 1999 e per il 2000)
• il saldo obiettivo (per il 1999 e per il 2000)
• il saldo programmatico (a partire dal 2001)
Si tratta di una questione rilevante non tanto sotto il profilo operativo quanto dal punto
di vista della natura più o meno stringente del vincolo così introdotto dal PSI sui
comportamenti finanziari degli enti locali.
16
È prevista un’autorizzazione da parte del Ministro delle Finanze se la spesa annuale per il servizio del
debito eccede il 25% delle entrate correnti; il governo centrale può inoltre introdurre ulteriori vincoli
all’indebitamento dei governi locali per ragioni di politica e stabilità macroeconomica.
17
Per il triennio 1999-2001, la legge finanziaria per il 1999 aveva previsto un impegno da parte degli enti
locali a perseguire anche l’obiettivo della riduzione del rapporto tra il proprio ammontare di debito e il Pil,
pur senza imporre obiettivi quantitativi precisi. Le versioni successive del Patto non forniscono più
indicazioni in relazione al debito.
47
4.2.1
Il saldo di bilancio rilevante per il PSI (Saldo Patto)
Il saldo di riferimento, rispetto al quale fissare gli obiettivi, cosiddetto “saldo Patto”, è
definito annualmente dalla legge finanziaria e dalle circolari esplicative, per i diversi enti
coinvolti. Le regole di calcolo del saldo di riferimento sono cambiate nel tempo, per varie
ragioni, come illustrano le Tavole 4.1, 4.2 e 4.3, riferite rispettivamente alle Regioni, alle
Province, ai Comuni.
Sembra allora opportuno richiamare alcune questioni concernenti la definizione di
questo saldo.
Un primo aspetto riguarda la natura dei flussi finanziari da considerare, ovvero se
considerare i flussi di competenza (accertamenti di entrata ed impegni di spesa) oppure quelli
di cassa (riscossioni e pagamenti, in conto competenza e in conto residui). Il saldo rilevante
per il Patto di stabilità e crescita sottoscritto in sede europea, l’indebitamento netto delle
Amministrazioni Pubbliche, è un saldo di competenza. Al contrario, il saldo rilevante per il
PSI è un saldo di cassa. Questa scelta è stata dettata, anche ai fini dell’attività di
monitoraggio, dal fatto che i dati di cassa sono più immediatamente disponibili rispetto a quelli
di competenza. La legge finanziaria per il 2002 ha tuttavia aggiunto un vincolo anche sulla
competenza (sugli impegni di spesa), con l’obiettivo rendere più incisiva l’azione di
contenimento della spesa pubblica.
In secondo luogo, l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche include sia le
spese per interessi passivi sia le spese in conto capitale. Al contrario, queste sono attualmente
escluse dal saldo di riferimento per il PSI. Questo, per due ragioni. La prima concerne
l’intenzione di non introdurre disincentivi agli investimenti, che rappresentano la spesa più
facilmente comprimibile e dunque più potenzialmente soggetta a “tagli” per esigenze di
bilancio18. La seconda ragione è collegata al profilo temporale dei pagamenti per spese di
investimento, che possono concentrarsi in un esercizio particolare e alterare in misura
significativa i risultati di quel particolare esercizio. Questo punto era stato oggetto di
chiarimento esplicito da parte del Ministero del Tesoro:”poiché le spese da utilizzare per il
computo del disavanzo finanziario non includono le spese in conto capitale … il patto di
stabilità interno non sottopone ad alcun vincolo le spese per investimenti che possono
essere finanziate con mutui nel rispetto delle regole pre-vigenti alla legge finanziaria per
il 1999. Si consideri inoltre che gli eventuali maggiori interessi passivi non incidono sul
saldo finanziario in quanto si utilizzano le sole spese correnti al netto degli interessi” 19.
Queste ragioni sembrano avere perduto la loro validità, dal momento che la legge
finanziaria per il 2003 ha disposto che “…A decorrere dall'anno 2005, per ciascuna
provincia e per ciascun comune con popolazione superiore a 5.000 abitanti, il disavanzo
finanziario utile ai fini del rispetto delle regole del patto di stabilità interno è calcolato,
sia per la gestione di competenza che per quella di cassa, quale differenza tra le entrate
finali e le spese finali. …”20. È vero che in tal modo il parametro di riferimento del PSI si
18
Su questo punto si era sviluppato un ampio dibattito parlamentare, come è documentato in Giarda e
Goretti [2001].
19
Si veda “Il Patto di stabilità interno”, Nota a cura del Sottosegretario al Tesoro Prof. Piero Giarda
20
Nel disavanzo finanziario non sono considerati: a) i trasferimenti, sia di parte corrente che in conto
capitale, provenienti dallo Stato, dall'Unione europea e dagli enti che partecipano al patto di stabilita'
48
avvicinerebbe a quello europeo, ma porrebbe quei problemi di disincentivo agli investimenti cui
si accennava sopra. La questione non dovrebbe riguardare le Regioni, per le quali i vincoli sul
saldo di bilancio sono stati sostituiti dall’introduzione di limiti alla crescita della spesa. In realtà,
poiché, come si vedrà nelle pagine successive, la definizione degli obiettivi è stata modificata
quasi tutti gli anni, ci può aspettare che le disposizioni della finanziaria per il 2003 saranno a
loro volta modificate, magari eliminando anche per gli enti locali il vincolo sul saldo e
rafforzando i vincoli alla crescita della spesa. In tal caso, per valutare gli effetti sugli
investimenti degli enti locali, bisognerà vedere se saranno introdotti limiti anche alla crescita
delle spese di investimento e in quale misura.
Il “saldo Patto” esclude poi altre voci di entrata e di spesa, sulla base di quanto
avviene anche per il Patto di stabilità europeo. Ad esempio, dalle entrate sono esclusi i
proventi derivanti dalla cessione di attività mobiliari e, dal 2000, anche quelli derivanti dalla
vendita di immobili; sono altresì esclusi i trasferimenti provenienti dagli altri enti che
partecipano al Patto. Inoltre, con il processo di devoluzione di funzioni agli enti di livello
inferiore di governo, il legislatore ha provveduto ad adeguare le modalità di calcolo del saldo
Patto, in modo da escludere le entrate e le spese connesse alla delega di funzioni.
4.2.2
Il saldo obiettivo
Per gli anni 1999 e 2000, il saldo obiettivo è stato calcolato sulla base del saldo
tendenziale. Quest’ultimo a sua volta è pari al saldo patto incrementato di un ammontare pari
all’80% del tasso di crescita del Pil nominale stimato nei Dpef. Il rispetto del PSI richiedeva un
miglioramento del saldo tendenziale – un aumento se positivo, una riduzione se negativo - pari
allo 0,1% del Pil21.
Gli enti che non avessero rispettato il PSI nel 1999 avrebbero potuto recuperare
nell’anno successivo22.
Dal 2001, cambiano le modalità per il calcolo del saldo obiettivo, che prende il nome
di saldo programmatico, con la scomparsa del saldo tendenziale 23. Il saldo obiettivoprogrammatico si ottiene direttamente dal saldo Patto, al fine di semplificare gli adempimenti e
consentire una più immediata percezione dell’obiettivo da parte degli enti interessati. In
particolare, nel 2001, l’obiettivo è fissato nell’aumento (se positivo) o nella riduzione (se
interno; b) i trasferimenti statali attribuiti sotto forma di compartecipazione ai tributi erariali; c) le entrate
derivanti dai proventi della dismissione di attivita' finanziarie e dalla riscossione dei crediti; d) le spese
derivanti dall'acquisizione di partecipazioni azionarie e di altre attivita' finanziarie, dai conferimenti di
capitale e dalle concessioni di crediti.
21
In assenza di misure del Pil locale, il miglioramento richiesto è stato commisurato al livello di spesa
corrente primaria: alle regioni è stato richiesto un miglioramento del saldo tendenziale pari all’1% della
spesa corrente primaria del 1998. Ai comuni e alle province è stato richiesto un miglioramento pari al
maggiore importo tra l’1,1% della spesa corrente primaria del 1998 e il 3% del saldo tendenziale.
22
Inoltre, per il 2000, era stato concesso agli enti locali di scegliere se utilizzare il saldo Patto 1999 o quello
2000 e se cumulare i risultati del 1999-2000. In quest’ultimo caso, l’obiettivo fissato era un abbattimento del
disavanzo in misura pari allo 0,2% del Pil.
23
Sempre nel 2001 viene risolta la questione della spesa sanitaria, che viene esclusa, anche per il 2000, dal
calcolo del saldo obiettivo per le Regioni.
49
negativo) del 3% del saldo patto dell’esercizio 1999. Vengono inoltre esclusi dai vincoli del
PSI i comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti24.
Ulteriori novità vengono introdotte nel 2002, con una diversa articolazione della
disciplina per le Regioni e per gli altri enti locali.
Per le Province e i Comuni, si dispone che il saldo finanziario calcolato secondo le
regole applicate per il 2001, può essere peggiorato entro il limite del 2,5% del risultato
conseguito nel 2000. Viene inoltre introdotto un vincolo puro sulla spesa, nel senso che i
pagamenti e gli impegni di parte corrente possono crescere al massimo nella misura del 6%
degli impegni e dei pagamenti del 200025. Tale limite è ridotto al 2% per il 2003 e il 2004.
Per quanto riguarda le Regioni, il vincolo sul saldo viene sostituito dal vincolo sulla
crescita delle spese correnti (al netto di una serie di componenti, Tavola 4.1). Il tasso di
crescita delle spese correnti, sia impegni sia pagamenti, viene fissato al 4,5% (pari alla somma
dei tassi di inflazione programmati per il 2001 e il 2002, 2,8% e 1,7%) degli importi del 2000.
Per il 2003, la disciplina del PSI subisce ancora sostanziali modifiche. La principale
innovazione è una diversa impostazione per i comuni e per le province. Per i comuni con
popolazione superiore a 5.000 abitanti, il disavanzo finanziario, calcolato sia per la gestione di
competenza sia per la gestione di cassa, non può essere superiore a quello del 2001. Alle
province è imposto un miglioramento del saldo finanziario del 2001 nella misura del 7%.
Vengono aboliti i vincoli sulla spesa.
Per le Regioni, per il triennio 2003-2005 restano valide le disposizioni vigenti (D.L.
n.347/2001), ovvero vincoli alla crescita della spesa entro il tasso d’inflazione programmato
annualmente nel DPEF (nel 2003 il limite era pari al 5,9%, somma dei tassi di inflazione
programmati per il triennio 2000-2003).
Per il 2004 province e comuni sono nuovamente soggetti allo stesso vincolo e il saldo
finanziario non può essere superiore a quello del 2003 incrementato del tasso d’inflazione
programmato per l’anno 2004 indicato nel Dpef (pari all’1,3%). Manca invece un esplicito
riferimento al miglioramento dei risultati di bilancio degli enti in avanzo.
Va infine sottolineato che la normativa sul PSI non ha mai imposto l’utilizzazione di
determinati strumenti per il conseguimento degli obiettivi. Essa si è limitata a suggerire delle
regole di comportamento tendenti a migliorare il saldo finanziario, quali il perseguimento di
obiettivi di efficienza, aumento della produttività e riduzione dei costi nella gestione dei servizi
pubblici, contenimento del tasso di crescita della spesa corrente, potenziamento della lotta
all’evasione, aumento delle tariffe dei servizi pubblici a domanda individuale, dismissione di
immobili, riduzione della spesa di personale, sviluppo delle iniziative per la stipula di contratti di
sponsorizzazione, accordi e convenzioni, e simili.
24
Le ragioni per l’esclusioni dei piccoli comuni concernono da un lato l’esigenza di non imporre a questi
enti adempimenti troppo gravosi per le loro strutture di ridotte dimensioni e dall’altro l’entità modesta
dell’impatto dei loro risultati di bilancio sull'intero comparto degli enti locali.
25
Le spese correnti, ai fini del calcolo di quest’ultimo obiettivo, sono calcolate al netto degli interessi
passivi, delle spese sostenute sulla base di trasferimenti con vincolo di destinazione dallo Stato,
dall’Unione europea e dagli enti che partecipano al Psi, delle spese che per loro natura rivestono il
carattere dell’eccezionalità e delle spese per il trasferimento di funzioni. Inoltre vengono escluse dalla
definizione di spese correnti rilevante ai fini del Psi: casi di adozione da parte degli enti di impostazioni
contabili diverse tra gli esercizi 2000 e 2002, riferite a gestioni di servizi di carattere imprenditoriale; spese
interamente finanziate da proventi di convenzioni stipulate con enti pubblici e privati.
50
Questo breve excursus della determinazione degli obiettivi mostra un continuo
cambiamento delle regole del gioco. Sembra pertanto che anche per il PSI, gli enti territoriali si
trovino ad agire, secondo una ben tradizione italiana, in un contesto di incertezza, che
certamente non incentiva una seria programmazione finanziaria.
Tavola 4.1 - Il saldo del patto per le Regioni
1999
1) Entrate dei primi tre titoli
• Trasferimenti di parte corrente dallo Stato
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti di parte capitale dallo Stato
• Proventi della vendita di attività finanziarie
• Riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi
Saldo = (1) + (2) – (3)
2000-2001 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Addizionale Irpef; gettito Irap al netto del fondo perequativo; i contributi sanitari pregressi se
contabilizzati tra le entrate tributarie
• Entrate per trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al
Psi
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti di parte capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al
Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari
• Riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi
• Spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
• Trasferimenti agli Enti del S.S.N., al netto delle spese della gestione sanitaria
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) + (4)
2002-2003 Vincoli alla crescita delle spese correnti, al netto di
e 2004
• Interessi
• Spese correnti finanziate dai programmi comunitari
• Spese correnti relative all’assistenza sanitaria
• Spese correnti per l’esercizio di funzioni statali trasferite nei limiti dei corrispondenti finanziamenti
statali
51
4.2.3
Il sistema di monitoraggio
La normativa sul PSI include anche disposizioni relative al sistema di monitoraggio sui
comportamenti degli enti interessati, alla trasmissione delle informazioni e alla verifica della
realizzazione degli obiettivi programmati. Anche queste disposizioni, al pari degli obiettivi, sono
state più volte modificate dall’introduzione del Patto ad oggi.
Un primo aspetto concerne la cadenza temporale del monitoraggio.
Nel primo anno di applicazione del PSI, si prevedeva un monitoraggio con cadenza
mensile per regioni, province autonome, province con popolazione superiore ai 400.000
abitanti e comuni con popolazione superiore a 60.000 abitanti, un monitoraggio su base
trimestrale per i comuni con popolazione compresa tra 15.000 e 60.000 abitanti e uno annuale
per gli altri comuni. Nel 2000 (circolare di attuazione del PSI per il 2000) la trasmissione dei
prospetti informativi avviene invece su base trimestrale per regioni, province con popolazione
superiore ai 400.000 abitanti e per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti. La
legge finanziaria del 2002 conferma la cadenza trimestrale del monitoraggio, ma restringe il
numero di enti tenuti alla trasmissione delle informazioni, limitandolo alle regioni a statuto
ordinario, alle province e ai comuni con popolazione superiore ai 60.000 abitanti.
Un secondo aspetto riguarda l’oggetto del monitoraggio e dell’attività di verifica.
Per il 1999, la verifica dell’andamento dei conti degli enti territoriali viene effettuata mediante la
trasmissione al Ministero del Tesoro di prospetti sui dati di cassa effettivamente realizzati. Nel
2000, alle province e ai comuni di grandi dimensioni viene richiesto di fornire anche le
informazioni necessarie al calcolo dell’indebitamento netto delle Pubbliche Amministrazioni
(l’aggregato rilevante in sede europea). La finanziaria per il 2001 estende l’attività di verifica
anche ai dati di competenza e richiede alle
52
Tavola 4.2 - Il saldo del patto per le Province
1999
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA)
• Trasferimenti correnti dallo Stato
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato
• Proventi della vendita di attività finanziarie e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi
Saldo = (1) + (2) – (3)
2000
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA)
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) + (4)
2001
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA)
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
2002-2003 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA), per le province
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica;
compartecipazione all’Irpef)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie, riscossione di crediti e dismissioni immobiliari
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese vincolate e per funzioni delegate o trasferite, nei limiti dei trasferimenti
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
2004
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposta sulle assicurazioni (RCA) e imposta sulle formalità di trascrizione (PRA), per le province
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese vincolate e per funzioni delegate o trasferite, nei limiti dei trasferimenti
• Maggiori oneri di retribuzione e connessi ad attività istruttoria di condono
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
53
Tavola 4.3 - Il saldo del patto per i Comuni
1999
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposte di registro, ipotecaria e catastale
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato
• Proventi della vendita di attività finanziarie e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto degli interessi
Saldo = (1) + (2) – (3)
2000
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) + (4)
2001
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposte di registro, ipotecaria e catastale
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (addizionale sui consumi di energia elettrica)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
2002-2003 1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
2004
1) Entrate dei primi tre titoli, al netto di
• Imposte di registro, ipotecaria e catastale, per i comuni
• Trasferimenti correnti dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Nuove entrate proprie (compartecipazione all’Irap; addizionale sui consumi di energia elettrica)
2) Entrate del titolo IV, al netto di
• Trasferimenti in c/capitale dallo Stato, dall’Unione europea e dagli altri enti che partecipano al Psi
• Proventi della vendita di attività finanziarie e immobiliari e riscossione di crediti
3) Spese di parte corrente, al netto di
• Interessi e spese sostenute sulla base dei trasferimenti con vincoli di destinazione
• Maggiori oneri di retribuzione e connessi ad attività istruttoria di condono
4) Saldo interventi con carattere di eccezionalità
Saldo = (1) + (2) – (3) +(4)
54
alle province e ai comuni di grandi dimensioni di inviare, con cadenza trimestrale, al Ministero
dell’Economia, anche tutte le informazioni sugli impegni di spesa assunti26. Per il 2003, viene
introdotto un sistema di programmazione trimestrale dei flussi finanziari di cassa. In particolare,
le province ed i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti sono tenuti a predisporre
entro il mese di febbraio di ciascun anno una previsione cumulativa trimestrale del disavanzo di
cassa, coerente con l’obiettivo annuale, da comunicare al Ministero dell’Economia. Viene
comunque concesso loro di riassorbire gli eventuali scostamenti della gestione di cassa rispetto
alle prvisioni trimestrali, intervenendo sui flussi di pagamenti, nella misura necessaria a
riassorbire l’eventuale maggiore disavanzo.
Nulla viene modificato per il 2004.
L’ultimo aspetto, ma forse quello più importante, è relativo ai soggetti destinatari delle
informazioni.
Dall’analisi della normativa emata dal 1999 ad oggi, non si riesce ad individuare con
chiarezza chi siano i responsabili della verifica. Come efficacemente sottolinea Goretti [2003],
“I primi cinque anni di applicazione del PSI non fanno emergere un modello di
responsabilità chiaro nella verifica del rispetto dell’obiettivo di disciplina fiscale” .
Nella fase iniziale di attuazione del PSI, sembra che il compito di verifica del rispetto
dell’obiettivo sul saldo di bilancio spetti al Ministero dell’Economia, in qualità di unico soggetto
a ricevere le informazioni trasmesse dagli enti. Le disposizioni per il 2000 e il 2001
introducono inoltre l’obbligo per gli enti locali e per le regioni (in caso di peggioramento dei
disavanzi) di trasmettere al Ministero stesso una relazione sulle misure correttive da porre in
essere per il rispetto del Patto.
Il Ministero dell’Economia non è comunque l’unico soggetto coinvolto nel processo di
verifica dell’andamento dei conti degli enti territoriali. Entrano in gioco anche le conferenze
Stato-Regioni e Stato-Città (il PSI del 2000 prevede infatti che il Ministero riferisca loro
trimestralmente sugli esiti del monitoraggio). C’è un tentativo di maggiore coinvolgimento delle
rappresentanze degli enti territorili (il PSI del 2001 prevede che i presidenti delle giunte
regionali riferiscano alla conferenza Stato-Regioni sui risultati del comparto e che l’ANCI e
l’UPI riferiscano i risultati delle province e dei comuni con più di 60.000 abitanti alla
conferenza Stato-Città). Si cerca di promuovere la discussione sul vincolo di bilancio
all’interno dei singoli enti (il Patto del 2000 prescrive che la relazione sulle misure da adottare
sia allegata ai bilanci e che le giunte regionali, provinciali e dei comuni con più di 15.000
abitanti riferiscano ai rispettivi consigli).
Con la legge finanziaria per il 2003 si assiste ad un’inversione di tendenza che sposta la
responsabilità della verifica in capo agli enti interessati, che devono autocertificare il
conseguimento degli obiettivi. È tuttavia parallelamente previsto il coinvolgimento di revisori
dei conti esterni, ai quali viene assegnato il compito di verificare il raggiungimento degli obiettivi
annuali del Patto e, in caso di fallimento, l’obbligo di comunicarlo al Ministero degli Interni. Il
collegio dei revisori dei conti è infine tenuto a verificare anche la coerenza dell’obiettivo
26
Come si legge nelle relazioni della Corte dei Conti, “… In questo modo si tiene maggiormente conto
della situazione finanziaria degli enti locali ove, per diverse ragioni, spesso la divaricazione tra il dato
di competenza e di cassa è notevole e le misure adottate sul solo versante della cassa rischiano di
dimostrarsi effimere”.
55
trimestrale con quello annuale e, in caso di inadempienza, a darne comunicazione all’ente, al
Ministero dell’economia e alle associazioni di rappresentanza.
4.2.4
Il sistema di sanzioni ed incentivi
“Il patto di stabilità interno non sembra avere la natura di norma imperativa
quanto di esortazione programmatica … si tratta di un complesso di precetti tendenti a
realizzare obiettivi condivisi, una maggiore trasparenza nei rapporti tra livelli di
governo, la responsabilizzazione dei rappresentanti politici. Per realizzare questo
obiettivo è sembrato più utile, almeno in una fase iniziale, definire forme premianti e
procedure di monitoraggio informativo, che non misure di penalizzazione”. (Giarda e
Goretti[2001]).
Sulla base di queste premesse, nel triennio 1999-2001, il PSI non prevede un vero e
proprio meccanismo sanzionatorio. Il Patto del 1999 stabilisce infatti una sanzione molto
generica, da applicarsi solo in caso di procedura europea per deficit eccessivo 27 ; introduce
invece un incentivo con riferimento all’obiettivo della riduzione del rapporto tra l’ammontare di
debito e il PIL: agli enti che avessero presentato un piano finanziario di progressiva e
continuativa riduzione del rapporto debito/Pil, proiettato su un arco temporale di almeno
cinque anni, tale da assicurare, alla fine del quinquennio, un ridimensionamento del rapporto
almeno del 10% rispetto al valore iniziale, sarebbe stato concesso di estinguere
anticipatamente i mutui contratti con la Cassa Depositi e Prestiti a condizioni agevolate (con
l’esonero dal pagamento della penale prevista dalle norme vigenti). La legge finanziaria per il
2000 non contiene più alcun riferimento a meccanismi sanzionatori, ma introduce un
meccanismo premiante, consistente nella riduzione del tasso d’interesse sui mutui contratti con
la Cassa DD.PP., per gli enti che avessero realizzato gli obiettivi prescritti28. Questo
meccanismo avrebbe dovuto indurre gli enti con un maggior margine di compressione delle
proprie spese (o di aumento delle entrate) a fornire un contributo superiore a quello medio
degli altri enti, aumentando in tal modo la probabilità dell’intero comparto di raggiungere
l’obiettivo. Il Patto del 2001 non fa alcun riferimento a sanzioni o incentivi.
A partire dal 2002, il sistema viene modificato, nella direzione di introdurre maccanismi
sanzionatori ben definiti. Come sottolineato dalla Corte dei Conti, “L’aspetto di innovazione
maggiormente significativo è costituito dalla previsione di un sistema sanzionatorio di
immediata cogenza che molto si discosta da quello fondato sul riverbero delle sanzioni
comunitarie previsto nel primo impianto della normativa”. Vengono introdotti due tipi di
sanzioni. Il primo consiste nella riduzione agli enti locali dell’importo dei trasferimenti
27
L’eventuale sanzione sarebbe stata posta a carico degli enti che non avessero realizzato l’obiettivo. La
sanzione sarebbe stata assegnata per la quota ad essi imputabile, secondo modalità da definire in sede di
Conferenza permanente per i rapporti fra Stato, Regioni e Province autonome e di Conferenza Stato-Città ed
autonomie locali.
28
L’entità del premio – ovvero la riduzione del tasso d’interesse – era distinta: 50 punti base sul tasso di
interesse nominale applicato sui mutui della Cassa Depositi e Prestiti, qualora l’obiettivo di miglioramento
del saldo finanziario fosse distintamente raggiunto da ciascun comparto di enti; 100 punti base ad ogni
singolo ente che avesse realizzato nel biennio 1999-2000 un miglioramento del disavanzo superiore allo
0,3% del Pil.
56
erariali spettanti, in misura pari alla differenza tra gli obiettivi e i risultati conseguiti (ovvero
pari alla differenza tra i pagamenti effettivi e quelli che sarebbero discesi dal rispetto del
vincolo del tetto di crescita stabilito). L’applicazione della sanzione è prevista anche per gli enti
che non inviano al Ministero dell’Economia le informazioni sul conseguimento degli obiettivi,
enti che vengono pertanto considerati inadempienti. Alla riduzione sanzionante è associata la
possibilità di redistribuzione delle medesime risorse a favore degli enti adempienti. Il secondo
tipo di sanzione riguarda la facoltà degli enti locali di procedere ad assunzioni di
personale; il rispetto del PSI (come certificato da ciascun ente) diventa infatti una condizione
necessaria per procedere all’assunzione di personale a qualsiasi titolo. Ma questa disciplina, a
causa dei dubbi di incostituzionalità sollevati da più regioni, non è mai stata applicata, in
quanto il Ministero dell’Economia non ha mai adottato il decreto di attuazione. Nel 2003 infatti
il legislatore interviene nuovamente e abroga la norma relativa alla riduzione dei trasferimenti
per gli enti locali inadempienti rispetto all’obiettivo della crescita della spesa. Resta invece il
vincolo alle assunzioni di personale a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda le Regioni, il rispetto delle prescrizioni del Patto diventa invece
condizione necessaria per ottenere le risorse aggiuntive, come concordate secondo l’Accordo
dell’8 agosto 2001 (e successivi riferimenti normativi, Legge n.112/2002), in riferimento alla
questione dei disavanzi del comparto della Sanità.
Per gli enti locali, ai vincoli alle assunzioni di personale a qualsiasi titolo, si aggiungono
il divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziare le spese di investimento e l’obbligo di
ridurre almeno del 10%, rispetto al 2001, le spese per acquisto di beni e servizi.
In aggiunta, il PSI 2003 indica alcune prescrizioni da applicarsi in caso di mancato
raggiungimento degli obiettivi trimestrali, come accertato dal collegio dei revisori. In tali casi, gli
enti locali sono tenuti ad intervenire tempestivamente, nel periodo successivo e fino al
riassorbimento dello scostamento registrato, limitando i pagamenti correnti entro l’ammontare
di quelli effettuati alla stessa data e allo stesso titolo nell’anno 2000.
4.3
I risultati raggiunti
Come valutare i risultati del PSI? Ovvero, regioni ed enti locali hanno contribuito al
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nell’ambito del Patto di stabilità e crescita?
La risposta non è immediata né facile.
Ci sono almeno due possibili alternative: la prima è quella di valutare le performances
di ciascun comparto – regioni, province, comuni - nel suo complesso, attraverso il confronto
tra risultati attesi ex-ante e risultati ottenuti ex-post; la seconda è quella di considerare i risultati
conseguiti dai singoli enti di ciascun comparto.
Per ciò che concerne la prima alternativa, la quantificazione ex ante degli effetti del
PSI per i diversi comparti è definita nelle relazioni tecniche alle leggi finanziarie. La Tavola 4.4
evidenzia, per ogni anno di applicazione del Patto, il contributo totale richiesto agli enti
territoriali e la ripartizione a carico dei singoli comparti. Mancano invece un’esposizione ed una
discussione sistematica sui risultati raggiunti a consuntivo. Si può comunque fare riferimento
innanzitutto alle informazioni diffuse dal Ministero dell’Economia, sia pure nella loro
incompletezza e frammentarietà.
57
Tavola 4.4 – Risultati attesi ex ante (milioni di euro)
Anno
1999
2000
2001
2002
Contributo richiesto ex- ante
Anno
Regioni a statuto ordinario
516 2003
Regioni a statuto speciale
196
Province
52
Comuni e comunità montane
372
Totale
1.140
Regioni a statuto ordinario
516 2004
Regioni a statuto speciale
196
Province
52
Comuni e comunità montane
372
Totale
1.140
Mancato obiettivo 1999
570
1.300 2005
Regioni
Enti locali
Totale
Contributo richiesto ex- ante
Regioni
400
Enti locali
2.200
Totale
2.600
Regioni
Enti locali
Totale
700
2.550
3.250
Regioni
Enti locali
Totale
1.000
3.060
4.060
310
1.100
1.410
Fonte: Goretti 2003
Ad esempio, per il periodo 1999-200029, il Ministero ha certificato con decreto il
conseguimento da parte del comparto dei comuni e delle province degli obiettivi posti dal
patto di stabilità interno (riduzione del disavanzo pari allo 0,2% del PIL). Ciò ha comportato
l’applicazione del meccanismo premiante, per cui gli enti locali hanno beneficiato a partire dal
2001 della riduzione di 50 punti base sul tasso d’interesse nominale applicato sui mutui della
Cassa DDPP. Gli enti che hanno conseguito una riduzione superiore allo 0,2% (2.152 comuni
e 87 province) hanno beneficiato della riduzione del tasso d’interesse è di 100 punti base. Al
riguardo, la Corte dei Conti30 aveva giustamento sottolineato che il sistema premiante,
estendendo il beneficio a tutto il comparto, “… non incentiva i comportamenti responsabili
degli enti e favorisce allo stesso modo quelli che non hanno compiuto uno sforzo di
adeguamento”. E ancora “…si è perso il valore di direttiva volta a diffondere negli enti
comportamenti virtuosi e si è avallata di fatto anche l’inadempienza, che non è stata
sanzionata, ma premiata”.
Per gli anni successivi non viene fornita dal Ministero nessuna informazione ufficiale sui
risultati ottenuti. Tuttavia, dalla lettura dei documenti relativi ai conti pubblici, si desume che nel
complesso province e comuni abbiano conseguito in buona misura i loro obiettivi, mentre più
29
I riscontri del Ministero hanno preso in esame congiuntamente gli esercizi 1999 e 2000, in ragione del
fatto che gli enti avevano la facoltà di recuperare nel secondo esercizio la quota di riduzione del disavanzo
non conseguita nel primo; un riscontro limitato al primo esercizio evidentemente si sarebbe dimostrato
parziale e avrebbe rappresentato una situazione di adempimento meno favorevole di quella che si è potuta
riscontrare al termine del biennio.
30
Si veda la Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività
degli enti locali per l’esercizio 1999, allegata a deliberazione n.7/2001
58
problematica si prospetta la situazione delle regioni, soprattutto per le questioni legate alla
gestione della spesa sanitaria.
In relazione ai risultati conseguiti dai singoli enti di ciascun comparto, la fonte più
esuriente è costituita dalle Relazioni della Corte dei Conti (Relazione sulla gestione
finanziaria delle regioni e Relazione sui risultati della gestione finanziaria e dell’attività
degli enti locali), sull’attività degli enti locali e delle regioni. La verifica dei risultati conseguiti
dagli enti soggetti al PSI viene effettuata attraverso un esame analitico della documentazione
inviata dagli enti interessati, previa verifica formale dell’esattezza degli adempimenti richiesti, e
quindi della corrispondenza tra i dati esposti nei modelli e gli omologhi dati riportati nel
rendiconto.
Le pagine che seguono offrono una panoramica della situazione per i comuni, le
province e le regioni.
4.3.1
I risultati dei Comuni
Le Tabelle da 4.1 a 4.3 illustrano i risultati raggiunti dai comuni soggetti al PSI negli
anni dal 1999 al 2002. Nel 1999, primo anno di applicazione del Patto, si osserva che circa il
67% (663 su 994) dei comuni esaminati dalla Corte ha rispettato le prescrizioni del Patto. I
331 enti inadempienti sono dislocati in tutte le regioni e probabilmente si tratta anche di quei
comuni che non hanno adottato le misure richieste per la riduzione del disavanzo
(contenimento della spesa e aumento delle entrate) con una “completa inerzia rispetto alle
azioni imposte dal patto” 31.
Per il 2000, l’analisi della Corte è stata condotta separatamente per i comuni di
maggiori dimensioni (con popolazione superiore a 60.000 abitanti) e per i comuni più piccoli
(escludendo però quelli inferiori a 8.000 abitanti). Nel complesso, ha rispettato gli impegni il
53% dei comuni osservati, ma i risultati migliori sono stati conseguiti dai comuni di minori
dimensioni. La situazione sembra migliorare nel 2001, con il 68% degli comuni in regola con gli
obiettivi loro assegnati. Ancora una volta, i comuni più grandi sono quelli che incontrano le
maggiori difficoltà ad adeguarsi alla disciplina del Patto.
In riferimento al 2002, occorre ricordare l’introduzione dei vincoli alla crescita della
spesa. Circa il 71% degli enti rispetta tutti e tre gli obiettivi, ovvero il miglioramento del 2,5%
del saldo finanziario 2000, il limite del 6% alla crescita degli impegni e il limite del 6% alla
crescita dei pagamenti; il 92% consegue l’obiettivo di miglioramento del saldo finanziario;
l’86% rispetta la crescita del 6% dei pagamenti e l’82% la crescita del 6% degli impegni. Dal
punto di vista della collocazione geografica dei comuni, la Calabria è la regione con la minore
quota di enti che rispettano tutti gli obiettivi; i maggiori successi si realizzano in Molise, Liguria,
Friuli.
31
Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e dell’attività degli enti
locali per l’esercizio 1999, allegata a deliberazione n.7/2001
59
Tabella 4.1 - Risultati dei comuni nel 1999 e nel 2000
1999
N. enti
Piemonte
Lombardia
Liguria
Trentino
Veneto
Friuli
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Totale
66
186
20
2
116
27
49
76
8
30
57
22
5
77
98
10
37
82
26
994
Comuni >60.000
ab.
Enti in N. enti Enti in
regola
regola
47
4
1
126
11
7
14
1
1
1
91
5
4
24
2
2
40
9
8
58
9
7
5
2
1
22
30
2
2
13
2
2
1
36
9
5
49
5
1
7
1
1
29
4
3
54
5
3
16
1
1
663
72
49
2000
Comuni <60.000
Totale
ab.
N. enti Enti in N. enti Enti in
regola
regola
56
32
60
33
168
77
179
84
18
14
19
15
1
0
1
0
105
66
110
70
25
9
27
11
55
37
64
45
75
46
84
53
12
9
13
10
28
15
28
15
40
17
42
19
15
8
17
10
4
1
4
1
69
39
78
44
88
39
93
40
10
4
11
5
27
11
31
14
54
24
59
27
20
10
21
11
872
458
942
507
Tabella 4.2 - Risultati dei comuni nel 2001
Val d’Aosta
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Comuni >60.000 Comuni <60.000
Totale
ab.
ab.
N. enti Enti in N. enti Enti in N. enti Enti in
regola
regola
regola
1
0
1
0
2
0
64
46
66
46
12
10
164
90
176
100
3
1
26
15
27
16
5
4
108
76
113
80
2
2
22
14
24
16
12
8
64
38
76
46
10
8
76
55
86
63
1
1
16
12
17
13
1
1
36
17
37
18
2
2
47
34
49
36
2
1
17
12
19
13
4
4
4
4
6
2
66
55
72
57
6
4
97
74
103
78
1
1
12
10
13
11
2
1
23
17
25
18
6
4
67
53
73
57
60
Sardegna
Totale
2
75
1
51
21
931
16
638
23
1006
17
689
Tabella 4.3 - Risultati dei comuni nel 2002
N. enti
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Totale
4.3.2
55
170
19
96
17
78
78
14
32
39
16
2
78
81
8
28
75
21
907
Enti in
Rispetto
regola con limite 2,5%
i 3 obiettivi saldo 2000
42
121
17
72
14
62
56
11
19
26
9
2
46
63
6
14
51
12
643
52
158
19
93
16
72
73
14
29
35
15
2
66
78
8
24
66
16
836
Rispetto
Rispetto
limite 6%
limite 6%
impegni
pagamenti
2000
2000
47
50
132
149
17
18
86
81
15
16
68
78
64
68
12
13
25
24
35
31
12
13
2
2
60
61
70
71
6
7
18
22
58
65
15
15
742
784
I risultati delle province
Se si analizza la situazione delle province (Tabelle 4.4 e 4.5), risulta che nel triennio
1999-2001 la maggior parte degli enti ha realizzato gli obiettivi di miglioramento del saldo
finanziario. Nel 2000 solo una provincia delle 81 esaminate risulta inadempiente.
Nel 2002, su 88 enti esaminati, 67 raggiungono tutti e tre gli obiettivi fissati. L’obiettivo
che è stato maggiormente rispettato è quello del limite alla crescita degli impegni di parte
corrente (83 province su 88); il vincolo sui pagamenti è stato rispettato da 80 province su 88;
infine, l’obiettivo del saldo è stato centrato da 77 province su 88.
61
Tabella 4.4 - Risultati delle province nel 1999-2001
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Totale
1999
2000
2001
N. enti Enti in N. enti Enti in N. enti Enti in
regola
regola
regola
7
6
6
6
8
86
10
10
10
10
11
11
4
2
4
4
4
4
6
6
7
7
7
7
4
3
4
4
4
3
9
8
7
7
9
97
8
7
6
6
9
96
2
1
2
2
2
2
3
2
3
3
4
4
4
3
5
5
5
5
4
4
2
2
4
4
2
1
2
2
2
2
4
1
4
4
4
4
5
4
5
5
5
5
2
2
2
2
2
1
5
5
5
5
4
3
8
7
3
2
9
5
4
2
4
4
4
3
91
74
81
80
97
89
Tabella 4.5 - Risultati delle province nel 2002
N. enti
Piemonte
Lombardia
Liguria
Veneto
Friuli
Emilia R.
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
8
9
4
7
4
9
10
2
4
2
2
1
3
4
2
4
9
Enti in
Rispetto
regola con limite 2,5%
i 3 obiettivi saldo 2000
3
7
1
7
4
8
9
2
3
2
1
1
2
2
1
2
8
4
9
2
7
4
8
10
2
4
2
2
1
3
2
1
3
9
Rispetto
Rispetto
limite 6%
limite 6%
impegni
pagamenti
2000
2000
7
8
8
8
4
3
7
7
4
4
9
9
10
9
2
2
3
4
2
2
2
1
1
1
3
2
4
4
2
2
3
2
8
8
62
Sardegna
Totale
4.3.3
4
88
4
67
4
77
4
83
4
80
I risultati delle Regioni
Per quanto riguarda le Regioni, dalle Relazioni della Corte emerge che, nel complesso,
per il triennio 1999-2001, la generalità delle regioni a statuto ordinario risulta più che
adempiente agli obiettivi fissati dal Patto, nella versione non comprensiva della sanità. Ciò
deriva anche dalla circostanza che per molte regioni l’obiettivo è consistito nel miglioramento
di un saldo già positivo. Al raggiungimento dell’obiettivo in termini di saldo finanziario, si è però
accompagnata una crescita della spesa corrente molto elevata, non soltanto nel settore della
sanità. Anche l’obiettivo posto per il 2002, vale a dire il rispetto del limite del 4,5% per gli
impegni e i pagamenti, sembra essere generalmente conseguito.
Occorre però fare alcune precisazioni. In primo luogo, i dati sui quali si basano le
verifiche della Corte sono spesso dati provvisori. In secondo luogo, manca una sistematica
riscrittura delle poste di bilancio che renda omogenei i dati di bilancio delle diverse regioni, il
che richiede un’estrema cautela nel valutare i risultati conseguiti da ciascuna regione.
4.3.4
La riduzione del rapporto debito/PIL
Come è stato precedentemente ricordato, nel primo anno di applicazione del PSI,
all’obiettivo del miglioramento del saldo finanziario degli enti locali si affianca l’obiettivo della
riduzione del rapporto tra il debito e il PIL. Sembra anche opportuno ribadire che questo
secondo obiettivo viene concepito come diretta derivazione del conseguimento del primo,
secondo la logica del circolo virtuoso “minore disavanzo, minore debito”, come avevano
precisato gli stessi Ministeri dell’Interno e del Tesoro, nell’emanare le disposizioni applicative32
della norma. In altre parole, l’obiettivo della riduzione del rapporto debito/PIL non viene
concepita come un vincolo all’attuazione di spese di investimento, che anzi dovrebbero trarre
stimolo dalla liberazione di risorse destinate a finanziare le spese correnti. Si è già anche detto
del meccanismo premiante connesso al conseguimento dell’obiettivo.
Quali risultati sono stati raggiunti? Ancora una volta, qualche elemento di valutazione si
può trarre delle Relazioni della Corte dei Conti, che ha effettuato delle verifiche per le province
ed i comuni con popolazione superiore a 8.000 abitanti33.
Un problema che la Corte sottolinea ripetutamente è la scarsa percentuale di adesione
degli enti all’invito a trasmettere i prospetti informativi necessari per l’attività di verifica, forse a
32
Circolari del Ministero dell’Interno del 18 febbraio 1999 e del Ministero del Tesoro del 12 marzo 1999
Occorre sottolineare che l’esposizione della Corte si presenta di difficile lettura anche per il lettore
esperto.
33
63
causa del “minore grado di cogenza assegnato all’obiettivo della riduzione del debito”.
Si ricorda infatti che la normativa non prevede per questo obiettivo né un sistema specifico di
monitoraggio né tanto meno un meccansimo sanzionatorio in caso di inadempienza. Ne
consegue che i dati forniti dalla Corte rappresentano un quadro solo parziale della realtà, in
quanto gli enti virtuosi potrebbero essere ben più numerosi di quelli rilevati. La tabella 4.6
illustra comunque i risultati raggiunti a consuntivo dagli enti locali che hanno prodotto la
documentazione richiesta.
Province
Comuni
Totale
Tabella 4.6 – Andamento del rapporto debito/Pil 1999 - 2001
Enti che hanno ridotto il rapporto
Enti che hanno aumentato il rapporto
debito/PIL
debito/PIL
1999
2000
2001
1999
2000
2001
17
24
27
25
23
36
208
191
333
175
171
294
225
215
247
200
194
330
Essa mette in evidenza risultati non proprio soddisfacenti, dal momento che molti enti hanno
visto aumentare il rapporto debito/PIL. L’interpretazione della Corte è che “non tutti gli enti
avrebbero avuto l’opportunità di finanziare gli investimenti con risorse proprie di
bilancio, rinvenute attraverso il risparmio della parte corrente e le dismissioni
patrimoniali, e che per questi ultimi, dunque, una rigorosa applicazione dell’impegno
alla riduzione dell’indebitamento si sarebbe sostanzialmente tradotta in un limite allo
sviluppo delle spese per infrastrutture”.
4.4
Conclusioni
Nel terzo capitolo sono stati discussi gli effetti delle politiche di riequilibrio dei conti
pubblici sull’evoluzione della spesa pubblica per investimenti. Nel corso degli anni Novanta, il
processo di risanamento della finanza pubblica, in vista dell’entrata nell’Unione Monetaria, ha
prodotto, sia pure insieme ad altri fattori, un rallentamento degli investimenti di tutti i comparti
delle Amministrazioni Pubbliche, particolarmente accentuato tra il 1992 e il 1995.
Non sembra invece che l’introduzione del Patto di stabilità interno abbia avuto le stesse
conseguenze. Esso viene introdotto a partire dal 1999 e da allora il rapporto tra investimenti
pubblici e PIL non si riduce, ma anzi tende ad aumentare. Del resto, basta considerare che
esso è costruito sulla base della cosiddetta golden rule, secondo la quale le spese per
investimenti sono escluse dal calcolo del saldo obiettivo e i vincoli alla crescita della spesa
riguardano solo le spese correnti.
Sulla base della legislazione vigente, invece, si porrebbe qualche problema per il futuro.
Si è infatti richiamato che a partire dal 2003, agli enti locali che non rispettano il patto è fatto
divieto di ricorrere all’indebitamento anche per il finanziamento delle spese di investimento.
64
Inoltre, a partire dal 2005, le spese d’investimento dovrebbero rientrare nel calcolo del saldo
obiettivo.
Tuttavia, è in qualche modo dubbio che queste norme possano realmente rappresentare
un vincolo per lo sviluppo delle spese in investimenti delle amministrazioni locali, e dunque per
il recupero del gap infrastrutturale da parte del Paese. Questo sulla base di più ordini di
considerazioni.
In primo luogo, le sanzioni, come per esempio, la riduzione dei trasferimenti erariali agli
enti inadempienti, sia pure previste per legge, non sono mai state applicate, per effetto di
modifiche ex post (ad hoc) della normativa. Al contrario, semmai, il meccanismo premiante è
stato applicato in modo perverso, attribuendo i benefici all’intero comparto degli enti locali,
dunque anche agli enti inadempienti.
In secondo luogo, gli obiettivi e la definizione del saldo rilevante sono cambiati quasi tutti
gli anni. E’ dunque plausibile che – magari già con la legge finanziaria per il 2005 – si assista ad
un ulteriore ripensamento.
In terzo luogo, non andrebbe anche dimenticato, sebbene non sia questa la sede per
approfondire l’argomento, che la riforma Costituzionale del 2001, al quinto comma
dell’art.119, prevede già esplicitamente la golden rule per gli enti territoriali. A questi è fatto
divieto di indebitarsi, se non per finanziare le spese di investimento; il che significa, rovesciando
l’articolo, che la Costituzione riconosce alle regioni e altri enti territoriali il diritto di presentare
bilanci in deficit, purché il saldo di parte corrente resti in attivo. Allo Stato centrale resta la
possibilità di determinare in qualche misura che cosa rappresenti esattamente una spesa in
conto corrente e che cosa una spesa in conto capitale, un aspetto che si è puntualmente
verificato con la legge Finanziaria per il 2003. Ma è evidente che vincoli troppo restrittivi sul
lato della possibilità da parte degli enti locali di finanziare gli investimenti potrebbero creare
difficoltà di ordine costituzionale.
La conclusione è dunque che né nel passato né nel prevedibile futuro è ipotizzabile che il
Patto di Stabilità Interno abbia generato o possa generare compressioni indebite sulla spesa
per investimenti degli enti locali, stimolandoli, per esempio, ad utilizzare forme alternative di
finanziamento dell’infrastrutture (come le PPP) rispetto ai tradizionali investimenti pubblici.
Caso mai, la preoccupazione è quella opposta, che la mancanza di vincoli appropriati sugli enti
locali e in particolare sulle loro spese in conto capitale possa generare problemi agli Stati
membri dell’Unione Europea, che sono tenuti per il Patto a soddisfare vincoli sui deficit
complessivi (e non solo su quelli di parte corrente) e sul debito. E questa preoccupazione è
particolarmente seria per un Paese come il nostro, caratterizzato da finanze pubbliche non
ancora a posto e da un forte debito pregresso.
Tuttavia, queste preoccupazioni dovrebbero essere anche viste nel contesto
dell’accessissimo dibattito europeo sugli effetti del Patto di stabilità e crescita e delle sue
necessarie revisioni. Da un lato, da più parti si auspica l’adozione della golden rule anche a
livello europeo, proprio per i timori che il Patto possa indebitamente rallentare gli investimenti e
dunque la crescita economica dell’area. Quest’ipotesi sembra essere stata per il momento
formalmente accantonata dalla Commissione, ma la stessa ha riconosciuto l’esigenza di
un’interpretazione più flessibile del Patto, anche alla luce dei recenti avvenimenti concernenti la
mancata approvazione delle sanzioni (da parte dell’Ecofin) per la Francia e la Germania e la
successiva decisione della Corte Europea di Giustizia sul ricorso presentato dalla
65
Commissione. In pratica, queste vicende possono condurre ad un’interpretazione meno
“fiscale” del Patto, possibilmente sostanzialmente equivalente all’imposizione di una
ragionevole Golden Rule a livello europeo.
Infine, nonostante le ambiguità e incertezze del PSI italiano, in particolare per la mancata
definizione e attuazione di un meccanismo di sanzioni e incentivi adeguato, l’esperienza italiana
negli ultimi cinque anni non sembra peggiore di quella di altri Paesi europei per quel che
riguarda il controllo delle finanze degli enti locali, per quanto sia difficile misurare il contributo
che le regole di disciplina fiscale, vuoi basate sul modello cooperativo vuoi basate sulla
legislazione fiscale, stiano effettivamente dando al processo di risanamento finanziario nei
diversi Paesi.
5
LA PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATA: TIPOLOGIE, ESPERIENZE
INTERNAZIONALI E QUESTIONI TEORICHE
L’obiettivo di questo capitolo è quello di introdurre il tema delle Partneship fra
Pubblico e Privato (PPP), come forme di investimento in infrastrutture pubbliche alternative
all’investimento pubblico diretto. Vengono in primo luogo analizzate le origini e lo sviluppo
della PPP a livello internazionale e specialmente nel mondo anglosassone, dove tali iniziative
sono nate e si sono poi sviluppate – fino al suo esempio forse più eclatante, il finanziamento e
la gestione del tunnel sotto la Manica. In secondo luogo, vengono prese in considerazione le
diverse forme di PPP, con particolare attenzione alla Finanza di Progetto, che è la principale e
riguarda specificamente progetti per la costruzione e la gestione di infrastrutture spesso su
grande scala. Infine, si discutono, su un piano concettuale, i vantaggi e gli svantaggi che la PPP
presenta rispetto ai tradizionali investimenti pubblici diretti, approfondendo alcuni dei punti già
affrontati nel primo capitolo. Verranno discussi in particolare gli aspetti relativi all’efficienza
economica, alla selezione dei progetti, all’allocazione del rischio, al sistema di finanziamento e
alla governance dei progetti.
5.1
Sviluppo e diffusione della PPP
Negli ultimi anni il settore pubblico di molti Paesi sviluppati ed anche in via di sviluppo
ha introdotto forme di collaborazione con il settore privato per la costruzione e/o la gestione di
opere di interesse pubblico. Diverse forme di Public-Private Partnership (PPP) hanno
modificato il tradizionale approccio dell’intervento pubblico, soprattutto in quei settori capaci
di produrre una remunerazione diretta per l’investimento privato, come i settori energetico, dei
trasporti e delle telecomunicazioni, della sanità, dell’innovazione, dell’edilizia e di molte
infrastrutture locali.
Le diverse forme di PPP vengono oramai percepite universalmente come un valido
supporto alla creazione di infrastrutture pubbliche ed in vari Paesi è stato predisposto il quadro
giuridico e create istituzioni apposite per favorirne lo sviluppo.
66
Nel caso italiano, l’Unità Tecnica Finanza di Progetto (di cui ci si occupa in maggior
dettaglio nel capitolo successivo) individua tre tipologie di progetti realizzabili tramite interventi
in PPP:
•
“progetti dotati di una intrinseca capacità di generare reddito attraverso ricavi
da utenza”: i ricavi commerciali prospettici di tali progetti consentono all’investitore
privato un integrale recupero dei costi di investimento nell'arco della vita della
concessione. In tale tipologia di progetti, il coinvolgimento del settore pubblico si limita
ad identificare le condizioni necessarie per consentire la realizzazione del progetto,
facendosi carico delle fasi iniziali di pianificazione, autorizzazione, indizione dei bandi di
gara per l'assegnazione delle concessioni e fornendo la relativa assistenza per le
procedure autorizzative;
•
“progetti in cui il concessionario privato fornisce direttamente servizi alla
pubblica amministrazione”: è il caso di tutte quelle opere pubbliche - carceri,
ospedali, scuole - per le quali il soggetto privato che le realizza e le gestisce trae la
propria remunerazione esclusivamente (o principalmente) da pagamenti effettuati dalla
pubblica amministrazione;
•
“progetti che richiedono una componente di contribuzione pubblica”: è il caso di
iniziative i cui ricavi commerciali da utenza sono di per se stessi insufficienti a generare
adeguati ritorni economici, ma la cui realizzazione genera rilevanti esternalità positive in
termini di benefici sociali indotti dalla infrastruttura. Tali esternalità giustificano
l'erogazione di una componente di “contribuzione pubblica.”
La diffusione del PPP è stata strettamente legata a fenomeni generalizzati che hanno
riguardato il complesso del mondo occidentale negli ultimi vent’anni, quali:
o i diffusi processi di privatizzazione, cioè di riconduzione al settore privato di settori o
imprese originariamente pubbliche (non solo nei paesi occidentali ma anche nelle
economie in transizione con un passato di economia pianificate), processi che si sono
spesso accompagnati alla diffusione di forme di PPP;
o la globalizzazione, che rende sempre più necessario affrontare opere pubbliche di
vaste dimensioni, di notevole contenuto tecnologico, soggette ad alto rischio e sempre
più spesso di valore transnazionale così da richiedere l’intervento di imprese
altamente specializzate e di più Paesi;
o una tendenza verso la riduzione o lo stretto controllo della crescita della spesa
pubblica, spesso richiesta da vincoli di bilancio nazionali o internazionali, a fronte di
una domanda non decrescente di infrastrutture (esigenze particolarmente sentite nel
contesto europeo), e quindi la necessità di strumenti off-balance sheet (fuori bilancio
nel senso contabile del termine).
67
A seguito di questi processi, governi ed enti locali stanno cooperando col settore
privato un po’ dappertutto nella fornitura di servizi e infrastrutture attraverso sistemi
contrattuali, concessioni di vario tipo, forme di Project-Financing, accordi di Build-Operateand-Transfer, joint ventures pubblico-private ed altre modalità ancora. Sebbene tali forme
siano più sviluppate nei Paesi anglosassoni, dove tradizionalmente è meno rilevante il peso
dell’intervento pubblico e più pragmatico il sistema giuridico, anche altri Paesi occidentali
stanno espandendo queste forme di collaborazione e persino molti Paesi in via di sviluppo le
trovano utili al fine di risolvere il gap infrastrutturale in modo più veloce ed efficiente di quanto
potrebbe fare il settore pubblico da solo.
Diverse forme di PPP sono diffuse a livello internazionale ed il loro utilizzo dipende dal
settore di impiego, dalle componenti di rischio dell’attività, dagli obiettivi dell’ente pubblico e
dal contesto legislativo e industriale in cui si applicano. Sebbene il confine fra diverse
alternative sia talvolta labile e le diverse legislazioni nazionali rendano difficile una
comparazione internazionale, le principali forme di PPP possono essere classificate come
segue:34
•
Contratti di Outsorcing con Imprese Private
Rappresentano la prima e più tradizionale forma di outsorcing attuata da enti pubblici
di ogni livello e possono concretizzarsi mediante contratti di servizio, di gestione o di leasing.35
Il principio economico sotteso al loro utilizzo è lo stesso di ogni forma di outsorcing, ossia la
convenienza a delegare attività in cui privati hanno un vantaggio operativo. Vi appartengono tre
tipologie:
o Contratti di Costruzione. Prevedono l’appalto della sola costruzione a una impresa
privata, per poi lasciare la gestione al settore pubblico o cederla in una nuova
concessione a privati tramite un contratto di gestione. Sono tipicamente impiegati per
le opere pubbliche laddove non vi siano imprese del settore pubblico abilitate ad
occuparsene;
o Contratti di Servizio. Prevedono la fornitura di un servizio per un predeterminato
periodo di tempo. Si applicano spesso a servizi di manutenzione e pulizia delle strade,
raccolta della spazzatura, gestione degli ospedali, servizi di ambulanza e di trasporto su
autobus, servizi di purificazione dell’acqua, ecc.;
o Contratti di Gestione. Prevedono la concessione della sola gestione di un’attività di
proprietà pubblica a tempo determinato. Vengono applicati quando la proprietà
pubblica è strategica nel lungo periodo e costituisce un asset da mantenere e
controllare, ma la gestione pubblica diventa onerosa o inefficiente rispetto a quella
privata;
34
Si veda Rondinelli (2004) per una classificazione simile ed un’attenta discussione di esempi tratti da vari
paesi industrializzati ed in via di sviluppo.
35
Talvolta si distingue anche tra l’appalto, che prevede il mantenimento del rischio a carico dell’ente
pubblico e la concessione, che invece trasferisce il rischio stesso al privato.
68
o Contratti di Leasing. Prevedono la locazione di un bene o un’attività di proprietà
pubblica dietro pagamento di un canone. Sono spesso usati per imprese di servizio
pubblico e operazioni commerciali.
•
Imprese miste pubblico-private.
Spesso enti pubblici centrali e locali cercano soci privati per costituire società miste
pubblico-private, che vengono tipicamente utilizzate per la riorganizzazione dei servizi pubblici
locali, soprattutto nella fase di realizzazione e gestione di servizi pubblici integrati.
Le politiche di privatizzazione attuate in molti Paesi richiedono o permettono spesso al
Governo di trattenere parte delle azioni di imprese ritenute profittevoli o politicamente
strategiche, facendone in effetti delle joint-ventures pubblico-private. Nel settore
dell’innovazione e della ricerca, capitale pubblico viene spesso irrorato in imprese private ad
alto rischio, sostituendo il tipico ruolo delle società finanziarie in joint-ventures che
probabilmente il mercato da solo non avrebbe creato per l’eccessivo rischio connaturato
all’attività di R&D e la limitata appropriabilità dei profitti derivanti.
•
Project-Financing per Opere Pubbliche.
E’ utilizzato per la costruzione di opere pubbliche che possono essere trattate come
progetti autonomi nel loro finanziamento e sviluppo, spesso su vasta scala.
In effetti il project financing è nato negli anni ’30 per il settore petrolifero ed energetico
americano, quando imprese con limitate risorse finanziarie costruivano pozzi in Texas e
Oklahoma o impianti per la produzione di energia elettrica. Queste operazioni avvenivano in un
ambito strettamente privatistico: privata era la società che realizzava l'impianto, privata era la
società che acquistava l'energia prodotta attraverso contratti di fornitura a lungo termine. Più
recente è invece l’impiego per la costruzione di grandi opere pubbliche, di cui l’Eurotunnel
sotto la Manica rappresenta l’esempio più eclatante.
Vale la pena di richiamare l’esperienza del Regno Unito, dove dal 1992 ad oggi sono
stati siglati centinaia di progetti pubblici finanziati dai privati, di cui il 30% nella sanità, il 20%
nell’educazione, il 14% nei servizi, il 12% nei trasporti, il 10% nella sicurezza, l’8% nella
difesa, il 4% nella raccolta della spazzatura ed il 2% nella giustizia. Nell’80% dei casi, si tratta
di costruzione di infrastrutture a tariffazione. Nel 1992 è stato approvato il Private Finance
Initiative inglese (PFI), un programma teso a creare un contesto istituzionale favorevole al
coinvolgimento dei privati nella realizzazione di investimenti pubblici, attraverso l'erogazione di
concessioni di costruzione e gestione in presenza di condizioni di convenienza economica per il
settore privato e di ottimizzazione dei costi per il settore pubblico. L’impiego di queste nuove
forme di PPP ha avuto buoni risultati in termini di efficienza nell’esecuzione delle opere, sia in
relazione alla riduzione dei casi di superamento dei costi preventivati (dal 73% al 22% dei
casi), sia in relazione alla riduzione dei ritardi nel completamento delle opere (dal 70% al 24%
dei casi, di cui due terzi riguardavano ritardi inferiori ai due mesi). Addirittura si sono registrati
anticipi nella conclusione dei lavori in un progetto su tre36.
36
Cfr. National Audit Office (2003).
69
In termini generali, si può vedere nell’Eurotunnel finanziato da inglesi e francesi
interamente attraverso il mercato, il progetto che ha reso popolare il project financing per
opere pubbliche sul continente. Nonostante questo stesso progetto non si sia poi rivelato di
grande successo, il suo alto valore simbolico e di immagine ha certamente promosso
l’espansione di forme di project financing in Paesi più tradizionalmente legati all’investimento
pubblico diretto come quelli dell’Europa continentale, Italia inclusa. Una spinta in tal senso da
parte dell’Unione Europea, e una rapida fase di adeguamento normativo, hanno poi
velocizzato il processo.
Le fasi che caratterizzano un’operazione di project financing per la costruzione di
opere pubbliche sono a) la predisposizione di un progetto preliminare da parte di un ente
promotore, b) una analisi di fattibilità tecnica, economica e finanziaria, c) la pianificazione del
finanziamento e l’affidamento dell’opera ad una “società di progetto” (o "SPV" - Special
Purpose Vehicle) costituita ad hoc, d) la costruzione dell’opera ed e) l’avviamento della sua
gestione.
Fra i vantaggi di un’operazione di project financing, vi sono37 minori rallentamenti
burocratici e maggiore trasparenza, possibilità di beneficiare di un’elevata leva finanziaria,
indipendenza del progetto dall’ente pubblico e la possibilità di ripartizione dei rischi connessi
all’operazione. Si noti che tradizionalmente, le attività dell’operazione specifica costituiscono
l’unica garanzia collaterale associabile al finanziamento dello stesso e l’autonomia della
struttura giuridica creata ad hoc isola l’attività dal patrimonio dell’ente pubblico (tramite una
struttura di cosidetto ring fence, ovvero di “anello di recinzione”). Ne consegue che la
garanzia del debito utilizzato dalla società di progetto, nonché della copertura dei costi di
gestione e della remunerazione del capitale di rischio, è costituita dal flusso di cassa che
l’operazione produrrà: si parla di tecnica flow based, assai comune nei Paesi anglosassoni,
meno altrove. Finanziariamente è possibile classificare le forme di Project Financing in funzione
della tipologia di rivalsa dei soggetti finanziatori sugli azionisti della Società di Progetto, come
operazioni 1) "senza rivalsa" (without recourse), in cui è esclusa la rivalsa dei finanziatori sugli
azionisti, 2) con "rivalsa limitata" (limited recourse), in cui la rivalsa dei finanziatori sugli azionisti
è limitata nel tempo, nell'ammontare e nella qualità; e 3) con "rivalsa piena" (total recourse).
All’interno della tipologia più generale di PPP nota come project financing per le opere
pubbliche, si è soliti distinguere cinque alternative:
o Accordi Build-Operate-Transfer (BOT). Implicano l’affidamento della realizzazione
dell’opera ed il suo iniziale sfruttamento economico ad una impresa privata per il
periodo di concessione. Al termine del quale, l’opera viene trasferita all’ente pubblico,
il quale così non sostiene né i costi di costruzione né i rischi connessi ad essa. E’ il
metodo più impiegato nel campo delle infrastrutture di grande dimensione, come ponti,
autostrade, porti, centrali energetiche,….
o Accordi Build-Operate-Own (BOO). Implicano generalmente la vera e propria
privatizzazione dell’opera ovvero una concessione di durata pari all’intera vita
economica della stessa. Alternativamente possono prevedere la sola possibilità di
37
Cfr Tamarowski (2001) per un’analisi più dettagliata di questi fattori.
70
rinnovare la concessione dello sfruttamento dell’opera a seconda delle condizioni
createsi nel tempo relativamente alla redditività del progetto. Anche questa opzione si
applica tipicamente a opere di tipo infrastrutturali. La sottocategoria degli accordi
Build-Operate-Own-Transfer (BOOT) implica un periodo di concessione piuttosto
lungo, generalmente di decenni, al termine del quale la proprietà dell’opera passa
comunque all’ente pubblico che l’ha originariamente commissionata.
o Accordi Build-Lease-Transfer (BLT). Implicano un contratto di leasing per cui l’ente
pubblico resta proprietario dell’opera ma ne concede una locazione associata ad un
diritto di gestione e sfruttamento a fronte di un canone periodico. Il contratto ha tempo
determinato e al termine dello stesso l’opera può essere anche acquistata
definitivamente dal locatario sotto pagamento di un prezzo di riscatto predeterminato.
o Accordi Build-Operate-Own-Subsidize-Transfer (BOOST). Implicano una
compartecipazione dell’ente pubblico al finanziamento dell’opera dovuto
all’insufficienza del flusso di cassa generato per compensare i costi di produzione e
gestione: in gergo si parla di “opere fredde” per distinguerle dalle “opere calde” che
generano flussi di cassa maggiori. Questa tipologia riguarda la produzione di beni
pubblici tradizionali o misti, ovvero che non hanno il carattere di beni privati escludibili
(e su cui dunque non si può applicare tariffe).
o Accordi Rehabilitate-Operate-Leaseback (ROL). Implicano la ristrutturazione,
piuttosto che la costruzione, di opere pubbliche già esistenti e di proprietà pubblica, la
loro gestione per un periodo di tempo determinato e la loro restituzione all’ente
pubblico con una procedura di lease-back.
Altre forme minori di PPP includono:
5.2
•
sponsorizzazioni di opere pubbliche o di eventi cuturali (assai tipico è il caso di
restauro conservativo di beni storici, artistici, architettonici ed archeologici o di mostre
d’arte finanziati dal settore privato);
•
deleghe di responsabilità per servizi o infrastrutture ad organizzazioni nongovernative (magari non-profit);
•
cooperazioni volontarie o informali fra pubblico e privato.
L’esperienza internazionale ed in particolare inglese
Come si è già detto, nell’ultimo quarto di secolo forme diverse di PPP si sono
sviluppate a partire dai paesi anglosassoni, in particolare USA, UK, Irlanda, Canada e
71
Australia ed estese un po’ ovunque a partire da Olanda e Austria,38 ma anche paesi di
tradizione latina come Francia, Portogallo,39 Italia.40
L’esperienza del Regno Unito è di gran lunga la prima e la più rilevante in Europa. Si
noti che l’uso della PPP è stato promosso da governi conservatori in un periodo di crisi
economica, valutaria e di finanza pubblica (nel 1992), ma è stato continuato e ulteriormente
espanso dai governi laburisti. Si noti tuttavia anche che il debito pubblico del Regno Unito è
pari solo al 31% del PIL, per cui l’economia potrebbe sostenere tranquillamente ulteriori livelli
di indebitamento, specialmente per spese in conto capitale. In effetti, il ricorso alla PPP nel
Regno Unito riflette soprattutto la ricerca di un miglior rapporto costo/efficienza nella spesa
pubblica. Ricerche britanniche (Wilson, [2003]) hanno individuato risparmi nei costi del 2040% per le prigioni nel Regno Unito (le carceri sono stati fra i primi investimenti in PPP
pianificati già dal governo Thatcher), del 20-30% per i progetti idrici in Scozia, USA e
Canada, del 10-20% per le strade nel Regno Unito, Australia e Canada e fino al 5% per gli
ospedali nel Regno Unito.
La diffusione iniziale della PPP è stata comunque lenta anche nel Regno Unito,
eccezion fatta per i settori dei trasporti e delle prigioni che sono risultati i più remunerativi per i
privati. Lo sviluppo maggiore si è avuto verso la fine degli anni ’90. Nell’anno finanziario
2003-2004 ci si attende il finanziamento di 31 miliardi di euro di investimenti pubblici tramite
PPP, a fronte dei 35 miliardi di investimenti pubblici diretti: sebbene la componente di PPP sia
gonfiata dai nuovi investimenti per la Metropolitana di Londra (le stime per il 2004-2005 sono
di 7,5 e 39 miliardi di Euro), la PPP è ormai una componente essenziale dell’investimento
britannico in trasporti, edilizia scolastica e sanitaria (Wilson, [2003 a,b]).
5.2.1
Il tunnel sotto la Manica
Il tunnel sotto la Manica che congiunge Francia e Inghilterra è forse uno degli esempi
più spettacolari di PPP, dal quale si può trarre qualche insegnamento, in negativo e in positivo,
sull’utilizzo dello strumento.
Sebbene progetti di questo tipo risalissero ad almeno il XIX secolo 41, solo a partire
dagli anni 70 i costi dell’operazione si sono ridotti abbastanza da rendere appetibile il progetto
e solo nel 1985 i dubbi del Regno Unito sono caduti, a seguito dell’accordo a costruire il
tunnel senza investimenti pubblici diretti. Il progetto è stato avviato nel 1986 e ratificato nel
luglio 1987. La concessione originale, firmata nell’agosto 1987, per la costruzione e gestione
del Tunnel si configurava come un accordo BOT che prevedeva una durata fino al 2042.
38
Sulle esperienze di PPP di Olanda e Austria nel campo dell’innovazione si veda OECD (2003a,b).
Sull’esperienza portoghese, che ha devoluto alle PPP la costruzione del ponte sul Tago a Lisbona (17 Km
per 1000 milioni di Euro) nel 1993, ed un radicale ampiamento della rete autostradale (360 Km per 1200
milioni di Euro e una concessione di 30 anni) a partire dal 2000 si veda Fernades (2003).
40
Nel 2000 un importante Forum tenuto dall’ONU e dalla Commissione Europea (2001) ha fatto il punto
della situazione e dettato i principi guida che dovrebbero informare l’adozione di tali pratiche per lo
sviluppo di infrastrutture sulla base delle ultime esperienze internazionali.
41
Del 1802 è un progetto di tunnel di Albert Mathieu. Cfr. Li e Wearing (2001).
39
72
Il finanziamento dell’operazione è stato in parte garantito dal mercato azionario. Nel
novembre 1987 vennero emesse le azioni dell’Eurotunnel a 3,5 sterline l’una, con una raccolta
di 770 milioni di sterline. Gli scavi cominciarono nel dicembre dello stesso anno. Le aspettative
circa l’efficienza della fase di costruzione e circa il futuro sfruttamento commerciale dell’opera
erano alte, tanto da portare il valore delle azioni a 11,64 sterline nel giugno 1989 e da restare
al di sopra del prezzo di emissione comunque fino al 1994. In questa data i lavori furono
completati con un anno di ritardo, l’Eurotunnel aprì ufficialmente il 6 maggio e lo sfruttamento
commerciale potè iniziare. Tuttavia emerse anche che i costi erano stati doppi rispetto a
quanto previsto42 e che i guadagni dallo sfruttamento successivo inferiori alle previsioni per la
accresciuta competizione dei servizi di traghetto, un traffico di passeggeri pari a un terzo delle
previsioni ed un aumento dei costi operativi dovuto a esigenze impreviste. Nel settembre del
1995, Eurotunnel bloccò il pagamento degli interessi sul debito a breve. Nel novembre 1996 si
verificò un incendio che bloccò il traffico fino a maggio 1997. A questo punto la società era
sull’orlo del fallimento ed il prezzo delle azioni era crollato.
L’intervento di salvataggio implicò una ristrutturazione finanziaria e l’estensione della
concessione fino al 2086. Gradualmente l’indebitamento è stato ridimensionato e stabilizzato e
gli interessi ridotti. Tuttavia, a tutt’oggi, il breakeven inizialmente previsto per il 1998 resta
assai lontano, e i risultati operativi stentano a decollare.
Questo progetto mette in luce importanti elementi.
Il principale è l’alto rischio connesso ad opere di vasta scala, non solo di tipo politico e
macroeconomico (nella fattispecie non troppo rilevante ed adeguatamente assicurato), ma
soprattutto di previsione dei costi di costruzione e del rendimento della gestione. Nel momento
in cui il finanziamento deriva dal settore creditizio, è plausibile che le banche abbiano le
capacità di stimare adeguatamente costi e rendimenti nonché i rischi ad essi connessi, ma nel
momento in cui il finanziamento deriva dal mercato, i singoli azionisti non sono in grado di farlo
e devono basarsi sulle informazioni fornite da terzi, che spesso non sono accurate o sono
addirittura intenzionalemente deviate. Nel caso dell’Eurotunnel, molti piccoli azionisti
(soprattutto francesi, cioè appartenenti ad un mondo finanziario meno sviluppato di quello
inglese) non erano per nulla al corrente dei rischi connessi con l’investimento nelle azioni o
pensavano addirittura che vi fossero garanzie dei Governi (che invece erano del tutto escluse).
In questi casi, in cui la confusione fra responsabilità private e pubbliche può emergere,
è opportuno che il settore pubblico, pur non fornendo finanziamenti né garanzie, verifichi la
correttezza delle informazioni fornite al mercato circa le stime di remuneratività, tempistica e
rischio. Ciò è importante anche per creare un clima di aspettative positive su progetti di PPP
finanziati dal mercato che ne permetta la ripetizione in futuro.
5.3
Vantaggi e limiti della PPP
Una valutazione complessiva dell’uso di forme di PPP deve confrontare tali pratiche con
l’alternativa dell’investimento pubblico diretto in relazione (almeno) ai seguenti aspetti: 1)
42
I costi totali sono ammontati a 9,5 miliardi di sterline, di cui il 22% ottenuto dalle emissioni di titoli
azionari ed il resto da prestiti bancari.
73
efficienza produttiva, 2) selezione dei progetti, 3) allocazione del rischio, 4) sistema di
finanziamento e 5) governance dei progetti.
•
Efficienza produttiva
E’ un luogo comune ritenere che l’investimento privato sia più efficiente (possa essere
effettuato a costi inferiori) di quello pubblico. La teoria economica generalmente supporta
questa conclusione per diversi motivi, alcuni dei quali si collegano alla teoria delle asimmetrie
informative e dei contratti incompleti a cui abbiamo già fatto riferimento nel primo capitolo.
o Innanzitutto la massimizzazione dei profitti perseguita dal settore privato genera
naturalmente una minimizzazione dei costi, laddove obiettivi diversi dei manager
pubblici possono gonfiare i costi. I manager pubblici possono preferire un’espansione
del budget per aumentare il loro controllo o deviare risorse verso obiettivi non
connessi al progetto, sono più sensibili a forme di lobbying o di vera e propria
corruzione, nonché alle esigenze dei politici da cui dipendono. Inoltre, all’interno del
settore pubblico, il vincolo di bilancio è tipicamente più soft che nel settore privato,
ed è dunque più probabile che i manager pubblici non tendano aminimizzare i costi.
o In secondo luogo, la prospettiva temporale affrontata dal settore privato induce una
particolare attenzione alla riduzione dei tempi di sviluppo dell’opera in modo da
avvicinare il momento dello sfruttamento commerciale e quindi aumentare i profitti
attesi, ridurre la durata dell’indebitamento necessario ed anche i rischi che possono
emergere nella fase di sviluppo. Al contrario, manager pubblici e politici sono meno
sensibili a questa esigenza e più sensibili invece alle scadenze contrattuali dei primi e
elettorali dei secondi.
o In terzo luogo, i privati sono tendenzialmente volti a innovare maggiormente per
ridurre i costi. Al contrario, come già ricordato nel capitolo 1, i manager pubblici
hanno pochi incentivi a innovare, perché il loro reddito è scarsamente collegato alle
performances (anche per problemi di non misurabilità o verificabilità delle stesse) e
anche perché possono anche essere sostituiti senza beneficiare degli investimenti fatti.
Quindi, laddove le innovazioni per la riduzione dei costi sono importanti, la PPP
offrono un vantaggio rispetto al tradizionale investimento pubblico. Questo vantaggio si
estende anche alle innovazioni per la qualità, quando è possibile contrattare la qualità
della gestione ancor prima della costruzione dell’opera, o quando il privato può essere
reso residual claimant di almeno parte dei ritorni sociali dell’innalzamento nella
qualità.
o Infine, quando i privati assumono un’iniziativa di investimento pubblico sono
tipicamente scelti dagli enti appaltanti sulla base di gare o aste che selezionano
preliminarmente i candidati più efficienti e li vincolano anche a garantire certi risultati
almeno in via parziale. In questo senso, le procedure di gara pubblica introdotte in
molti Paesi in cui la PPP si sta sviluppando, Italia inclusa, forniscono una garanzia di
74
efficienza produttiva a parità di risultato. Inoltre privati che si specializzano in certe
attività acquisiscono know-how ed economie di scala da riutilizzare per più progetti
simili, un accumulo di capitale di competenze che sarebbe difficile perseguire e
conservare all’interno del settore pubblico.
Naturalmente, i privati potrebbero essere portati ad esagerare le proprie capacità in
sede d’asta denunciando bassi costi e tempi brevi. Evitare questi incentivi perversi
richiede di chiarire preliminarmente che le responsabilità di prestazioni diverse da quelle
previste siano addossate agli stessi privati. Un primo metodo è di definire i tempi ed i
modi di sfruttamento dell’opera sulla base delle dichiarazioni fatte senza successive
deroghe, così da stabilire incentivi a denunciare le capacità effettive dei privati in sede
d’asta (i loro guadagni sarebbe proporzionalmente ridotti in caso di insuccesso). Un
secondo metodo è di escludere forme di garanzia pubblica su eventuali insuccessi. Nel
linguaggio della moderna teoria dei contratti, simili accorgimenti possono non essere
renegotiation-proof, ma sono essenziali per ottenere gare trasparenti ed efficienti.
Per contro, occorre evidenziare anche alcuni limiti dell’intervento privato nel campo
degli investimenti pubblici.
o In primo luogo, il settore privato potrebbe manifestare la tendenza ad un’eccessiva
riduzione dei costi, con effetti negativi sulla qualità del prodotto finale o sui benefici
sociali dell’investimento. La letteratura teorica sull’incompletezza contrattuale nei
rapporti di PPP sottolinea questo fattore: laddove è impossibile o difficile contrattare la
qualità dell’opera in fase di gestione, diventa preferibile l’investimento diretto operato
da manager o imprese pubbliche o tramite appalto a privati per la sola costruzione.
o In secondo luogo, il settore privato cui sono demandati investimenti di valore sociale
acquisice delle informazioni private circa le tecnologie a sua disposizione, i costi ad
esse connessi, i trade-offs fra costi e qualità e così via. Per questo motivo, in sede
contrattuale, il settore pubblico deve lasciare delle rendite informative ai privati che
possono anche essere piuttosto alte e che possono riflettersi anche in rapporti
successivi tra imprese private e settore pubblico.
o In terzo luogo, la presenza di esternalità può rendere il valore sociale dei progetti
diverso da quello privato; di consequenza, ciò che è efficiente dal punto di vista sociale
può differire da quello che è efficiente dal punto di vista privato. Ad esempio, l’utilità
sociale di una infrastruttura di comunicazione è assai maggiore dei profitti appropriabili
dal suo gestore privato, per cui il tempo di costruzione efficiente dal punto di vista
sociale potrebbe essere più breve di quello efficiente dal punto di vista privato. Inoltre,
se il gestore potrà sfruttare commercialmente l’infrastruttura per un periodo limitato di
tempo, mentre questa rimarrà in mano pubblica successivamente, il gestore investirà in
manutenzione in modo subottimale dal punto di vista sociale. In teoria, questi aspetti
potrebbe essere risolti nella formulazione della gara per la concessione; in pratica, la
stessa incompletezza contrattuale che generalmente avvantaggia il project financing,
rende difficile perseguire questa strada.
75
o In quarto ul ogo, le argomentazioni sopra citate a favore del project financing si
applicano integralmente nel caso di cosiddette “opere calde”, ovvero il cui
sfruttamento commerciale può interamente rimborsare i costi di sviluppo, ma non
completamente nel caso di “opere fredde” o “opere tiepide”. In questi casi il settore
pubblico deve comunque garantire ai privati una parte della remunerazione e fenomeni
di moral hazard o hold up possono determinare distorsioni nelle scelte di produzione.
In teoria, se il contributo pubblico fosse indipendente dai tempi di sviluppo dell’opera
e dall’effettiva remuneratività della stessa, non ci dovrebbero essere interferenze, ma
tali condizioni sono irrealistiche per problemi di incompletezza contrattuale e di
rinegoziazione. Nuovamente, la fase contrattuale, e più in generale la normativa
giuridica che la regola, sono fondamentali per attribuire i corretti incentivi alle imprese
private che investono in opere pubbliche.
o In quinto luogo, si è implicitamente assunto che il settore privato agisca in un contesto
perfettamente competitivo sui mercati degli input. Generalmente, vi sono invece forti
distorsioni sia nel mercato del lavoro sia nel mercato dei capitali, che possono indurre
scelte produttive inefficienti da parte dei privati.
o Infine, vi è un problema di incertezza connaturato all’investimento dei privati che non
sussiste nel caso degli investimenti pubblici. Si tratta dell’incertezza legata alla
concorrenza (che può sempre emergere in seguito alla costruzione di un’opera; cfr.
per esempio il caso dei traghetti per l’Eurotunnel) e dell’incertezza politica legata
all’attività di regolamentazione, all’evoluzione delle norme fiscali ed agli stessi
inadempimenti contrattuali che possono derivare dalla classe politica in seguito
all’avviamento del progetto (specialmente se di lunga durata ed in caso di notevole
instabilità o alternanza politica). Poiché il settore pubblico gode del diritto unilaterale di
stabilire regole ed imposizioni fiscali anche in deroga a patti precedenti, vi è un
problema di incompletezza contrattuale che va affrontato massimizzando le possibilità
di commitment del sistema politico agli accordi presi con i privati. Il problema è tanto
più rilevante quanto più locale è l’ente pubblico in questione, per il sovrapporsi di più
livelli politici: ad esempio, le iniziative a livello comunale sono soggette ad incertezza,
non soltanto in relazione alle scelte del Comune coinvolto, ma anche alle scelte di
Provincia, Regione e Stato Centrale, se queste condizionano l’ambito di azione del
Comune. Si tratta evidentemente di una problematica complessa, di difficile soluzione,
ma che potrebbe condizionare l’espansione di forme di PPP efficienti.
•
Selezione dei progetti
Mentre fino ad ora si è discusso di efficienza produttiva, a parità di progetto, è naturale
chiedersi se i progetti attuabili e attuati con forme di PPP combacino con quelli che
risulterebbero ottimali dal punto di vista sociale. Nella scelta dei progetti, possono infatti
emergere forme di adverse selection che portano a non sviluppare alcuni progetti socialmente
desiderabili o addirittura a sviluppare alcuni progetti non socialmente desiderabili. Pertanto,
76
diventa rilevante il ruolo propositivo e decisionale del settore pubblico in merito alla scelta dei
progetti. Ciò non significa che le scelte del settore pubblico siano sempre desiderabili da un
punto di vista sociale.
Sono di seguito esaminati i possibili bias nella scelta dei progetti di PPP.
o È naturale ritenere che il mercato assorbirà innanzitutto i progetti a più alta
remunerazione attesa, ma il problema non è di grande rilevanza se vi è un’alta
correlazione fra quest’ultima e la desiderabilità sociale di un progetto. Tuttavia è
evidente che non sempre i progetti che più si prestano allo sfruttamento
commerciale sono anche quelli più desiderabili sotto il profilo sociale. Ad esempio,
sono molto remunerativi i progetti che garantiscono un flusso di introiti precoce,
mentre, quando il punto di break-even è lontano nel tempo, il settore privato
potrebbe trovare il valore attuale degli introiti insufficiente o troppo rischioso per
giustificare l’investimento. Dato che il fattore di sconto sociale è concettualmente
diverso dal tasso di interesse di mercato, progetti a lungo termine ma socialmente
desiderabili potrebbero essere impraticabili con la PPP. Inoltre, se il valore
sociale di un progetto è maggiore del suo valore privato, il settore privato tenderà
ad assorbire troppo pochi progetti.
o Il settore privato potrebbe selezionare i progetti in base al loro grado di rischio. In
tal caso, si possono verificare diverse alternative. In presenza di imprenditori
capaci di autofinanziarsi ma avversi al rischio, o semplicemente incapaci di
diversificare i forti rischi connessi ai grandi investimenti in infrastrutture, verrebbero
penalizzati i progetti socialmente desiderabili, ma caratterizzati da un elevato grado
di rischio. La natura stessa della PPP pone parziale rimedio a questo problema,
con il coinvolgimento di un numero maggiore di investitori laddove il rischio è più
alto. Tuttavia, la capacità di risolvere il problema è sostanzialmente rimandato
all’esistenza di un mercato dei capitali efficienti e capace di assorbire il rischio. Se
per esempio invece gli imprenditori fossero neutrali al rischio e si finanziassero in
modo prevalente con l’indebitamento bancario, si potrebbe generare un processo
di selezione avversa, per cui sarebbero prediletti progetti ad alto rischio, con
rendimenti superiori alla media, ed eventuali perdite addossate ai creditori.
o Il settore privato può prediligere progetti che garantiscono vantaggi in altre attività
in qualche modo collegate all’opera stessa ma non appropriabili dal resto della
società. Possono essere progetti in cui è difficile stabilire e far rispettare standard
qualitativi minimi e, una volta avviati, concretizzarsi in opere di scarso costo e
bassa qualità.
o Da ultimo, occorre sottolineare una componente fondamentale nella scelta dei
progetti per infrastrutture pubbliche, ossia la complementarietà fra più progetti.
Dal punto di vista sociale, la desiderabilità di un’infrastruttura pubblica dipende
dalle altre esistenti in modo assai rilevante, per cui la programmazione
dell’investimento pubblico dovrebbe essere naturalmente ad ampio raggio. È
77
chiaro che forme di PPP che assegnano diversi progetti ad imprese diverse (in
quanto limitate nelle capacità di investimento o specializzate tecnologicamente)
possono indurre scelte che non tengono adeguatamente conto della
complementarietà fra progetti. Ad esempio, due infrastrutture altamente
complementari potrebbero essere socialmente desiderabili se costruite e gestite
contemporaneamente, ma ciascuna potrebbe essere singolarmente non
conveniente per il settore privato: in questo caso il mercato potrebbe non
assorbire più progetti desiderabili in modo congiunto. Anche per questo motivo,
un ruolo propositivo e di coordinamento da parte del settore pubblico è
auspicabile nella scelta dei progetti da affidare a forme di PPP.
Occorre tuttavia notare che l’investimento pubblico diretto può essere soggetto ad
altre distorsioni non meno gravi seppure di diversa natura. Se ne elencano alcune che mettono
in evidenza il complesso trade-off fra investimento pubblico e privato in infrastrutture.
o Gli investimenti pubblici possono rientare nell’ambito di scelte politiche, soggette a
vincoli di visibilità politica e di scadenze elettorali che ne condizionano l’adozione a
seconda del calendario politico. Ciò talvolta rende difficile attuare investimenti che
forniscono visibilità solo nel lungo termine e supporta quelli che incontrano un
riconoscimento più vasto nel breve termine.
o I politici possono scegliere strategicamente gli investimenti pubblici per
accontentare diversi segmenti di elettorato, tipicamente segmenti geografici, data la
natura degli investimenti locali (lasciando ad altre politiche il raggiungimento di
segmenti sociali o ideologici che sono diversamente distribuiti geograficamente).
Ciò crea sovrainvestimento in regioni dove i politici sono in cerca di voti o dove
l’attività di lobbying è più attiva a scapito di investimenti meritevoli altrove.
o Infine, i politici possono anch’essi valutare il rischio degli investimenti in modo
inefficiente e, a seconda delle loro esigenze elettorali, adottare rischi maggiori o
minori e soprattutto intraprendere investimenti i cui rischi si manifestino solo
successivamente agli appuntamenti elettorali.
•
Allocazione del rischio
Gran parte della letteratura aziendalistica43 sul project financing enfatizza i vantaggi che
derivano dalla PPP nella gestione e allocazione del rischio. In realtà, non vi sarebbe ragione
economica di ritenere che il settore pubblico debba addossare al settore privato i rischi relativi
a infrastrutture di interesse collettivo, tanto più che molti di questi rischi sono di carattere
macroeconomico o addirittura politico e quindi trovano il naturale “assicuratore” nella parte
pubblica. Tuttavia, da un punto di vista imprenditoriale, può rivelarsi efficiente allocare i diversi
43
Cfr. Tamarowski (2001).
78
tipi di rischio, connessi a progetti specifici, fra istituzioni specializzate presenti nel settore
privato, in base alle diverse capacità di gestire i rischi stessi.
Nella fase di costruzione, i rischi sono principalmente di natura tecnica, relativi ai costi
effettivi di realizzazione, di modifica in corso d’opera nonché di approvvigionamento e
fornitura, e ai tempi di completamento. Nella successiva fase di gestione, invece, emergono
rischi di natura diversa, associati alle effettive possibilità di sfruttamento dell’opera,
all’andamento dei tassi di interesse e di cambio - che diventano tanto più rilevanti quanto più
ampio è l’orizzonte temporale – e ai mutamenti dello scenario politico, con effetti sulle relazioni
con gli enti pubblici appaltanti. L’allocazione di questi rischi richiede un’attenta e dettagliata
negoziazione che coinvolge precisi contratti di responsabilità, compagnie assicuratrici, banche e
strumenti finanziari complessi. Senza entrare nel dettaglio, occorre però dire che i problemi di
incompletezza contrattuale sono assai rilevanti e non tutti i rischi possono essere assicurati.
Ciononostante, è intuitivo che è preferibile e più facile suddividere i rischi fra una moltitudine di
istituzioni specializzate che addossarli interamente a pochi soggetti.
Occorre tuttavia notare che molti degli strumenti assicurativi disponibili nel settore
privato possono anche essere utilizzati da manager pubblici. Un esempio interessante è quello
dei revenue bonds americani, che permettono di finanziare contemporaneamente più
investimenti, con l’emissione di obbligazioni garantite da un insieme di progetti caratterizzati da
diverso grado di rischio44.
•
Sistema di finanziamento
Il lato del finanziamento è sicuramente il punto debole dalla PPP rispetto
all’investimento pubblico. Il costo effettivo del capitale è infatti sostanzialmente diverso nei due
casi.
o L’investimento pubblico diretto è tipicamente finanziato con debito pubblico. In effetti,
i principi di teoria della politica fiscale prevedono che l’investimento pubblico, come
ogni spesa che ripartisce i suoi benefici nell’arco delle generazioni future (l’esempio
accademico sono le spese di guerra), debba essere finanziato non tramite un aumento
temporaneo delle imposte, bensì lasciando queste costanti nel tempo (tax
smoothing) e creando debito pubblico. Poiché i tassi d’interesse sul debito pubblico
sono più bassi rispetto a quelli che il sistema bancario richiederebbe agli investitori
privati, il costo del capitale risulta relativamente minore45.
44
Si tratta di uno strumento finanziario non consentito nel contesto italiano.
Grout (1998) suggerisce tuttavia che il tradizionale argomento a favore del settore pubblico sul piano del
finanziamento sia in realtà fuorviante. E’ vero che il settore pubblico si può finanziare a tassi inferiori di
quelli del settore privato, ma questo dipende non da una qualche maggior capacità di cumulo dei rischi da
parte del settore pubblico (se i mercati dei capitali sono efficienti, ciò dovrebbe essere possibile anche per
il settore privato), ma perché il settore pubblico gode di sovranità fiscale, può cioè costringere i
contribuenti a pagare le tasse e dunque a onorare i propri debiti. In altri termini, il minor tasso di interesse
dei titoli pubblici dipende da questa capacità, non dal rischio implicito nel particolare progetto sotto
considerazione. In realtà, se si considera che i contribuenti e gli eventuali finanziatori privati di un project
financing sono in realtà le stesse persone, non fa nessuna differenza se il progetto è eseguito dal settore
pubblico o da quello privato. I finanziatori privati richiderebbero un maggior premio per il rischio in un caso
45
79
o Inoltre, la PPP è connessa a forti problemi di finanziamento dato che prevede forti
investimenti iniziali a fronte di flussi di cassa futuri e comunque incerti (nel project
financing in particolare). L’assenza di garanzie reali associabili ex ante al progetto
richiede un finanziamento con maggiori dosi di rischio e crea problemi ben noti in
presenza di un mercato imperfetto dei capitali. Per questo motivo, nel mondo
anglosassone, più abituato al credito associato a garanzie non reali bensì basate sulla
redditività futura, il project financing per opere pubbliche (ma anche private) si è
sviluppato precocemente e in modo più vasto. Laddove il settore bancario è meno
competitivo e fonte di vincoli sul credito (in termini di razionamento del credito
tradizionale) tre soluzioni appaiono possibili. Solo le prime due sono soluzioni di
mercato:
1. La prima soluzione consiste nel finanziamento diretto sul mercato dei capitali:
nel momento in cui le società di progetto sono in grado di raccogliere capitale
tramite prestiti obbligazionari o emissione di azioni, un mercato trasparente
sarebbe in grado di misurare adeguatamente la redditività attesa ed il rischio
connessi all’operazione, garantendo il finanziamento dei soli progetti
convenienti. L’Eurotunnel è un classico esempio il cui finanziamento totalmente
privato ed in parte tramite emissione di azioni sul mercato è stato voluto dal
Regno Unito come precondizione per la realizzazione dell’opera, costruita in
tempi relativamente brevi. Per contro, quell’esperienza insegna che il
finanziamento sul mercato azionario può essere un’ottima iniziativa, ma il
settore pubblico dovrebbe almeno farsi garante della correttezza e del
realismo delle informazioni sulla redditività dei progetti, che sono per loro
natura assai soggetti ad incertezza. Nonostante simili forme di finanziamento
non siano ad oggi previste in Italia, è auspicabile che il ricorso al mercato
venga preso in considerazione laddove possibile.
2. La seconda soluzione è che parti del mondo bancario più direttamente legate
al settore pubblico, in quanto sotto il controllo pubblico o con una
specializzazione nell’investimento in infrastrutture pubbliche, siano in grado di
approfondire la propria esperienza nel campo della PPP ed acquisire livelli di
diversificazione tali da trovare conveniente il finanziamento di progetti
meritevoli benché privi di garanzie reali. In Paesi, tra cui l’Italia, con una
debole cultura del ricorso al mercato azionario, questa soluzione appare
l’alternativa principale per risolvere i problemi sopra discussi. Tale via è infatti
stata intrapresa in Italia, dove alcune imprese del settore bancario hanno
acquisito forte esperienza e professionalità nel campo del finanziamento di
PPP.
e pagherebbero più imposte nell’altro. Naturalmente in presenza di varie imperfezioni politiche o di mercato,
questa equivalenza non è più valida.
80
3. La terza soluzione risiede nella possibilità che sia lo stesso settore pubblico a
fornire garanzie anche reali per i creditori. Tale soluzione è però non priva di
rischi. Il primo è che tali forme di garanzie renderebbero assai meno utile il
ricorso alla PPP annacquandone i vantaggi. In secondo luogo, uno dei motivi
più importanti per l’adozione di forme di PPP in pratica (sebbene discutibile o
addirittura irrilevante sotto il profilo economico sostanziale) è la possibilità di
non aggravare la finanza pubblica a livello sia centrale che locale con
indebitamento diretto. Infatti, i limiti, soprattutto a livello europeo, alla
possibilità di mettere investimenti fuori bilancio quando sono tuttavia garantiti
dallo Stato fanno svanire questo vantaggio.
•
Governance
L’organizzazione di un progetto per la costruzione e la gestione di un’infrastruttura
pubblica, i rapporti con le varie parti in causa ed in primo luogo i finanziatori, gli utenti e
l’amministrazione politica, pongono complesse questioni di governance. Anche alla luce delle
considerazioni precedenti, una corretta allocazione dei poteri decisionali dovrebbe soddisfare i
seguenti requisiti:
1. priorità del settore pubblico nella scelta dei progetti da sviluppare nell’interesse
dell’utenza;
2. priorità del settore pubblico nella selezione del management più efficiente che
possa garantire gli interessi dell’utenza;
3. indipendenza del management nella fase di sviluppo;
4. indipendenza del ruolo di controllo finanziario da parte dei finanziatori.
In linea di principio, la PPP è in grado di soddisfare tutti questi requisiti mentre
l’investimento pubblico diretto, legando inestricabilmente l’amministrazione politica al
management e ai finanziatori, rende difficile soddisfare gli ultimi due requisiti. Tuttavia è
importante che la PPP sia organizzata propriamente sotto ogni aspetto e ciò dipende in larga
parte dalla normativa giuridica, dai costumi politici e dalla struttura finanziaria del paese in cui si
effettua.
Il requisito 1) impone che il ruolo propositivo del settore pubblico non assecondi solo
le preferenze del settore privato, così da evitare le distorsioni nella selezione dei progetti
discusse in precedenza.
Il requisito 2) impone che l’asta per l’affidamento dell’opera sia il più trasparente
possibile, che consideri costi e tempi di sviluppo accuratamente stimati con responsabilità
pendenti sui privati in caso di successivi insuccessi e che delinei contratti precisi per lo
sfruttamento commerciale. La fase contrattuale è quindi fondamentale ed il suo corretto
disegno dipende in gran parte dalla normativa giuridica che la determina.
Il requisito 3) vorrebbe che le interferenze fra l’amministrazione ed in particolar modo
la burocrazia pubblica ed il management vengano limitate, e che mutamenti nella direzione
81
politici non influenzino i rapporti pregressi. Ciò permetterebbe di abbattere i rischi politici e
quindi di aumentare il valore degli investimenti privati in PPP e dunque la loro attrattiva ex
ante.
Infine, il requisito 4) richiede che non vi siano incroci perversi fra la classe
imprenditoriale e quella bancaria tali da distorcere le scelte del management. I problemi di
finanziamento sono i più complessi in opere di project financing e lo sviluppo di un mercato
finanziario adeguato è fondamentale per uno sviluppo positivo della PPP.
Chiaramente non tutte queste condizioni sono facili da realizzare e sono comunque il
frutto di un insieme di fattori politici, culturali e di struttura economica che possono essere
mutati solo lentamente nel tempo.
5.4
Il rapporto fra investimenti pubblici diretti e PPP
Un ultimo fattore che merita particolare attenzione nella valutazione della PPP e della
sua graduale introduzione in un sistema di investimenti pubblici riguarda la sostituibilità fra
investimenti pubblici diretti e quelli affidati ai privati. Questo punto è stato largamente
sottovalutato nel valutare i benefici della PPP e gioca invece un ruolo fondamentale nel lungo
termine.
Si consideri un sistema di investimenti pubblici esclusivamente diretti. In tale sistema è
prevista una scelta politica di ripartizione della spesa fra spesa corrente e spesa per
investimenti. Quest’ultima implicherà ulteriori flussi di spesa corrente nei periodi futuri, ad
esempio per opere di manutenzione. Nel momento in cui un investimento viene affidato al
settore privato, questo finanzierà l’operazione e gestirà l’opera in futuro, il che fa venire meno
non solo la spesa iniziale per investimenti ma anche i flussi di spesa futuri ad essa associati,
liberando risorse. In parte queste risorse sono puramente contabili, un punto su cui torneremo
nelle conclusioni; in parte, sono risorse reali, dovute alla maggior efficienza e quindi alla
riduzione dei costi che l’affidamento ai privati comporta. La questione cruciale è come queste
risorse verranno impiegate. Alcune problematiche emergono.
Innanzitutto la PPP può modificare la scelta fra spesa corrente e spesa per
investimenti: il settore pubblico potrebbe semplicemente ridurre la seconda e destinare le
relative risorse ad incrementare le spese correnti, oppure potrebbe destinare le risorse
interamente a nuovi investimenti pubblici. Solo nel momento in cui il crowding out non è
completo, la PPP crea un vero e proprio moltiplicatore dell’investimento pubblico che porta a
sostanziali incrementi della dotazione infrastrutturale. Si tratta evidentemente di una questione
empirica, benché difficile da verificare. Per esempio, il caso inglese e lo stesso caso italiano
(benché più limitato quantitativamente e temporalmente) discusso nel capitolo successivo, non
sembrano dare l’impressione che i fenomeni di crowding out siano stati rilevanti e tantomeni
completi. Tuttavia, poiché non è possibile conoscere quali sarebbero stati gli investimenti
pubblici in assenza di PPP, e poiché comunque gli effetti finali si vedranno solo tra molti anni, è
difficile attribuire con certezza un effetto moltiplicativo e non solo sostitutivo alla PPP.
In secondo luogo, se gli investimenti in PPP fossero uniformemente distribuiti fra i
diversi settori di intervento, si potrebbe pensare che le risorse residue vengano redistribuite in
modo da non alterare l’allocazione delle risorse fra i diversi settori. In realtà poiché la PPP si
82
concentra nei settori ad alta redditività privata (con possibilità di tariffazione, etc.), il settore
pubblico potrebbe destinare le risorse liberate agli investimenti meno redditizi, ma comunque
specialmente rilevanti.
E’ chiaro che considerazioni politiche possono far deviare l’esito di questo processo
da condizioni di ottimalità. In un caso estremo, i politici potrebbero usare la PPP come un
espediente per liberare risorse da utilizzare per spesa corrente di proprio interesse (a fini
elettorali o di rendita politica personale) mantenendo gli investimenti pubblici a livelli accettabili
grazie all’iniziativa privata, senza adottare nuove forme di investimento in nuovi settori.
5.5
Conclusioni
In questo capitolo è stata presentata l’esperienza internazionale (specialmente inglese)
nel campo della PPP, si è discusso delle diverse modalità che la PPP può assumere, insistendo
in particolare sul suo aspetto più caratteristico, il project financing, e si è affrontata la
questione dei vantaggi e degli svantaggi che questo particolare strumento finanziario può offrire
rispetto alle forme più tradizionali di investimento pubblico. Il giudizio complessivo sulla validità
della PPP non può che restare sospeso, in parte perché dipende dal particolare progetto sotto
analisi, in parte perché ci sono varie forze in gioco e il giudizio finale dipende
fondamentalmente da quanto rilevanti sono queste forze in pratica, cioè sostanzialmente da una
questione empirica. Tuttavia, la discussione concettuale è almeno utile per chiarire alcuni degli
aspetti fondamentali della questione.
Innanzitutto, la PPP in generale e la Finanza di Progetto in particolare, sono spesso
presentati e difesi come un modo meno costoso di effettuare investimenti pubblici, utile
soprattutto in presenza di risorse scarse a disposizione della finanza pubblica, vuoi per crisi
strutturali o per vincoli internazionali. Ma questa è sostanzialmente un’illusione ottica, o più
esattamente contabile. Un investimento pubblico tradizionale, finanziato con l’emissione di titoli
del debito pubblico, comporta un esborso attuale, a fronte del quale ci possono essere ritorni
futuri, per esempio in termini di servizi tariffabili (si pensi a un’autostrada) oppure di servizi per
la collettività (si pensi ad un carcere). Lo stesso investimento effettuato come PPP non
comporta esborsi presenti, perché il privato si fa carico della costruzione, ma può comportare
esborsi futuri, per esempio perché il pubblico deve ora acquistare dal settore privato questi
stessi servizi (il carcere), oppure perdite future, in quanto il servizio, ceduto ai privati, non può
comportare più per il settore pubblico entrate da servizi tariffabili (l’autostrada). Se l’opera
pubblica fosse effettuata nello stesso modo dal settore pubblico o in forma di PPP, i flussi
finanziari sarebbero esattamente gli stessi nei due casi, implicando che gli effetti (scontati al
presente) sul bilancio pubblico sarebbero esattamente gli stessi. E’ solo la (imperfetta)
contabilità pubblica che fa apparire i due investimenti come diversi; nei fatti essi sono
esattamente equivalenti. E’ vero che molti Governi (a partire da quello inglese) sostengono
fortemente la PPP proprio per questi effetti contabili, resi inoltre importanti dai vari vincoli
nazionali e internazionali (come il Trattato di Maastricht), che fortemente insistono sulla stessa
imperfetta contabilità pubblica; ma ciò non toglie che la base economica di questi ragionamenti
sia fallace.
83
Non è neppure vero che gli investimenti finanziati in PPP siano in genere meno costosi,
in quanto possono far riferimento ad un robusto mercato finanziario che consente l’allocazione
efficiente del rischio, un tema caro agli aziendalisti. In genere, in realtà, è vero il contrario. Per
quanto l’argomento sia più complicato di quanto possa apparire a prima vista (cfr. la nota 12),
è vero in generale che il settore pubblico può finanziarsi a costi inferiori rispetto al settore
privato, per la semplicissima ragione che il settore pubblico, grazie ai suoi poteri di coercizione
fiscale, può garantire di onorare i propri debiti in una misura che nessun operatore privato può
fare. In prima approssimazione, i progetti in PPP sono dunque più e non meno costosi dei
progetti tradizionali di investimento pubblico.
Quali sono dunque i vantaggi veri della PPP? Come è già stato notato nel primo
capitolo, e come si è qui approfondito, questi vantaggi dipendono dai maggiori incentivi che la
PPP offre agli operatori nel ridurre i costi. Per ragioni complesse, ma sostanzialmente legate
all’incompletezza dei contratti, e dunque all’appropriabilità dei benefici degli investimenti
migliorativi, un operatore pubblico non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad
innovare per abbattare i costi del progetto, sia nella fase della costruzione che della gestione
del servizio. Su questo punto, l’evidenza empirica è chiara. Nel caso inglese, per esempio,
l’affidamento ai privati ha comportato un taglio netto dei costi, un’accelerazione nei tempi di
esecuzione delle opere, una riduzione drastica dei casi di costi superiori al preventivato e così
via. Questo è il grande vantaggio (economico, non puramente contabile) della PPP. Ma questo
stesso vantaggio comporta dei rischi. Gli stessi incentivi che spingono il settore privato a
innovare per ridurre i costi, possono condurlo a innovare per ridurre la qualità dei servizi.
Questo suggerisce di non affidare in PPP quei progetti in cui la qualità sia un aspetto
fondamentale del servizio, oppure in cui la qualità non possa essere contrattata con sufficiente
precisione ex ante.
Inoltre, non tutto può essere affidato alla PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni dei
mercati dei capitali, tanto maggiori in un Paese come il nostro dove i mercati finanziari sono
poco sviluppati, il settore privato tenderà a selezionare solo quei progetti dove il rischio è
basso e i ritorni possono essere sufficientemente rapidi e sicuri. Il prossimo capitolo fornirà
evidenze di questi comportamenti nel nostro Paese. Si possono immaginare interventi
migliorativi su questo fronte, e alcuni sono stati discussi in questo capitolo, sia per quanto
riguarda il modo con cui si dovrebbe procedere per l’assegnazione di progetti in PPP (il
controllo dell’agenda, il contratto, la gara, l’assenza di rinegoziazione etc.) sia per quanto
riguarda le varie possibilità di finanziamento, ma resta il fatto che al settore pubblico resterà
l’onere di effettuare quegli investimenti, che o per grado di rischio o per insufficienza di ritorni a
breve, il settore privato non vorrà fare.
Ciò conduce al problema principale, su cui è stata focalizzata l’attenzione in
conclusione di capitolo. L’adozione delle PPP libera risorse per il settore pubblico, vere o
contabili; è importante che queste risorse non siano sprecate, ma utilizzate efficacemente, per
finanziare gli investimenti che le varie forme di PPP non possono coprire. Altrimenti, vi è il
rischio che la diffusione della PPP conduca soltanto ad un’accelerazione della spesa corrente
nel presente e a maggiori guai per la finanza pubblica in futuro.
84
6
LA PPP IN ITALIA: NORMATIVA GIURIDICA, ESPERIENZE SETTORIALI
E VALUTAZIONE COMPLESSIVA
Questo capitolo è dedicato all’analisi dell’esperienza italiana di partnership pubblicoprivato e project financing sia sotto il profilo quantitativo sia sotto il profilo qualitativo. In
particolare, ci si propone di valutare i risultati dell’esperienza italiana, cercando di evidenziare i
fattori (economici, legislativi, finanziari, ecc.) che possono spiegarne la diffusione attuale e/o
possono ostacolarne un corretto utilizzo. Vengono in particolare analizzate la normativa
giuridica, la morfologia dell’esperienza italiana in termini di articolazione territoriale, tipologica,
di committenza e di settore d’intervento.
6.1
Il quadro giuridico di riferimento
La diffusione di forme di investimento e finanziamento avanzate come quelle di PPP
richede un quadro legislativo adeguato e certo. Il problema è maggiormente avvertito nei
Paesi, come l’Italia, soggetti a civil law piuttosto che a common law, ovvero ad una
giurisprudenza basata sulle convenzioni formatesi nel tempo e quindi più consona a permettere
e ratificare legislativamente l’evoluzione ed il progresso di nuove forme di iniziativa privata.
Inoltre, sulla base del nostro diritto commerciale, le parti sono ampiamente limitate nello
stipulare un contratto non espressamente previsto nella normativa in vigore46 e devono cercare
46
Sebbene la volontà tra le parti abbia forza di legge, tutte le conseguenze previste e non previste di un
contratto sono soggette alla leggee, in mancanza di questa, agli usi o all’equità.
85
di evitare clausole che possano portare l’autorità giudicante all’annullamento o alla risoluzione
di un contratto. Ciò amplifica il problema dell’incompletezza contrattuale ed inibisce iniziative
private specialmente di carattere innovativo. Negli ultimi dodici anni, il legislatore ha
regolamentato le diverse forme di PPP, emanando norme sull’organizzazione degli appalti
pubblici e di riorganizzazione della pubblica amministrazione. Ciò ha permesso di avvicinare la
normativa italiana a quella anglosassone, promuovendo notevolmente l’uso di forme di finanza
innovativa negli anni più recenti, quali il project financing di opere pubbliche, e creando le
condizioni necessarie allo sviluppo di una “cultura di progetto” ancora non molto diffusa nel
nostro Paese.
Il quadro legislativo di riferimento sul project financing è rappresentato da interventi del
1992, 1994, 1995, 1998, 2001 e 2002 che saranno esaminati nell’ordine, al fine di illustrare
l’evoluzione della normativa nell’arco dell’ultimo decennio:47
•
Legge 498/92 (Interventi urgenti in materia di Finanza Pubblica), che, adeguandosi
alla normativa comunitaria (Dir.92/50/CEE del 18 giugno 1992 e Dir.93/36-7/CEE
del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori"), permette per la prima volta di
applicare il project financing con capitali privati per l’esercizio di “servizi pubblici e
per la realizzazione di infrastrutture e opere di interesse pubblico”48. Viene inoltre
previsto che “tutti gli enti locali provvedono alla scelta dei soci privati e all’eventuale
collocazione sul mercato dei titoli azionari, attraverso procedure di evidenza pubblica”
e che i soci privati vengano scelti attraverso un “confronto pubblico concorrenziale”.
•
Legge 109/94 (Legge Merloni, Legge Quadro in materia di Lavori Pubblici), che
istituisce l’Autorità per la Vigilanza dei Lavori Pubblici per garantire trasparenza e
correttezza ed introduce l’affidamento dei lavori pubblici tramite concessione di
costruzione e gestione. La realizzazione dei lavori pubblici si basa su una
programmazione triennale annualmente aggiornata che viene predisposta da varie
amministrazioni aggiudicatrici. Queste devono individuare i lavori da realizzare, quali
siano finanziabili con capitali privati ed un ordine di priorità.49 Inoltre, la concessione di
costruzione e gestione prevede un contratto in forma scritta “fra un imprenditore ed
una amministrazione aggiudicatrice, avente ad oggetto la progettazione definitiva, la
progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori pubblici, o di pubblica utilità, e di
lavori ad essi strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione
funzionale ed economica” (art. 19, comma 2).
47
Cfr. Paradisi (2003).
La normativa comunitaria tuttavia, non conosce a tutt’oggi una vera e propira definizione di project
financing e riguarda più in generale ogni tipo di appalto pubblico e concessione di lavori pubblici, dove la
seconda si differenzia per l’attribuzione del rischio al privato (Signore, 2003). La normativa implica obblighi
di pubblicità a livello europeo per opere di vasta scala e trasparenza nelle aggiudicazioni, e vieta
discriminazioni basate sulla nazionalità dei partecipanti.
49
In base al combinato disposto dell’art. 13 del d.p.r. 554/1999 e dell’art. 2 del decreto del Ministero dei
lavori pubblici del 21 giugno 2000, il Programma triennale ed i suoi aggiornamenti vanno redatti entro il 30
settembre di ogni anno, mentre entro 90 giorni dall’approvazione del Bilancio dello Stato deve avvenire
l’aggiornamento definitivo del Programma e dell’elenco dei lavori da effettuare nell’anno.
48
86
•
Legge 216/95 (Legge Merloni-bis), che introduce l’obbligo di eseguire le gare
d’appalto sulla base di progetti esecutivi, ovvero che prevedono tempi e costi certi, e
riduce la possibilità di introdurre varianti in corso d’opera, che costituiscono il tipico
escamotage per ampliare i tempi di completamento.
•
Legge 415/98 (Legge Merloni-ter), volta a riavviare l’investimento in opere
pubbliche e ripristinare le condizioni di legalità e trasparenza che si erano perse durante
gli anni di Tangentopoli. Il nuovo articolo 37 presenta le principali novità:
1. Viene regolamentata la tempistica ed è ufficialmente introdotto il soggetto promotore.
Entro il 30 giugno di ogni anno,50 i promotori possono presentare alle amministrazioni
giudicatrici proposte di project financing per lavori pubblici o di pubblica utilità da
finanziare a loro totale o parziale carico e da ratificare tramite contratti di costruzione e
gestione già introdotti dalla Merloni. “Le proposte devono contenere uno studio di
inquadramento territoriale e ambientale, uno studio di fattibilità, un progetto
preliminare, una bozza di convenzione, un piano economico-finanziario asseverato da
un istituto di credito, una specificazione delle caratteristiche del servizio e della
gestione” (art. 37-bis, comma 1) ed anche le garanzie offerte dal promotore e le spese
sostenute per la proposta, che vengono riconosciute per un importo non superiore al
2,5% del valore dell’investimento. Entro il 31 ottobre dello stesso anno vengono
selezionate le proposte di pubblico interesse sulla base della loro fattibilità “sotto il
profilo costruttivo, urbanistico ed ambientale, nonché della qualità progettutale, della
funzionalità, della fruibilità dell’opera, dell’accessibilità al pubblico, del rendimento, del
costo di gestione e di manutenzione, della durata della concessione, delle tariffe da
applicare, della metodologia di aggiornamento delle stesse, del valore economico e
finanziario del piano” (art. 37-ter). Infine, entro il 31 dicembre dello stesso anno viene
indetta una gara per aggiudicare la concessione, la cui durata non può essere superiore
ai trent’anni (art. 19-bis, comma 2).
2. Al fine di aumentare la trasparenza, il sistema di aggiudicazione del progetto prevede
una “asta doppia”, ovvero composta da una prima gara che esclude il promotore e
seleziona le due migliori offerte per lo stesso progetto del promotore sulla base del
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, e da una seconda gara per
“aggiudicare la concessione mediante una procedura negoziata da svolgere fra il
promotore ed i soggetti presentatori delle due migliori offerte” nella prima gara (art.
37-quater, comma 1).51 La seconda gara è quindi più soggetta a giudizi discrezionali.
Per incentivare ulteriormente la trasparenza, i soggetti aggiudicatari della concessione
sono anche obbligati ad appaltare a loro volta a terzi una percentuale minima del 30%
dei lavori oggetto della concessione. Il concessionario, a fronte degli obblighi di
progettazione ed esecuzione (ovvero di revisione o completamento), ha il diritto di
50
Il termine è stato esteso al 31 dicembre nel caso in cui non siano state presentate proposte entro il 30
giugno per lo stesso intervento dalla legge 166/2002.
51
Se alla prima gara ha partecipato un unico soggetto la procedura negoziata si svolge fra questo ed il
promotore, la cui proposta iniziale è peraltro vincolante nel caso non partecipi alcun soggetto alla prima
gara. Tutti i partecipanti sono soggetti a versare una cauzione e una fideiussione bancaria o assicurativa.
87
gestire e sfruttare economicamente l’opera realizzata per la durata della concessione, e
il diritto alla corresponsione da parte della parte concedente, di un prezzo
eventualmente stabilito in sede di gara.
3. Viene prevista nel bando di gara la costituzione della società di progetto come S.p.a.,
S.r.l., consorzio di imprese o società consortile. “Il bando di gara indica l’ammontare
minimo del capitale sociale della società. In caso di concorrente costituito da più
soggetti nell’offerta è indicata la quota di partecipazione al capitale sociale di ciascun
soggetto- […] La società così costituita diventa la concessionaria subentrando nel
rapporto di concessione all’aggiudicatario senza necessità di approvazione o
autorizzazione. Tale subentro non costituisce cessione di contratto. Il bando di gara
può, altresì, prevedere che la costituzione della società sia un obbligo
dell’aggiudicatario” (art. 37-quinquies).
4. Per promovere esplicitamente forme di project financing analoghe a quelle esistenti
nell’esperienza anglosassone, viene regolamentata l’emissione di obbligazioni
nominative o al portatore della società di progetto, che deve avvenire 1) previa
autorizzazione degli organi di vigilanza e 2) sotto garanzia ipotecaria pro-quota.
Inoltre, “I titoli e la relativa documentazione di offerta devono riportare chiaramente ed
evidenziare distintamente un avvertimento dell’elevato grado di rischio del debito” (art.
37-sexies).
5. Il contratto può essere revocato per motivi di interesse pubblico o revocato per
inadempienza della parte concedente, ma i diritti della società di progetto sono
esplicitamente tutelati in modo da garantire trasparenza e assicurazione per i privati
contro l’incertezza politica e burocratica connaturata a questo tipo di rapporti. Infatti
nei casi succitati, “sono rimborsati al concessionario: a) il valore delle opere realizzate
più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l’opera non
abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal
concessionario; b) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza
delle risoluzione; c) un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari
al 10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire ovvero della parte del
servizio ancora da gestire valutata sulla base del piano economico-finanziario” (art 37.
septies, comma 1). Per tutelare i finanziatori, l’indennizzo è esplicitamente condizionato
al soddisfacimento dei crediti in via prioritaria.
6. Mettendo ordine ad una situazione fino ad allora assai disordinata ed incerta, il
legislatore prevede anche il subentro degli enti finanziatori al soggetto concessionario in
caso di risoluzione del rapporto per motivi imputabili al concessionario. La richiesta va
effettuata entro novanta giorni dal ricevimento della comunicazione scritta da parte del
concedente dell’intenzione di risolvere il rapporto e deve essere accettata a patto che
“a) la società designata dai finanziatori abbia caratteristiche tecniche e finanziarie
sostanzialmente equivalenti a quelle possedute dal concessionario all’epoca
dell’affidamento della concessione; b) l’inadempimento del concessionario che
88
avrebbe causato la risoluzione cessi entro novanta giorni successivi alla scadenza del
termine di cui all’alinea del presente comma ovvero in un termine più ampio che potrà
essere eventualmente concordato tra il concedente e i finanziatori” (art. 37-octies,
comma 1).
7. Infine, viene esplicitamente regolamentato il privilegio generale dei crediti dei soggetti
finanziatori sui beni mobili del concessionario, che deve risultare da atto scritto a pena
di nullità e unitamente alla descrizione delle parti e della linea di credito.
•
Legge 443/01 (Legge obiettivo) ha individuato per la prima volte le infrastrutture
pubbliche e private di preminente interesse nazionale per la modernizzazione del
paese, introducendo la figura del Contraente Generale quale esecutore che si addossa
l’obbligo di condurre a termine un’opera che risponda alle esigenze del soggetto
aggiudicatore e garantisce il rispetto di tempi e costi di esecuzione (ma senza assumere
su di sé la gestione vera e propria a differenza dell’ente concessionario).
•
Legge 166/02 (Legge Merloni-quater), che rivisita le sue versioni precedenti:
o permettendo ai soggetti privati di partecipare attivamente alla fase di programmazione
e definizione dei lavori pubblici da realizzare con capitale privato, sebbene senza alcun
obbligo per l’amministrazione pubblica di recepirne le proposte;
o inserendo formalmente le opere a tariffazione sulla P.A. fra le opere attuabili tramite il
contratto di costruzione e gestione (art. 19-ter, comma 2);
o permettendo la cessione (in proprietà o diritto di godimento) a titolo di prezzo da parte
dei soggetti aggiudicatori di beni immobili nella propria disponibilità o allo scopo
espropriati, la cui utilizzazione sia strumentale o connessa all’opera da affidare in
concessione e beni immobili che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico
(art. 19-bis, comma 2);
o permettendo, al fine di assicurare il perseguimento dell’equilibrio economico finanziario
degli investimenti del concessionario, che la concessione abbia una durata superiore ai
trent’anni (inizialmente tetto massimo previsto), tenendo conto del suo rendimento,
della percentuale del prezzo corrisposto e dei rischi connessi alle modifiche delle
condizioni del mercato (art. 19-bis, comma 2).
Con questi ultimi progressi nella legislazione,52 è opinione diffusa tra i giuristi che non vi
sia più alcun vincolo normativo all’espansione di forme di PPP ed in particolare di project
financing in Italia.
Vanno infine ricordate due iniziative del 1999. La prima riguarda l’identificazione di tre
progetti-pilota di project financing: l’ammodernamento della tratta autostradale Salerno52
Nel 2000 sono state regolamentate anche le società miste partecipate dagli enti locali e le società di
trasformazione urbana con il d.lgs.267/2000.
89
Reggio Calabria, la Pedemontana Veneta ed il Ponte sullo Stretto di Messina. La seconda
concerne l’istituzione da parte del Ministero del Tesoro dell’Unità Tecnica Finanza di
Progetto (UFP) quale strumento di supporto alla P.A. sull’esempio dell’inglese Private
Finance Iniziative Task Force e dell’olandese PPP Knowledge Center. La UFP è
composta da tecnici e serve a promuovere, all’interno delle pubbliche amministrazioni, l’utilizzo
di tecniche di finanziamento di infrastrutture con ricorso a risorse private e di fornire supporto
alle commissioni costituite nell’ambito del CIPE53 su materie inerenti al finanziamento delle
infrastrutture e la sua introduzione si è dimostrata utile alla espansione recente di varie forme di
PPP.54 La UFP (2004) ha così riassunto le principali ragioni per cui il ricorso al PPP può dare
oggi, in Italia, un importante contributo al processo di modernizzazione del Paese:
•
l’opportunità di “incrementare la dotazione infrastrutturale del Paese a parità di risorse
pubbliche impegnate, grazie all'apporto di risorse private addizionali ovvero la
possibilità di liberare risorse pubbliche da impiegare in quei settori in cui i servizi di
pubblica utilità sono ancora carenti”;
•
una migliore e più trasparente fase di programmazione, allocazione dei rischi e gestione
dei costi.
La normativa sulle PPP (come la stessa UFP) sta ora adeguandosi ad esigenze
regionali specifiche con nuove normative regionali (e nuovi distaccamenti regionali della UFP),
a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 18 ottobre 2001, n.3.55 Nel nuovo
art. 117 della Costituzione i lavori pubblici non sono più inclusi nelle materie di potesta
legislativa esclusiva dello Stato, ma appartengono alla legislazione concorrente tra Stato e
Regioni, dove la legislazione di dettaglio e le norme attuative spettano alle Regioni nei limiti dei
principi generali stabiliti dallo Stato. Più specificatamente, riprendendo per sommi capi la
suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni previste nel nuovo art.117, dovrebbero
essere di competenza esclusiva dello Stato lavori pubblici in materie come difesa e sicurezza,
concorrenza, ordine pubblico, coordinamento informatico e statistico, tutela dell’ambiente e
dei beni culturali ed ordinamento civile, mentre dovrebbero essere soggetti a competenza
concorrente i lavori pubblici in campi come la tutela e la sicurezza del lavoro, il governo del
territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e
distribuzione nazionale di energia e valorizzazione dei beni ambientali e culturali. Dovrebbero
infine essere di esclusiva competenza regionale nei casi residui. Il nuovo Titolo V ha dunque
enormemente accresciuto il potere legislativo delle regioni in tema di lavori pubblici. Per quello
che è dato conoscere al momento, questo nuovo potere legislativo delle regioni non è stato
usato in deroga alla normativa nazionale. Va tuttavia ricordato che il nuovo Titolo V ha in realtà
scatenato un conflitto di competenze tra i due livelli di governo, che ha riguardato in molti casi
proprio i lavori pubblici. La c.d. legge obiettivo sulla grandi opere è stata per esempio
impugnata di fronte alla Corte Costituzionale da parte delle regioni e l’iter non appare ancora
concluso. L’incertezza indotta da questa conflittualità tra i due livelli di governo, e le pressioni
esercitate dal mondo delle imprese, preoccupate dagli effetti di questa incertezza, hanno
53
Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica.
Cfr de Pierris e Leone (2001) e Ricchi (2004).
55
Cfr. Cesaretti (2003).
54
90
indotto il legislatore costituente ad un ripensamento. Nel nuovo testo costituzionale in
discussione alla Camera, dopo l’approvazione da parte del Senato, la maggior parte delle
materie ora previste a legislazione concorrente dovrebbe rientrare nell’alveo della legislazione
esclusiva dello Stato e la nuova norma sull’interesse nazionale dovrebbe offrire un ulteriore
strumento di controllo e di pressione da parte del centro sugli enti regionali. È dunque
immaginabile, se l’iter di questa nuova riforma costituzionale dovesse concludersi
positivamente, che tutta l’area dei lavori pubblici rientrerà stabilmente nell’ambito della
legislazione nazionale, eccetto che per gli aspetti di maggior dettaglio.
6.2
L’esperienza italiana di PPP
Questo paragrafo esamina l’esperienza italiana di PPP, con particolare riferimento ai
casi di project financing di opere pubbliche.
L’analisi si basa essenzialmente sui dati forniti dall’Osservatorio Nazionale sul
Project Financing relativi ai progetti assistiti dalla UFP a partire dal 2000 (dati dettagliati e
omogenei vengono forniti trimestralmente solo dal primo trimestre 2003).56 Trattandosi
tuttavia di progetti che richiedono tempi lunghi per il completo avvio ed ancora più lunghi per
la realizzazione definitiva, è a tutt’oggi arduo quantificare la consistenza esatta delle esperienze
di PPP concretamente attuate in Italia. È solo sulla base delle iniziative proposte, di quelle
pervenute alla fase di gara e di alcuni casi importanti da seguire nel loro svolgimento
pluriennale che si può cercare di dare una valutazione qualitativa dello sviluppo della PPP in
Italia.
6.2.1
Quanto conta la PPP?
Il primo aspetto che questi dati segnalano è che il ricorso alla PPP nel nostro Paese
appare in forte crescita: i soli avvisi di gara sono più che raddoppiati dal 2002 al 2003,
passando dai 604 ai 1230. E il trend appare in ulteriore crescita. Nel primo trimestre del 2004
gli avvisi di gara sono stati 300, a fronte di 201 nello stesso trimestre del 2003. Nel secondo
trimestre del 2004 sono state indette altre 657 gare, portando l’incremento complessivo del
primo semestre 2004 rispetto al 2003 al 58,3%. Se il trend si confermerà nel secondo
semestre del 2004, si può prevedere che a fine anno si arrivi a circa quota 2000 gare, di
nuovo quasi il doppio dell’anno precedente. È vero che molti di questi progetti sono solo
preliminari e non passeranno a fasi successive ed è anche vero che una parte, sia pure
probabilmente non molto rilevante, rappresenta la continuazione di progetti precedenti,
interrotti per vari motivi, ma l’impressione generale è quello di una crescita quasi esponenziale
nell’uso dei nuovi strumenti finanziari.
E la crescita non riguarda solo il numero di gare. Anche l’importo dei progetti avviati
appare in forte aumento. Dai 3,1 miliardi di Euro del 2002 si è passati ai 10,5 miliardi del
56
Si noti tuttavia che non tutti i progetti di PPP vengono assistiti dalla UFP per cui il panorama offerto
dall’Osservatorio suddetto è indicativo ma non esaustivo.
91
2003, cioè ad una triplicazione del volume d’affari. Solo nel primo trimestre del 2004 sono
stati indetti avvisi di gara per un volume d’affari di 1,6 miliardi di Euro, a fronte di 1,2 miliardi
nel primo trimestre del 2003. Nel secondo trimestre del 2004 sono state indette gare per 3,4
miliardi con un aumento del 102,2% rispetto al 2003, sebbene si debba tenere conto che in
questo trimestre è stato avviato un progetto di grandi dimensioni che può falsare i confronti
(dell’Autorità d’Ambito dell’ATO di Palermo per l’affidamento in concessione del Servizio
Idrico Integrato della provincia di Palermo, con un valore intorno a 1,3 miliardi di Euro). Se
questo passo verrà mantenuto, è prevedibile che nel 2004 si raggiungeranno i 16-18 miliardi di
Euro, cioè con quasi un ulteriore raddoppio rispetto al 2003. Si osservi tuttavia che questi dati
riguardano solo gli avvisi con importo segnalato (il 57% nel 2002, il 68% nel 2003, il 70% nel
primo semestre 2004) in crescita nel triennio, per cui è possibile che il tasso di crescita degli
importi effettivi sia in realtà minore di quanto questi primi dati segnalino. Ma probabilmente non
molto minore, perché la percentuale degli avvisi con importo segnalato è praticamente la stessa
(finora) tra il 2003 e il 2004, e anche perché è ragionevole ritenere che i progetti con importi
non segnalati siano quelli di minore entità.
Più complesso appare rispondere alla domanda su qual è l’esatto numero di
esperienze effettivamente iniziate e lo stock di capitali ad esse effettivamente destinato,
ripulendo cioè i dati da duplicazioni e progetti abortiti. Qualche suggerimento in questo senso
deriva dai dati forniti dall’OICE. Alla fine del giugno 2003 l’OICE ha calcolato che dal
gennaio 2000 erano partite 1163 iniziative di PPP per un totale di 16,6 miliardi di Euro. Di
questo cosiddetto “fabbisogno” finanziario, solo una parte era passato alla fase di gara e
aggiudicazione. Il calcolo di questa parte, detta “mercato”, ammontava per il periodo gennaio
2000-giugno 2003 a 6,3 miliardi di Euro, pari al 38% del fabbisogno.
Per avere un’idea più precisa della rilevanza degli investimenti in PPP è utile
rapportare questi dati alla spesa pubblica per investimenti. Ad esempio, il valore dei progetti
avviati nel 2003, per lo più intrapresi a livello comunale o provinciale, se andassero tutti a
buon fine, rappresenterebbero circa il 28% degli investimenti complessivi delle Amministrazioni
Pubbliche e circa il 43% degli investimenti delle Amministrazioni Locali, una percentuale
dunque assai sostanziosa. Ancora, nella Figura 6.1 si illustra li rapporto tra PPP e opere
pubbliche complessivamente realizzate nel 2003. La figura mostra come la quota di PPP
abbia raggiunto il 28% nel 2003, con punte del 46% in regioni assai attive come la Puglia e la
Liguria (cfr. Osservatorio Nazionale sul Project Financing, 2004).
Figura 6.1. Rapporto PPP/Opere Pubbliche nel 2003
Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
92
93
Altri elementi importanti per una valutazione dell’esperienza italiana di PPP
concernono l’articolazione dei progetti di PPP per tipologie, committenza, forme contrattuali e
soprattutto per settore e aree geografiche. Questi ultimi due fattori, la suddivisione settoriale
dei progetti di PPP e la loro distribuzione territoriale, sono particolarmente interessanti e
saranno esaminati in profondità più avanti.
Per quanto concerne l’articolazione dei progetti, l’analisi per tipologie medie evidenzia
una concentrazione su opere di valore medio-basso, ossia inferiore ai 5-10 milioni di Euro
(nel 2002 solo 4 progetti su 57 assistiti dalla UFP avevano costi superiori ai 100 milioni di
Euro), mentre la committenza è per lo più concentrata a livello comunale (96% dei progetti
assistiti dalla UFP nel 2002), il che però non sorprende data la prevalenza di opere di valore
medio-basso e il ruolo rilevante dei comuni nell’ambito degli investimenti pubblici (Tabella
6.1).
Tabella 6.1 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per importo
(migliaia di Euro)
Importo
Non segnalato
<1000
1000-2500
2500-5000
5000-10000
10000-50000
>50000
Totale
2002 2003 I 2004 II 2004 totale
261
389
99
190
939
97
277
58
156
588
73
179
49
111
412
65
155
39
99
358
47
108
22
54
231
49
93
25
43
210
12
29
8
4
53
604 1230
300
657 2791
Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
Con riferimento alla classificazione delle forme di PPP illustrata in precedenza, nel
2002 ben 313 avvisi di gara si sono configurati come forme di project financing, 235 come
concessioni di costruzione e gestione, mentre 56 erano forme alternative di PPP, fra cui società
miste pubblico-private, sponsorizzazioni e anche programmi complessi di trasformazione
urbana. Gli importi totali relativi ai progetti di valore reso noto sono stati rispettivamente di
oltre 2363 milioni, 750 milioni e 21 milioni di Euro. Nel 2003 si sono avuti 729 avvisi per
project financing dell’importo complessivo di 5287 milioni, 394 avvisi per concessioni per
4678 milioni e 107 avvisi per altre procedure dell’importo di 606 milioni di Euro. La forma di
partenariato trainante è quindi quella del project financing, che sembra rispondere meglio alle
necessità di autonomia imprenditoriale e gestionale del settore privato che è attivo
nell’investimento in opere pubbliche.
6.2.2
Quali sono i settori trainanti della PPP?
I settori più coinvolti a livello dell’amministrazione centrale sono quelli delle
infrastrutture, dell’energia, delle telecomunicazioni e della sanità mentre a livello locale sono
quelli dell’edilizia sociale e pubblica (55% dei progetti assistiti dalla UFP nel 2002 e 42% dei
94
costi), di trasporti e viabilità (6% dei progetti pari al 42% dei costi), degli impianti sportivi e di
strutture ricettive, delle risorse idriche e dell’ambiente. Fra le opere più diffuse a livello locale
spiccano opere di comunicazione stradale, riqualificazione urbana, parcheggi, impianti sportivi,
cimiteri, impianti sportivi e scolastici, ma anche approdi turistici, opere di arredo urbano e
verde pubblico, centri culturali e direzionali. Le Figure 6.2 e 6.3 illustrano l’articolazione
settoriale dei progetti per numero di avvisi e per importo nel 2002 e nel 2003.
Nella Tabella 6.2, sono stati riclassificati i vari progetti in tre categorie principali: servizi
a rete ed economici, servizi sociali, servizi ambientali ed urbani. I servizi a rete, quali trasporti
e reti energetiche, dell’acqua e del gas sono associati a servizi economici, come servizi per
commercio e artigianato nonché per il turismo (inclusi servizi puntuali come porti turistici) dato
che si tratta di investimenti che contribuiscono ad aumentare la produttività locale e a creare
quindi benefici locali e spillovers economici anche su altre aree. I servizi sociali sono invece
più diretti alle famiglie che alle imprese ed includono investimenti legati a sanità, educazione e
tempo libero, nonché i cimiteri. Infine i servizi ambientali, che includono opere di
riqualificazione, igiene e arredo urbani, hanno per lo più valore locale e comunale e sono
quindi associati ad altri servizi urbani fra cui i parcheggi ed i centri direzionali.
Figura 6.2 - Avvisi di Gara ne l 2002-2003, per settore
2002
Servizi
ambientali e
urbani
27%
Servizi a rete
ed
economici
30%
Varie
8%
Servizi
sociali
35%
2003
Servizi
ambientali e
urbani
31%
Varie
7%
Servizi a rete
ed economici
25%
Servizi
sociali
37%
Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
95
In termini di numero di progetti, i servizi sociali sono il settore leader sia nel 2002 sia
nel 2003 e sono trainati dalla costruzione di impianti sportivi e cimiteri. Nel 2002, la seconda
posizione spetta ai servizi a rete ed economici con il particolare ruolo delle opere per acqua,
gas, energia e telecomunicazioni, mentre nel 2003 sopravanzano i servizi ambientali ed urbani,
nettamente dominati dai parcheggi, ma anche da progetti per l’arredo urbano.
In termini di importo dei progetti, il settore leader è quello dei servizi a rete ed
economici sia nel 2002, con un minimo vantaggio sul settore sociale, sia nel 2003, con un
valore totale doppio rispetto al settore sociale, quasi raggiunto dal settore ambientale e
urbano. In termini assoluti, i sottosettori trainanti sono nel 2002 quello della sanità seguito dal
settore accorpato di acqua, gas, energia e telecomunicazioni, dal settore dei trasporti e dai
parcheggi, mentre nel 2003 passano in testa i due settori a rete con al primo posto i trasporti,
seguiti da sanità e parcheggi.
Infine, per quanto riguarda gli importi medi, vi è una notevole differenziazione dato che
nel settore a rete ed economico si hanno gli importi medi massimi (che arrivano oltre i cento
milioni di Euro nei trasporti), nel settore ambientale-urbano si hanno valori intermedi e nel
settore sociali si hanno gli importi medi minimi (fino al mezzo milione di Euro che è l’importo
medio degli interventi relativi ai beni culturali).
Figura 6.3- Importi degli avvisi nel 2002-2003, per settore
2002
Servizi
ambientali e
urbani
19%
Varie
5%
Servizi a rete
ed economici
38%
Servizi
sociali
38%
Servizi
ambientali e
urbani
21%
Servizi
sociali
23%
2003
Varie
1%
Servizi a rete
ed economici
55%
Fonte: nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
96
La Tabella 6.3 riporta le stesse informazioni per i primi due trimestri del 2004, che
sembrano confermare le tendenze dei due anni precedenti.
Complessivamente, va notato che la PPP sta esercitando il suo intervento in modo
abbastanza ampio in tutti i settori, con caratteristiche diverse a seconda delle necessità, ma
senza una chiara prevalenza in uno dei tre macrosettori individuati. Tutti e tre sono cresciuti fra
il 2002 ed il 2003, anche se la crescita maggiore si è registrata per il settore a rete ed
economico. Questo è ovviamente il settore più importante per la riduzione del gap
infrastrutturale italiano. È dunque di grande interesse che questo strumento si stia velocemente
sviluppando anche nel campo delle opere pubbliche di interesse economico e che questo
sviluppo abbia luogo anche nel Mezzogiorno.
Tabella 6.2 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per settore
N. di avvisi
Importo
Importo medio
2002
Trasporti
Acqua,Gas, Energia, Telec.
Turismo
Approdi Turistici
Commercio/Artigianato
Servizi a rete ed economici
2003
2002
2003
2002
2003
10
35
464531
3118401
77421
111371
110
162
583000
1982591
10053
20651
8
41
8124
262525
1624
9375
6
23
7613
258553
1268
16159
46
49
134632
175670
9616
4747
310 1197900 5797740
6655
18702
180
Sanità
45
71
622089
1514912
20736
30298
Impianti Sportivi
90
187
246216
553798
3971
3793
Tempo Libero (Teatri, ecc.)
10
27
6315
50250
3157
2791
Scolastico e sociale
15
52
187416
147470
23427
4468
3
18
2737
3826
912
546
50
100
125111
214626
3207
2649
455 1189884 2484882
5586
5461
Beni Cult.
Cimiteri
Servizi sociali
213
Parcheggi
81
167
341266
1282699
7756
10689
Riqualif. Urbana
26
65
104031
492971
8669
10716
Centri Polivalenti
Igiene Urbana
Direzionale
Arredo Urbano e verde
Servizi ambientali e urbani
17
5
5
29
163
28
25
10
83
378
41035
169761
39912
153309
45774
93672
18714
30915
590732 2223327
4103
19956
11443
1247
3624
7716
8517
11709
657
5882
Varie
Totale
48
604
87
162735
68122
1230 3141251 10574071
7075
--
1703
-
Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto (343 nel 2002 e 841 nel 2003) ed è in migliaia
di Euro
97
Tabella 6. 3 - Avvisi di Gara nel 2004 (I e II trimestre), per settore
Numero di avvisi
Importo
Importo medio
2004-I
2004-II
2004-I
2004-II
59079
7285
339692
1434658
12801
54975
110593
241515
77271
160480
2004-I
2004-II
11815
1214
12581
28130
1422
4581
22118
26835
11038
4863
Trasporti
Acqua,Gas, Energia, Telec
Turismo
Approdi Turistici
Commercio/Artigianato
9
43
11
7
8
8
75
15
15
42
Servizi a rete ed economici
78
155
599436
1891628
-
-
Sanità
Impianti Sportivi
Tempo Libero (Teatri, Cin.)
Scolastico e sociale
Beni Cult.
Cimiteri
Servizi sociali
13
42
6
4
0
18
83
30
106
11
13
2
59
221
100948
95897
7473
113742
0
20646
338706
276273
211190
32673
138080
5750
167678
831644
7765
2739
2491
37914
0
1214
-
11050
2933
4667
15342
2857
3353
-
Parcheggi
Riqualif. Urbana
Centri Polivalenti
Igiene Urbana
Direzionale
Arredo Urbano e verde
Servizi ambientali e urbani
43
21
6
5
2
31
108
112
53
17
8
15
32
237
140328
37940
26080
53266
30773
22255
310642
344482
147454
29121
29857
56630
24774
632318
5613
9485
4346
13316
16386
1309
-
3914
4607
2647
4979
5148
1457
-
31
44
402673
68749
2193
300
657 1646763 3431650
Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto ed è in migliaia di Euro
2644
-
Varie
Totale
6.2.3
Quali sono le aeree geografiche trainanti per la PPP?
Dal punto di vista geografico, l’espansione della PPP si è caratterizzata come un
fenomeno abbastanza equilibrato fra Nord, Centro e Sud nel biennio 2003-2003, mentre a
partire dal 2004 si è verificata una netta inversione di tendenza a favore del Mezzogiorno.
Questa evoluzione emerge sia dall’analisi del numero di avvisi che dal loro importo (Figure 6.4
e 6.5).
In termini di articolazione territoriale, fino al 2002 la maggior parte delle iniziative si è
collocata al Nord (il 41% dei progetti, contro il 37% del Sud), mentre nel 2003 si è verificata
una inversione di tendenza con un recupero del Sud (41% dei progetti, contro il 39% al
Nord). I primi dati del 2004 sembrano mostrare il sorpasso del Sud rispetto al Nord: nel
primo semestre 2004 si sono avute 533 iniziative al Sud contro le 355 del Nord e le 183 del
Centro. In particolare, nel secondo trimestre 2004 il Mezzogiorno ha promosso 359 iniziative
98
(55% del totale) duplicandole rispetto allo stesso trimestre del 2003. Nello stesso trimestre, il
Nord ha promosso 207 iniziative ed il centro 91. Proiettando i risultati del primo semestre
2004, sulla base del tasso di crescita che si è registrato nel 2003, ci si può attendere di
raggiungere a fine 2004 800-1000 avvisi di gara al Sud, i 500-600 al Nord ed 300 al Centro.
Per quanto riguarda gli importi dei progetti, il Nord resta leader nel 2002 e nel 2003.
Viceversa, nel primo semestre del 2004 il Sud passa alla guida con il 60,3% degli importi
totali. Nel secondo trimestre 2004, il Sud totalizza nuove iniziative per un valore di 2,5 miliardi
di Euro, a fronte dei 700 milioni del Nord e i 220 del Centro. Proiettando questi dati, a fine
anno si potrebbero raggiungere i 10-12 miliardi di Euro al Sud contro 4 miliardi al Nord e 1,5
al Centro (Tabella 6.4).
La Figura 6.6 illustra gli investimenti pro-capite in PPP, per area geografica, sulla base
dei dati trimestrali del 2003 e del 2004 (i dati trimestrali per il 2002 non sono disponibili). In
media, nel 2003 gli investimenti pro-capite in PPP sono stati pari a 185 Euro, con il Centro nel
ruolo di leader, con 202 Euro contro i 193 al Sud e solo 171 al Nord. I dati del 2004 mettono
ancora una volta in evidenza la forte espansione del fenomeno nelle regioni del Mezzogiorno,
che è passato dai 15 Euro pro-capite del primo trimestre 2003 ai 120 del secondo trimestre
2004.
Figura 6. 4 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per area geografica
2002
SUD
37%
NORD
41%
CENTRO
22%
2003
NORD
39%
SUD
41%
CENTRO
20%
Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
99
Le informazioni di dettaglio a livello regionale sono riepilogate nella Tabella 6.5. Per
quanto concerne il numero di avvisi di gara, nel 2002 la regione leader è la Lombardia seguita
da Campania, Lazio e Puglia. Nel 2003 la Campania risulta la regione con più iniziative,
seguita da Lombardia, Puglia ed Emilia Romagna. In relazione al valore dei progetti avviati, nel
2002 la leadership è appannaggio della Lombardia, seguita da Campania, Veneto e Puglia,
mentre nel 2003 il Piemonte ottiene i progetti di maggior valore seguito da Sicilia, Lazio, Emilia
Romagna e Campania. Non è possibile dire che cosa sia accaduto nei primi sei mesi del 2004,
non essendo disponibili i dati dettagliati a livello regionale.
Figura 6. 5 - Importi degli avvisi nel 2002-2003, per area geografica
2002
SUD
38%
NORD
52%
CENTRO
10%
2003
SUD
38%
NORD
41%
CENTRO
21%
Fonte: Nostre elaborazioni su Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
100
Tabella 6.4 - Avvisi di Gara nel 2003-2004, per aree geografiche
Nord
Centro
Sud
Totale
Nord
Centro
Sud
Totale
Numero di avvisi
2003
2004
I
II
III
IV
I
II
82
186
94
124
148
207
57
100
32
69
92
91
54
193
127
131
174
359
193
479
253
324
414
657
Importo di avvisi segnalati
2003
2004
I
II
III
IV
I
II
569624 677418 2235982 940979 525339 707994
264453 836203 273238 879682 578823 220187
321446 641473 935965 2125150 593030 2503468
1155523 2155094 3445185 3945811 1697192 3431649
Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2002-2004
Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto (343 nel 2002 e 841 nel 2003) ed è in migliaia
di Euro
Figura 6.6 - PPP pro capite nel 2003-2004, per aree geografiche
(Euro pro-capite)
140
120
100
PPP pro
capite
80
60
40
20
0
2003-I 2003-II 2003- 2003- 2004-I 2004-II
III
IV
Nord
Centro
Sud
Fonte: Elaborazioni su dati dell’Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
101
Tabella 6.5 - Avvisi di Gara nel 2002-2003, per regione
Numero di avvisi Importo di avvisi segnalati
2002
2003
2002
2003
6
1
11312
1563
Valle d'Aosta
35
70
223846
1914962
Piemonte
14
79
133909
476390
Liguria
89
138
654185
426233
Lombardia
2
2
0
2978
Trentino-A.A.
45
84
364308
415054
Veneto
12
11
9286
13452
Friuli-V.G.
41
91
232446
1125361
Emilia Romagna
Toscana
Marche
Umbria
Lazio
49
14
8
64
87
55
20
88
196972
25804
8911
94278
606779
234139
77020
1249980
Abruzzo
Molise
Campania
Basilicata
Puglia
Calabria
Sicilia
Sardegna
13
13
71
9
63
18
19
19
56
8
185
15
128
28
57
26
121205
11855
502733
2406
255743
51859
73228
167114
171986
28118
1002850
10906
836186
80070
1826509
73534
604
1230
3141401
10574071
Totale
Fonte: Osservatorio Nazionale Project Financing, 2004
Nota: L’importo si riferisce agli avvisi di importo noto ed è in migliaia di Euro
6.3
La PPP in Italia settore per settore
Infine, sembra opportuno analizzare le principali esperienze italiane di PPP nei diversi
settori di intervento, a partire dagli anni ’90 fino ad arrivare ai progetti messi in cantiere nel
2004.
•
Il settore dell’energia
Con una serie di interventi normativi degli anni ‘90 (legge 9/91 e legge 10/91), il
settore dell’energia, fino ad allora interamente monopolizzato dall’ENEL, è stato gradualmente
liberalizzato nella produzione di energia elettrica, nella distribuzione (con una concorrenza di
tipo comparativo) e nell’interscambio con l’estero. Le prime operazioni di finanza di progetto
in italia sono state in effetti realizzate a seguito di tale liberalizzazione. Secondo stime fornite
dall'Associazione Bancaria Italiana, tali operazioni hanno permesso la realizzazione di impianti
102
di cogenerazione per un controvalore stimato di circa 5 miliardi di Euro. Fra i diversi progetti
di PPP spiccano il progetto Rosen57 a Rosignano (Livorno) del 1995 (costo di 370 milioni di
Euro), l’API Energia58 a Falconara (Ancona, costo di 500 milioni di Euro) ed il Sarlux 59 a
Sarroch (Catania, costo di quasi 1000 milioni di Euro) del 1996, il Serene60 del 1998 in varie
località (265 milioni di Euro) e l’Italian Vento Power61 del 1998 che diffonderà trecento
mulini a vento fra Puglia e Campania per 200 milioni di Euro). Questi primi esempi di PPP
hanno impiegato diverse forme di project financing: ad esempio il progetto Rosen è di tipo
BOT, l’API di tipo BOOT e l’Italian Vento Power di tipo BOO.
Altre esperienze riguardano il comparto dello smaltimento dei rifiuti per produrre
energia elettrica. Nel 1996 ISAB e Mission Energy hanno promosso a Priolo (Siracusa) il
piano ISAB Energy da oltre 900 milioni di Euro per costruire un impianto di incenerimento in
grado di soddisfare il 2% della domanda italiana di energia elettrica (anche in questo caso si
tratta di un’operazione di tipo BOO).
Nel primo trimestre 2004, si registrano nuovi bandi di gara nel settore energetico,
anche per piccole opere. Molti comuni, soprattutto del Mezzogiorno, stanno selezionando
proposte per lavori di ampliamento, adeguamento e manutenzione ordinaria e straordinaria di
impianti di pubblica illuminazione (Enna, Belpasso, Santa Elisabetta e Belmonte Mezzagno in
Sicilia; Torre Santa Susanna, Poggiorsini, Trinitapoli e Monteiasi in Puglia; Volla, Vico
Equense e Contursi Terme in Campania; Montesilvano negli Abruzzi e Anagni nel Lazio;
Cadenzano in Toscana e Deruta in Umbria). Un’altra serie di bandi concerne progettazione,
costruzione, potenziamento, gestione e manutenzione della rete e degli impianti di distribuzione
del gas propano (in una ventina di comuni sardi), del gas naturale (Asola, Oltre il Colle, Peia,
Spino d’Adda, Vertova e Lonato in Lombardia; Missanello in Basilicata; Priverno nel Lazio) e
del gas metano (Sortino e Montalepre in Sicilia; Orria, Aquilonia, Moio e Omignano in
Campania; Ovindoli in Abruzzo e Fiuggi nel Lazio) ed infine per un parco eolico (Cirò Marina
in Calabria).
Fra le opere di scala maggiore, il Consorzio Asmez di Napoli ha promosso una gara
per la creazione di un’impresa per servizi di trattamento e gestione energetica, sistemi di
risparmio energetico, produzione di energia con sorgenti rinnovabili od ecologicamente pulite,
sistemi di telegestione e telecontrollo, atti alla gestione e manutenzione ottimale degli impianti di
illuminazione pubblica e del territorio con finalità sia di ottimizzazione della resa energetica che
di controllo ambientale ai fini della sicurezza pubblica. La Società di Gestione degli Impianti
Nucleari di proprietà dell’ENEL ha invece aperto una procedura per la selezione di un
operatore industriale qualificato nel settore elettrico che acquisti aree, impianti e opere
complementari nella zona di Latina, per un valore di 75 milioni di Euro, con l’impegno di
utilizzarle per la produzione di energia elettrica mediante centrale a ciclo combinato.
57
Promotori sono l’Ansaldo, la Solvay e la Tractebel. Sono stati previsti tre anni per la costruzione di un
impianto in grado di soddisfare l’1% della domanda italiana di energia elettrica e dodici anni di
sfruttamento prima del trasferimento allo Stato.
58
Promotori sono API Italia e ABB.
59
Promotori sono stati Enron e Saras.
60
Promotori sono Fiat, British Gas e Sondel.
61
Promotori sono l’americana Cannon, la giapponese Tomen Power e l’inglese British vento.
103
Il settore dell’energia appare quindi particolarmente attivo a livello comunale per
iniziative legate all’illuminazione pubblica, alla metanizzazione e alla distribuzione del gas
naturale62.
•
Il settore delle telecomunicazioni
In questo settore l’istituzione dell’Autorità per le telecomunicazioni con poteri di
regolamentazione, sorveglianza e anti-trust e la liberalizzazione degli anni ’90 hanno permesso
l’ingresso di nuovi operatori come Omnitel e Wind oltre all’impresa leader TIM.
Il maggiore progetto di PPP da qui derivato è stato promosso da Omnitel, Olivetti, le
americane Bell e Air Touch International e la scandinava Tellia nel 1997 per realizzare
infrastrutture per la copertura del mercato e l’innovazione tecnologica. Si tratta di un project
financing di tipo BOO, del costo di 1400 milioni di Euro e con scadenza nel 2005.
Minori iniziative si registrano a livello locale. Nel 2004, il Consorzio per l’Area di
Sviluppo Industriale di Siracusa ha promosso una gara informale per la cessione di un’area
finalizzata alla realizzazione di un centro di ricerca, sviluppo e produzione operante nel settore
delle telecomunicazioni e ICT, mentre il comune di Potenza ha sollecitato manifestazioni di
interesse alla realizzazione o messa a disposizione di infrastrutture di reti di comunicazione e
servizi interattivi ad alta velocità, board band, in modalità di telefonia wired, fissa e wireless.
E’ chiaro che in questo settore tipicamente di rete (per la presenza di forti network
effects), vi è un’alta concentrazione a livello nazionale ma anche internazionale, e la maggior
parte delle iniziative derivano da poche grandi imprese e sono per lo più a livello non locale.
•
Il settore delle costruzioni63
Un grande impulso ad iniziative in questo settore si è avuto a partire dal 1994, quando
la Commissione Europea ha istituito un Gruppo di Lavoro, che va sotto il nome di gruppo
Christophersen, per l’individuazione di grandi opere infrastrutturali da finanziare tramite project
financing. Il programma generale, denominato Transeuropean Network, riguarda aeroporti,
ferrovie, ed in particolare la rete ad alta velocità, autostrade, ponti e trafori. Anche l’Italia ha
beneficiato di questi progetti e dopo un periodo di evidente ritardo rispetto ad altri Paesi
europei durante gli anni ’9064, sta ora incrementando gli investimenti in costruzioni di pubblica
utilità, anche grazie a importanti interventi di PPP.
La prima grande opera italiana di questo genere è il Progetto Malpensa 2000, il cui
promotore è stato la SEA (Società Esercizi Aeroportuali), una S.p.a. che fino al 2022 ha la
concessione per gestire ed amministrare gli aeroporti di Linate e Malpensa ed il cui capitale è
detenuto per l’84,6% dal Comune di Milano, per il 14,5% dalla provincia di Milano, e per lo
0,9% da privati. L’operazione, di tipo BOOT e finanziata dallo Stato italiano, dalla Banca
62
Giova citare anche il settore dell’acqua, attivo sopratttutto nel campo della gestione del servizio idrico e
nella realizzazione di opere fognarie e di irrigamento.
63
Una interessante monografia sulle PPP di questo settore è Tamarowski (2001).
64
Nel 1999 l’investimento in costruzioni era il 7,8% del PIL in Italia (di cui 55,6% in abitazioni, 25,8% in
fabbricati non residenziali e solo il 18,6% in opere pubbliche) contro il 12,2 % in Germania, l’8,2% in Francia
e il 14,4% in Spagna (dati ANCE, 2000).
104
Europea per gli Investimenti (grazie al riconoscimento quale opera ad alta priorità a livello
comunitario) e da altre banche nazionali, prevedeva la conversione di Malpensa da aeroporto
minore in primo aeroporto italiano.65 Il costo complessivo del progetto è stato stimato in circa
1 miliardo di Euro, di cui la metà per opere di prima urgenza per l’apertura del “polo
funzionale” nel 1998. I flussi di reddito futuri, legati alle tasse aeroportuali, alle tariffe di
handling ed i ricavi commerciali, garantiscono e dovrebbero ripagare i debiti contratti dalla
SEA.
Nell’ambito del rilancio degli investimenti in infrastrutture pubbliche promosso a partire
dal 2001, sono stati avviati studi pilota per alcuni importanti progetti da sviluppare tramite
PPP, fra cui:
o la realizzazione della tratta internazionale del collegamento ferroviario transalpino
Torino-Lione;
o la realizzazione di tre nuovi terminali intermodali ferroviari nell’area di Milano-Sud,
Roma-Nord e Napoli;
o la realizzazione del tratto Est del nuovo anello esterno delle tangenziali milanesi;
o l’ammodernamento della tratta autostradale Salerno-Reggio Calabria;
o la realizzazione dell’asse viario Marche-Umbria e del quadrilatero di penetrazione
interna;
o il sistema di collegamento autostradale trasversale Nord-Sud tra l’asse tirrenico e
quello adriatico;
o interventi di potenziamento dei collegamenti plurimodali e realizzazione di opere
infrastrutturali nell’ambito dell’Hub interportuale di Gioia-Tauro;
o la realizzazione di un corridoio trasversale autostradale fra S. Vittore e Termoli;
o la realizzazione di oltre 60 interventi a valenza regionale e interregionale miranti a
risolvere le emergenze idriche del Mezzogiorno.
Tali studi sono sotto competenza dell’UFP che sta valutando priorità e fattibilità dei vari
progetti
A livello di opere di minori dimensioni e di interesse locale, vale la pena di focalizzare
alcuni casi emblematici di un notevole attivismo: trasporti, parcheggi, impianti sportivi e
cimiteri. Non è un caso che opere in questi campi siano allo stesso tempo molto redditizie ed
in notevole espansione grazie a forme di project financing.
Ø Trasporti. Il settore dei trasporti è stato il più importante nel 2003 in termini di
importo totale della PPP. È dominato da grandi iniziative di valore nazionale o anche
internazionale, come, nel corso del 2004, la superstrada a pedaggio Pedemontana
Veneta66 nelle province di Treviso e Vicenza (che è stata inserita nel programma delle
65
Nel 2001 nei due aeroporti milanesi, Linate occupava il 73,9% dei 51.321 dipendenti otteneva il 71,9% dei
ricavi totali pari a circa 3600 milioni di Euro. Le percentuali sono attualmente attorno al 23% e 22% e sono
previste scendere al 17 e 16% circa.
66
La vecchia procedura relativa alla Pedemontana Veneta, che aveva raggiunto la fase di gara, era stata
annullata con sentenza del Tar del luglio 2003). La nuova procedura riguarda peraltro un tratto più lungo,
di 95 Km. Il valore economico non è ancora noto ufficialmente, ma stando alle prime stime si parla di 1,9
miliardi contro i 946 milioni del vecchio progetto.
105
infrastrutture strategiche previsto dalla L. 443/01 e fa parte del Piano Regionale dei
Trasporti della Regione Veneto), ma presenta anche molte opere stradali, ferroviarie o
di altro tipo a livello locale. Con riferimento alle iniziative del primo trimestre 2004, è
stata indetta una gara dal comune di Firenze per la progettazione esecutiva,
costruzione e gestione di un sistema integrato di tranvia nei territori dei comuni di
Firenze e Scandicci, Bologna sta selezionando proposte per il ripristino della funivia si
San Luca, Vicenza lo sta facendo per la realizzazione di viabilità sotterranea, Anagni
per la realizzazione di una circonvallazione e un consorzio sardo sta scegliendo soci
per progettare, costruire e gestire un aeroporto turistico al Sarrabus. Il settore dei
trasporti è particolarmente attivo laddove sia possibile una chiara tariffazione come nel
caso delle autostrade.
Ø Parcheggi. Si tratta di un settore che è letteralmente decollato grazie alla possibilità di
PPP, sicuramente uno dei principali successi in questo campo. Lo sviluppo è per ora
più intenso al Nord, dove il problema del parcheggio è più sentito, in particolare nelle
grandi città e nelle località turistiche. L’importo medio per queste opere si aggira sui 10
milioni di Euro, senza forte variabilità data la tipologia standard dei lavori. Limitandosi
ai casi più recenti (primo trimestre 2004), sta per avviarsi la realizzazione di otto
parcheggi a Milano (di cui cinque a Cinisello Balsamo), due a Roma e ben undici a
Genova. Si registrano altri progetti in avviamento a Busto Arsizio, Chiavenna, Seriate
e Tirano in Lombardia; Torino, Limone Piemonte e Pianezza in Piemonte; Santa
Margherita Ligure e Noli in Liguria; Treviso, Verona, Padova e Garda in Veneto;
Riccione e Salsomaggiore Terme in Emilia Romagna; Livorno, Arezzo e Rosignano
Marittimo in Toscana; Foligno in Umbria; Avellino e San Giorgio a Cremano in
Campania; Latisana in Friuli; Bolzano in Trentino. La durata delle concessioni è assai
variabile e, per i casi già arrivati alla fase di gara, passa dai 20 anni del parcheggio di
Treviso ai 45 anni di quello di Santa Margherita Ligure (entrambi hanno un importo di
realizzazione previsto di oltre 5 milioni di Euro).
Ø Impianti sportivi. Anche questo è un settore in forte espansione, spesso per la
costruzione di centri polivalenti. Gli importi medi sono abbastanza bassi, attorno ai 4
milioni di Euro (con bassa variabilità anche perché la maggior parte delle iniziative si
concentra su un’unica tipologia, ovvero le piscine) e con una distribuzione abbastanza
omogenea sul territorio nazionale. Alcune delle esperienze più recenti (primo trimestre
2004) sono state avviate a Bologna, Imola, Modena, Rimini e Salsomaggiore in Emilia
Romagna; Milano, Como, Pavia, Monticello, Cesano, Rovetta e Limbiate in
Lombardia; Boves in Piemonte; Caserta, Salerno, Pomigliano e Casavatore in
Campania; Garda in Veneto; Siena e Montemurlo in Toscana; Bari e Trinitapoli in
Puglia; Vado e Varazze in Liguria; Dolianova in Sardegna; Giardini-Naxos in Sicilia;
Perugina e Amelia in Umbria. Anche in questo caso l’espansione sembra legata alla
profittabilità di centri come le piscine da cui si possono estrarre quote d’iscrizione,
mentre è possibile prevedere un’espansione futura per palestre e stadi finora rimasti
marginali nell’uso di PPP.
106
Ø Cimiteri. Anche questo campo ha conosciuto una forte crescita grazie all’introduzione
di forme di PPP per la costruzione o l’ampliamento o la semplice gestione e
manutenzione di cimiteri ma anche per l’assegnazione in concessione ai privati dei
loculi, dei lotti e delle cappelle. Gare sono in corso (primo trimestre 2004) nelle
province di Milano, Varese, Venezia, Padova, Rovigo, Treviso, Savona, Lucca,
Livorno, Forlì-Cesena, Ancona, L’Aquila, Isernia, Foggia, Lecce, Napoli, Vibo
Valentia, Crotone, Trapani e Agrigento. L’importo medio si aggira sui tre milioni di
Euro e le durate delle concessioni sono assai variabili (dai 3 ai 20 anni). Questo
settore appare in forte espansione e sembra divenire un campo naturalmente destinato
a forme di PPP a livello comunale e provinciale, la cui distribuzione sul territorio
nazionale appare del tutto omogenea.
•
Il settore della sanità
In questo settore forme di PPP si stanno diffondendo a livello regionale, soprattutto
per l’edilizia sanitaria. Sono previsti interventi nella progettazione e costruzione di nuove
strutture ospedaliere (ospedali, tecnologie, attrezzature medicali) e nella gestione di servizi
funzionali all’attività sanitaria (attrezzature sanitarie, farmacie, laboratori di analisi) e di supporto
(alberghi, parcheggi, mense, pulizie, sistemi informativi).
Fra le esperienze del primo trimestre 2004, le Aziende Sanitarie Locali di Venezia e di
Sanluri (in provincia di Cagliari) stanno selezionando proposte per la costruzione di nuovi
ospedali, mentre il comune di Modena ha appena aggiudicato la gestione, previa costruzione e
arredo, di una Residenza Sanitaria Assistenziale con alloggi. Fra le opere minori in fase di gara,
vi sono gestioni di case per anziani e ospedali a Suzzara e Castiglione delle Stiviere (Mantova),
Marciano (Rimini), Formigine (Modena), Pisa, Alassio (Savona), Sabaudia (Latina),
Abbasanta (Oristano), Casavatore (Napoli) e Oriolo (Cosenza).
Il settore della sanità è stato uno dei più attivi nella PPP (con gli importi totali maggiori
nel 2002) e sembra avere ampie opportunità di espansione nel prossimo futuro in connessione
al lento processo di decentralizzazione della sanità.
6.4
Conclusioni
In questo capitolo è stata analizzata l’esperienza italiana di partenariato pubblicoprivato, in termini di normativa giuridica e di evoluzione delle iniziative, sia sotto il profilo
quantitativo sia sotto il profilo qualitativo.
Un primo elemento da sottolineare riguarda l’attività del legislatore, con lo sviluppo
della normativa sulla PPP e in particolare sul project financing, nel decennio che va dal 1992 al
2002. La messa a punto di un quadro giuridico di riferimento ha senza dubbio agevolato la
rapida espansione delle iniziative, a partire dal 2002.
In secondo luogo, lo sviluppo della PPP appare robusto in termini di valore
complessivo dei progetti, se si pensa che l’entità dei progetti avviati nel 2003, per lo più
intrapresi a livello comunale e provinciale, rappresenta circa il 28% degli investimenti
107
complessivi Amministrazioni Pubbliche e il 43% degli investimenti delle Amministrazioni Locali.
La PPP sembra quindi prospettarsi come un valido sostegno all’intervento pubblico.
È interessante sottolineare anche il fatto che questo sviluppo abbia riguardato l’intero
territorio nazionale. I dati relativi al primo semestre del 2004 mostrano una grande attivismo
nelle regioni del Mezzogiorno, che avrebbero sorpassato il Nord, non solo per il numero dei
progetti, ma anche per il loro valore complessivo. Si tratta di dati parziali, che necessitano di
conferme, ma rappresentano un segnale positivo, considerando che le regioni meeridionali
sono anche quelle più carenti dal punto di vista della dotazione di infrastrutture.
Infine, per ciò che concerne i settori di intervento, le iniziative hanno riguardato diversi
ambiti, dai servizi a rete ed economici, ai servizi sociali, ai servizi ambientali ed urbani. In
termini di numero di progetti, i servizi sociali sono il settore leader sia nel 2002 sia nel 2003 e
sono trainati dalla costruzione di impianti sportivi e cimiteri. Nel 2002, la seconda posizione
spetta ai servizi a rete ed economici con il particolare ruolo delle opere per acqua, gas, energia
e telecomunicazioni, mentre nel 2003 sopravanzano i servizi ambientali ed urbani, nettamente
dominati dai parcheggi, ma anche da progetti per l’arredo urbano. In relazione all’importo dei
progetti, il settore leader è quello dei servizi a rete ed economici sia nel 2002 sia nel 2003, con
un valore totale doppio rispetto al settore sociale, quasi raggiunto dal settore ambientale e
urbano. Per quanto riguarda gli importi medi dei progetti, si registra naturalmente una forte
differenziazione, con gli importi medi più elevati nel settore a rete ed economico (che arrivano
oltre i cento milioni di Euro nei trasporti), seguito dal settore ambientale-urbano e dal settore
sociale, nel quale si osservano gli importi medi minimi (fino al mezzo milione di Euro che è
l’importo medio degli interventi relativi ai beni culturali).
108
7
CONCLUSIONI
Questo capitolo riassume le principali conclusioni raggiunte nel corso della nostra
ricerca.
Come si ricorderà, abbiamo iniziato questo lavoro ponendo una serie di domande,
stimolate dall’impressionante crescita di forme di PPP e in particolare della Finanza di
Progetto nel nostro Paese. In conclusione, vale la pena di riprendere queste domande una per
una e vedere quali risposte il nostro lavoro suggerisce.
1. Sono le infrastrutture utili per la crescita economica?
La risposta a questa domanda può sembrare scontata; è un luogo comune che le
opere pubbliche incentivino la crescita economica. In realtà, la risposta è tutt’altro che ovvia e i
luoghi comuni possono essere fallaci. Le opere pubbliche devono essere finanziate, spesso con
imposte distorsive, e spiazzano (attraverso le pressioni al rialzo sui tassi di interesse) gli
investimenti privati. Non è dunque detto che comportino incrementi nella dotazione di capitale
complessiva e che supportino sempre la crescita. Le opere pubbliche sono poi decise dai
politici, che possono perseguire obiettivi diversi dalla semplice massimizzazione del benessere
collettivo o del tasso di crescita dell’economia. Infine, non si deve confondere il problema del
rapporto tra infrastrutture e livello del reddito con quello del rapporto tra infrastrutture e
crescita del reddito. È ben possibile che vi sia una relazione positiva nel primo caso e una
relazione negativa o inesistente nel secondo caso.
Il primo capitolo fornisce una risposta a questa domanda, riassumendo brevemente le
indicazioni della letteratura economica e le evidenze empiriche disponibili. Queste ultime
mostrano in modo non ambiguo che esiste una correlazione positiva tra dotazione di
infrastrutture e reddito procapite, sia a livello infra-nazionale sia a livello internazionale,
sebbene la direzione di causalità appaia di più difficile determinazione. Si osservi che, nei lavori
empirici, tra le infrastrutture non vengono considerate solo le tradizionali opere pubbliche
(ponti, strade, reti ferroviarie o elettriche) o le infrastrutture fisiche, ma anche le infrastrutture
sociali (sanità, istruzione), in quanto esse stesse influenzano il livello del reddito, attraverso gli
effetti sull’accumulazione del capitale umano. Più debole ed ambigua è invece, non solo
empiricamente ma anche teoricamente, la relazione tra dotazione di infrastrutture e tasso di
crescita del reddito, anche nella versione estesa della nozione di infrastrutture prima indicata.
La moderna teoria della crescita endogena suggerisce tuttavia un canale attraverso il
quale questo rapporto possa esistere ed essere positivo, almeno per livelli di dotazioni
infrastrutturali non troppo elevati; le infrastrutture possono contribuire ad aumentare la
produttività marginale dei fattori produttivi accumulabili (capitale fisico e, soprattutto, umano),
controbilanciando la tendenza verso la riduzione della produttività marginale del capitale a
seguito dell’accumulazione dello stesso, consentendo perciò tassi di crescita positivi anche nel
109
lungo periodo. Sfortunatamente, la carenza di dati affidabili a livello nazionale e internazionale
rende difficile stimare questa relazione in modo conclusivo. È tuttavia interessante che gli studi
più recenti, utilizzando indicatori quali-quantitativi della dotazione di infrastrutture di un Paese,
mostrino che esiste una relazione positiva tra crescita economica e infrastrutture. Pur
con tutte le cautele del caso, ci sentiamo dunque di suggerire una risposta complessivamente
positiva alla prima domanda, anche se naturalmente la relazione dovrebbe essere verificata
caso per caso (o progetto per progetto).
2. Esiste un gap di infrastrutture in Italia?
Anche la risposta a questa domanda non è ovvia, perché dipende dal modo con cui la
dotazione di infrastrutture viene valutata e misurata. Nel secondo capitolo, vengono illustrate le
diverse metodologie utilizzabili e quelle che di fatto vengono utilizzate. Fortunatamente,
esistono organizzazioni internazionali e nazionali (in particolare, l’Istituto Tagliacarne) che da
anni si occupano di questo problema e che hanno sviluppato indici quali-quantitativi di
dotazione di infrastrutture. Indici essi stessi discutibili, soprattutto nel loro utilizzo per i
confronti tra Stati o regioni di dimensioni assai diverse, ma che rappresentano probabilmente il
meglio che si possa fare in questo campo.
Sulla base di questi indicatori, la risposta alla domanda è netta. L’Italia presenta una
dotazione di infrastrutture assai inferiore a quella dei principali Paesi europei. Di più,
questo gap è ancora maggiore se lo si rapporta al PIL pro-capite. L’Italia ha livelli di reddito
paragonabili a quelli dei più sviluppati Paesi europei; per contro, ha un indice infrastrutturale
nettamente inferiore, più simile quello dei Paesi mediterranei di recente acquisizione nell’UE
che a quello dei grandi Paesi dell’Europa continentale, benché i primi abbiano livelli di reddito
pro-capite assai più bassi. Inoltre, la dotazione infrastrutturale è distribuita in modo assai
difforme sul territorio nazionale. Le regioni del Centro-Nord ed il Lazio, con poche
eccezioni dovute più che altro alla presenza di un effetto di scala, presentano tutte dotazioni
infrastrutturali in linea con la media europea, sebbene nessuna di esse si collochi sulla fascia
alta delle regioni europee. Viceversa, le regioni del Centro-Sud presentano tutte dotazioni
infrastrutturali inferiori alla media, in molti casi perfino inferiori al livello stimato corrispondente
al loro reddito pro-capite (che è più basso rispetto al Nord). Il gap è particolarmente rilevante
nelle infrastrutture economiche; è meno rilevante, sebbene ancora presente, nelle infrastrutture
sociali, soprattutto per ciò che riguarda quei servizi che sono direttamente o indirettamente
sotto il controllo del governo centrale (come la sanità). Di più, mentre ci sono evidenze che il
gap infrastrutturale tra l’Italia nel suo complesso e il resto dei grandi Paesi europei si
sia andato chiudendo nell’ultimo decennio, non c’è alcuna evidenza che questo stia
avvenendo all’interno del Paese. Il gap infrastrutturale tra Nord e Sud del Paese appare
praticamente lo stesso all’inizio e alla fine degli anni ’90.
Considerando insieme le risposte alla prima e alla seconda domanda, la conclusione è
dunque che si dovrebbe ancora investire nelle infrastrutture per incrementare la crescita del
Paese e che gli investimenti necessari dovrebbero essere collocati soprattutto (sebbene non
esclusivamente) al Sud. Queste considerazioni portano logicamente anche a chiedersi se le
nuove forme di PPP non possano rappresentare un valido ausilio alla risoluzione di questi
110
problemi. Ma prima di rispondere a questa domanda, ci sono altre questioni che devono
essere affrontate, come è stato anticipato nell’Introduzione.
3. Esiste una crisi degli investimenti pubblici e in particolare delle
Amministrazioni locali?
La domanda è importante, per più motivi. Se fosse vero che c’è una crisi degli
investimenti pubblici, allora il problema del gap infrastrutturale sarebbe inevitabilmente
destinato ad aggravarsi. Se la risposta alla domanda fosse positiva, allora sarebbe forse anche
vero che il forte sviluppo delle PPP a cui si assiste nel nostro Paese, potrebbe solo significare
che i governi, locali e nazionali, stanno cercando di rispondere ad un problema di carenza di
investimenti pubblici con nuove forme di finanziamento, meno onerose per i bilanci pubblici. Gli
investimenti finanziati con PPP sarebbero cioè meramente sostitutivi e non aggiuntivi, dunque
per definizione incapaci di rispondere al problema della carenza delle infrastrutture.
Il terzo capitolo risponde in modo non ambiguo a questa domanda. L’esistenza di una
crisi degli investimenti pubblici non trova alcun supporto nei dati. L’Italia è sempre stato
tradizionalmente un Paese che ha fortemente investito in infrastrutture (non inaspettatamente,
vista la sua elevata propensione al risparmio e viste le proprie carenze infrastrutturali). Nella
prima parte degli anni ’90, c’è stata una forte caduta, generalizzata a tutti i livelli di governo,
degli investimenti pubblici, una caduta dovuta a più fattori. Da una parte, la necessità di
riequilibrare le finanze pubbliche dopo la crisi del 1992 e per l’approdo a Maastricht, necessità
che ha probabilmente inciso sulla spesa in conto capitale più che sulla spesa corrente (data la
maggiore rigidità verso il basso di quest’ultima); dall’altra, le conseguenze di “Mani Pulite”, che
per anni hanno bloccato gli appalti. Questa riduzione degli investimenti non ha tuttavia
interessato solo l’Italia; tutti i Paesi europei, e per le stesse ragioni, hanno visto una riduzione
della spesa in conto capitale negli stessi anni, sebbene non della stessa entità di quella italiana.
Tuttavia, già nella seconda metà degli anni ’90, questa crisi è stata superata. Alla fine del
decennio e nei primi anni 2000, la spesa per investimenti in percentuale sul PIL appare più
elevata che all’inizio del decennio, nonostante le forti dismissioni effettuate nello stesso
periodo; appare anche più elevata di quella dei principali partners europei, riprendendo un
trend che ha sempre caratterizzato il Paese. La componente di investimenti attribuibile alle
Amministrazioni locali appare poi in crescita nel decennio; negli ultimi anni essa sembra
saldamente ancorata a circa il 75% del totale.
4. È il patto di stabilità interno responsabile della crisi degli investimenti
pubblici e dello sviluppo delle PPP?
La risposta alla domanda precedente in parte risponde già anche a questa; poiché non
è in atto una crisi degli investimenti pubblici locali, questa non può essere attribuita al Patto di
Stabilità Interno (PSI). Ma l’analisi dettagliata del PSI contenuta nel quarto capitolo, che pone
anche a confronto l’esperienza italiana con quelle straniere, aiuta a comprendere meglio anche
le ragioni di questa risposta.
111
Il PSI non può avere influenzato le spese per investimento dei governi locali per due
ragioni fondamentali. In primo luogo, perché, pur con tutte le oscillazioni dovute ad una
sempre cangiante legislazione, il legislatore nazionale ha sempre applicato una sorta di implicita
golden rule interna, esentando la spesa per investimenti dai vincoli imposti per legge sulle
spese (in qualche caso i saldi) degli enti locali. È possibile, sebbene non ci siano prove di
questo, che la disciplina del PSI possa avere addirittura incentivato la spesa in conto capitale
degli enti locali, almeno da un punto di vista contabile; gli enti locali, vincolati dal lato della
spesa corrente, avrebbero “trasformato” talune spese correnti in spese in conto capitale. La
seconda ragione per cui il PSI non può avere influenzato la spesa in conto capitale è che in
realtà le sanzioni previste per gli enti inadempienti non sono mai state applicate, anche in quei
casi in cui queste implicavano vincoli sulle possibilità di finanziare gli investimenti. Anzi, con il
passare del tempo, è diventato sempre meno chiaro chi avesse il compito di monitorare e, in
caso di necessità, di punire gli enti locali inadempienti.
Ciò non significa naturalmente che le cose non possano cambiare in futuro. Ci sono
avvisaglie di possibili cambiamenti nelle finanziarie più recenti, come quella per il 2003, che
attraverso una ridefinizione delle spese per investimento ha nei fatti imposto dei vincoli sulle
possibilità di finanziamento di alcune di tali spese da parte delle regioni. Ma ciò appare
improbabile, anche alla luce dei cambiamenti in atto negli orientamenti a livello europeo sul
patto di stabilità e crescita per i paesi appartenenti all’Unione Monetaria, e anche alla luce della
riforma costituzionale del 2001.
Non è invece improbabile che l’esigenza di mantenere una maggiore disciplina di
bilancio a livello locale e nazionale, abbia dato un robusto contributo alla crescita della PPP in
generale e della Finanza di Progetto in particolare. La PPP offre questo grande vantaggio
contabile ai governi; consente di trasformare maggiori spese presenti in maggiori spese (o
minori entrate) future, e per il modo in cui sono costruiti i bilanci pubblici, che tengono conto
delle prime ma non delle seconde, ciò rappresenta un immediato sollievo per la gestione
finanziaria. Un sollievo non da poco, per governi pressati da vincoli di bilancio, vincoli sul
debito, risorse scarse e domande elevata da parte dei propri cittadini. Siccome tuttavia questi
vantaggi sono puramente contabili e non economici, è importante porsi la successiva domanda.
5. Quali sono i veri vantaggi economici della PPP?
Si tratta di un punto importante e generalmente non ben compreso nella pubblicistica
corrente, a cui si risponde in dettaglio nel quinto capitolo, alla luce sia dell’evidenza empirica
internazionale che della letteratura economica più recente. Forse il modo più semplice per
rispondere alla domanda, è partire dalla conclusione opposta, cercando di spiegare a che cosa
non servono le PPP. Intanto, non servono per far risparmiare risorse finanziarie alle
Amministrazioni Pubbliche, almeno non nel senso semplicistico che grazie alle PPP le spese
per gli investimenti se le accollano i privati.
Un investimento pubblico tradizionale, finanziato con l’emissione di titoli del debito
pubblico, comporta un esborso attuale, a fronte del quale si possono manifestare ritorni futuri,
per esempio in termini di servizi tariffabili (si pensi a una autostrada) oppure di servizi per la
collettività (si pensi ad un carcere). Lo stesso investimento effettuato in forma di PPP non
comporta esborsi presenti, perché il privato si fa carico della costruzione, ma può comportare
112
esborsi futuri, per esempio perché il pubblico dovrà acquistare dal settore privato questi stessi
servizi (il carcere), oppure perdite future, in quanto il servizio, ceduto ai privati, non comporta
più per il settore pubblico entrate da servizi tariffabili (l’autostrada). Se l’opera pubblica fosse
effettuata nello stesso modo dal pubblico o in forma di PPP, i flussi finanziari sarebbero
esattamente gli stessi nei due casi, con effetti (scontati al presente) sul bilancio pubblico
esattamente uguali. È solo la (imperfetta) contabilità pubblica (che considera le spese presenti
ma non le spese o le mancate entrate future) che fa apparire i due investimenti come diversi;
nei fatti essi sono esattamente equivalenti. Un vincolo sulle spese di investimento o sui livelli di
indebitamento, oppure, una semplice volontà di presentare bilanci più in ordine renderebbe
ovviamente appetibile una PPP per qualunque ente pubblico (una ragione per esempio
tutt’altro che estranea all’esperienza inglese); ma ciò non significa che essa sarebbe anche
desiderabile sul piano economico.
Non è neppure vero, altro argomento tradizionale avanzato a supporto della PPP, che
gli investimenti finanziati in PPP siano in genere meno costosi, in quanto possono far
riferimento ad un robusto mercato finanziario che consente l’allocazione efficiente del rischio.
In genere, è vero esattamente il contrario. E questo non solo perché i mercati finanziari sono
tutt’altro che perfetti. La ragione è che il settore pubblico può sempre finanziarsi a costi
inferiori rispetto al settore privato, per la semplicissima ragione che, grazie ai suoi poteri di
coercizione fiscale, può garantire di onorare i propri debiti in una misura che nessun operatore
privato può fare. In prima approssimazione, i progetti in PPP sono dunque più costosi e
non meno costosi dei progetti tradizionali di investimento pubblico.
Ma allora quali sono i vantaggi veri, quelli economici, della PPP? Questi vantaggi
dipendono dai maggiori incentivi che la PPP offre agli operatori nell’innovare per
ridurre i costi dell’opera o per migliorarne la gestione. Per ragioni complesse, ma
sostanzialmente legate all’incompletezza dei contratti, e dunque all’appropriabilità dei benefici
dell’innovazione, un operatore pubblico non ha gli stessi incentivi di un operatore privato ad
innovare per abbattere i costi del progetto, sia nella fase della costruzione sia nella fase della
gestione del servizio. Su questo punto, l’evidenza empirica è chiara. Nel caso inglese, per
esempio, l’affidamento ai privati ha comportato un taglio netto dei costi, un’accelerazione nei
tempi di esecuzione delle opere, una riduzione drastica dei casi di sfondamento dei preventivi e
così via. Questo è il grande vantaggio (economico, non puramente contabile) della PPP.
Ma questo stesso vantaggio comporta dei rischi. Gli stessi incentivi che spingono il
settore privato a innovare per ridurre i costi, possono condurlo a innovare per ridurre la qualità
dei servizi. Inoltre, non tutto può essere affidato alla PPP. Per ragioni dovute alle imperfezioni
dei mercati dei capitali, tanto maggiori in un Paese come il nostro dove i mercati finanziari sono
poco sviluppati, il settore privato tende a selezionare solo quei progetti dove il rischio è basso
e i rendimenti possono essere sufficientemente rapidi e sicuri. Ciò significa che le risorse che la
PPP libera per il settore pubblico, vere o contabili che siano, devono essere usate con cura,
per finanziare quegli investimenti che le varie forme di PPP non possono coprire. Significa
anche che lo strumento deve essere maneggiato con cautela, per esempio non lasciando al
settore privato l’agenda degli investimenti, in modo che sia chiaro su chi deve ricadere l’onere
del rischio e contrattando fin dove è possibile la qualità del servizio dato in concessione. A
queste condizioni, le PPP possono essere uno strumento di grande supporto agli investimenti
pubblici.
113
6. Le PPP possono aiutare a colmare il gap infrastrutturale in Italia?
La risposta a questa domanda è un chiaro…“ni”. Purché non provochino un effetto di
spiazzamento nei confronti degli investimenti pubblici tradizionali, un punto su cui si tornerà più
avanti, le PPP possono sicuramente agire come un moltiplicatore nei confronti degli stessi
investimenti pubblici, liberando risorse che il settore pubblico può utilizzare per quegli
investimenti che più sono in grado di generare crescita economica. Da questo punto di vista,
poco importa se queste risorse sono vere o puramente contabili; se il vincolo è
economicamente stupido, aggirarlo può essere economicamente efficiente. Se però la
domanda è intesa nel senso che attraverso le PPP sia possibile finanziare direttamente gli
investimenti più capaci di generare crescita, la risposta è più dubbia. Molti investimenti con
alte potenzialità di crescita generano esternalità positive, utili da un punto di vista sociale, ma
difficilmente appropriabili dal settore privato. Sono inoltre molto incerti, un’altra delle ragioni
per cui è difficile immaginare che il settore privato vi si voglia impegnare (a meno che non siano
garantiti dal pubblico, ma in questo caso, per gli ovvi problemi di moral hazard si
perderebbero tutti i vantaggi derivanti dalle PPP).
La stessa evidenza empirica, raccolta nel sesto capitolo sull’esperienza italiana,
sostiene questa tesi. Essa mostra infatti che la maggior parte dei progetti in PPP, sia per
numero che per importo, si concentrano nei settori sociali e ambientali, in aree cioè dove i
ritorni in termini di crescita economica appaiono scarsi (cimiteri, parcheggi, impianti sportivi..)
ma dove anche il rischio dell’investimento è basso e i ritorni economici rapidi. Minore è invece
la presenza di investimenti finanziati in PPP nei settori economici o a rete, cioè di quelli
probabilmente più capaci di stimolare la crescita economica. Tuttavia, va anche detto che le
ultime osservazioni disponibili mostrano una crescita molto rapida degli investimenti nel settore
economico, per importo se non per numero; se questa tendenza fosse confermata in futuro, la
PPP potrebbe in effetti svolgere un ruolo anche per la riduzione del gap strutturale.
Una seconda questione è se gli investimenti in PPP si concentrano davvero là dove c’è
più bisogno, cioè nel contesto italiano, come è stato più volte spiegato, nel Sud del Paese.
Anche qui la risposta è incerta. Si osservino per esempio le Figure 7.1.e 7.2, costruite
ponendo a confronto i dati relativi agli importi e al numero dei progetti finanziati in PPP per
l’ultimo anno per cui sono disponibili dati completi, il 2003, con l’indice di dotazione
infrastrutturale discusso nel secondo capitolo (indice Tagliacarne, porti esclusi). La retta che
passa all’interno delle due figure è una retta di regressione, stimata utilizzando una semplice
OLS.
La retta è inclinata positivamente in entrambi i casi, indicando che sia in termini di
progetti che di risorse gli investimenti in PPP tendono a concentrarsi laddove la dotazione di
risorse è già più elevata, cioè al Centro-Nord del Paese. Questo suggerirebbe una risposta
negativa alla domanda. Tuttavia, si osservi anche che la regressione spiega “poco”, indicando
che ci sono regioni in chiara controtendenza rispetto a questa relazione generale. Per esempio,
come si osserva dalle stesse figure, Campania, Sicilia e Puglia sono dei chiari “outsider”, con
livelli di investimenti in PPP molto maggiori di quanto sarebbe implicato dalla loro dotazione
infrastrutturale. Inoltre, le informazioni disponibili, relative al primo semestre del 2004, indicano
114
una crescita notevole, superiore in media al Sud che al Centro-Nord, del numero dei progetti
avviati
Figura 7.1 – Numero di avvisi (2003) e indice di dotazione infrastrutturale
200
Campania
150
Lombardia
Avvisi di gare
Puglia
100
Emilia Romagna
Toscana
Piemonte
Veneto
Sicilia Abruzzo
50
Lazio
Liguria
Marche
Sardegna
Umbria
Friuli V.G.
BasilicataCalabria
Molise
Trentino A.A.
0 Val d'Aosta
40
60
80
100
120
140
160
Indice di dotazione infrastrutturale
Figura 7.2 – Importo totale PPP (2003) e indice di dotazione infrastrutturale
2000
Piemonte
Sicilia
1500
Importo totale
Lazio
Emilia Romagna
1000
Puglia
Campania
Toscana
Liguria
500
Veneto Lombardia
Abruzzo Marche
Calabria Umbria
MoliseTrentino
Friuli V.G,
0
40
60
80
100
120
140
160
Indice di dotazione infrastrutturale
115
e dell’importo degli stessi. Di nuovo, fosse questa tendenza confermata in futuro ciò
porterebbe molta acqua al mulino dell’ipotesi che le forme di finanziamento in PPP possono
dare un contributo importante alla chiusura del gap infrastrutturale interno al Paese.
7. Esiste
un effetto di piazzamento della PPP nei confronti degli
investimenti pubblici tradizionali?
Come si è ripetuto più volte, una condizione importante perché la PPP possa
contribuire positivamente allo sviluppo economico è che essa non “spiazzi” interamente gli
investimenti pubblici, soprattutto in quelle aree, fondamentali per la crescita, dove per le
ragioni dette più volte, è improbabile che la PPP possa svolgere un ruolo altrettanto rilevante
dell’investimento pubblico tradizionale. È cioè importante che le risorse liberate dalla PPP
(spesso, come si è osservato, puramente contabili), non vengano solo impegnate per
aumentare le spese correnti. Sfortunatamente, l’esperienza relativa allo sviluppo della PPP in
Italia è troppo breve e per il momento troppo poco sviluppata per poter trarre delle
conclusioni robuste. La prima evidenza è sicuramente contraria all’ipotesi dello spiazzamento;
come si è già osservato, non c’è nessuna evidenza di una “crisi” degli investimenti pubblici,
neppure negli anni più recenti, che anzi mostrano una tendenza, per quanto debole, a crescere.
Figura 7.3 – Importi pro-capite per PPP (2003) e spesa pubblica in c/capitale (2001)
500
Piemonte
Importi pro-capite
400
Sicilia
Emilia Romagna Liguria
300
Puglia
200
Lazio
Campania Toscana
Marche
Abruzzo
Molise
Veneto
Umbria
Lombardia
Basilicata
Valle d'Aosta
Calabria
Trentino
Friuli V.G. Sardegna
100
0
0
1000
2000
3000
4000
Spesa in conto capitale pro-capite
Tuttavia, questo riguarda i valori assoluti. È viceversa possibile che, pur all’interno di
una crescita complessivamente positiva, gli investimenti in PPP abbiano teso a spiazzare
almeno alcuni degli investimenti pubblici tradizionali. La Figura 7.3 indaga questa possibilità
116
mettendo a confronto la spesa pubblica complessiva in conto capitale, in termini pro-capite (si
tratta della spesa in conto capitale del settore pubblico allargato all’interno di ogni regione) per
l’ultimo anno per cui i dati sono disponibili (il 2001), con il valore pro-capite dei progetti nel
2003. Di nuovo, la retta nella figura rappresenta una semplice regressione. Si osserva che
questa è negativamente inclinata, implicando che la PPP è tanto più sviluppata laddove la
spesa in conto capitale pro-capite è complessivamente più bassa. Naturalmente, questa
relazione potrebbe avere molte spiegazioni; è possibile per esempio che essa rifletta
semplicemente il fatto che le regioni con minori disponibilità economiche per gli investimenti
(per la presenza per esempio di vincoli sull’indebitamento) abbiano fatto più uso delle PPP. Si
tratta tuttavia di una relazione da tenere d’occhio.
Per concludere, il nostro giudizio sul rapido sviluppo delle forme di PPP nel nostro
Paese è nel complesso positivo. Non sembra che il loro sviluppo sia solo trainato da effetti
contabili e vincoli di bilancio, o che stia spiazzando forme più tradizionali, ma ancora essenziali,
di investimento pubblico. È anche positivo che alcune regioni del Centro-Sud (sebbene non
tutte) stiano facendo ricorso in modo estensivo ai nuovi strumenti, visto il più elevato gap
strutturale che ancora le contraddistingue. Se poi le PPP potranno davvero dare un contributo
importante ai problemi del Paese e in particolare al livello ancora basso della sua dotazione
infrastrutturale, è cosa da vedersi in futuro.
117
APPENDICE: Riferimenti normativi
Normativa comunitaria su PPP
•
Dir.92/50/CEE del 18 giugno 1992, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi" e successive modifiche ed integrazioni.
•
Dir.93/36-7/CEE del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori" e successive modifiche ed integrazioni.
•
Dir.93/38/CEE del 14 giugno 1993, "Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di appalto
degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché
degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni" e successive modifiche ed integrazioni.
•
Comunicazione della Commissione UE n. 2000/C 121/02, pubblicata in G.U.C.E. 29 aprile 2000,
"Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario".
Normativa nazionale su PPP
•
L. 11 febbraio 1994, n.109 "Legge quadro in materia di lavori pubblici" e successive modifiche ed
integrazioni (nel testo aggiornato dalla L. 1 agosto 2002, n. 166 ? "Disposizioni in materia di
infrastrutture e trasporti").
•
D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, "Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori
pubblici"
•
D.P.R. 25 gennaio 2000, n.34, "Regolamento recante istituzione del sistema di qualificazione per gli
esecutori di lavori pubblici, ai sensi dell'art.8 della legge 11 febbraio 1994, n.109 e successive
modificazioni"
•
D.M. 19 aprile 2000, n.145, "Regolamento recante il capitolato generale d'appalto dei lavori
pubblici, ai sensi dell'art.3, comma 5, della legge 11 febbraio 1994, n. 109".
•
D.M. 21 giugno 2000, n. 5374, "Modalità e schemi tipo per la redazione del programma triennale e
dei suoi aggiornamenti annuali e dell'elenco annuale dei lavori ai sensi dell'articolo 14, comma 11,
della legge11 febbraio 1994 n. 109 e successive modificazioni".
•
D.L.vo 17 marzo 1995, n.157, "Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di
servizi"e successive modifiche ed integrazioni.
•
D.L.vo 17 marzo 1995, n.158, "Attuazione delle direttive 90/531/CEE e 93/38/CEE relative alle
procedure di appalti nei settori esclusi" e successive modifiche ed integrazioni.
•
D.L.vo 18 agosto 2000, n.267, "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" e
successive modifiche e integrazioni - Titolo V - Servizi e interventi pubblici locali - Articoli 112 123.
•
L. 21 dicembre 2001, n.443, "Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti
produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive" e successive
modifiche e integrazioni.
•
D. L.vo 20 agosto 2002, n.190 "Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n 443, per la realizzazione
delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale.
BIBLIOGRAFIA
118
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